Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari esteri | ||
Titolo: | I temi dell'attività parlamentare nella XVI legislatura - Affari esteri - 2 | ||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 1 Progressivo: 2 | ||
Data: | 15/03/2013 | ||
Descrittori: |
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La documentazione di inizio legislatura - accessibile dalla home page della Camera dei deputati - dà conto delle principali politiche pubbliche e delle attività svolte dalle Commissioni parlamentari nella XVI legislatura, suddivise in Aree tematiche, a loro volta articolate per Temi e Approfondimenti. L'accesso è disponibile per Commissione ovvero per Area tematica.
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Anche nella XVI legislatura l’esercizio prevalente della funzione istituzionale del Parlamento nella politica estera nazionale si è concretizzato nell’attività legislativa di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali.
Ad essa si è affiancata un’intensa attività di controllo e di indirizzo sulle grandi priorità geopolitiche che orientano la proiezione internazionale del nostro Paese: i passaggi cruciali dell’attualità internazionale hanno quindi dato vita ad altrettanti significativi momenti del dibattito parlamentare, sia in Assemblea che nelle competenti Commissioni parlamentari.
In particolare i lavori parlamentari si sono concentrati sull'evoluzione dei diversi scenari internazionali, dai Balcani occidentali all'area del Mediterraneo e del Medio Oriente, tradizionali ambiti d’intervento della politica estera italiana che presentano una perdurante rilevanza strategica, anche in ragione della consistente partecipazione del nostro Paese a missioni multilaterali di peace-keeping e di peace-building .
A tale proposito, i dibattiti parlamentari originati dalla conversione dei decreti-legge di finanziamento delle missioni internazionali, unitamente alle comunicazioni rese periodicamente dal Governo alle Commissioni Affari esteri e Difesa dei due rami del Parlamento sullo stato delle missioni in corso e sugli interventi di cooperazione allo sviluppo ed a sostegno dei processi di pace di stabilizzazione hanno arricchito una continua interlocuzione Parlamento-Governo sull’azione diplomatica del nostro Paese nei diversi scenari di crisi nei quali sono impegnati i contingenti italiani.
Come accennato, gli interventi legislativi in materia di politica estera sono stati, in massima parte, provvedimenti di ratifica di trattati internazionali (141 nel complesso): tra le leggi approvate si distinguono 77 leggi relative ad accordi bilaterali, oltre a 32 leggi concernenti accordi multilaterali. Completano il quadro altre 32 leggi riguardanti accordi conclusi nell’ambito dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
I trattati multilaterali hanno riguardato generalmente problematiche di rilevanti interesse giuridico-internazionale, quali la protezione dei diritti umani (5), la salvaguardia dell’ambiente (8), le organizzazioni internazionali (6), la tutela dei beni culturali (2), la cooperazione contro la criminalità e il terrorismo (4), il diritto umanitario di guerra (3).
In particolare, meritano di essere ricordati il Protocollo di adesione al Trattato del Nord Atlantico della Croazia e dell’Albania (legge n. 220 del 2008), la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale (legge n. 18 del 2009), il Trattato fra l’Italia, l’Austria, il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo, i Paesi bassi e la Spagna per la lotta al terrorismo, alla criminalità ed all’immigrazione illegale (legge n. 85 del 2009), la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (legge n. 116 del 2009), la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla tratta di esseri umani (legge n. 108 del 2010), la Convenzione di Oslo sulla messa al bando delle munizioni a grappolo (legge n. 95 del 2011), i Protocolli di attuazione della Convenzione delle Alpi (legge n. 50 del 2012), la Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione (legge n. 110 del 2012), la Convenzione civile del Consiglio d’Europa sulla corruzione (legge n. 112 del 2012), la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (legge n. 172 del 2012) ed il Protocollo opzionale del 2002 alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (legge n. 195 del 2012).
Gli accordi bilaterali hanno riguardato i rapporti dell’Italia con altri Stati (71 accordi), ovvero con Organizzazioni internazionali (6 accordi): quanto alla ripartizione per aree geografiche si conferma la tendenza già registrata nelle legislature precedenti che vede stipulati la maggior parte degli accordi con Paesi europei (28 su 77): 8 di questi accordi sono stati firmati con Stati membri dell’UE, mentre 20 con Stati europei non comunitari, 18 con Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente e 16 con Stati americani.
La tipologia prevalente, negli accordi bilaterali ratificati nella XVI legislatura, è riconducibile alla categoria delle intese volte ad evitare le doppie imposizioni (19 accordi), seguita dagli accordi in materia di cooperazione giudiziaria (9), nel settore della difesa (7) e della cooperazione doganale (5).
Meritano di essere ricordati, per il peculiare rilievo politico, le leggi di autorizzazione alla ratifica del Trattato italo-libico di amicizia, partenariato e cooperazione (legge n. 7 del 2009), del Trattato italo-irakeno di amicizia, partenariato e cooperazione (legge n. 27 del 2009), l’Accordo italo-russo per la lotta alla criminalità (legge n. 73 del 2009), l’Accordo italo-arabo nel settore della difesa (legge n. 97 del 2009), il Trattato italo-brasiliano nel settore della difesa (legge n. 22 del 2011), l’Accordo italo-afghano di partenariato e la cooperazione di lungo periodo (legge n. 239 del 2012) ed il Memorandum d’intesa italo-pakistano sulla cooperazione nel settore della difesa (legge n. 242 del 2012).
Nel corso della XVI legislatura, si è rafforzata altresì la consapevolezza in ambito parlamentare di seguire più approfonditamente gli sviluppi della politica estera europea , i cui organi e strumenti d’intervento si sono fortemente potenziati a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. In questa prospettiva numerosi sono stati gli atti di indirizzo adottati dalle Commissioni esteri dei due rami del Parlamento in relazione ad atti delle istituzioni europee riguardanti il settore della politica estera. Il Parlamento italiano ha altresì fornito un valido contributo alla creazione di una nuova Conferenza interparlamentare per il controllo sulla PESC/PESD, istituita nel settembre 2012, a seguito del venir meno dell'Assemblea parlamentare della UEO.
Particolare rilievo hanno assunto in questa prospettiva le ratifiche di alcuni grandi accordi, a partire dal Trattato di Lisbona (legge n. 130 del 2008), che costituisce l’ultimo intervento di grande rilevanza sul corpus dei Trattati istitutivi della Comunità e poi dell’Unione europea, vanno qui richiamati gli accordi collegati all’Unione economica e monetaria, il Trattato sul Fiscal Compact (legge n. 114 del 2012) ed il Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (legge n. 116 del 2012).
Con specifico riferimento ai trattati sulle relazioni esterne o sull’allargamento si ricordano in particolare l’Accordo di adesione della Croazia all’UE (legge n. 17 del 2012), l’Accordo multilaterale tra l'Unione europea, i suoi Stati membri, i paesi dello Spazio economico europeo e quelli dell'Europa sud-orientale per l'istituzione di uno Spazio aereo comune europeo (legge n. 91 del 2010), nonché i tre accordi di stabilizzazione e associazione con il Montenegro (legge n. 156 del 2009), la Bosnia-Erzegovina (legge n. 97 del 2010) e la Serbia (legge n. 151 del 2010). All’ambito della politica di difesa e di sicurezza europee sono invece riconducibili gli accordi istitutivi della Forza multinazionale di pace per l'Europa sud-orientale (legge n. 98 del 2009) e della Forza di gendarmeria europea (legge n. 84 del 2010).
I rivolgimenti in atto nell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente sono stati all’origine di un’intensa attività conoscitiva e d’indirizzo, soprattutto da parte della Commissione Affari esteri della Camera che, nel febbraio 2012, ha promosso un’indagine conoscitiva sugli obiettivi della politica mediterranea dell’Italia nei nuovi equilibri regionali.
La Commissione, attraverso questa indagine, si è data la priorità di approfondire il ruolo dell’Italia in un’area geopolitica d’importanza cruciale per gli interessi nazionali, ampliando il quadro informativo acquisito attraverso lo svolgimento di alcune importanti missioni in Israele, nei Territori palestinesi, in Egitto, in Tunisia ed in Turchia.
Il documento conclusivo, approvato nella seduta del 22 gennaio 2013 al termine di un articolato ciclo di audizioni di esperti italiani e stranieri, definisce alcune linee-guida per una “strategia nazionale nel Mediterraneo”, che muova dalla consapevolezza che le “primavere arabe” possono rappresentare un’opportunità per il nostro Paese e per il sistema Italia nel suo complesso che gode di un forte capitale di credibilità e simpatia in tutti questi paesi, anche presso le nuove forze politiche e le società civili del mondo arabo-mediterraneo.
Merita di essere richiamata per la peculiare rilevanza, sempre con riferimento all’ampia attività parlamentare incentrata agli sviluppi dei mutamenti socio-politici dell’area mediterranea, la risoluzione, approvata sulla crisi libica il 18 marzo 2011 , da parte delle Commissione Affari esteri e Difesa della Camera avevano approvato di che impegnava il Governo ad assicurare che l’Italia “partecipi attivamente, con gli altri Paesi disponibili ovvero nell’ambito delle organizzazioni internazionali di cui il Paese è parte, alla piena attuazione” della risoluzione ONU n. 1973. Un atto d’indirizzo di eguale tenore veniva adottata, nella stessa data, dalle omologhe Commissioni del Senato.
Il Parlamento della XVI legislatura ha inoltre seguito con attenzione l’evoluzione della situazione in Libano , ove opera la missione UNIFIL, all’interno della quale il contingenti italiano svolge un ruolo di primo piano ed in Iran , che continua ad essere al centro delle tensioni internazionali sia per il procedere del programma nucleare, sia per il ruolo destabilizzante nella regione mediorientale e del Golfo persico.
Nell’arco temporale della legislatura, anche il teatro di crisi afghano ha conosciuto una profonda evoluzione, passando dalla fase di surge strategico-militare, decisa alla fine del 2009, ad una transizione caratterizzata dal ritiro delle forze della coalizione internazionale. La Camera dei deputati ha seguito costantemente questi sviluppi, adottando alcuni atti d’indirizzo, nel gennaio 2010, che hanno impegnato il Governo ad adoperarsi per la fissazione di comuni obiettivi a breve e medio termine, a confermare il contributo militare aggiuntivo dell'Italia nel quadro della nuova strategia condivisa dell'Alleanza atlantica, ed a sostenere l'accelerazione della fase di transizione verso la completa "afghanizzazione" delle responsabilità di sicurezza.
Le Camere, inoltre, in costante raccordo con il Governo ha seguito sin dalle sue prime manifestazioni la gravissima crisi politica che ha investito la Siria , con i suoi drammatici risvolti umanitari: accanto ad un’intensa attività conoscitiva, la Camera approvava da ultimo, nel giugno 2012, alcune mozioni dedicate ad iniziative in ambito internazionale e comunitario in relazione alla situazione in Siria. Nello stesso mese, la Commissione Affari esteri discuteva ed approvava una risoluzione sulle responsabilità del Presidente Assad per le violazioni dei diritti umani nella crisi in atto in Siria.
Si ricorda inoltre, a tale proposito, che il decreto-legge n. 58 del 2012 ha disciplinato la partecipazione di un nucleo di militari italiani non armati alla missione di osservatori internazionali prevista dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 2043 del 21 aprile 2012, mentre il successivo decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227 ha finanziato iniziative di cooperazione in favore, tra l'altro, della Siria e dei paesi ad essa limitrofi.
La prossimità geografica ed in coinvolgimento diretto nel processo di stabilizzazione post-bellica hanno continuato ad alimentare un forte interesse del Parlamento della XVI legislatura per l’area dei Balcani occidentali .
In particolare, la Commissione Affari esteri della Camera ha sostenuto con decisione il processo d’inserimento degli Stati dell’area nel quadro comunitario, adottando due risoluzioni, tra il gennaio ed il luglio 2009, riguardanti l'integrazione europea della Serbia e dei Balcani occidentali. La Commissione Affari esteri della Camera adottava un’ulteriore risoluzione il 25 maggio 2010 in vista del Vertice di Sarajevo, per impegnare il Governo ad una forte azione per favorirne il buon esito, definendo anzitutto con i partner europei un percorso preciso dei processi d’integrazione europea dei Balcani.
Nella XVI legislatura, il Parlamento non è riuscito ad approvare la lungamente attesa riforma della legislazione sulla cooperazione allo sviluppo. Nondimeno, la Commissione Affari esteri della Camera ha profuso un grande impegno nell’esame dello stato di attuazione degli Obiettivi di sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite , istituendo a tal fine un apposito Comitato permanente.
Il Comitato ha promosso un’indagine conoscitiva che si è focalizzata sulla valutazione delle iniziative, degli aspetti finanziari e dei rapporti del nostro paese con le istituzioni internazionali, al fine di qualificare la posizione dell’Italia in questo frangente. Sono poi state organizzate una serie di audizioni utili a delineare lo stato dell’arte in relazione ai singoli obiettivi. L’indagine si è conclusa il 1° febbraio 2011 con l'approvazione di un documento conclusivo .
La tutela e la promozione dei diritti umani a livello internazionale è stata al centro delle attività, al Senato, di una Commissione straordinaria per i diritti umani che ha svolto, dal gennaio 2009 al novembre 2012, un’ampia indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale. Alla Camera ha invece operato, sin dall’avvio della legislatura, un Comitato permanente in seno alla III Commissione, che ha svolto un’indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, con particolare riferimento alla tutela dei diritti umani in una serie di paesi o aree geografiche (Birmania, Cina, Corea del nord, Darfur, Tibet) ed in corrispondenza dell'emergere o del protrarsi di situazioni di criticità, come nel caso delle minoranze cristiane in alcuni paesi islamici.
Successivamente, nel marzo 2011, il Comitato ha svolto un’indagine conoscitiva su diritti umani e democrazia, che ha preso avvio dalle risultanze del lavoro istruttorio svolto sul tema delle violazioni dei diritti umani nel mondo, con particolare riferimento al tema delle minoranze e si è soffermata sui contesti di più recente o fragile democratizzazione, anche al fine di valutare l'adeguatezza dell'azione di politica estera dell'Italia rispetto agli obiettivi di pace e stabilità.
Speciale attenzione è altresì rivolta ai diversi profili che assume oggi l'antisemitismo nel nostro Paese, oggetto di un'indagine conoscitiva promossa congiuntamente dalle Commissioni Affari costituzionali e Affari esteri, che ha concluso i propri lavori nell’ottobre 2011, adottando un documento conclusivo che – riassumendo le risultanze di un vasto esame istruttorio - analizza lo stato della minaccia antisemita a livello internazionale ed interno e delinea una strategia di reazione, sul piano politico-legislativo, al grave problema.
Si è altresì consolidato, nella XVI legislatura, una significativa consapevolezza del ruolo svolto dai Governo della globalizzazione meccanismi di governo dei processi di globalizzazione, già oggetto di un’indagine conoscitiva nel corso della XV legislatura.
In particolare, la III Commissione della Camera ha svolto un’indagine conoscitiva sui problemi e le prospettive del commercio internazionale verso la riforma dell'Organizzazione mondiale del commercio, che ha preso le mosse dai risultati della Conferenza parlamentare sull'OMC, svoltasi nel settembre 2008 a Ginevra per iniziativa congiunta del Parlamento europeo e dell'Unione Interparlamentare.
Il documento conclusivo , adottato dalla Commissione il 22 dicembre 2010, ha posto l'accento sulle principali questioni aperte legate alla liberalizzazione degli scambi commerciali, quali le ragioni del fallimento della tornata negoziale del cosiddetto Doha Round.
In stretta connessione con l’attenzione ai problemi della a governance mondiale ed a quelli dell’aiuto internazionale allo sviluppo, le Commissioni Affari esteri ed Agricoltura del Parlamento hanno approfondito, con un’apposita indagine conoscitiva condotta da luglio a novembre 2008, il nodo della sicurezza alimentare globale, in esito alla Conferenza alimentare internazionale, svoltasi a Roma nel giugno dello stesso anno per iniziativa della FAO, sul tema delle sfide poste dai cambiamenti climatici e dalle bioenergie.
Le peculiari tematiche della presenza di grandi comunità di cittadini italiani residenti ed operanti nel mondo, evolutesi anche a seguito dell’approvazione della legislazione elettorale che disciplina l’esercizio del diritto di voto da parte di queste categorie di cittadini, sono stati al centro dei lavori di un altro Comitato permanente della Commissione Affari esteri della Camera che ha lungamente analizzato i profili di riforma degli organismi di rappresentanza degli Italiani all’estero, le cui elezioni sono state più volte rinviate da provvedimenti di urgenza, da ultimo dal decreto-legge 30 maggio 2012, n. 67.
Si richiamano inoltre due indagini conoscitive con importanti riflessi sulle tematiche di interesse degli italiani all'estero, e precisamente quella sulla promozione della cultura e della lingua italiana all'estero, deliberata dalle Commissioni riunite Affari esteri e Cultura della Camera nel febbraio 2011, e l’indagine conoscitiva sulla riorganizzazione della rete diplomatico-consolare e sull'adeguatezza e sull'utilizzo delle dotazioni organiche e di bilancio del Ministero degli affari esteri, condotta congiuntamente dalle Commissioni Affari esteri dei due rami del Parlamento, che si sono entrambe concluse prima della fine della legislatura.
Il Parlamento ha seguito con continuità nel corso della XVI legislatura gli sviluppi della situazione in Afghanistan, passata dal "surge" militare deciso alla fine del 2009 ad una transizione caratterizzata dal ritiro delle forze della coalizione internazionale e dal diretto coinvolgimento delle forze armate afgane nella gestione della sicurezza interna.
Il deterioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan e la riflessione in corso nella Comunità internazionale sulla strategia da adottare in quell’area sono stati rappresentati alle Commissioni riunite esteri e difesa della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica dai Ministri degli esteri e della difesa l'11 giugno 2008. Dal confronto è emersa anche la consapevolezza della necessità di coinvolgere il Pakistan in qualsiasi ipotesi di soluzione della questione afgana.
Il processo di revisione strategica è stato al centro della riflessione parlamentare l'8 luglio 2009, quando il rappresentante del Governo ha riferito alle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato i positivi risultati dell’iniziativa dell’Italia, presidente del G8, di svolgere una sessione allargata dedicata ad Afghanistan e Pakistan nell’ambito della riunione dei Ministri degli esteri del G8 (Trieste 25-27 giugno 2009).
Dalla riunione, dove la comunità internazionale ha riconosciuto il valore del contributo italiano in Afghanistan sia per l’impegno militare, sia per il sostegno alla ricostruzione civile e istituzionale, è emerso un documento congiunto che sottolinea la necessità di un approccio regionale, capace di coinvolgere tutti i paesi dell’area a partire dal Pakistan, nei processi di stabilizzazione dell’Afghanistan.
In un precedente momento parlamentare, in sede di risposta all'interrogazione in Commissione esteri n. 5-01197 (seduta del 25 marzo 2009) il Governo, oltre a valorizzare l’ottica regionale, aveva sottolineato che il contributo italiano alla revisione della strategia internazionale in Afghanistan punta al rafforzamento istituzionale e civile, del quale fa parte anche il regolare svolgimento delle elezioni presidenziali e dei Consigli provinciali del 20 agosto 2009. Il nostro paese, infatti, considera la dimensione civile, insieme allo sviluppo economico, indispensabile complemento dell'azione militare per la stabilizzazione della sicurezza in Afghanistan.
Le ragioni della presenza italiana in Afghanistan nell'ambito della missione ISAF e la necessità, a salvaguardia dei generali interessi di sicurezza, che la coalizione internazionale non lasci il paese asiatico prima della sua stabilizzazione, sono state al centro di un’ audizione del Ministro degli esteri presso le Commissioni esteri della Camera e del Senato il 29 settembre 2009.
Pochi giorni dopo l’annuncio (1° dicembre 2009) della nuova strategia Usa, davanti alle Commissioni riunite Esteri e Difesa della Camera e del Senato si sono svolte, il 10 dicembre 2009 le Comunicazioni dei Ministri degli affari esteri e della difesa sulle strategie e sugli sviluppi della partecipazione italiana alla missione ISAF. Il titolare degli esteri ha dato conto del processo che ha portato alla definizione di una strategia di transizione che ha per obiettivo restituire l'Afghanistan agli afgani. Il contributo italiano consiste nell’aumento temporaneo dei contingenti militari, in un maggior impegno nel settore civile e miglior coordinamento tra questo e la dimensione militare.
Con una serie di mozioni, n. 1-00239, n. 1-00313, n. 1-00314, e n. 1-00315, trattate nelle sedute del 18 gennaio e 20 gennaio 2010, l’Assemblea della Camera ha impegnato il Governo ad adoperarsi già dalla Conferenza di Londra del 28 gennaio 2010 per la fissazione di comuni obiettivi a breve e medio termine, confermando il contributo militare aggiuntivo dell'Italia nel quadro della nuova strategia condivisa dell'Alleanza atlantica finalizzata a sostenere l'accelerazione della fase di transizione verso la completa "afghanizzazione" delle responsabilità di sicurezza.
La Conferenza di Londra sull’Afghanistan (28 gennaio 2010), che avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta verso un progressivo trasferimento della responsabilità di sicurezza dell’Afghanistan a un governo democraticamente eletto, e dove era emerso un orientamento favorevole al recupero alla vita civile dei combattenti disposti a rinunciare alla violenza, non ha potuto produrre gli effetti sperati a causa della perdurante difficile situazione della sicurezza nel paese.
La riflessione sulla transizione destinata a consegnare gradualmente il controllo dell’Afghanistan alle autorità di quel paese e la posizione italiana all’imminente vertice Nato di Lisbona (19-20 novembre 2010), favorevole al ritiro delle truppe da combattimento entro il 2014 sono state presentate alle Commissioni riunite esteri e difesa di Camera e Senato dai ministri competenti il 17 novembre 2010.
Sulla definizione dei vari aspetti connessi alla programmazione del ritiro del contingente italiano in Afghanistan e sul contributo aggiuntivo per la formazione delle forze di sicurezza l’Assemblea (15 febbraio 2011) ha votato una serie di mozioni (n. 1-00530 (Nuova formulazione), n. 1-00561, n. 1-00562, n. 1-00563, n. 1-00564). Gli atti di indirizzo impegnano il Governo a farsi promotore di un maggiore controllo e monitoraggio delle conseguenze delle operazioni sulla popolazione civile; a confermare, coerentemente con la nuova strategia condivisa al vertice di Lisbona, un maggior contributo al settore della formazione delle forze di sicurezza afghane per favorire il definitivo trasferimento delle responsabilità in materia di sicurezza; a farsi promotore di un'innovativa impostazione del processo di institution building in Afghanistan che, nel rispetto delle peculiarità sociali ed etniche del paese, consenta di raggiungere intese condivisibili dalla gran parte del popolo afghano.
Il tema dell’opportunità di procedere, di concerto con i partner internazionali, alla ridefinizione dei contingenti italiani dispiegati nelle missioni, in un'ottica di ottimizzazione delle risorse finanziarie disponibili e comunque nel rispetto degli impegni internazionali assunti dal nostro paese, è stato uno dei nuclei centrali delle Comunicazioni del Governo sugli sviluppi relativi alle missioni internazionali rese alle Commissioni riunite esteri e difesa di Camera e Senato il 13 luglio 2011.
In quell'occasione il Ministro degli esteri ha ribadito che la presenza italiana nelle aree di crisi corrisponde all’interesse nazionale in quanto rappresenta un parametro di valutazione adottato dalla comunità internazionale in ordine alla capacità di adesione del nostro paese ai generali obiettivi di stabilità e sicurezza.
L’intensa azione finalizzata alla decapitazione dei vertici di al Qaeda è culminata con l’uccisione di Osama Bin Laden il 2 maggio 2011 ad Abbottabad, 70 km dalla capitale pakistana Islamabad. L’operazione condotta dalle forze speciali statunitensi in territorio pakistano senza informarne le autorità nazionali ha messo in tensione le relazioni tra gli Stati Uniti e il Pakistan, considerato alleato strategico nella lotta ad al Qaeda ma pure accusato dagli Usa di legami con la Rete Haqqani ritenuta responsabile di attacchi contro l'ambasciata americana di Kabul (13 settembre) e contro Isaf.
La crescente tensione dei rapporti bilaterali Usa-Pakistan si è protratta per tutto il corso dell'anno, culminando con la decisione pakistana di non partecipare alla Conferenza internazionale di Bonn sull'Afghanistan (5 dicembre 2011). Gli 85 paesi e 17 organismi internazionali partecipanti alla Conferenza si sono impegnati a sostenere l'Afghanistan anche dopo il 2014, data di conclusione della fase di transizione. Kabul, dopo il decennio della "transizione", nel successivo decennio di "trasformazione" è chiamata ad impegnarsi per fare dell’Afghanistan un paese dove il terrorismo internazionale non possa più trovare possibilità di insediamento.
La continuità dell’impegno italiano in Afghanistan nei campi della formazione, dello sviluppo economico e della tutela dei diritti umani, con particolare riguardo alla condizione femminile, dopo il disimpegno militare (previsto per il 2014) è stata ribadita dal Ministro degli esteri Giulio Terzi nel corso dell’audizione, svoltasi alla vigilia della Conferenza di Bonn, sulle linee programmatiche del suo dicastero presso le Commissioni riunite esteri della Camera e del Senato il 30 novembre 2011.
Il dispositivo della risoluzione n. 8-00156 approvata dalla Commissione Esteri il 14 dicembre 2011 impegna il Governo a partecipare all’attuazione delle conclusioni della Conferenza di Bonn promuovendo tra le priorità dei programmi di cooperazione, quale elemento irrinunciabile delle negoziazioni di pace, il rispetto dei diritti delle donne e destinando ad interventi di empowerment femminile parte delle risorse che si renderanno disponibili a seguito del ritiro dei contingenti militari. Il Governo è inoltre tenuto ad operare per il recupero del Pakistan, assente a Bonn.
Sulla condizione delle donne in Afghanistan il Parlamento, con un precedente atto di indirizzo, l'ordine del giorno 9/2047-A/2, aveva impegnato il Governo a promuovere e sostenere ogni forma di azione, pubblica o privata, volta a promuovere il miglioramento della condizione femminile in Afghanistan, con attenzione innanzitutto ai settori dell'istruzione e della sanità.
L’attuale agenda politica per l'Afghanistan si incentra sul ritiro, previsto per la fine del 2014, delle forze della coalizione internazionale e sul passaggio alle forze nazionali delle responsabilità della sicurezza secondo la tempistica stabilita al vertice di Lisbona (novembre 2010) e confermata in tutte le assise e i vertici internazionali e bilaterali. La tabella di marcia prevede che le forze afghane siano operative già a partire dalla metà del 2013. Le truppe dell'Alleanza atlantica, in prospettiva, cesseranno di combattere e resteranno sul territorio con funzioni prevalentemente di supporto.
Quanto agli Stati Uniti, il 7 luglio 2012 hanno riconosciuto all'Afghanistan lo status di “maggiore alleato non Nato” con ciò aprendo uno scenario di cooperazione a lungo termine e aggiungendo il paese asiatico ad altri quattordici Paesi che godono di un rapporto preferenziale con gli USA (tra i quali Israele, Egitto, Giappone e Pakistan). Tuttavia, le modalità e le forme della permanenza USA in Afghanistan dopo il 2014 sono ancora in corso di definizione.
Il 15 maggio 2012, nell’imminenza del vertice Nato di Chicago (20-21 maggio 2012) che ha confermato il completamento del ritiro delle truppe della missione ISAF per il dicembre 2014, il Ministro degli esteri è intervenuto presso le Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato.
Il Ministro ha sottolineato che la condizione femminile e i diritti dell'infanzia restano una delle priorità che il Governo italiano individua per continuare a garantire la presenza in Afghanistan, in linea con il mandato ricevuto dal Parlamento.
Il Ministro ha inoltre affermato che l'accordo bilaterale di partenariato di lungo periodo firmato a Roma il 26 gennaio 2012 dal Presidente del Consiglio italiano Monti e dal Presidente afghano Karzai (ora ratificato con la L. 239/2012) consente di ricondurre ad un quadro unitario la cooperazione svolta dall’Italia nei vari settori.
L'Italia, ha rammentato il Ministro Terzi, sostiene il "processo di Istanbul" avviato il 2 novembre 2011 con una conferenza, che punta a coinvolgere tutti i Paesi della regione in una dimensione di cooperazione, attraverso il rafforzamento della fiducia.
Al riguardo gli analisti hanno rilevato che dall'incompatibilità delle agende strategiche dei principali attori regionali potrebbe derivare, dopo il ritiro della coalizione internazionale da un Afghanistan non del tutto stabilizzato e sicuro, un innalzamento della conflittualità nell'area.
Il 16 gennaio 2013, davanti alle Commissioni Riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato il Ministro degli esteri, dopo aver rammentato che la modalità ed i termini della permanenza americana in Afghanistan dopo il 2014 è tutt’ora allo studio, ha ricordato che l’Italia si è impegnata, nell’ambito della Conferenza dei donatori (Tokyo 8 luglio 2012) a sostenere le forze di sicurezza in Afghanistan con 120 milioni di euro l'anno per il triennio 2015-2017.
In vista della Conferenza di Tokyio, la risoluzione in Commissione esteri n. 8-00187 ha impegnato il Governo a ribadire in quell'occasione il proprio impegno nel considerare la lotta alla violenza sulle donne in Afghanistan come obiettivo prioritario dello sviluppo, a rinvenire risorse per la concreta attuazione del Piano nazionale per le donne afgane (NAPWA) e per la legge per l'eliminazione della violenza contro le donne (EVAW) e ad adottare ogni iniziativa utile per lo sviluppo di un Piano d'azione nazionale afgano per l'attuazione della risoluzione Onu n. 1325, con particolare attenzione alla partecipazione delle donne nella costruzione della pace.
Osservatorio di politica internazionale
Dal punto di vista della forma dello Stato l’Afghanistan è una Repubblica islamica. Quanto alla forma di governo, il paese sud asiatico è una Repubblica presidenziale.
Secondo il robusto sistema presidenziale delineato dalla Costituzione del 2004 il Presidente è Capo dello Stato e Capo del Governo.
Nell’esercizio del potere esecutivo il Presidente è affiancato da due Vice Presidenti eletti in ticket con lui con voto diretto e sistema maggioritario a doppio turno. Qualora nessun candidato ottenga almeno il 50% dei voti al primo turno, i due candidati più votati passano al ballottaggio. La durata del mandato è di cinque anni, rinnovabile una sola volta. I membri del Governo, che nella composizione riflette tradizionalmente il mix etnico del paese (Pashtun 42%, Tajik 27%, Hazara 9% ed Uzbeki 9% sono i principali gruppi etnici afgani) vengono nominati dal Presidente ed ottengono la fiducia individuale dalla Camera bassa del Parlamento. Anche altre significative decisioni del Presidente, quali le nomine delle massime autorità dello stato, i decreti e la firma di trattati, devono essere sottoposti alla Wolesi Jirga, che ha il diritto di rigettarle. Il Presidente può rinviare le leggi al Parlamento, ma è tenuto a promulgarle se questo le riapprova con una maggioranza qualificata.
Il potere legislativo è esercitato dal Parlamento bicamerale composto dalla Meshrano Jirga o House of Elders e dalla Camera bassa Wolesi Jirga(House of People). I titolari dei 102 seggi della Camera Alta sono eletti per un terzo dai 34 consigli provinciali, con mandato di quattro anni, per un terzo (34 seggi) dai consigli di distretto, con mandato triennale e per un terzo sono nominati dal Presidente, con mandato di durate quinquennale. La Wolesi Jirga conta 249 seggi i cui titolari sono eletti con sistema proporzionale e mandato quinquennale. Le disposizioni elettorali stabiliscono, a seconda della densità della popolazione, il numero dei candidati da eleggere in ciascuna delle 34 circoscrizioni; tale numero oscilla tra un massimo di 33 eletti per la circoscrizione della capitale Kabul e un minimo di due (Nimroz, Nuristan e Panjsher); dieci seggi (di cui almeno tre a donne) sono riservati ai nomadi Kuchis, popolazione pashtun della parte orientale e meridionale dell’Afghanistan.
La Costituzione riserva 68 seggi (27,3% del totale) alle donne; tuttavia, anche se una candidata riceve voti sufficienti a vincere un seggio al di fuori del sistema delle quote, il suo seggio viene computato tra i 68 riservati.
La Costituzione prevede la possibilità, per il governo, di convocare una Loya Jirga (Gran Consiglio) sulle questioni che riguardino l’indipendenza, la sovranità nazionale e l'integrità territoriale; il Consiglio, composto da parlamentari e da presidenti dei consigli provinciali e distrettuali può modificare le disposizioni della Costituzione e perseguire il Presidente.
Dall’iniziale conteggio dei voti espressi alle elezioni presidenziali del 20 agosto 2009 era risultata la rielezione di Hamid Karzai con il 54% delle preferenze, a fronte del 28% ottenuto dal rivale Abdullah Abdullah. Le contestazioni sulla regolarità del voto ampiamente espresse sia all’interno del Paese sia dalla comunità internazionale, con accuse di brogli elettorali ad entrambi i contendenti, e il conseguente riconteggio delle schede, avevano prodotto la convocazione dei comizi elettorali per il turno di ballottaggio, calendarizzato per il 7 novembre. Il ritiro, alla vigilia delle elezioni, di Abdullah Abdullah, in polemica con l’autorità preposta alla procedure elettorali – quell’Independent Election Commission del cui presidente chiedeva le dimissioni - provocava la cancellazione del ballottaggio e la proclamazione (giuridicamente controversa) di Karzai a Presidente. Primo Vice presidente è Mohammad Qasim Fahim e secondo Vice presidente Mohammad Karim Khalili
Hamid Karzai (n. 24 dicembre 1957), di etnia pashtun, appartenente ad una famiglia fra le maggiori sostenitrici dell’ultimo re dell’Afghanistan, Zahir Shah, e parte dell'influente clan Popalzay, era stato designato alla Conferenza di Bonn (dicembre 2001) capo dell’Amministrazione transitoria afgana e, dal giugno 2002, Presidente ad interim. Nello stesso anno è sopravvissuto ad un attentato, due mesi dopo l’omicidio di uno dei vicepresidenti. Vincitore (55,4%) delle prime elezioni presidenziali celebrate nel paese (9 ottobre 2004) è stato proclamato per la prima volta Presidente il 7 dicembre dello stesso anno. Fautore di un modello governativo che tiene in ampia considerazione la rappresentanza tribale, con un approccio teso alla riduzione della violenza tra i warlords delle varie tribù, ha goduto sin dall’inizio del suo mandato dell’appoggio della maggioranza dei principali leader tribali, ma l’insufficiente potenza militare lo ha indotto a mantenere alleanze con le fazioni armate regionali.
Dopo la controversa vittoria elettorale del 2009 Karzai si è trovato a fronteggiare l’ostilità della Camera bassa, che ha più volte negato la fiducia individuale ai membri del Governo indicati dal Presidente, mentre la comunità internazionale lo ha ripetutamente posto sotto pressione a causa del persistente sistema di corruzione presente nel paese (si vedano, infra, i relativi indicatori).
Alle elezioni parlamentari del 18 settembre 2010, anche questa volta afflitte da brogli che ne hanno minacciato la validità nonché da problemi connessi alle condizioni di sicurezza del paese, ha fatto seguito una lunga querelle sulla validità dei voti e quindi sull’identificazione degli eletti, che ha determinato il differimento della sessione di apertura del Parlamento alla fine di gennaio 2011, peraltro in un quadro di contenziosi non del tutto risolti. L’influenza politica della maggioranza pashtun filo presidenziale è comunque uscita ridimensionata dal voto.
Va rammentato che il sistema elettorale afgano non si avvale dei registri elettorali che permettano di identificare con certezza i votanti e di evitare il voto multiplo. Tale carenza è connessa al più generale problema dell’anagrafe dei cittadini, di difficile gestione sia a causa della precarietà della situazione di sicurezza, sia della presenza di popolazione nomade e di un’ampia diaspora all’estero; ma sono in particolare ostacoli di natura etnico-politica ad opporsi al censimento, dai cui esiti potrebbe evidenziarsi il ridimensionamento della consistenza numerica delle due principali componenti etniche del paese, pashtun e tagika, con conseguenti modifiche negli assetti di potere.
L’attuale agenda politica afgana si incentra sul ritiro delle forze della coalizione internazionale e sul passaggio alle forze nazionali delle responsabilità della sicurezza del paese. A tale proposito, nell’incontro tra il Presidente USA e l’omologo afgano in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi membri della NATO (Chicago, 20-21 maggio 2012) Barak Obama, il quale a dispetto di talune previsioni che ipotizzavano un’accelerazione ha confermato la tempistica del ritiro stabilita al vertice di Lisbona (novembre 2010), ha affermato che "il mondo sostiene la strategia di transizione della Nato per mettere fine alla guerra entro il 2014" anche se non ha nascosto che “resta ancora molto lavoro da fare". Karzai, per parte sua, ha dichiarato che "l'Afghanistan non vuole più essere un peso per gli Stati Uniti e la comunità internazionale", ribadendo altresì l'impegno del suo paese per raggiungere l'autosufficienza nei tempi concordati a Lisbona con il passaggio, entro la fine del 2014, della responsabilità della sicurezza in mani afgane. La tabella di marcia prevede che le forze afghane vengano messe in grado di essere operative già a partire dalla metà del 2013, con le truppe dell'Alleanza atlantica che cesseranno di combattere e resteranno sul territorio con funzione prevalentemente di supporto. "Continueremo a formare e ad equipaggiare le forze afghane fino a tutto il 2013", ha detto il generale John Allen, capo dell'Isaf, confermando che il ritiro completo delle truppe avverrà nel 2014.
L'attesa nuova strategia per l’Afghanistan e il Pakistan è stata resa pubblica dal presidente Barak Obama in un discorso tenuto davanti ai cadetti dell’accademia militare di West Point (1° dicembre 2009).
Essa si caratterizza per un comprehensive approach alla questione afghano-pakistana che postula la distruzione di Al Qaeda nei due paesi e punta a stabilizzare l’area attraverso, da un lato, l’incremento della presenza militare in Afghanistan e l’intensificazione delle azioni contro gli insorgenti e, dall’altro, attraverso un maggior sostegno organizzativo e finanziario alla crescita civile.
Elementi fondanti della nuova strategia Usa sono il massiccio rafforzamento della presenza militare con un surge di 30mila ulteriori soldati statunitensi dislocati in teatro in tempi rapidissimi (estate 2010); nuove pressioni sul governo del presidente Karzai, confermato al potere dopo elezioni assai tormentate ed ora chiamato dall’Amministrazione Usa ad assolvere precisi compiti in materia di sicurezza e stabilità, i cui esiti saranno sottoposti a verifica a scadenze prestabilite. Alla richiesta ai paesi alleati di associarsi all’impegno americano, questi hanno risposto impegnandosi per un apporto di ulteriori 7.000 unità di personale militare in teatro.
Quanto alla Nato, che dispiega e guida sul territorio afgano la missione ISAF (International Security Assistance Force), il concetto di comprehensive approach, già promosso nel 2008, è stato ribadito nel Vertice di Strasburgo-Kehl (3-4 aprile 2009), nel corso del quale i paesi membri hanno deciso, tra l’altro, di sostenere il rafforzamento delle istituzioni afghane inviando ulteriore personale militare e civile all’interno di nuove missioni istituite nell’ambito di ISAF (si tratta di NTM-A NATO Training Mission in Afghanistan).
In parallelo con il surge militare, il Dipartimento di Stato americano ha definito anche un surge civile in un'apposita strategia, la Afghanistan and Pakistan Regional Stabilization Strategy, presentata il 22 gennaio 2010 dal Segretario di Stato Hillary Clinton. Essa ha previsto un forte incremento dell’assistenza civile ad Afghanistan e Pakistan nell’ambito di una partnership duratura, destinata a prolungarsi oltre il ritiro delle truppe.
Il vertice NATO di Chicago del 20 e 21 maggio 2012 ha confermato il completamento del ritiro delle truppe della missione ISAF entro il dicembre 2014 quando sarà concluso il graduale trasferimento delle responsabilità per la sicurezza del paese dalle truppe ISAF alle Forze di sicurezza afghane. Gli alleati si sono impegnati a proseguire il loro sostegno all'Afghanistan nella marcia verso la sua autonomia in materia di sicurezza, verso una migliore governance ed uno sviluppo economico e sociale. La loro presenza nel paese si svilupperà attraverso una nuova missione con compiti di formazione, di consulenza e di supporto. Il Governo afghano si è impegnato a perseguire i principi del buon governo, della lotta alla corruzione e del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, compresa la parità tra uomini e donne, nonché la trasparenza e la regolarità delle elezioni.
Gli Alleati hanno ribadito il loro impegno, anche finanziario, a contribuire alla formazione, all’equipaggiamento e allo sviluppo delle capacità delle forze afghane a cui viene trasferita la responsabilità della sicurezza del paese. Il costo di questa operazione è individuato in 4.100 milioni di dollari annui, per un decennio (con possibilità di rivedere periodicamente lo stanziamento sulla base della situazione di sicurezza del paese).
L'impegno finanziario della Comunità internazionale è stato definito nella Conferenza di Tokyo dell’8 luglio 2012, che ha riunito il governo afgano e la comunità internazionale, focalizzandosi sugli elementi non-security.
Nel loro insieme Chicago e Tokyo costituiscono i rinnovati e più robusti pilastri fondativi della partnership internazionale con Kabul, finalizzata a supportare lo sviluppo e la crescita sostenibile dell’Afghanistan lungo quella che viene definita la Transformation Decade (2015-2024). Gli impegni assunti dai partecipanti in entrambi gli eventi sono stati costruiti sui risultati della Conferenza di Bonn (5 dicembre 2011), nella quale il governo afgano e la comunità internazionale avevano rinnovato l’impegno reciproco di lungo termine in materia di governance, sicurezza, processo di pace, sviluppo sociale ed economico e cooperazione regionale.
All'inizio del “decennio di trasformazione” 2015- 2024 la Comunità internazionale si è impegnata a fornire oltre 16 miliardi di dollari entro il 2015, e a continuare a fornire il supporto fino al 2017. Le risorse, nel complesso, sono “pari al livello di aiuti del decennio passato per rispondere al gap di bilancio stimato dalla Banca Mondiale (tra 3,3 e 3,9 miliardi di dollari nei primi tre anni) e dal governo afgano”.
Quanto alla posizione italiana a Tokyo, il rappresentante italiano, il sottosegretario agli Affari esteri Staffan de Mistura, ha sottolineato l'importanza di aver superato il vecchio concetto di mutuo impegno, risalente alla Conferenza di Bonn del 2011, a favore della più impegnativa mutua reciproca responsabilità, fondativa di un rapporto più maturo tra l’Afghanistan e la comunità internazionale.
In tale contesto le risorse finanziarie messe a disposizione dei progetti di sviluppo diverranno concretamente disponibili solo a fronte di concreti miglioramenti in termini di tutela dei diritti umani, con particolare riguardo ai diritti delle donne. La consistenza degli sforzi dell’Italia per aiutare l’Afghanistan corrisponde all’entità dell’impegno economico annunciato al Summit Nato di Chicago in 120 milioni di euro annui per il triennio 2015-2017 a sostegno delle forze di sicurezza afgane.
La missione ISAF della NATO in Afghanistan svolge attività di supporto al Governo afghano nel mantenimento della sicurezza, sia attraverso la conduzione di operazioni militari secondo il mandato ricevuto, sia attraverso il contributo ad azioni umanitarie e di ricostruzione. Il contingente italiano è schierato nella regione di Herat, con 3.100 unità. Durante la missione ISAF hanno perso la vita 52 componenti del contingente italiano, di cui 31 in seguito ad attentati o conflitti armati.
La missione ISAF (International Security Assistance Force) è stata costituita a seguito della risoluzione ONU n. 1386 del 20 dicembre 2001. Inizialmente l'attività della missione era limitata al mantenimento, nell'area di Kabul, di un ambiente sicuro a tutela dell'Autorità provvisoria afghana e del personale ONU presente nel Paese. Successivamente la risoluzione ONU n. 1510 del 2003, ha autorizzato l'espansione delle attività della missione anche al di fuori dell'area di Kabul. Attualmente ISAF ha il compito di condurre operazioni militari in Afghanistan secondo il mandato ricevuto, in cooperazione e coordinazione con le Forze di Sicurezza afgane ed in coordinamento con le Forze della Coalizione, al fine di assistere il Governo afgano nel mantenimento della sicurezza, favorire lo sviluppo delle strutture di governo, estendere il controllo del governo su tutto il Paese ed assistere gli sforzi umanitari e di ricostruzione dello stesso nell'ambito dell'implementazione degli accordi di Bonn e di altri rilevanti accordi internazionali. La missione collabora con l’Assistance Mission dell’ONU (UNAMA). (vedi Afghanistan ).
Dall'11 agosto 2003, ISAF è guidata dalla NATO ed è la prima missione militare extraeuropea dell'Alleanza Atlantica dopo che il vertice di Praga del novembre 2002 ha stabilito, nell’ambito di un approccio globale per la difesa contro il terrorismo, che le forze dell’Alleanza possano intervenire anche fuori dall’area dei Paesi membri qualora i suoi interessi lo richiedano.
ISAF comprende 101.152 militari appartenenti a contingenti di 50 Paesi. Il contributo maggiore è fornito dagli Stati Uniti (68.000 unità), seguiti dal Regno Unito (9.500), dalla Germania (4.318), dall’Italia (3.100), dalla Polonia (1.770 unità), dalla Spagna (1.606), dalla Georgia (1.561), dalla Romania (1.549 unità), dall'Australia (1.094) e dalla Turchia (998) [1]. Comandante della missione dal 10 febbraio 2013 è il generale USA Joseph Dunford. Alla stabilità del Paese contribuiscono inoltre circa 185.000 soldati dell’Esercito nazionale afgano (Fonte NATO – 6 gennaio 2012).
Nel Vertice NATO di Lisbona del 19 e 20 novembre 2010, si è deciso il ritiro delle truppe entro il 2014, quando le forze afghane avranno verosimilmente assunto il totale controllo della sicurezza sul territorio. Tuttavia, il processo di transizione avverrà gradualmente sulla base delle reali condizioni del paese, che non verrà abbandonato a se stesso; è previsto, infatti, che parte delle truppe restino anche dopo la data limite fissata.
A tale proposito il generale Allen, in una lettera inviata al personale militare e civile in occasione dell'assunzione del comando della missione ISAF, ha indicato quali condizioni essenziali per il completamento del processo di transazione nel 2014 la piena cooperazione e il coordinamento con i partner afghani, sia governo sia forze di sicurezza.
Lo svolgimento della missione ISAF è articolato in cinque fasi:
La missione ISAF si trova attualmente nella sua quarta fase, quella di transizione.
L’Italia, che partecipa alla missione dal gennaio 2002, è stata inizialmente impegnata a Kabul. Dal giugno 2005 ha assunto il comando della regione di Herat (a ovest del Paese), che comprende le province di Badghis, Ghowr e Farah, oltre a quella omonima di Herat. Il contingente italiano è costituito da personale delle Forze armate, della Marina Militare, dell'Aeronautica Militare, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza.
La componente aerea del contingente è stata rafforzata dal 2007 ed ha in dotazione velivoli AMX, per assicurare al contingente nazionale un maggior livello di sicurezza e protezione, velivoli senza pilota Predator, da ricognizione e sorveglianza, elicotteri A129 Mangusta, per il supporto aereo.
La partecipazione italiana ad ISAF è stata da ultimo prorogata al 30 settembre 2013 dal decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227, recante “Proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione”, convertito con modificazioni, dalla legge 1 febbraio 2013, n. 12.
L'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato, il 15 febbraio 2011, le mozioni 1-00561 (Cicu e altri), 1-00562 (Tempestini e altri), 1-00563 (Porfidia e altri) e 1-00564 (Vernetti, Adornato, Della Vedova e altri), relative alla definizione di un piano per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan.
Durante la missione ISAF hanno perso la vita cinquantadue componenti del contingente italiano, di cui 31 in seguito ad attentati o conflitti armati. Da ultimo, il 25 ottobre 2012, ha perso la vita l’alpino Tiziano Chierotti e sono rimasti feriti altri tre militari italiani, a seguito di uno scontro armato avvenuto nella provincia di Farah. In precedenza, lo scorso 25 giugno del medesimo anno ha perso la vita il carabiniere scelto Manuele Braj, a seguito di una esplosione che ha interessato una garitta di osservazione presso il campo addestrativo della polizia afgana in Adraskan.
Le difficoltà nel conseguimento degli obiettivi fissati dalla strategia annunciata a West Point e riconfermata a distanza di un anno (16 dicembre 2010) - ossia sottrarre l’iniziativa ai taleban, proteggere la popolazione e sostenere l’esecutivo nel miglioramento della governance – insieme a forti dubbi nell’opinione pubblica americana sui costi connessi ad un approccio dagli esiti incerti, hanno portato l'Amministrazione ad un ripensamento della questione.
L’avvio di una strategia di transizione che prevede il passaggio delle responsabilità di sicurezza alle forze armate e di polizia afghane, con l'obiettivo di giungere entro il 2014 al completo ritiro delle truppe di combattimento operanti nel quadro della missione ISAF è emerso dal Vertice Nato di Lisbona (19-20 novembre 2010).
Sull’interpretazione del termine temporale si è aperto nella comunità internazionale un dibattito dagli esiti potenzialmente pericolosi in quanto, da un'interpretazione del 2014 come scadenza rigida (come nel caso di Spagna e Canada) sarebbe derivato un atteggiamento attendista degli insurgents, pronti a un nuovo dispiegamento massiccio del loro potenziale dopo il ritiro degli assetti combat internazionali. Non a caso, il presidente Obama ha sottolineato da subito la determinazione a non abbandonare in nessun caso l’Afghanistan a se stesso dopo il 2014. Nella medesima direzione opera anche l’accordo di partenariato di lungo periodo tra Karzai e il Segretario generale della NATO, in base al quale il sostegno internazionale all'Afghanistan continuerà fino al raggiungimento della reale possibilità afgana di far fronte al possibile ritorno dei taleban. Barak Obama, inoltre, per rassicurare i paesi occidentali preoccupati dalle possibili operazioni sui territori nazionali di terroristi con basi in Afghanistan, ha assicurato il mantenimento in Afghanistan di una efficiente struttura di controterrorismo sino al perdurare della minaccia di Al Qaida. L’Italia ha preannunciato l'invio di 200 addestratori.
Le relazioni bilaterali Stati Uniti-Pakistan - alleato strategico nella lotta ad al Qaeda – già sotto torsione a causa della modalità di svolgimento del raid che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden in territorio pakistano (ad Abbottabad, 70 km dalla capitale Islamabad) il 2 maggio 2011, effettuato senza che le autorità di Islamabad ne fossero state informate, si sono ulteriormente irrigidite dopo che il comandante delle forze armate statunitensi, ammiraglio Mike Mullen a metà settembre 2011 ha affermato al Senato che la Rete Haqqani altro non è che “il braccio armato” del Pakistan nel conflitto in Afghanistan.
Le autorità pakistane, dopo un primo diniego, hanno ammesso contatti tra i propri servizi segreti militari (Isi) e il gruppo armato afghano, pur assicurando, tuttavia, che ciò “fa parte di una strategia per lottare meglio contro il terrorismo” e che il Pakistan non è l’unico paese ad avere relazioni con la Rete Haqqani, che è basata nel Nord Waziristan. Gli Usa, per i quali la Rete Haqqani è responsabile di attacchi contro l'ambasciata Usa a Kabul (13 settembre) e contro l'Isaf hanno ripetutamente sollecitato il governo pachistano ad adottare provvedimenti per quanto riguarda i legami esistenti con tale clan.
I rapporti bilaterali si sono ulteriormente aggravati dopo che il 26 novembre 2011 elicotteri della Forza ISAF provenienti dall'Afghanistan hanno colpito due postazioni pachistane nel distretto di Baizai, nella regione tribale di Mohmand, lungo la frontiera, uccidendo 24 soldati pachistani e ferendone altri 14. L'attacco è stato considerato "deliberato" dal Pakistan, che ha indirizzato una formale “forte protesta'” agli Stati Uniti e alla NATO senza che gli USA presentassero scuse formali.
Il Pakistan ha inoltre ordinato la sospensione del transito verso l'Afghanistan dei rifornimenti per le truppe ISAF e l’evacuazione della base aerea di Shamsi, nella provincia meridionale del Baluschistan, messa a disposizione della CIA per le operazioni nel deserto pakistano.
Da allora, nonostante Washington abbia fatto ricorso a voli cargo e a vie di transito più costose attraverso la Russia e l'Asia centrale, le forze USA hanno accumulato 2.843 container in attesa di entrare in territorio afghano. La ricerca per vie diplomatiche di un recupero dell'intesa con il Pakistan è durata diversi mesi, fino a quando, il 4 luglio 2012, il governo pachistano ha deciso la riapertura della frontiera pachistana al transito di automezzi Nato diretti in Afghanistan, consentendo quindi il ripristino delle cosiddette Linee di comunicazione terrestri (Gloc) utilizzate dai convogli che trasportano rifornimenti per le truppe della Coalizione internazionale dispiegate in territorio afghano.
Nel giugno 2012 un attacco da parte del network terroristico di matrice pakistana, Haqqani, contro la base militare americana “Salerno” nell’Afghanistan meridionale, ha causato la morte di due soldati statunitensi. L’attacco, di natura suicida, ha confermato le paure americane circa la forte instabilità della zona a confine tra Afghanistan e Pakistan, e ha riportato in primo piano le ambiguità di Islamabad nell’impegno antiterroristico.
Nel settembre 2012 si sono registrati nuovi episodi di violenza antiamericana in Pakistan. L’evento scatenante è stata la pubblicazione del film anti-islamico “L’innocenza dei Musulmani”, che ha infiammato l’intero mondo islamico a partire dall’Egitto. Le proteste esplose nelle città Pakistane sono state le più violente, e hanno portato alla morte di 23 persone e al ferimento di oltre 200 manifestanti. Un Ministro del Governo di Islamabad ha anche emesso una taglia di 100.000 dollari sull’autore del film, invitando Al Qaeda a fare giustizia.
Nel corso del 2012 i missili lanciati dai droni americani nel Waziristan, regione a nord-est del Pakistan, hanno causato la morte di 264 persone. La posizione ufficiale del Governo di Islamabad sugli attacchi missilistici - che sono iniziati nel 2004 - è che essi costituiscono una violazione dell’integrità territoriale pakistana.
Il Congresso americano ha espresso insoddisfazione per il procedere delle relazioni tra Washington e Islamabad. La proposta dell’amministrazione Obama per il bilancio dell’anno fiscale 2013 è di destinare 928 milioni di dollari di aiuti al Pakistan, quasi 800 milioni in meno rispetto all’importo annuo autorizzato per l’anno fiscale 2010. Ciò significa che l’amministrazione non adempirà al suo programma originario di fornire 7,5 miliardi di dollari a Islamabad entro il 2015.
Nonostante ciò, la maggior parte dei membri del Congresso resta convinta che gli Stati Uniti non possano permettersi di interrompere le relazioni di collaborazione internazionale con il Pakistan, soprattutto finché continueranno ad essere impiegate truppe in Afghanistan. In precedenza i rifornimenti ai militari americani arrivavano via mare al porto di Karachi, e poi di lì, attraverso le strade pakistane, fino all’Afghanistan. Da quando però Islamabad ha chiuso le rotte di approvvigionamento gli Stati Uniti sono stati costretti ad aprire rotte più costose, attraverso l’Asia centrale, il Caucaso e la Russia. Alcuni analisti hanno anche ventilato il pericolo che i tagli agli aiuti americani al Pakistan, un Paese già destabilizzato dai movimenti islamisti e separatisti, potrebbero indebolire ancora di più l’autorità del Governo di Islamabad e mettere a repentaglio la sicurezza dell’arsenale atomico pakistano.
Alcuni segnali di svolta nell’atteggiamento del Pakistan rispetto ai gruppi terroristici sono arrivati nell’agosto del 2012 dal generale Pervez Kayani, il capo dell’esercito di Islamabad. Kayani ha condannato pubblicamente tutte le forme di estremismo, e ha invocato delle soluzioni costituzionali che mobilitino tutta la Nazione contro il terrorismo islamico. Il Pakistan ha diverse ragioni per essere preoccupato, come lo sono gli Stati Uniti, dalle attività dei gruppi terroristici. Negli ultimi dieci anni 45.500 cittadini pakistani hanno perso la vita in attacchi lanciati dagli estremisti islamici, inclusi 4.855 esponenti delle forze di sicurezza.
La Repubblica Islamica del Pakistan è una repubblica parlamentare, di tipo federale, basata sulla costituzione del 1973. Dal 2008 è tornata sotto la direzione di un governo civile, dopo i dieci anni di Presidenza del generale Pervez Musharraf.
Il Parlamento (Majlis-E-Shoora) è bicamerale, ed è formato dall’Assemblea Nazionale e dal Senato.
L’Assemble Nazionale è composta da 342 membri eletti direttamente dal popolo e che durano in carica cinque anni. Di questi, 272 sono eletti in collegi uninominali, 60 seggi sono invece riservati alle donne e 10 alle minoranze non musulmane.
Il Senato è composto da 104 membri che durano in carica sei anni, ma ogni 3 anni si vota per rinnovare metà della rappresentanza. Ognuna delle quattro assemblee provinciali elegge 23 rappresentanti; altri 8 sono scelti dai membri dell’Assemblea Nazionale che rappresentano le aree tribali amministrate a livello federale (FATA – Federally Administered Tribal Areas); gli ultimi 4 sono invece scelti da tutti i componenti dell’Assemblea Nazionale per rappresentare la Capitale federale, Islamabad. Dei 104 seggi totali, assegnati secondo i criteri sopra elencati, 17 devono essere riservati alle donne, 17 ai tecnocrati e agli ulema, e 4 alle minoranze non musulmane.
Il Primo Ministro è eletto dall’Assemblea Nazionale e dura in carica cinque anni. Se l’Assemblea Nazionale si scioglie anche il mandato del Primo Ministro decade. Il suo compito è quello di scegliere gli altri Ministri e di guidare il Governo. E’ il detentore del potere esecutivo.
Il Presidente della Repubblica è eletto indirettamente attraverso il Collegio Elettorale, un organo composto dal Senato, dall’Assemblea Nazionale e dai membri delle Assemblee provinciali. Il mandato del Presidente della Repubblica dura cinque anni e può essere rinnovato una sola volta. Il Parlamento può chiedere le sue dimissioni anticipate con una maggioranza dei due terzi dei voti. Il Presidente della Repubblica svolge la funzione di Capo dello Stato.
In origine l’articolo 58 della Costituzione concedeva al Presidente della Repubblica il potere di sciogliere l’Assemblea Nazionale. Il tredicesimo emendamento, votato nel 1997, aveva abrogato questo articolo. Il diciassettesimo emendamento, approvato nel 2003, aveva reintrodotto per il Presidente il potere di sciogliere, previo parere conforme della Corte Suprema, l’Assemblea Nazionale. Il diciottesimo emendamento, votato nel 2010, ha però definitivamente rimosso questo potere.
Secondo Freedom House (2013) il Pakistan è uno Stato “parzialmente libero”, mentre il Democracy Index 2011 dell’Economist Intelligence Unit lo classifica come “regime ibrido”.
Nonostante il Pakistan sia tornato sotto la guida di un governo civile nel 2008, si registra ancora un sostanziale duopolio nella gestione del potere politico. Le principali istituzione elettive detengono formalmente la piena sovranità legislativa ed esecutiva, ma de facto scontano il forte condizionamento esercitato dai vertici militari su tutti i settori rilevanti della politica nazionale.
Un altro elemento di instabilità è dato dal ruolo dei servizi segreti (Isi – Inter-Service Intelligence), storicamente ambiguo sia nei confronti dell’esecutivo che del resto dell’apparato militare. Nonostante dipendano formalmente dal Primo Ministro, mantengono un buon margine d’azione indipendente e ciò li espone al rischio di radicalizzazione di alcuni dei suoi comparti.
Infine, l’istituzionalizzazione di prassi politiche democratiche è messa a repentaglio da profondi conflitti etnico-religiosi. La grande maggioranza della popolazione, circa il 95 per cento, è di religione musulmana, le minoranze sono hindu e cristiane. Dietro l’apparente omogeneità della maggioranza musulmana si nasconde una forte divisione tra la componente sunnita (il 75 per cento dei musulmani) e quella sciita.
Il gruppo etnico più numeroso è quello Pangiabi (45 per cento), cui seguono i Pashtun (15 per cento), i Sindhi (14 per cento), e i meno numerosi Sariaki e Beluci. L’urdu, la lingua ufficiale del Paese insieme all’inglese, è parlata solo dall’8 per cento della popolazione, mentre il pangiabi, lingua riconosciuta ma non ufficiale, è parlata da quasi la metà della popolazione.
Il sistema politico è ancora percepito come fortemente corrotto, e anche la libertà di stampa risulta limitata. Secondo Reporters sans Frontières il Pakistan, nel 2010, è stato il Paese con più giornalisti uccisi, ben 11.
Presidente della Repubblica dal settembre 2008 è Asif Ali Zardari (n.1955), membro del Partito Popolare Pakistano (PPP), una formazione socialdemocratica di centro sinistra. L’ascesa politica di Zardari è strettamente collegata all’assassinio, il 27 dicembre 2007, della moglie, Benazir Bhutto (n.1953), leader del PPP, fondato dal suo stesso padre.
Bhutto era diventata leader del PPP nel 1982 e aveva ricoperto la carica di Primo Ministro per due mandati, dall’ottobre 1993 al novembre 1996, quando accuse di corruzione posero fine alla sua esperienza di governo. Dopo aver trascorso nove anni di esilio volontario a Dubai era tornata in Pakistan, nell’ottobre 2007, in seguito a un accordo raggiunto con Il Presidente Musharraf che le aveva concesso il ritiro di tutte le accuse di corruzione, per prendere parte alla campagna elettorale parlamentare. Bhutto fu assassinata poche settimane dopo il suo ritorno, il 27 dicembre 2007, a Rawalpindi, da un attentato suicida rivendicato, senza che ciò sia mai stato accertato, dal comandante di Al-Qaeda Mustafa Abu al-Yazid.
Il 12 agosto 2008 la nuova coalizione della nuova eletta Assemblea Nazionale annunciò la sua intenzione di presentare una mozione di impeachment contro il Presidente Musharraf con le accuse di corruzione, cattiva gestione economica e violazione della Costituzione. Il 18 agosto 2008 Musharraf rassegnò le dimissioni e il 6 settembre 2008 il Collegio Elettorale ha eletto Presidente della Repubblica il vedovo di Benazir Bhutto, Asif Ali Zardari, già membro del Governo negli esecutivi guidati dalla moglie e reduce dal carcere e dall’esilio in seguito ad accuse di corruzione.
Le ultime elezioni parlamentari si sono tenute il 17 febbraio 2008, due mesi dopo l’assassinio di Bhutto, in un clima reso molto teso dalla rielezione di Musharraf alla Presidenza, per un terzo mandato, nell’ottobre 2007, dal boicottaggio delle opposizioni, dall’allontanamento di un giudice della Corte Suprema e dalla proclamazione dello stato di emergenza. Il risultato finale ha sancito la vittoria del PPP di Zardari e dell’ormai defunta Bhutto, con 98 dei 272 seggi disponibili. Seconda classificata è risultata la Lega Pakistana Musulmana Nawaz (PML-N) con 71 seggi, seguita dalla Lega Pakistana Musulmana Qaid-i-Azam (PML-Q) con 41 seggi, e dal Movimento Muttahida Qaumi (MQM) con 19 seggi.
In seguito a questi risultati elettorali il PPP e il PML-N hanno deciso di dar vita a un “governo di consenso nazionale” guidato da YousafRaza Gilani (n.1952), membro del PPP, ed ex portavoce e collaboratore di Benazir Bhutto. Il Governo di Yousaf Raza Gilani è durato in carica fino al 2012. Nell’aprile 2012 la Corte Suprema ha infatti condannato il Primo Ministro per oltraggio alla Corte in seguito al suo rifiuto di chiedere alla Svizzera di riaprire un’indagine, degli anni ’90, per riciclaggio di denaro contro Il Presidente Zardari.
Nel giugno 2012 laCorte Suprema ha dichiarato Yousaf Raza Gilani “squalificato” per la carica di Primo Ministro, decretando di fatto la fine del suo mandato. In seguito a questa decisione della Corte Suprema, il Parlamento ha eletto Raja Pervez Ashraf(n.1950), un membro del PPP, come nuovo Primo Ministro.
Il 15 gennaio 2013 laCorte Suprema è intervenuta anche contro Ashraf, ordinando il suo arresto per accuse di corruzione risalenti al 2010, quando ricopriva la carica di Ministro dell’acqua e dell’energia.
La notizia dell’arresto, giunta in concomitanza con una protesta di massa organizzata nella Capitale dal clerico musulmano Muhammad Tahirul Qadri, ha sollevato il timore che l’esercito stesse lavorando con la magistratura per scalzare i leader politici.
Le prossime elezioni parlamentari avranno luogo nel maggio 2013. Il PPP continua a mantenere la maggioranza necessaria per eleggere un nuovo Premier che colmi il vuoto degli ultimi mesi di legislatura rimasti.
La campagna elettorale che apre la strada alla consultazione elettorale di maggio 2013 vede ancora in testa il partito di governo, il PPP. Secondo uno studio pubblicato a inizio febbraio dal Sustainable Development Policy Institue (SDPI), un noto think-tank di Islamabad, il PPP raccoglie il 29 per cento dei consensi, la PML-N il 24,7 per cento, la Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) il 20,3 per cento.
I possibili scenari di governo sono cinque. 1)il PPP forma un’alleanza con la Awami National Party (ANP), il MQM e la PLM-Q. 2)il PPP forma un’alleanza con il ANP e la PLM-Q senza il MQM. 3) il PPP forma un’alleanza con il ANP, il MQM e la PLM-Q, mentre la PML-N e la PTI formano un’altra alleanza che otterrebbe il 45% circa dei voti. 4)il PPP e la PTI formano un’alleanza con il 49,3% dei voti. 5) il PPP resta con i suoi alleati ottenendo il 38,1 per cento dei voti, la PTI guida una seconda alleanza con il 23,9 per cento dei voti, la PML-N organizza una terza coalizione che otterrebbe il 25,9 per cento dei voti.
Il Parlamento ha seguito con grande attenzione l'evoluzione in atto nei Balcani occidentali, area europea a tutti gli effetti ma che deva ancora completare, in massima parte, la propria integrazione nelle istituzioni comunitarie e della difesa euroatlantica. Le numerose tensioni nella regione costituiscono tuttora un potente freno all'avvicinamento all'Unione europea, anche se vi sono stati negli ultimi due anni indubbi progressi. Attualmente la Croazia è la più vicina al traguardo, essendo giunta nel dicembre 2011 alla firma del Trattato di adesione all'Unione europea.
All’inizio della XVI Legislatura del Parlamento italiano l’Albania incassava l’importante successo dell’invito ad aderire alla NATO, lanciato dal Vertice di Bucarest dell’Alleanza atlantica dell’aprile 2008, e al quale faceva seguito in luglio la firma del relativo Protocollo. Meno spedito era invece il processo di avvicinamento all’Unione europea, come rilevato in novembre dal rapporto periodico della Commissione UE, che criticava soprattutto l’immobilismo albanese in tema di lotta alla corruzione e di riforma dell’ordinamento giudiziario. La sempre difficile dialettica politica interna conosceva tuttavia in aprile un momento di collaborazione tra i due maggiori partiti, che consentiva di approvare un pacchetto di emendamenti costituzionali riguardanti il Presidente della Repubblica, il mandato del Procuratore generale e il sistema elettorale – su quest’ultimo punto in novembre veniva emanato un nuovo codice elettorale, che suscitava aspre poteste da parte delle forze politiche minori.
Nel 2009 l’Albania entrava a pieno titolo nell’Alleanza atlantica (aprile), mentre alla fine di giugno si svolgevano le elezioni legislative, che segnavano un sostanziale pareggio, nel quale però alla leggera prevalenza socialista nei voti corrispondeva un rovesciamento nei seggi – 68 andavano al Partito socialdemocratico di Berisha e 65 ai socialisti. Le maggiori divisioni agitavano il fronte di centrosinistra, ma anche il più compatto centro-destra non aveva la maggioranza dei 140 seggi, almeno fino a che un piccolo gruppo, il Movimento socialista per l’integrazione, non offriva i propri 4 seggi allo schieramento di Berisha, in campagna elettorale indicato come il nemico da abbattere. Protestando per presunti brogli e chiedendo il riconteggio dei voti in alcune regioni, oltre a un’indagine sulla correttezza delle operazioni elettorali, i socialisti boicottavano i lavori parlamentari facendo mancare i loro 65 deputati, e organizzando grandi manifestazioni culminanti in novembre nella capitale.
Il boicottaggio parlamentare proseguiva nel 2010, e in maggio circa duecento tra deputati e sostenitori socialisti si accampavano davanti al palazzo del governo e mettevano in atto uno sciopero della fame di venti giorni, mentre non venivano ascoltati gli appelli europei al superamento dello stallo politico albanese. Proprio questa situazione, unitamente a critiche sul funzionamento dell’istituzione parlamentare e sulla corruzione e politicizzazione di alcune aree del sistema giudiziario, facevano sì che il rapporto periodico della Commissione europea respingesse in novembre la richiesta albanese di piena candidatura all’ingresso nell’Unione - negli stessi giorni, tuttavia, ai cittadini albanesi veniva concessa l’esenzione dal visto per l’ingresso nell’area Schengen.
L’inizio del 2011 vedeva un aggravamento dello scontro politico, quando in gennaio quattro manifestanti dell’opposizione venivano uccisi a Tirana ed emergeva che a colpirli era stato qualcuno che sparava dagli edifici del Governo: Berisha, che aveva accusato l’opposizione di essere scesa in campo con armi nascoste, vedeva crollare la propria tesi e si spingeva ad offendere gravemente il Procuratore generale e il Capo dello Stato, Bamir Topi. Le elezioni municipali di maggio vedevano la sconfitta – anche questa di misura e molto contestata – del leader dell’opposizione socialista Edy Rama, in lizza per un quarto mandato quale sindaco della capitale: i socialisti si aggiudicavano comunque la maggior parte delle città, mentre nel conteggio complessivo dei voti prevalevano le forze di governo. Comunque, in settembre l’opposizione poneva fine al boicottaggio parlamentare, ma il mese successivo la Commissione UE rifiutava ancora una volta di concedere all’Albania lo status di paese candidato all’adesione: la principale motivazione rimaneva la situazione politica, che tuttavia non migliorava di certo con l’esplodere di un aperto contrasto tra la maggioranza di Berisha e il Presidente della Repubblica.
Un anno dopo, nell’ottobre 2012 – dopo l’elezione alla Presidenza della Republica albanese di Bujar Nishami -, la Commissione UE rilevava i numerosi progressi del paese, e raccomandava al Consiglio di concedere all’Albania lo status di paese candidato, ma solo dopo ulteriori passi positivi nel campo della giustizia, della pubblica amministrazione e delle regole parlamentari. Saranno inoltre decisive, per il giudizio dell’Unione europea, le elezioni legislative del 2013.
Per quanto riguarda la Bosnia-Erzegovina, l’arresto a Belgrado di Radovan Karadzic (luglio 2008) suscitava opposte reazioni nelle due Entità che, in base agli accordi di Dayton del 1995, costituiscono il paese – ovvero la Repubblica Srpska e la Federazione croato-bosniaca -, mostrando una volta di più le insanabili divisioni in seno ad esso. Nulla di diverso usciva dalle elezioni locali del 5 ottobre 2008, nelle quali si affermavano nettamente i rispettivi partiti etnici, suscitando aspre critiche alle élite bosniache da parte delle autorità europee ed internazionali. A queste critiche i leader dei tre maggiori partiti, e soprattutto il serbo-bosniaco Dodik, sembravano rimanere indifferenti: nella Repubblica Srpska crescevano invece i sentimenti secessionisti – paradossalmente alimentati dalla vicenda del Kosovo -, anche sull’onda del successo economico, a fronte delle difficoltà della Federazione croato-bosniaca.
Nel 2009, con le prospettive di integrazione europea assolutamente in alto mare per la Bosnia-Erzegovina, aspre polemiche si trascinavano soprattutto fra Dodik e l'Alto rappresentante della Comunità internazionale, governatore di fatto del paese, Valentin Inzko, con il primo desideroso di limitare i poteri del governatore e di recuperare alcune prerogative che per iniziativa di questi erano state trasferite a livello "nazionale". La posizione del governatore era in realtà la più debole, per gli evidenti segni di stanchezza della Comunità internazionale nei confronti della situazione bosniaca. Meno refrattaria ai dettami della Comunità internazionale si presentava la Bosnia-Erzegovina sul piano economico: infatti il paese risentiva della crisi internazionale, con 70.000 disoccupati aggiuntivi nel 2009 e una drastica discesa delle rimesse degli emigranti: nel mese di maggio la Bosnia-Erzegovina era costretta a negoziare un accordo di credito triennale con il Fondo monetario internazionale del valore di 1,2 miliardi di euro, a fronte del quale il paese doveva accettare notevoli tagli della spesa pubblica, come in effetti messo in atto nelle leggi finanziarie per il 2010 di entrambe le Entità bosniache.
Nel 2010 le elezioni di ottobre – dalle quali doveva uscire una nuova Presidenza tripartita del paese, oltre al rinnovo del Parlamento centrale e dei Parlamenti delle due Entità – confermavano la forza di Dodik nella Repubblica Srpska, mentre il voto croato e musulmano si differenziava in più correnti. Emergeva comunque a livello “nazionale” una leggera prevalenza socialdemocratica, seguita a ruota dal partito serbo di Dodik. Mentre però il paese subiva a più riprese le più violente inondazioni negli ultimi cento anni, e tumulti scoppiavano a Sarajevo per i tagli ai sussidi degli ex combattenti, non si riusciva a formare nessun tipo di governo centrale, anche perché Dodik coglieva prontamente l’occasione di accusare il partito socialdemocratico (musulmano non confessionale) di aver violato lo spirito degli accordi di Dayton, escludendo il maggior partito croato dalle trattative per il governo della Federazione croato-bosniaca.
Per tutto il 2011 la mancanza di un governo centrale – quello precedente rimaneva in carica solo per gli affari correnti – contribuiva a impedire ogni progresso verso l’integrazione europea; solo la collaborazione bosniaca con il Tribunale ONU per i crimini nella ex Jugoslavia veniva giudicata positivamente. Anche la cattura di Mladic in Serbia (maggio 2011), come già quella di Karadzic, aveva rivelato le persistenti divisioni nelle varie componenti bosniache. Finalmente, dopo ben 14 mesi di stallo istituzionale, soprattutto (ma non esclusivamente) dovuto all’irrigidimento di Dodik, leader della Repubblica Srpska, il 28 dicembre si giungeva ad un accordo tra i sei principali partiti politici bosniaci, in base al quale si è proceduto a indicare un premier designato nella persona dell’economista croato-bosniaco Vjekoslav Bevanda, del partito Comunità democratica croata: il 5 gennaio 2012 Bevanda ha ricevuto l’approvazione della Presidenza tripartita della Bosnia, e dopo sette giorni ha ricevuto sulla sua designazione il via libera del Parlamento federale bosniaco, in vista della formazione di un nuovo governo. Dalle reazioni delle forze politiche bosniache è emerso con una certa chiarezza che l’intesa è stata raggiunta soprattutto in vista dello sblocco di finanziamenti del Fondo monetario internazionale e dell’Unione europea, propedeutico a sua volta alla presentazione bosniaca della candidatura per l’ingresso nella UE. Il 10 febbraio 2012 il governo guidato da Bevanda otteneva la fiducia nel Parlamento bosniaco: peraltro, con un rimpasto limitato, nel mese di novembre si inaugurava per il governo una diversa maggioranza parlamentare, con il maggior partito musulmano-bosniaco all’opposizione.
La Croazia nell'aprile 2008, congiuntamente all'Albania, incassava un notevole successo, quando i due paesi venivano invitati dal vertice NATO di Bucarest ad avviare le procedure per entrare a far parte dell’Alleanza atlantica: tali procedure si completavano il 1° aprile 2009, negli stessi giorni in cui la NATO celebrava sessanta anni di vita, con la presentazione a Washington dei relativi strumenti giuridici da parte degli ambasciatori di Albania e Croazia. In tal modo l'Alleanza atlantica saliva da 26 a 28 membri. Sempre nel 2009 si avevano le dimissioni a sorpresa del premier Ivo Sanader, che indicava quale successore al vertice del governo e del partito conservatore HDZ (Comunità democratica croata) Jadranka Kosor, già vicepresidente del partito ai tempi di Tudjman, nonché vicepremier e ministro per i reduci di guerra, la famiglia e i pensionati proprio con Sanader dopo il 2003. L'11 settembre 2009 la Croazia siglava un’intesa di principio con la Slovenia, unanimemente considerata come un presupposto decisivo per la composizione negli anni futuri – presumibilmente sulla base della proposta del Commissario UE all’allargamento Olli Rehn, che prevedeva un arbitrato di giudici ed esperti - della controversia sulla delimitazione del confine marittimo nel Golfo di Pirano. In seguito all’accordo, e al successivo referendum in Slovenia del giugno 2010, è stato tolto il veto sloveno all’ingresso di Zagabria nella UE.
Nel frattempo all’inizio di gennaio 2010 il candidato socialdemocratico Ivo Josipovic, per conto del centro-sinistra, si era aggiudicato il ballottaggio per le elezioni presidenziali con un ampio margine su Milan Bandic, candidato della frastagliata galassia del centro-destra croato. Il programma di Josipovic prevedeva una politica estera di buon vicinato, particolarmente importante per la storia balcanica recente, e un orientamento chiaramente filoeuropeo.
Il 10 giugno 2011 la Croazia, dopo più di cinque anni di negoziati, ha ottenuto il via libera all’adesione dal presidente della Commissione europea Barroso, che ha fissato presumibilmente la data del 1° luglio 2013 per l’ingresso effettivo di Zagabria. Due settimane dopo il Consiglio europeo confermava il via libera all’adesione croata. Va ricordato il duplice appuntamento che ha visto protagonista il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, dapprima con la visita a Zagabria a metà luglio 2011 – nella quale il Presidente Napolitano ha rimarcato come proceda sempre di più il superamento delle tragedie passate (che non vanno mai dimenticate), come dimostra anche il ritorno di alcuni esuli nelle terre istriane, nel quadro del comune quadro europeo di riferimento, nel quale proprio la Croazia si accinge ad entrare. Nel successivo appuntamento di Pola del 3 settembre Napolitano e il presidente croato Josipovic hanno firmato una dichiarazione congiunta che ribadisce questi concetti, con una condanna ugualmente forte dell’aggressione fascista alla Jugoslavia e delle atrocità compiute successivamente dalle truppe di Tito. Il futuro dovrà ispirarsi alla più stretta collaborazione - anche in ragione della presenza delle due minoranze italiane e croata nei rispettivi territori - sulla scorta della quale nessun contenzioso si rivelerà insuperabile.
La Croazia ha poi svolto, il 4 dicembre 2011, le elezioni per il rinnovo del proprio Parlamento unicamerale (il Sabor): nella difficile congiuntura economica che anche Zagabria attraversa, la maggioranza è andata con il 44,5% dei voti e 80 seggi alla coalizione di centro-sinistra “Alleanza per il cambiamento”, composta dal partito socialdemocratico, guidato da Zoran Milanovic, dal partito democratico d’Istria, dal partito popolare-liberaldemocratico di Radimir Cacic e dal partito dei pensionati di Silvano Hrejia. L’HDZ, di centro-destra, del primo ministro uscente Jadranka Kosor, ha ottenuto il 22,1% dei voti e 47 seggi. Tra i seggi destinati alle minoranze nazionali è stato confermato Furio Radin come rappresentante della minoranza italiana. Non meno rilevante è stato per la Croazia quanto avvenuto dopo il via libera del Parlamento europeo del 1° dicembre, e quello del Consiglio Affari generali UE del 5 dicembre, quando ha potuto finalmente coronare gli sforzi da lungo tempo in atto, e firmare il 9 dicembre il Trattato di adesione all’Unione europea. Il 23 dicembre il premier Milanovic ha iniziato il percorso del nuovo governo croato. Il 22 gennaio 2012 in un referendum la popolazione croata, pur con un’affluenza di solo il 43% degli aventi diritto, ha approvato con una maggioranza netta l'adesione del paese all'Unione europea: la scarsa partecipazione alla consultazione è stata collegata alle prospettive poco ottimistiche dell'ingresso in un’Unione europea alle prese con una grave crisi economica e finanziaria.
In Kosovo, dopo la storica dichiarazione di indipendenza del febbraio 2008, la politica del governo guidato dal 2007 da Hashim Thaci evitava saggiamente di affrontare di petto le rivendicazioni della minoranza serba del nord, come anche di immischiare il neonato paese in altre situazioni balcaniche caratterizzate da minoranze etniche albanesi. In tal modo, pur nella precarietà della situazione, ancora totalmente nelle mani delle missioni internazionali in loco, entro la fine del 2008 il Kosovo era stato riconosciuto da 53 Stati membri dell’ONU, tra cui gli USA e una larga maggioranza di appartenenti all’Unione europea. Tuttavia il paese presentava la più alta disoccupazione dei Balcani (45%), e si confermava nodo essenziale di traffici illegali, sia per il riciclaggio di denaro che per gli stupefacenti.
Nel novembre 2009 si svolgevano le prime elezioni locali in Kosovo dopo l’indipendenza: al di là del risultato, reso difficilmente interpretabile dalla miriade di liste e piccoli partiti, tanto l’affluenza che la regolarità della consultazione risultavano migliori che nel 2007. La vittoria arrideva al Partito democratico del Kosovo (PDK) del premier Thaci, che conquistava 14 delle 36 municipalità interessate, mentre 7 di esse andavano alla Lega democratica del Kosovo. Il fatto che le due formazioni, alleate a livello nazionale, si presentassero divise alle amministrative, era prodromico alla fine della coalizione.
Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di giustizia si pronunciava sulla richiesta presentata dalla serbia in ordine all’illegalità della secessione del Kosovo: le speranze serbe venivano demolite dalla sentenza, in base alla quale la dichiarazione di indipendenza del 2008 non costituiva violazione del diritto internazionale. Prontamente Hashim Thaci capitalizzava il prestigio derivante dalla sentenza: quando in settembre il Capo dello Stato Sejdiu si dimetteva dalla carica per incompatibilità con la posizione di leader della Lega democratica del Kosovo, che veniva ritirata dalla coalizione di governo, Thaci induceva l’autoscioglimento del Parlamento. Le elezioni legislative anticipate si tenevano il 12 dicembre, e il partito di Thaci si affermava con il 34% dei voti, a fronte del 23% della LDK di Seidiu. A parte le numerose contestazioni sulla regolarità del voto, Thaci doveva confrontarsi con il rapporto Marty, nel quale il delegato svizzero del Consiglio d’Europa accusava il premier kosovaro di appartenere a un’organizzazione criminale dedita a traffici illeciti di ogni specie, incluso quello di organi umani, perpetrati anzitutto durante la guerra del Kosovo nel 1999. le gravissime accuse provocavano tuttavia prevalentemente un moto nazionalistico di solidarietà verso Thaci, permettendogli di mascherare la difficile situazione economica, con la disoccupazione sempre altissima e il calo delle rimesse degli emigrati, colpiti dalla crisi economica internazionale nei rispettivi paesi, e soprattutto nella vicina Grecia.
All’inizio del 2011 le trattative per il nuovo governo sfociavano nella formazione di un esecutivo di coalizione tra il partito di Thaci, una serie di piccole formazioni politiche delle minoranze etniche e l’Alleanza per il rinnovamento del Kosovo di Pacolli, un uomo d’affari miliardario in stretti rapporti d’affari con la Russia. Proprio i suoi legami con Mosca – percepita nel paese come il nemico principale sulla scena internazionale - provocavano però una sollevazione dopo la sua elezione a Capo dello Stato, e anche grazie a un’escamotage giuridico la situazione si risolveva con le sue dimissioni. Al suo posto veniva eletta Atifete Jahjaga, una donna di 36 anni, già vicecapo della polizia kosovara. Invece della temuta disgregazione della coalizione di governo, ciò che veramente creava al premier grandi difficoltà era l’azione di polizia del 25 luglio, quando due unità speciali kosovare tentavano di assumere il controllo di due posti di frontiera nella zona nord popolata da serbo-kosovari, che fino a quel momento era stata come una terra di nessuno dal punto di vista doganale. Il tentativo kosovaro era causato dalla necessità di impedire l’afflusso incontrollato di merci serbe, come anche di riscuotere dazi doganali essenziali alla precaria economia kosovara. Sta di fatto che l’irruzione poliziesca provocava immediatamente l’erezione di una ventina tra barricate e blocchi stradali da parte dei serbi, attorno ai quali si accendevano periodici tafferugli per tutto il resto dell’anno, coinvolgendo anche appartenenti alla missione KFOR della NATO.
A metà gennaio 2012 si scatenavano violenti scontri di segno opposto nel nord del Kosovo, per iniziativa di estremisti kosovaro-albanesi intenzionati a impedire l’ingresso di merci serbe nel Kosovo, le quali, in ragione del mancato rispetto degli accordi commerciali da parte di Belgrado, sarebbero state troppo abbondanti in Kosovo, a fronte di una scarsità di merci kosovare in Serbia. Il 15 e 16 febbraio si è svolto il criticatissimo referendum tra i serbi del Kosovo settentrionale, che al 99,74% si sono dichiarati, alla vigilia del quarto anniversario dell’indipendenza di Pristina, contro la sovranità del Kosovo e le sue istituzioni. Il referendum, privo di valore giuridico, minava soprattutto i piani del presidente serbo Tadic, ostacolandone l’accreditamento presso le istituzioni europee proprio sulla cruciale questione dei rapporti con Pristina. All’inizio di giugno 2012 si riaccendeva la violenza nel Nord del Kosovo, ove manifestanti serbo-kosovari si sono scontrati con militari della KFOR impegnati a smantellare alcune barricate erette nell’estate 2011 al confine con la Serbia per protestare contro la presenza di poliziotti kosovari albanesi ai posti di confine: il bilancio non ha fortunatamente registrato vittime, ma tre manifestanti e due militari NATO sono rimasti feriti. Il 10 settembre, quattro anni e mezzo dopo la proclamazione dell’indipendenza del 2008, il Kosovo ha raggiunto, almeno sul piano formale, la piena sovranità: è infatti cessata la supervisione sul paese esercitata fino a quel momento dall’ISG (Gruppo internazionale di orientamento sul Kosovo, composto da 25 Stati sostenitori della prima ora di Pristina).
Se la Comunità internazionale sembra aver riconosciuto a Pristina sostanziali progressi sulla via della democrazia e dello Stato di diritto, non va dimenticato che la sovranità del paese è rimasta a lungo contestata dai serbo-kosovari residenti nel nord, nonché dalla stessa Serbia, il cui premier Ivica Dacic ribadiva in un primo tempo anch’egli che Belgrado non avrebbe mai riconosciuto l’indipendenza kosovara – anche se i colloqui tra le parti, con il decisivo impulso della UE, hanno raggiunto qualche risultato distensivo. L’accordo sulla gestione integrata delle frontiere tra serbi, kosovari e missione europea EULEX, in procinto di entrare in vigore in metà delle sei postazioni dal 10 dicembre 2012, provocava comunque nuove minacce dei serbi del nord del Kosovo, intenzionati a rifiutare in ogni modo il solidificarsi di una vera frontiera con la Serbia e le sue implicazioni, come l’eventuale imposizione di dazi o l’obbligo di servirsi di documenti kosovari. Tuttavia, per uno dei frequenti paradossi della politica, proprio il governo serbo di impronta teoricamente più nazionalista succeduto al periodo di Tadic e capeggiato da Dacic si è spinto nel marzo 2013 ad ammettere che in qualche modo il Kosovo non va più considerato parte della Serbia, e che sarebbe tempo per tutti i serbi di prenderne atto, superando le bugie raccontate a lungo negli anni passati.
La Macedonia pativa nel 2008 una duplice cocente delusione, a partire dal vertice NATO di Bucarest in aprile, quando la Grecia, sollevando nuovamente la questione annosa della denominazione “Macedonia” - che secondo Atene potrebbe portare con sé in futuro rivendicazioni sulla parte nord del territorio ellenico, per l’appunto la regione storica della Macedonia – poneva il veto all'ingresso di Skopje nell'Alleanza atlantica. Lo smacco subito provocava un terremoto politico interno e nuove elezioni per il Parlamento unicamerale macedone, che si svolgevano all'inizio di giugno in un contesto assai violento, e facevano registrare una netta vittoria del Partito democratico per la unità nazionale macedone di Gruevski, già al governo, che guadagnava 18 seggi sui 120 a disposizione, salendo a 63, mentre il Partito socialdemocratico di opposizione scendeva da 32 a 27 seggi. Il 28 luglio l’esecutivo macedone guidato da Gruevski riceveva l'approvazione del Parlamento, mentre i socialdemocratici in lotta cambiavano il proprio leader, scegliendo Zoran Zaev. Nonostante la sua impostazione nazionalistica il nuovo governo il 9 ottobre procedeva a riconoscere l'indipendenza del Kosovo, con una mossa volta ad aggregare il consenso della consistente minoranza albanese presente anche in Macedonia. Una nuova delusione era però dietro l'angolo, quando in novembre il periodico rapporto della Commissione europea non indicava alcuna data per l'inizio dei negoziati con la Macedonia per l'adesione all'Unione europea.
Cionondimeno, il vento in poppa alla fortuna politica di Gruevski non sembrava scemare, anche in ragione dell'alleanza di governo con il partito etnico albanese dell’Unione democratica per l'integrazione: così nell’aprile 2009 il candidato di Gruevski Ivanov diveniva il nuovo Presidente della Repubblica, sconfiggendo al ballottaggio con grande distacco il candidato socialdemocratico - il Presidente in carica, l’ex leader socialdemocratico Cervnkovski, aveva rinunciato a correre per un secondo mandato. La persistente debolezza dei socialdemocratici veniva posta in relazione soprattutto all'atteggiamento più possibilista nei confronti della Grecia, mentre si rivelava pagante la condotta più ferma di Gruevski - alla quale peraltro non corrispondevano risultati entusiasmanti.
Il panorama politico macedone veniva inoltre agitato da alcuni segnali di consolidamento e di aggressività delle frange più nazionaliste della maggioranza slavo-ortodossa macedone. Alla fine dell'anno, subito dopo la delusione per il nuovo veto greco alla fissazione della data di inizio dei negoziati di adesione della Macedonia alla UE, il paese poteva finalmente festeggiare almeno l'esenzione dal visto per i propri cittadini diretti nei paesi dell'area Schengen, una misura molto importante in un momento di elevata disoccupazione e di recessione economica.
Nel 2010, dopo ormai cinque anni dall'ottenimento dello status di paese candidato all’adesione, la Macedonia vedeva ancora una volta slittare la data di inizio dei relativi negoziati, con la Commissione europea che stavolta metteva l'accento sulle preoccupazioni concernenti la libertà di parola, la politicizzazione dei tribunali e le pressioni di natura politica sui pubblici dipendenti. Non contento dei progetti faraonici di costruzioni monumentali nella capitale Skopje, volte a celebrare la grandezza della Macedonia storica - progetti capaci al tempo stesso di scontentare l'opposizione socialdemocratica per il livello delle spese previste, nonché la minoranza albanese e ovviamente la Grecia-, in novembre il governo organizzava un'azione di polizia nei confronti di una emittente televisiva favorevole all'opposizione. Alle polemiche conseguenti le autorità macedoni reagivano provocando alla fine il ritiro dalla Macedonia del capo delegazione UE in loco.
Il 5 giugno 2011, sulla spinta di ripetute richieste delle opposizioni, convinte di poter ribaltare la situazione politica, si svolgevano elezioni legislative nelle quali la coalizione di maggioranza al governo restava solida, pur arretrando di qualche seggio. In luglio le preoccupazioni per la libertà dei media in Macedonia si confermavano quando, con l’accusa di evasione fiscale, veniva chiusa una stazione televisiva che di recente aveva duramente attaccato il governo – nel frattempo erano stati chiusi con le stesse motivazioni tre giornali dello stesso gruppo editoriale. Nonostante poi la prosecuzione muscolare dei progetti di edilizia monumentale storico-macedone nella capitale, il veto greco legato alla questione del nome impediva ancora una volta l’inizio dei negoziati per l’adesione alla UE – anche se in dicembre la Corte internazionale di giustizia dava ragione a Skopje per la violazione di un impegno greco del 1995 a non ostacolare l’accesso macedone ai consessi internazionali.
In Montenegro la tarda primavera del 2008 vedeva il rafforzamento dello schieramento che, raccolto attorno a Milo Djukanovic, aveva guidato il paese all’indipendenza dalla Serbia: infatti il candidato di Djukanovic, il Capo dello Stato in carica Vujanovic, si aggiudicava al primo turno la rielezione nelle presidenziali. L’indebolimento del blocco pro-serbo era permesso soprattutto dal ritmo sostenuto della crescita economica, veicolata soprattutto dzl turismo e dalle costruzioni. Il 9 ottobre 2008 il Montenegro riconosceva l’indipendenza del Kosovo, proclamata nella primavera precedente.
Il 29 marzo 2009 si svolgevano elezioni politiche anticipate, nelle quali la coalizione “Per un Montenegro europeo” di Djukanovic migliorava la sua posizione in Parlamento, salendo a da 41 a 49 seggi su 81. L’anticipo delle elezioni politiche rivelava secondo molti osservatori il grande fiuto di Djukanovic, poiché subito dopo la rinnovata fiducia dell’elettorato al consumato leader il paese veniva investito pesantemente dagli effetti della crisi economico-finanziaria internazionale, obbligando le autorità a pesanti tagli di bilancio. L’orientamento europeo della coalizione al governo veniva comunque premiato in dicembre, quando anche al Montenegro veniva concessa l’esenzione dal visto per l’ingresso dei propri cittadini nell’area Schengen.
Il singolare tempismo politico e d’immagine di Djukanovic veniva confermato nel dicembre 2010, quando, appena dopo aver raggiunto lo straordinario successo di veder riconosciuto al Montenegro lo status di candidato all’adesione all’Unione europea – sopravanzando altri paesi balcanici ritenuti precedentemente avvantaggiati sul piccolo Stato adriatico -; Djukanovic annunciava il 21 dicembre le sue dimissioni da premier, rimanendo tuttavia â€dominus’ nel suo Partito democratico dei socialisti. In tal modo Djukanovic svincolava la sua figura dalle correnti difficoltà economiche succedute al periodo d’oro di quasi tre anni che aveva seguito l’indipendenza, alle quali avrebbe dovuto far fronte il suo successore Igor Luksic, già ministro delle finanze. Il 23 maggio 2010, nelle elezioni amministrative, la coalizione di governo aveva ancora una volta pesantemente battuto l’opposizione, sulla quale veniva abilmente fatta gravare l’ipotesi che si trattasse di una quinta colonna del revanscismo serbo in Montenegro.
Il 10 maggio 2012 il Primo ministro montenegrino Luksic ha incontrato a Roma l’omologo italiano Mario Monti, constatando l’eccellente stato dei rapporti commerciali tra i due Paesi, nonché il convinto sostegno di Roma all’integrazione europea di Podgorica. Il Montenegro ha poi registrato grandi progressi sulla via dell’integrazione europea, con l’inizio, il 29 giugno 2012, dei negoziati per la futura adesione all’Unione europea. Il 14 ottobre le elezioni politiche hanno visto la riconferma della coalizione di centro-sinistra dell’inossidabile leader Djukanovic, ma per la prima volta in dieci anni non è stata raggiunta la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, obbligando il consumato leader a stabilire accordi di governo con altre formazioni politiche.
La situazione della Serbia all’inizio della XVI Legislatura, quando ormai l’indipendenza del Kosovo era stata dichiarata, vedeva la presidenza filoeuropeista di Boris Tadic, la cui elezione di stretta misura era avvenuta a dispetto della precedente alleanza con il premier Kostunica, di tendenza nazionalista: questi, dopo l’indipendenza del Kosovo, ruppe l’alleanza con i democratici e chiese nuove elezioni, fissate per l’11 maggio. In questa occasione l’affermazione dei democratici filoeuropeisti veniva favorita dalla firma, prima delle elezioni, dell’Accordo di associazione estabilizzazione UE-Serbia, nonché dall’annuncio di un grande investimento della FIAT nella storica fabbrica automobilistica serba della Zastava. Inoltre, l’affermazione dei filoeuropeisti veniva favorita dalle persistenti divisioni nel campo nazionalista, dove Kostunica si metteva a capo di una propria piccola coalizione, separata dai nazionalisti radicali guidati da Nikolic.
Il risultato vedeva i filoeuropeisti conquistare il 39% dei voti, a fronte di poco meno del 30% ai nazionalisti radicali e del 12% al gruppo di Kostunica. L’ago della bilancioa veniva ad essere il vecchio partito socialista già di Milosevic, e ora guidato da Ivica Dacic, che aveva ottenuto l’8% dei voti: la scelta di Dacic, abbastanza sorprendentemente rispetto ai trascorsi del suo partito, cadeva sul blocco filoeuropeo, mentre nelle file dei radicali nazionalisti si verificavano, sull’onda della disfatta, defezioni di rilievo, inclusa q uella di Nikolic, che dava vita ad un formazione nazionalista ma filoeuropea. I primi passi del nuovo governo (nato nel luglio 2008) non erano tuttavia troppo graditi alle cancellerie occidentali, in quanto, seppur con metodi pacifici e diplomatici, proseguiva la ferma opposizione serba all’indipendenza del Kosovo, incarnata soprattutto dal ministro degli esteri Vuk Jeremic. Va però sottolineato come, in presenza di una forte opposizione di impronta nazionalistica, al governo non restasse probabilmente altro che insistere sulla questione del Kosovo, anche in vista della sentenza della Corte internazionale di giustizia chiesta da Belgrado, al fine di contenere il possibile ritorno dei nazionalisti stessi, ansiosi di cavalcare l’orgoglio ferito dei serbi. D’altra parte l’arresto (21 luglio 2008) a Belgrado di Radovan Karadzic, ex capo e ideologo dei serbo-bosniaci nei tragici anni della guerra civile in Bosnia, costituiva un’ottima credenziale per il nuovo governo serbo.
Nel 2009 proseguiva la politica del doppio binario delle autorità serbe, che guardavano simultaneamente all'Unione europea e alla Russia. Nei confronti di Bruxelles alla fine dell'anno il governo serbo incassava i profitti della collaborazione prestata al Tribunale internazionale sui crimini nella ex Jugoslavia, con il via libera all'Accordo di associazione tra Serbia ed Unione europea che era rimasto congelato per 20 mesi. Inoltre, ai cittadini serbi veniva accordata l'esenzione dal visto di ingresso nell'area Schengen. Il 23 dicembre la Serbia si spingeva a presentare domanda formale per ottenere lo status di candidato all'ingresso nell'Unione europea. Al tempo stesso il governo serbo continuava ad appoggiarsi alla Russia, sia per quanto riguarda la battaglia sul Kosovo, sia come partner economico chiave, soprattutto in riferimento al progetto del gasdotto Southstream, che avrebbe dovuto portare il gas russo in Europa attraversando tra l'altro il territorio serbo.
Le autorità serbe, nel luglio 2010, veniva fortemente deluse dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia che non rilevava nella dichiarazione d'indipendenza del Kosovo alcuna violazione del diritto internazionale: la reazione serba era tuttavia assai moderata, e l’Unione europea ricompensava questo atteggiamento con la formale accettazione della richiesta per ottenere lo status di paese candidato presentata dalla Serbia nel dicembre 2009. Un altro gesto di grande valore simbolico era la visita del presidente Tadic in novembre a Vukovar, città croata teatro di un infame massacro nel 1991 da parte delle truppe serbe.
Nel maggio 2011 la Serbia compiva un altro passo fondamentale nella collaborazione con il Tribunale ONU sui crimini nella ex Jugoslavia, catturando in un villaggio a nord della capitale Ratko Mladic, il capo militare dei serbo-bosniaci negli anni della guerra civile, ricercato soprattutto in relazione al terribile massacro di Srebrenica contro i musulmano-bosniaci. Tuttavia le speranze del governo serbo di ottenere finalmente lo status di paese candidato all’adesione alla UE venivano frustrate dalla grave crisi innescata in luglio nel nord del Kosovo dal tentativo delle autorità di Pristina di affermare la loro sovranità sulla frontiera con la Serbia, che provocava una durissima reazione dei serbo-kosovari ivi residenti, coinvolgendo anche alcuni continfenti della missione KFOR. Belgrado veniva indirettamente coinvolta nei tumulti in quanto il suo rifiuto di riconoscere l’indipendenza del Kosovo equivaleva ad un incoraggiamento ai serbo-kosovari, e configurava comunque uno stato di cattive relazioni con un paese vicino (il Kosovo), che secondo la cancelliera Angela Merkel contraddiceva i requisiti per l’ingresso nell’Unione europea.
Il 24 febbraio 2012, nell’ambito del Forum di dialogo tra Kosovo e Serbia, venivano raggiunti degli accordi giudicati molto positivi dall’Unione europea: in particolare, si è concordato sulla partecipazione del Kosovo, assieme a Belgrado, ai Forum regionali, nonché sull’applicazione dell’accordo sulla gestione integrata delle frontiere, anche per porre rimedio agli scontri ripetutamente verificatasi ai confini settentrionali del Kosovo. Non a caso il 1º marzo il Consiglio europeo di Bruxelles riconosceva alla Serbia lo status di paese candidato all’adesione all’Unione europea, premiando chiaramente la politica riformista ed europeista del presidente Tadic. Sette giorni dopo il premier italiano Mario Monti si recava a Belgrado con un’ampia delegazione governativa per il secondo vertice bilaterale Italia-Serbia, e confermava il forte sostegno italiano al processo di integrazione europea del paese balcanico. Il 6 maggio 2012 si sono svolte in Serbia congiuntamente le elezioni presidenziali, legislative e municipali: va infatti ricordato che il presidente in carica Boris Tadic si era dimesso anticipatamente proprio allo scopo di far convergere in un unico giorno le tre scadenze elettorali. Le elezioni legislative e quelle presidenziali si sono svolte anche per i serbi residenti nel Kosovo, dopo un accordo tra Belgrado e Pristina mediato dall’OSCE, impegnata anche nel monitoraggio del processo elettorale nell'intera Serbia.
Naturalmente sul territorio kosovaro l’OSCE ha potuto avvalersi della collaborazione della missione internazionale KFOR e della missione europea EULEX, e le operazioni di voto si sono svolte senza incidenti. I risultati hanno visto una leggera prevalenza di Tadic nelle presidenziali, non tale comunque da risparmiargli di affrontare il suo antagonista Tomislav Nikolic nel ballottaggio; mentre nelle elezioni legislative ha prevalso con oltre il 24% dei consensi il partito del Progresso serbo dello stesso Nikolic, di impronta conservatrice moderata, nei confronti del Partito democratico e più fortemente europeista del presidente uscente Tadic, che non è andato oltre il 22% dei voti. In entrambi i casi, tuttavia, una grande affermazione è stata quella di Ivica Dacic, capo del Partito socialista serbo - a suo tempo fondato da Slobodan Milosevic, ma che dopo la caduta di questi è stato progressivamente traghettato da Dacic su lidi meno nazionalisti e più apertamente progressisti, senza dimenticare neanche la prospettiva europea del paese. Dacic infatti ha riportato il 14% dei consensi sia nelle presidenziali che a favore del suo partito nelle legislative, ponendosi così quale futuro ago della bilancia per la formazione del nuovo governo della Serbia. Il 20 maggio il ballottaggio si è risolto a sorpresa a favore di Nikolic, che ha sconfitto contro quasi tutte le previsioni il presidente uscente Boris Tadic.
Il 31 maggio il neopresidente serbo, il conservatore (ex ultranazionalista) Tomislav Nikolic, ha giurato in Parlamento: qui in un breve discorso ha messo in chiaro che la prospettiva europea della Serbia – recentemente ammessa quale paese candidato all’adesione all’Unione europea - non puo' in nessun modo comportare la rinuncia al Kosovo. In tal senso Nikolic ha auspicato una rapida ripresa dei negoziati con Pristina. Nikolic ha tenuto anche a restituire importanza ai tradizionali legami tra Belgrado e Mosca, favoriti dal suo rapporto personale con il presidente Putin. Il giorno successivo, in un’ intervista alla televisione montenegrina, Nikolic, pur riconoscendo il crimine consumato da esponenti serbi a Srebrenica nel 1995, ne ha negato il carattere di genocidio, destando allarme nel presidente di turno della presidenza tripartita bosniaca, il musulmano Bakir Izetbegovic, secondo il quale le parole di Nikolic sollevano dubbi sulle sue vedute nei confronti dell’Europa.
Dopo quasi tre mesi dalle elezioni legislative, il 27 luglio la Serbia ha visto il via libera parlamentare all’insediamento del nuovo governo presieduto dal socialista Ivica Dacic, a capo di una coalizione di tre forze politiche dominata dai conservatori nazionalisti (il Partito del progresso serbo) del neopresidente Nikolic e dai socialisti. Dacic ha subito tenuto a rassicurare la Comunità internazionale, e soprattutto l’Europa, contro gli spettri del passato, poiché non si dovranno temere ripensamenti sulla via dell’integrazione europea di Belgrado, inserita tra le priorità del nuovo esecutivo. Queste promesse di Dacic sembrano trovare piena conferma proprio ora, nel marzo 2013: Dacic infatti, rilasciando un’intervista, si è spinto ad ammettere che in qualche modo il Kosovo non va più considerato parte della Serbia, e che sarebbe tempo per tutti i serbi di prenderne atto, superando le bugie raccontate a lungo negli anni passati. Si ricorda infine che il 30 luglio vi era stata la visita a Belgrado del Ministro degli Esteri Giulio Terzi, durante la quale è stato ribadito l’appoggio italiano al cammino europeo della Serbia, che avrà bisogno anche della ripresa positiva del dialogo con Pristina per una soluzione definitiva della questione kosovara. Si è inoltre constatato l’elevato livello degli investimenti italiani in Serbia e dell’interscambio commerciale tra i due Paesi, auspicandone un’ulteriore crescita.
Per quanto concerne l'attività legislativa, nella XVI Legislatura vi sono stati diversi provvedimenti di interesse dell'area dei Balcani occidentali: anzitutto va ricordata la legge 30 dicembre 2008, n. 220, con la quale il Parlamento ha autorizzato la ratifica dei protocolli di adesione dell'Albania e della Croazia alla NATO. Inoltre il decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, all'articolo 8, comma 5-quinquies, ha dettato disposizioni in ordine ad attività di cooperazione con la Repubblica di Albania in ambito di protezione civile.
Il Parlamento ha inoltre autorizzato la ratifica della Convenzione con la Croazia per evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali (legge 29 maggio 2009, n. 75), nonché dell’Accordo italo-croato in materia di cooperazione culturale e d’istruzione (legge 31 agosto 2012, n. 164).
Va anche ricordato che con legge 10 luglio 2009, n. 98 il Parlamento ha autorizzato la ratifica dell'Accordo sulla Forza multinazionale di pace per l'Europa sud-orientale, come anche degli Accordi di stabilizzazione e associazione dell'Unione europea con il Montenegro (legge 13 ottobre 2009, n. 156), con la Bosnia-Erzegovina (legge 8 giugno 2010, n. 97) e con la Serbia (legge 13 agosto 2010, n. 151). Più recente, e di grande importanza, è stata l’autorizzazione alla ratifica del Trattato di adesione della Croazia all’Unione europea (legge 29 febbraio 2012, n. 17).
Le minoranze italiane in Croazia e Slovenia sono state oggetto del comma 23-ter dell’art. 1 del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194: il comma 23-ter, tra l’altro, ha rifinanziato per il 2011 e il 2012 la legge 73/2001, recante interventi a favore di dette minoranze. Sull'argomento la legislazione è ritornata con la legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), che all'art. 1, comma 295 rifinanzia gli interventi previsti dalla legge 73/2001 nella misura di 3,5 milioni di euro per ciascuna annualità del triennio 2013-2015.
Si ricorda infine che il Parlamento ha esaminato a più riprese provvedimenti per la proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali, tra le quali molte riguardano Paesi balcanici: da ultimo, si tratta del decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227, che estende l’impegno italiano nelle missioni internazionali dal 1° gennaio al 30 settembre 2013.
Per quanto concerne l'attività non legislativa, già dall'inizio della XVI Legislatura l'interesse per le problematiche dell'area dei Balcani occidentali era emerso nelle comunicazioni del Presidente della Commissione Esteri della Camera (seduta del 4 giugno 2008) in merito alla partecipazione di una delegazione composta da deputati e senatori alla Riunione interparlamentare sui Balcani occidentali, svoltasi a Bruxelles il 26 e 27 maggio 2008. Si segnala altresì che nella seduta del 12 novembre 2008 la Commissione Difesa della Camera ha ascoltato comunicazioni del Presidente sulla missione svolta il 21 e 22 ottobre presso il contingente militare italiano presente in Kosovo.
Il 10 e 11 dicembre 2008 una delegazione della Commissione Esteri guidata dal Presidente On. Stefani si è recata in missione in Serbia, e il Presidente ha riferito al proposito nella seduta del 18 dicembre 2008. La delegazione, invitata dalla Commissione Esteri dell'Assemblea nazionale serba, ha incontrato i vertici parlamentari e governativi del Paese - eccezion fatta per il Capo dello Stato -, oltre al Ministro degli Esteri e al Presidente dell'omologa Commissione parlamentare serba. Dai colloqui è emersa la situazione di sostanziale stabilità della regione, nonché la volontà serba di procedere sollecitamente all'integrazione nelle strutture dell'Unione europea.
Quali atti parlamentari rilevanti con riferimento ai Balcani occidentali vanno ricordate due risoluzioni (7-00107 e 7-00194) presentate dal Presidente della Commissione Esteri della Camera, on. Stefano Stefani, riguardanti rispettivamente l'integrazione europea della Serbia e dei Balcani occidentali. La risoluzione 7-00194, nella seduta del 21 luglio 2009 è stata discussa e approvata in un nuovo testo (risoluzione conclusiva 8-00049), con il quale si impegna principalmente il Governo a concorrere al mantenimento degli impegni dell'Unione Europea in materia di integrazione dei paesi dei Balcani occidentali, prevenendo, anche sulla base del piano italiano in otto punti, possibili correnti di euroscetticismo e delusione nei paesi balcanici verso le istituzioni europee. La risoluzione 7-00107, invece, è stata discussa e approvata all'unanimità, senza modificazioni, nella seduta della Commissione Esteri del 22 gennaio 2009. La risoluzione impegna il Governo, tra l’altro, ad adoperarsi per rendere possibile l'applicazione provvisoria dell'Accordo di stabilizzazione e associazione (ASA) della Serbia all'Unione europea - firmato nell'aprile del 2008 e ratificato nel settembre 2008 dall'ssemblea nazionale serba -, nonché per consentire ai cittadini serbi un accesso privilegiato nell'area Schengen, mediante una liberalizzazione dei visti.
Successivamente si svolgeva l’audizione, il 17 febbraio 2010 presso la Commissione Esteri della Camera, del sottosegretario Alfredo Mantica, il quale si soffermava prevalentemente sugli sviluppi nel Kosovo e in Bosnia-Erzegovina, nell'imminenza della missione nei Balcani che una delegazione della Commissione Affari esteri avrebbe svolto di lì a poco dal 1° al 3 marzo.
Il 25 maggio 2010 vi era la discussione e approvazione, presso la Commissione Affari esteri della Camera, della risoluzione 7-00339 del presidente, On. Stefani, riguardante i processi di integrazione europea dei Balcani in vista del Vertice di Sarajevo, che impegna il Governo a una forte azione per favorirne il buon esito, definendo anzitutto con i partner europei un percorso preciso nella direzione sperata.
Proprio in riferimento all’integrazione in Europa della regione balcanica va ricordata la missione svolta dal 20 al 22 marzo 2012 da una delegazione della Commissione Esteri guidata dal Presidente On. Stefani, poche settimane dopo che il Parlamento italiano aveva autorizzato la ratifica del Trattato di adesione di Zagabria alla UE: nella seduta del 28 marzo 2012 il Presidente Stefani ha reso comunicazioni sugli esiti della missione.
Osservatorio di politica internazionale
Domenica 14 ottobre 2012, si sono svolte in Montenegroelezioni parlamentari anticipate.
I risultati della consultazione sono i seguenti:
PARTITO |
% voti |
SEGGI |
Montenegro europeo Unione democratica dei socialistiDPS, Partito Social democratico SDP, Partito liberale LPCG |
45,6 |
39 |
Nuovo Fronte democratico Nuova democrazia serba NSD, Movimento per il cambiamento GZP, Partito di pensionati, invalidi e per la giustizia sociale |
23,7 |
20 |
Partito popolare Socialista SNP |
10,5 |
9 |
Positive Montenegro |
8,9 |
7 |
Partito Bosniaco BS |
4,5 |
3 |
Forca per Bashkim |
1,4 |
1 |
Coalizione albanese |
1,1 |
1 |
Croatian Civic Initiative |
1 |
1 |
L’affluenza alle urne è stata del 69,6%, in netto aumento (+3,41) rispetto al dato rilevato in occasione delle elezioni anticipate del 2009.
Il Parlamento monocameraledel Montenegro (Skupstina) è composto di 81 deputati, eletti ogni quattro anni con sistema proporzionale (metodo d’Hondt) e soglia di sbarramento del 3% nell’ambito di un’unica circoscrizione nazionale. Per i partiti rappresentativi delle minoranze albanesi e croate è prevista una soglia, rispettivamente, dello 0,7% e dello 0,4%.
Come ampiamente previsto dai sondaggi, le elezioni sono state vinte da Montenegro europeo, la coalizione formata dall’Unione democratica dei Socialisti, la formazione (erede della Lega dei comunisti del Montenegro) che da un ventennio domina la scena politica del Paese e che esprime il premier uscente Igor Luksic ed è guidata da Milo Djukanovic (Capo del governo dal 2003 al 2010), e dal Partito socialdemocratico di Ranko Krivokapic, due partiti alleati e al potere sin dal 1998. Tuttavia, per la prima volta da 11 anni, la coalizione non ha ottenuto la maggioranza assoluta nel Parlamento monocamerale montenegrino, avendo conquistato 39 degli 81 seggi in palio (nel 2009 ne aveva ottenuti 48).
Tale circostanza viene letta dagli analisti come un esito di modifiche apportate alla legge elettorale nel settembre 2011 e volte a consentire ai partiti che rappresentano minoranze nazionali di presentarsi da soli alle elezioni, possibilità che in precedenza era riservata alla sola minoranza albanese (Con riferimento alla composizione etnica del Montenegro, secondo dati rilevati con il censimento della popolazione nel 2003, il 43% della popolazione è montenegrina, i Serbi ammontano al 32%, i Bosgnacchi - Bosniaci musulmani - all’8%, gli Albanesi al 5%; la popolazione complessiva del paese è di circa 657.300 unità – Stime: luglio 2012).
Per poter governare la coalizione vincente, pertanto, non potrà fare a meno dei partiti delle minoranze, ai quali si aprono spazi di manovra per avanzare nuove richieste
L'opposizione, raccolta nella coalizione Nuovo fronte democratico guidata da Miodrag Lekic, ex ambasciatore jugoslavo a Roma ed ex Ministro degli esteri, si è dichiarata soddisfatta poiché per la prima volta le forze di governo guidate da Milo Djukanovic non hanno ottenuto la maggioranza assoluta.
Quelle tenutesi il 14 ottobre scorso sono le none elezioni politiche dopo che è stato introdotto il sistema multi-partitico pluralista in Montenegro, le terze da quando, nel 2006, Podgorica ha proclamato l’indipendenza dall’Unione di Serbia e Montenegro, ultimo stadio della progressiva disgregazione della Federazione jugoslava. Le prime elezioni amministrative multipartitiche si sono svolte nel dicembre 1990, quando vinse la Lega dei comunisti del Montenegro (SKCG), partito che cambierà il nome in Partito Democratico dei Socialisti (DPS), formazione-cardine delle maggioranze parlamentari succedutesi da allora.
Lo svolgimento delle elezioni parlamentari anticipate è stata determinata dal voto parlamentare del 26 luglio scorso, che ha visto convergere sulla decisione di sciogliere anticipatamente il Parlamento gli esponenti del DPS dell’allora primo ministro Igor Luksic e del Presidente della Repubblica Filip Vujanovic, quelli del Partito socialdemocratico, i rappresentanti del Partito bosniaco (BF) di Rafet Husovic e dell’Unione Democratica degli Albanesi (DUA-UDSh) di Ferhat Dinosa; 47 i voti a favore dello scioglimento, 27 i contrari.
La decisione dello scioglimento anticipato sarebbe stata assunta, secondo quanto affermato da esponenti del DPS, in ossequio alla necessità di garantire lo svolgimento del processo di adesione del Montenegro all’Unione europea avendo organi legislativi ed esecutivi nella pienezza del loro mandato. Con un’analoga motivazione il Parlamento montenegrino venne sciolto anticipatamente anche nel 2009 - le elezioni si svolsero il 29 marzo -, quando Igor Luksic, allora Vice Primo Ministro, sostenne che con un governo e un parlamento nel pieno del loro mandato il Paese avrebbe potuto più efficacemente contrastare la crisi economica e finanziaria.
Le opposizioni hanno accusato l’esecutivo di anticipare l’appuntamento elettorale per sottrarsi al calo di consensi che deriverà dalle misure economiche che dovranno essere intraprese nei prossimi mesi, e nel timore di dover affrontare una stagione difficile come quella che ha contrassegnato la prima parte del 2012 e che ha indotto taluni osservatori a parlare di “Primavera montenegrina”.
Quanto al percorso di adesione del Montenegro all’Unione europea, il 29 giugno 2012 si sono aperti i relativi negoziati per l’adesione; Podgorica si era vista riconoscere lo status di candidato ufficiale il 17 dicembre 2010, due anni dopo aver depositato la domanda. Nel suo ultimo rapporto annuale, la commissione Ue ha rilevato che il Montenegro deve fare progressi sopratutto nei campi dello stato di diritto e della lotta a corruzione e criminalità.
L’OSCE, nella sua relazione preliminare sulle consultazioni montenegrine, le ha ritenute pluralistiche e svolte nel rispetto dei diritti fondamentali, pur sottolineando la necessità di instaurare un clima di fiducia.
L’Assemblea parlamentare dell’OSCE è stata invitata dal Presidente del Parlamento montenegrino, Ranko Krivokapic, ad osservare le elezioni parlamentari in Montenegro. Il Presidente dell'Assemblea OSCE, on. Riccardo Migliori, ha deciso di inviare gli osservatori parlamentari ed ha nominato Roberto Battelli (Slovenia), Capo della delegazione dell’Assemblea OSCE. L’on. Battelli è stato altresì nominato Coordinatore Speciale degli osservatori di breve periodo dal Presidente in esercizio dell’OSCE (attualmente detenuta dall’Irlanda). Alla missione di osservazione delle elezioni hanno partecipato, in quanto componenti della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare dell’OSCE, gli onn. Claudio D’Amico e Matteo Mecacci ed i senn. Giuseppe Caforio (IdV) e Mauro Del Vecchio (PD), che hanno svolto le proprie funzioni di osservatori nella capitale montenegrina.
Indicatori internazionali sul paese:
Libertà politiche e civili: Stato libero (Freedom House 2012);
Libertà di stampa: 107 su 179 (Reporters sans Frontières 2011-2012)
Libertà religiosa: assenza di eventi significativi (ACS);
Libertà economica: moderately free, 72 su 179 (Heritage foundation)
Corruzione percepita: 66 su 182(Transparency International 2011)
Gap nella differenza di genere: dati non disponibili (World Economic Forum 2012)
PIL 2012: 0.2% (outlook IMF ottobre 2012).
Una delle novità che ha maggiormente caratterizzato lo scenario internazionale negli ultimi anni è rappresentata la graduale affermazione di un aggregato geoeconomico, identificato dall'acronimo BRICS, formato dal Brasile, dalla Russia, dall'India, dalla Cina e dal Sudafrica . La progressiva affermazione, acuitasi con la gravissima congiuntura economica internazionale, di nuove sedi e meccanismi di concertazione internazionale (ad esempio con l'emergere del G20) delinea inediti spazi d'intervento per queste nuove potenze geoeconomiche, chiamate da un lato a competere sulla scena mondiale con i ruoli tradizionalmente svolti dagli Stati Uniti e dalla altre potenze economiche occidentali ed a rivendicare, dall'altro, una leadership condivisa della Comunità internazionale.
BRICS è un acronimo, utilizzato in economia internazionale, che individua cinque paesi (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) accomunati da alcune caratteristiche simili, tra le quali: la condizione di economie in via di sviluppo, una popolazione numerosa, un vasto territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e sono stati caratterizzati, nell’ultimo decennio, da una forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale.
E’ stato l’analista Jim O’Neill, a fine 2001, ad identificare, in un documento redatto per la Banca di investimenti Goldman Sachs, un nuovo aggregato geoeconomico sulla base di queste caratteristiche comuni. I paesi presi inizialmente in considerazione erano: il Brasile, la Russia, l’India e la Cina. Secondo O’Neill queste nazioni avrebbero verosimilmente dominato l’economia mondiale del secolo appena iniziato e risultava dunque necessario inglobarle nell’economia mondiale egemonizzata dal sistema occidentale.
I paesi del BRICS comprendono oggi oltre il 42% della popolazione mondiale, il 25% della totale estensione della Terra, il 20% del PIL mondiale, e circa il 16% del commercio internazionale.
Il primo incontro informale tra i quattro paesi, promosso dal ministro degli esteri russo Lavrov, è avvenuto, a livello di ministri degli esteri, nel settembre 2006 a New York, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU. Successivamente i ministri degli esteri dei paesi BRICS, a parte la riunione tenuta nel maggio 2008 in Russia, si incontrano periodicamente a margine dell’Assemblea generale dell’ONU. E’ in questa sede che, nel settembre 2010, si è convenuto di invitare il Sudafrica a partecipare alle riunioni BRIC, modificando conseguentemente l’acronimo in BRICS. La prima posizione comune rilevante in sede internazionale si è avuta con l’astensione in Consiglio di Sicurezza sulla Libia nel marzo 2011.
Il primo incontro, a livello di Capi di Stato e di governo dei paesi BRICS, si è invece svolto a Toyako (Giappone) il 9 luglio 2008, a margine del G8.
A questo primo vertice sono seguiti degli incontri annuali: a Ekaterinburg (Russia) il 16 giugno 2009, a Brasilia il 15 aprile 2010, a Sanya (Cina) il 14 aprile 2011 (a partire dal quale si è aggiunto il Sudafrica) e a New Delhi, il 29 marzo 2012. Il quinto vertice si svolgerà a Durban, in Sudafrica, il 25 e 26 marzo 2013 e avrà per tema “BRICS e Africa - partnership per l'integrazione e l'industrializzazione".
Accanto a queste attività diplomatiche sono iniziati e si sono consolidati incontri di settore ai diversi livelli: sia di governo (ministri economico finanziari - che si vedono regolarmente a margine del G20 e delle riunioni annuali del FMI e della BM -, dell’agricoltura, del commercio, della sanità, i consiglieri per la sicurezza nazionale); che di autorità di settore e di organizzazioni di imprese e attività economiche (forum d’affari, associazioni bancarie, istituti statistici, istituzioni accademiche).
La struttura portante dei BRICS fu inizialmente costituita dal triangolo asiatico formato da India, Cina e, soprattutto, Russia, che nel 2002 promosse la cooperazione tra questi paesi. Quando fu evidente che il limitato raggio di azione di un’alleanza fondamentalmente asiatica non era in grado espandere la propria influenza e la propria attrattiva di polo alternativo all’egemonia occidentale e, in particolare, statunitense, si rese necessaria l’aggregazione di altre potenze di altri continenti. La prima fu il Brasile, che costituiva la maggiore potenza del continente indio-latino nonché la quarta economia emergente a livello mondiale, e in seguito il Sudafrica, su pressione della Cina, che aveva nel frattempo realizzato una forte penetrazione economica e diplomatica in Africa.
Tutto questo ha permesso al gruppo di acquisire una maggiore rappresentatività geografica, accentuando il suo carattere dinamico e multipolare, ma non sarebbe però corretto interpretare i BRICS come un blocco omogeneo in grado di affermare una univoca concezione alternativa dell’ordine mondiale.
Le diversità tra i cinque paesi sono profonde: la Cina, per esempio, nel loro ambito, detiene il 55% del PIL e il 65% del commercio estero, produce oltre il 50% dell’energia e finanzia il 50% delle spese militari. L’India, che nel 2025 supererà la popolazione cinese, resta decisamente inferiore a Cina, Brasile e Russia, sia perla consistenza del PIL, che per dimensioni territoriali e disponibilità di risorse naturali.
Non vanno inoltre sottovalutati alcuni fattori di tensione, che potrebbero minare o condizionare la solidità e la stessa consistenza di questo nuovo blocco politico: Russia, Cina e India sono potenze con aspirazioni egemoniche competitive sul continente asiatico; India e Cina si confrontano – in alcuni casi duramente – per le risorse naturali in Africa e nei paesi vicini.
I BRICS non hanno inoltre, al momento, la capacità di proiettare una propria potenza a livello militare, anche se la quota della spesa militare è pari al 17% di quella mondiale (dati SIPRI 2011), contro il 41% dei soli Stati Uniti.
Questi Paesi non sono poi esenti da criticità interne, che potrebbero metterne in discussione sia il destino politico sia la prosperità economica: in India le ripercussioni sul sistema politico degli scandali per corruzione e delle connesse proteste popolari stanno rallentando il processo di riforme e modernizzazione; in Russia, il processo di modernizzazione dell’economia e della società è minacciato dall’incapacità delle élite politiche di introdurre nuovi modelli di gestione del potere; in Cina, la disuguaglianza crescente, le difficoltà del mercato immobiliare e la possibile diffusione del malcontento sociale potrebbero mettere in seria difficoltà il modello di crescita che finora ha garantito il successo del Paese; in Brasile, il governo di Dilma Rousseff, indebolito dalle continue dimissioni di ministri per corruzione, deve dimostrare la sua capacità di contrastare il riemergere dell’inflazione e il rallentamento dei tassi di crescita.
La Costituzione del 5 ottobre 1988, definisce il Brasile come una Repubblica federativa formata dall’unione indissolubile di 26 Stati e municipalità ed un Distretto federale, costituiti come stato democratico, sulla base dei principi di sovranità, cittadinanza, dignità della persona umana e sui valori del lavoro, della libera iniziativa e del pluralismo politico.
Per quanto riguarda il riparto delle funzioni tra centro e periferia, sono di competenza esclusiva della Federazione gli affari esteri, la politica socio-economica, il bilancio, l’energia, le telecomunicazioni; sono materie concorrenti l’educazione, la salute, la sicurezza sociale, la protezione dei beni culturali ed ambientali, lo sfruttamento delle risorse naturali, la lotta contro la povertà, la materia tributaria, finanziaria e la giustizia. Le rimanenti competenze sono dei soggetti della Federazione. Gli Stati federati, inoltre, sono responsabili dell’elezione dei propri Governatori a suffragio universale, diretto e segreto, per un periodo di quattro anni.
Dal punto di vista della forma di governo, il Brasile è una repubblica presidenziale federale.
Il Presidente è anche capo dell’esecutivo ed è eletto per 4 anni a suffragio universale diretto con sistema a doppio turno (con secondo turno di ballottaggio tra i due candidati con più voti, nel caso nessuno ottenga al primo turno la maggioranza assoluta dei voti validi).
Contestualmente alle elezioni presidenziali, si svolgono le elezioni per il Congresso nazionale, l’organo legislativo bicamerale composto dalla Câmara dos Deputados con 513 membri, e il Senado Federal, di 81 membri.
Il sistema di voto, è di tipo statale per l'elezione dei senatori: ogni stato elegge tre o due candidati in base al numero degli abitanti per un periodo di 8 anni (rinnovati per un terzo dopo i primi 4 anni e i restanti due terzi dopo altri 4 anni). Per l'elezione dei membri della Câmara dos Deputados, in carica per 4 anni, invece, si adopera un sistema proporzionale che tiene conto della popolazione complessiva di tutto il Paese.
Il suffragio è universale ed obbligatorio tra il 18 ed i 69 anni. E’ opzionale per gli analfabeti, per i cittadini oltre i 70 anni e per i giovani di 16 e 17 anni. Dal 2000 le operazioni elettorali si svolgono tramite l’utilizzo di un’urna elettronica.
Attuale Presidente della Repubblica Federativa del Brasile è Dilma Rousseff.
Nata a Belo Horizionte nel 1947, nello stato di Mina Gerais, da padre bulgaro e madre brasiliana, Dilma Rousseff ha intrapreso la carriera politica all’età di 16 anni, prendendo parte ai movimenti di sinistra contro la dittatura militare vigente in Brasile dal 1964 al 1985. Per questo fu catturata, incarcerata e torturata nel biennio 1970-72. Dopo la laurea in economia, con il marito Carlos Araùjo, ha contribuito alla fondazione delPartido Democràtico Trabalhista, Pdt. Nei primi anni ’90 fu Presidente della Fondazione di Economia e statistica. Nel 1993 fu Segretario del tesoro della città di Porto Alegre, ed, in seguito, Segretario per le miniere, l’energia e le comunicazioni nello Stato di Rio Grande do Sul. Nel 2000, ha lasciato il PDT e l’anno seguente aderì al Partido dos Trabalhadores (PT). Dal 2005 al 2010 è stata Capo di Gabinetto dell’ex Presidente Inàcio Lula da Silva e da questo nominata Ministro per le miniere e per l’energia. Lasciato l’incarico di Capo di Gabinetto nell’aprile 2010 per concorrere alla presidenza della Federazione è stata eletta il 31 ottobre 2010 al secondo turno, vincendo sull’avversario José Serra (PSDB) con il 56% dei suffragi. E’ la prima donna a ricoprire la più alta carica istituzionale dello Stato.
Nell’agenda politica brasiliana un ruolo centrale è occupato dallo sforzo di alimentare la crescita, anche di fronte alla crescente concorrenza cinese. Centrali sono anche i temi della riduzione delle disuguaglianze sociali, la lotta alla corruzione ed agli stupefacentie rafforzamento dello status internazionale del Paese attraverso i processi di integrazione regionale e un nuovo ruolo nei fori globali.
Il programma elettorale di Rousseff prevedeva una sostanziale continuità con la linea di Lula da Silva, orientato al mantenimento della stabilità macroeconomica ed al disegno di un modello market-friendly, pur auspicando un ruolo più attivo dello Stato e delle imprese statali (specie nei settori della finanza e della produzione energetica). L’obiettivo del nuovo Presidente è la Grande Trasformazione del Paese attraverso lo sradicamento della miseria e la creazione di migliori e più eque opportunità per la popolazione brasiliana. Sul piano economico l’impegno è di continuare a stimolare la crescita interna grazie alla mobilità sociale, rendendo pertanto, necessario un forte investimento in capitale umano e infrastrutture ed un incremento del tasso di risparmio nazionale.
A ciò si affianca l’attuazione di politiche redistributive volte alla riduzione della povertà e della disuguaglianza sociale, vera piaga del Paese. Tra esse, si ricorda il Programma di Accelerazione della Crescita (PAC2), già proposto da Lula da Silva: un insieme ambizioso di opere finalizzate al rafforzamento della crescita economica, all’adeguamento delle infrastrutture del Paese e all’eliminazione delle disuguaglianze sociali, articolato su quattro direttrici principali (trasporti, energia, edilizia popolare e opere di risanamento e bonifica), per un valore complessivo di investimenti di 680 miliardi di euro. Si segnala, inoltre, il proseguimento di iniziative sociali importanti quali il programma di welfare Bolsa Familia, che mira alla riduzione della povertà tramite un mix di assistenza sanitaria, istruzione e trasferimenti di denaro condizionati a determinate attività (mandare i figli a scuola, sottoporsi a vaccinazioni). Per far fronte all’emergente piaga del consumo di stupefacenti, che rischia di mettere in difficoltà il sistema sanitario nazionale, Roussef nel dicembre 2011 ha varato un piano per programmi di assistenza ai dipendenti da crak sia per iniziative di educazione e prevenzione, con un impegno finanziario di 2,2 mld di dollari.
Nell’attuazione del proprio programma, la Presidente Rousseff ha potuto valersi di una maggioranza parlamentare ampia ma assai eterogenea; infatti, il 3 ottobre 2010, in concomitanza con le consultazioni presidenziali, si sono svolte le elezioni dei governatori statali e dei membri del Congresso.
Le elezioni hanno restituito un Parlamento estremamente frammentato, legato al sistema elettorale proporzionale ed almultipartitismo estremo che caratterizza il sistema partitico brasiliano (vi sono 27 partiti politici, di cui 20 con almeno un deputato eletto alla Camera).
La formazione della Presidente, Il Partido dos Trabalhadores (PT) si è attestata come partito con il maggior numero di seggi alla Camera dei Deputati (88 su 513), seguito dal partito di orientamento centrista Partido da Social Democracia Brasileira, (PSDB, 79). Al Senato federale, invece, la situazione è ribaltata con il PSDB che si afferma come primo partito con 19 seggi su 81. Oltre al PT ed al PSDB, i principali partiti sono il Partido do Movimento Demoràtico Brasileiro (PMDB) e Democratas (DEM, 43 deputati). Il PT, partito di sinistra, e il PMDB, partito di centro, fanno parte della coalizione di governo insieme a una decina di altri partiti minori. Il PSDB, partito di centro, e il DEM, partito di destra, alleati tra loro, stanno all’opposizione.
La Presidente Roussef, delfina di Lula da Silva ha ereditato la popolarità dell’ex presidente ma ha mostrato di essere in grado di smarcarsi dal predecessore su alcuni temi controversi per l’opinione pubblica, mantenendo alto il livello di consensi. Si ricorda, in proposito la gestione del caso Antonio Palocci, Capo di Gabinetto del governo Rousseff, accusato di corruzione e fortemente sostenuto da Lula da Silva; tale scandalo si è concluso con la richiesta di dimissioni del ministro nel quadro di un piano di severa moralizzazione della politica portato avanti da Rousseff.
Dal punto di vista dell’attuazione del programma, occorre rilevare che la Presidente ha dovuto necessariamente mediare tra le posizioni assai eterogenee dei componenti della coalizione che la sostiene. Importanti successi sono stati: l’approvazione della legge di riforma delle pensioni, che ha ridotto il carico di Stato per le future pensioni; e la legge sul salario minimo; l’adozione delle leggi relative allo svolgimento di importanti eventi sportivi. Tuttavia il capo dell’esecutivo ha dovuto opporsi all’approvazione di diverse disposizioni del codice forestale che indebolivano fortemente la tutela ambientale sulla foresta amazzonica. Più in generale, il governo è stato riluttante a rischiare il rigetto in Parlamento di proposte assai controverse sul lavoro, sulla semplificazione del sistema fiscale e varie riforme politiche, omettendo di presentarle benché fortemente necessarie.
Nell’articolazione della politica estera del Brasile si individuano alcuni nodi fondamentali: maggiore attenzione alla tematica dei diritti umani; riforma delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza; miglioramento e ridefinizione delle relazioni economico-commerciali internazionali; promozione di investimenti nei settori scientifico-tecnologici.
I risultati conseguiti dal Brasile sul piano interno si sono tradotti in "un'aspettativa naturale" di un maggiore impegno del Paese a livello internazionale, in particolare in Sudamerica, nei Caraibi, in Africa, in Medio Oriente e in Asia.
L’area naturale d’interesse della politica estera brasiliana è, in primis, quella continentale. Il Paese aspira ad una posizione di leadership a livello regionale, garantendo la stabilità del sub-continente ed agendo come mediatore e promotore dei fenomeni di integrazione regionale, tanto commerciale quanto politica.
Nondimeno, il Brasile ambisce ad assumere un ruolo primario nella governance mondiale e ad acquisire influenza crescente in seno agli organismi internazionali, anche in relazione alla propria vivacità economica e demografica.
Tali obiettivi vengono perseguiti attraverso l’articolazione di relazioni multilaterali e bilaterali sulla base di un approccio più paritario e condiviso, e meno incentrato sul protagonismo brasiliano, che invece aveva caratterizzato l’ultima fase della presidenza Lula.
Con riferimento alla dimensione multilaterale regionale, si segnala la partecipazione a diverse organizzazioni regionali: l’Unione degli Stati sudamericani (UNASUR), la Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) ed il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR).
Per quanto riguarda le relazioni bilaterali con i Paesi dell’area, spicca la centralità dei rapporti con Buenos Aires, secondo partner commerciale di Brasilia. Un accordo bilaterale consente l’utilizzo, accanto al dollaro, delle rispettive valute nazionali nell’interscambio fra i due Paesi. Tuttavia si registrano alcuni attriti relativamente alla questione della riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sulle prospettive della neo-costituita UNASUR. Più tesi i rapporti con Paraguay e Uruguay, che lamentano una marginalità rispetto ai più grandi vicini. Con riferimento al primo stato, si ricorda la problematica rinegoziazione al rialzo dei costi di acquisto dell’energia elettrica non utilizzata dal Paraguai prodotta dalla centrale idroelettrica binazionale di Itaipù.
Da segnalare le ottime relazioni col Perù che potrebbero svilupparsi ulteriormente grazie alla prospettata costruzione del c.d. “corridoio transatlantico”, un asse stradale e ferroviario che dovrebbe unire i due Oceani attraversando i due Paesi. Buone anche le relazioni col Venezuela, terzo partner commerciale a livello regionale, che il Brasile mira ad includere nelle dinamiche regionali attraverso incontri trimestrali di vertice per trattare di temi politici, accordi in materia energetica e investimenti.
Più distese le relazioni con la Colombia, segnate nel recente passato da alcune incomprensioni durante la Presidenza Uribe per l’accordo militare con gli USA. Più fredde, invece, le relazioni con la Bolivia, che nel recente passato erano state ravvivate da Lula ed il Presidente Evo Morales. Per quanto riguarda i rapporti con i paesi dell’America centrale, una recente visita della Roussef a Cuba (gennaio 2012) ha chiarito l’obiettivo brasiliano del rafforzamento della presenza politica ed economica nell’isola (e in America centrale). Tale incontro, tuttavia, ha suscitato aspre critiche da parte dell’opposizione che ha ritenuto ambiguo l’atteggiamento del Governo brasiliano rispetto alla materia dei diritti umani, seguita con forte impegno sul piano interno, mentre sul versante internazionale permarrebbe la visione lulista che considerava quasi sacro il dominio riservato degli Stati.
Dal punto di vista della partecipazione ad organizzazioni internazionali, è importante sottolineare l’aspirazione brasiliana a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, quale dimostrazione visibile dei mutati rapporti di forza a livello globale e la crescente rilevanza del quadrante sudamericano. In generale, il Brasile tenta di fomentare la consapevolezza del peso economico dei Paesi dell’America Latina e si è speso affinché di ciò venga dato recepimento formale nell’architettura istituzionale delle principali organizzazioni internazionali, tra cui, oltre all’ONU, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Inoltre, il Paese rivendica una maggiore considerazione nel seno del G20, dove agisce per dare maggiore tutela agli interessi delle nazioni più povere. Si ricordano, in proposito, le pressioni esercitate in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio per la ripresa dei negoziati del Doha Round, nel senso di uno sviluppo e della crescita inclusiva. Tra i temi di interesse, in questo ambito, la liberalizzazione degli scambi agricoli e l’esclusione dei biocarburanti (di cui il Paese sudamericano è un importante produttore) dal dibattito in materia di volatilità dei prezzi delle materie agricole. Di altrettanto rilievo, il tema del contenimento della volatilità del tasso di cambio nel commercio internazionale, che rischia di penalizzare la competitività delle merci brasiliane a causa dell’apprezzamento eccessivo della valuta locale.
A margine del Vertice G8 di Evian, nel 2003, con il Sud Africa e l’India, il Brasile ha creato nel un meccanismo di coordinamento trilaterale(IBAS), con l’obiettivo di promuovere il dialogo Sud-Sud, attraverso programmi di cooperazione tecnica, di assistenza nell'adozione di politiche pubbliche di sviluppo e di aiuto umanitario.
I medesimi stati, insieme a Russia e Cina, costituiscono i c.d. paesi BRICS. Tale raggruppamento è percepito dal Brasile come una sede in cui poter soddisfare le proprie ambizioni di potenza emergente, compensando la percepita sottovalutazione da parte di Stati Uniti ed Europa, nonostante i successi politici ed economici conseguiti in anni recenti.
Il coinvolgimento del Sudafrica, fortemente voluto dal Brasile, determina l’evoluzione del gruppo nel senso di una maggiore rappresentatività globale, includendo anche l’Africa. Non è da escludere che ciò risponda alla volontà di evitare lo sbilanciamento eccessivo del gruppo verso il continente asiatico oltre che fungere da contenimento della preponderanza cinese.
Per quanto riguarda i rapporti del Brasile con l’Unione Europea, principale investitore nel Paese, occorre ricordare che essi si incardinano sul piano di partenariato strategico del 2007. Esso, ha favorito il consolidamento della cooperazione in 20 settori – dalla pace, sicurezza e dai diritti umani alle questioni economiche, sociali e ambientali di pari passo con l’espansione degli scambi commerciali. Da ultimo, il 24 gennaio 2013, il 6º vertice UE-Brasile di Brasilia, ha convenuto un approfondimento del dialogo politico per affrontare in modo coordinato le questioni delle sfide alla sicurezza globale ( traffico di stupefacenti, riciclaggio di denaro, corruzione), i cambiamenti climatici ed i temi della green economy.
I rapporti bilaterali con l’Italia sono sostanzialmente buoni, nonostante nel corso del 2011si sia registrata una certa tensione diplomatica a causa della mancata estradizione dal Brasile dell’ex terrorista italiano Cesare Battisti.
Per quanto riguarda il versante economico e delle prospettive di sviluppo, occorre rilevare che il Brasile presenta un’economia solida e con buone prospettive di sviluppo grazie anche all’abbondante dotazione di risorse naturali.
Negli anni recenti, il Paese ha sperimentato un prolungato periodo di crescita, caratterizzato da stabilità macroeconomica e finanziaria. Tra il 2004 e il 2008 il PIL è cresciuto del 5 % medio annuo ed il tasso di disoccupazione è diminuito di oltre quattro punti percentuali, consentendo ad oltre 30 milioni di persone di uscire dalla soglia di povertà. Nel periodo considerato, il rischio di crisi esterne si era ridotto notevolmente grazie all’accumulo di riserve valutarie internazionali dovuto al florido interscambio commerciale con l’estero. Ciò, unitamente ad un sistema bancario solido ha consentito al Brasile di risentire solo marginalmente degli effetti della crisi finanziaria globale del 2008 - 2009. Nonostante una decrescita del PIL del - 0,3%, dovuta al calo delle esportazioni e della produzione industriale, la ripresa è stata rapida in quanto il Governo è riuscito ad adottare tempestivamente le politiche anticicliche necessarie, portando ad una nuova crescita del prodotto interno lordo al livello del 2,7% nel 2011.
Nonostante il peggioramento congiunturale, il Brasile continua a rappresentare di gran lunga la prima economia del sub-continente sudamericano (il PIL brasiliano è stimato per il 2013 a 2,5034 miliardi di USD, contro 1.210 del Messico e 495 miliardi dell'Argentina). Dopo un moderato rallentamento (la crescita del PIL reale è scesa al 1% nel 2012 dal 2,7% del 2011), si prevede una ripresa della crescita nell’ordine del 3,5 % per il 2013, assumendo un recupero degli investimenti privati e un tendenziale miglioramento della congiuntura globale. La crescita economica sarà supportata anche dall'ingente mole di investimenti attesi per far fronte ai prossimi appuntamenti sportivi internazionali, quale la coppa del mondo di calcio FIFA World Cup 2014 ed i giochi Olimpici del 2016. Più in generale, tuttavia, la crescita dipenderà dall’incremento della produttività in quanto il contributo derivante dalle dinamiche di crescita del credito e della forza lavoro si indebolirà ( L’IFM stima un peggioramento del tasso di disoccupazione dal 6% del 2012 al 7% nel periodo 2013-2017).
Rilevante è il volume dell’interscambio commerciale con i principali Paesi europei. In particolare, nell'attività di import-export con l’Italia , il nostro paese si segnala per l'esportazione di forniture di macchinari industriali per impieghi generali e speciali; viceversa le importazioni italiane sono dominate da metalli, minerali e da prodotti di colture permanenti.
Con riferimento alle condizioni di esercizio concreto delle libertà politiche e civili, il rapporto 2013di Freedom House classifica la Repubblica Federativa del Brasile come “Stato libero” dunque in possesso dello status di “democrazia elettorale”. L’Economist intelligence uniti, nelDemocracy Index 2011, invece, segnala il Brasile quale “democrazia imperfetta”, in quanto, sebbene si svolgano libere elezioni ed i diritti civili siano pienamente rispettati, persistono criticità in materia di libertà dei media, problemi di governance, una cultura politica ancora non pienamente sviluppata e bassi livelli di partecipazione politica. Si segnala un peggioramento della libertà di stampa (Reporterssansfrontières, da 99 su 178 nel 2012 a 108 su 179 nel 2013 ); per quanto riguarda l’uso della rete internet, Freedom Housequalifica il paese come “libero”.
Rilevante è il dato sulla corruzione percepita, con il Paese che si attesta alla posizione 69 su 176.
Dal punto di vista dei diritti sociali, come si è detto, i Governi hanno adottato dei programmi di riduzione della povertà e della disuguaglianza assai efficaci. Nondimeno, la turbolenta crescita economica e i costi di tali programmi, hanno determinato profondi cambiamenti nel Paese, facendoemergere nuove sfide sociali che richiedono provvedimenti urgenti e di ampia portata. Tra essi, si segnala il problema dei prolungati scioperi in settori vitali dell'economia, che rendono inderogabile l’adozione di una nuova disciplina in tema di diritto allo sciopero, più in linea con le più articolate esigenze di una società complessa e in piena fase di sviluppo.
L’attuale Costituzione della Repubblica popolare cinese, adottata nel 1982 (le precedenti costituzioni sono quelle del 1954, del 1975 e del 1978), assegna il ruolo guida della società cinese al Partito comunista che compone, insieme ad altri otto partiti riconosciuti, la Conferenza consultiva politica del popolo cinese. A seguito delle riforme costituzionali del 1988, 1993 e 1999 tale ruolo guida convive con “un’economia socialista di mercato” e con il riconoscimento della proprietà privata.
La Costituzione formale descrive come supremo organo legislativo il Congresso generale del popolo, composto da 2.987 membri eletti indirettamente con un mandato di cinque anni dai congressi municipali, provinciali e regionali. Il presidente del Congresso generale del popolo, eletto dal Congresso stesso, esercita le funzioni di Capo dello Stato. Il congresso generale si riunisce per una sola sessione annuale. Quando non è in sessione gli affari correnti sono svolti dal Comitato permanente, eletto in seno al Congresso. Il Comitato esercita poteri di supervisione sul Consiglio di Stato, eletto anch’esso dal Congresso con compiti esecutivi (è, in sostanza il governo cinese, composto dal primo ministro, dai vice primi ministri e dai consiglieri di Stato). La Commissione militare centrale, anch’essa eletta dal Congresso generale, è invece il più alto organo militare dello Stato.
Secondo il rapporto 2013 di Freedom House, la Cina è uno “Stato non libero”, mentre il Democracy Index 2011 dell’Economist Intelligence Unit la definisce “regime autoritario”.
Nella costituzione materiale cinese, infatti, il principale centro di potere rimane il partito comunista cinese: tutti i livelli elettorali, tranne quelli relativi ai comitati di villaggio e dei piccoli centri urbani, dove si registra una maggiore concorrenzialità (in presenza però di organi dotati di scarso potere) vedono uno stretto controllo del partito, che designa i candidati e controlla il processo elettorale.
Per quel che concerne il concreto esercizio delle libertà politiche e civili, il grande sviluppo vissuto negli ultimi due decenni dalla società cinese e l’apertura all’esterno ha senza dubbio reso più difficile il controllo sociale da parte delle autorità, tuttavia fonti indipendenti confermano la presenza di realtà significative di repressione, alcune delle quali evolutesi alla luce della nuova situazione.
La libertà di stampa, nonostante la vivacità delle discussioni private e gli sforzi di singoli giornalisti di affrontare tematiche sensibili, come quelle legate alla corruzione o ai problemi ambientali, appare pregiudicata: in particolare le autorità governative consentono solo ai mezzi di comunicazione di massa di proprietà statale di “coprire” i principali eventi, previa intesa sulle immagini e i resoconti da mandare in onda. Le direttive del partito forniscono inoltre a tutti i giornalisti e operatori dei media linee-guida la cui violazione espone ad azioni legali e all’arresto. La Cina avrebbe anche elaborato tecnologie avanzate e pervasive di controllo dei siti Internet (la Cina ha il più alto numero di utenti Internet a livello globale: nel 2012 hanno toccato quota 564 milioni, con un aumento, nel solo ultimo anno, del 10%, grazie alla rapida diffusione di tablet e smartphone).
Anche le libertà di assemblea e di associazione appaiono sottoposte a severe restrizioni: in particolare, sono state stabilite misure per impedire ad eventuali manifestanti o sottoscrittori di petizioni antigovernative di raggiungere la capitale Pechino, misure che prevedono anche il ricorso da parte delle autorità locali alla detenzione illegale.
Dal punto di vista della libertà economica, il 2013 Economic Freedom Index della Heritage Foundation definisce la Cina, a dispetto delle riforme poste in essere negli ultimi decenni, “prevalentemente non libera”. Secondo il rapporto, le misure di liberalizzazione economica intraprese a partire dalla fine degli anni Settanta (e culminate nell’ingresso nel WTO nel 2001) appaiono infatti aver contribuito allo sviluppo di un robusto tessuto di medie imprese private e di imprese agricole (la proprietà della terra rimane formalmente dello Stato ma i privati possono scambiare affitti di lungo periodo). Tuttavia le grandi industrie e, soprattutto, il sistema creditizio-finanziario appare sotto il controllo statale (in particolare il credito risulterebbe allocato secondo criteri politici e non di efficienza economica). La tutela legale dei diritti di proprietà, compresa la proprietà intellettuale appare debole, così come permane una limitata libertà di movimenti valutari (la moneta cinese, come è noto, non è convertibile) e, nonostante l’apertura al mercato internazionale, permarrebbero significative restrizioni di tipo protezionista, attraverso il ricorso a barriere non tariffarie. Al tempo stesso il rapporto 2010 dell’organizzazione mondiale per il commercio (WTO), nel mostrare apprezzamento per gli sforzi compiuti dalla Cina nella liberalizzazione della propria economia, ha rilevato che la liberalizzazione nel settore dei servizi (in particolare quelli bancari-finanziari) non risulta completa, mentre le barriere non tariffarie e le politiche di sostegno alle “innovazioni tecnologiche interne” costituiscono ostacoli all’apertura commerciale (in particolare nel settore degli appalti pubblici). All’interno del WTO la Cina ha, fino al 2016, lo status di “economia non di mercato” che agevola l’adozione da parte degli altri Stati di misure anti-dumping (la Cina è destinataria del maggior numero di investigazioni anti-dumping in sede WTO).
Il 2013 rappresenta per la Cina l’inizio di un periodo di piena transizione politica. Con il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese (svoltosi lo scorso novembre) si è infatti concluso il decennio di presidenza di Hu Jintao (succeduto a Jiang Zemin agli inizi del 2003).
L’avvicendamento dei vertici del partito (e quindi del governo) non ha riservato alcuna sorpresa. Com’era già stato indicato da tempo, a raccogliere le leve del comando è stato Xi Jinping (già vicepresidente, a partire dal 2011, della Repubblica e della Commissione militare centrale).
Chi è Xi Jinping
Nato nel 1953, come molti dei suoi colleghi nel Politburo è un cosiddetto “principino”: è infatti figlio di Xi Zhongxun, un eroe della Lunga Marcia e membro fondatore del Partito comunista cinese di cui fu vice presidente. Sebbene Xi inizialmente sia cresciuto nel comfort del Zhongnanhai, il quartiere dove risiedevano i leader del partito, durante la rivoluzione culturale, quando suo padre fu espulso da Mao Zedong, venne mandato nelle province povere nel nord-ovest dello Shaanxi per “imparare dalle masse”. Le difficoltà di quegli anni lo indussero a diventare “più rosso dei rossi” al fine di sopravvivere e ritagliarsi un ruolo nel paese. Si unì al Partito comunista nel 1974 e ne scalò velocemente la gerarchia divenendo segretario locale nell’Hebei, dal 1982 al 1985. Nel 1985 si trasferì nel Fujian, dove continuò a fare carriera fino a diventare governatore della provincia nel 2000. Nello Zhenjiang, dove si trasferì poco dopo per assumere la carica di governatore e capo del partito dal 2002 al marzo 2007, i notabili locali e gli intellettuali hanno affermato di aver avuto un periodo di rara e prolungata apertura durante il suo governo. Si formarono migliaia di nuovi gruppi – molti dei quali associazioni di uomini d’affari che rappresentavano le molte piccole industrie della regione. Candidati indipendenti poterono sedere negli organi politici locali. Il periodo di Xi in Zhenjiang dal 2002 al 2007 vide una rapida crescita dei gruppi non governativi, incluse le associazioni industriali e i sindacati, i quali contrattarono sui salari e mantennero le proteste lavorative al minimo. Le chiese cristiane clandestine operarono in relativa tranquillità, anche se, secondo le associazioni per i diritti umani, come Chinese Human Rights Defenders Network, negli anni di Xi in Zhenjiang non mancarono le persecuzioni di dissidenti, cristiani e attivisti sindacali e per i diritti umani. Dopo la caduta del segretario del partito di Shangai, Chen Liangyu, a causa di uno scandalo di corruzione, Xi fu nominato segretario nella città nel 2007. Solamente sei mesi dopo fu nominato al Comitato centrale del Politburo e informalmente scelto come successore di Hu Jintao. Nell’ottobre 2010, Xi venne nominato vice presidente della Commissione militare centrale, nomina che rafforzò ancora la sua posizione.
Contestualmente, è stato designato Primo Ministro Li Keqiang. Considerato un “cauto riformatore”, membro del Partito dagli inizi degli anni 70, ha studiato giurisprudenza all’Università di Pechino (il primo ateneo a riprendere l’insegnamento del diritto dopo la rivoluzione culturale). La sua ascesa politica iniziò nel 1983, quando entrò a far parte della Lega della gioventù comunista. Sostituirà Wen Jiabao dal prossimo mese di marzo.
Gli altri cinque membri del Comitato permanente designati sono:
Zangh Dejiang – Considerato di stampo conservatore, è stato designato come Vice Premier responsabile dei settori dell’energia e delle telecomunicazioni. Ha inoltre sostituito il decaduto Bo Xilai nella leadership del partito di Chongqing.
Yu Zhengsheng – Ingegnere, 67 anni, ha già ricoperto diversi ruoli istituzionali, come quello di Vice Ministro delle costruzioni. Nel 2007 ha sostituito Xi Jinping alla guida del partito di Shangai. Alla stregua di Xi, fa parte della generazione dei figli dei rivoluzionari.
Liu Yunshan – è considerato colui che da sempre cerca di controllare le fonti di informazione cinesi, dai media fino ad internet. Sarà infatti responsabile della propaganda per il Comitato centrale. 65 anni, ha lavorato per anni nella Mongolia interna come reporter, per poi entrare nelle file dell’apparato di propaganda del Partito Comunista.
Wang Qishan – 64 anni, è l’unico membro del nuovo Comitato centrale ad essere stato amministratore delegato di una società (la Construction China Bank). È considerato un esperto di finanza ed ha ricoperto la carica di sindaco di Pechino, quando ha sostituito il primo cittadino in carica dopo lo scandalo dello scoppio dell’epidemia di Sars nel 2003.
Zhang Gaoli – 66 anni, è considerato un riformista nel campo dell’economia. Ha iniziato la sua ascesa politica nel 1997 con la nomina a sindaco di Shenzen. Nel 2007 è stato inviato nella Città di Tianjin per rimettere in ordine l’amministrazione cittadina, colpita da un grave scandalo di corruzione.
Il decennio sotto la guida di Hu Jintao è stato di grande rilievo per la crescita economica del paese. Ma è stato allo stesso tempo un decennio di stagnazione dal punto di vista politico.
Negli ultimi dieci anni, l’economia cinese è cresciuta del 150%, attestandosi come seconda economia al mondo (obiettivo raggiunto nel 2011). Contestualmente, il PIL pro capite si è più che quintuplicato, passando da 1.135 a 6094 dollari l’anno (stima per l’anno 2012).
Nel 2003, per la prima volta un astronauta cinese è andato nello spazio (senza alcun aiuto internazionale). Nel 2006 è stata ultimata la costruzione della ferrovia che corre da Qinghai al Tibet, che è la più lunga del mondo.
Nel 2008 Pechino ha ospitato le Olimpiadi (anche se i Giochi sono stati una conquista del predecessore di Hu Jintao, Jiang Zemin).
Nel 2010 infine si è tenuto l’Expo a Shangai.
Nonostante questi importanti risultati conseguiti nell’ultimo decennio (già definito dai media cinesi “il decennio d’oro”), diversi analisti internazionali hanno sottolineato come durante questo periodo la dirigenza cinese abbia evitato di affrontare le pressanti questioni sociali e strutturali. L’ossessione per la stabilità, considerata fattore necessario per qualunque strategia di azione, ha portato il Presidente cinese a tacitare il dibattito sulle riforme politiche del sistema e sulla tutela dei diritti umani e delle libertà individuali. La scelta di Xi Jinping quale nuovo Presidente, considerato “rosso dentro e fuori”, non consente di sperare in alcun cambiamento radicale dal punto di vista politico.
La recente vicenda di Bo Xilai, ex capo del Partito comunista della megalopoli di Chongqing, ha poi dimostrato come non sia tollerata nemmeno la dissidenza interna al Partito. Bo Xilai, fino a poco tempo fa considerato come un astro nascente destinato a salire ai vertici del potere politico cinese, è stato espulso il 10 aprile 2012 dal Comitato centrale e messo sotto inchiesta dalla Commissione disciplinare del partito. È stato travolto da una serie di scandali (la morte sospetta di un uomo di britannico in affari con sua moglie Gu, il tentativo di fuga presso il consolato americano del suo ex braccio destro e capo della polizia di Chogqing, Wang Lijun) che hanno definitivamente segnato la sua carriera politica.
Dietro la vicenda di Bo Xilai, gli analisti internazionali hanno letto una manovra interna al partito per eliminare una presenza che stava divenendo alquanto scomoda.
In questo quadro, il frequente riferimento nel pensiero di Hu Jintao (rispetto al quale quello del suo successore non segnerà certo un punto di rottura) al “socialismo con caratteristiche cinesi”, non lascia intravedere la possibilità di riforme democratiche nel breve – medio periodo.
Nel suo discorso di fine mandato, il Presidente Hu Jintao ha racchiuso in dieci punti principali i risultati del lavoro svolto durante gli ultimi anni:
La nuova leadership cinese si trova a raccogliere un’importante eredità dalla generazione precedente.
La linea di governo del nuovo Presidente, Xi Jinping, non dovrebbe scostarsi molto da quella del suo predecessore.
La strada tracciata è quella di una strategia globale che proietti la Cina in modo pacifico e sostenibile come punto di riferimento economico e politico internazionale.
Dopo l’impetuosa crescita economica degli ultimi decenni, quasi totalmente trainata dalle esportazioni e poco dal consumo interno, la strategia del nuovo governo sembra essere quella di trovare nuovi spunti per sostenere lo sviluppo. Come quello di agire sulla società e riequilibrare l’economia, trasformandola da un modello basato sulle esportazioni ad un modello di crescita trainato dalla domanda interna.
Alla nuova leadership toccherà il compito di trovare le ricette per invertire la tendenza negativa registrata nel 2012 a causa del rallentamento della produzione industrialee del contestuale rallentamento degli investimenti in beni immobili e nelle vendite al dettaglio (indicatori fondamentali per valutare lo stato di salute della domanda interna).
Nonostante questa flessione, l’interscambio tra la Cina e i paesi europei, tra cui l’Italia, continua a mantenersi di un volume consistente. In particolare, per quanto riguarda l' import-export Italia-Cina, verso il nostro paese la Cina esporta principalmente articoli di abbigliamento, mentre importa da noi perlopiù macchinari industriali.
Tra i temi principali dell’agenda di governo sono state incluse le modalità per garantire una crescita economica socialmente sostenibile e più inclusiva e la progressiva diminuzione del divario tra ricchi e poveri.
In questo frangente, la nuova leadership s’innesta nel solco già tracciato dalla precedente dirigenza, in sintonia anche con quanto già approvato dalla quinta sessione plenaria del XVII Comitato centrale del Partito comunista cinese riguardo le linee-guida del dodicesimo piano quinquennale (2011-2016). Tali linee sono state ispirate dal concetto di “crescita inclusiva” e di “integrazione dello sviluppo economico con il miglioramento della vita della popolazione”.
Rispetto al precedente piano di crescita economica, che poneva l’accento su temi quali la ricerca energetica e lo sviluppo delle infrastrutture, nell’ultima pianificazione si riscontrano aspetti orientati maggiormente verso il sociale, tra cui relazioni sindacali armoniose e crescita globale coordinata e sostenibile.
Nell’ultimo Congresso è stato poi stabilito l’obiettivo del raddoppiamento dell’attuale livello di PIL e di reddito dei cittadini entro il 2020.
Nonostante lo sviluppo di nuovi temi di discussione nel panorama della società cinese e la focalizzazione su nuovi obiettivi di crescita economica, la leadership che si appresta a guidare la Cina nel prossimo decennio terrà nel complesso una linea simile a quella della precedente, soprattutto, come evidenziato, dal punto di vista politico.
A parte una nuova incombenza per il neo – Presidente, ovvero l’imminente riforma della burocrazia cinese.
A marzo infatti dovrebbe prendere il via una importante riorganizzazione (la più grande dal 1998) della struttura amministrativa cinese. Uno degli obiettivi di Xi Jinping è quello di ridurre il ruolo delle imprese pubbliche per facilitare le forze di mercato. Verosimilmente ci sarà poi l’accorpamento di molte strutture governative e ministeri. Il ministero delle Ferrovie, che per decenni è riuscito a mantenersi separato da quello dei Trasporti, potrebbe essere abolito. Il ministero degli Affari Civili, del Lavoro e della Salute potrebbero essere fusi in un unico ente. Il ministero dell’Ambiente potrebbe allargare le sue competenze, in virtù dell’accresciuta importanza dei temi ambientali (tra cui il progressivo esaurimento delle risorse idriche) e di sviluppo sostenibile.
Il dimezzamento dei ministeri corrisponderà al dimezzamento della burocrazia cinese. Questa importante riforma costituirà il primo banco di prova per la leadership di Xi Jinping. Consentirà di misurare il livello della sua autorevolezza.
Al tempo della riforma apportata da Jiang Zemin la situazione era ben diversa: nel 1998 Pechino era in fermento per l’inefficienza del suo apparato statale, imprese pubbliche comprese. La crisi finanziaria asiatica aveva messo a dura prova il paese, mentre sull’altra sponda, gli Stati Uniti vivevano un momento assai favorevole. La rivoluzione delle imprese statali, che da strumenti di governo si trasformarono in vere e proprie aziende, lasciò sul campo milioni di lavoratori. Ma fu inevitabile per porre un freno allo spreco e all’inefficienza che rischiava di far precipitare la Cina.
Oggi, alle porte della nuova riforma burocratica, lo scenario non è più lo stesso. Gli Stati Uniti e il mondo occidentale in generale faticano ad uscire dalla crisi finanziaria esplosa nel 2008, mentre la Cina continua a far registrare dati economici importanti e costituisce una locomotiva per tutta l’Asia. Per questo il compito di Xi Jinping sarà arduo.
Durante il suo mandato Hu Jintao ha spesso sottolineato i “Cinque principi di coesistenza pacifica” (rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale; reciproca non – aggressione; reciproca non – interferenza negli affari interni; uguaglianza e beneficio reciproco; coesistenza pacifica) quali linee guida per la politica estera cinese.
Xi Jinping non potrà esimersi dal continuare sulle stesse direttrici tracciate dal suo predecessore: una proiezione della potenza economica cinese in maniera pacifica e sostenibile.
Dagli interventi tenuti in alcuni occasioni pubbliche (visita di Joe Biden a Pechino nell’agosto 2011, visita dello stesso Xi Jiping a Washington nel febbraio 2011), il neo Presidente cinese ha lasciato intendere la concordanza di pensiero e di vedute con la precedente gestione politica e di governo. Ovvero che non transigerà su quelli che sono stati definiti i core interest del Paese, come le questioni di Taiwan e del Tibet.
Nonostante la natura pacifica della politica estera cinese, la difesa è comunque un settore in continua evoluzione. Questo perché, secondo la teoria della leadership, una maggiore esposizione internazionale comporta l’aumento dei fattori di rischio per il paese, anche a livello interno. Sulla scorta di tali convinzioni, a partire dal 2001, la Cina ha destinato risorse crescenti al budget militare, che in soli dieci anni è aumentato del 214%, passando da 41 a quasi 130 miliardi di dollari.
Lo scorso settembre è ufficialmente entrata in servizio la prima portaerei cinese della storia (anche se non è di produzione interna, bensì si tratta di un’ex portaerei sovietica, acquistata dall’Ucraina nel 1998 e rimessa a nuovo dall’industria militare cinese).
Il piano di potenziamento della flotta rientra in quella necessità di controllo su un’ampia parte del Mar cinese meridionale, essenziale per il transito delle merci. Tale strategia espansiva ha provocato un contenzioso con il Vietnam (per le isole Paracel), con le Filippine e più recentemente con il Giappone, riguardo le isole Senkaku/Diaoyu, site nel Mar cinese orientale.
In merito alle isole contese, un importante dovere di Xi Jinping sarà quello di proseguire sulla strada del dialogo con Tawain, tracciata molto sapientemente da Hu Jintao. Gli sforzi dell’ormai ex Presidente cinese hanno consentito, secondo alcuni analisti, di gettare le basi per una possibile riunificazione.
La Costituzione del 1993 definisce la Federazione russa uno Stato democratico federale di diritto con una forma repubblicana di governo.
La Federazione è costituita da 83 soggetti diversi: 21 repubbliche; una regione autonoma; quattro distretti autonomi; nove territori; quarantasei regioni e due città federali. Sono di competenza esclusiva della Federazione gli affari esteri, la politica socio-economica, il bilancio, l’energia; sono di competenza concorrente l’educazione, la salute, la sicurezza sociale; le rimanenti competenze sono dei soggetti della federazione.
La forma di governo è presidenziale; il presidente è eletto a suffragio universale diretto con un sistema a doppio turno (con secondo turno di ballottaggio tra i due candidati con più voti, nel caso nessuno ottenga al primo turno la maggioranza assoluta dei voti validi). Il mandato presidenziale, inizialmente previsto in quattro anni, è stato elevato nel dicembre 2008 a sei anni a decorrere dalla successiva elezione, per non più di due mandati. Il presidente nomina il primo ministro e, su sua proposta, nomina e revoca i ministri, così come può far dimettere l’intero governo. Il primo ministro deve essere confermato dalla Duma (una delle due Camere del Parlamento cfr. infra) che però viene sciolta in caso di tre voti contrari alla conferma del primo ministro, così come in caso di due voti consecutivi di sfiducia al Governo o di respingimento della questione di fiducia.
Il potere legislativo è attribuito al Parlamento (Assemblea federale), costituito dalla Duma di Stato e dal Consiglio della federazione.
La Duma di Stato, 450 membri, è eletta a suffragio universale diretto, ogni cinque anni, in seguito alla riforma costituzionale del 2008 che ne ha aumentato di un anno la durata. Dalle elezioni del 2007 il precedente sistema elettorale misto (metà dei seggi assegnati con sistema maggioritario uninominale, metà con sistema proporzionale) è stato sostituito da un sistema proporzionale sulla base di liste politiche nazionali (che concorrono cioè in un’unica circoscrizione nazionale) con una soglia di sbarramento del 7 per cento. Le candidature possono essere effettuate unicamente da un partito politico registrato; per i partiti non già rappresentati alla Duma è richiesta, per la presentazione delle liste, la sottoscrizione di 200.000 elettori, dei quali non più del cinque per cento deve provenire dalla medesima regione (il che costituisce, date le dimensioni della Federazione, un significativo disincentivo). Con una riforma approvata nel 2009, è stato riconosciuto un diritto di tribuna, con l’attribuzione di uno o due seggi alla Duma a ciascuno dei partiti che abbiano superato il cinque per cento dei voti.
Il consiglio della Federazione, competente nelle materie di interesse della federazione nel suo insieme, è costituito da due rappresentanti per ciascuno degli 83 soggetti della Federazione, uno dei quali designato dal potere legislativo regionale ed uno dal potere esecutivo regionale.
Fino alla riforma introdotta da Medvedev nel maggio 2012 sull’onda delle proteste popolari, i vertici degli esecutivi regionali non erano eletti direttamente dai cittadini, bensì ma nominati dal Presidente federale e confermati dai legislativi regionali. Da segnalare che la Duma, il 24 gennaio 2013 ha approvato in prima lettura, una proposta di legge per l’eliminazione dell’elettività della carica in quasi tutte le regioni.
Attuale Presidente della Federazione è Vladimir Putin (n. 1952), primo ministro è il presidente uscente Dimitir Medvedev (n. 1965).
Vladimir Putin, nato a Leningrado (ora San Pietroburgo), laureato in legge, per quindici anni al servizio del KGB, nell’allora Germania Est; collaboratore del sindaco riformista della città, Anatoli Sobchak a partire dall’elezione di quest’ultimo nel 1991; chiamato dal Presidente Eltsin nel 1996 come vicecapo dell’amministrazione presidenziale; dal 1998 capo dei servizi segreti federali FSB e segretario del Consiglio di sicurezza nazionale; per due volte ha ricoperto l’incarico di primo ministro: dapprima dall’agosto 1999 al maggio 2000, poi, dal 2008 al 2012; eletto presidente della Federazione nel 2000 e rieletto per il secondo mandato nel 2004. In seguito alla riforma costituzionale citata, è stato eletto per un nuovo mandato presidenziale nel 2012, con possibilità di futura rielezione.
Dimitri Medvedev, nato a Leningrado (ora San Pietroburgo), laurea e dottorato in legge, collaboratore, al pari di Putin, del citato sindaco Sobchak; successivamente a capo dell’amministrazione presidenziale del presidente Putin, ex-vicepresidente di Gazprom (compagnia di Stato per l’energia). Dal maggio 2008 al maggio 2012 ha ricoperto la carica di Presidente della Federazione Russa. Dopo la rielezione alla presidenza, Putin lo ha nominato Primo ministro.
Le elezioni presidenziali del 4 marzo 2012 hanno concluso quattro mesi di delicata transizione elettorale, segnando, in conformità con le previsioni, il ritorno alla Presidenza della Federazione di Vladimir Putin, nuovamente eletto al primo turno con il 63,6% dei voti (oltre 45 milioni di voti). La rielezione giunge dopo 4 anni di interludio durante i quali la continuità politica era stata rappresentata da Medvedev, delfino di Putin.
Il leader comunista Gennady Zyuganov ha ottenuto il 17,18 per cento dei voti; il leader nazionalista del partito liberaldemocratico Vladimir Zhirinovsky il 7,9 per cento dei voti; l’oligarca Prokhorov il 7,98%; Zhirinovskj il 6,22%; Mironov, leader del Partito Russia Giusta, solo il 3,85%. Secondo gli osservatori dell’OSCE, le votazioni si sarebbero svolte in maniera “complessivamente positiva”, ma “distorta” a favore di Putin, specie con riferimento alla presenza nei mezzi di comunicazione di massa e con diverse irregolarità procedurali durante la fase del conteggio.
La transizione elettorale in Russia era cominciata con le elezioni parlamentari alla Duma del 4 dicembre 2011. Esse avevano segnato una sensibile perdita di consensi per il partito Russia Unita (ed una “sconfitta” per il capolista Medvedev), che è riuscito, tuttavia, a mantenere la maggioranza assoluta dei seggi alla Duma (grazie, in particolare, ai voti ottenuti nelle repubbliche del Caucaso settentrionale). Il Partito comunista, espressione del voto di protesta, aveva raggiunto il 19% dei consensi, assicurandosi un sensibile aumento dei seggi in Parlamento. Molto positivo anche il risultato di Russia Giusta (partito di vago orientamento social-democratico) di Nikolay Levichev, che con il 13,24% dei voti è divenuto il terzo partito, davanti ai Liberal-Nazionalisti diZhirinovsky, mentre nettamente sconfitta appare la “galassia” dei partiti liberali, vittima di divisioni e personalismi.
Come è noto, dopo la crisi del primo decennio post-sovietico, nel corso della presidenza Eltsin, la Russia è tornata a ricoprire un maggiore ruolo nella scena internazionale nel primo decennio del nuovo secolo, agevolata in ciò in particolare dal recupero di potenza economica che è stato alimentato dal periodo di alti prezzi dei prodotti energetici (dei quali la Russia è tra i principali produttori mondiali) precedente alla crisi economica del 2008.
Nell’agenda politica russa un ruolo centrale è occupato dallo sforzo di allontanare i rischi di instabilità politica e stagnazione economica. Putin ha indicato,infatti, come priorità della sua Presidenza: incremento demografico; sviluppo socio-economico dei territori asiatici; miglioramento generalizzato delle condizioni di vita dei cittadini della Federazione; qualificazione dell’occupazione; rafforzamento del sistema economico a resistere di fronte a shock esterni; consolidamento dello status internazionale del Paese attraverso i processi di integrazione regionale (Comunità euro-asiatica e Area di libero Scambio nella CSI). Ad essi, si aggiunge l’obiettivo del recupero di credibilità economica internazionale e di attrazione di investimenti diretti esteri, da perseguire tramite il rafforzamento dello stato di diritto, la lotta alla corruzione ed all’eccessivo potere della burocrazia. Inoltre, Putin ha dichiarato di voler proseguire ed approfondire il graduale processo di riforme politiche del paese avviato dal ex-presidente Medvedev.
La politica estera russa appare caratterizzata dall’emergere di un atteggiamento più energico nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Benchè l’establishment russo abbia accolto positivamente la rielezione del presidente Obama, le tensioni persistono sia relativamente al conflitto in Siria che al programma nucleare iraniano. Con riferimento al caso siriano, la Federazione Russa ha mantenuto un atteggiamento deciso di blocco delle risoluzioni ONU di condanna di Bashar al Assad, opponendosi ad un coinvolgimento militare nell’area.
Per quanto riguarda il caso iraniano, la Russia mantiene una posizione critica sull’opportunità che l’Iran si doti di armi nucleari ma ne appoggia il diritto all’uso a fini civili, anche per tutelare le eventuali potenzialità di mercato ed evitare i rischi di una destabilizzazione dell’area – confinante con lo spazio post sovietico.
Ulteriore punto di frizione russo – americano è rappresentato dalla questione degli scudi missilistici.
Dopo una prima fase di distensione coincidente con la politica di “Reset” e culminata nell’accordo sul Trattato successore dello START (aprile 2010), al successivo vertice di Chicago del consiglio NATO – Russia nell’aprile 2012, si è assistito ad una battuta d’arresto del negoziato sulla difesa missilistica. Ciò ha determinato un progressivo irrigidimento delle posizioni russe e delle prese di posizione critiche nei confronti di Washington, accusata di non tenere conto delle sensibilità ed esigenze di Mosca al riguardo.
Permane insoluta la questione dell’allargamento della NATO ad Ucraina e Georgia, fortemente osteggiata dalla Federazione russa. Con riferimento ai rapporti con la Georgia, dopo la guerra del 2008, è stato intrapreso un progressivo disgelo, culminato nella firma di un accordo di sblocco del veto georgiano all’ingresso della Federazione Russa nell’OMC (su cui, infra). Al contrario, rimane irrisolto il contenzioso relativo alla definizione dello status delle Repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud e Transnistria.
In concomitanza con l’assunzione della Presidenza di turno dell’APEC, nel 2012 è emersa una vera strategia pacifica della Russia, orientata ad approfondire la presenza nell’area per sfruttarne le potenzialità di mercato future.
A tal proposito si segnala il rilancio dei rapporti commerciali bilaterali con gli Stati dell’area e, segnatamente, anche il miglioramento delle relazioni diplomatiche con il Giappone, nonostante il contenzioso ancora aperto per il controllo delle Isole Kurili.
E’ altresì venuta meno la posizione garantista nei confronti del regime nordcoreano e la Russia si è proposta quale mediatrice per risolvere la crisi missilistica e per un eventuale disgelo dei rapporti tra le due Coree. In merito, si segnala l’avvio di progetti di cooperazione trilaterale (Mosca-Seoul-Pyongyang) in materia infrastrutturale.
Per ciò che concerne i rapporti con la Cina, il tema energetico è fondamentale, per via del concorso al soddisfacimento della domanda di energia e materie prime proveniente dal Paese Asiatico. Si segnalano, in proposito, gli imponenti accordi di fornitura conclusi tra i due colossi energetici China National Petroleum Corporation e Gazprom, relativi al periodo 2015-2018.
Per quanto riguarda il versante economico e delle prospettive di sviluppo, occorre ricordare che La Federazione Russa è stata inserita nel novero dei BRICS, in ragione del forte tasso di crescita economica registrato nei primi anni Duemila, dopo la profonda crisi seguita alla dissoluzione dell’URSS.
Tuttavia, nella fase attuale,l’economia russa, scontando una pesante dipendenza dall’andamento dei prezzi energetici, ha risentito con forza del consistente calo di tali prezzi seguito alla crisi economica. Ciononostante, la presenza di ingenti risorse valutarie ha consentito di evitare più gravi effetti sociali ed economici (la crescita del PIL reale è scesa al 3,7% nel 2012 dal 4,3% del 2011). Per quanto riguarda le prospettive di sviluppo economico, si stima un leggero aumento del PIL al 3,8 per cento per il 2013 ( tasso annuale stimato sotto il 4 per cento per il quadrienno 2013 -17) a causa degli ostacoli rappresentati dalla dipendenza dalle risorse naturali e dalla debolezza delle istituzioni.
Rilevante è il volume dell’interscambio commerciale con i principali Paesi europei. In particolare, sono intensi i rapporti con l'Italia: per quanto riguarda l'import-export, il nostro paese si segnala per le esportazioni nel settore tessile e delle forniture di macchinari industriali speciali; le importazioni sono dominate dalle materie prime energetiche: gas naturale, petrolio greggio e prodotti derivati dalla raffinazione di questo.
Numerose sono le iniziative di cooperazione economica regionale ed internazionale.
Nell’agosto 2012, la Federazione Russa è entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), dopo 18 anni dall’avvio dei negoziati. Gli analisti di Carnergie Endowement, tuttavia, ritengono che ciò non avrà un impatto economico considerevole nell’immediato, né fornirà un apporto decisivo all’attrazione di investimenti esteri nel settore manifatturiero, benché possano ragionevolmente attendersi moderate misure di liberalizzazione.
Con riferimento all’area euroasiatica, oltre al già esistente EURASEC (Comunità Economica EuroAsiatica), si segnala che nel luglio 2011 si è costituita una Unione Doganale (dal 1° gennaio 2012, Spazio Economico Comune) tra Russia, Bielorussia e Kazakistan e la firma di un nuovo Accordo per la costituzione di un’Areadi Libero Scambio in ambito CSI (17ottobre2011), sottoscritto da Russia, Moldova, Ucraina, Bielorussia, Kazakistan, Kirgizistan, Tagikistan ed Armenia. Tali passi, insieme agli accordi tra Medvedev, Lukashenko e Nazarbayev del novembre 2011, si inseriscono nel quadro della proposta di creazione di una “UnioneEuroasiatica”, un polo economico – politico regionale istituzionalizzato, comprendente i mercati di tante ex repubbliche ex sovietiche, che si ponga da contraltare all’Unione Europea e da ponte verso i paesi dell’area Asia- Pacifico.
Oltre alle importanti risorse petrolifere, la Federazione Russa è il primo paese in termini di riserve di gas naturale. Di conseguenza, importanza preminente assume il tema delle infrastrutture per lo sfruttamento energetico (vedi approfondimento nelFocus Sicurezza energetica - gennaio-aprile 2012. In proposito, si ricorda che il 7 dicembre 2012 è stato dato avvio ai lavori per la costruzione del gasdotto – South Stream – che consentirà l’approvvigionamento energetico dell’Unione Europea, che porterà gas dalla Russia direttamente in Europasaltando l’Ucraina, passando per la zona economica esclusiva turca nel Mar Nero. Tale gasdotto, sostenuto da Gazprom (insieme ad ENI 20%, alla francese EDF, 15%, e la tedesca Wintershall, 15%), si pone in competizione al progetto Nabucco, caldeggiato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, che versa in difficoltà per via degli alti costi di gestione ed i dubbi sulla capacità di garantirsi il volume necessario di gas da trasportare. (VediFocus Sicurezza energetica - agosto-dicembre 2012)
Con riferimento alle condizioni di esercizio concreto delle libertà politiche e civili, il rapporto 2013 di Freedom House, classifica la Federazione russa come “Stato non libero”, non in possesso dello status di “democrazia elettorale”; l’EconomistIntelligence Unit rileva un peggioramento delle condizioni democratiche tra il 2010 ed il 2011, con il passaggio da “regime ibrido” (DemocracyIndex2010) a “regime non democratico”(Democracy Index 2011).
In particolare le valutazioni degli osservatori internazionali sono risultate negativamente influenzate dalle contestate elezioni parlamentari e presidenziali, nonché da talune misure adottate e da alcune tendenze registrate negli ultimi anni (nel rapporto FreedomintheWorld di “FreedomHouse” la Russia postsovietica è stato classificato come “Stato parzialmente libero” dal 1991 al 2003, e solo successivamente come “Stato non libero”).
Al riguardo, merita ricordare ad esempio, la legge sui partiti approvata nel 2001, che ha introdotto criteri più severi per la registrazione dei partiti politici, che deve essere confermata ogni due anni. Per ottenere la registrazione i partiti politici devono avere almeno 50.000 membri e, dal gennaio 2006, più d 45 articolazioni regionali ciascuna delle quali con almeno 500 membri.
Nel tentativo di arginare i movimenti di protesta sorti a seguito delle irregolarità elettorali del dicembre 2011, rilevate dagli osservatori dell’OSCE, sono state adottate alcune misure più stringenti in materia di assemblee pubbliche ed organizzazioni non governative. Con riferimento a queste ultime, la legge sulle organizzazioni non governative del 2006 ha reso maggiormente difficoltosa la procedura per il riconoscimento di tali associazioni, rendendo più ampi i margini discrezionali del governo, che, per esempio, può negare l’autorizzazione nel caso in cui il suo nome offenda la pubblica morale. Dal 2008 un decreto governativo ha ridotto da 102 a 12 le ONG straniere esenti da tassazione in Russia. In proposito, valga ricordare la chiusura dell’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale USAID, in quanto accusata di ingerenza nella vita politica russa ( settembre2012).
Di interesse, inoltre, sono gli emendamenti approvati nell’ottobre 2012 alla legge nazionale sull'Alto tradimento che ne estendono il concetto ed irrigidiscono le punizioni per chi divulga segreti di Stato o svolge attivita' di spionaggio. Tali leggi hanno reso potenzialmente criminali una serie di attività, incluse le ordinarie interazioni con gli stranieri. Si segnala anche il controllo statale dei principali mezzi di comunicazione ed un peggioramento della libertà di stampa (Reporterssansfrontières, da 142 su 178 nel 2012 a 148 su 179 nel 2013 ); per quanto riguarda l’uso della rete internet, Freedom House qualifica il paese come “parzialmente libero” ( Freedom on the net n.52)
La situazione dei diritti umani appare controversa: le organizzazioni di tutela dei diritti umani hanno in più occasioni denunciato la situazione della Cecenia e i ripetuti attentati nei confronti di giornalisti e attivisti dei diritti umani: tra le vittime più significative degli ultimi anni si possono richiamare la giornalista Anna Politkovskaja e l’esponente di Memorial Natalia Estemirova.
Analoghe restrizioni sono state applicate nei confronti di attivisti politici esponenti di opposizione, tra cui Leonid Razvozzhayev, arrestato dalle autorità russe in Ucraina, dove stava avanzando richiesta di asilo politico, con l’accusa di aver organizzato sommosse di massa a seguito dei controversi risultati degli appuntamenti elettorali.
Nel dicembre2012, in risposta ad una legge statunitense che imponeva restrizioni alla circolazione ed al commercio per cittadini russi che avessero violato i diritti umani, Putin ha adottato un provvedimento che vieta l’adozione di orfani russi da parte di famiglie statuinitensi.
Da ultimo merita poi segnalare la recrudescenza delle tensioni in Cecenia e nel Caucaso settentrionale: in particolare, all’insorgenza cecena riconducibile a Doku Umarov appare riconducibile l’attentato del 24 gennaio 2011 all’aeroporto di Mosca che ha provocato 35 morti.
L’India è una Repubblica federale che ricomprende 28 Stati e 7 Territori dell’Unione. Capo dello Stato è il Presidente, eletto da un collegio elettorale formato da tutti i membri eletti del Parlamento e delle assemblee legislative statali per un mandato di cinque anni (rinnovabile). Il Presidente nomina il Primo ministro sulla base dei risultati elettorali e, su proposta di questi, i ministri; il primo ministro e i ministri sono responsabili nei confronti del Parlamento. Il Parlamento bicamerale è composto dal Consiglio degli Stati (Rajya Sabha) e dalla Camera del Popolo (Lok Sabha). Il Consiglio degli Stati, camera alta del Parlamento, consta di 245 membri, 233 eletti per sei anni in modo indiretto dalle assemblee legislative statali (un terzo della Camera si rinnova ogni due anni); 12 nominati dal Presidente. La Camera del Popolo è invece composta da 545 membri, 543 eletti per cinque anni con sistema maggioritario uninominale a turno unico, due nominati dal Presidente.
Secondo ilrapporto 2013 di Freedom House l’India è “Stato libero”, in possesso dello status di democrazia elettorale, mentre ilDemocracy Index 2011dell’Economist Intelligence Unit lo classifica come “democrazia difettosa”.
Per quanto concerne la condizione in concreto delle libertà politiche e civili, fonti indipendenti evidenziano come la libertà di associazione, di riunione e di manifestazione risultino generalmente rispettate, così come la libertà di stampa. A tale ultimo riguardo, la Legge sul Diritto all’informazione del 2005 è stata ampiamente utilizzata con successo per migliorare la trasparenza, anche se il governo mantiene ancora delle restrizioni sulle richieste di accesso alle informazioni. Inoltre, si registrano, specie nelle aree rurali, episodi d’intimidazione nei confronti dei giornalisti e ostacoli al loro libero operato.
Human Rights Watch rileva come la presenza di fenomeni d’insorgenza armata e di conflitto come nel Kashmir o nell’India centrale per la presenza delle forze maoiste susciti preoccupazione anche in relazione ad episodi di impunità per gli abusi compiuti dalle forze di sicurezza nel contesto di tali conflitti. Altro aspetto rilevato da Human Rights Watch è la carenza di tutele per le popolazioni rurali soggette ad espropriazione di terre per la realizzazione di infrastrutture o progetti di sfruttamento minerario.
La libertà religiosa è costituzionalmente garantita e generalmente rispettata, pur in presenza di legislazioni statali che in alcuni casi puniscono presunte conversioni forzate e lasciano impunite violenze contro alcuni gruppi religiosi. Non è inoltre infrequente l’impunità di violenze nei confronti di minoranze religiose. Le varie etnie indù compongono più dell’80% della popolazione, ma lo stato è laico.
Fonti internazionali indipendenti rilevano come la corruzione risulti pervasiva, anche con riferimento al finanziamento delle campagne elettorali.
Primo ministro è Manmohan Singh (n. 1932), membro del Partito del Congresso Indiano (guidato da Sonia Gandhi), eletto nel maggio 2004 e riconfermato nel 2009.
Nel luglio 2012 si sono svolte le elezioni per il Presidente della Repubblica, che hanno visto vincitore Pranab Mukherjee (n. 1935), candidato dell’attuale coalizione di governo UPA.
La vittoria sul suo avversario P.A. Sangma, candidato cristiano cattolico sostenuto dal partito di opposizione Bharatya Janata Party, è stata netta (69%dei voti contro il 31) ed era stata largamente annunciata dai sondaggi.
Mukherjee è un esponente politico di lungo corso, presente in Parlamento da più di 40 anni, che ha ricoperto più volte incarichi di governo, tra cui Ministro delle Finanze, Ministro della difesa e Ministro degli esteri.
Mukherjee è noto per la sua strategia definita “inclusive growth”, che cerca di ridurre il divario tra la classe più ricca e quella povera (formata da decine di milioni di persone) per uno sviluppo più armonioso del paese.
Mukherjee ha sostituito, Pratibha Patil, che, eletta nel 2007, è stata la prima donna a ricoprire il ruolo di Presidente dell’India.
Le ultime elezioni parlamentari si sono invece svolte nel 2009 (le prossime sono previste per il 2014). Queste ultime elezioni hanno confermato la coalizione già al governo dal 2004, nonché il primo ministro uscente, Manmohan Singh.
È emersa infatti la vittoria di uno dei due grandi partiti storici nazionali, l’INC (Indian National Congress) guidato da Sonia Maino Gandhi, di origine italiana e vedova di Rajiv Gandhi, assassinato nel 1991 quando era primo ministro. Il Partito del Congresso ha vinto sia nei confronti della destra nazionalista del BJP (Bharatiya Janata Party) che del “Terzo Fronte” composto da forze socialiste e comuniste.
Due temi dell’attualità politica: diritti delle donne e corruzione
Al centro della cronaca indiana degli ultimi tempi è prepotentemente e drammaticamente riesplosa la questione della condizione della donna; soprattutto a causa dell’episodio di violenza sessuale nei confronti di una giovane studentessa (deceduta in seguito alle ferite riportare) da parte di sei uomini (tra cui un minorenne), avvenuto alla fine di dicembre.
Come conseguenza, sono scoppiate violente proteste nei confronti del governo centrale e delle forze di polizia in generale, quest’ultime accusate dalla società civile di non proteggere in modo adeguato le persone più deboli e anzi di schierarsi spesso dalla parte dei colpevoli.
Il governo centrale indiano ha risposto all’ondata d’indignazione e rabbia con la recente proposta di legge che prevede la pena di morte in casi di stupri particolarmente gravi.
Il Presidente indiano Pranab Mukherjee ha immediatamente promulgato il decreto di ratifica di questa nuova legge, che è entrata così in vigore dal mese di febbraio.
Un’altra piaga sociale che affligge l’India è la corruzione dilagante tra la classe politica. Una corruzione estremamente diffusa, sia a livello locale che a livello centrale, che molto spesso causa la lievitazione dei costi e la dilatazione dei tempi in fase di realizzazione dei progetti (in particolari quelli infrastrutturali, in relazione ai quali l’India si trova in un grave stato di arretratezza).
L’attivista Anna Hazare è stato tra i protagonisti del movimento anticorruzione nato nel 2011. L’attivista, arrestato per qualche giorno nell’agosto 2011, intraprese uno sciopero della fame per sollecitare il Parlamento indiano ad esaminare provvedimenti contro la corruzione. Lo sciopero della fame fu sospeso a seguito dell’impegno del governo a costituire una commissione parlamentare con rappresentanti di tutti i partiti per affrontare il tema (lo stesso Hazare ha avanzato una proposta di lotta alla corruzione basata sulla costituzione di un difensore civico anti-corruzione dotato di ampi poteri di indagine anche nei confronti dei componenti delle assemblee legislative).
La percezione di relativa onestà della coalizione del governo, dovuta principalmente alla reputazione di integrità morale e personale del Primo Ministro Singh, nel contesto di una corruzione comunque diffusa, ha subìto un netto deterioramento a seguito dell’organizzazione in India dei Giochi del Commonwealth del 2010, i cui lavori registrarono ritardi ed aumento dei costi dovuti a pratiche corruttive diffuse. Più recentemente è emerso un caso di significativa corruzione nell’assegnazione delle licenze televisive nel 2008, che avrebbe causato un danno per l’erario di circa 40 miliardi di dollari USA.
I dati di crescita del primo trimestre del 2012 sono indiscutibili: con una crescita del 5,3% (sotto la soglia psicologica del 6 e ben lontana dal 9,2 dello scorso anno) l’India sta pericolosamente rallentando il proprio sviluppo economico. Per l’intero 2102, il Fondo monetario internazionale ha stimato una crescita del 4,9%.
Al contrario di quello che sta succedendo in molti altri paesi, la principale causa della frenata economica dell’India non è la crisi economica globale, ma l’estrema frammentazione del potere politico e la conseguente debolezza del governo centrale. Le elezioni locali che si sono svolte nel marzo 2011 nello Stato dell’Utter Pradesh (il più popoloso dell’India con 200 milioni di abitanti) hanno relegato il partito di maggioranza del governo centrale, l’Indian National Congress, al quarto posto. Una sconfitta che si è riflessa a livello nazionale. Con il consolidamento dei poteri locali, la maggior parte delle riforme sono bloccate (sistema bancario, trasporti, assicurazioni).
A marzo, il Ministro delle ferrovie (30 milioni di passeggeri al giorno), appoggiato dal governo, aveva proposto un moderato aumento del prezzo del biglietto. Ma l’opposizione di alcuni potenti leader locali ha costretto il governo ad annullare l’aumento e a licenziare il Ministro.
Il dodicesimo piano quinquennale, che si è concluso nel 2012, prevedeva una produzione elettrica per 62.374 megawatt, ma si è arrivati appena a 33.000; due anni fa sono stati firmati contratti per la realizzazione di circa 43mila km di strade. Ne sono stati costruiti solo 1800.
Come accennato, la debolezza del governo centrale nei confronti e la corruzione diffusa più o meno a tutti i livelli di amministrazione, palesano i loro effetti in particolare nel settore delle infrastrutture.
Le infrastrutture energetiche, di trasporto e di comunicazione rappresentano per ogni paese, lo scheletro, l’ossatura fondamentale per lo sviluppo economico e sociale rapido ed armonioso.
Ma l’India soffre di gravi carenze in questo settore; anche per questo la crescita economica sta rallentando sensibilmente; ed anche per questo nel paese esistono zone dove vivono persone isolate nella giungla e prive dei comfort più basilari tipici delle società moderne (si calcola che, ad oggi, circa 300 milioni di indiani non abbiano nemmeno una lampadina di accendere).
L’inadeguatezza infrastrutturale indiana si è rivelata in tutta la sua drammaticità lo scorso mese di agosto, quando due maxi-blackout, avvenuti uno di seguito all’altro, hanno lasciato senza elettricità prima 360 milioni di persone, poi ben 700 milioni (circa la metà del popolazione totale). Come tessere del domino, probabilmente a causa dell’eccessivo carico elettrico, sono collassate tre delle cinque mega – reti che alimentano il gigante asiatico (100mila km di linee elettriche): la nord, la nord – est e la est, sotto il peso di 46mila megawatt.
Per migliorare le infrastrutture energetiche servono almeno 110 miliardi di dollari e l’attuale piano del governo è di aumentare la produzione energetica del 44% nell’arco di cinque anni. Anche perché, se l’India intende proseguire sulla strada dello sviluppo inclusivo, presto quei 300 milioni che attualmente vivono senza elettricità, avranno bisogno anche loro della propria quota di energia elettrica.
Il problema energetico per l’India parte anche da più lontano, ovvero dalle risorse usate per produrre energia. Attualmente il paese si affida per più della metà della produzione totale ai combustibili fossili (di cui il 50% è carbone). Le centrali idroelettriche concorrono solamente per il 3%. Nonostante l’India si collochi al quarto posto per quantità di carbone estratto, non ne estrae a sufficienza per il proprio fabbisogno.
Nel novembre 2011 una delegazione italiana, formata da esponenti del governo, rappresentanti di Confindustria, Unioncamere e Abi, è volata in India per siglare un accordo programmatico con la Confederazione delle imprese indiane, che punta all’aumento dell’interscambio commerciale tra i due paesi. Circa 400 imprese italiane sono già presenti in India nei settori dell’auto, della moda, dell’energia e dell’elettronica. Ma si sono aperte nuove opportunità di investimento per l’Italia proprio nel settore delle infrastrutture, per cui il governo indiano sta mettendo a punto un progetto di sviluppo per 750 miliardi di dollari.
La mancanza di riforme rende debole l’economia (le principali agenzie di rating hanno declassato il debito indiano, Fitch l’ha portato a BBB, Standard & Poor’s ha retrocesso da stabili a negative le prospettive economiche), cosa che non rende possibile l’implementazione dei programmi sociali.
La recessione economica è inoltre accompagnata anche da una persistente inflazione.
Dopo aver raggiunto un picco del 16% nel gennaio 2010, ha cominciato a scendere fino a raggiungere l'8,4% nel luglio 2011. Ma da quel momento ha cominciato una lenta risalita. Gli ultimi rilevamenti, aggiornati a dicembre 2012, attestano un tasso dell’11,1%.
Contro l’inflazione è stata attuata una severa politica monetaria che prevedeva l’innalzamento del tasso d’interesse. Tuttavia, l’andamento dei prezzi continua ad essere in larga misura dipendente dall’andamento dei prezzi agricoli e del cibo.
Il rischio finanziario dell’India è comunque considerato reale da gran parte delle agenzie di rating. Anche Moody’s ha attribuito un Baa3 (il voto più basso) al debito sovrano indiano (per la parte in valuta estera). Tale rischio è dato dalla progressiva svalutazione della moneta indiana, la rupia: se nel 2000 un dollaro Usa valeva 40 rupie, ora ne vale circa 53 (e si prevede che potrebbe arrivare a toccare quota 60). Questa svalutazione, in concomitanza con l’imminente scadenza di circa un terzo del debito pubblico indiano in valuta, prospetta dei gravosi costi per il rifinanziamento del gigante asiatico.
Nelle relazioni internazionali, il principale tema di interesse per l’India è rappresentato dalle relazioni con il Pakistan e dal contenzioso con questo sul Kashmir, un problema che si trascina dal 1947.
Dopo una lunga interruzione dei contatti diplomatici tra i due paesi, a seguito degli attacchi terroristici di Mumbai nel 2008 da parte del gruppo islamista pakistano di Lashkar-y-Tayiba, i rispettivi Ministri degli esteri sono tornati ad incontrarsi.
Ma recentemente alcuni episodi di violenza al confine provvisorio del Kashmir (denominato Linea di Controllo) ha provocato il riaccendersi delle tensioni. Due soldati indiani sono stati uccisi (forse decapitati) lo scorso mese di gennaio nei pressi della linea che provvisoriamente demarca i due paesi all’interno del Kashmir. L’esercito di New Delhi ha bollato tale episodio come una “grave provocazione” da parte del Pakistan. Dal canto suo, il Pakistan ha invece denunciato lo sconfinamento di truppe indiane e la morte di alcuni suoi soldati.
Principalmente in chiave anti-pakistana deve poi essere letto l’avvicinamento dell’India all’Afghanistan. Alla fine del 2011, il governo indiano e quello afghano hanno firmato una partnership strategica che tocca diversi temi, dall’economia alla sicurezza. Proprio in tema di sicurezza, in vista del ritiro americano del 2014, l’India si è offerta di fornire addestramento alle truppe di Karzai. L’India ha investito in Afghanistan, nell’ultimo decennio, circa due miliardi di dollari.
Una manovra di accerchiamento strategico nei confronti del nemico di sempre: così potrebbe essere interpretata la partnership indo - afghana da parte del Pakistan, che ha sempre visto l’Afghanistan come il suo “retroterra strategico” in caso di conflitto militare con l’India.
Sul delicato scacchiere asiatico, l’India sta progressivamente attuando la sua strategia di “Guardare ad Est”, con lo scopo di stringere legami per incrementare la sicurezza anche con attori chiave della propria regione ed in questo modo creare alternative al solo legame con gli Stati Uniti.
Tale strategia si è concretizzata con alcuni accordi firmati con il Giappone, soprattutto in materia di cooperazione bilaterale per la difesa. A tale scopo sono state organizzate alcune operazioni congiunte navali ed aree, le prime del loro genere tra questi due paesi. Il fatto che l’India stia premendo sull’acceleratore nel settore della difesa, è testimoniato anche dai dati riportati sui budget militari. Secondo l’ultimo Yearbook dell’istituto svedese SIPRI (Stockhol International Peace Research Institute), il primo importatore mondiale di armi è proprio l’India, che da sola copre il 12% delle importazioni a livello globale (dati 2011).
E’ da ricordare che recentemente i rapporti tra India e Italia sono stati fortemente condizionati dalla vicenda dei due maro' italiani, che scortavano con compiti antipirateria la petroliera italiana Enrica Lexie, e che sono stati arrestati dalle autorità indiane con l’accusa di omicidio nei confronti di due pescatori.
Il 15 febbraio 2012, al largo delle coste indiane del Kerala (Stato sud occidentale dell’Unione Indiana), nel Mar Arabico, la petroliera battente bandiera italiana Enrica Lexie ha incrociato un’imbarcazione non identificata, che procedeva nella sua direzione senza rispettare l’alt intimato dai segnali luminosi del mercantile italiano, che rappresentano un codice di comunicazione tra navi, necessario per identificarsi a distanza in quelle acque ad alto rischio pirateria.
L’area rientra infatti in una delle zone ad alto rischio pirateria, individuata già nel 2011 dallâ€International Transport Workers Federation (ITF) nel tratto che va dalle coste somale verso est, sino al meridiano 76 e verso sud al parallelo 16, e quindi in acque internazionali direttamente confinante con le acque territoriali indiane. Nelle aree ad alto rischio pirateria: i mercantili sono invitati ad adottare le misure di autoprotezione raccomandate dall’IMO (International Maritime Organization); i marittimi imbarcati percepiscono un raddoppio delle indennità giornaliere e gli armatori pagano premi di assicurazione maggiorati.
Nel corso dell’episodio i militari del reggimento San Marco imbarcati sulla Enrica Lexie, con compiti anti – pirateria, hanno esploso alcuni colpi di avvertimento per mettere in fuga l’imbarcazione sospetta.
Successivamente il peschereccio indiano St. Anthony, con undici uomini di equipaggio, rientrava nel porto di Kochi (sulla medesima costa del Kerala), con due marittimi uccisi da diversi colpi di arma da fuoco.
Le autorità del Kerala invitavano, con un pretesto, la Enrica Lexie a rientrare a Kochi e procedevano all’arresto di due marò del reggimento San Marco, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, accusandoli di aver ucciso i due pescatori.
A un anno di distanza, l’epilogo della vicenda sembra ancora lontano; per la lentezza del sistema giudiziario indiano, appesantito da una folta burocrazia, ma anche per il continuo braccio di ferro diplomatico tra l’Italia, il governo centrale indiano e lo Stato del Kerala, che faticano a trovare un punto d’incontro. Data la struttura federale della Repubblica indiana, la partita diplomatica infatti non è bilaterale, ma vede almeno tre attori direttamente coinvolti.
In questo intricato quadro, che contiene ancora molti punti oscuri circa gli avvenimenti e le successive indagini che ne sono scaturite, l’azione del governo italiano e segnatamente del Ministero degli Esteri si è immediatamente attivata con la presenza in India del sottosegretario De Mistura ed è stata continua e incessante.
La linea sostenuta con fermezza dall’Italia, che ha sempre cercato di non entrare specificatamente nel merito della vicenda e delle indagini (offrendo contemporaneamente l’assistenza legale ai due militari e non facendo loro mancare il suo appoggio), è che l’episodio incriminato sia avvenuto in acque internazionali (dove vige il diritto dello Stato la cui nave batte bandiera) e che i due Marò in quel momento stessero esercitando funzioni di militari in missione all’estero e che dunque agissero per conto dello Stato italiano; in tale veste essi godono dell’immunità della giurisdizione rispetto agli Stati stranieri.
D’altra parte, lo Stato del Kerala ha da subito considerato il fatto di propria competenza, in quanto i due pescatori uccisi erano di nazionalità indiana; con il governo centrale che ha sin qui avuto uno strettissimo margine di manovra, a causa della autonomia delle autorità locali e dell’indipendenza della magistratura rispetto al potere politico.
La strategia diplomatica italiana è stata quella di affrontare la questione su un piano internazionale (ad esempio affermando che l’episodio si potrebbe trasformare in un “pericoloso precedente” per le missioni antipirateria in cui è fondamentale la cooperazione internazionale) e coinvolgere più paesi possibili quali sostenitori della sua linea e allo stesso tempo strumenti di pressione nei confronti dell’India.
Inizialmente la diplomazia italiana si era mossa attraverso i “canali della fede”. Attraverso la mediazione del Vaticano, il Ministero degli Esteri aveva infatti interessato della questione il nuovo arcivescovo della chiesa siro – malabrese del Kerala, George Alencherry, nominato cardinale da Benedetto XVI una settimana dopo gli avvenimenti in questione. Alencherry aveva subito invitato le autorità locali a non agire con precipitazione e a non strumentalizzare gli eventi a fini elettorali (si avvicinavo infatti le elezioni nello Stato del Kerala, dove circa due milioni di persone vivono di pesca); si era poi rivolto al Ministro del turismo indiano, K. V. Thomas, cattolico di rilevante influenza, anch’egli presente durante la messa dei neocardinali con il Papa.
Il sottosegretario agli Esteri, Staffan De Mistura, è stato tra i più attivi in questa lenta e paziente azione diplomatica. Grazie ad una continua presenza in India, De Mistura si è spesso impegnato in lunghe trattative con le autorità indiane ogni volta che si presentavano nuovi sviluppi sulla vicenda. Come quando, tre settimane dopo la morte dei due pescatori, si sono aperte le porte del carcere di Trivandrum per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. De Mistura si è opposto con forza alla reclusione dei due militari italiani in un centro di detenzione per detenuti comuni, trattando con il direttore del carcere per ottenere una soluzione più adeguata.
Tre settimane dopo il fermo della Enrica Lexie nel porto di Kochi, anche l’Unione europea, nella figura dell’Alto Rappresentante per la politica estera, si è decisa a schierarsi a supporto dell’Italia nella sua azione diplomatica per giungere, secondo le parole di Catherine Ashton, “ad una soluzione soddisfacente”. Secondo alcune fonti, l’intervento europeo non sarebbe stato spontaneo, ma sarebbe avvenuto dietro la precisa richiesta del rappresentante italiano al Cops (Comitato politico di sicurezza dell’Ue). L’intervento dell’Alto Rappresentante in soccorso dei militari italiani non ha tuttavia portato i risultati sperati. Ha anzi rischiato di trasformarsi in un boomerang nel momento in cui la Ashton, commentando il suo incontro con Mario Monti sulla cooperazione Italia India in materia di pirateria, ha definito i marò “guardie di sicurezza armate private”. Una frase particolarmente infelice, dato che proprio sul fatto che Latorre e Girone abbiano agito come organi dello Stato italiano (in quanto militari) si fonda una buona parte della strategia di difesa legale e diplomatica dell’Italia.
Subito dopo la Ashton ha corretto il tiro, riformulando la frase con l’aggiunta del termine “distaccamenti di protezione delle navi”, l’espressione tecnica che indica appunto i nuclei militari di scorta ai mercantili.
La tela diplomatica tessuta dal Ministro Terzi e dai suoi collaboratori ha consentito di trovare un appoggio anche nella Gran Bretagna (anche se i due paesi non lo hanno mai ammesso in modo esplicito). A circa un mese dal fermo dei due militari italiani, a margine di una riunione dei ministri degli esteri a Copenaghen, Terzi ed il suo omologo inglese William Hague hanno avuto un fitto colloquio, durante la quale molto probabilmente si è discusso della detenzione dei marò in India e della possibilità di far valere la giurisdizione italiana.
Il G8 che si è svolto a Washington lo scorso aprile (due mesi dopo il giorno della morte dei due pescatori indiani) ha poi riaffermato, nel suo documento finale, il principio che attribuisce alla bandiera delle navi il diritto di giurisdizione in caso di incidente in acque internazionali: un endorsment formale alla posizione sostenuta dall’Italia nel negoziato con l’India, correlato dalla firma degli otto ministri degli esteri.
Alla fine dello scorso aprile, il Ministro Terzi affermava di aver ottenuto l’appoggio di una ventina di paesi di ogni parte del mondo, che erano intervenuti presso l’India per favorire una soluzione del braccio di ferro diplomatico. Anche la riunione dell’Asean (Associazione delle nazioni del sud – est asiatico), svoltasi a fine aprile, dove Terzi ha partecipato nel quadro dei rapporti Ue – paesi Asean, ha riaffermato il principio della giurisdizione.
La paziente azione diplomatica dell’Italia ha registrato un momento di tensione quando, nel giugno scorso, sono state formalizzate le accuse per i due marò da parte delle autorità del Kerala: omicidio, tentato omicidio, associazione a delinquere e danneggiamento. A seguito dei gravi capi di imputazione, l’Italia ha adottato la linea dura (secondo alcuni voluta da Staffan De Mistura), ovvero richiamare in patria per “consultazioni” l’ambasciatore italiano in India Giacomo Sanfelice.
La diplomazia italiana ha poi ripreso la strategia collaborativa che può tenere aperti più canali di comunicazione possibili ed ha conseguito un primo risultato positivo, quando il 30 maggio, dopo 82 giorni trascorsi nel carcere di Trivandrum, i marò sono stati rilasciati su cauzione.
Alla fine di ottobre, il Ministro Terzi ha subito preso contatti con il nuovo Ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid (musulmano di 59 anni del Partito del Congresso), sottolineando l’urgenza di una soluzione positiva del caso che vede coinvolti i due fucilieri della Marina militare.
L’Italia ha portato il caso anche all’attenzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a margine della riunione delle Nazioni Unite per l’accordo sull’estensione del protocollo di Kyoto, che si è svolta lo scorso dicembre a Doha. La diplomazia italiana si stava preparando ad alzare il tiro e a mettere in campo una strategia di delegittimazione internazionale dell’India nel quadro della lotta alla pirateria, ma pochi giorni dopo sono arrivati due segnali distensivi. Il primo è stato la concessione della licenza natalizia (della durata di due settimane) per i due marò, che hanno così potuto trascorrere le festività in patria con le loro famiglie (sono rientrati in India il 3 gennaio). Il secondo è stato la pronuncia della Corte suprema di New Delhi del 19 gennaio scorso, che ha negato la giurisdizione alla Corte del Kerala sul caso, stabilendo che ad occuparsi della vicenda sarà un tribunale speciale, costituito in coordinamento dal governo e dalla stessa Corte suprema. Un risultato non di poco conto la “de-keralizzazione” del processo, visto che nell’arco dell’anno appena trascorso in questo Stato si è venuta a creare una certa pressione mediatica e dell’opinione pubblica nei confronti dei marò, che avrebbe potuto influenzare in maniera negativa l’eventuale processo.
Il 22 febbraio 2013, ai due marò è stato concesso nuovamente, dalla Corte suprema indiana, un permesso di quattro settimane per tornare in Italia in occasione delle elezioni politiche svoltesi il 24 e 25 febbraio scorso e per poter riabbracciare i loro cari.
L'11 marzo scorso, l'ambasciatore italiano a Nuova Delhi Daniele Mancini ha dichiarato che i due fucilieri di marina non torneranno in India alla scadenza del permesso che era stato loro concesso per ritornare in Italia a votare, sulla base di un decisione assunta d'intesa con i ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la presidenza del Consiglio dei ministri.
Si apre quindi, in sede giuridica, una controversia internazionale con l'India, poichè, come riportato nella nota verbale della nostra Ambasciata, "l'Italia ha sempre ritenuto che la condotta delle Autorità indiane violasse gli obblighi di diritto internazionale gravanti sull'India in virtù del diritto consuetudinario e pattizio, in particolare il principio dell'immunità dalla giurisdizione degli organi dello Stato straniero e le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) del 1982''.
La Repubblica sudafricana, in base alla Costituzione del 1997 che ha definitivamente chiuso l’esperienza dell’Apartheid, è una repubblica parlamentare, nella quale però il Capo dello Stato, eletto dall’Assemblea nazionale (Camera bassa del Parlamento cfr. infra) con un mandato di cinque anni, è anche Capo del governo. L’Assemblea nazionale può, a maggioranza assoluta dei suoi membri, sfiduciare il governo con esclusione del Presidente, costringendo quest’ultimo alla nomina di un nuovo governo, oppure sfiduciare il Presidente e il governo, costringendo entrambi alle dimissioni. La Costituzione prevede che il Presidente possa a sua volta sciogliere l’Assemblea nazionale se questa ha approvato una risoluzione per richiedere lo scioglimento e sono passati almeno tre anni dalle elezioni. Il Parlamento è composto da due camere: l’Assemblea nazionale è composta da un minimo di 350 ad un massimo di 400 membri eletti per cinque anni, in parte con sistema proporzionale sulla base di liste nazionali e in parte con sistema proporzionale sulla base di liste provinciali (in entrambi i casi si tratta di liste bloccate) e il Consiglio nazionale delle province, composto da novanta componenti, cioè dieci delegati per ciascuna delle province sudafricane (sei dei quali permanenti e quattro speciali, tra cui il primo ministro della provincia), eletti dalle assemblee provinciali all’inizio di ciascuna legislatura delle stesse in modo da garantire anche la rappresentanza delle opposizioni. Il processo legislativo prevede che i progetti di legge possano iniziare il loro iter indifferentemente in ciascuna delle due Camere, ad eccezione dei progetti di legge in materia finanziaria che devono iniziare il loro iter obbligatoriamente nell’Assemblea nazionale. Nel caso in cui una delle due Camere respinga un progetto di legge approvato dall’altra, viene creato un comitato di conciliazione incaricato di formulare un nuovo testo. I progetti di legge che investano la competenza delle province devono però essere esplicitamente approvati dal Consiglio nazionale delle province.
Per Freedom House, il Sudafrica è uno “Stato libero”, in possesso dello status di “democrazia elettorale”, mentre il Democracy Index 2010 dell’Economist Intelligence Unit lo definisce “democrazia difettosa” (cfr. infra “Indicatori internazionali sul Paese”). Per quel che concerne l’esercizio concreto delle libertà politiche e civili, le libertà di associazione, di riunione e di manifestazione del pensiero, nonché quella di stampa e religiosa appaiono tutelate nella pratica, mentre appaiono ancora insufficienti le misure adottate per combattere la corruzione, che risulterebbe, secondo osservatori indipendenti, pervasiva e diffusa.
L’attuale Presidente della Repubblica è Jacob Zuma (n. 1942), leader dell’African National Congress (ANC), eletto nel 2009.
Nelle elezioni parlamentari svoltesi nel medesimo anno, l’African National Congress si è confermato come partito predominante nella realtà politica sudafricana con 264 seggi, seguito dall’Alleanza democratica di Helen Zille con 67 seggi e dal Congresso del popolo di Musioa Lekota con 30 seggi.
L’ANC governa il Sudafrica ininterrottamente dal 1994, anno delle prime elezioni libere. Questa costante presenza ha generato nel tempo una sovrapposizione tra le istituzioni dello Stato e gli organi del partito, nel senso che molto spesso le linee politiche definite all’interno della formazione politica sono diventate le direttrici di governo.
L’ANC ha sempre avuto un orientamento socialista ed ha tessuto stretti rapporti con le organizzazioni sindacali del paese, come il COSATU (Congresso of South Africa Trade Unions, nonché con partiti quali il SACP (South Africa Communist Party) e per contro da questi ha subito una certa influenza. La cacciata del predecessore dell’attuale Presidente Zuma dalla guida del partito, Thabo Mbeki, è stata ricondotta alle pressioni da questi esercitate contro le politiche di stampo neo –liberista.
La leadership di Zuma è stata recentemente messa in discussione da Julius Malema, che guida la Youth League dell’ANC dal 2008. Quest’ultimo accusava infatti l’attuale presidente di poca incisività nel programma di governo e connivenza con i paesi occidentali. Malema si è fatto portatore di una corrente più populista e classista all’interno dell’ANC, in contrasto con le posizioni più riformiste e concilianti del leader e Capo del governo sudafricano. Tale contrapposizione è sfociata nelle dichiarazioni di Malema contro la ricandidatura di Zuma per le presidenziali del 2014.
Ma il congresso dell’ANC, svoltosi lo scorso dicembre a Bloemfontaine, sembra aver messo definitivamente fine ad ogni tentativo di cambio si leadership. Zuma infatti si è riconfermato alla guida del partito, ottenendo la maggioranza dei voti dei circa 4.500 delegati presenti. Ha sconfitto Kgalema Motlanthe, attuale Vicepresidente.
Grazie a questa riconferma, Zuma sarà il candidato Presidente dell’ANC anche alle elezioni del 2014.
Grazie al sostenuto tasso di crescita del PIL registrato tra il 2004 e il 2007 (quando ha toccato la punta del 5,1%) è stato incluso nel club (ideale) delle nuove potenze emergenti, identificato con l’acronimo BRICS. Nonostante questo importante riconoscimento da parte della comunità internazionale, il Sudafrica non è stato in grado di proseguire lo sviluppo economico ai livelli sui quali si era attestato in quegli anni. La crisi economica e finanziaria globale, scoppiata nel 2008, ha pesato in modo determinante sul rallentamento del paese. Solo nel biennio 2008/09, circa un milione di persone hanno perso il lavoro in Sudafrica (la gran parte delle quali erano impiegate nel settore manifatturiero). L’aumento del tasso di disoccupazione si è riflesso negativamente sullo sviluppo sociale (a quasi venti anni dalla transizione democratica ancora permangono differenze tra la condizione degli afrikaners, discendenti dei colonizzatori boeri, e il resto della popolazione) e sul livello di criminalità.
Le recenti difficoltà attraversate dal settore minerario, che rappresenta una delle locomotive dell’economia sudafricana, hanno inferto un duro colpo alla crescita del PIL (il tasso di crescita nel 2012 è stato del 2,6%).
Questo settore rappresenta circa il 6% di tutto il PIL sudafricano e dà lavoro a circa 500mila persone. Riveste dunque un’importanza fondamentale nel sistema sudafricano, non solo dal punto di vista economico ma anche da quello sociale.
Già la recessione del 2008/2009 aveva duramente colpito il settore. A causa di un significativo calo della domanda mondiale, i prezzi delle risorse minerarie avevano infatti subito un pesante ridimensionamento: il platino era calato del 56%, il carbone del 50% e i diamanti del 40%. Questo si era tradotto in una diminuzione del fatturato dell’industria estrattiva del 32% nel solo 2009.
Qualche anno dopo il settore ha dovuto fronteggiare nuovi problemi, questa volta non a causa della negativa congiuntura economica, ma per lo scoppio di tensioni sociali interne. Nell’agosto 2011, nella città di Marikana, le forze dell’ordine hanno ucciso trentaquattro minatori che protestavano contro le compagnie di estrazione per ottenere condizioni di lavoro più dignitose e stipendi più alti. La mano dura della polizia ha innescato la scintilla della protesta, che è esplosa in tutta la sua violenza il settembre successivo, con migliaia di minatori che hanno invaso le strade della città e molti altri che hanno proclamato lo sciopero. I manifestanti chiedevano l’aumento del salario di circa tre volte il valore corrente. Il braccio di ferro tra sindacati e compagnie di estrazione si è protratto per molto tempo (alcuni scioperi sono durati anche per sei settimane di seguito) ed è stato molto duro. Da una parte c’erano migliaia di posti di lavoro a rischio, dall’altra c’era il timore degli investitori di veder diminuire competitività e introiti a seguito degli aumenti salariali. Durante il periodo di agitazione, le maggiori imprese, come la Anglo American Platinum o la Platinum Belt o la Anglo Gold Ashnati (quest’ultima tra le più grandi attive nel settore dell’oro) hanno denunciato l’interruzione della loro attività a causa di scioperi che hanno coinvolto tra i 25mila e i 35mila lavoratori. I numerosi giorni di attività rallentata nel settore dell’estrazione del platino e dell’oro è costato al Sudafrica circa mezzo punto di PIL nel 2012. La centralità del comparto minerario è l’ovvia conseguenza dell’abbondanza di risorse di cui il paese dispone. Il sottosuolo sudafricano detiene l’80% delle riserve mondiali di platino e consente al paese di piazzarsi al quarto posto nella classifica mondiale dei produttori di oro. Il Presidente Zuma ha comunicato che nel solo settore del platino si sono registrate perdite per 4,5 miliardi di rand (pari a circa 380 milioni di euro).
Le agitazioni del settore minerario si sono sommate alle già pesanti difficoltà che in cui versa il mercato del lavoro in Sudafrica, afflitto da una disoccupazione cronica, che ormai interessa quasi il 25% della forza lavoro. Data questa situazione precaria, è salito a ben 15 milioni il numero di persone che oggi beneficiano di programmi assistenziali e forme di sussidi.
Questo tasso di disoccupazione (uno dei più alti tra i paesi sviluppati) ha contribuito a mantenere quel divario sociale che fatica a richiudersi sin dalla fine dell’apartheid (nonostante l’implementazione di politiche come la Black Economic Empowerment) e un significativo aumento della criminalità.
Lo sviluppo economico sudafricano è stato frenato, in questi ultimi anni, anche dal mancato ammodernamento delle sue infrastrutture, in particolare quelle energetiche.
Il Sudafrica vanta uno dei costi più bassi al mondo dell’energia elettrica, circa 42 centesimi di rand (0,035 euro) per kilowatt ora. Questo prezzo viene ulteriormente scontato per i paesi verso cui il Sudafrica esporta elettricità, come Mozambico, Namibia, Swaziland, Lesotho, Botzwana e Zambia. La fornitura di elettricità in questo caso funge anche da “stabilizzatore sociale”, ovvero per favorire condizioni di vita dignitose agli abitanti dei paesi confinanti e in tal modo evitare che masse di profughi in cerca di una migliore qualità della vita si riversino in Sudafrica.
Ma questa politica si è rivelata un’arma a doppio taglio. Soprattutto perché nel corso degli anni ha reso estremamente esegui i profitti per la società monopolista Eskom e poco appetibile il mercato per nuovi investimenti di capitale.
La mancanza di utili ha reso impossibili i necessari interventi per l’ammodernamento e il potenziamento delle strutture di produzione e ben presto il paese si è trovato a dover fronteggiare una domanda (cresciuta soprattutto grazie allo sviluppo economico interno) maggiore dell’offerta.
Tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 il Sudafrica ha attraversato un periodo di continui black out elettrici, causati dall’insufficienza di energia prodotta. Cittadini ed imprese sono rimasti al buio con cadenza regolare. Anche le imprese di estrazione dei minerali, importante costola dell’economia sudafricana, sono state costrette a rallentare la propria attività a causa dell’impossibilità di garantire una continua ventilazione ai lavoratori che operavano sotto terra.
Il dibattito interno si è sviluppato lungo due idee principali, trovare fonti di produzione alternative (in questo momento la risorsa maggiormente utilizzata è il carbone) o diminuire la quantità di energia esportata e dirottarla verso il mercato interno.
Il periodo tra il 2007 e il 2009 è stato di recessione per il Sudafrica anche nel settore del commercio internazionale, sia sul fronte delle importazioni sia su quello delle esportazioni. Per quanto riguarda l’interscambio commerciale con l’Italia, le statistiche del biennio in questione mostrano una pesante flessione del volume di importazioni e una diminuzione più contenuta di quello delle esportazioni. L’interscambio del 2012 si è attestato intorno ai 3,3 miliardi di euro, con il Sudafrica che ha importato dall’Italia principalmente macchinari industriali, mentre vi ha esportato perlopiù metalli preziosi e altri metalli non ferrosi.
Il Sudafrica ha ospitato nel 2010 i Mondiali di calcio. Questo ha consentito una notevole attrazione di investimenti e di turismo, che hanno fatto da volano per l’economia del paese. Il governo ha investito importanti risorse per il potenziamento delle infrastrutture necessarie, come gli stadi e le aree circostanti con insediamenti commerciali e ricreativi. Tali risorse sono state utilizzate anche per migliorare la rete stradale, ferroviaria e per l’ammodernamento degli aeroporti.
In vista di un aumento del flusso turistico (che nel 2009, alla soglia dei Mondiali di calcio, contava già 9 milioni di utenti), sono state poi migliorate le strutture ricettive (come alberghi o alloggi nelle riserve naturali) con la creazione di circa 200mila nuovi posti. In quel periodo, anche il mercato immobiliare ha beneficiato dell’effetto mondiali: i prezzi delle case sono infatti saliti mediamente del 20%.
Secondo il rapporto recentemente pubblicato (dal ministero dello sport del Sudafrica) 2010 FIFA World Cup Country Report, il governo sudafricano ha speso in totale circa 3 miliardi di dollari per l’evento, di cui 1,1 per la costruzione e l’ammodernamento degli stadi e 1,3 per interventi su strade, ferrovie ed aeroporti.
Secondo uno studio della compagnia di analisi finanziarie Grant Thornton (citato nel documento), lo svolgimento dei mondiali di calcio ha significato e significherà durante gli anni a venire (data la proiezione di medio – lungo periodo) per l’economia sudafricana una spinta da 6 miliardi di dollari. Oltre il valore economico, c’è anche quello sociale: come riportato nel documento, “la Coppa del mondo ha lasciato un’eredità intangibile di orgoglio ed unità tra la popolazione ed ha cambiato l’immagine di un paese fino ad allora considerato sottosviluppato, soffocato dal crimine e pericoloso”.
Una delle poche stime certe fornite dal governo nel report è che l’introito generato dal flusso turistico, di circa 300mila durante il periodo di svolgimento dei mondiali, è stato di oltre 400 milioni di dollari.
Il conflitto israelo-palestinese, nel più ampio contesto regionale mediorientale, costituisce da sempre interesse prioritario del Parlamento. Il processo di pace non ha segnato punti di rilievo nell'arco della scorsa Legislatura - semmai mostrando gravi incidenti di percorso come le due crisi di Gaza - ma nella parte finale di essa la caduta soprattutto del regime egiziano di Mubarak ha fatto venire meno un attore fondamentale degli equilibri regionali, sì da suscitare apprensione in Israele. Tel Aviv vede infatti l'onda islamista emersa dalla Primavera Araba, e a fronte di ciò alcune mosse del governo israeliano ne hanno accresciuto l'isolamento internazionale: se ciò è palese nei confronti della Turchia, anche le relazioni con l'Amministrazione USA di Obama non risultano idilliache. Le elezioni del gennaio 2013 non hanno infatti dato a Netanyahu il successo che si aspettava, e la formazione del nuovo governo latita, mentre crescono le preoccupazioni per le conseguenze geopolitiche e militari di un prossimo crollo del regime siriano.
Poco dopo l’inizio della XVI legislatura l’operazione “Piombo fuso” tra 2008 e 2009, con il bombardamento e poi l’invasione israeliana della Striscia di Gaza conseguenti a ripetuti lanci di razzi dal territorio, segnava una drammatica recrudescenza del conflitto israelo-palestinese. Gli effetti si vedevano già nel febbraio 2009, quando nelle elezioni politiche anticipate in Israele si affermava il blocco delle destre attorno al Likud, mentre il partito centrista Kadima e soprattutto i laburisti registravano una secca sconfitta. Il leader del Likud Netanyahu riceveva l’incarico di formare il nuovo governo, al quale il 31 marzo 2009 la Knesset concedeva la fiducia - una coalizione assortita nella quale oltre al Likud del premier – che otteneva 13 Dicasteri - figuravano Yisrael Beitenu – 5 Dicasteri, tra i quali gli Esteri e il posto di vice premier per il leader Lieberman -, il Partito laburista (ad onta della contrarietà di una parte della sua rappresentanza parlamentare all’ingresso nel Governo di Netanyahu), al quale sono andati 4 Dicasteri, tra cui la Difesa e un secondo posto di vice premier per il leader Barak. Lo Shas ha avuto parimenti 4 Dicasteri, mentre la Casa ebraica ha ottenuto un solo dicastero. A parte l’inattesa presenza laburista, il nuovo Esecutivo si caratterizzava dunque per un'impronta di destra, sia d'ispirazione laica che confessionale. Il nuovo Esecutivo, con una maggioranza parlamentare di almeno 69 seggi (sui 120 della Knesset), mostrava comunque con chiarezza di essere frutto di numerosi compromessi in ragione dell’elevato numero di ministri e vice ministri (quasi 40) chiamati a farne parte.
Prima e dopo la formazione del nuovo governo israeliano si sono moltiplicate le iniziative diplomatiche internazionali per avviare a soluzione l'ormai insostenibile conflitto israelo-palestinese, ma il nuovo governo di Tel Aviv metteva subito in chiaro un nuovo approccio – “pace contro pace” e non più “pace contro territori”- alla questione, dichiarandosi sostanzialmente non più impegnato alla realizzazione della Road Map, e in particolare diffidando della formazione di uno Stato palestinese indipendente. In particolare, Netanyahu esprimeva con chiarezza il timore che uno Stato palestinese indipendente possa infine cadere sotto il controllo di Hamas, amplificando e non risolvendo i problemi delle relazioni con lo Stato ebraico.
Nella seconda parte del 2009 la questione degli insediamenti ha visto prolungarsi l'alternanza di aperture ed irrigidimenti da parte israeliana: il 25 novembre, però, giungeva la decisione israeliana di un congelamento di dieci mesi dei nuovi insediamenti in Cisgiordania (ma non a Gerusalemme), quale atto di buona volontà per far progredire i negoziati con i palestinesi. La decisione è stata adottata nel Gabinetto di sicurezza, organo ristretto al di fuori del quale probabilmente la determinazione avrebbe comportato la caduta del governo.
Mentre peggioravano vistosamente le relazioni con la Turchia, si accresceva l’impressione di un crescente isolamento di Tel Aviv sulla scena internazionale – anche per i contrasti con l’Amministrazione USA testimoniati dallo smacco subito nel marzo 2010 dal vicepresidente Joe Biden nel suo viaggio in Israele.
Le relazioni con Ankara peggioravano ancora in conseguenza degli eventi del 31 maggio 2010, quando poco prima dell'alba, forze speciali israeliane sono intervenute in acque internazionali per impedire l'accesso a Gaza di una flottiglia allestita da varie organizzazioni non governative sotto la sigla Free Gaza. La spedizione intendeva forzare il blocco selettivo imposto da Israele dal 2007 - anno in cui Hamas si era di fatto impadronito di Gaza - allo scopo di prevenire l’afflusso nella Striscia di armamenti o materiali suscettibili di utilizzazione bellica: in tal modo, tuttavia, gli abitanti di Gaza sono stati privati di un gran numero di articoli commerciali in precedenza disponibili. Nel tentativo di fermare la flottiglia, le forze armate israeliane abbordavano mediante elicotteri la nave più grande, la turca Mavi Marmara, ove in circostanze non del tutto chiarite si accendeva uno scontro, durante il quale le forze israeliane ricorrevano all'uso delle armi da fuoco, provocando nove morti e diversi feriti. Al proposito va ricordato che anche altre due navi della spedizione erano di nazionalità turca, come numerosi partecipanti ad essa, tra i quali alcune delle vittime. L’episodio destava comunque una vasta condanna nell’intera Comunità internazionale, e sia dall’ONU che dalla UE veniva la richiesta di un’indagine internazionale imparziale. Israele era costretto ad ammorbidire il suo atteggiamento, inizialmente assai deciso: il 20 giugno il Gabinetto di sicurezza adottava un provvedimento formale di revoca del blocco terrestre della striscia di Gaza in ordine a prodotti di uso civile, senza peraltro alcun mutamento nei confronti del blocco via mare. Il 12 luglio veniva reso noto il rapporto della Commissione militare israeliana di inchiesta sui fatti del 31 maggio, dopo lavori durati cinque settimane. La Commissione non ha stabilito responsabilità di carattere personale, rilevando alcuni errori negli alti comandi, ma nessuna mancanza di elevata gravità: le critiche si sono appuntate soprattutto verso la marina israeliana.
Dopo un periodo di intenso lavoro diplomatico portato avanti dall’inviato speciale USA per il Medio Oriente, George Mitchell, che ha reso possibili colloqui indiretti tra le parti e con altri importanti attori regionali; all'inizio di settembre 2010 sono ripresi i negoziati diretti tra Israele e l'Autorità nazionale palestinese, con un incontro tra Netanyahu e Abbas a Washington, nella cui imminenza vi era stata una riunione più ampia con la partecipazione dell'allora presidente egiziano Mubarak e del re di Giordania Abdallah II. Le trattative hanno ben presto mostrato segni di esaurimento, tanto da chiudersi appena un mese dopo. Dopo la metà di ottobre, inoltre, vi è stata una ripresa di attività edilizia sia negli insediamenti della Cisgiordania dapprima sottoposti a moratoria, sia a Gerusalemme est, dove una sorta di moratoria de facto era iniziata nel marzo 2010 dopo le dure polemiche tra Israele e gli Stati Uniti seguite alla visita del vicepresidente Joe Biden a Gerusalemme.
Il tema dell'espansione degli insediamenti è stato uno di quelli, del resto, che hanno provocato notevole tensione tra Israele e la Santa Sede a seguito del Sinodo speciale vaticano per il Medio Oriente svoltosi dal 10 al 24 ottobre 2010, e nel corso del quale l'imposizione del giuramento al carattere ebraico dello Stato israeliano è stata giudicata alla stregua di una flagrante contraddizione con i princìpi democratici.
I primi mesi del 2011, che hanno visto un inaspettato sommovimento generale nel Nord Africa e in alcune parti del Medio Oriente contro governi da lungo tempo al potere, non potevano lasciare indifferente lo Stato di Israele, in ragione dei prevedibili mutamenti degli equilibri interni dei vari paesi arabi e dell'intera regione. In particolare, la caduta di Mubarak ha privato di Israele di un interlocutore dimostratosi negli ultimi decenni assolutamente affidabile per una collaborazione a tutto campo - e non a caso uno dei primi allarmi in Israele è venuto dai ripetuti sabotaggi del gasdotto tra Arish e Ashkelon, concreto esempio di collaborazione non solo politica con il grande paese arabo confinante. L'area geografica di maggior preoccupazione è venuta così progressivamente ad essere la zona di confine tra l'Egitto e la striscia di Gaza, in cui Israele ha constatato un forte allentamento dei controlli di sicurezza che Mubarak aveva invece mantenuto assai stretti. Nella seconda metà di marzo vi era la ripresa in gran numero dei lanci di razzi dalla Striscia di Gaza, con il probabile nuovo diretto coinvolgimento di Hamas nell'operazione.
A fronte delle apprensioni israeliane, gli eventi della Primavera Araba non sembravano invece aver posto in questione il rapporto tra il ceto dirigente palestinese - sia esso quello di al-Fatah in Cisgiordania o quello di Hamas a Gaza - e la popolazione di riferimento, che pure non versava in una situazione rosea dal punto di vista strettamente economico e dei bisogni quotidiani.
Il progressivo mutamento degli equilibri geopolitici mediorientali ha trovato il 4 maggio 2011 una prima importante conferma, quando al Fatah e Hamas hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per una riconciliazione e la riunificazione politica e amministrativa dei Territori palestinesi, differendo al 2012 le elezioni. L'accordo tra le fazioni palestinesi è apparso immediatamente come risultato di un mutamento lieve ma significativo della politica regionale dell'Egitto.
I rapporti dei palestinesi con Israele si sono nuovamente deteriorati dall'inizio di agosto 2011, con una ripresa quotidiana di lanci di razzi dalla striscia di Gaza e relative risposte armate israeliane. Il clima è stato ulteriormente peggiorato quando, in risposta a un'inedita mobilitazione di piazza degli israeliani contro la politica economica del governo, sostenuta soprattutto dal ceto medio impoverito, il governo israeliano ha rilanciato con la proposta di costruire migliaia di nuove case a Gerusalemme est.
Il 18 agosto vi è stata un’escalation terroristica, quando una serie di attentati multipli accuratamente congegnati hanno colpito civili e militari israeliani nella regione meridionale del Neghev, provocando, oltre a numerosi feriti, almeno otto morti, con una conseguente immediata e dura rappresaglia sulla Striscia di Gaza da parte dell'aviazione israeliana. Il 19 agosto anche numerose città meridionali di Israele sono state colpite da una pioggia di razzi, mentre proseguivano le missioni dell'aviazione israeliana su Gaza. Le nuove violenze hanno attirato l'attenzione israeliana sul delicato confine del Sinai, che è sembrato improvvisamente divenire permeabile al passaggio di gruppi armati intenzionati ad effettuare attacchi sul territorio israeliano. La reazione israeliana ha avuto anche l'effetto di aprire un'aspra polemica con l'Egitto, che ha lamentato l'uccisione di cinque agenti della guardia di frontiera colpiti da un missile israeliano nel corso della rappresaglia. Tuttavia l'Egitto è poi sembrato adoperarsi attivamente per spegnere la tensione rinnovata tra Israele e la Striscia, ma il 9 settembre al Cairo, dopo aver demolito il muro di protezione eretto solo da pochi giorni davanti all’edificio assai alto, uno dei cui piani è occupato dall'ambasciata israeliana, decine di manifestanti sono penetrati nei locali della rappresentanza diplomatica, costringendo l'ambasciatore, il personale diplomatico e i loro familiari a una fuga drammatica, mentre sei appartenenti alla sicurezza israeliani sono stati messi in salvo solo per l'intervento di forze speciali egiziane. Al di fuori dell'ambasciata si sono poi verificati violenti scontri tra i manifestanti e le forze dell'ordine egiziane arrivate in massa a fronteggiare la gravissima circostanza.
La pubblicazione (2 settembre 2011) del rapporto della Commissione ONU sui fatti del 31 maggio 2010 ha fatto riesplodere il contrasto già pesantemente emerso tra Turchia e Israele, poiché, di fronte al rifiuto israeliano di presentare scuse ufficiali alla Turchia per la morte dei nove attivisti turchi, lo stesso 2 settembre Ankara ha proceduto a espellere l'ambasciatore israeliano e a porre fine a tutti gli accordi di cooperazione militare bilaterale con Tel Aviv, preannunciando inoltro un ricorso alla Corte internazionale di giustizia contro il blocco di Gaza. Il 6 settembre, poi, il primo ministro turco Erdogan ha annunciato la sospensione completa dei rapporti commerciali nel settore militare nei confronti di Israele. Recatosi in visita in Egitto, il 13 settembre il premier turco è intervenuto nella sede della Lega Araba, ove ha ribadito l'assoluta necessità del riconoscimento internazionale dello Stato palestinese, nonché l'atteggiamento di fermezza già esplicitato nei confronti di Israele.
L'Autorità nazionale palestinese il 23 settembre 2011 ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU – dove però in caso di votazione sarebbe scontato il veto USA -, in occasione della sessione dell'Assemblea Generale apertasi quattro giorni prima, la richiesta di riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese unilateralmente proclamato nei confini precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967. Nei giorni precedenti vi era stato un frenetico lavorio diplomatico dei paesi occidentali per impedire una mossa così diretta da parte dell’ANP: peraltro questi stessi paesi presentavano notevoli divisioni al loro interno, con Israele e Stati Uniti nettamente contrari, e l'Unione Europea ancora una volta divisa. Peraltro, l'offensiva diplomatica dell’ANP non si è limitata a presentare la richiesta di riconoscimento in seno alle Nazioni Unite, ma dopo rapidi negoziati ha ottenuto il 31 ottobre, da parte della Conferenza generale dell'UNESCO, l’ammissione della Palestina a far parte a pieno titolo dell'Organizzazione: anche in questo frangente l'Europa si è spaccata.
A fronte di questi sviluppi favorevoli all'ANP, gli Stati Uniti hanno bloccato la loro contribuzione di 60 milioni di dollari, pari a oltre 1/5 del bilancio totale dell'UNESCO, mettendo in seria difficoltà l'Organizzazione, mentre il Governo israeliano ha annunciato – incontrando il disappunto degli USA e dell’Unione europea - l'accelerazione per la costruzione di circa duemila alloggi negli insediamenti ebraici a Gerusalemme est e in Cisgiordania, congelando altresì il trasferimento all'ANP di entrate fiscali che a vario titolo le spettano in base agli Accordi di Oslo del 1993. Corrispettivo di questo difficile rapporto con l'ANP è stato l'accordo, reso noto l'11 ottobre, raggiunto con Hamas per la liberazione (avvenuta il 18 ottobre) del soldato israeliano Gilad Shalit - prigioniero a Gaza dal 2006 - in cambio di un migliaio di detenuti palestinesi, mediato decisivamente dall'Egitto e con il contributo turco.
Peraltro, i rapporti di Israele con la Striscia di Gaza sono rimasti assai tesi, e hanno visto alla fine di ottobre ripetuti lanci di razzi palestinesi in risposta a 'raid' aerei di Israele. La tensione con Gaza è riesplosa dal 7 dicembre, quando una serie di azioni mirate dell’aviazione israeliana, anche con l’uso di droni, ha provocato la morte di diversi attivisti di Hamas: per tutta risposta il sud di Israele è stato investito tra l’8 e il 9 dicembre da una pioggia di razzi proveniente dalla Striscia. E’ da notare positivamente che nella contingenza la diplomazia egiziana ha cercato di esercitare ancora una volta un ruolo moderatore. La posizione di Israele è stata resa vieppiù critica dal ritrovato accordo tra Abu Mazen e il leader in esilio di Hamas Meshaal, incontratisi il 24 novembre al Cairo per la seconda volta nell'anno in corso; nonché dai trionfi elettorali dei partiti islamico-moderati in tutta l’area nordafricana, dall’Egitto alla Tunisia e fino al Marocco.
Il riavvicinamento tra le maggiori fazioni palestinesi è proseguito nonostante alcuni problemi ancora da risolvere: il 6 febbraio 2012 è stato firmato nella capitale del Qatar, anche grazie alla mediazione delle locali autorità, un accordo che ha finalmente previsto la formazione di un governo unitario tra le fazioni palestinesi, di carattere tecnico, ma guidato dal presidente dell’ANP Abu Mazen, con il compito principale di preparare nuove elezioni parlamentari e presidenziali, la cui data però, per l'intanto, slittava sine die.
Il riavvicinamento tra le maggiori fazioni palestinesi è proseguito nonostante alcuni problemi ancora da risolvere: il 6 febbraio 2012 è stato firmato nella capitale del Qatar, anche grazie alla mediazione delle locali autorità, un accordo che ha finalmente previsto la formazione di un governo unitario tra le fazioni palestinesi, di carattere tecnico, ma guidato dal presidente dell’ANP Abu Mazen, con il compito principale di preparare nuove elezioni parlamentari e presidenziali, la cui data però, per l'intanto, slittava sine die.
In questo difficile contesto, una timida ripresa dei colloqui di pace israelo-palestinesi a partire dal 4 gennaio 2012 segnava presto il passo, senza registrare alcun progresso nonostante l'attiva presenza dei rappresentanti del Quartetto (USA, ONU, UE e Russia) e la mediazione della Giordania, divenuta assai più presente negli ultimi tempi nella questione palestinese.
Per quanto riguarda la politica interna israeliana, va ricordato che il premier Netanyahu ha ottenuto il 31 gennaio 2012 con un’ampia maggioranza la riconferma alla guida del Likud. Per quanto invece concerne l'opposizione di Kadima, l’inizio del 2012 ha fatto registrare un forte dissenso nei confronti della leader Tzipi Livni: alla fine di marzo, quando la guida di Kadima è passata nelle mani di Shaul Mofaz, che ha sconfitto nettamente la Livni.
Alla fine di febbraio 2012 nuovi motivi di scontro tra israeliani e palestinesi erano sorti in relazione alla gestione della Spianata delle Moschee a Gerusalemme, che secondo gli islamisti vedrebbe una pressione del fondamentalismo israeliano tale da mettere a rischio i luoghi santi musulmani – i toni spesso esagerati di alcune frange palestinesi sono in effetti talvolta corroborati da farneticanti prese di posizione di carattere biblico da parte dell’oltranzismo ebraico.
Dopo solo pochi giorni è tornata a divampare la violenza tra il territorio israeliano e la Striscia di Gaza, quando il 9 marzo l'aviazione di Tel Aviv ha eliminato lo sceicco al-Kaisi, capo di una formazione oltranzista minore fiancheggiatrice di Hamas: nei giorni successivi sono stati lanciati decine di razzi e colpi di mortaio dalla Striscia contro il territorio israeliano, mentre l'aviazione di Tel Aviv effettuava diverse ondate di missioni aeree, dichiarandone il carattere assolutamente mirato nei confronti di appartenenti a formazioni (soprattutto la Jihadislamica) impegnate in vario modo nella minaccia al territorio israeliano. Il 12 marzo il bilancio complessivo vedeva già 25 vittime palestinesi, con numerosi feriti, ma anche il coinvolgimento di diversi civili israeliani, colpiti dai pochi razzi sfuggiti al formidabile sistema di missili intercettori Iron Dome. Gli scontri sono tuttavia cessati dopo che nella notte tra 12 e 13 marzo è stata raggiunta tra le parti una tregua, di nuovo con la determinante mediazione dell’Egitto.
L’8 maggio ha segnato una svolta nel panorama politico israeliano, che già si preparava a elezioni legislative anticipate in settembre: infatti il partito centrista Kadima, ormai guidato da Shaul Mofaz dopo l’addio di Tzipi Livni, ma in preda a una grave crisi di identità, decideva improvvisamente di entrare nella coalizione di centro-destra guidata da Netanyahu, adducendo la motivazione di voler assicurare al paese una maggiore stabilità politica. La nuova compagine vantava comunque una mai prima registrata maggioranza di 94 seggi nellaKnesset.
Il 16 maggio vi è stato un rimpasto del governo dell'Autorità nazionale palestinese, con il premier Fayyad che ha rinunciato al portafogli delle finanze, dando vita a una compagine non riconosciuta da Hamas. Nel nuovo gabinetto sono entrati dieci ministri di prima nomina, e tra loro alcuni importanti esponenti di al-Fatah, che nei mesi precedenti avevano premuto per la restituzione parziale di cariche di governo a membri partitici. Il rimpasto del 16 maggio ha allontanato di fatto la formazione del governo tecnico di unità nazionale che gli accordi di riconciliazione tra ANP e Hamas avevano previsto: tale governo avrebbe dovuto essere guidato in via transitoria da Abu Mazen, in vista della preparazione di elezioni congiunte a Gaza e in Cisgiordania. In effetti, però, proprio la classe dirigente di Hamas a Gaza aveva temporeggiato, senza dar seguito a questa parte degli accordi di riconciliazione.
Nell’impasse negoziale con Israele, determinata soprattutto per Abu Mazen dalla prosecuzione della politica degli insediamenti ebraici, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese preannunciava l’8 giugno di voler richiedere all’Assemblea generale dell’ONU il riconoscimento come Stato osservatore non membro – alla stregua di quanto attualmente accordato alla Santa Sede. In tal modo l’ANP prendeva atto dell’insuperabilità del veto USA in Consiglio di Sicurezza, quand’anche la richiesta palestinese di ammissione a pieno titolo, presentata il 23 settembre 2011, avesse raggiunto il quorum di nove voti su quindici – e anche questo non si era verificato.
Sul piano interno Israele si è poi trovata a fronteggiare il problema dell’immigrazione illegale da alcuni paesi africani, rispetto alla quale è emersa la linea dura del partito confessionale Shas e del suo capo Yishay – entrato in polemica con l’approccio in questo caso più moderato della destra laica di Lieberman. Vi è stata inoltre una ripresa del movimento di contestazione sociale del 2011, deluso dalla mancata realizzazione di alcune promesse di Netanyahu, e che ha dato vita anche ad alcuni episodi di violenza.
Dal 18 al 23 giugno vi è stata una ripresa della violenza tra Israele e Gaza, che si innestava però nel nuovo clima egiziano determinato dall’elezione alla presidenza di Mohamed Morsi, esponente di spicco della Fratellanza musulmana. L’elemento di novità è stato proprio la mancanza di un ruolo mediatore dell’Egitto, impegnato in un critico snodo istituzionale: semmai, dopo la conferma della vittoria di Morsi, sono cresciute le inquietudini di Israele e le speranze di Hamas di ottenere appoggio e protezione dal nuovo corso della politica al Cairo. Per di più, il ripetersi in settembre di attacchi terroristici dal Sinai contro il territorio di Israele ha mantenuto alto il livello delle tensioni che in Israele pure esistono sin dalla caduta di Mubarak, nei confronti del futuro comportamento delle autorità egiziane. È infatti possibile che il ripetersi dei raid terroristici dal territorio della penisola possa ad un certo punto essere attribuito indirettamente all'Egitto, almeno per un'incapacità repressiva e di controllo.
Il contrasto con Gaza è riesploso alla metà di novembre, con l’uccisione di al Jabari - leader delle Brigate al-Qassam, il braccio militare di Hamas - avvenuta dopo un crescendo di lanci di razzi dalla Striscia di Gaza sul territorio israeliano: ha così avuto inizio l’operazione militare israeliana denominata “Colonna di fumo” o “Pilastro di difesa”, con massicci bombardamenti aerei dal 14 al 22 novembre. Il bilancio dell’operazione è stato di oltre 150 morti e migliaia di feriti tra i palestinesi e di sei vittime israeliane. La tregua, senza precondizioni, è stata negoziata dal presidente Obama e dal presidente egiziano Morsi, che ha segnato un notevole successo per sé e per l’Egitto. Tuttavia la tregua tra Israele e Gaza è molto fragile, ed entrambe le parti hanno minacciato una ripresa ancora più feroce delle ostilità nel caso di una sua violazione. Anche allo scopo di consolidare il cessate-il-fuoco, il 26 novembre sono ripresi al Cairo i colloqui indiretti tra Israele e Hamas che vedono sul tavolo molte questioni, tra le quali la richiesta di libera circolazione di persone e beni nella Striscia e la soppressione della "fascia di sicurezza" al confine con Israele che occupa quasi il 17 per cento del territorio della Striscia di Gaza. Sulla tregua aleggia anche lo spettro del legame tra Hamas, il gruppo Jihad Islamica e l’Iran, pubblicamente ringraziato per il rifornimento di armi: una delle condizioni poste dai gruppi armati della Striscia consiste proprio nell’abbandono da parte di Israele di qualsiasi tentazione di attaccare Teheran e i suoi siti nucleari.
La seconda guerra di Gaza – così definita per il numero altissimo delle vittime, che è sembrato riportare ai tempi dell’operazione “Piombo fuso” di quasi quattro anni prima - ha reso evidente un cambiamento nei rapporti di forza fra le fazioni palestinesi, dove l’interlocutore principale risulta ora essere Hamas, con il suo leaderKhaled Meshal, in esilio da molti anni e protagonista delle trattative per il cessate-il-fuoco al Cairo. La popolarità di Hamas, dopo il recente conflitto e, ancor più, dopo la firma della tregua, si è estesa anche in Cisgiordania.
Fatah, al contrario, il partito laico maggioritario nell’ANP che governa la Cisgiordania, nonostante il riconoscimento di Israele, sembra avere di fatto perso ruolo e visibilità con l’arrestarsi del processo, sostenuto dagli Stati Uniti, che avrebbe dovuto condurre alla firma di un trattato di pace. Il voto del 29 novembre all’ONU, con l’ammissione della Palestina quale Stato osservatore non membro ha riaperto i giochi per Fatah che, negli ultimi giorni, aveva ricevuto anche il sostegno di Hamas. Nell’ottica di Abu Mazen, il cambiamento di status[1] è l’ultima opportunità per la ripresa della strada dei “due Stati”. I palestinesi sperano inoltre che l’accesso agli organi delle Nazioni Unite possa portare nuovi diritti, anche se le opinioni in materia sono piuttosto contrastanti. Mentre è chiaro infatti che uno stato osservatore (come è stato anche l’Italia fino al 1955) partecipa alle riunioni dell’Assemblea generarle senza diritto di voto, altri aspetti, come la possibilità di aderire a trattati internazionali o alla Corte Internazionale di Giustizia, sono più controversi. Sembra invece meno problematica, anche se non scontata, la possibilità che alla Palestina venga consentito di aderire allo statuto della Corte Penale Internazionale, cosa che le permetterebbe di inoltrare l’accusa contro Israele per crimini di guerra se la strada del negoziato si dovesse nuovamente rivelare fallimentare.
Khaled Meshaal, che insieme ad Abu Mazen ha sostenuto nel 2011 un piano egiziano per la riconciliazione fra Hamas e Fatah, si è recato l’8 dicembre nella Striscia di Gaza, da dove manca dal 1967, per un tour di tre giorni. La visita di Meshaal fa pensare ad un riavvicinamento tra le due leadership di Hamas: quella in esilio e quella basata a Gaza. Quanto ai rapporti con i palestinesi della Cisgiordania, in una sua recentissima dichiarazione alla Reuters, Meshaal ha affermato che sebbene siano finora falliti tutti i tentativi di formare un governo di unità nazionale, esistono però adesso le condizioni per una riconciliazione.
Secondo Israele, l’iniziativa di Fatah all’ONU ha violato gli Accordi di Oslo del 1993, in base ai quali è stata istituita l’Autorità palestinese. Il portavoce del Governo, Mark Regev, ha dichiarato inoltre che la vicenda pone palestinesi e israeliani fuori dal processo negoziale. Israele ha inoltre annunciato di voler proseguire con la costruzione di 3.000 nuovi appartamenti in Cisgiordania e, soprattutto, in un’area di Gerusalemme est fortemente contesa (Area “E1” che collega Gerusalemme al resto della Cisgiordania) a lungo considerata come il maggior ostacolo alla realizzazione della soluzione dei due Stati. In aggiunta, ha deciso di trattenere le tasse destinate all'Anp in base agli accordi di Parigi[2].
Il 22 gennaio 2013 si sono svolte le elezioni politicheisraeliane, alle quali il premier Netanyahu si è presentato unitamente al partito della destra laica di Avigdor Lieberman: il risultato non è stato però incoraggiante per Netanyahu, che ha visto la propria coalizione perdere 11 seggi rispetto al risultato del 2009, pur restando nettamente la prima forza politica del nuovo Parlamento, con 12 seggi di vantaggio sulla seconda, la vera sorpresa, il partito centrista Yesh Atid guidato da Yair Lapid. Nel complesso, il complesso delle forze di destra – difficili comunque da ricondurre sotto un’unica direzione di marcia - ha riportato una risicata maggioranza di 62 seggi su un totale di 120 della Knesset. Nel voto è emersa anche una notevole differenziazione regionale, con l’affermazione netta dei partiti confessionali a Gerusalemme, con la tenuta sostanziale di Netanyahu e Lieberman a Haifa - precedentemente considerata la “città rossa” di Israele - e con la netta affermazione di Lapid a Tel Aviv, città tradizionalmente laica e modernista. Il 2 febbraio Netanyahu ha ricevuto l'incarico per formare il nuovo governo, le cui trattative si rivelano tuttavia assai difficili e dagli sbocchi imprevisti.
Sempre più chiaramente emergono intanto le preoccupazioni di Israele e della Comunità internazionale per un un possibile passaggio di armamenti anche letali dalla Siria ormai in disfacimento al forte alleato in territorio libanese, Hezbollah. In questo senso il 29 gennaio 2013 il capo dell'aviazione militare israeliana aveva senz'altro ammesso che lo Stato di Israele è già impegnato in una efficace lotta contro il trasferimento di armamenti agli Hezbollah attraverso il confine siro-libanese: solo poche ore dopo fonti estere che non hanno però ricevuto conferma ufficiale in Israele hanno riferito di un attacco di caccia israeliani sul confine tra Libano e Siria per impedire che una batteria di missili AS-17 giungessero in possesso di Hezbollah. La partita più pericolosa potrebbe innescarsi nel momento in cui il sospetto dei trasferimenti di armi riguardasse anche armamenti chimici.
Proprio alla fine di febbraio sembra riaccendersi poi la tensione con Gaza, dopo che già in Cisgiordania erano scoppiati tumulti in solidarietà ad alcuni detenuti palestinesi che in carcere avevano iniziato uno sciopero della fame. Gli scontri assumevano maggiore gravità dopo la morte in carcere di un palestinese arrestato il 18 febbraio, che secondo l’ANP sarebbe deceduto in seguito a percosse e torture. Il 26 febbraio un razzo proveniente da Gaza ha raggiunto la città israeliana di Ashqelon, e le autorità hanno chiuso i due valichi con Gaza di Erez e Kerem Shalom.
L'attenzione del Parlamento per la questione mediorientale era naturalmente già stata sollecitata nel passaggio tra il 2008 e il 2009, durante l’operazione militare israeliana a Gaza, quando le Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato avevano ascoltato comunicazioni del Ministro degli Esteri Frattini sugli sviluppi della situazione (sedute del 30 dicembre 2008 e del 7 gennaio 2009). Le questioni mediorientali erano peraltro già state al centro, nel novembre 2008, della missione in Siria di una delegazione della Commissione Affari esteri della Camera, su cui il Presidente della Commissione, On. Stefani, riferiva nella seduta del 18 dicembre 2008.
Il contesto mediorientale faceva da sfondo anche all'approfondimento della situazione regionale dei profughi, assistiti da un'apposita Agenzia ONU, l'UNRWA, il cui Commissario generale Filippo Grandi è stato ascoltato nell'ambito dell'indagine conoscitiva condotta dal Comitato permanente sui diritti umani della Commissione Affari esteri (seduta del 13 aprile 2010). Il conflitto israelo-palestinese, nel più ampio contesto della situazione mediorientale e mediterranea, aveva del resto già costituito l’oggetto principale delle comunicazioni del Governo, rese dal Ministro degli Affari esteri On. Franco Frattini alle Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato (seduta del 27 maggio 2009).
Sui drammatici fatti verificatisi il 31 maggio al largo delle coste di Gaza, quando l’abbordaggio da parte della Marina militare israeliana di alcune navi cariche di aiuti umanitari - che intendevano forzare deliberatamente il blocco selettivo imposto a Gaza dalle autorità israeliane - provocava nove morti (otto attivisti turchi ed un cittadino statunitense di origine turca) e numerosi feriti, il Governo ha svolto alla Camera una prima informativa nella seduta dell’Assemblea del 3 giugno 2010. La posizione italiana sulla vicenda veniva in seguito precisata dallo stesso Ministro degli Esteri, On. Frattini, che nella seduta del 9 giugno 2010 delle Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato ha riferito sui recenti sviluppi della situazione in Medio Oriente. Nei giorni successivi, che hanno poi condotto all’annuncio dell’alleggerimento del blocco su Gaza, il Ministro tornava a riferire in occasione delle comunicazioni concernenti il Consiglio europeo del 17 giugno 2010, rese come di consueto innanzi alle Commissioni riunite Esteri e Politiche dell’Unione europea dei due rami del Parlamento (seduta del 17 giugno 2010).
Il 14 settembre 2011 vi era l’ultimo intervento sui recenti sviluppi del processo di pace in Medio Oriente da parte del Ministro degli Affari esteri On. Franco Frattini, in occasione dell’audizione presso le Commissioni Esteri riunite dei due rami del Parlamento.
Il primo intervento parlamentare del Governo Monti sulla questione israelo-palestinese si è avuto quando il Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi di Sant’agata ha riferito alle Commissioni Esteri riunite della Camera e del Senato (seduta del 30 novembre 2011) in ordine alle linee programmatiche del suo Dicastero: il Ministro ha ribadito la posizione di equilibrio dell’Italia tra le esigenze contrapposte, che mira ad assicurare a un tempo il principio fondamentale dalla sicurezza dello Stato israeliano e dei suoi cittadini, e l’impegno non meno essenziale per la creazione di uno Stato palestinese.
Successivamente, sulla missione in Israele e nei Territori palestinesi di una delegazione della Commissione Esteri, svoltasi dal 21 al 24 febbraio 2012, sono state rese il 29 febbraio 2012 comunicazioni del presidente.
Un ulteriore intervento parlamentare del Governo, nella persona del Ministro degli Esteri Giulio Terzi, ha riguardato il riaccendersi di gravi tensioni tra Israele e la Striscia di Gaza nel contesto più ampio della crisi mediorientale - che soprattutto in Siria non accenna a trovare una soluzione -, nella seduta delle Commissioni Esteri riunite dei due rami del Parlamento del 20 novembre 2012. In precedenza il Ministro Terzi in analoga sede si era soffermato tra l’altro anche sui profili della questione israelo-palestinese (seduta del 6 giugno 2012).
Alla fine del 2012 le Commissioni Esteri riunite di Montecitorio e Palazzo Madama hanno nuovamente ascoltato il Ministro Terzi in ordine all’esito del voto in Assemblea Generale dell’ONU sul riconoscimento all’Autorità palestinese dello â€status’ di Paese osservatore non membro delle Nazioni Unite, in relazione alle prospettive del processo di pace (seduta dell’11 dicembre).
Il teatro israelo-palestinese è stato inoltre più volte al centro dell’attività parlamentare non legislativa in occasione delle periodiche comunicazioni del Governo sulle missioni militari internazionali cui l’Italia partecipa, in ragione della presenza di nostri militari nell’ambito delle missioni richiamate nella sezione dedicata agli interventi legislativi. L’ultima occasione è stata quella del 16 gennaio 2013, quando i Ministri degli Esteri e della Difesa hanno riferito alle omologhe Commissioni riunite dei due rami del Parlamento.
Osservatorio di politica internazionale
Con l’uccisione di al-Jabari, avvenuta il 14 novembre 2012 dopo un crescendo di lanci di razzi dalla Striscia di Gaza sul territorio israeliano, ha avuto inizio all’operazione militare israeliana denominata “Colonna di fumo” o “Pilastro di difesa”.
Al-Jabari era il leader delle Brigate al-Qassam, il braccio militare di Hamas, responsabile, tra l’altro, dell'incursione sul territorio israeliano nel corso della quale fu rapito il soldato Gilad Shalit. Secondo lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, Jabari era l’ideatore di tutti gli attacchi terroristici provenienti da Gaza che negli ultimi dieci anni hanno colpito Israele.
“Colonna di fumo” è iniziata il 14 novembre con massicci bombardamenti aerei ed è terminata il 22 novembre. Il governo israeliano aveva dichiarato che gli attacchi contro obiettivi militari e politici nella Striscia avevano uno scopo dissuasivo verso il lancio di missili su Israele.
Il bilancio dell’operazione è stato di oltre 150 morti e migliaia di feriti tra i palestinesi e di sei vittime israeliane. La tregua, senza precondizioni, è stata negoziata dal presidente Obama e dal presidente egiziano Morsi.
La tregua è stata salutata da Hamas con toni trionfalistici e con la proclamazione di una giornata di festa alla quale, tuttavia, le diverse fazioni armate presenti nella Striscia si sono presentate separatamente, suscitando dubbi circa la capacità di Hamas di tenere sotto controllo i gruppi più estremisti - fra i quali quello denominato Jihad Islamica - e di conseguenza, sulla solidità del cessate-il-fuoco.
Soddisfatti della tregua i rappresentanti del governo israeliano, che nelle dichiarazioni pubbliche hanno affermato di aver ottenuto l’obiettivo prefissato e che avevano ricevuto il sostegno di tutti gli schieramenti politici all’intervento militare. L’unica voce di dissenso è stata quella dei partiti arabi, primo fra tutti Hadash.
Ampio il consenso all’operazione militare anche da parte dell’opinione pubblica israeliana che, mai come in questo momento, si sente minacciata dal lancio di razzi sul territorio israeliano. E’ indubbio infatti che, rispetto al passato, Hamas costituisca un pericolo maggiore avendo potenziato il proprio arsenale militare, grazie agli aiuti dell’Iran e del Qatar e grazie anche alla presenza di centinaia di tunnel
sotterranei che tuttora collegano la Striscia di Gaza con il territorio egiziano del Sinai.
Secondo il centro di ricerche Stratfor, Hamas ha raddoppiato la sua potenza di fuoco grazie all’acquisto di razzi Fajr-5 che hanno una gittata di circa 77 chilometri e che possono quindi costituire una seria minaccia anche per le due principali città israeliane, Tel Aviv e Gerusalemme.
La tregua tra Israele e Gaza è molto fragile, ed entrambe le parti minacciano la parte avversa di una ripresa ancora più feroce delle ostilità nel caso di una sua violazione. Anche allo scopo di consolidare il cessate-il-fuoco, il 26 novembre sono ripresi al Cairo i colloqui indiretti tra Israele e Hamas che vedono sul tavolo molte questioni, tra le quali la richiesta di libera circolazione di persone e beni nella Striscia e la soppressione della "fascia di sicurezza" al confine con Israeleche occupa quasi il 17 per cento del territorio della Striscia di Gaza.
Sulla tregua aleggia anche lo spettro del legame tra Hamas, il gruppo Jihad Islamica e l’Iran, pubblicamente ringraziato per il rifornimento di armi: una delle condizioni da parte dei gruppi armati della Striscia per il mantenimento della tregua consiste proprio nell’abbandono da parte di Israele di qualsiasi tentazione di attaccare Teheran e i suoi siti nucleari.
La ripresa del tavolo negoziale tra Hamas ed Israele mette in luce con tutta evidenza la minore rilevanza di quello che era stato uno degli attori più importanti della questione israelo-palestinese: l’ANP. Impegnato nella campagna per l’approvazione della risoluzione con la quale l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto alla Palestina (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est) lo status di "paese osservatore non-membro", Abu Mazen aveva inizialmente visto accogliere le proprie dichiarazioni distensive circa la sua opposizione all’insorgere di una “Terza Intifada” con durezza da parte del ministro degli esteri israeliano Lieberman, che ha minacciato dure contromisure nel caso di un’adozione di tale risoluzione.
La seconda guerra di Gaza ha reso evidente un cambiamento nei rapporti di forza fra le fazioni palestinesi, dove l’interlocutore principale risulta ora essere Hamas, con il suo leader Khaled Meshal, in esilio da molti anni e protagonista delle trattative per il cessate-il-fuoco al Cairo. La popolarità di Hamas, dopo il recente conflitto e, ancor più, dopo la firma della tregua, si estende ora anche in Cisgiordania.
Fatah, al contrario, il partito laico maggioritario nell’ANP che governa la Cisgiordania, nonostante il riconoscimento di Israele, sembra avere di fatto perso ruolo e visibilità con l’arrestarsi del processo, sostenuto dagli Stati Uniti, che avrebbe dovuto condurre alla firma di un trattato di pace.
Il voto del 29 novembre all’ONU riapre i giochi per Fatah che, negli ultimi giorni, ha ricevuto il sostegno di Hamas per l’iniziativa che prima di allora aveva avversato.
Nelle intenzioni di Abu Mazen, il cambiamento di status[1] è l’ultima opportunità per la ripresa della strada dei “due Stati”. I palestinesi sperano inoltre che l’accesso agli organi delle Nazioni Unite possa portare nuovi diritti, anche se le opinioni in materia sono piuttosto contrastanti. Mentre è chiaro infatti che uno stato osservatore (come è stato anche l’Italia fino al 1955) partecipa alle riunioni dell’Assemblea generarle senza diritto di voto, altri aspetti, come la possibilità di aderire a trattati internazionali o alla Corte Internazionale di Giustizia, sono più controversi. Sembra invece meno problematica, anche se non scontata, la possibilità che alla Palestina venga consentito di aderire allo statuto della Corte Penale Internazionale, cosa che le permetterebbe di inoltrare l’accusa contro Israele per crimini di guerra se la strada del negoziato si dovesse nuovamente rivelare fallimentare.
Lo scorso aprile, il procuratore generale della Corte penale internazionale aveva rigettato una dichiarazione del 2009 dell’ANP che, unilateralmente, riconosceva la giurisdizione della Corte. Il rifiuto della CPI era motivato dal fatto che, in base all’articolo 12 dello Statuto di Roma, solo uno Stato può accettare la competenza della Corte e depositare lo strumento di adesione presso il Segretario generale dell’Onu, mentre lo status della Palestina presso le Nazioni Unite era di semplice “osservatore”.
Nonostante il successo ottenuto con il voto del 29 maggio, resta però ancora vivo in Fatah il progetto di far divenire la Palestina un paese membro delle Nazioni Unite a pieno titolo.
Khaled Meshaal, che insieme ad Abu Mazen ha sostenuto nel 2011 un piano egiziano per la riconciliazione fra Hamas e Fatah, si è recato l’8 dicembre nella Striscia di Gaza, da dove manca dal 1967, per un tour di tre giorni. In un discorso pubblico – bollato da Israele come “carico di odio” e “estremista” - ha dichiarato che i palestinesi non riconosceranno mai Israele e non cederanno alcuna parte del proprio territorio.
Il Portavoce del Governo israeliano, Mark Regev, ha commentato che il messaggio di Meshaal rifiuta la pace e la riconciliazione e autorizza a considerare ogni israeliano un obiettivo da colpire.
La visita di Meshaal fa pensare ad un riavvicinamento tra le due leadership di Hamas: quella in esilio e quella basata a Gaza. Quanto ai rapporti con i palestinesi della Cisgiordania, in una sua recentissima dichiarazione alla Reuters, Meshaal ha affermato che sebbene siano finora falliti tutti i tentativi di formare un governo di unità nazionale, esistono però adesso le condizioni per una riconciliazione.
Secondo Israele, l’iniziativa di Fatah ha violato gli Accordi di Oslo del 1993, in base ai quali è stata istituita l’Autorità palestinese. Il portavoce del Governo, Mark Regev, ha dichiarato inoltre che la vicenda pone palestinesi e israeliani fuori dal processo negoziale
La risposta al voto del 29 novembre è stata immediata: Israele ha annunciato di voler proseguire con la costruzione di 3.000 nuovi appartamenti in Cisgiordania e, soprattutto, in un’area di Gerusalemme est fortemente contesa (Area “E1” che collega Gerusalemme al resto della Cisgiordania) a lungo considerata come il maggior ostacolo alla realizzazione della soluzione dei due stati. In aggiunta, ha deciso di trattenere le tasse destinate all'Anp in base agli accordi di Parigi[2].
La decisione non è stata ritirata nemmeno dopo la convocazione degli ambasciatori israeliani da parte di Spagna, Francia, Svezia e Regno Unito in un primo momento, seguiti da Australia, Irlanda, Finlandia. Anche l’Egitto, garante del cessate il fuoco tra Israele e Hamas ha chiesto spiegazioni al rappresentante diplomatico in Egitto e preoccupazioni circa i nuovi insediamenti sono stati espressi altresì al rappresentante diplomatico presso l’Unione europea.
Israele aveva sperato nel voto contrario di almeno 20 o 30 paesi, ma solo nove – fra cui quattro piccoli paesi insulari del Pacifico – si sono opposti alla richiesta dei palestinesi. La Repubblica ceca è stato l’unico paese europeo a schierarsi dalla parte di Israele in quella circostanza. Il voto favorevole di tanti paesi ritenuti amici da Israele, come anche l’astensione della Germania è stata considerata una sorta di tradimento.
Ulteriori sanzioni contro la Palestina sono state minacciate nel caso in cui i palestinesi dovessero utilizzare il nuovo status presso il Palazzo di Vetroper presentare accuse contro Israele presso la Corte Penale Internazionale.
Israele si trova ora impegnato nella campagna per le elezioni politiche fissate per il prossimo 22 gennaio. Un sondaggio pubblicato dal quotidiano Maariv il 7 dicembre rivela che, nonostante l'isolamento internazionale del premier Netanyahu causato dal rilancio delle costruzioni nelle colonie, la coalizione dei due maggiori partiti di destra (il Likud di Netanyahu e Israel Beitenu del ministro degli esteri Lieberman) resta la favorita e otterrebbe 38 seggi.
Nell'ambito della cooperazione internazionale, il Parlamento ha ratificato alcune convenzioni che hanno comportato modifiche al nostro diritto penale (si pensi soprattutto agli accordi internazionali in tema di lotta alla corruzione o per rafforzare la tutela dei minori vittime di reati di sfruttamento sessuale). In prossimità dello scadere della legislatura è stata inoltre approvata la legge che adegua l'ordinamento italiano alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale. Per quanto riguarda la cooperazione giudiziaria in ambito europeo, le leggi comunitarie 2008 e 2009 hanno delegato il Governo all'attuazione di alcune decisioni quadro in materia penale.
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha ratificato un'ampia serie di accordi internazionali, che hanno comportato spesso la necessità di adeguare l'ordinamento nazionale per garantire il pieno rispetto degli impegni assunti dal nostro Stato. Nel settore della cooperazione giudiziaria internazionale, tradizionalmente, l'iniziativa legislativa è assunta dal Governo, che presenta al Parlamento disegni di legge di ratifica degli accordi internazionali, completati dalle disposizioni di adeguamento interno. Nel corso della XVI legislatura si è verificato che l'iter della legge è stato spesso avviato da proposte di origine parlamentare e l'iniziativa del Governo è intervenuta solo successivamente (si pensi alla ratifica delle convenzioni anticorruzione) ovvero non è stata esercitata (si pensi all'adeguamento alle disposizioni dello Statuto della Corte penale internazionale).
Nel corso della legislatura il Parlamento ha ratificato tre Convenzioni internazionali, una delle Nazioni Unite e due del Consiglio d'Europa, volte a reprimere il fenomeno della corruzione.
Il primo intervento del Parlamento in tema di lotta alla corruzione è stato l'approvazione della legge 116/2009, di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a Merida nel 2003.
Pochi mesi dopo, il Senato avviava l'esame di un disegno di legge del Governo Berlusconi (AS. 2156) che affrontava il tema della lotta alla corruzione prevedendo un generale inasprimento delle pene per i delitti contro la pubblica amministrazione. Il complesso iter della legge "anticorruzione" influenzerà anche l'approvazione dei progetti di legge di ratifica di due convenzioni del Consiglio d'Europa, che il Parlamento deciderà di ratificare senza disposizioni di adeguamento interno, ritenendo che ogni ulteriore modifica al diritto penale sostanziale dovesse trovare sede nel progetto di legge anticorruzione, poi legge 190/2012.
Pertanto, con la legge 110/2012, il Parlamento ha ratificato la Convenzione penale di Strasburgo del 1999 sulla corruzione che impegna, in particolare, gli Stati a prevedere l'incriminazione di fatti di corruzione attiva e passiva tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel settore privato; del cosiddetto traffico di influenze; dell'autoriciclaggio. Con la legge 112/2012 ha ratificato la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo nel 1999 e diretta, in particolare, ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudiziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione.
Il Parlamento ha approvato la legge 1 ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote).
La Convenzione di Lanzarote, entrata in vigore il 1° luglio 2010, è il primo strumento internazionale con il quale si prevede che gli abusi sessuali contro i bambini siano considerati reati. Oltre alle fattispecie di reato più diffuse in questo campo (abuso sessuale, prostituzione infantile, pedopornografia, partecipazione coatta di bambini a spettacoli pornografici), la Convenzione disciplina anche i casi di grooming (adescamento attraverso internet) e di turismo sessuale. La Convenzione delinea misure preventive che comprendono lo screening, il reclutamento e l’addestramento di personale che possa lavorare con i bambini al fine di renderli consapevoli dei rischi che possono correre e di insegnare loro a proteggersi, stabilisce inoltre programmi di supporto alle vittime, incoraggia la denuncia di presunti abusi e di episodi di sfruttamento e prevede l’istituzione di centri di aiuto via telefono o via internet.
In sintesi, la legge 172/2012 prevede, oltre alla ratifica della Convenzione, disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno, tra le quali si segnalano rilevanti novelle al codice penale. In particolare, il provvedimento:
Ulteriori interventi riguardano il codice di procedura penale (con una serie di disposizioni che, in relazione ai delitti di sfruttamento sessuale dei minori, novellano le norme sulle indagini preliminari, sull'arresto obbligatorio in flagranza, sull'assunzione delle prove e sul patteggiamento).
Infine, il provvedimento modifica la disciplina delle misure di prevenzione personali (con particolare riferimento al divieto di avvicinamento a luoghi abitualmente frequentati da minori); limita la concessione di benefici penitenziari ai condannati per delitti di prostituzione minorile e pedopornografia, nonché di violenza sessuale; ammette al gratuito patrocinio, anche in deroga ai limiti di reddito, le persone offese dai suddetti delitti.
Modifiche al diritto penale sostanziale sono state apportate anche in occasione dell'approvazione della Legge 108/2010 - Ratifica Convenzione di Varsavia, che ha novellato gli articoli 600, 601 e 602 del codice penale, inserendo in un'unica previsione (art. 602-ter) tutte le aggravanti dei delitti di tratta, nonché dalla Legge 201/2010 - Protezione degli animali da compagnia, che ha novellato le previgenti disposizioni sull'uccisione di animali e il maltrattamento di animali oltre a prevedere nuove fattispecie penali per alcune condotte relative al traffico di animali da compagnia (cani e gatti). Infine, nuove fattispecie penali militari sono state introdotte nell'ordinamento dalla Legge 45/2009 - Protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.
Sul versante della procedura penale un ruolo importante nella XVI legisaltura ha giocato l'approvazione della legge 85/2009, con la quale l'Italia ha aderito al “Trattato di Prüm”, allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale. L'adesione al Trattato ha comportato l'istituzione della banca dati del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA, con la finalità di rendere più agevole l'identificazione degli autori di delitti: ciò ha reso necessario un intervento sul codice di procedura penale per consentire i c.d. accertamenti tecnici coattivi, ovvero il prelievo del DNA a determinati soggetti.
Dando seguito alla legge 232/1999, di ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale, il Parlamento ha approvato la legge n. 237 del 2012, con la quale ha adeguato l'ordinamento interno alle previsioni dello Statuto, consentendo all'Italia di fornire, in caso di necessità, piena cooperazione alla Corte.
Si ricorda, infatti, che lo Statuto è stato adottato a Roma il 17 luglio 1998 dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite ed è entrato in vigore il 1° luglio 2002, in conformità a quanto disposto dall’articolo 126 dello Statuto stesso, che ha fissato la condizione del deposito di almeno 60 strumenti di ratifica, adesione o accettazione. L'Italia - responsabilizzata dall'esser stata scelta come sede per la conclusione dell'accordo, è stato il primo Paese europeo a ratificare lo Statuto, mediante la legge 12 luglio 1999, n. 232, ma sino ad oggi non aveva dettato le norme di adeguamento interno, in assenza delle quali era impossibile cooperare con la Corte, ad esempio consegnandole gli autori (o i presunti autori) di gravi crimini internazionali che in Italia avessero cercato rifugio.
Con il trattato di Lisbona, il terzo pilastro della politica europea, ovvero il settore Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale ha beneficiato della comunitarizzazione, ovvero è transitato pienamente nel diritto comunitario. Conseguentemente, dal 2009, il Parlamento non sarà più chiamato a recepire decisioni quadro, sostituite a seconda dei casi da regolamenti e direttive europee.Ciò non toglie che residuino per il nostro Paese una serie di precedenti decisioni-quadro, che necessitano di un intervento legislativo di adeguamento. In merito, nel corso della XVI legislatura ha provveduto la legge comunitaria 2008 (legge 88/2009), che contiene alcune deleghe al Governo per l’attuazione di decisioni quadro adottate dall’Unione europea nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.
Tali decisioni quadro in particolare riguardano: la lotta contro la criminalità organizzata; l'applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca; lo scambio di informazioni e intelligence tra le autorità degli Stati membri dell’Unione europea, ai fini dello svolgimento di indagini penali o di operazioni di intelligence criminale; l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea. Il Governo ha dato attuazione alla delega con l'emanazione del solo decreto legislativo 161/2010, in tema di reciproco riconoscimento delle sentenze penali.
Anche la legge comunitaria 2009 (legge 96/2010) contiene la delega al Governo per l’attuazione di ulteriori decisioni quadro, in particolare in materia di lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti, repressione del favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali; traffico illecito di stupefacenti; posizione della vittima nel procedimento penale. Nessuna di tali deleghe è stata esercitata.
Da ultimo si segnala, nonostante non abbia concluso l'iter parlamentare, il progetto di legge A.C. 4262, già approvato dal Senato, che prevede l’istituzione di squadre investigative comuni sovranazionali, in attuazione della decisione quadro n. 2002/465/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002. Il provvedimento - per il cui contenuto analitico si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera - disciplina la costituzione delle squadre investigative comuni, sia nel caso in cui questa avvenga su richiesta del procuratore della Repubblica italiano, che nel caso in cui la richiesta provenga dall’autorità di uno Stato estero, individuando i presupposti e le modalità di richiesta.
Con l'emanazione del decreto legislativo 7 settembre 2010, n. 161, il Governo ha attuato la delega conferitagli dal Parlamento con la legge comunitaria 2008 (legge 88/2009) per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/909/GAI relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione in Italia.
La decisione quadro si fonda sul principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali e sulla fiducia reciproca degli Stati membri nei rispettivi ordinamenti giuridici. Secondo l’articolo 3, la finalità della decisione quadro è stabilire le norme in base alle quali uno Stato membro, al fine di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, debba riconoscere una sentenza emessa in un altro Stato membro ed eseguire la pena. Peraltro, la decisione quadro si applica solo al riconoscimento delle sentenze e all’esecuzione delle pene detentive. Il riconoscimento e l’esecuzione di sanzioni pecuniarie o di decisioni di confisca in un altro Stato membro, eventualmente irrogate oltre alla pena, sono disciplinati da altri specifici strumenti applicabili tra gli Stati membri e, in particolare, dalla decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, e dalla decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio, del 6 ottobre 2006, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni di confisca.
Il decreto legislativo 161/2010 è stato emanato nell’esercizio della delega contenuta negli articoli articolo 49, comma 1, lett. c) e 52 della legge comunitaria 2008 (legge 7 luglio 2009, n. 88); in particolare è l'articolo 52 a fornire i principi e criteri direttivi specifici per l’esercizio della delega.
Con la lettera a) si prevede l’introduzione di norme che consentano al giudice italiano che ha pronunciato sentenza di condanna irrevocabile di trasmetterla (con un certificato conforme al modello allegato alla decisione quadro) all’autorità competente di altro Stato dell’Unione europea ai fini del riconoscimento e dell’esecuzione in quello Stato. Ciò in presenza, tuttavia, delle specifiche condizioni indicate dalla decisione quadro, ovvero:
La lettera b) provvede a dettare i principi e criteri direttivi di delega con riferimento all'ipotesi inversa, ovvero la condanna emessa in uno Stato UE che può essere trasmessa (unitamente al certificato conforme al modello allegato alla decisione quadro) all’autorità giudiziaria italiana al fine del riconoscimento e dell’esecuzione. Oltre alle condizioni indicate alla lett. a) per il trasferimento in Italia del condannato sono state inserite altre specifiche condizioni riprese dalle previsioni della decisione quadro.
La lettera c) riguarda l’individuazione da parte del legislatore delegato dei motivi del rifiuto di riconoscimento o di esecuzione della sentenza di condanna trasmessa da un altro Stato membro. Tali motivi sono contenuti nell’art. 9 della decisione quadro e riprendono, anche in tal caso e in larga parte, i motivi di rifiuto di esecuzione di un mandato di arresto europeo. La lettera c) lascia ferma la possibilità di dare riconoscimento ed esecuzione parziali alla sentenza trasmessa, ai sensi dell’art. 10 della decisione quadro, nonché di acconsentire a una nuova trasmissione della sentenza, in caso di incompletezza del certificato o di sua manifesta difformità rispetto alla sentenza, ai sensi dell’art. 11 della decisione quadro.
Con la lettera d) si prevede che nell’esercizio della delega relativa al procedimento di riconoscimento ed esecuzione in Italia delle sentenze emesse da autorità giudiziarie siano individuati l’autorità giudiziaria competente nonché i termini e le forme da osservare, nel rispetto dei principi del giusto processo.
La lettera e), riprendendo in maniera pressoché testuale il testo dell’art. 12, par. 2, della decisione quadro, fissa il termine di 90 giorni, decorrenti dal ricevimento della sentenza e del certificato, per la decisione definitiva sul riconoscimento e l’esecuzione della pena in Italia.
Con le lettere da f) a i), si forniscono i principi e i criteri direttivi di esercizio della delega in riferimento all’adozione di misure cautelari provvisorie e all’esecuzione dell’arresto della persona condannata di cui si chiede in Italia il riconoscimento e l’esecuzione della sentenza di condanna. Si intende, in tal modo, dare attuazione a quanto previsto dall’art. 14 della decisione quadro (sull’arresto provvisorio), secondo cui se la persona condannata si trova nello Stato di esecuzione, quest’ultimo può, su richiesta dello Stato di emissione e prima di ricevere la sentenza e il certificato o prima che sia presa la decisione di riconoscere la sentenza ed eseguire la pena, arrestare la persona condannata o adottare qualsiasi altro provvedimento per assicurare che essa resti nel suo territorio, in attesa di una decisione di riconoscimento della sentenza e di esecuzione della pena. La durata della pena non è aumentata per effetto di un periodo di detenzione scontato in virtù della presente norma.
Mentre la lettera f) stabilisce, in generale, la possibile adozione di tali misure, la lettera g) statuisce che: 1) esse possano essere adottate alle condizioni previste dalla legislazione italiana e che la loro durata non possa superare i limiti previsti; 2) il periodo di detenzione per tale motivo non possa determinare un aumento della pena inflitta dallo Stato di emissione; 3) esse perdano efficacia in caso di mancato riconoscimento della sentenza trasmessa dallo Stato di emissione e in ogni caso decorsi 60 giorni dalla loro esecuzione, salva la possibilità di prorogare il termine di trenta giorni in caso di forza maggiore.
La lettera h) prevede che la polizia giudiziaria possa procedere all’arresto provvisorio della persona condannata per la quale vi sia una richiesta di riconoscimento allo scopo di assicurare la sua permanenza nel territorio e in attesa del riconoscimento della sentenza di condanna emessa all’estero.
La lettera i) stabilisce che, in caso di arresto provvisorio, la persona arrestata sia messa immediatamente, e comunque non oltre 24 ore, a disposizione dell’autorità giudiziaria, che questa proceda al giudizio di convalida entro quarantotto ore dalla ricezione del verbale d’arresto e che, in caso di mancata convalida, la persona arrestata sia immediatamente posta in libertà.
Con la lettera l) si dà attuazione all’art. 15 della decisione quadro, prevedendo l’introduzione di una o più disposizioni relative al trasferimento e alla presa in consegna della persona condannata a seguito del riconoscimento, sia nell’ipotesi in cui questo è effettuato da un’autorità giudiziaria europea a seguito della decisione penale di condanna definitiva emessa in Italia, sia nell’ipotesi in cui è l’Italia a dover riconoscere una decisione penale di condanna definitiva emessa in un altro Stato membro.
Con la lettera m) si prevede l’introduzione di una o più disposizioni relative al procedimento di esecuzione della pena a seguito del riconoscimento di cui alla lettera b), anche con riferimento all’ipotesi di mancata o parziale esecuzione e in caso di benefici di cui la persona condannata può godere in base alla legislazione italiana, nel rispetto degli obblighi di consultazione e informazione di cui agli articoli 17, 20 e 21 della decisione quadro.
La lettera n) prevede che siano introdotte una o più disposizioni relative alle condizioni e ai presupposti per la concessione della liberazione anticipata o condizionale, dell’amnistia, della grazia o della revisione della sentenza, ai sensi degli articoli 17 e 19 della decisione quadro. Secondo l’art. 17 della decisione quadro sono le autorità dello Stato di esecuzione le sole competenti a prendere le decisioni concernenti la liberazione anticipata o condizionale. Per l’art. 19, invece, l’amnistia o la grazia possono essere concesse dallo Stato di emissione, nonché dallo Stato di esecuzione. Solo lo Stato di emissione può decidere sulle domande di revisione della sentenza che irroga la pena da eseguire in virtù della decisione quadro.
La lettera o) demanda al Governo l’introduzione di una o più disposizioni relative all’applicazione del principio di specialità, in base alle quali la persona trasferita in Italia per l’esecuzione della pena non può essere perseguita, condannata o altrimenti privata della libertà personale per un reato commesso in data anteriore al trasferimento dallo Stato (in cui è emessa la sentenza di condanna definitiva) diverso da quello per cui ha avuto luogo il trasferimento, facendo espressamente salve le ipotesi previste dall’art. 18, par. 2, della decisione quadro. Tali ipotesi ricorrono quando: a) pur avendone avuto la possibilità, la persona non ha lasciato il territorio dello Stato di esecuzione nei 45 giorni successivi alla scarcerazione definitiva oppure vi ha fatto ritorno dopo averlo lasciato; b) il reato non è punibile con una pena detentiva o una misura di sicurezza privativa della libertà personale; c) il procedimento penale non dà luogo all’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale; d) la persona condannata sia passibile di una sanzione o misura che non implichi la privazione della libertà personale; e) la persona condannata abbia acconsentito al trasferimento; f) qualora, dopo essere stata trasferita, la persona condannata abbia espressamente rinunciato a beneficiare della regola della specialità riguardo a specifici reati anteriori al suo trasferimento; g) per i casi diversi da quelli menzionati alle lettere da a) ad f), lo Stato di emissione dia il suo consenso in ossequio agli obblighi di consegna previsti dalla decisione quadro sul mandato di arresto europeo.
Con la lettera p) si prescrive l’introduzione di una o più disposizioni relative al transito sul territorio italiano della persona condannatain uno Stato membro, in vista dell’esecuzione della pena in un altro Stato membro, nel rispetto dei criteri di rapidità, sicurezza e tracciabilità del transito, con facoltà di trattenere in custodia la persona condannata per il tempo strettamente necessario al transito medesimo e nel rispetto delle previsioni di cui alle lettere f), g), h), e i).
La lettera q) prevede l’introduzione di una o più disposizioni relative al tipo e alle modalità di trasmissione delle informazioni che devono essere fornite dall’autorità giudiziaria italiana nel procedimento di trasferimento attivo e passivo.
Il comma 2 dell’art. 52 precisa, infine, che i compiti e le attività previsti dalla decisione quadro di cui al comma 1 in relazione ai rapporti con autorità straniere sono svolti da organi di autorità amministrative e giudiziarie esistenti, nei limiti delle risorse di cui le stesse già dispongono, senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato.
Il decreto legislativo 161/2010 si compone di 25 articoli, suddivisi in cinque capi.
Il Capo I (articoli da 1 a 3) contiene le disposizioni generali vale a dire, oltre alle definizioni (art. 2), individua la finalità del provvedimento nell’attuazione della decisione quadro 2008/909/GAI, ponendo il limite di ordine generale della compatibilità con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo (art. 1). Esso inoltre contiene la designazione, quali autorità competenti, del Ministero della giustizia e delle autorità giudiziarie (articolo 3).
Al Ministero della giustizia sono attribuiti in generale compiti di trasmissione e ricezione delle sentenze nonché ulteriori compiti di informazione all’autorità competente dello Stato di emissione. In relazione alle esigenze di rendere più agevole e rapido l’espletamento delle procedure di trasferimento, è tuttavia consentita la corrispondenza diretta tra autorità giudiziarie: in tal caso l’autorità giudiziaria informa immediatamente il Ministero della giustizia della trasmissione o della ricezione di una sentenza di condanna.
Il Capo II (articoli da 4 a 8) disciplina la trasmissione all’estero della sentenza di condanna pronunciata dall’autorità giudiziaria italiana per la sua esecuzione in un altro Stato dell’UE (cd. procedura attiva). La competenza a disporre la trasmissione (articolo 4), nel caso in cui debba eseguirsi una sentenza che irroga una pena detentiva, è attribuita all’ufficio del PM presso il giudice competente per l’esecuzione, ai sensi dell’art. 665 c.p.p; nel caso in cui debba eseguirsi un provvedimento che dispone una misura di sicurezza personale, all’ufficio del PM presso il giudice individuato a norma dell’art. 658 c.p.p..
La trasmissione all’estero può essere disposta in presenza delle condizioni di emissione indicate dall’articolo 5, ovvero:
La trasmissione è disposta all’atto dell’emissione dell’ordine di esecuzione (di cui agli artt. 656 e 659 c.p.p.) ovvero, se l’ordine di esecuzione è già stato eseguito, in un momento successivo.
L'articolo 6 delinea il procedimento da seguire. Legittimati all’avvio del procedimento sono l’autorità giudiziaria competente (iniziativa d’ufficio) ovvero il condannato e l’autorità competente dello Stato di esecuzione (iniziativa di parte). Ferme restando le ipotesi in cui è necessario il consenso della persona condannata, essa viene comunque sentita dall’autoritàgiudiziaria prima della trasmissione. L’autorità giudiziaria italiana, prima di procedere, deve inoltre consultare l’autorità estera di esecuzione, anche tramite il ministero della giustizia, allo scopo di:
Si prevede inoltre che il provvedimento che dispone la trasmissione all’estero della sentenza:
Sempre in base all’articolo 6, inoltre, l’autorità giudiziaria: sospende la trasmissione del provvedimento all’autorità straniera al sopravvenire di una causa di sospensione dell’esecuzione prima dell’inizio della medesima esecuzione all’estero e può revocare il provvedimento di trasmissione ove sia venuta meno una delle condizioni di emissione di cui all’art. 5. In caso, infine, di mancato riconoscimento della sentenza di condanna italiana da parte dell’autorità competente dello Stato estero di esecuzione, spetta al ministero della giustizia darne comunicazione al competente giudice italiano al fine di dare avvio o prosecuzione all’esecuzione della sentenza nel nostro Paese.
L’articolo 7 del decreto legislativo 161/2010 concerne il trasferimento verso lo Stato estero di esecuzione delle persone condannate che si trovano nel territorio italiano. La disposizione in particolare prevede che:
La disposizione prevede inoltre l’ipotesi in cui lo Stato estero di esecuzione chieda all’Italia, in virtù di una possibile eccezione al principio di specialità di cui al successivo art. 18, di poter sottoporre a procedimento penale (o a misura coercitiva personale) il condannato in virtù di un reato, diverso da quello che ha dato luogo al trasferimento, commesso nel Paese di esecuzione anteriormente al trasferimento. In tal caso:
L’articolo 8 del decreto legislativo prevede che il PM competente, in attesa del riconoscimento, possa chiedere all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione l’arresto provvisorio (o altra misura idonea) del condannato che si trovi sul territorio di detto Stato.
Il Capo III (articoli da 9 a 19) riguarda la trasmissione dall’estero (cd. procedura passiva) ovvero la richiesta al nostro Paese dell’esecuzione in Italia di una sentenza di condanna emessa all’estero.
L’articolo 9 - in adesione alle previsioni della procedura passiva di consegna nella legge sul mandato d’arresto europeo (art. 5, legge 69/2005) - individua la corte d’appello del distretto di residenza del condannato al momento della trasmissione come autorità giurisdizionale competente alla decisione sul riconoscimento ed esecuzione in Italia del provvedimento definitivo emesso in altro Stato membro. La disposizione detta ulteriori criteri di individuazione del giudice competente in presenza di condanna che riguardi più persone e prevede la competenza residuale della Corte d’appello di Roma. In caso di arresto del condannato (richiesto, in via d’urgenza dall’autorità straniera ex art. 15) è, infine, competente la corte d’appello del distretto dove è avvenuto l’arresto.
L’articolo 10 individua le condizioni necessarie al riconoscimento della sentenza di condanna da parte dell’autorità giurisdizionale italiana in conformità alle previsioni della decisione quadro 2008/909/GAI. Tali condizioni, che salvo deroghe devono sussistere congiuntamente (comma 1), sono le seguenti:
Coerentemente con la norma di delega e con l’art. 7 della decisione-quadro, l’articolo 11 esclude la necessità della doppia incriminazione per alcuni specifici reati, per i quali si richiede esclusivamente che il reato sia punito nello Stato di emissione con misura privativa della libertà personale di durata non inferiore a tre anni. La lista dei reati è individuata con riferimento all’art. 8 della legge n. 69 del 2005, sul mandato di arresto europeo, e corrisponde sostanzialmente alla lista contenuta nell’art. 7 della decisione-quadro.
L’articolo 12 disciplina il procedimento di trasmissione dall’estero, nel quale si possono identificare sostanzialmente le seguenti fasi:
Il successivo articolo 13 del decreto legislativo individua i motivi di rifiuto del riconoscimento da parte della Corte d’appello, in conformità con le previsioni dell’art. 9 della decisione quadro nonché dei criteri direttivi dettati dall’art. 52, comma 1, lett. c, della legge n. 88 del 2009. I motivi sono i seguenti: mancanza di alcuna delle condizioni previste dall’art. 10 e 11; mancanza o incompletezza del certificato allegato alla sentenza; violazione del ne bis in idem; possibilità di giudicare in Italia i fatti oggetto della sentenza ma il reato risulta prescritto; pronuncia in Italia di sentenza di non luogo a procedere; prescrizione della pena; presenza di causa di immunità; pena inflitta a persona non imputabile per età; residuo di pena da scontare inferiore a 6 mesi; sentenza pronunciata in contumacia (non volontaria); Stato di emissione che abbia rifiutato all’Italia la richiesta di sottoporre la persona condannata a processo per reato diverso commesso prima della trasmissione della sentenza di condanna; pena inflitta che comprende misure sanitarie o psichiatriche incompatibili con l’ordinamento italiano; sentenza che si riferisce a reati commessi anche in parte sul territorio italiano.
Gli articoli 14 e 15 dettano disposizioni in materia di misure provvisorie, limitative della libertà personale del condannato. In particolare, l'articolo 14 prevede la possibilità che, su richiesta dello Stato di emissione, la corte d’appello - prima del riconoscimento della sentenza – disponga, a fini cautelari e con ordinanza motivata, una misura personale coercitiva nei confronti della persona condannata che si trovi in Italia. La misura è alternativa a quella dell’arresto prevista, in caso di urgenza, dal successivo art. 15. I motivi di rifiuto del riconoscimento (di cui all’art. 13) costituiscono cause ostative all’adozione delle misure. La misura coercitiva è revocata dalla corte d’appello se:
In caso di richiesta di misura coercitiva, l’udienza cameraleche decide sul riconoscimento della sentenza deve essere fissata entro 20 gg. dall’inizio della esecuzione della misura.
L’articolo 15 prevede, nei casi di urgenza e su richiesta dell’autorità dello Stato emittente, il possibile arresto del condannato che si trovi in territorio italiano, nelle more della decisione sul riconoscimento. La disposizione subordina l’arresto alle seguenti condizioni: cittadinanza italiana; residenza, dimora o domicilio in Italia (o espulsione verso l’Italia); doppia incriminazione, salvo i casi previsti dall’art. 11. L’arrestato è posto, entro 24 ore, a disposizione del presidente della corte d’appello del distretto di esecuzione della misura e ne è data notizia al Ministro della giustizia. In virtù del rinvio al procedimento previsto per analoghi casi dalla legge sul mandato d’arresto europeo (art. 12, L. 69/2005) sono stabilite le necessarie garanzie a favore dell’arrestato.
Entro le 48 ore successive, il presidente della corte d’appello interroga il fermato e, se non deve procedere alla sua liberazione, convalida l’arresto provvedendo, se del caso, all’applicazione delle misure cautelari coercitive di cui all’art. 14. Delle misure adottate deve essere informato il Ministro della giustizia, cui compete la trasmissione delle informazioni all’autorità straniera richiedente l’arresto.
All’esecuzione della sentenza riconosciuta provvede, d’ufficio, il PG della corte d’appello deliberante e la pena è eseguita secondo la legge italiana (articolo 16). Se il condannato si trova nel territorio dello Stato di emissione, il ministero della giustizia provvede ai necessari accordi per il suo trasferimento in Italia, anche avvalendosi dei competenti servizi del ministero dell’interno. Prima del trasferimento, lo Stato di emissione che lo richiede deve essere informato dei possibili benefici (liberazione anticipata, indulto e liberazione condizionale) applicabili al detenuto in base alla legge italiana.
L’articolo 17 disciplina, conformemente all’art. 20 della decisione quadro, le conseguenze dei provvedimenti adottati dello Stato di emissione sull’esecuzione della pena (o misura di sicurezza) che ha luogo in Italia. Appena informata della decisione che pone fine all’esecuzione, l’autorità giudiziaria italiana competente cessa l’esecuzione delle misure adottate. Conformemente a quanto stabilito dall’art. 19, comma 2, della decisione quadro, viene individuata nell’autorità giudiziaria dello Stato di emissione l’autorità competente alla revisione della sentenza di condanna trasmessa in Italia.
L’articolo 18 del decreto legislativo 161/2010, modellato sull’art. 26 della legge 69/2005 sul mandato d’arresto europeo, recepisce il principio di specialità di cui all’art. 18 della decisione quadro, principio riconosciuto in ambito di cooperazione giudiziaria internazionale. Il recepimento di tale principio determina l’impossibilità che la persona trasferita nello Stato di esecuzione possa essere ivi processata (o sottoposta a misura privativa della libertà) per un reato commesso anteriormente al trasferimento e diverso da quello da cui quest’ultimo trae origine. Le eccezioni all’applicazione del principio di specialità corrispondono a quelle previste dalla decisione quadrodettate dall’art. 18, par 2, della decisione quadro e sono le seguenti:
L’articolo 19 detta disposizioni relative al transito,cioè al passaggio della persona sul territorio italiano in esecuzione di un procedimento di trasferimento dell’esecuzione in corso tra altri due Paesi membri della UE. La norma stabilisce la competenza del Ministero della giustizia sia alla ricezione della richiesta di transito (con allegato il certificato) da parte dello Stato membro che per la conseguente decisione (entro 7 gg. dalla ricezione). Durante il transito, la polizia italiana può trattenere in custodia il condannato solo per il tempo strettamente necessario al transito stesso e, comunque, per non più di 48 ore dal suo ingresso in Italia.
Il Capo IV del decreto legislativo 161/2010 (articoli 20 e 21) detta disposizioni da applicare tanto al procedimento di trasferimento all’estero che a quello di trasferimento dall'estero. In particolare, conformemente al contenuto dell’art. 21 della decisione quadro, l’articolo 20 elenca una serie di informazioni che il Ministero della giustizia – come autorità del Paese di esecuzione - deve fornire alla corrispondente autorità dello Stato di emissione “con qualsiasi mezzo che lasci una traccia scritta” (posta, fax, e-mail).
Il successivo articolo 21 stabilisce che le sole spese a carico dello Stato italiano sono: nella procedura di esecuzione passiva, le spese successive al trasferimento del condannato in Italia; nella procedura di esecuzione attiva, le spese sostenute in territorio italiano in vista del trasferimento del condannato nel Paese di esecuzione.
Il Capo V del decreto legislativo (articoli da 22 a 25) reca le Disposizioni transitorie e finali. L’articolo 22 fa salvi gli eventuali obblighi internazionali dell’Italia nei confronti di Paesi terzi in materia di trasferimento di persone condannate; l'articolo 23 riguarda le disposizioni finanziarie che precisano, in particolare, l’assenza di nuovi o maggiori oneri per l’erario a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo. L'articolo 24 estende l’applicazione della disciplina introdotta dal decreto a due fattispecie in materia di mandato d’arresto europeo, di cui alla legge 69 del 2005:
L’articolo 25 detta, infine, una specifica disciplina transitoria volta a regolare la prima fase applicativa della nuova normativa. La disciplina del decreto legislativo sostituisce a decorrere dal 5 dicembre 2011 eventuali accordi internazionali conclusi tra l’Italia e altri Stati membri dell’Unione, relativi al trasferimento di persone condannate ai fini dell’esecuzione all’estero.
La decisione quadro dell'Unione europea si prefigge l'armonizzazione delle legislazioni nazionali in merito al riconoscimento delle sentenze penali adottate da uno stato membro e relative all'esecuzione di pene detentive. Il decreto legislativo 161/2010 delinea dunque una procedura speciale da applicarsi solo nei rapporti con stati membri dell'Unione europea.
In tutti gli altri casi di necessario riconoscimento di una sentenza straniera si applicherà la disciplina generale contenuta nel codice di procedura penale, disciplina che delinea i meccanismi interni a carattere giurisdizionale attraverso cui la sentenza penale emessa all’estero può essere eseguita in Italia e predispone, altresì, i meccanismi attraverso i quali una sentenza penale italiana può trovare esecuzione all’estero.
L’art. 730 c.p.p. prevede il riconoscimento delle sentenze penali straniere per gli effetti previsti dal codice penale stabilendo che il ministro della giustizia, quando riceve una sentenza penale di condanna o di proscioglimento pronunciata all'estero nei confronti di cittadini italiani o di stranieri o di apolidi residenti nello Stato ovvero di persone sottoposte a procedimento penale nello Stato, trasmette senza ritardo al procuratore generale presso la corte di appello, nel distretto della quale ha sede l'ufficio del casellario locale del luogo di nascita della persona cui è riferito il provvedimento giudiziario straniero, o presso la Corte di appello di Roma, copia della sentenza, unitamente alla traduzione in lingua italiana, con gli atti che vi siano allegati, e con le informazioni e la documentazione del caso.
Se l’esecuzione in Italia della sentenza estera deve avvenire secondo le norme di un accordo internazionale, il Ministro della giustizia ne richiede il riconoscimento (art. 731 c.p.p.). A tale scopo trasmette al procuratore generale presso la corte di appello nel distretto della quale ha sede l'ufficio del casellario locale del luogo di nascita della persona cui è riferito il provvedimento giudiziario straniero, o presso la Corte di appello di Roma, una copia della sentenza, unitamente alla traduzione in lingua italiana, con gli atti che vi siano allegati, e con la documentazione e le informazioni disponibili. Trasmette inoltre l'eventuale domanda di esecuzione nello Stato da parte dello Stato estero ovvero l'atto con cui questo Stato acconsente all'esecuzione. Il PG promuove il riconoscimento con richiesta alla corte di appello. Ove ne ricorrano i presupposti, richiede che il riconoscimento sia deliberato anche agli effetti previsti dall'articolo 12 comma 1 numeri 1, 2 e 3 del codice penale (ipotesi di connessione).
Secondo l’ordinaria disciplina di esecuzione passiva, (artt. 730-741 c.p.p.) l’efficacia delle sentenze penali straniere è quindi sempre subordinata al riconoscimento. Il presupposto è che la sentenza non può dispiegare iure proprio i suoi effetti in Italia se non viene “nazionalizzata”; il riconoscimento ha quindi natura non dichiarativa o ricognitiva bensì costitutiva (attributiva) di efficacia nel nostro ordinamento.
In particolare, l’art. 733 c.p.p. richiede: a) che la sentenza sia divenuta irrevocabile per le leggi dello Stato in cui è stata pronunciata; b) che non contenga disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato; c) che sia stata pronunciata da un giudice indipendente e imparziale e che l'imputato sia stato citato a comparire in giudizio davanti all'autorità straniera ovvero gli è stato riconosciuto il diritto a essere interrogato in una lingua a lui comprensibile e a essere assistito da un difensore; d) considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali non abbiano influito sullo svolgimento o sull'esito del processo; e) il fatto per il quale è stata pronunciata la sentenza è previsto come reato dalla legge italiana; f) per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona non è stata pronunciata nello Stato sentenza irrevocabile; g) per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona non è in corso nello Stato procedimento penale.
Prima della decisione della corte d’appello, su richiesta del PG, possono essere adottate dalla stessa corte misure coercitive nei confronti del condannato che si trovi sul nostro territorio. (art. 736 c.p.p.). La misura coercitiva è revocata se dall'inizio della sua esecuzione sono trascorsi 6 mesi senza che la corte di appello abbia pronunciato sentenza di riconoscimento, ovvero, in caso di ricorso per cassazione contro tale sentenza, 10 mesi senza che sia intervenuta sentenza irrevocabile di riconoscimento. Copia dei provvedimenti emessi dalla corte è comunicata e notificata, dopo la loro esecuzione, al procuratore generale, alla persona interessata e al suo difensore, i quali possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge.
Nel caso di riconoscimento della sentenza penale straniera, le pene (come la confisca) sono eseguite secondo la legge italiana. All’esecuzione provvede d’ufficio il PG presso la corte d’appello che ha deliberato il riconoscimento (art. 738 c.p.p.).
Nell’inverso caso di esecuzione all’estero di sentenze penali italiane, ferma restando la valenza di accordi internazionali, il codice di rito penale prevede – sempre con valore suppletivo – l’esecuzione consensuale all’estero delle condanne italiane.
L’esecuzione riguarda sia cittadini italiani non presenti sul nostro territorio che stranieri presenti in Italia o all’estero. I predetti hanno diritto di espiare la pena in Italia ma hanno anche facoltà di domandarne o consentirne l’esecuzione in altro Stato (art. 742, 743 c.p.p.).
L’esecuzione all’estero di sentenza di condanna a pena detentiva avviene, ordinariamente, in tre ipotesi (art. 742 c.p.p.):
Ipotesi residuale, ove non ricorrano le citate condizioni, è quella di non concessione dell’estradizione da parte dello Stato estero ed il condannato si trovi nello Stato richiesto (l’ipotesi trova giustificazione nel fatto che, altrimenti, la pena irrogata non troverebbe concreta attuazione).
Le due fondamentali condizioni perché l'esecuzione all'estero della pena detentiva possa essere domandata o concessa sono (art. 742):
L’esecuzione di condanne a pena detentiva all’estero, come nel caso di procedura passiva, sono sottoposte ad una preventiva procedura giurisdizionale di cui è, al solito, protagonista la corte d’appello del distretto che ha pronunciato la sentenza.
La procedura è promossa dal ministro della giustizia (eventualmente anche su richiesta dell’autorità giudiziaria) dallo Stato estero o dalla stessa persona condannata e vede le seguenti fasi:
L’art. 744 c.p.p. ha previsto specifici limiti all’esecuzione all’estero della condanna a pena restrittiva della libertà personale. Secondo tale norma, in nessun caso il ministro della giustizia può domandare l'esecuzione all'estero di una sentenza penale di condanna a pena restrittiva della libertà personale se si ha motivo di ritenere che il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.
In tale circostanza è il ministro della giustizia, e non l’autorità giudiziaria, ad operare le valutazioni del caso essendo queste ultime basate su situazioni estranee allo svolgimento del procedimento penale straniero e bensì attinenti a situazioni ad esso estranee, per le quali i canoni di giudizio sono più di carattere politico-sociale che non giuridici.
Come nel caso opposto – se è domandata l’esecuzione all’estero di sentenza di condanna italiana a pena detentiva - sarà possibile all’autorità italiana (in tal caso, il ministro della giustizia) domandare all’autorità estera di sottoporre a custodia cautelare il condannato che si trovi sul territorio di detto Stato (art. 745 c.p.p.).
Per impedire che il condannato, per un unico titolo restrittivo della libertà personale, possa essere sottoposto più volte alla stessa pena, l’art. 746 prevede:
Il Parlamento ha approvato la legge 2 luglio 2010, n. 108, con la quale ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), conseguementemente adeguando l'ordinamento interno.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani fatta a Varsavia il 16 maggio 2005, si pone come obiettivo la prevenzione e la lotta, in ambito sia nazionale sia internazionale, contro la tratta degli esseri umani in tutte le sue forme, collegate o meno alla criminalità organizzata, ed in relazione a tutte le vittime, siano esse donne, bambini o uomini. La Convenzione non riguarda unicamente la tratta a fini di sfruttamento sessuale, ma anche il lavoro forzato e altre pratiche di traffico illecito delle persone e si ispira al principio della protezione e della promozione dei diritti delle vittime che devono essere tutelati senza alcuna discriminazione. La Convenzione, che l’Italia ha firmato nel giugno 2005, è entrata in vigore il 1° febbraio 2008, con la ratifica da parte della Repubblica di Cipro: sono state infatti soddisfatte le condizioni (recate dall’articolo 42, paragrafo 3 della Convenzione medesima) del deposito di 10 strumenti di ratifica, tra i quali almeno otto di Stati membri del Consiglio d’Europa.
La Convenzione si caratterizza per l’ampia portata degli obiettivi cui si ispira; essa, infatti, da un lato disciplina il fenomeno della tratta nel suo complesso - considerata una violazione dei diritti umani e un affronto alla dignità e all’integrità delle persone - individuando misure finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno e, dall’altro, garantisce alle vittime standards di tutela ispirati al principio del riconoscimento dei diritti fondamentali dell’individuo.
La Convenzione ha l’obiettivo di:
La Convenzione adotta una prospettiva fondata sui diritti degli esseri umani, con particolare attenzione alla protezione delle vittime, e prevede un meccanismo di controllo indipendente, al fine di garantire il rispetto della Convenzione. La Convenzione di Varsavia pone in risalto il fatto che la tratta costituisce una violazione dei diritti umani e un affronto alla dignità e all’integrità delle persone, e che, in tal senso, occorre intensificare la protezione di tutte le sue vittime. Nessun altro testo internazionale prima di questo documento, ha fissato una definizione di vittima, in quanto veniva lasciato a ciascun Stato il compito di definire chi doveva essere considerato una vittima, potendo quindi usufruire delle misure di tutela e di assistenza. Nella Convenzione del Consiglio d’Europa si definisce vittima ogni persona oggetto di tratta e viene stabilito, inoltre, un elenco di disposizioni obbligatorie di assistenza a favore delle vittime della tratta. In particolare, le vittime della tratta devono ottenere un’assistenza materiale e psicologica, e un supporto per il loro reinserimento nella società. Tra le misure previste, sono indicate le cure mediche, le consulenze legali, le informazioni e la sistemazione in un alloggio adeguato. Si prevede, inoltre, un risarcimento per un periodo di ristabilimento e di riflessione di almeno 30 giorni. Vi è anche la possibilità di rilasciare dei permessi di soggiorno alle vittime della tratta, o per ragioni umanitarie, oppure nel quadro della loro cooperazione con le autorità giudiziarie. La Convenzione prevede anche una possibile scriminante per loro coinvolgimento delle vittime della tratta in attività illegali, nella misura in cui vi siano state costrette.
Quanto al contenuto, la Convenzione si compone di 47 articoli riuniti in dieci capitoli preceduti da un Preambolo in cui sono richiamati i principali strumenti internazionali pertinenti la lotta alla tratta di esseri umani. Per u approfondimento analitico della Convenzione si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera dei deputati.
La ratifica della Convenzione di Varsavia avvia il proprio iter parlamentare al Senato con la presentazione nel marzo 2010 del disegno di legge del Governo A.S. 2043. Approvato dal Senato nell'aprile dello stesso anno, il provvedimento è definitivamente licenziato dalla Camera nel giugno 2010.
La legge si compone di soli 4 articoli: i primi due sono dedicati alla ratifica ed all'ordine di esecuzione della Convenzione e l'ultimo contiene la consueta clausola di invarianza finanziaria.
L'articolo 3 della legge 108/2010 novella invece le fattispecie penali già previste dal codice per punire la tratta di esseri umani. Si ricorda, infatti, che la repressione di tali condotte è sanzionata nel nostro ordinamento a partire dal 2003, ovvero dall'entrata in vigore della legge 228/2003 (Misure contro la tratta di persone), che ha modificato gli articoli 600, 601 e 602 del codice penale.
In ragione dell'intervento legislativo del 2003, l'ordinamento italiano non ha avuto bisogno di pesanti misure di adeguamento alla Convenzione di Varsavia e si è rivelata sufficiente una novella delle circostanze aggravanti dei già previsti delitti di tratta.
La tratta degli esseri umani è punita dal codice penale agli articoli:
Per tali fattispecie di reato, tutte punite con la reclusione da otto a venti anni, il codice dal 2003 prevedeva le medesime circostanze aggravanti (da cui derivava l’aumento della pena da un terzo alla metà) collegate alla minore età della vittima, ovvero alla finalizzazione del delitto allo sfruttamento della prostituzione o al traffico di organi.
La legge 108/2010 ha abrogato le singole aggravanti previste dagli articoli 600, 601 e 602 introducendo nel codice penale un nuovo articolo (art. 602-ter), rubricato Circostanze aggravanti. La disposizione, in relazione ai citati delitti, conferma l’aumento da un terzo alla metà della pena nelle ipotesi già previste dalle norme previgenti (persona offesa minore di 18 anni e fatti diretti allo sfruttamento della prostituzione o commessi al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi), aggiungendo un'ulteriore circostanza aggravante per l'ipotesi in cui dal fatto derivi un grave pericolo per la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa (primo comma).
L’articolo 20 della Convenzione di Varsavia impegna le parti ad attribuire rilevanza penale ai seguenti atti, in quanto commessi intenzionalmente al fine di consentire la tratta degli esseri umani:
Conseguentemente, il secondo comma dell’articolo 602-ter, introdotto dall’articolo 3 della legge, introduce una nuova circostanza aggravante applicabile ai delitti di Falsità in atti di cui al Titolo VII, Capo III, del Libro II.
Tale Capo in particolare disciplina i reati di falsità materiale e di falsità ideologica (posti in essere da parte del pubblico ufficiale o del privato) ovvero, rispettivamente, condotte che riguardano la formazione di documenti falsi e l’alterazione di documenti veri, o che attengono alla veridicità del contenuto di atti materialmente integri. Il suddetto Capo punisce anche la distruzione, soppressione e l’occultamento di documenti veri, nonché l’uso di atti falsi.
In particolare, la legge prevede un aumento delle pene da un terzo alla metà nel caso in cui tali fatti siano commessi al fine di realizzare o agevolare i delitti di Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, Tratta di persone e Acquisto e alienazione di schiavi.
Il Parlamento ha approvato la legge 116/2009, con la quale ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione (c.d. Convenzione di Merida) ed ha dettato norme di adeguamento interno.
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e aperta alla firma a Merida dal 9 all’11 dicembre dello stesso anno, è entrata in vigore a livello internazionale il 14 dicembre 2005.
La Convenzione si articola in un Preambolo e 71 articoli suddivisi in VIII titoli. In particolare, il titolo I espone l'oggetto della Convenzione, definisce i termini impiegati nel corpo del testo, ne enuncia il campo di applicazione e ricorda il principio di protezione della sovranità degli Stati parte.
Agli obblighi posti agli Stati parte per l'adozione di efficaci politiche di prevenzione della corruzione è dedicato l’intero titolo II, che prevede diverse misure miranti al tempo stesso a coinvolgere il settore pubblico e il settore privato. Esse includono meccanismi istituzionali, quali la creazione di uno specifico organo anticorruzione, codici di condotta e politiche favorevoli al buon governo, allo stato di diritto, alla trasparenza e alla responsabilità. Da notare specialmente che la Convenzione sottolinea il ruolo importante della società civile, in particolare di organizzazioni non governative e di iniziative a livello locale, e invita gli Stati parte a incoraggiare attivamente la partecipazione dell'opinione pubblica e la sensibilizzazione di essa al problema della corruzione.
Per quanto concerne le misure penali (titolo III), la Convenzione pone in capo agli Stati parte l'obbligo di conferire carattere penale a una grande diversità di infrazioni correlate ad atti di corruzione, qualora esse non siano già nel diritto interno definite come infrazioni penali. Rispetto ad alcuni atti la Convenzione rende l'incriminazione imperativa, mentre agli Stati parte è indicata la prospettiva di individuare figure supplementari di infrazione. Un elemento innovativo della Convenzione contro la corruzione è l’ampliamento del campo di applicazione: essa non prende in considerazione solamente forme elementari e "tradizionali" di corruzione, ma anche atti commessi allo scopo di facilitare la corruzione stessa, quali l'ostacolo al buon funzionamento della giustizia, o la ricettazione o il riciclaggio di proventi della corruzione. Infine, la sezione della Convenzione dedicata agli aspetti penali tratta altrettanto efficacemente della corruzione nel settore privato.
Per quanto concerne la cooperazione internazionale (titolo IV), la Convenzione ne sottolinea l'essenzialità in tutti i momenti della lotta contro la corruzione (prevenzione, indagini, perseguimento dei responsabili, sequestro e restituzione dei beni illecitamente ottenuti). In base alla Convenzione sono previste specifiche forme di cooperazione internazionale, quali l'assistenza giudiziaria nel campo della raccolta e della trasmissione di elementi di prova, dell'estradizione, del congelamento, sequestro e confisca dei proventi della corruzione. A differenza dei precedenti strumenti internazionali, la Convenzione prevede una mutua assistenza giudiziaria anche in assenza di doppia incriminazione - ossia dell’esistenza della figura di reato in entrambi gli ordinamenti nazionali -, qualora tale assistenza non implichi misure coercitive.
Uno dei principi più innovativi e fondamentali della Convenzione è quello della restituzione dei beni o somme illecitamente ottenuti (titolo V) attraverso la corruzione stessa: una sezione della Convenzione precisa le modalità di cooperazione e di mutua assistenza in vista della restituzione dei proventi della corruzione a uno Stato parte che ne faccia richiesta, come anche a singoli individui vittime della corruzione o legittimi proprietari.
Il titoli VI e VII comprendono articoli che riguardano rispettivamente l’uno l’assistenza tecnica e lo scambio di informazioni, l’altro i meccanismi applicativi della Convenzione. Le clausole finali (titolo VIII) riguardano, tra l’altro, l’attuazione della Convenzione, i meccanismi di composizione delle controversie e di denuncia della Convenzione, la cui entrata in vigore è stabilita il novantesimo giorno successivo al deposito del trentesimo strumento di ratifica. Per un esame più analitico del contenuto della Convenzione si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera del luglio 2009.
Il provvedimento avvia l'iter nel luglio del 2008 al Senato, dove sono presentati dall'opposizione due disegni di legge (solo successivamente interverrà il disegno di legge del Governo AS. 1594), che riprendevano una proposta legislativa d’iniziativa governativa approvata all'unanimità nella XV° legislatura dalla sola Camera dei deputati, e poi decaduta per l’anticipato termine della stessa legislatura. Il testo unificato approvato dal Senato il 26 giugno 2009 sarà recepito dalla Camera e definitivamente approvato il 29 luglio dello stesso anno.
I primi due articoli della legge 116/2009 autorizzano, come di consueto, la ratifica e l’esecuzione della c.d. Convenzione di Merida.
L’articolo 3 della legge – al fine di adeguare l’ordinamento interno alle previsioni dell’articolo 16 della Convenzione – novella il secondo comma, numero 2), dell’art. 322-bis del codice penale, relativo al delitto di peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri.
Il testo novellato prevede che la punibilità dei fatti di istigazione alla corruzione o di corruzione, per coloro che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell'ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali sussista non soltanto qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali ma anche al fine di ottenere o di mantenere un'attività economica o finanziaria.Si sottolinea che sul medesimo articolo del codice penale sono poi intervenute anche la legge 190/2012 e la legge 237/2012, che non hanno modificato però gli aspetti introdotti dalla legge in commento.
L'articolo 4 della legge 116/2009 – adeguando l’ordinamento italiano alle previsioni dell’articolo 26 della Convenzione - inserisce un nuovo articolo nel decreto legislativo 231/2001, in tema di responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche. Il nuovo articolo 25-decies è volto a sanzionare l’ente in relazione alla commissione del delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, di cui all’art. 377-bis, c.p. Laddove si ravvisi in relazione alla commissione del delitto una responsabilità della persona giuridica, dovrà applicarsi all’ente la sanzione pecuniaria fino a 500 quote.
L'articolo 5 – per adeguare l’ordinamento italiano alle previsioni del Titolo V della Convenzione, relativo alla restituzione dei beni - inserisce due ulteriori articoli nel libro XI del codice di procedura penale, dedicato ai rapporti con le autorità straniere. Le nuove disposizioni (articoli 740-bis e 740-ter c.p.p.) attengono, in particolare, alla devoluzione allo Stato estero interessato dei beni confiscati sul territorio italiano in esecuzione di provvedimenti di confisca adottato all’estero.
Il tema non è nuovo al nostro ordinamento. Basti ricordare che con la legge 9 agosto 1993, n. 328 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, fatta a Strasburgo l'8 novembre 1990) sono state introdotte nel codice una serie di disposizioni che permettono l’esecuzione di un provvedimento di confisca straniero attraverso il riconoscimento della sentenza che lo dispone (art. 735-bis c.p.p.); di consentire indagini e il sequestro, su richiesta di un’autorità straniera, su beni che potrebbero divenire oggetto di confisca (art. 737-bis) e di richiedere alle autorità estere lo svolgimento di indagini agli stessi fini cautelari (art. 745, comma 2-bis).
Il nuovo articolo 740-bis c.p.p. prevede che, in presenza di appositi accordi internazionali (come ad esempio la convenzione oggetto di ratifica), le cose confiscate con sentenza definitiva o con altro provvedimento irrevocabile debbano essere devolute allo Stato estero nel quale è stata pronunciata la sentenza ovvero è stato adottato il provvedimento di confisca (comma 1). Ciò in quanto (comma 2):
Il nuovo articolo 740-ter c.p.p. stabilisce – in riferimento al relativo ordine di devoluzione delle cose confiscate - che debba essere la Corte d’appello, nel provvedimento con il quale delibera il riconoscimento della sentenza straniera o del provvedimento di confisca, a ordinare contestualmente la devoluzione della cose confiscate ai sensi dell’art. 740-bis (comma 1). Copia del provvedimento dovrà essere trasmessa al Ministro della giustizia che concorderà con lo Stato estero richiedente le modalità della devoluzione (comma 2).
L’articolo 6 della legge designa quale Autorità nazionale anticorruzione, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, il soggetto al quale l’articolo 68, comma 6-bis, del D.L. 112/2008 ha trasferito le competenze dell’Alto Commissario anticorruzione (soppresso dal comma 6 dello stesso articolo 68), ovvero il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, dando a quest’ultimo la facoltà di delegare un sottosegretario di Stato. Su questa designazione è poi intervenuta la c.d. legge anticorruzione (legge 190/2012) che all'art. 1, comma 2 ha individuato quale Autorità nazionale anticorruzione la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT).
La finalità dell’individuazione di tale Autorità consiste, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, nella prevenzione della corruzione attraverso l’applicazione delle politiche previste dalla Convenzione (e, ove necessario, la supervisione ed il coordinamento di tale applicazione) nonché l’accrescimento e la diffusione delle conoscenze concernenti la prevenzione della corruzione.
L’articolo 7, infine, individua nel Ministro della giustizia l’autorità centrale richiesta dalla Convenzione (articolo 46, paragrafo 13) per ricevere le richieste di assistenza giudiziaria ed eseguirle o trasmetterle alle autorità competenti per l’esecuzione.
Il Parlamento ha approvato la legge 1 ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote). Il provvedimento detta alcune norme di adeguamento dell'ordinamento interno volte a modificare il codice penale (introducendo i nuovi reati di adescamento di minorenni, anche attraverso Internet, e di istigazione e apologia di pratiche di pedofilia e di pedopornografia), il codice di procedura penale e l’ordinamento penitenziario.
La Convenzione di Lanzarote, entrata in vigore il 1° luglio 2010, è il primo strumento internazionale con il quale si prevede che gli abusi sessuali contro i bambini siano considerati reati. Oltre alle fattispecie di reato più diffuse in questo campo (abuso sessuale, prostituzione infantile, pedopornografia, partecipazione coatta di bambini a spettacoli pornografici), la Convenzione disciplina anche i casi di grooming (adescamento attraverso internet) e di turismo sessuale.
La Convenzione delinea misure preventive che comprendono lo screening, il reclutamento e l’addestramento di personale che possa lavorare con i bambini al fine di renderli consapevoli dei rischi che possono correre e di insegnare loro a proteggersi, stabilisce inoltre programmi di supporto alle vittime, incoraggia la denuncia di presunti abusi e di episodi di sfruttamento e prevede l’istituzione di centri di aiuto via telefono o via internet. Per una descrizione più analitica dei contenuti della Convenzione si veda il dossier del Servizio studi della Camera.
La legge 172/2012 ha avuto un complesso iter di approvazione, che ha richiesto un triplice intervento di Camera e Senato.
L'iter prende avvio alla Camera nel luglio del 2009, con la calendarizzazione in Commissione giustizia del disegno di legge del Governo A.C. 2326; approvato nel gennaio 2010, il disegno di legge è ampiamente modificato dal Senato (ottobre 2010): in questa prima fase Camera e Senato hanno impostazioni differenti per quanto riguarda le modifiche da apportare al codice penale, come traspare chiaramente dall' A.C. 2326-B. Trovato un accordo sulle novelle al codice, e segnatamente sulla configurazione del nuovo reato di "Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia", le Camere continuanoa a divergere sulla competenza per le indagini sui delitti di sfruttamento sessuale dei minori e sulla durata delle pene accessorie in caso di condanna per delitti in danno di minori (come si evince dall' A.C. 2326-D, trasmesso dal Senato nel maggio 2012). Da ultimo, il 19 settembre 2012 il Senato approva definitivamente il provvedimento che diviene legge.
Nel corso di questo complesso iter, che ha coinvolto oltre alle commissioni di merito (Giustizia e Affari esteri) molte altre commissioni chiamate ad esprimere nelle varie fasi un parere sul contenuto del provvedimento, sia la Camera che il Senato hanno svolto alcune audizioni informali. Sono stati in particolare sentiti alcuni funzionari del Ministero dell'Interno - in ordine alle indagini informatiche per la prevenzione e repressione dei delitti in danno di minori - alcuni procuratori della Repubblica ed il procuratore nazionale antimafia - per stabilire quale procura, distrettuale o circondariale, fosse meglio attrezzata per le indagini - i rappresentanti delle Associazioni telefono azzurro e telefono Arcobaleno.
I primi due articoli della legge 172/2012 sono dedicati all'autorizzazione alla ratifica della Convenzione (articolo 1) e all'ordine di esecuzione (articolo 2). L'articolo 3 individua nel Ministero dell’interno l’autorità nazionale responsabile in relazione alla registrazione e conservazione dei dati nazionali sui condannati per reati sessuali rinviando alla disciplina prevista dalla L. 85/2009, di ratifica del Trattato di Prum (v. Legge 85/2009 - Istituzione della banca dati del DNA).
Il Capo II della legge detta le disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno, tra le quali spicca l'articolo 4, che prevede rilevanti novelle al codice penale.
La lettera a) dell'articolo 4 interviene sulla disciplina della prescrizione del reato (art. 157 c.p.) prevedendo che per alcune ipotesi di reato – ulteriori rispetto a quelle già previste dal codice - i termini di prescrizione siano raddoppiati. Aggiungendo un periodo nel sesto comma dell’art. 157 la legge prevede il raddoppio dei termini necessari a prescrivere il reato per le seguenti fattispecie:
La lettera b) introduce, dopo l’articolo 414 del codice penale (Istigazione a delinquere) - e dunque tra i delitti contro l’ordine pubblico di cui al Titolo V - l’articolo 414-bis contenente una nuova fattispecie di reato denominata “Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia”.
Si ricorda che nel corso dell’esame del provvedimento alla Camera, in prima lettura, si è dibattuto in ordine all’opportunità di introdurre una disposizione specifica volta a punire l’istigazione o l’apologia dei reati sopra indicati, in considerazione dell’applicabilità anche a tali reati della disciplina generale prevista dall’art. 414 c.p. (cfr., in particolare, la seduta della Commissione giustizia del 1° dicembre 2009).
La nuova fattispecie punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni, e salvo che il fatto costituisca più rave reato, chiunque, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi forma di espressione, pubblicamente istiga a commettere, in danno di minori, uno o più dei seguenti delitti (primo comma):
Si sottolinea come la pena prevista dalla nuova fattispecie (da un anno e sei mesi a cinque anni) sia più alta nel minimo rispetto a quella prevista in generale dall’articolo 414 c.p. per l’istigazione a commettere delitti e per l’apologia di reato (reclusione da uno a cinque anni).
In base al secondo comma dell'art. 414-bis, la stessa pena (reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni) si applica anche a chiunque pubblicamente faccia l’apologia dei suddetti delitti.
Infine, il terzo comma esclude che ragioni o finalità artistiche, letterarie, storiche o di costume possano essere invocate come scusante dall’autore della condotta.
La lettera c) novella la fattispecie di associazione a delinquere, prevista dall’art. 416 del codice penale, aggiungendovi un comma affinché in relazione ai seguenti delitti:
i partecipanti all’associazione a delinquere siano soggetti alla reclusione da 2 a 6 anni mentre i capi, gli organizzatori, i promotori e i costitutori dell’associazione siano soggetti alla reclusione da 4 a 8 anni. Si ricorda che tali sanzioni scatteranno al semplice costituirsi dell’associazione, anche se i suddetti delitti non siano poi effettivamente commessi; se invece i delitti sono commessi, gli autori materiali risponderanno del reato di associazione per delinquere, in concorso con il reato in oggetto.
La successiva lettera d) riscrive la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 del codice penale.
Normativa previgente | Legge 172/2012 |
Codice penale, art. 572 | |
Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli | Maltrattamenti contro familiari e conviventi |
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. | Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. |
La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di persona minore degli anni quattordici. | |
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni. | Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. |
Rispetto alla precedente formulazione, la legge apporta alla fattispecie penale le seguenti correzioni:
La lettera e) modifica l’art. 576 del codice penale, relativo alle circostanze aggravanti dell’omicidio che comportano l’applicazione della pena dell’ergastolo.
Sulla stessa disposizione prima della ratifica della Convenzione di Lanzarote era intervenuto anche il decreto-legge 11/2009 che ha previsto l’ergastolo se l’omicidio è commesso in occasione della commissione del delitto di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.) e di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.). A tali fattispecie la legge 172/2012 aggiunge le seguenti: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572); prostituzione minorile (art. 600-bis); pornografia minorile (art. 600-ter, c.p.).
La lettera f) novella l’art. 583-bis del codice, in tema di mutilazioni genitali femminili, inserendovi un ulteriore comma mediante il quale introduce le seguenti pene accessorie per l’ipotesi in cui il delitto sia commesso dal genitore o dal tutore:
Le lettere da g) a q) dell'articolo 4, comma 1, della legge 172/2012 apportano modifiche alla sezione I (Dei delitti contro la personalità individuale) del capo terzo (Dei delitti contro la libertà individuale) del libro secondo del codice penale (articoli da 600 a 604).
In particolare, la legge riscrive il delitto di prostituzione minorile previsto dall’art. 600-bis del codice penale.
Normativa previgente | Legge 172/2012 |
Codice penale, art. 600-bis Prostituzione minorile |
|
Chiunque induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero ne favorisce o sfrutta la prostituzione è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.493 a euro 154.937. | È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.000 a euro 150.000 chiunque: 1. recluta o induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto; 2. favorisce, sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne trae profitto. |
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 5.164. | Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità, anche solo promessi, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000. |
Nel caso in cui il fatto di cui al secondo comma sia commesso nei confronti di persona che non abbia compiuto gli anni sedici, si applica la pena della reclusione da due a cinque anni. | Soppresso |
Se l'autore del fatto di cui al secondo comma è persona minore di anni diciotto si applica la pena della reclusione o della multa, ridotta da un terzo a due terzi. | Soppresso |
In sintesi, la legge:
La lettera h) novella l’art. 600-ter in tema di pornografia minorile, sostituendo il primo comma e inserendone due ulteriori.
Normativa previgente | Legge 172/2012 |
Codice penale, articolo 600-ter Pornografia minorile primo comma |
|
Chiunque, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 25.822 a euro 258.228. | È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000 chiunque: 1. utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico; 2. recluta o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici ovvero dai suddetti spettacoli trae altrimenti profitto. |
Con la sostituzione del primo comma la legge, oltre a ridurre leggermente l’entità della pena pecuniaria, integra la condotta che costituisce reato. In particolare:
Con i nuovi commi la riforma:
La legge 172/2012 abroga l’art. 600-sexies c.p., relativo alle circostanze aggravanti e attenuanti dei delitti pedopornografici, optando per l’inserimento di tutte le aggravanti dei delitti pedopornografici in chiusura della sezione, nell’art. 602-ter c.p. (v. infra); per quanto riguarda invece le attenuanti, occorre ora fare riferimento all’art. 600-septies.1 (v. infra).
La lettera l) dell'articolo 4 sostituisce l’articolo 600-septies del codice penale, originariamente inerente alla confisca e alle pene accessorie in caso di condanna per delitti contro la personalità individuale (artt. 600-604 c.p.), e dunque anche per i delitti di natura sessuale in danno di minori, per dedicare questa disposizione del codice penale esclusivamente alla confisca, eliminando dunque ogni riferimento alle pene accessorie, di cui si occupa il successivo art. 600-septies.2 (v. infra). La legge dispone che la confisca si applica non solo ai delitti contro la personalità individuale, ma anche ai delitti di violenza sessuale commessi in danno di minori o aggravati dalle circostanze indicate e riguarda:
In virtù del richiamo all’art. 322-ter, terzo comma, c.p., spetterà al giudice, con la sentenza di condanna, determinare le somme di denaro o individuare i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.
La lettera m) inserisce due nuovi articoli nel codice penale, relativi rispettivamente alle circostanze attenuanti e alle pene accessorie. In particolare, l’articolo 600-septies.1 prevede una sola circostanza attenuante dei delitti contro la personalità individuale (artt. 600-604, c.p.) consentendo che la pena possa essere diminuita da un terzo fino alla metà a colui che, concorrente nel reato, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o fornisce elementi concreti alle autorità per l'individuazione o la cattura di uno o più autori del reato (tale attenuante era precedentemente prevista dall’art. 600-sexies, quinto comma).
L’articolo 600-septies.2 disciplina le pene accessorie. In particolare, se in precedenza alla condanna (o al patteggiamento della pena) per uno dei delitti contro la personalità individuale conseguiva l'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole o in strutture frequentate prevalentemente da minori, la legge prevede invece per tali delitti e per il delitto di cui all’art. 414-bis (istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia), le seguenti conseguenze:
La lettera n), con finalità di coordinamento, abroga l’art. 602-bis, c.p.
La lettera o) interviene sull’art. 602-ter del codice penale per farne il contenitore di tutte le aggravanti dei delitti contro la personalità individuale contenuti nella sezione. In particolare, l'art. 602-ter prevede un aumento di pena da un terzo alla metà nelle seguenti ipotesi:
Un più severo aumento di pena – dalla metà ai due terzi – è previsto dalla legge nei seguenti casi:
L’ultimo comma introdotto nell’art. 602-ter specifica che laddove sussistano attenuanti (diverse dall’attenuante per minore età di cui all’art. 98 o dall’attenuante di cui all’art. 114 per colui che ha avuto una minima importanza nel fatto ovvero è stato determinato da altri a commetterlo), e queste concorrano con le aggravanti previste nei commi precedenti, il giudice non potrà mai ritenere le attenuanti prevalenti o equivalenti alle circostanze aggravanti dovendo dunque calcolare eventuali diminuzioni di pena sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle aggravanti.
La lettera q) novella l’art. 604 c.p., relativo all’applicabilità delle disposizioni sui delitti di sfruttamento sessuale dei minori e sui delitti di violenza sessuale ai fatti commessi all’estero da cittadini italiani, in danno di cittadini italiani ovvero da stranieri in concorso con italiani. In particolare, la legge integra l’elenco dei delitti ivi previsti aggiungendovi la violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies) e l’adescamento di minorenne (art. 609-undecies).
Il testo dell'art. 609-sexies c.p. in vigore prima della legge 172/2012 prevedeva che il colpevole dei delitti di violenza sessuale, atti sessuale con minorenne, corruzione di minorenne e violenza sessuale di gruppo in danno di un minore degli anni quattordici non potesse invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa. L’inescusabilità dell’ignoranza dell’età della persona offesa riguardava dunque solo alcuni delitti commessi in danno di minore degli anni 14. La legge modifica questa disciplina attraverso due interventi:
Le lettere da r) a z) novellano le disposizioni del codice penale contenute nella Sezione II, Dei delitti contro la libertà personale, con particolare riferimento ai c.d. delitti a sfondo sessuale di cui agli articoli da 609-bis a 609-decies.
In particolare, la lettera r) interviene sul delitto di atti sessuali con minorenne, previsto l’art. 609-quater c.p., sostituendo il secondo comma della disposizione. La legge inserisce dunque fra i possibili autori del delitto:
La lettera s) sostituisce l’articolo 609-quinquies, relativo al delitto di corruzione di minorenne, inasprendo la pena (reclusione da uno a cinque anni) e inserendo due ulteriori commi attraverso i quali:
La lettera u) novella l’articolo 609-nonies del codice penale in tema di pene accessorie dei delitti di violenza sessuale, apportando alla normativa previgente le seguenti modifiche:
La lettera v) novella l’articolo 609-decies del codice penale, relativo alla comunicazione al tribunale per i minorenni. La legge, oltre a inserire il delitto di adescamento di minorenni di cui all’art. 609-undecies fra i delitti che comportano l’obbligo per il PM di avvisare il tribunale per i minorenni (comma primo), amplia le categorie di soggetti che possono assicurare al minore vittima del reato assistenza affettiva e psicologica nel corso del procedimento penale (comma secondo). In particolare, vengono aggiunti gruppi, fondazioni, associazioni, organizzazioni non governative purché presentino le seguenti caratteristiche: abbiano comprovata esperienza nel settore dell'assistenza e del supporto alle vittime dei reati a sfondo sessuale in danno di minori; siano iscritti in un apposito elenco; ricevano il consenso del minorenne. Peraltro, anche la presenza di questi soggetti dovrà essere ammessa dall’autorità giudiziaria.
Da ultimo, la lettera z), al fine di dare attuazione all’art. 23 della Convenzione, inserisce fra i delitti contro la libertà personale l’adescamento di minorenni (art. 609-undecies). La nuova fattispecie di adescamento – così come la fattispecie di istigazione introdotta con l’art. 414-bis – è volta ad anticipare la soglia della punibilità, sanzionando un comportamento che in realtà precede l'abuso sul minore. La fattispecie penale presenta le seguenti caratteristiche:
- tipo di reato: comune, può essere commesso da chiunque;
- elemento soggettivo: dolo specifico, è necessario che il soggetto agente abbia agito al fine di commettere uno dei seguenti delitti:
- condotta: adescare un minore di 16 anni, ovvero compiere atti idonei a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce, anche attraverso l'utilizzazione della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione;
- pena: reclusione da 1 a 3 anni.
L'articolo 5 della legge 172/2012 modifica il codice di procedura penale. In particolare, la lettera a) interviene sull’art. 51 del codice di rito, per quanto riguarda i delitti di competenza della procura distrettuale. Dopo una lunga navette e un ampio dibattito, il Parlamento ha mantenuto le precedenti competenze della procura distretturale, aggiungendo la competenza alle indagini per i delitti di istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia (art. 414-bis c.p.) e adescamento di minorenni (art. 609-undecies c.p.).
La lettera b) interviene sull’art. 282-bis del codice di rito, relativo alla misura coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare per ampliare il catalogo dei delitti che – se commessi in danno dei prossimi congiunti o dei conviventi – possono comportare la misura dell’allontanamento dalla casa familiare a prescindere dai limiti edittali di pena. In particolare, intervenendo sul comma 6 dell’art. 282-bis, vengono aggiunti i seguenti delitti: riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600, c.p.); tratta di persone (art. 601, c.p.); acquisto e alienazione di schiavi (art. 602, c.p.).
Le lettere c), d) ed f) dell’articolo 5 novellano gli articoli 351, 362 e 391-bis del codice di procedura penale, in tema di informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari rispettivamente dalla polizia giudiziaria, dal PM e dal difensore. In particolare, le novelle inseriscono nelle tre disposizioni del codice di rito un ulteriore comma volto a prevedere che nei procedimenti per delitti di sfruttamento sessuale dei minori (artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater.1 e 600-quinquies), di tratta di persone (artt. 600, 601 e 602), di violenza sessuale (artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies) e di adescamento di minori (art. 609-undecies), se la polizia giudiziaria o il pubblico ministero o il difensore devono assumere informazioni da minorenni, occorre che procedano con l’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile. Se le informazioni sono assunte dalla polizia, dovrà essere comunque il PM a nominare l’esperto.
La lettera e) novella l’art. 380 del codice di procedura penale inserendo nel catalogo dei delitti per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza di reato la fattispecie di atti sessuali con minorenne di cui all’art. 609-quater, primo e secondo comma.
Le lettere g) e h) intervengono sull’istituto dell’incidente probatorio con particolare riferimento ai suoi presupposti (art. 392, c.p.p.) e alle modalità di svolgimento (art. 398, c.p.p.). In particolare, la lettera g) interviene sull’art. 392, comma 1-bis inserendo nel catalogo dei delitti che consentono il ricorso a questo mezzo di acquisizione della prova la nuova fattispecie di adescamento di minorenni (nuovo art. 609-undecies). Analogo intervento è operato dalla lettera h) sull’art. 398, comma 5-bis.
La lettera i) novella l’art. 407 del codice di procedura penale che fissa i termini di durata massima delle indagini preliminari. La legge integra il catalogo dei delitti per i quali le indagini possono avere durata biennale con l’inserimento del secondo comma dell’art. 600-ter, relativo al commercio del materiale pornografico minorile.
Infine, la lettera l) interviene sulla disciplina del patteggiamento (art. 444 c.p.p.) per escluderne l’applicazione per tutte le ipotesi di prostituzione minorile, definite dall’art. 600-bis del codice penale.
Infine, gli articoli da 6 a 9 della legge intevengono sul tema delle misure di prevenzione personali, di benefici penitenziari e di gratuito patrocinio.
In particolare, l'articolo 6 interviene sul Codice antimafia (d.lgs. 159/2011), che racchiude ora tutta la disciplina delle misure di prevenzione personali, per introdurre (nell'art. 8) la speciale prescrizione del divieto di avvicinamento a luoghi determinati, abitualmente frequentati da minori. Il giudice potrà imporre tale prescrizione, in sede di applicazione di una misura di prevenzione personale, a colui che per il proprio comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, dedito alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
L’articolo 7 interviene in materia di concessione di benefici penitenziari ai condannati per delitti di prostituzione minorile e pedopornografia, nonché di violenza sessuale. A tal fine la legge 172, dando attuazione agli articoli 16 e 17 della Convenzione di Lanzarote, interviene in primo luogo sull’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), con le seguenti finalità:
E' conseguentemente inserito nell'ordinamento penitenziario l'art. 13-bis, che individua uno specifico trattamento psicologico per i condannati per reati di sfruttamento sessuale dei minori. La disposizione precisa che il trattamento ha finalità di recupero e di sostegno dei detenuti e che la partecipazione al trattamento è volontaria. Peraltro, l’ultimo periodo dell’art. 13-bis chiarisce che la partecipazione a questo trattamento psicologico è valutata ai fini della concessione dei benefici penitenziari, prevista dall’art. 4-bis, comma 1-quater (che, si ricorda, fa riferimento all’osservazione specifica della personalità).
L'articolo 8 interviene sull’art. 12-sexies del decreto-legge n. 306 del 1992 che disciplina, nell’ambito delle misure di prevenzione antimafia, una particolare ipotesi di confisca penale obbligatoria: la confisca dei beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato, o alla propria attività economica. La legge 172/2012 integra l’elenco dei reati per i quali è consentita questa particolare confisca inserendovi alcune ipotesi di prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma), pornografia minorile (art. 600-ter, primo e secondo comma), turismo sessuale (art. 600-quinquies) e pornografia virtuale (art. 600-quater.1, limitatamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico).
Infine, l'articolo 9 novella l’art. 76 del testo unico delle spese di giustizia (D.P.R. n. 115 del 2002), relativo alle condizioni per l’ammissione al patrocinio nel processo penale a spese dello Stato. La legge interviene sul comma 4-ter, che ammette al patrocinio, anche in deroga ai previsti limiti di reddito, la persona offesa da una serie di delitti per ampliare il catalogo dei reati a riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600), prostituzione minorile (art. 600-bis), pornografia minorile (art. 600-ter), turismo sessuale (art. 600-quinquies), tratta di persone (art. 601), acquisto e alienazione di schiavi (art. 602), corruzione di minorenne (art. 609-quinquies) e adescamento di minorenni (art. 609-undecies).
Il Parlamento ha approvato la legge 4 novembre 2010, n. 201, con la quale ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa del 1987, per la protezione degli animali da compagnia, dettando specifiche norme di adeguamento interno.
La Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia è stata fatta a Strasburgo il 13 novembre 1987 ed è in vigore dal 1° maggio 1992. La Convenzione si compone di un preambolo e di 23 articoli.
L’articolo 1 riporta alcune definizioni fondamentali per l’interpretazione della Convenzione, tra le quali quella di animali da compagnia, di allevamento e custodia di essi, di rifugio per animali, di animale randagio.
In base all’articolo 2 ciascuna delle Parti si impegna a provvedere all’attuazione delle disposizioni della Convenzione in esame con riferimento tanto agli animali da compagnia tenuti in alloggi domestici, in allevamenti e custodie o in rifugi, quanto se del caso agli animali randagi. E’ d’altronde previsto che ciascuna delle Parti possa adottare normative più rigorose di quelle dettate dalla Convenzione.
Gli articoli 3 e 4 riguardano i principi fondamentali per il benessere degli animali e per il loro mantenimento. E’ previsto che nessuno dovrà causare inutilmente sofferenze o angosce a un animale da compagnia, né tanto meno dare luogo al suo abbandono. Inoltre la responsabilità della salute e del benessere dell’animale è in capo al suo proprietario o comunque a chi abbia accettato di occuparsene. Cionondimeno, se l’animale si riveli incapace di adattarsi alla cattività esso non dovrà essere tenuto come animale da compagnia.
Gli articoli 5-7 riguardano la riproduzione, i limiti di età per l’acquisto di un animale da compagnia e le attività addestrative. E’ in particolare stabilito che nell’impiego di un animale da compagnia per la riproduzione si debba tener conto delle caratteristiche fisiologiche e comportamentali suscettibili di recare pericolo alla salute e al benessere della discendenza o della fattrice. Inoltre nessun animale dovrebbe essere venduto a minori di 16 anni in mancanza di un esplicito consenso di chi eserciti la potestà parentale. D’altra parte è vietata ogni forma di addestramento dannosa per la salute e il benessere dell’animale soprattutto se lo si costringa a prestazioni superiori alle sue capacità naturali, ovvero con l’utilizzazione di mezzi artificiali.
L’articolo 8 riguarda la detenzione di animali da compagnia a fini di commercio, allevamento, custodia a scopo di lucro, nonché i rifugi per scopi non commerciali. E’ dunque stabilito che chi eserciti le attività di cui al presente articolo, come anche chi intenda intraprendere una, sia tenuto a dichiararlo all’autorità competente, indicando in special modo , oltre alle specie animali oggetto dell’attività, le presone responsabili e le relative nozioni settoriali, e inoltre i locali e le attrezzature da utilizzare. L’autorità competente decide se quanto dichiarato in merito all’attività in essere o da intraprendere corrisponda ai canoni richiesti, e conseguentemente può vietare la prosecuzione o l’inizio dell’attività, ovvero raccomandare provvedimenti migliorativi.
In base all’articolo 9 è fatto divieto di utilizzare gli animali da compagnia nel campo della pubblicità, dello spettacolo, delle esposizioni o delle competizioni, qualora in tali attività ne vengano messi a rischio la salute e il benessere, ovvero le condizioni minime di corretto mantenimento. È inoltre previsto il divieto di somministrazione di sostanze o di applicazione di trattamenti agli animali da compagnia, tali da aumentarne o diminuirne il livello naturale di prestazione: il divieto è assoluto nel corso di competizioni, ed è limitato in tutti gli altri casi all’eventualità di rischi per la salute e il benessere dell’animale.
Gli articoli 10 e 11 concernono gli interventi chirurgici e l’uccisione di animali da compagnia. Per quanto riguarda il primo aspetto sono vietati gli interventi destinati a modificare il mero aspetto di un animale da compagnia, senza risvolti curativi - si elencano in particolare il taglio della coda o delle orecchie, la rescissione delle corde vocali e l’asportazione di unghie o denti. Unica eccezione ai divieti di cui in precedenza saranno gli interventi volti a impedire la riproduzione degli animali, o quelli che un veterinario giudicherà necessari per ragioni di medicina veterinaria o nell’interesse di un determinato animale.
Per quanto concerne gli interventi suscettibili di arrecare particolare dolore all’animale, essi dovranno essere effettuati esclusivamente in anestesia e da un veterinario, mentre è richiesto, per gli interventi non richiedenti anestesia, che siano praticati da una persona comunque competente.
L’uccisione di un animale da compagnia potrà essere praticata solo da un veterinario o da altra persona competente, ad eccezione di casi di urgenza nei quali si debba porre fine alle sofferenze di un animale. Principio-guida di ogni decisione è il minimo di sofferenze da arrecare all’animale, e il metodo prescelto dovrà consistere in una iniziale somministrazione anestetica profonda, seguita da un procedimento che provochi la morte in maniera assolutamente certa. Saranno comunque vietati metodi quali l’annegamento o l’asfissia, ovvero l’utilizzazione di veleni o droghe e anche l’uccisione mediante scariche elettriche, qualora non garantiscano la perdita di coscienza dell’animale prima della morte.
Gli articoli 12 e 13 riguardano le misure rivolte agli animali randagi, nei confronti dei quali sarà possibile adottare le misure necessarie a ridurne il numero qualora rappresenti un problema: tuttavia tali misure non dovranno causare se non il livello minimo di sofferenze fisiche e morali all’animale, tanto rispetto alla cattura che in ordine al mantenimento e alla soppressione del medesimo. E’ inoltre previsto un impegno (attenuato) delle Parti a considerare la possibilità di procedere all’identificazione permanente dell’animale.
E’ però previsto che si potrà fare eccezione ai principi appena elencati in materia di cattura, mantenimento e soppressione degli animali, qualora ciò si renda indispensabile nell’ambito di piani governativi di controllo delle malattie.
L’articolo 14 impegna le Parti allo sviluppo di programmi di informazione e di istruzione per diffondere nei confronti dei soggetti interessati, individuali e collettivi, le disposizioni e i principi della Convenzione in oggetto. In particolare si dovrà richiamare l’attenzione di scoraggiare l’utilizzazione degli animali da compagnia come mero premio od omaggio, come anche il loro acquisto superficiale e lo sviamento di animali selvatici al rango di animali da compagnia.
Gli articoli 15 e 16 concernono rispettivamente le consultazioni multilaterali tra le Parti della Convenzione e le procedure di emendamento della medesima. Dopo cinque anni successivi all’entrata in vigore della Convenzione e in seguito ogni cinque anni - e comunque ogni volta che ne faccia richiesta la maggioranza delle Parti - si terranno consultazioni in seno al Consiglio d’Europa sull’attuazione, la revisione o l’estensione della Convenzione. Ciascuna consultazione si concluderà con la presentazione di un rapporto al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Infine, gli articoli 17-23 sono dedicati alle consuete clausole finali della Convenzione, alla quale è aperta la firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, il cui Segretario Generale ne è altresì il depositario. E’ però previsto che dopo l’entrata in vigore il Comitato dei Ministri potrà invitare uno Stato membro del Consiglio d’Europa ad aderire alla Convenzione.
Il provvedimento di ratifica della Convenzione avvia il proprio iter alla Camera con la calendarizzazione da parte delle Commissioni riunite Giustizia e Affari esteri del disegno di legge del Governo AC. 2836. Dopo l'approvazione da parte della Camera, il provvedimento è modificato dal Senato e dunque torna per la definitiva approvazione - il 27 ottobre 2010 - alla Camera.
Come peraltro affermato dalla stessa relazione introduttiva del disegno di legge del Governo, nel periodo trascorso tra la firma della Convenzione da parte dell’Italia e la presentazione del disegno di ratifica, la legislazione nazionale – soprattutto con la legge 281/1991 - e le norme regionali di recepimento hanno già in gran parte attuato le disposizioni della Convenzione, in molti casi anche superandone le previsioni minime. Ciò che la legislazione italiana ancora non contemplava erano misure atte a scoraggiare la violazione dei divieti posti dall’articolo 10 della Convenzione, come anche a colpire l’illecita introduzione di animali da compagnia nel territorio italiano, in violazione, tra l’altro, dell’articolo 12 della Convenzione.
A tali scopi, la legge 201/2010 non solo autorizza la ratifica della Convenzione (articolo 1) e detta l'ordine di esecuzione (articolo 2), ma contiene dettagliate norme di carattere penale e amministrativo.
Gli articoli 3 e 4 della legge contengono norme penali. In particolare, l'articolo 3 novella gli artt. 544-bis (Uccisione di animali) e 544-ter (Maltrattamento di animali) del codice penale (introdotti dalla legge 189/2004, Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate) aumentando le relative pene. Si prevede:
E' questo l'articolo del provvedimento sul quale sono state evidenti le differenti opinioni di Camera e Senato, che hanno determinato una necessaria navette. In particolare, in prima lettura la Camera dei deputati era intervenuta sul delitto di uccisione di animali eliminando il requisito della crudeltà nell’uccisione ed aveva interamente riscritto il delitto di maltrattamento di animali (eliminando il requisito della crudeltà nella condotta; aumentando la pena; prevedendo esplicitamente che il delitto di maltrattamento sussiste anche quando l’animale da compagnia è sottoposto al taglio o all’amputazione della coda o delle orecchie, alla recisione delle corde vocali, all’asportazione delle unghie o dei denti ovvero ad altri interventi chirurgici destinati a modificarne l’aspetto o finalizzati a scopi non terapeutici; escludendo la punibilità nel caso di interventi eseguiti da un veterinario per scopi terapeutici o per impedire la riproduzione dell’animale o nel caso di interventi considerati dallo stesso medico veterinario utili al benessere di un singolo animale, nei casi stabiliti da apposito regolamento). Nel corso dell'esame in Senato, il relatore del provvedimento aveva evidenziato come le modifiche agli articoli 544-bis e 544-ter dovessero trovare un contemperamento di interessi fra le diverse categorie anche produttive interessate a tali fattispecie di reato (conseguentemente nella seduta del 14 aprile 2010 l’Assemblea del Senato aveva deliberato il rinvio in Commissione del provvedimento, essendo emerse esigenze di approfondimento riferite all’articolo 3). Con l'approvazione di un emendamento del Governo il Senato ha deciso per una modifica più limitata delle fattispecie penali, relativa alla sola entità della pena e la Camera ha infine aderito a questa impostazione.
L’articolo 4 della legge 201/2010 prevede una nuova fattispecie penale, il traffico illecito di animali da compagnia. La disposizione punisce con la reclusione da 3 mesi a un anno, e con la multa da 3.000 a 15.000 euro chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, reiteratamente o tramite attività organizzate, introduce in Italia animali da compagnia (come definiti dall'allegato I, parte A del regolamento comunitario n. 998 del 2003, ovvero cani e gatti) privi di certificazioni sanitarie e di sistemi di identificazione individuale (passaporto individuale, ove richiesto) ovvero, una volta introdotti nel territorio nazionale, li trasporta, cede o riceve. La pena è aumentata se gli animali:
In caso di condanna o di patteggiamento della pena, la legge prevede la confisca dell’animale, che sarà affidato alle associazioni o enti già individuate dalla legge del 2004, nonché la sospensione da tre mesi a tre anni dell'attività di trasporto, di commercio o di allevamento degli animali se la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta è pronunciata nei confronti di chi svolge le predette attività e, in caso di recidiva, l'interdizione dall'esercizio delle attività medesime.
I successivi articoli della legge disciplinano gli illeciti amministrativi, individuano le relative sanzioni e definiscono il procedimento di applicazione delle stesse.
In particolare, l’articolo 5 prevede che laddove il traffico illecito di animali da compagnia non integri gli estremi della fattispecie penale (ad esempio perché la condotta non è reiterata né svolta con attività organizzate), l’autore della condotta è soggetto alle seguenti sanzioni amministrative pecuniarie:
L’articolo 6 disciplina le sanzioni amministrative accessorie, che variano dalla sospensione – da uno a tre mesi - dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività (per il trasportatore o il titolare dell’azienda commerciale) alla revoca della stessa secondo il seguente schema:
Soggetto |
Condotta |
Sanzione |
Trasportatore o titolare di azienda commerciale |
Commissione, nel periodo di tre anni, di tre violazioni dell’articolo 5 (Introduzione illecita di animali da compagnia) |
Sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività da uno a tre mesi |
Se due violazioni sono commesse in un intervallo inferiore ai tre mesi |
Sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività per tre mesi |
|
Commissione, nel periodo di tre anni, di cinque violazioni dell’articolo 5 (Introduzione illecita di animali da compagnia) |
Revocadell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività. In tal caso non può essere conseguita un’altra autorizzazione per l’esercizio della medesima attività prima di dodici mesi |
|
Titolare di azienda commerciale |
Commissione, nel periodo di tre anni, di tre violazioni dell’articolo 13-bis, c. 3, d.lgs. 28/1993 (in materia di scambi intracomunitari di animali, inottemperanza da parte dell'operatore registrato o convenzionato agli obblighi contratti con la registrazione o con la convenzione). |
Sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività da uno a tre mesi |
Se due violazioni sono commesse in un intervallo inferiore ai tre mesi |
Sospensionedell’autorizzazione all’esercizio dell’attività per tre mesi |
|
Commissione, nel periodo di tre anni, di cinque violazioni dell’articolo 13-bis, c. 3, d.lgs. 28/1993.
|
Revocadell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività. In tal caso non può essere conseguita un’altra autorizzazione per l’esercizio della medesima attività prima di dodici mesi |
L’articolo 7 delinea il procedimento per l’applicazione delle sanzioni amministrative, richiamando la disciplina generale contenuta nella legge 689/1981 e individuando quali autorità competenti all’irrogazione delle sanzioni il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e le regioni e province autonome per gli aspetti di propria competenza.
Il Parlamento ha approvato la legge 237/2012, che adegua il nostro ordinamento alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale, consentendo all'Italia di cooperare con tale organo.
La Corte penale internazionale è un tribunale chiamato a giudicare i responsabili di crimini particolarmente efferati, che riguardano la comunità internazionale nel suo insieme, come il genocidio, i crimini contro l'umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione.
La Corte ha un proprio Statuto, stipulato a Roma il 17 luglio del 1998, che definisce in dettaglio la giurisdizione ed il funzionamento di questo tribunale. In particolare, lo Statuto costituisce lo strumento normativo primario per disciplinare le finalità, la struttura ed il funzionamento della Corte penale internazionale; esso individua i principi posti alla base dell’attività giurisdizionale in materia e disciplina le procedure di cooperazione tra la Corte e gli Stati ai fini dello svolgimento di atti di indagine sul territorio di uno Stato nonché il ruolo degli Stati nell’esecuzione delle pene irrogate dalla Corte.
L’Italia ha ratificato lo Statuto con la legge 232 del 1999, ma non aveva sino al dicembre scorso approvato una legge che garantisse l'adeguamento del nostro ordinamento ai principi contenuti nello Statuto, rendendo di fatto problematica la cooperazione con la Corte penale internazionale.
Sin dall'inizio dell'attuale legislatura il Parlamento si è attivato per dare attuazione ai principi contenuti nello Statuto della Corte penale internazionale, al fine di garantire una piena cooperazione del nostro Paese con le attività di questo organismo internazionale.
In proposito, con due atti di indirizzo, il Parlamento ha impegnato il Governo alla presentazione di iniziative legislative volte all’adeguamento del nostro ordinamento allo Statuto (risoluzione 7-00087, a prima firma Bernardini, approvata dalla Commissione giustizia il 4 febbraio 2009; risoluzione 7-00141, a prima firma Pianetta, approvata dalla Commissione esteri il 29 aprile 2009); il Governo ha successivamente informato il Parlamento dell'imminente presentazione di un disegno di legge (in realtà mai presentato).
Nel frattempo, peraltro, la Commissione giustizia della Camera ha avviato e concluso l'esame in sede referente di alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare, proponendo all'Assemblea un testo unificato che è stato approvato l'8 giugno 2011. A seguito di modifiche intervenute nel corso dell'esame del provvedimento in Senato, è stato necessario un ulteriore passaggio parlamentare. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente l'AC 1439-B lo scorso 4 dicembre 2012 e la legge n. 237 del 2012 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l'8 gennaio 2013.
In sintesi, la legge attribuisce al Ministro della giustizia e alla Corte d’appello di Roma il ruolo, rispettivamente, di autorità amministrativa e di autorità giudiziaria competenti per la cooperazione con la Corte penale internazionale. Il provvedimento disciplina altresì le modalità di esecuzione della cooperazione e, in particolare, la procedura di consegna alla Corte penale internazionale di persone che si trovino sul territorio italiano, a seguito di mandato d’arresto internazionale ovvero di una sentenza della Corte internazionale di condanna a pena detentiva, intervenendo anche in materia di esecuzione delle pene pecuniarie e sulla procedura applicabile nel caso in cui l’Italia sia individuata dalla Corte internazionale come Stato di espiazione di una pena detentiva.
Il Capo I della legge 237/2012 (articoli da 1 a 10) contiene le disposizioni generali, individuando le autorità competenti e le modalità di cooperazione con la Corte penale internazionale.
In particolare, l'articolo 1 afferma che la cooperazione dello Stato italiano con la Corte penale internazionale avviene sulla base delle disposizioni contenute nello Statuto della Corte stessa, nel limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
L'articolo 2 attribuisce al Ministro della giustizia il ruolo di autorità centrale per la cooperazione con la Corte penale internazionale mentre il successivo articolo 3 stabilisce che in materia di consegna, cooperazione ed esecuzione di pene si osservano le norme contenute nel codice di procedura penale (rapporti giurisdizionali con autorità straniere).
L'articolo 4 disciplina le modalità di esecuzione della cooperazione giudiziaria con la Corte penale internazionale individuando nella corte d’appello di Roma l’autorità giudiziaria competente.
La trasmissione di atti e documenti è disciplinata dall'articolo 5 che consente al Ministro della giustizia di non procedervi quando ritenga che tali attività possano compromettere la sicurezza nazionale. Non si applica invece l’obbligo del segreto sugli atti d’indagine previsto dall’art. 329 c.p.p.
L'articolo 6 disciplina il caso in cui, in esecuzione di una richiesta di assistenza della Corte penale internazionale, sia necessario citare in Italia una persona che si trova all’estero. La disposizione stabilisce che colui che entra nel nostro territorio non potrà essere sottoposto a qualsivoglia restrizione della libertà personale per fatti antecedenti la notifica della citazione.
L'articolo 7 stabilisce l’applicabilità delle disposizioni sul patrocinio a spese dello Stato anche alle procedure di esecuzione di richieste della Corte penale internazionale.
L’articolo 8 disciplina l’ipotesi di richieste da parte dell’autorità giudiziaria italiana alla Corte internazionale: la richiesta è formulata per il tramite del procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, che si rivolgerà a sua volta al Ministro della giustizia; se il ministro non ottempera entro 30 giorni, il PG presso la corte d’appello può trasmettere direttamente la richiesta alla Corte internazionale.
L'articolo 9 prevede che il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, e il procuratore generale militare presso la corte militare d'appello, assistano - se richiesti - alle consultazioni con la Corte penale internazionale previste dallo Statuto.
L’articolo 10,pur senza risolvere il problema della c.d. doppia incriminazione, ovvero l’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento un catalogo di delitti speculare a quello per il quale ha giurisdizione le Corte penale internazionale, novella il codice penale. La disposizione:
Si tratta, in particolare, delle seguenti novelle al codice penale:
Il Capo II della legge 237/2012 (articoli da 11 a 14) disciplina la consegna alla Corte penale internazionale di persone che si trovino sul territorio italiano.
In base all’articolo 11, se la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto ovvero una sentenza di condanna a pena detentiva a carico di una persona che si trovi sul territorio italiano, il procuratore generale presso la Corte di appello di Roma chiede alla stessa Corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere. L’interessato dalla misura potrà richiedere, in base allo statuto della Corte, la libertà provvisoria.
L’articolo 12 disciplina la possibile revoca della misura. La custodia cautelare è revocata se:
L’articolo 13 riguarda la procedura per la consegna prevedendo una decisione emessa in camera di consiglio dalla corte d’appello di Roma. Il giudice italiano può negare la consegna solo nelle seguenti ipotesi:
Nel caso in cui venga eccepito il difetto di giurisdizione della Corte penale internazionale, la Corte d’appello di Roma dovrà sospendere – salva la manifesta infondatezza – con ordinanza il procedimento, in attesa di una pronuncia della medesima Corte penale.
Sia nell’ipotesi di consenso dell’interessato sia in quella di favorevole pronuncia della corte d’appello di Roma, spetta al Ministro della giustizia – con proprio decreto - provvedere entro 20 giorni alla consegna, prendendo accordi con la Corte penale internazionale sul tempo, il luogo e le concrete modalità.
L’articolo 14 stabilisce che la misura della custodia cautelare in carcere può essere disposta provvisoriamente, anche prima che pervenga dalla Corte internazionale la richiesta di consegna. In tal caso, la custodia sarà revocata se entro 30 giorni la Corte penale internazionale non richiede la consegna.
Il Capo III della legge 237/2012 (articoli da 15 a 24) disciplina l’esecuzione dei provvedimenti della Corte penale internazionale.
In primo luogo la legge attribuisce la competenza a conoscere dell’esecuzione del provvedimento della Corte penale internazionale, ai sensi dell’art. 665, comma 1, c.p.p., alla Corte d’appello di Roma, che è dunque giudice dell'esecuzione dei provvedimenti della Corte (articolo 15).
Nel caso in cui l’Italia - a seguito di sentenza definitiva - sia individuata dalla Corte internazionale come Stato di espiazione di una pena detentiva, in base all’articolo 16 il Ministro della Giustizia deve chiedere alla Corte d’appello il riconoscimento della sentenza della Corte penale internazionale.
L’articolo 17 dispone che l’esecuzione della pena avverrà in base all’ordinamento penitenziario italiano (L. n. 354 del 1975) e in conformità allo statuto e al regolamento di procedura e prova della Corte penale internazionale. Il Ministro della giustizia potrà disporre che il trattamento penitenziario del detenuto avvenga secondo il regime carcerario speciale di cui all’art. 41-bisdell’ordinamento penitenziario.
Spetta alla Corte penale internazionale il controllo sull’esecuzione carceraria (articolo 18) e il Ministro della giustizia dovrà trasmettere immediatamente alla Corte ogni richiesta del detenuto di accesso a qualsivoglia beneficio penitenziario o misura alternativa alla detenzione; se la Corte internazionale ritiene di non consentire l’accesso ad una misura prevista dal nostro ordinamento, il Ministro può chiedere alla Corte di disporre il trasferimento del condannato in altro Stato.
L’articolo 19 disciplina gli ulteriori obblighi di tempestiva informazione alla Corte penale internazionale a carico del Ministro della Giustizia e riferiti alla situazione del condannato (morte, evasione,avvenuta espiazione della pena, nuovi procedimenti penali) mentre l'articolo 20 stabilisce che il luogo di espiazione della pena possa consistere in una sezione speciale di un istituto penitenziario ovvero in un carcere militare.
L’articolo 21 della legge dispone in ordine all’esecuzione delle pene pecuniarie: su richiesta del procuratore generale, la Corte d’appello di Roma può provvedere all’esecuzione della confisca dei profitti e dei beni disposta dalla Corte penale internazionale; i beni confiscati vengono messi a disposizione della Corte internazionale per il tramite del Ministero della giustizia, che agirà in base a modalità da individuare con decreto. La disposizione disciplina, altresì, l’esecuzione degli ordini di riparazione a favore delle vittime.
Nel caso di difficoltà nell’esecuzione di provvedimenti sopra indicati, l'articolo 22 disciplina la procedura di consultazione con la Corte penale internazionale, la cui finalità è anche la conservazione dei mezzi di prova.
L'articolo 23 reca una serie di disposizioni in materia di giurisdizione, prevedendo l’applicazione delle disposizioni vigenti in materia di riparto tra la giurisdizione ordinaria e quella penale militare. Per i fatti rientranti nella giurisdizione penale militare, le funzioni attribuite al Ministro della giustizia devono essere esercitate d’intesa con il Ministro della difesa, restando salva la competenza esclusiva del Ministero della difesa per quanto attiene all’ordinamento penitenziario militare.
Il Parlamento ha approvato la legge 45/2009 con la quale ha ratificato il II Protocollo relativo alla Convenzione dell'Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, fatto a L'Aja il 26 marzo 1999, dettando norme di adeguamento dell'ordinamento interno.
La diffusa consapevolezza che le azioni di combattimento nel corso di conflitti armati producano spesso la distruzione di patrimoni culturali unici al mondo ha fatto sì che la Comunità internazionale, non a caso a partire dal Secondo Dopoguerra, sulla scorta delle immani devastazioni che il recente conflitto mondiale aveva apportato, adottasse la Convenzione dell'Aja del 1954 specificamente dedicata alla protezione del patrimonio culturale nel caso di conflitti armati, contestualmente ad un primo Protocollo sulla protezione del patrimonio culturale in tempo di occupazione.
Nel 1977 vennero inoltre adottati due Protocolli alle quattro Convenzioni di Ginevra, le quali, come è noto, costituiscono la base del diritto internazionale umanitario di guerra.
Il primo dei due Protocolli, relativo alla protezione delle vittime di conflitti armati internazionali, all'articolo 53 ha incluso il patrimonio culturale tra gli elementi meritevoli di protezione, ricomprendendo nel concetto di patrimonio culturale anche i luoghi di culto. In particolare, l'articolo 53, dopo aver salvaguardato espressamente le previsioni della Convenzione dell'Aja del 1954, proibisce il compimento di qualsiasi atto di ostilità diretto contro monumenti storici, opere d'arte o luoghi di culto, che costituiscano patrimonio culturale o spirituale dei popoli. E’ altresì vietato l'uso di tali oggetti come base di azioni militari, come anche il coinvolgimento di essi nel corso di azioni di rappresaglia. Analoghe previsioni sono contenute, stavolta all'articolo 16, nel secondo dei Protocolli del 1977, dedicato alla protezione delle vittime di conflitti armati non internazionali.
Tutti gli atti internazionali richiamati risultano ratificati dall’Italia.
L’insufficienza dei risultati conseguiti nell’applicazione della Convenzione dell’Aja del 1954 conduceva all’adozione, nel marzo 1999, del Secondo Protocollo alla Convenzione dell’Aja del 1954. Il Protocollo introduce un ulteriore regime di protezione dei beni culturali nel corso di conflitti armati, aggiuntivo alla protezione generale ed alla protezione speciale già contemplate dalla Convenzione, ossia il regime della protezione rafforzata: esso riguarda beni del più alto valore universale sottratti al regime di protezione speciale di cui alla Convenzione del 1954 per il fatto di trovarsi in città storiche o vicino ad installazioni militarmente sensibili come autostrade, stazioni, ecc.
I beni culturali soggetti a protezione rafforzata vanno iscritti in un elenco ad hoc che il Comitato intergovernativo - istituito anch'esso dal Protocollo aggiuntivo - sottopone ad accurato monitoraggio. Inoltre, il Protocollo delimita la nozione di necessità militare imperativa e la nozione di obiettivo militare: ciò allo scopo di limitare al massimo le giustificazioni per attacchi contro i beni culturali soggetti a protezione rafforzata. I comandi militari vengono resi responsabili in ogni caso delle decisioni adottate, e viene introdotta la responsabilità individuale in caso di danneggiamento o distruzione ingiustificati dei beni culturali, prevedendo apposite sanzioni. Il contenuto del Protocollo è più ampiamente descritto nel dossier del Servizio studi della Camera del dicembre 2008.
Il provvedimento ha avviato l'iter al Senato, a seguito della presentazione del disegno di legge del Governo AS. 1073; approvato nel novembre 2008, il testo (AC. 1929) è passato all'esame della Camera che l'ha approvato con modificazioni il 24 febbraio 2009. Il provvedimento è stato definitivamente approvato dal Senato il 1° aprile 2009.
I 17 articoli della legge 45/2009 sono dedicati solo in minima parte alla ratifica del protocollo (articoli 1 e 2) essendo principalmente rivolti a all'adattamento dell'ordinamento nazionale al combinato disposto della Convenzione del 1954 e del Protocollo addizionale.
In particolare, l'articolo 3, dedicato alle definizioni, qualifica illecito ogni violazione del diritto nazionale del territorio occupato o del diritto internazionale. Il successivo articolo 4 individua le norme da applicare allo scopo della predisposizione delle misure preventive di tutela dei beni culturali quali previste dall'articolo 5 del Protocollo. Viene pertanto stabilita l’applicazione delle norme vigenti in materia di obbligo di catalogazione dei beni culturali; delle disposizioni legislative e regolamentari inerenti alla sicurezza e alla prevenzione antincendio; delle disposizioni organizzative di natura regolamentare del Ministero per i beni e le attività culturali, nelle quali vengono individuate le strutture competenti per la protezione del patrimonio culturale nazionale, cui dovranno far capo anche le attività di salvaguardia dei beni culturali in caso di conflitto armato; più in generale, di tutte le norme legislative, regolamentari ed amministrative volte all'individuazione degli enti e strutture competenti in materia di sicurezza e tutela del patrimonio culturale.
In base all'articolo 5, il Ministero per i beni e le attività culturali individua i beni pubblici o privati cui riconoscere i requisiti dettati dall'articolo 10 del Protocollo, i quali andranno inseriti nell’elenco indicato al successivo articolo 11, paragrafo 1. In tal modo i beni culturali verranno a godere di una tutela rafforzata sulla base della loro estrema importanza per l'intera umanità. Il Ministero per i beni e le attività culturali si consulta con il Ministero della Difesa onde escludere, nell'attribuzione a un bene culturale della protezione rafforzata, che esso sia usato per scopi militari o come scudo a postazioni militari, e accertare che vi sia stata altresì la prevista dichiarazione che il bene culturale in oggetto non verrà mai utilizzato a tale scopo.
Gli articoli da 6 a 15 della legge 45/2009 introducono una disciplina penale speciale in relazione alle diverse fattispecie di reati militari in danno di beni culturali previste dal Protocollo oggetto di ratifica, colmando una lacuna dell'ordinamento italiano che sino ad allora non prevedeva una normativa specifica relativa alla protezione dei beni culturali in caso di conflitti armati.
Analiticamente, l’articolo 6 individua nei conflitti armati e nelle missioni internazionali l’ambito di applicazione della nuova disciplina penale, precisandone l’estensione in relazione sia all’autore che al luogo del commesso reato.
In accordo alle previsioni del capitolo 4 del Protocollo, gli articoli da 7 a 12 individuano le fattispecie di reato in danno dei beni culturali protetti, stabilendo le relative sanzioni.
L’articolo 7 della legge 45/2009 punisce con la reclusione da 4 a 12 anni l’attacco ad un bene culturale protetto (art. 15, comma 1, lett. d) del Protocollo), mentre - in virtù del maggior grado di protezione accordato ai sensi degli artt. 10 e 11 del Protocollo – per lo stesso illecito è prevista la reclusione da 5 a 15 anni se il bene culturale è sottoposto a protezione rafforzata (art. 15, comma 1, lett. a) del Protocollo). Quando all’attacco consegue la distruzione del bene culturale scatta un’aggravante (comune), con conseguente aumento fino a un terzo della pena.
L’articolo 8 punisce con la reclusione da 1 a 5 anni l’illecito utilizzo di un bene culturale protetto (o della zona ad esso circostante) a sostegno di un’azione militare(art. 15, comma 1, lett. b) del Protocollo). Ricorre un’aggravante speciale (reclusione da 2 a 7 anni) se il bene culturale utilizzato è sottoposto a protezione rafforzata mentre è applicata anche qui un’aggravante comune se al reato consegue la distruzione del bene.
La sussistenza di una cd. necessità militare imperativa è causa di esclusione della punibilità dei reati di attacco e distruzione di beni culturali di cui agli articoli 7 ed 8 (articolo 13 delle legge). Tale disposizione integra l'articolo 4, paragrafo 2, della Convenzione, esplicitando i presupposti per invocare la sussistenza di tale scriminante e fissandone comunque espresse limitazioni.
La devastazione e il saccheggio di beni culturali protetti dalla Convenzione o dal Protocollo sono puniti, ai sensi dell’articolo 9, con la reclusione da 8 a 15 anni mentre l’articolo 10 punisce con la reclusione da 2 a 8 anni il danneggiamento e la distruzione di un bene culturale protetto (art. 15, comma 1, lett. e) del Protocollo).
L’articolo 11 punisce con la reclusione da 2 a 8 anni l’esportazione, la rimozione o il trasferimento illecito della proprietà di beni culturali protetti quando ciò avvenga nel corso di un conflitto armato o di missioni internazionali (reclusione da 4 a 10 anni se il bene era soggetto a protezione rafforzata). Se dal fatto consegue la distruzione del bene, la pena è aumentata.
In linea con il contenuto dell’art. 21, lettera a), del Protocollo, l’articolo 12 della legge punisce con la reclusione da 1 a 3 anni l’alterazione o modificazione arbitraria dell’uso dei beni culturali protettinel corso di un conflitto armato o di missioni internazionali. Anche in tal caso, dalla distruzione del bene conseguente al reato discende un aumento di pena fino ad un terzo.
L'articolo 14 della legge 45/2009 – in ragione dell’ambito applicativo della legge definito dall’art. 6 nonché dell’affinità dei reati sopraindicati con quelli previsti dal codice penale militare di guerra – definisce come reati militari gli illeciti di cui agli artt. da 7 a 12. Viene precisata, in relazione ad essi, l’applicazione dell’art. 27 c.p.m.p. ovvero la sostituzione della reclusione militare alla reclusione ordinaria per eguale durata, quando la condanna non importa la degradazione.
I successivi commi dell’art. 14 sono relativi al riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici militari. Per i reati militari commessi all’estero la competenza appartiene:
Con l'approvazione della legge 85/2009 l’Italia ha aderito al Trattato di Prum, firmato da Belgio, Germania, Spagna, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Austria il 27 maggio 2005, e volto a rafforzare la cooperazione di polizia in materia di lotta al terrorismo, alla criminalità transfrontaliera ed all’immigrazione clandestina. Il Capitolo 2 del Trattato, in particolare, disciplina l’impegno fra le Parti contraenti a creare schedari nazionali di analisi del DNA e a scambiare le informazioni contenute in tali schedari, l’impegno a scambiare le informazioni sui dati dattiloscopici (le impronte digitali), nonché l’accesso ai dati inseriti negli archivi informatizzati dei registri di immatricolazione dei veicoli.
La legge ha istituito la banca dati del DNA e il laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA, con la finalità di rendere più agevole l'identificazione degli autori di delitti.
L'iter per l'approvazione della legge 85/2009 ha preso avvio al Senato, con l'esame di una serie di disegni di legge di iniziativa parlamentare e governativa (AS. 905). Il Senato ha approvato un testo unificato dei disegni di legge nel dicembre 2008, trasferendo il provvedimento (AC. 2042) alla Camera dei deputati. Quest'ultima ha ulteriormente modificato il provvedimento nel maggio 2009 imponendo un ulteriore passaggio parlamentare. Il disegno di legge AS. 586-B è stato dunque definitivamente approvato dal Senato il 24 giugno 2009 (per una descrizione analitica del provvedimento si rinvia dunque al dossier del Servizio studi del Senato).
Il Capo I della legge 85/2009 autorizza l'adesione del nostro Paese al Trattato e vi dà esecuzione (articoli 1 e 2), senza peraltro individuare le autorità di riferimento per le attività previste: spetterà a decreti dei Ministri dell'interno e della giustizia individuare tali soggetti (articolo 3). L'articolo 4 pone a carico dello Stato italiano l'obbligo di risarcimento per i danni eventualmente causati da agenti di altro Stato aderente al Trattato nel nostro territorio.
Il Capo II della legge prevede l’istituzione della banca dati nazionale del DNA (presso il Ministero dell'interno – Dipartimento della pubblica sicurezza) e del Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA (presso il Ministero della giustizia - Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria).
Il Capo III disciplina lo scambio di informazioni e altre forme di cooperazione previste dal Trattato mentre il Capo IV apporta modifiche al codice di procedura penale per consentire lo svolgimento nel corso di un procedimento penale di accertamenti tecnici coattivi (ovvero prelievi ed altri accertamenti medici) idonei a incidere sulla libertà personale.
Infine, il Capo V reca disposizioni finali, tra le quali rileva in particolare per il Governo un obbligo di relazione periodica al Parlamento.
Il Capo II della legge, con la finalità di facilitare l'identificazione degli autori di delitti, in particolare permettendo la comparazione dei profili del DNA di persone già implicate in procedimenti penali con gli analoghi profili ottenuti dalle tracce biologiche rinvenute sulla scena di un reato, istituisce la banca dati del DNA e il laboratorio centrale per la banca dati del DNA (articolo 5).
La creazione delle due strutture presso amministrazioni diverse consente di mantenere elevato il livello delle garanzie, evitando promiscuità che si potrebbero rivelare pregiudizievoli per la genuinità dei dati raccolti e analizzati. Vengono in particolare tenuti distinti il luogo di raccolta e confronto dei profili del DNA (banca dati nazionale del DNA) dal luogo di estrazione dei predetti profili e di conservazione dei relativi campioni biologici (laboratorio centrale presso l'Amministrazione penitenziaria), nonché dal luogo di estrazione dei profili provenienti da reperti (laboratori delle forze di polizia o altrimenti specializzati, come i R.I.S. di Parma).
La banca dati nazionale provvede (articolo 7), nei casi tipizzati, alla raccolta dei profili del DNA:
Alla banca dati nazionale è assegnato, inoltre, il compito di raffronto del DNA a fini di identificazione.
Le funzioni del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA sono invece le seguenti (articolo 8):
Le forze di polizia dovranno custodire, per la successiva consultazione e gli immediati raffronti, solo i dati relativi ai profili del DNA, mentre al Ministero della giustizia viene riservata l'estrazione del profilo del DNA, che provvederà successivamente a trasmettere per via informatica alla banca dati nazionale.
Il laboratorio centrale svolgerà le sue funzioni solo con riferimento alle sostanze biologiche prelevate dai soggetti appartenenti alle categorie indicate dall'articolo 9 della legge (soggetti in custodia cautelare; quelli arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo; i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile per un delitto non colposo; i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile per un delitto non colposo; i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva). Il prelievo sarà possibile esclusivamente qualora nei confronti dei citati soggetti si proceda per delitti non colposi per i quali è consentito l'arresto facoltativo in flagranza (salvo per alcune fattispecie di reato specificamente indicate).
L'articolo 18 della legge delega il Governo ad emanare, entro un anno, uno o più decreti legislativi per provvedere alla integrazione dell’ordinamento del personale del Corpo di polizia penitenziaria mediante l’istituzione di ruoli tecnici nei quali inquadrare il personale da impiegare nelle attività del laboratorio centrale.
Il Governo ha esercitato la delega con il decreto legislativo 162 del 2010.
L'articolo 12 della legge disciplina il trattamento dei dati, l'accesso e la tracciabilità dei campioni e, in particolare, stabilisce che i profili ed i relativi campioni non contengono le informazioni che consentono la diretta identificazione del soggetto cui sono riferiti.
L’accesso alle banche dati si configura di secondo livello: la polizia giudiziaria e la stessa autorità giudiziaria dovranno prima richiedere di effettuare il confronto e, solo se esso è positivo, potranno essere autorizzate a conoscere il nominativo del soggetto cui appartiene il profilo. Inoltre, si introduce la necessità di identificare sempre e comunque l'operatore che ha consultato la banca dati, nonché di registrare ogni attività concernente i profili e i campioni.
Sono, infine, specificamente disciplinati i casi di cancellazione del profilo del DNA e di distruzione del relativo campione biologico (articolo 13) e posti limiti temporali massimi per la conservazione nella banca dati nazionale del profilo del DNA (quarant’anni) e del campione biologico (venti anni).
La legge 85/2009 punisce con la reclusione da uno a tre anni il pubblico ufficiale che usa i dati in modo improprio e affida al Garante per la protezione dei dati personali il controllo sulla banca dati nazionale del DNA (articolo 15).
Il Capo III della legge 85/2009 disciplina:
Il Capo IV della legge novella il codice di procedura penale, e le relative norme di attuazione, al fine di consentire accertamenti tecnici idonei ad incidere sulla libertà personale.
In particolare, gli articoli da 24 a 29 disciplinano lo svolgimento di accertamenti tecnici coattivi, colmando il vuoto normativo creatosi a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 1996, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità del secondo comma dell’art. 224 c.p.p., per la parte in cui consentiva al giudice, nell'ambito delle operazioni peritali, di disporre misure volte ad incidere sulla libertà personale dell'indagato o dell'imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei casi e nei modi dalla legge.
L'articolo 24, attraverso l’introduzione dell’art. 224-bisc.p.p., disciplina la perizia che comporta l’esecuzione di atti idonei a incidere sulla libertà personale. La perizia può essere disposta anche coattivamente con ordinanza motivata del giudice nei confronti dell’indagato o dell’imputato di un reato. La disposizione individua i presupposti dell’accertamento, i tipi di prelievo da effettuare ai fini della determinazione del profilo del DNA o dell’esecuzione di accertamenti medici, nonché le garanzie per lo svolgimento della perizia.
L'articolo 25 disciplina il caso in cui il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, intenda procedere coattivamente a un prelievo del tipo di quelli indicati all’art. 224-bis, prevedendo l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari o, in caso di urgenza, la successiva convalida da parte del GIP del decreto motivato del PM che dispone l’accertamento.
Gli articoli 26 e 27 novellano, con finalità di coordinamento, gli articoli 133 e 354 del codice di procedura penale mentre l'articolo 28 modifica l'art. 392, comma 2 c.p.p. in tema di incidente probatorio così da consentire l’uso di tale strumento di anticipazione nella raccolta della prova anche per l'espletamento di una perizia ai sensi dell’art. 224-bis c.p.p.
L'articolo 29, invece, interviene sulle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p. introducendovi tre nuovi articoli, relativi al prelievo di campioni biologici e accertamenti medici su minori e su persone incapaci o interdette, alla redazione del verbale delle operazioni, nonché alla distruzione dei campioni biologici.
L’articolo 16 della legge demanda a un regolamento di delegificazione, ancora non emanato, la disciplina attuativa della legge.
Attraverso tale atto - che doveva essere emanato entro quattro mesi dall'entrata in vigore della legge - dovevavo essere regolamentati: il funzionamento e l’organizzazione della banca dati e del laboratorio centrale; le modalità di trattamento, di accesso e di comunicazione dei dati; le tecniche e le modalità di analisi e conservazione dei campioni biologici; i tempi di conservazione dei profili del DNA e dei campioni biologici; le attribuzioni dei responsabili della banca dati e del laboratorio centrale; le competenze tecnico-professionali del personale addetto alla banca dati e al laboratorio centrale; le modalità ed i termini di esercizio dei poteri conferiti al Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie; le modalità di cancellazione dei profili del DNA e di distruzione dei relativi campioni biologici.
L'articolo 19 della legge pone inoltre a carico del Governo l'obbligo di inviare periodicamente al Parlamento una relazione sull'attività della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la medesima banca dati. Fino al 2011 a tale obbligo ha adempiuto il Ministro della Giustizia (doc. CCXXXV, nn. 1 e 2); nel 2012 ha invece provveduto il Ministro dell'Interno (doc. CCXXXV-bis, n. 1).
Un ulteriore obbligo di comunicazione periodica è posto a carico del Ministro dell’interno dall'articolo 30; il ministro dovrà informare annualmente il cd. Comitato parlamentare Schengen (Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell’accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione) sullo stato di attuazione del Trattato di Prüm.
In merito all'attuazione della legge si segnala, peraltro, che la Commissione europea, nella relazione sull'attuazione della decisione 2008/615/GAI sul potenziamento della cooperazione, soprattutto nella lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera («decisione di Prüm») (COM(2012)732), presentata il 7 dicembre 2012, lamenta il ritardo di alcuni Stati membri, tra cui l'Italia, nella realizzazione degli adeguamenti tecnici necessari allo scambio automatizzato di dati relativi al DNA e alle impronte digitali.
Il Parlamento ha ratificato due convenzioni del Consiglio d'Europa dedicate alla lotta alla corruzione, che si sono affiancate nella legislatura alla ratifica della Convenzione ONU di Merida (v.Legge 116/2009 - Ratifica Convenzione di Merida) e all'approvazione della Legge 190/2012 - Misure anticorruzione nella p.a..
Con la legge 110/2012, il Parlamento ha ratificato la Convenzione penale di Strasburgo del 1999 sulla corruzione che impegna, in particolare, gli Stati a prevedere l'incriminazione di fatti di corruzione attiva e passiva tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel settore privato; del cosiddetto traffico di influenze; dell'autoriciclaggio (per l'analisi del contenuto della Convenzione si veda il dossier del Servizio studi della Camera del marzo 2012).
Dal provvedimento di ratifica, che ha avviato l'iter al Senato con la presentazione di un disegno di legge di iniziativa parlamentare (AS. 850), sono state espunte le disposizioni di diretto adeguamento dell'ordinamento interno, confluite nella legge anticorruzione. Conseguentemente, la legge 110 del 2012 si limita a ratificare la Convenzione (articolo 1), a consentirne la piena ed intera esecuzione (articolo 2) ed a designare come autorità centrale il Ministro della giustizia (articolo 3).
Con la legge 112/2012 il Parlamento ha ratificato la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo nel 1999 e diretta, in particolare, ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudiziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione (per il contenuto analitico della Convenzione si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera dell'ottobre 2010).
La legge, che ha avviato l'iter al Senato con la calendarizzazione di un disegno di legge di iniziativa parlamentare (AS 849), si limita a ratificare la Convenzione (articolo 1) e a darvi piena ed intera esecuzione (articolo 2).
L'aiuto allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell'Italia; le sue finalità principali - la solidarietà tra i popoli e la piena realizzazione dei diritti fondamentali dell'uomo - vengono attuate nel rispetto dei principi delle Nazioni Unite e degli accordi comunitari e internazionali. Il Parlamento è uno degli attori della politica di cooperazione, della quale si occupa attraverso dibattiti di carattere generale, nonché attraverso l'approvazione di provvedimenti che attengono ai molteplici aspetti della materia. Anche nella XVI Legislatura il Parlamento ha trattato a vario titolo, e in diverse sedi, il tema dell'aiuto italiano allo sviluppo.
L’aiuto italiano allo sviluppo comprende tanto la cooperazione allo sviluppo propriamente detta – gestita dalla specifica Direzione generale presso il ministero degli esteri, di cui il Ministro ad hoc per la cooperazione internazionale e l'integrazione, di recente istituzione, si avvale – quanto un’ampia serie di iniziative a livello bilaterale e multilaterale, tra le quali quelle relative alla riduzione del debito, alla partecipazione ai fondi internazionali di cooperazione allo sviluppo, ed altre ancora.
La politica italiana di cooperazione allo sviluppo ha assunto un assetto sistematico a partire dal 1979, data dalla quale la crescita qualitativa e quantitativa degli interventi in diverse aree geografiche ha reso necessario un riordino complessivo della materia, tale da rendere la cooperazione allo sviluppo un aspetto essenziale della politica estera del nostro Paese.
La cooperazione italiana è veicolata sia attraverso il canale bilaterale, sia attraverso quello multilaterale. Un ulteriore aspetto della cooperazione allo sviluppo è poi rappresentato dal ruolo del settore privato nelle economie dei paesi in via di sviluppo (PVS). Va infatti notato che i flussi finanziari originati dall’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) a livello internazionale verso i PVS rappresentano soltanto un quinto del totale dei movimenti di capitali privati e degli investimenti diretti (IDE) verso i PVS.
La cooperazione bilaterale italiana agisce in base a criteri di priorità geografica e di concentrazione degli aiuti, realizzando piani di intervento integrati. Questi a loro volta possono limitarsi ad assistenza tecnica, ovvero estendersi alla messa in atto di progetti più complessi.
Uno degli aspetti più importanti della cooperazione italiana risiede nel trasferimento di conoscenze scientifiche e tecniche disponibili nel sistema produttivo nazionale e nella rete delle istituzioni di ricerca. Non va inoltre trascurato il ruolo delle Regioni e degli Enti locali (cosiddetta “cooperazione decentrata”), le cui iniziative sono coordinate al livello centrale in un’apposita struttura presso la Direzione generale della cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari Esteri.
Un’altra parte importante della politica di cooperazione allo sviluppo è attuata mediante collaborazione con organismi multilaterali internazionali. La partecipazione italiana alla dimensione multilaterale allo sviluppo si attua anzitutto mediante il cofinanziamento del capitale di varie banche e fondi di sviluppo; inoltre rileva particolarmente il sostegno al bilancio e alle attività di vari organismi internazionali, tra i quali fanno spicco gli Istituti specializzati dell’ONU. L’Italia compartecipa inoltre agli stanziamenti per l’aiuto allo sviluppo determinati in sede di Unione Europea. Quasi un terzo dell’APS italiano è canalizzato tramite la Commissione Europea, per due distinte finalità: 1) quale quota-parte nazionale dovuta al Fondo Europeo di Sviluppo (FES/FED), per finanziare le attività previste dal nuovo accordo ACP-UE, firmato a Cotonou nel giugno 2000, e modificato da un successivo accordo del 2005. l’Italia si colloca, per il periodo 2008-2013 al quarto posto tra i paesi contributori (dopo Germania, Francia e Regno Unito) fornendo un contributo di 2,916 miliardi di Euro, pari al 12,86% dell’intero X FES.
Il 29 maggio 2012 il Comitato Permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ha avviato un' Indagine conoscitiva sui nuovi indirizzi internazionali delle politiche di cooperazione allo sviluppo e il ruolo dei Parlamenti con l’audizione della Presidente dell'Associazione dei parlamentari europei per l'Africa (AWEPA), Miet Smet.
L’Indagine è poi proseguita il 3 luglio 2012 con l’audizione del Presidente dell'Osservatorio sulla salute globale, Nicoletta Dentico e il 20 novembre 2012 con l'audizione di Giovanni Camilleri, Coordinatore internazionale della UNDP – ART Global Initiative(Articulation of Territorial and Thematic Networks of Cooperation for Human Development).
Ma i vari aspetti che compongono l’aiuto italiano allo sviluppo sono stati trattati in maniera molto articolata dal Parlamento italiano fin dall’inizio della legislatura. Fra i dibattiti più importanti si ricorda quello avvenuto il 19 e il 21 ottobre 2009 in occasione della discussione di due mozioni concernenti iniziative in materia di cooperazione allo sviluppo e della loro approvazione con il voto favorevole di entrambi gli schieramenti. Sia la mozione dell’opposizione (1-00253, Quartiani ed altri), sia quella della maggioranza (1-00254 Boniver ed altri) hanno impegnato il governo a proseguire nella strada intrapresa di aumentare la quota destinata all’aiuto pubblico in relazione al PIL, come era avvenuto nel 2008, incrementandola ulteriormente per assicurare il contributo, anche futuro, dell’Italia alle varie iniziative destinate ad aiutare i paesi in via di sviluppo.
Altrettanto importante il dibattito del 18 aprile e del 26 ottobre 2011 che ha riguardato l’approvazione delle mozioni concernenti iniziative per garantire la trasparenza delle informazioni relative all'aiuto pubblico allo sviluppo (Tempestini ed altri n. 1-00621, Pezzotta ed altri n. 1-00623 e Antonione, Dozzo, Sardelli ed altri n. 1-00625 vertenti su materia analoga. L’iter di tali mozioni - alle quali si sono aggiunte le mozioni Pisicchio ed altri n. 1-00629, Di Biagio e Della Vedova n. 1-00712 e Oliveri ed altri n. 1-00726).
Per una trattazione più completa dell’attività parlamentare in materia di cooperazione allo sviluppo nella XVI Legislatura, si veda la scheda che contiene i dibattiti sulla materia riportati in ordine cronologico e la scheda sull'attivita' legislativa.
La lotta contro l’AIDS, la tubercolosi, la malaria e le altre malattie infettive è un importante pilastro della politica italiana di aiuto allo sviluppo oltre ad essere l’oggetto del sesto Obiettivo di Sviluppo del Millennio. Il Fondo, nato nel 2002 per volere dell'allora Segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, è stato fortemente sostenuto dall’Italia, sotto l’impulso della quale, nel corso del Vertice dei G8 di Genova nel 2001, ne è stata decisa la costituzione.
Anche nella XVI Legislatura, il Fondo ha avuto un posto nei dibattiti parlamentari, sia riguardo le sue attività, sia per i problemi legati al suo finanziamento.
Il Direttore esecutivo del Fondo globale, Michel Kazatchkine è stato sentito, in data 23 giugno 2009 , dalla Commissione esteri nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite, condotta dall’apposito Comitato. Dopo aver illustrato le specificità del Fondo Globale, Kazatchkine ha tracciato il quadro dei risultati fino a quel momento conseguiti e delle prospettive per il futuro; ha poi sottolineato come, a partire dall’inizio del nuovo secolo, sia cambiata la prospettiva dalla quale si considerano i costi (o meglio, gli investimenti) per la salute: l’epidemia di AIDS, che ha avuto un forte impatto sul piano umano e sociale, ma anche economico e demografico, ha dimostrato che per realizzare uno sviluppo corretto il tema della sanità va considerato una priorità.
La questione relativa al contributo italiano al Fondo Globale è stata affrontata nella interrogazione Barbi n. 5-01604 alla quale il Sottosegretario agli esteri, Stefania Craxi ha dato risposta in Commissione esteri l’ 8 luglio 2009, durante il semestre di presidenza italiana del G8. Il sottosegretario Craxi ha riportato la volontà del governo affermando l’impegno del Governo a rilanciare un’attiva presenza nel Fondo globale e confermando la volontà di assicurare, anche per il 2009, il contributo dell'Italia.
Il 13 luglio 2010 è stato invece sentito il Svend Robinson, funzionario del Fondo Globale, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale, condotta dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato. Il dottor Robinson ha dato conto di numerosi successi ottenuti mettendo in guardia contro una possibile contrazione delle attività, e quindi dei progressi nella lotta alle malattie che più colpiscono le zone più povere del pianeta, se i paesi sostenitori – fra i quali l’Italia che faceva parte del Consiglio di amministrazione del Fondo – non onoreranno gli impegni presi.
La partecipazione finanziaria italiana al Fondo globale per la lotta all'HIV/AIDS, la tubercolosi e la malaria è stata altresì oggetto dell’interrogazione in Commissione n. 5-03863 Pedoto ed altri, alla quale il Sottosegretario agli esteri, Mantica, ha dato risposta nella seduta del 1° dicembre 2010. Il sottosegretario ha ricordato l’impegno dell’Italia fra il 2001 e il 2008, concretizzatosi nel versamento di una somma pari a 790 milioni di euro, risultando il terzo principale donatore dopo Stati Uniti e Francia, affermando al contempo che il versamento delle quote relative al 2009 e al 2010 era stato fino ad allora ostacolato dalle dalle pressanti esigenze di risanamento della finanza pubblica.
Ancora in tema di finanziamento del Fondo, il 23 giugno 2011 il Sottosegretario agli esteri, Stefania Craxi, ha risposto alla Camera all’interpellanza urgente n. 2-01109, presentata dai deputati Di Stanislao ed altri, riguardante Orientamenti del Governo circa il mancato versamento delle quote al Fondo globale per la lotta all'Aids, tubercolosi e malaria con riferimento agli anni 2009 e 2010. Il Sottosegretario ha nuovamente ricordato l'importante contributo finanziario erogato al Fondo dall’Italia tra il 2001 e il 2008 (circa 790 milioni di euro), ed ha attribuito il mancato (fino a quel momento) versamento delle quote relative al 2009 e 2010 (circa 260 milioni di euro) alle impellenti esigenze di risanamento finanziario dei conti pubblici che, al pari di altri paesi membri del Fondo, hanno impedito all’Italia di dare seguito con puntualità agli impegni assunti alla Conferenza di Berlino del 2007.
Sul piano normativo, si ricorda la presentazione alla Camera di due proposte di legge volte ad istituire nello stato di previsione del Ministero degli affari esteri un nuovo fondo – e a determinarne la dotazione – destinato a finanziare specificamente il Fondo globale, rendendo il contributo italiano stabile e certo.
Le due proposte - A.C. 740 (Grassi ed altri) e A.C. 1514 (Barbi ed altri) - "Istituzione del Fondo per il finanziamento del Fondo globale per la lotta contro l'AIDS, la tubercolosi e la malaria” avevano iniziato il loro iter in Commissione esteri il 7 ottobre 2009.
Le Commissioni esteri e agricoltura di Camera e Senato hanno condotto, nella seconda metà del 2008, un'indagine conoscitiva con lo scopo di analizzare le cause strutturali della crisi alimentare ed individuare le misure che andrebbero intraprese a livello internazionale per rispondere alle richieste di assistenza alimentare (v. par. più avanti).
L'Indagine conoscitiva ha messo in evidenza con grande rilievo la fragilità del sistema mondiale di approvvigionamento del cibo e la sua vulnerabilità ad eventuali shock, intendeva inoltre acquisire elementi informativi sull'attività che le organizzazioni ed agenzie internazionali competenti, aventi sede in Roma (FAO, PAM e IFAD), stanno svolgendo per contribuire al raggiungimento dell'obiettivo del dimezzamento della popolazione sottonutrita entro il 2015 (Obiettivo n. 1 degli MDGs -Millennium Development Goals).
L’indagine è stata inaugurata, il 15 luglio 2008 , dall’audizione del direttore esecutivo del PAM (Programma Alimentare Mondiale), Josette Sheeran, che ha affrontato il tema dell'aumento dei prezzi dei beni alimentari e del suo impatto sulle popolazioni più vulnerabili. La signora Sheeran ha sottolineato come tale fenomeno si sia ripercosso fortemente sulla capacità di fornire aiuti alle popolazioni bisognose che, in taluni casi, dipendono per sopravvivere, unicamente dalla possibilità di ricevere un pasto “salvavita” dalle organizzazioni internazionali come il PAM. Il vertiginoso aumento del prezzo del riso, l’alimento che costituisce la dieta base delle popolazioni più povere, ha causato il dimezzamento delle razioni erogate a quelle persone, già gravemente sottoalimentate.
Come ha illustrato il suo direttore esecutivo, il PAM è la più grande agenzia dell’ONU, l’unica a basarsi interamente su finanziamenti volontari, in grado di raggiungere tempestivamente le situazioni di emergenza ad ogni capo del mondo. Il PAM distribuisce medicinali, oltre agli alimenti, servendosi di migliaia di elicotteri e navi, ma anche di asini e cammelli, essendo un’organizzazione molto presente sul territorio e molto duttile, capace di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione. Inoltre, il PAM, sempre secondo quanto riportato dalla signora Sheeran, è anche un’agenzia poco costosa dato che, a differenza delle altre agenzie delle Nazioni Unite, spende per la propria sopravvivenza solo il 7 per cento delle donazioni.
Il PAM adotta una politica definita “80-80-80”, in base alla quale l'80 per cento delle risorse finanziarie viene impiegato per l'acquisto di alimenti nei Paesi in via di sviluppo, l'80 per cento dei servizi di trasporto e stoccaggio vengono acquistati in questi stessi Paesi – producendo quindi un miglioramento della loro base tecnologica – e anche l'80 per cento dello staff è reclutato localmente nei Paesi in via di sviluppo. Una politica che dunque non si limita alla semplice erogazione di derrate alimentari indispensabili alla sopravvivenza delle popolazioni più bisognose, ma che si propone anche di favorire il loro sviluppo in vista di un loro futuro affrancamento dagli aiuti dei paesi più ricchi.
Il 17 luglio 2008 è stato audito Lennart Båge, Presidente dell'IFAD (International Fund for Agricultural Development), che è, al contempo, un’istituzione finanziaria internazionale e un’agenzia specializzata dell'ONU.
Båge ha ricordato che nella Dichiarazione adottata al termine della Conferenza sulla sicurezza alimentare, i capi di Stato e di Governo hanno espresso la necessità di adottare un pacchetto di provvedimenti a medio e a lungo termine per uscire dalla crisi. Tra l’altro, riconoscendo il ruolo fondamentale del piccolo agricoltore, si sono impegnati ad invertire la tendenza alla riduzione degli aiuti e degli investimenti in agricoltura e a promuovere la ricerca in campo agricolo.
L’IFAD è impegnato a rafforzare la produzione agricola per combattere la povertà rurale, attraverso prestiti e donazioni, e a promuovere lo sviluppo proprio delle comunità più povere e più emarginate. Il programma agricolo in Africa, ha riferito il presidente dell’IFAD, ha grosso modo le stesse dimensioni finanziarie di quello della Banca africana di sviluppo, ed è più o meno la metà di quello della Banca mondiale. Anche in considerazione delle stime che attribuiscono alla crescita demografica e dei redditi la previsione di un aumento della domanda di alimenti del 50 per cento per il 2030 e del 100 per cento per il 2050, uno degli obiettivi del Fondo è quello di sostenere i piccoli agricoltori in Africa, sul modello di quanto sta già avvenendo in India e in Vietnam; quest’ultimo Paese, grazie ad un sistema di piccola agricoltura, è passato da una situazione di deficit alimentare ad essere il secondo esportatore mondiale di riso e negli ultimi 25 anni la povertà è scesa dal 58 al 15 per cento.
Båge ha altresì posto l’accento sulla ricerca in agricoltura, importante per determinate coltivazioni e per affrontare situazioni come la siccità, i parassiti, o per sviluppare varietà resistenti alla salinità, e che – come ha dimostrato la “rivoluzione verde” in Asia – può portare benefici molto rilevanti soprattutto in funzione della resa delle coltivazioni.
Fondamentale anche il rafforzamento delle infrastrutture (trasporti ed energia in particolare) e l’accesso al credito. Su quest’ultimo punto il Presidente Båge ha ricordato l’impegno dell’IFAD nel promuovere la microfinanza e la partecipazione, che dura ormai da molti anni, alla Grameen Bank.
Anche l’intervento di Lennart Båge si è concluso con una panoramica di dati riguardanti gli interventi e i finanziamenti dell’IFAD.
La terza seduta dell’Indagine ha avuto luogo il 17 settembre 2008 con l’audizione del direttore generale della FAO (Food and Agriculture Organization), Jacques Diouf.
Diouf, che ricopre altresì la carica di vicepresidente di un gruppo di lavoro ad hoc ad alto livello dell’ONU sulla crisi mondiale della sicurezza alimentare, ha ripercorso le tappe della crisi e ha fornito i dati in possesso della FAO sottolineando come dalla Conferenza siano scaturiti impegni finanziari di rilevante entità da parte di Paesi ed istituzioni finanziarie.
Diouf ha messo in evidenza la necessità, peraltro riconosciuta da istituzioni finanziarie e mondo politico, di ritornare ad investire quote importanti nell’aiuto allo sviluppo, e in particolare per la parte destinata al settore agricolo (passata dal 17 per cento nel 1980 al 3 per cento nel 2006).
Inoltre, il direttore generale della FAO, ha dichiarato l’impegno della sua Organizzazione a collaborare con il G8 e la comunità internazionale per costruire il partenariato globale sull’agricoltura e l’alimentazione (proposta avanzata al G8 del luglio 2008 in Giappone), con la partecipazione dei Governi, del settore privato, della società civile e delle istituzioni internazionali. A tale fine il direttore generale della FAO ritiene necessario integrare gli obiettivi di sicurezza alimentare all’interno delle politiche di sviluppo dei Paesi donatori e dei Paesi beneficiari, in accordo con i principi sanciti nella Dichiarazione di Parigi sull’efficacia degli aiuti allo sviluppo .
L’Indagine conoscitiva si è conclusa il 5 novembre 2008 con l’audizione di rappresentanti della ONG italiana Action Aid e con l’audizione di due membri del governo: il sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Vincenzo Scotti, e il sottosegretario di Stato per le politiche agricole alimentari e forestali, Antonio Buonfiglio.
Luca De Fraia, Capo dipartimento Policy & advocacy di Action Aid è tornato sulla proposta della costruzione della cosiddetta global partnership sui temi dell'alimentazione e dell'agricoltura, sulla quale era intervenuto Jacques Diouf. A tale proposito, Action Aid si è detta contraria alla istituzione di nuove strutture, dichiarandosi convinta che una nuova global partnership debba essere fondata sul riconoscimento del valore delle competenze delle istituzioni che già esistono. In consonanza con i propositi del governo italiano, Action Aid ha proposto dunque la leadership delle tre organizzazioni basate a Roma nella nuova iniziativa.
Nicola Borello, Corporate Sector office di Action Aid ha chiesto chiarezza sul coinvolgimento delle imprese nella partnership globale per sapere quali saranno gli effettivi ruoli che il settore privato dovrà svolgere all'interno di questa iniziativa e per essere certi che non si perseguano interessi diversi da quelli degli effettivi beneficiari.
Sulla crisi alimentare, Borello ha ricordato il problema dell’innalzamento dei costi degli input agricoli (semi, macchinari, pesticidi e fertilizzanti) riportando i risultati di uno studio condotto in Guatemala che dimostrava come l'innalzamento dei prezzi dei fertilizzanti sul mercato internazionale stava avendo, a livello locale, un impatto disastroso nel settore del caffé.
Il Sottosegretario di Stato per gli affari esteri Vincenzo Scotti ha messo in evidenza come la Conferenza di Roma si fosse svolta prima dell'esplodere della crisi finanziaria e come, in seguito, si fosse prodotto un intreccio perverso fra la crisi alimentare e quella finanziaria.
Dopo essere tornato sulle cause della crisi alimentare, il Sottosegretario ha ribadito che la global partnership è finalizzata ad assicurare un approccio sistemico alla sfida della sicurezza alimentare e che le organizzazioni del c.d. “polo romano” potranno offrire la piattaforma ideale, sia sul piano delle conoscenze sia sul piano logistico, per produrre le sinergie necessarie al successo dell’iniziativa. L'Italia, come ha affermato il Sottosegretario Scotti, è impegnata ad assicurare una rapida conclusione del processo di riforma e il rilancio della FAO e a potenziare la ricerca agricola e la formazione di agronomi nei Paesi in via di sviluppo, proprio a partire dalle istituzioni di eccellenza che ospita.
Ricordando che il 2009 sarebbe stato l’anno di presidenza italiana del G8, il sottosegretario Scotti ha assicurato l’inclusione del tema della sicurezza alimentare nell’agenda dei lavori e lo svolgimento della riunione dei ministri dell'agricoltura in formato G8, dedicata ai temi della sicurezza alimentare, su cui era stato riscontrato l’assenso di tutti i leader del G8.
Antonio Buonfiglio, Sottosegretario di Stato per le politiche agricole, alimentari e forestali ha sottolineato come il Vertice FAO del giugno 2008 abbia prodotto un cambiamento culturale riguardo all'agricoltura (fino a poco prima relegata ad attività esclusivamente da Paese terzo) spingendo l’Italia ad occuparsi di più di agricoltura come attività produttiva, e a chiedere in sede di Commissione europea lo sblocco degli aiuti allo sviluppo previsti da fondi di bilancio che erano vincolati. Buonfiglio ha ricordato che, per combattere la crisi alimentare, la Comunità europea ha stanziato un miliardo di euro, destinandolo all'aiuto innanzitutto ai Paesi terzi, e che presso il polo romano delle agenzie dell'ONU è stato creato un tavolo strategico finalizzato alla creazione di risorse e scorte in caso di urgenza.
La partecipazione dell’Italia alla Convenzione di Londra sull’aiuto alimentare è stata più volte oggetto di dibattito da parte del Parlamento italiano. L’8 luglio 2009, il sottosegretario agli affari esteri, Stefania Craxi, ha dato risposta in Commissione esteri all’interrogazione n. 5-01498 del deputato Zucchi sulla partecipazione dell'Italia alla Convenzione di Londra sull'aiuto alimentare a cui il nostro paese aveva contribuito fino al 2004. Il sottosegretario ha spiegato che, data l’esiguità dei fondi disponibili, non era stata possibile negli anni più recenti, l’adozione di un provvedimento ad hoc da parte del Ministero degli affari esteri.
Ancora sullo stesso tema, il Senato ha approvato il 10 dicembre 2009 le mozioni nn. 140 (Bosone) e 214 (Di Nardo) che impegnano al Governo a mettere fine alla inadempienza italiana e a rispettare gli impegni finanziari assunti con l'adesione italiana alla Convenzione sull'aiuto alimentare.
Il 22 ottobre 2009, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite, il Comitato ha sentito l'Ambasciatore Staffan de Mistura, Vice Direttore Esecutivo del Programma alimentare mondiale che ha dato conto delle attività del PAM nell’ambito degli aiuti alimentari, definendolo come l'organizzazione tra le più operative delle Nazioni Unite.
Il 4 maggio 2010, presso l’Assemblea della Camera, il governo ha dato risposta all’interrogazione Mannino n. 3-00877 su iniziative a favore delle popolazioni eritree afflitte da gravi carenze alimentari. Il Sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Mantica, ha informato sull’atteggiamento delle autorità eritree che tendono a sottovalutare la gravità della crisi alimentare e sulla difficoltà dei rapporti tra l’Eritrea e la comunità internazionale. Il sottosegretario comunque si mostrava fiducioso della riuscita dei programmi di aiuto a quel paese, veicolati attraverso l’Unicef.
Il Senato ha inoltre approvato nella seduta del 22 giugno 2011 le mozioni nn. 417, 431, 432 e 433 su una strategia mondiale per il settore alimentare presentate, anche in occasione del vertice dei Ministri dell'agricoltura riuniti a Parigi per il G20, al fine di impegnare il governo ad attivare in ambito internazionale iniziative di contrasto dell’aumento dei prezzi delle derrate alimentari.
La Camera si è in più momenti occupata della questione relativa alla grave carestia che ha colpito il Corno d’Africa e il Sahel raggiungendo l’apice nell’estate del 2011.
Il 27 luglio 2011 la Commissione Affari esteri della Camera ha affrontato la discussione della risoluzione 7-00650, a prima firma dell'on. Renato Farina, dedicata alla situazione umanitaria creatasi nel Corno d'Africa in seguito alla crisi alimentare in corso. La discussione si è conclusa con l'approvazione della risoluzione in un testo modificato (8-00140) che impone al governo impegni analoghi a quelli contenuti nel dispositivo della mozione 1-00710 approvata il 7 settembre 2011.
Il testo della mozione 1-00710 presentata dai deputati Renato Farina, Evangelisti, Binetti, Di Biagio, Mosella, Tempestini, Dozzo, Razzi e Commercio raccoglie i testi di sei mozioni che, per volere dei presentatori, al termine del dibattito iniziato il 6 settembre 2011, sono confluiti in una mozione unitaria.
La mozione 1-00710, approvata il 7 settembre 2011 impegna il governo, tra l’altro, a mettere a disposizione delle organizzazioni internazionali le risorse necessarie per fronteggiare l'emergenza, incrementandone l'ammontare. Inoltre il Governo dovrà agire, coinvolgendo l'Unione europea, per assicurare alle popolazioni del Corno d'Africa stabilità statuale e democratica, nonché dare il proprio contributo alla grande campagna di informazione in atto per sensibilizzare sull'argomento della crisi umanitaria nel Corno d'Africa l'opinione pubblica italiana. Con riferimento ai milioni di bambini coinvolti drammaticamente nell'emergenza umanitaria, il Governo viene infine impegnato ad iniziative normative che ne semplifichino il sistema di adozioni internazionali.
Il 15 marzo 2012 , il sottosegretario di Stato per l'istruzione, l'università e la ricerca, Marco Rossi Doria, ha fornito risposta all’interpellanza urgente Pistelli ed altri n. 2-01388 riguardante iniziative per fronteggiare la crisi alimentare nel Corno d'Africa. Dopo avere svolto ampie considerazioni sulle cause della crisi, strettamente collegata alla situazione di instabilità politica e alla presenza di gruppi criminali nei paesi del Sahel e del Corno d’Africa, il sottosegretario Rossi Doria ha rassicurato circa l’impegno italiano a recare aiuti alle popolazioni vulnerabili di quelle regioni, con attenzione a settori della sicurezza alimentare, dell'accesso alle risorse idriche, della protezione dei rifugiati e dell'educazione primaria.
Il 6 giugno 2012, il sottosegretario Staffan de Mistura ha invece risposto all'interrogazione a risposta immediata Tempestini n. 5-06988 sulla crisi alimentare nel Sahel, area reinserita tra le priorità d'intervento della cooperazione italiana ai sensi delle Linee Guida triennali, a favore della quale il governo ha promesso ulteriori sforzi. Il Sottosegretario ha dato conto delle iniziative già programmate dalla cooperazione italiana, in linea con le principali organizzazioni internazionali in ambito ONU e in coordinamento con l'Unione europea.
Il tema dell’ammontare delle risorse stanziate per la cooperazione allo sviluppo gestite dal Ministero degli affari esteri è stato oggetto dell’interrogazione a risposta immediata n. 3-00146, degli onorevoli Sarubbi ed altri, cui il Ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, ha dato risposta in Aula nella seduta del 24 settembre 2008.
Nello stesso giorno (24 settembre 2008) il sottosegretario agli esteri Stefania Craxi è intervenuta presso la Commissione esteri della Camera per rispondere all'interrogazione n. 5-00254 dell'on. Siragusa circa le difficoltà di far pervenire a destinazione gli aiuti umanitari inviati nella Repubblica democratica del Congo.
Il 1° ottobre 2008, il sottosegretario agli esteri, Alfredo Mantica, ha risposto all’interrogazione n. 5-00373 presentata dall’on. Barbi in Commissione esteri riguardante la ridestinazione di fondi alla cooperazione allo sviluppo in relazione al ridimensionamento dell’ammontare delle risorse destinate a tale settore.
Il Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che ha svolto la sua attività anche al là della conduzione della Indagine conoscitiva sulla realizzazione di tali Obiettivi, aveva tra l’altro sentito, il 16 dicembre 2008, il sottosegretario di Stato agli affari esteri, Vincenzo Scotti, sugli esiti della Conferenza ONU per il finanziamento allo sviluppo (Doha, 29 novembre-2 dicembre 2008).
La cooperazione allo sviluppo è legata al conseguimento degli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Il nesso è esplicito riguardo l’Ottavo obiettivo (costituzione di un partenariato globale per lo sviluppo), anche se tutti gli otto Obiettivi orientano l’intera azione della cooperazione allo sviluppo la cui meta principale è proprio quella di dimezzare la povertà nei paesi in via di sviluppo. Nella seduta del 29 luglio 2009 la Commissione esteri ha proceduto all’audizione, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sugli Obiettivi del Millennio, del direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni. Il direttore generale ha fornito un’analisi dei dati dell’aiuto pubblico complessivo, che solo per il 25 per cento viene gestito dal Ministero degli esteri. Il ministro Belloni ha inoltre posto l’accento sui temi della qualità dell’aiuto pubblico allo sviluppo e della modifica dell’attuale normativa, da tutti considerata ormai inadeguata.
Il 14 ottobre 2009, la Commissione esteri ha esaminato la Relazione del Ministro degli affari esteri sulle attività svolte nell'anno 2008 nell'ambito della partecipazione dell'Italia alle iniziative di pace e umanitarie in sede internazionale (Doc. LXXXI, n. 2). Il relatore ha fornito un riepilogo di alcuni dati contenuti nella Relazione per area geopolitica sull'entità e la rilevanza percentuale delle iniziative di pace ed umanitarie finanziate dall'Italia nel 2008; gli aiuti erogati attraverso la fornitura diretta di beni e servizi è stato di circa 977mila euro, e comprendono una gamma di interventi molto vasta ed articolata, che va dal finanziamento diretto di corsi di formazione nel campo umanitario ad interventi propriamente assistenziali per popolazioni in condizioni di estrema povertà sino alla fornitura di attrezzature tecniche e di apparecchi ospedalieri. I finanziamenti forniti sotto forma di contributi ad organizzazioni internazionali, enti pubblici e privati e ad altri Stati, sono invece ammontati complessivamente a circa di 6,970 milioni di euro. La Commissione ha proceduto poi alla disamina complessiva della portata dei progetti descritti nella Relazione.
Nella seduta del 21 ottobre 2009, la Camera dei deputati ha approvato due mozioni che prendevano le mosse dalla preoccupazione di assicurare, anche negli anni a venire, il contributo dell’Italia alle varie iniziative destinate ad aiutare i paesi in via di sviluppo. Sia la mozione dell’opposizione (1-00253, Quartiani ed altri) che quella della maggioranza (1-00254 Boniver ed altri), che fra l’altro impegnano il governo a proseguire la tendenza ad incrementare la quota destinata all’aiuto pubblico in relazione al PIL intrapresa nel 2008, hanno ricevuto il voto favorevole di entrambi gli schieramenti.
Il 27 gennaio 2010, il Comitato permanente sugli obiettivi di sviluppo del millennio ha esaminato la Relazione previsionale e programmatica sull'attività di cooperazione allo sviluppo per l'anno 2010. La relazione, presentata annualmente alle Camere allo scopo di illustrare le priorità e gli strumenti di intervento e le proposte per la ripartizione delle risorse finanziarie, è stata per la prima volta in tale occasione oggetto di specifico approfondimento nell’ambito della Commissione. La Relazione, che pone essenzialmente il problema dell’efficacia degli aiuti – anche in considerazione della riduzione delle risorse – propone che anche l’Italia, come gli altri grandi donatori, si avvalga di una funzione di valutazione degli interventi di cooperazione con parametri elaborati in ambito OCSE. Inoltre, la Relazione suggerisce l'istituzione di un apposito capitolo di bilancio per la valutazione e la modifica di alcuni aspetti della disciplina vigente. Il documento afferma anche la necessità di potenziare l’aiuto bilaterale rispetto a quello multilaterale, il cui uso dovrebbe essere riservato alle sole situazioni nelle quali lo strumento bilaterale non garantisca l'efficacia dell'intervento.
In occasione del terremoto nella Repubblica Haiti, la Commissione Esteri della Camera ha audito, il 10 febbraio 2010, il sottosegretario di Stato agli affari esteri, Vincenzo Scotti. Oltre a riportare valutazioni sui danni della catastrofe e a descrivere gli interventi in corso, il Sottosegretario ha voluto porre l’accento sul ruolo dell’aiuto internazionale che in tali occasioni, rimane l'unico modo per fronteggiare l'emergenza delle prime drammatiche giornate, e per affrontare, in un secondo momento, l’opera di ricostruzione delle infrastrutture di base.
Il 24 febbraio 2010, presso la Commissione affari esteri della Camera il sottosegretario agli esteri, Stefania Craxi, ha dato risposta all’interrogazione n. 5-02542 presentata dagli onorevoli Evangelisti e Di Stanislao sugli incarichi da poco affidati alla Protezione civile relativamente alla gestione degli interventi di cooperazione internazionale. Nella sua risposta, il sottosegretario ha precisato che il protocollo stipulato con la Protezione civile non avrebbe comportato una delega globale di responsabilità, che sarebbero rimaste proprie del Ministero degli Affari Esteri. La titolarità complessiva dell'azione di cooperazione sarebbe dunque rimasta in capo alla Direzione Generale per la Cooperazione allo sviluppo che avrebbe, caso per caso, deciso l’eventuale delega di compiti su alcune iniziative specifiche come nel caso dell’intervento ad Haiti.
Il 29 giugno 2010 il Comitato Permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ha esaminato la Relazionesull’attività di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale per l’anno 2008 (Doc. LV, n. 3-bis) presentata con cadenza annuale dal Ministero dell'economia e delle finanze.
Mercoledì 21 luglio 2010 il sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Vincenzo Scotti, ha dato risposta alla interrogazione Villecco Calipari n. 5-03062 sulle iniziative volte a migliorare l'efficacia degli aiuti italiani allo sviluppo. Nella risposta, sulla quale la presentatrice si è dichiarata non soddisfatta, il sottosegretario ha tracciato un quadro sulle azioni fino a quel momento compiute nell’ambito Piano Programmatico Nazionale per l'efficacia degli aiuti e sulle azioni da portare a compimento.
Il Commissario europeo per lo sviluppo, Andris Piebalgs, è stato audito il 24 gennaio 2011 dalle Commissioni Riunite Esteri e Politiche dell’Unione europea della Camera e del Senato. Nel corso dell’audizione, Piebalgs ha ricordato come l’Unione europea sia tra i più grandi erogatori di aiuti allo sviluppo che rappresentano il 60 per cento circa degli aiuti globali.
Come già avvenuto nell’anno precedente, il Parlamento ha esaminato la Relazione previsionale e programmatica sull'attività di cooperazione allo sviluppo. Quella relativa all'anno 2011 è stata esaminata dal Comitato Permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio nella seduta del 1° marzo 2011.
Il sottosegretario Alfredo Mantica ha risposto il 30 marzo 2011 presso la Commissione esteri del Senato all’interrogazione n. 3-001932 (sen. Della Seta ed altri), sull'attuazione della raccomandazione OCSE sulla cooperazione allo sviluppo italiana. Il sottosegretario ha fornito un quadro di iniziative del Ministero degli esteri, e degli altri ministeri coinvolti nelle attività di cooperazione, volte a dare attuazione alle raccomandazioni contenute nella peer review dell’OCSE del 2009, assicurando che il MAE era “fortemente impegnato a concretizzare le indicazioni in esse contenute con iniziative ad ampio spettro”.
Di cooperazione allo sviluppo si è occupata anche l’Assemblea della Camera il 18 aprile 2011 con la discussione sulle linee generali della mozione Di Pietro ed altri n. 1-00391 concernente iniziative per garantire la trasparenza delle informazioni relative all'aiuto pubblico allo sviluppo e delle mozioni Tempestini ed altri n. 1-00621, Pezzotta ed altri n. 1-00623 e Antonione, Dozzo, Sardelli ed altri n. 1-00625 vertenti sullo stesso argomento. L’iter di tali mozioni - alle quali si sono aggiunte le mozioni Pisicchio ed altri n. 1-00629, Di Biagio e Della Vedova n. 1-00712 e Oliveri ed altri n. 1-00726, si è poi concluso nella seduta del 26 ottobre 2011. Il dibattito ha tenuto conto del IV Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti che si sarebbe svolto a Busan entro la fine dell’anno.
Il Sottosegretario agli esteri Mantica, intervenuto presso la Commissione esteri il 20 aprile 2011, ha dato risposta all’interrogazione 5-04532 del deputato Farina sull'applicazione del principio di sussidiarietà nella destinazione dei fondi per la cooperazione allo sviluppo – nella quale ha assicurato che la cooperazione italiana, anche nell'attuale congiuntura, si adopera per evitare che le ristrettezze di bilancio possano ripercuotersi sull'impegno complessivo dell'Italia sul fronte dello sviluppo - e all’interrogazione a risposta immediata del deputato Barbi n. 5-04424 sulla partecipazione dell'Italia alla cooperazione allo sviluppo delegata dall'UE.
Il 3 maggio 2011 presso il Comitato Permanente Sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Commissione esteri) si è svolta l’audizione del Direttore Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari esteri, Elisabetta Belloni, allo scopo di approfondire gli indirizzi strategici che ispireranno l’aiuto pubblico allo sviluppo per il triennio successivo. L'audizione aveva lo scopo di integrare i contenuti della Relazione previsionale e programmatica sull'attività di cooperazione allo sviluppo per l'anno 2011, il cui esame era iniziato presso il Comitato il 1° marzo 2011.
Sempre presso il Comitato Permanente Sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio della Commissione esteri, si è svolto, il 31 maggio 2011, l’esame istruttorio del Libro verde della Commissione europea per il Consiglio, il Parlamento europeo, il Comitato economico e sociale europeo e il Comitato delle regioni dedicato a “Il futuro del sostegno al bilancio dell'UE a favore dei paesi terzi”. COM(2010)586 def.
Il 7 giugno 2011, il Comitato Permanente Sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ha iniziato l’esame istruttorio, concluso il 15 giugno 2011, della Relazione sull'attività di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale per l'anno 2009 (Doc. LV, n. 4-bis). A tale proposito, si rileva che il 15 giugno, il governo ha dato risposta in Commissione esteri alla interrogazione n. 5-04872 dell’on Di Stanislao presentata per conoscere quali fossero le priorità verso banche e fondi di sviluppo per il 2011, soprattutto per quelle che avvieranno il processo di rifinanziamento dell'IFAD e del Fondo di sviluppo asiatico e quale fosse la quota del valore di appalti che le imprese italiane si sono aggiudicate sul totale del valore delle gare lanciate per ogni Fondo di sviluppo.
Sullo stesso tema, il 29 giugno 2011, la Commissione esteri ha approvato la risoluzione Tempestini ed altri n. 8-00129 che impegna il governo a presentare entro il 2011, e prima della legge di stabilità, la relazione annuale sull'attività di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale per il 2010, secondo quanto prevede la legge sulla cooperazione, e a corredarla di un approfondimento relativo alla partecipazione dell'Italia alle banche e ai fondi di sviluppo a carattere multilaterale per il triennio 2011-2013. La risoluzione era stata presentata al termine dell'esame istruttorio della Relazione del Governo sull'attività di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale per l'anno 2009.
Il 9 giugno 2011 il governo ha risposto nell’Aula di Montecitorio all’interpellanza urgente degli onorevoli Tempestini ed altri n. 2-01089, riguardante iniziative per il rispetto degli impegni internazionali assunti dall'Italia in materia di cooperazione allo sviluppo. Il sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze, Bruno Cesario, ha affermato che sebbene negli ultimi anni il livello di aiuto pubblico allo sviluppo sia dallo 0,29 per cento del PIL nel 2005 allo 0,15 per cento nel 2010, a seguito della politica di rigore adottata dal Governo, continua l'impegno italiano bipartisan nel campo dei meccanismi innovativi di finanziamento dello sviluppo, quali l'International finance facility for immunization e l'Advance market commitment, ai quali l'Italia contribuisce, rispettivamente, con 473,5 milioni di euro e 450 milioni di euro.
La risoluzione n. 7-00607 sulla partecipazione italiana a banche e fondi sviluppo a carattere multilaterale, presentata dall’onorevole Tempestini presentata dal collega Tempestini al termine dell'esame istruttorio della Relazione del Governo sull'attività di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale per l'anno 2009 (v. supra) è stata approvata dalla Commissione esteri della Camera il 29 giugno 2011 nella nuova formulazione unitaria con il n. 8-00129.
La Relazione sull'attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo per l’anno 2009 (Doc. LV, n. 4) è stata invece esaminata dalla Commissione esteri del Senato il 15 giugno 2011.
Il 13 luglio 2011 la Commissione esteri ha approvato la risoluzione Barbi ed altri n. 8-00132 che, tra l'altro, impegna il governo a continuare ad operare in conformità con le Linee Guida 2011-2013 della Cooperazione italiana, e a mettere in campo tutti gli interventi necessari per esercitare il ruolo di donatore leader o di donatore attivo per i progetti di sviluppo europeo.
Il 29 settembre 2011 il governo ha dato risposta alla Camera all’interpellanza urgente n. 2-01210, degli onorevoli Bersani ed altri nella quale si chiedevano chiarimenti in merito agli impegni assunti dallo Stato italiano in materia di cooperazione allo sviluppo nei confronti di organizzazioni internazionali, agenzie e fondi di sviluppo ONU, banche e fondi di sviluppo e singoli Paesi e al relativo adempimento. Al riguardo, il Sottosegretario di Stato per l'ambiente e la tutela del territorio e del mare, Belcastro, ha sottolineato che l’aiuto pubblico allo sviluppo nel 2010 è stato pari a circa 3 miliardi di dollari, con una percentuale dello 0,15 per cento in rapporto al PIL ed ha fornito una serie di dati di dettaglio circa il contributo italiano a specifiche iniziative e fondi.
In vista dello svolgimento del IV Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti (Busan, 27 novembre-2 dicembre 2011), il Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ha svolto l’esame istruttorio, nelle sedute del 12 ottobre, dell’ 8 e del 29 novembre 2011, della “Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Proposta relativa alla posizione comune dell'Unione europea per il quarto forum ad alto livello di Busan sull'efficacia degli aiuti. COM(2011)541 def”
Il 14 dicembre 2011 la Commissione ha poi ascoltato le comunicazioni del Presidente sulla missione a Busan (Corea del Sud) in occasione del suddetto Forum di alto livello sull'efficacia degli aiuti.
Ancora il 14 dicembre 2011 il sottosegretario Marta Dassù ha risposto all’interrogazione dell’on. Tempestini n. 5-05805 riguardante l'erogazione dei fondi ministeriali per la cooperazione e lo sviluppo.
Il 20 dicembre 2011 il sottosegretario Staffan De Mistura ha risposto all'interrogazione n. 5-05808 dell’on. Evangelisti sulla riduzione dei fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo.
L' 11 gennaio 2012, il sottosegretario Marta Dassù ha dato risposta all'interrogazione n. 5-05882 dell’on. Evangelisti sulle linee programmatiche delle politiche per la cooperazione allo sviluppo.
Il 25 gennaio e il 1° febbraio 2012 presso le Commissioni esteri riunite della Camera e del Senato si è svolta l’audizione del Ministro per la cooperazione internazionale e l'integrazione, Andrea Riccardi, sulle linee programmatiche, durante la quale si è svolta una profonda riflessione sul ruolo dell’Italia nella cooperazione anche alla luce della diminuita disponibilità delle risorse finanziarie.
Il 7 febbraio 2012, il Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, ha iniziato l’esame istruttorio della Comunicazione della Commissione del 13 ottobre 2011 - Il futuro approccio del sostegno dell'Unione europea al bilancio dei paesi terzi. (COM(2011)638) e della Comunicazione della Commissione del 13 ottobre 2011 - Potenziare l'impatto della politica di sviluppo dell'Unione europea: un programma di cambiamento (COM(2011)637).
Il 14 febbraio 2012, il Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, ha poi iniziato l’esame istruttorio della Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce uno strumento per il finanziamento della cooperazione allo sviluppo (COM(2011)840 def.).
Il 21 febbraio 2012, il Comitato sugli Obiettivi di sviluppo del millennio, costituito in seno alla III Commissione, ha svolto l’esame istruttorio della Relazione annuale sulla politica di cooperazione allo sviluppo relativaall’anno 2010 (Doc. LV, n. 5).
Il 28 febbraio 2012 il Comitato Permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ha poi esaminato la Relazionesull’attività di banche e fondi di sviluppo a carattere multilaterale per l’anno 2010 (Doc. LV, n. 5-bis).
Sempre nell’ambito del Comitato Permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, si è svolta il 28 marzo 2012 un’audizione del Direttore Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni, avente ad oggetto la Relazione sull'attuazione della politica di cooperazione e sviluppo per l'anno 2010; la seduta ha offerto lo spunto per una riflessione comune sull’attuazione della politica di cooperazione e sulla bassa prestazione italiana in termini di percentuale del PIL.
Il 29 maggio 2012, la Commissione esteri ha deliberato lo svolgimento di una indagine conoscitiva che, sulla base di un preciso programma si prefiggeva di approfondire il ruolo istituzionale dei Parlamenti nelle politiche di cooperazione, alla luce del documento finale approvato nel Vertice di Busan (29 novembre – 1° dicembre 2011).
Il 29 maggio 2012 la Commissione Affari esteri e comunitari ha audito, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui nuovi indirizzi internazionali delle politiche di cooperazione allo sviluppo e il ruolo dei parlamenti, la Presidente dell’ AWEPA (Associazione dei parlamentari europei per l’Africa), Miet Smet.
Nella parte introduttiva del suo intervento, la signora Smet ha illustrato le caratteristiche organizzative e funzionali dell’organismo che presiede. L’AWEPA, fondata nel 1984, si è da sempre occupata della democratizzazione e del miglioramento delle condizioni sociali del continente africano, operando in stretto contatto con le istituzioni parlamentari locali. La strategia seguita da questa organizzazione è quella della democratizzazione per via parlamentare, che consiste nello stringere contatti con i membri delle varie assemblee parlamentari e formarli su temi delicati e nevralgici come la lettura dei bilanci o il processo di redazione delle leggi. In termini pratici, l’AWEPA si è spesso fatta carico delle spese di queste iniziative di formazione.
Ha poi sottolineato come la capacità operativa dell’AWEPA sia strettamente legata alla concessione di fondi da parte dei governi dei vari paesi. Le sezioni locali di quest’organizzazione, presenti in numerosi paesi occidentali, svolgono anche funzione di lobbying presso i governi dei rispettivi paesi per ottenere i fondi necessari a portare avanti i programmi d’intervento. Tali sezioni sono spesso formate da membri del Parlamento nazionale.
L’importo annuale di finanziamenti di cui beneficia l’AWEPA si attesta tra gli 8 e i 10 milioni di euro.
L’AWEPA lavora, oltre che con le assemblee parlamentari locali, anche con quelle di tipo regionale: la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC), la Comunità dell’Africa orientale (EAC), l’unica a godere di una competenza legislativa. Al di sopra di tutti c’è il Parlamento pan-africano, che svolge un ruolo semplicemente consultivo.
La signora Smet ha riferito che attualmente la sua organizzazione sta lavorando con 28 Parlamenti africani, segnalando al contempo le crescenti difficoltà nello svolgimento delle attività di sostegno allo sviluppo, a causa della progressiva diminuzione dei finanziamenti che provengono dai Paesi occidentali.
Secondo le sue stime, solo in Inghilterra il bilancio a favore dello sviluppo è cresciuto, anche se questo paese non figura nell’elenco dei principali finanziatori dell’AWEPA. I Paesi che maggiormente contribuiscono al bilancio dell’organizzazione sono la Svezia, il Belgio, i Paesi Bassi, l’Irlanda, la Svizzera, la Norvegia, la Finlandia, l’Austria e la Spagna (oltre che la Commissione europea).
Una parte dei finanziamenti che l’associazione riceve sono destinati alla realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. I principali paesi finanziatori sono in questo caso la Svezia e l’Irlanda.
In relazione agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, l’AWEPA lavora soprattutto sull’aspetto della sostenibilità ambientale e della migliore gestione delle risorse nel continente africano.
Proprio la questione delle materie prime presenti in Africa è stato il tema centrale del seminario, organizzato dall’AWEPA, che si è svolto lo scorso 28 settembre presso la Camera dei deputati. In particolare si è discusso di quattro punti: la mappatura delle risorse minerarie e petrolifere, la gestione di tali risorse (chi controlla che cosa), la capacità dell’Africa di trarre e trattenere ricchezza dal loro sfruttamento e infine il ruolo dei parlamenti africani legato alla loro gestione.
Riguardo la diminuzione del budget a disposizione, la signora Smet ha poi messo in luce come attualmente ci si debba focalizzare su un aiuto più efficace e più efficiente, attraverso un doppio controllo dei fondi erogati, da parte del paese donatore e da parte di quello ricevente, per mezzo delle rispettive assemblee parlamentari.
Oltre alla questione dei finanziamenti, la Presidente dell’AWEPA ha riportato come sia difficile lavorare con i Parlamenti in un continente come l’Africa, dove spesso le divisioni tribali sovrastano quelle ideologico/politiche, con la conseguenza che i vari capi tribù hanno molto più potere dei membri del Parlamento e in alcuni casi anche dei ministri del governo.
Ha terminato la sua audizione dichiarando che intende proseguire su questa strada perché vede le potenzialità di queste istituzioni.
Il 3 luglio 2012, presso la Commissione affari esteri e comunitari, si è svolta l’audizione della Presidente dell’Osservatorio sulla salute globale, Nicoletta Dentico.
La signora Dentico ha illustrato la natura e le finalità dell’Osservatorio, ponendo particolare attenzione ai cosiddetti policy dialogues, i dialoghi sulle politiche di un Paese in materia di salute. Attraverso l’attività di raccolta di informazioni e di stimolo su particolari tematiche della salute, l’Osservatorio cerca di colmare i vuoti di dibattito esistenti nei vari Paesi.
Ha costatato che, nonostante negli ultimi anni sia stata registrata una importante mobilitazione sui temi della salute grazie agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, ciò non ha portato i risultati sperati. In alcuni casi si è avuto addirittura un peggioramento della situazione. L’attuale situazione di criticità della salute globale è da imputare, secondo la signora Dentico, all’assoluta imprevedibilità del finanziamento internazionale in questo campo e all’estrema frammentazione degli aiuti e dei programmi d’intervento, che spesso genera duplicazione, spreco di risorse e competizione tra gli attori.
A supporto della sua teoria, ha fornito alcune cifre. Mentre nel 2005 si sono registrate dalle 70 alle 100 iniziative nel campo della salute, nel 2009 hanno toccato quota 140. Ma questo non ha aiutato a migliorare la situazione a livello globale.
Citando poi il caso specifico dell’Eritrea (portato come esempio della imprevedibilità del finanziamento internazionale), ha messo in luce l’andamento altalenante degli interventi in favore della salute: massicci nel 1997, precipitati vertiginosamente l’anno seguente, risaliti nel 2001 e calati nuovamente nel 2002.
La signora Dentico, continuando l’analisi del trend dei finanziamenti alla salute a livello globale, ha denunciato come si sia ormai innescato un meccanismo distorto, per il quale non sono i Paesi donatori ad erogare i fondi in base alle emergenze sanitarie più pressanti, ma sono i Paesi bisognosi di aiuti che tentano di orientare le proprie priorità in base alla disponibilità dei finanziamenti. Una logica definita “sindrome dell’adattamento”, che ha pervaso, secondo la Presidente dell’Osservatorio, anche l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità): mentre, ad esempio, per l’AIDS è stato istituito un interno dipartimento ad hoc, c’è solo una persona che si occupa di diabete.
Questo effetto distorsivo, che ha comportato nel tempo la perdita della linea di responsabilità di finanziatori ed istituzioni, è da imputare, secondo la sua analisi, all’irruzione dei valori di mercato nel campo del diritto alla salute.
Ciò a sua volta ha significato la discesa in campo di finanziatori privati che, grazie alle ingenti risorse a disposizione, hanno potuto dettare l’agenda della salute globale. Secondo il grafico presentato durante l’audizione, l’OMS, da che era la prima organizzazione per risorse investite nel campo della salute negli anni Novanta, oggi è solo una delle tante. Secondo le stime dell’Osservatorio, oggi il budget dell’OMS è composto solo per il 20% dai contributi obbligatori degli Stati membri calcolati in base al PIL e per l’80% dal finanziamento bilaterale volontario. In tal modo, i Paesi membri che contribuiscono a quest’ultima (e maggiore) fetta del budget tentano di orientare le politiche dell’OMS in base alle proprie priorità.
Anche le fondazioni private hanno oggi un ruolo di peso in seno all’organizzazione, contribuendo per il 21% del budget totale. La signora Dentico ha riferito che, ad oggi, ben cinque dipartimenti dell’OMS sono totalmente finanziati dalla Bill & Melinda Gates Foundation.
Ha infine ribadito come la questione della salute sia troppo importante per essere lasciata solamente nelle mani degli addetti ai lavori, auspicando un maggior impegno dei decisori politici e in particolare dei parlamenti, in quanto luoghi dove viene esercitata la cittadinanza.
Il 20 novembre 2012 si è svolta l’ultima seduta nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui nuovi indirizzi internazionali delle politiche di cooperazione allo sviluppo e il ruolo dei parlamenti, con l’audizione di Giovanni Camilleri. Egli ricopre il ruolo di coordinatore dell’ART Global Initiative, un’iniziativa dell’UNDP finalizzata a promuovere lo sviluppo sostenibile a livello locale.
La modalità di cooperazione portata avanti dall’ART Global Initiative è stata attivata in via sperimentale nel 2002 e nel 2009 è stata formalmente riconosciuta come metodo operativo nel campo della cooperazione.
Questa forma di cooperazione si basa su due punti principali: il collegamento dei territori e l’efficacia dello sviluppo. Il primo elemento è indispensabile per favorire il dialogo tra la dimensione locale e quella globale, mentre il secondo è divenuto sempre più pressante con la progressiva diminuzione delle risorse a disposizione.
Il dottor Camilleri ha illustrato come il programma ART opera su tre dimensioni (locale, nazionale e globale), che compongono quelle reti tematiche e territoriali che corrono da nord a sud e viceversa. Per mezzo di queste reti avviene il rafforzamento dei partenariati tra i soggetti coinvolti (pubblici, privati, accademici) dei diversi Paesi, che consentono lo scambio delle migliori esperienze in determinati campi di azione. Grazie a questo è possibile massimizzare l’impatto della conoscenza e delle risorse. Questo fattore di sviluppo, che il dottor Camilleri ha definito il “sapere dei territori”, permette in una certa misura di sopperire alla riduzione delle risorse finanziarie a disposizione.
Questo interscambio di conoscenza tra paesi è efficace nella misura in cui riesce a coinvolgere più attori possibili, sia da una parte che dall’altra. Dunque, a livello operativo, il lavoro del dottor Camilleri consiste anche nel cercare di ampliare le potenzialità e consolidare la partecipazione locale.
Quale esempio concreto dell’iniziativa ART, il dottor Camilleri ha illustrato il progetto realizzato in Senegal, nella regione di Luga, dove esisteva un grave problema legato alla scarsità di acqua. Ogni provincia lombarda ha versato 15.000 euro e la Regione Lombardia 50.000. Ma la parte più importante è stata la condivisione delle conoscenze sulla tecnologia e sugli aspetti legali della gestione dell’acqua. Nonostante una modesta mobilitazione di risorse finanziarie (le Nazioni Unite hanno contribuito per la parte restante con uno stanziamento di 300.000 euro), bilanciata da un’importante mobilitazione di risorse tecniche, tale progetto ha avuto, secondo l’opinione del dottor Camilleri, un impatto notevolissimo.
Infine il dottor Camilleri ha sottolineato due elementi indispensabili per la riuscita dei progetti che portano avanti: la continuità degli aiuti, per svolgere un ruolo continuo e duraturo nei processi di sviluppo e il rafforzamento delle capacità gestionali delle autorità locali, necessario per operare secondo la logica del decentramento.
Riguardo l’attività legislativa, si premette l’esigenza, rappresentata da tutte le parti politiche nelle precedenti legislature, di avviare una riforma del quadro normativo che regola gli aiuti e la cooperazione tra l’Italia e i paesi in via di sviluppo (L. 26 febbraio 1987, n. 49). Al proposito si segnala, nel corso della XVI legislatura, la presentazione alla Camera delle proposte di legge degli onorevoli Angeli (A.C. 108), Sereni ed altri (A.C. 288), Volonté ed altri (A.C. 398), Jannone ed altri (A.C. 2818), Barbi ed altri (A.C. 4673), Di Stanislao ed altri (A.C. 5016), assegnate alla Commissione esteri per l’esame in sede referente.
Tuttavia, nella legislatura appena conclusa sono stati approvati interventi normativi più circoscritti.
Con l’approvazione della Legge 13 agosto 2010, n. 149, (Modifiche all'articolo 1 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e agli articoli 11 e 13 della legge 26 febbraio 1987, n. 49, concernenti la gestione dei fondi dell'Amministrazione degli affari esteri per la cooperazione allo sviluppo) si è inteso consentire all’Amministrazione degli Affari esteri una gestione più efficace dei fondi finalizzati ad attività di cooperazione allo sviluppo accreditati alle rappresentanze diplomatiche.
L’art. 13 della legge 18 giugno 2009, n. 69, Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, dedicato alla cooperazione allo sviluppo internazionale, prevede l’emanazione di un decreto ministeriale per definire le modalità semplificate di svolgimento delle procedure amministrative e contrattuali riguardanti gli interventi di cooperazione a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione di alcuni specifici Paesi e gli interventi in aree dove esistano criticità di natura umanitaria, sociale o economica.
Inoltre, il Parlamento ha esaminato, modificato e convertito in legge il decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria. L’art. 60, comma 11, ha disposto una riduzione degli stanziamenti per la cooperazione a dono.
Si ricorda infine l’attività del Parlamento dedicata ai periodici provvedimenti di proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, (oltre che delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia). L’ultimo di tali provvedimenti è costituito dal decreto legge 28 dicembre 2012, n. 227 che, all’articolo 5, autorizza la spesa di 35,5 milioni di euro per iniziative di cooperazione in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia e Paesi ad essa limitrofi, Myanmar, Siria e Paesi ad essa limitrofi, Somalia, Sudan, Sud Sudan, eccetera.
Si ricorda inoltre che il Parlamento ha esaminato, nel corso della legislatura, treschemi di decreto ministeriale per l’individuazione delle organizzazioni e degli enti possibili destinatari dei contributi di cui alla legge n. 180/1992 (Partecipazione dell'Italia alle iniziative di pace ed umanitarie in sede internazionale). Fra tali enti si rinvengono l’Onu e i suoi Fondi, la Croce Rossa italiana e internazionale, il Consiglio d’Europa, l’Unione Africana, la Lega Araba, l’ECOWAS (Unione economica degli Stati dell’Africa occidentale), la Caritas, ecc.
Al proposito si segnalano le sedute della Commissione esteri della Camera del 16 luglio 2008,del 5 febbraio 2009e del2 marzo 2010.
Gli stanziamenti destinati all'aiuto pubblico allo sviluppo sono suddivisi tra numerosi capitoli degli stati di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze e del Ministero degli Affari esteri. Si segnalano in particolare:
a) La cooperazione a dono. Fino a tutto il 1994 i relativi stanziamenti erano assegnati al cap. 4620/esteri "Fondo speciale per la cooperazione allo sviluppo", che aveva carattere di gestione fuori bilancio; a partire dal bilancio 1995 il fondo è stato riportato a regime ordinario, ai sensi dell'art. 4 della legge 23 dicembre 1993, n. 559 "Disciplina della soppressione delle gestioni fuori bilancio nell'ambito delle Amministrazioni dello Stato". Gli stanziamenti del Fondo sono attualmente ripartiti tra 17 capitoli (esposti nella tabella C della Legge di stabilità), tutti afferenti al Programma 4.2, Cooperazione allo sviluppo dello stato di previsione del Ministero degli affari esteri, nel quale tuttavia sono frammisti a numerosi altri capitoli.
La legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228) ha previsto, in tabella C, i seguenti stanziamenti di competenza per la cooperazione a dono:
(milioni di euro)
2013 |
2014 |
2015 |
228,67 |
114,68 |
111,86 |
Segue una breve serie storica di tali stanziamenti:
(milioni di euro)
legge finanziaria 2006 |
392 |
legge finanziaria 2007 |
647 |
legge finanziaria 2008 |
732,8 |
legge finanziaria 2009 |
321,8 |
legge finanziaria 2010 |
327 |
legge di stabilitá 2011 |
175,8 |
legge di stabilitá 2012 |
86,5 |
b) Fondo rotativo presso il Mediocredito centrale (ex cap. 7415/Ministero dell’economia e delle finanze). A valere su questo fondo erano erogati i crediti d'aiuto per programmi e progetti di sviluppo rispondenti alle finalità della legge e basati normalmente su accordi bilaterali. Faceva altresì capo al fondo rotativo il sostegno alle joint-ventures che rientrano nelle finalità della legge. Si rileva che già nel ddl di bilancio 2009 il capitolo risultava soppresso, non prevedendosi appostamenti a carico di esso nell’imminente esercizio finanziario.
c) Le attività di cooperazione multilaterale, per le quali sono previsti appositi stanziamenti, si sostanziano nella partecipazione alle iniziative comunitarie e nei contributi obbligatori e nei finanziamenti a banche e fondi di sviluppo.
Si tratta dei capitoli dello stato di previsione del MEF – afferenti al Programma 4.11, Politica economica e finanziaria in ambito internazionale – con i relativi stanziamenti di competenza come da legge di bilancio 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 229) riportati nella Tabella sottostante:
Capitolo |
2013 |
2014 |
2015 |
1647-Esecuzione degli Accordi tra la UE e i Paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) |
457.000 |
503.000 |
470.000 |
1649 – Partecipazione italiana allo strumento finanziario internazionale per le vaccinazioni (IFFM) |
27.500 |
27.500 |
27.500 |
7175 – Partecipazione italiana al finanziamento di banche e fondi internazionali di sviluppo |
2.037.064 |
416.726 |
295.000 |
La crisi umanitaria, oltre che politico-istituzionale, che sta devastando il Mali, ha sollecitato il Parlamento della XVI legislatura fin da prima del colpo di stato del marzo 2012. Il diffondersi dell'integralismo islamico nell'area del Maghreb e del Sahel, testimoniato anche dalla tragica vicenda di In Amenas, preoccupa l'Occidente e pone con forza la questione della stabilità delle relazioni con i paesi della sponda sud del Mediterraneo e con quelli ad essi limitrofi.
Il 22 marzo 2012 un colpo di stato militare ha deposto il presidente maliano Amadou Toumani Touré. Il golpe, guidato da un ufficiale delle forze armate, Amadou Sanogo, aveva l’obiettivo di sostituire il governo di Touré ritenuto incapace di garantire la sicurezza nel paese a causa della rivolta dei Tuareg in corso dal mese di gennaio. Con l’esercito allo sbando, il golpe ha però sortito l’effetto opposto, quello cioè di aprire la strada alla conquista delle città del nord da parte dei Tuareg.
Il colonnello Amadou Sanogo,uomo nuovo sullo scenario politico maliano, è emerso all’indomani della ribellione del MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad) e della rotta dell’Esercito regolare. Sanogo è uno degli ufficiali addestrati negli Stati Uniti (dove si è recato a più riprese tra il 2004 ed il 2010) nell’ambito di accordi di cooperazione militare bilaterale. Dopo aver accusato il Presidente Touré di una gestione errata della crisi del Paese ed avergli imputato le cause del cattivo stato delle Forze Armate, Sanogo ha guidato il golpe militare che ha insediato il CNRDRS (Comitato nazionale per la ricostituzione della democrazia ed il ripristino dello Stato). Di fronte alla minaccia di intervento da parte della CEDEAO, il Colonnello ha dovuto cedere nuovamente i poteri alle istituzioni civili. Tuttavia, i militari restano i principali critici dell’attuale azione di governo e possono vantare un grande sostegno tra la popolazione civile; Sanogo, dunque, rimane uno dei personaggi più influenti del Paese.
A seguito della mediazione della CEDEAO (o ECOWAS, secondo l’acronimo inglese, l’organizzazione di cooperazione regionale della quale fanno parte 15 paesi dell’Africa occidentale, tra cui il Mali), Touré ha firmato le proprie dimissioni l’8 di aprile, per permettere la costituzione di un organismo di transizione incaricato di organizzare le elezioni, di porre fine alla ribellione nel nord del paese e di riconsegnare i golpisti ai propri compiti nell’esercito. Il potere è stato così restituito ad un’amministrazione civile con la designazione, il 12 aprile 2012, di un presidente ad interim, Dioncunda Traoré, ex presidente del parlamento e la formazione di un primo governo di unità nazionale, ad opera del primo ministro ad interim Chieck Modibo Diarra.
Il caos che ha fatto seguito al colpo di stato ha determinato l’espulsione delle forze militari maliane dalle tre aree settentrionali dell’Azawad, la regione - così denominata dai Tuareg - che comprende le città di Timbuctu, Gao e Kidal, lasciandola sotto il controllo delle milizie Tuareg e dei gruppi islamici loro alleati.
La situazione nel nord del paese, flagellato dai combattimenti tra i gruppi ribelli rivali e da quelli contro l’esercito governativo, è andata deteriorandosi nel corso dell’ultimo anno, sì da creare un’emergenza umanitaria che si estende al sud del Mali e ai paesi confinanti nei quali centinaia di migliaia di maliani del nord hanno trovato rifugio.
La ribellione nell’Azawad si è svolta di pari passo con la crisi istituzionale, e non indipendentemente da questa, con i conseguenti disordini a Bamako e nel resto del paese.
Il Presidente Traoré, ferito alla testa il 21 maggio 2012 nel suo ufficio da un gruppo di dimostranti - sostenitori dei militari golpisti - contrari alla sua permanenza in carica per guidare il paese alle elezioni, è stato costretto a fare ricorso a cure ospedaliere in Francia, dove è rimasto per due mesi. Al suo ritorno, in agosto, dopo i numerosi richiami della CEDEAO, Traoré e Diarra hanno annunciato la formazione di un secondo governo di unità nazionale, che includeva 31 ministri, 5 dei quali vicini ad Amadou Sanogo, colui che aveva guidato il golpe militare del marzo precedente.
All’inizio di settembre Traoré aveva chiesto ufficialmente l’intervento militare dei paesi della CEDEAO per liberare i territori occupati del nord. La risoluzione del 2085 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, del 20 dicembre 2012, ha poi autorizzato la CEDEAO a dispiegare le forze già offerte da questa Organizzazione nel quadro della African-Led International Support Mission (Afisma) che avrebbe dovuto dare inizio al suo mandato nel settembre 2013. Afisma sarà composta di 3.300 soldati, dei quali circa 900 nigeriani. Anche il Ciad, benché non faccia parte della CEDEAO, ha garantito l’invio di 2.000 uomini a supporto delle forze francesi.
L'11 dicembre 2012 il premier Diarra è stato arrestato e costretto alle dimissioni da Amadou Sanogo e dagli stessi ufficiali che avevano organizzato il colpo di stato militare del mese di marzo. Diarra è stato immediatamente sostituito da Django Cissoko, che ha annunciato la formazione del terzo governo di unità nazionale con l’obiettivo di riunificare il paese.
Non è un caso che la lotta per la liberazione dell’Azawad abbia ripreso forza (la rivolta iniziata a gennaio 2012 era la quarta dopo l’indipendenza del Mali dalla Francia) dopo la fine del conflitto libico, al quale molti Tuareg avevano preso parte al fianco delle truppe di Gheddafi. E’ noto che Gheddafi aveva dato il suo sostegno, sia ideologico che materiale, alla causa tuareg, nell’intento di ottenere un ruolo egemonico nelle regioni del Sahara e del Sahel. Si contavano già a migliaia, ad esempio, i Tuareg addestrati e arruolati nella Legione Islamica, un corpo mercenario creato da Gheddafi nel 1972 allo scopo di unificare alcuni paesi africani a partire dal Ciad. La caduta di Gheddafi ha dunque liberato “risorse” per la ripresa della lotta per la secessione dell’Azawad, favorita da un regime che non aveva saputo integrare i L'azione dei Tuareg nel Mali al suo interno e dall’abbandono di quella regione da parte delle istituzioni dello Stato.
Gli attori sulla scena della ribellione maliana sono però molto più numerosi, costituiti da gruppi islamici che, in un primo momento alleati con il gruppo Tuareg MNLA (Mouvement national de libération de l'Azawad), si collocano ora su posizioni di contrapposizione a causa della forte connotazione religiosa, radicale e integralista.
Tutti i ribelli dei gruppi islamici presenti in Mali riconducono la propria ideologia alla setta wahabita e salafita di ispirazione saudita, ponendosi in contrasto con l’islamismo maliano che si colloca invece all’interno della tradizione Sufi.
La risoluzione 2071 (2012) del 12 ottobre 2012 adottata all’unanimità dai 15 membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel chiedere a tutti i gruppi armati la cessazione delle violazioni dei diritti umani nel nord del Mali, dichiara ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, la disponibilità a rispondere alla richiesta delle autorità transitorie del Mali per una forza militare internazionale che assista le Forze Armate maliane nel recupero delle regioni occupate nel nord del paese (par. 6); assegna al segretario generale un termine di 45 giorni per consultarsi con l'Unione Africana, l'Ecowas e le autorita' del Mali e presentare una relazione dettagliata su come tale forza deve essere creata, finanziata, e dispiegata (par. 7); invita gli Stati membri, le organizzazioni regionali e internazionali, tra cui l'Unione africana e l'Unione europea, a porre in essere nel più breve tempo possibile attività volte al rafforzamento delle capacità delle Forze Armate e di sicurezza del Mali al fine di ristabilire l'autorità statuale su tutto il territorio nazionale, di mantenere l'integrità territoriale e l'unità del Mali e di ridurre la minaccia rappresentata da AQIM e gruppi affiliati.
Con la risoluzione 2085 (2012) adottata all’unanimità il 20 dicembre il Consiglio di sicurezza chiede al Segretario generale dell’ONU, ai sensi del capitolo VII della Carta, di definire, di concerto con le autorità nazionali, una "presenza multidisciplinare delle Nazioni Unite in Mali" finalizzata a fornire un supporto coordinato e coerente ai processi politici e di sicurezza in corso nel paese. Tale presenza è destinata ad avere la durata iniziale di un anno. Il Consiglio incarica la missione internazionale a guida africana di sostegno in Mali (African-led International Support Mission in Mali - AFISMA) di aiutare a rafforzare le forze di difesa e sicurezza maliane, in coordinamento con l'Unione europea e gli altri partner. Preso atto dell’approvazione, da parte della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (ECOWAS) e dell'Unione africana, di un piano strategico per affrontare la crisi in Mali, il Consiglio sottolinea la necessità di perfezionare ulteriormente la pianificazione prima dell'inizio di un'operazione militare offensiva. Il Consiglio chiede all'Unione africana, in stretta collaborazione con altri partner, prima dell’inizio delle operazioni offensive, di fornire aggiornamenti sui progressi compiuti nel processo politico, sullo stato della formazione sia della missione AFISMA sia delle forze di sicurezza del Mali, sul quadro di operatività della missione e su altri elementi di criticità.
Si rammenta, altresì, la risoluzione 2056(2012) adottata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza il 5 luglio 2012 che, tra il resto, condanna la presa del potere avvenuta con la forza in Mali nel mese di marzo, chiede l’immediata cessazione delle ostilità da parte dei gruppi ribelli nel nord e indica l’intenzione di prendere in considerazione il dispiegamento di una forza di stabilizzazione nel paese, come sollecitato dalla ECOWAS. La risoluzione condanna l’attacco al presidente ad interim Dioncounda Traoré (21 maggio).
I disordini in Mali sono sfociati il 7 gennaio 2013 nella pesante offensiva militare sferrata da ribelli islamisti e da diversi gruppi di Tuareg al fine di conquistare la capitale Bamako. Raccogliendo l’invito del presidente Diocounda Traoré, l’11 gennaio il Presidente francese François Hollande ha avviato un’operazione militare, di terra e di aria, a supporto delle forze governative del Mali. L’operazione, denominata Serval, condotta nel rispetto di due risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell' Onu (n. 2071 del 12 ottobre 2012 e n. 2085 del 20 dicembre 2012) ha permesso di riconquistare alcune città nel nord del paese e di giungere fino alle porte di Timbuctu. La città fu dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1988 in ragione della presenza di tre moschee e 16 mausolei di rilevante valore artistico storico e culturale. Durante l’occupazione di Timbuctu, i ribelli hanno inferto gravi danni al suo patrimonio, giungendo alla distruzione di alcuni antichi siti sacri della tradizione sufi.
L’ intervento della Francia impegna da 2.000 a 2.500 unità ed è stato appoggiato all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che, appositamente riunitosi il 14 gennaio, ha anche sollecitato un più rapido dispiegamento delle forze africane nel Mali.
All’intervento francese ha fatto seguito, il 16 gennaio, un attacco all’impianto di estrazione del gas della British Petroleum situato ad In Amenas, nel sud dell’Algeria nel quale sono rimasti uccisi 37 ostaggi, di otto differenti nazionalità. L’attacco, secondo un comunicato di AQIM “è una risposta alla crociata delle forze francesi in Mali”.
Il 17 gennaio, i Ministri degli esteri dell'UE hanno dato il via libera alla missione UE di addestramento dell'esercito maliano. La missione EUTM (European UnionTraining mission) porterà in Mali fino a 450 uomini, di cui 200 istruttori, per un costo complessivo di 12,3 milioni di euro per un mandato iniziale di 15 mesi. Il quartier generale sarà Bamako, ma l'addestramento avverrà nel Sud del Paese. Oltre ad addestrare i militari, EUTM fornirà consulenza alle operazioni di comando, logistiche e di protezione dei civili. La missione non sarà coinvolta nelle operazioni militari.
Il Consiglio dei ministri degli affari esteri ha discusso anche altre possibili azioni dell'UE a sostegno del Mali, quali l'assistenza finanziaria e logistica per il dispiegamento di AFISMA e altre forme di sostegno diretto al governo maliano per aiutarlo a far fronte alla situazione attuale. Per il sostegno alla missione AFISMA è previsto lo stanziamento di 50 milioni di euro.
L’attenzione del Parlamento italiano verso la crisi maliana si è concretizzata con una serie di sedute che ha avuto inizio con il rapimento della cooperante italiana Rossella Urru avvenuto il 22 ottobre 2011 in Algeria ad opera di militanti di un gruppo islamico attivo in Mali.
Il principale gruppo islamico presente nel nord del Mali è Ansar Dine (o Ançar Eddine, “Difensori della fede”) un gruppo salafita, guidato da un leader tuareg, Iyad Ag Ghali. Il gruppo non ha mire secessionistiche, né tantomeno può accettare la nascita di un nuovo stato laico, poiché il suo obiettivo dichiarato è quello di imporre la legge coranica in tutto il paese, dove prevale la religione musulmana.
Ai negoziati per la fusione di MNLA e Ansar Dine, falliti per una mancanza di vedute comuni sul carattere islamico del futuro stato già nella prima parte del 2012, hanno fatto seguito scontri e combattimenti che hanno portato alla conquista dell’intero Azawad da parte degli islamici e alla imposizione della shaaria.
Altrettanto deciso a diffondere la legge coranica il gruppo di AQIM (Al-Qaeda nel Maghreb Islamico), che ha stretti legami con Ansar Dine. A differenza di quest’ultimo, formato da elementi provenienti dal nord del Mali, affonda le sue radici nel conflitto algerino degli anni ’90 e raccoglie miliziani di varia provenienza: Marocco, Mauritania, Niger, Senegal, oltre che Mali, naturalmente.
Da una scissione di AQIM è nato, verso la metà del 2011, il Mujao (Movimento per l’unità e la jihad nell’Africa dell’Ovest) che si prefigge la diffusione della jihad anche oltre i confini del Sahel e del Maghreb. Si ritiene che il leader sia un tuareg mauritano, Hamada Ould Mohamed Kheirou. La prima grande operazione di Mujao è stata, nell’ottobre del 2011, il sequestro di tre cooperanti (due spagnoli e un’italiana), rilasciati dopo molti mesi a seguito del pagamento di un riscatto.
Ansar Dine, AQIM e Mujao operano in stretta collaborazione e hanno combattuto insieme la guerra contro l’MNLA prendendo il sopravvento nella regione dell’Azawad. Si sospetta anche una presenza in Mali di Boko Haram, il movimento islamista nigeriano, che avrebbe affidato ad AQIM l’addestramento di un certo numero di suoi membri.
Da una spaccatura di Ansar Dine, e per volontà di un suo ex membro delle alte gerarchie, Alghabass Ag Intalla, è nato poi nel gennaio 2013 il gruppo IMA (Movimento Islamico per l’Azawad). Il nuovo gruppo si distingue da quello da cui proviene per una maggiore propensione alla trattativa e al dialogo e per una dichiarata avversione al terrorismo.
Infine, sempre da elementi di AQMI è nato sul finire dello scorso anno il gruppo Signed-in-Blood Battalion, guidato dall’algerino Mokhtar Belmokhtar, con forti legami con Ansar Dine e Mujao.
I Tuareg sono costituiti da gruppi distinti (si calcola che i maliani siano tra i 300 e i 500 mila), talvolta separati da grosse rivalità, accomunati però dalla questione della rivendicazione dei propri territori. L’insurrezione del 2012 è culminata il 6 aprile nella dichiarazione di indipendenza, proclamata dal MNLA e respinta sia dalla comunità internazionale (Francia, Stati Uniti, Unione europea), sia dai paesi confinanti (Niger, Algeria, Mauritania, Burkina Faso), preoccupati per un possibile allargamento del fenomeno.
Il gruppo MNLA (Mouvement national de libération de l'Azawad), di orientamento laico e antifondamentalista, è nato nel 2011 dalla unione di gruppi ribelli già esistenti, con l’obiettivo di ottenere l’indipendenza della regione dell’Azawad. Nel movimento confluiscono le tribù degli Iforas, stanziati nella regione, e gli Idnan, guerrieri e nomadi. Il movimento sembra però avere un sostegno popolare più ampio perché non si rinchiude nell’etnia, ma si rivolge all’intera popolazione dell’Azawad, formata da gruppi songhai, peulhe di origine araba. Del gruppo MNLA fanno parte esperti militari che hanno combattuto al fianco di Gheddafi e che, dopo la sua caduta, sono rientrati nel Mali portando con sé equipaggiamenti militari e armi pesanti. Le due figure di spicco sono Bila Ag Acherif, segretario generale, e il colonnello Mohamed Ag Najim, capo dell’ala militare del movimento. Quest’ultimo, in particolare, è stato colonnello nell’Esercito libico fino al luglio 2011, quando ha lasciato Bani Walid assediata dalle forze del Consiglio nazionale di transizione libico per rientrare con le sue truppe nel Mali. E’ considerato la mente della ribellione tuareg e ne rappresenta l’anima più radicale.
La crisi nel Mali è stata portata all’attenzione del Parlamento con la vicenda della cooperante italiana Rossella Urru, rapita insieme a due colleghi spagnoli nel campo saharawi di Rabuni, nel sud-ovest dell'Algeria, il 22 ottobre 2011. Solo successivamente, tuttavia, è stato reso noto che i sequestratori erano militanti dell’allora neonato gruppo islamico Mujao. Il 9 novembre 2011, infatti, la Commissione esteri della Camera ha posto all’ordine del giorno l’interrogazione dell’on. Motta n. 5-05636, vertente su tale argomento, alla quale ha fornito risposta il sottosegretario agli esteri, Stefania Craxi. Ancora in assenza di sviluppi, il sottosegretario Craxi aveva in quell’occasione rassicurato circa la pronta attivazione del Ministero degli esteri nei confronti dei governi di Spagna e Algeria e verso tutte le ambasciate dell’area saheliana. L’on. Craxi aveva riferito anche che nei giorni precedenti, l’on. Boniver, Inviato Speciale del Ministero degli esteri per le crisi, le emergenze umanitarie e le situazioni di vulnerabilità, si era recata in missione proprio in Mali (e in Burkina Faso), dove aveva ricevuto il Primo Ministro, signora Cissè Mariani Kaidama Sidibè, ampie rassicurazioni circa la volontà di massima collaborazione con il governo italiano.
Nell’ambito dell’Indagine conoscitiva su diritti umani e democrazia svolta dal Comitato permanente sui diritti umani all’interno della Commissione esteri della Camera, il 24 luglio 2012 è stato sentito l’on. Demba Traoré, Segretario generale del Partito radicale nonviolento, transnazionale e transpartito. L’on. Traoré ha riferito sulla difficile situazione in Mali, reso fragile dal colpo di stato del marzo precedente, sul quadro composito dei gruppi ribelli che occupano la cui metà settentrionale del paese, e sugli ostaggi europei detenuti in varie aree del Sahara.
Un aggiornamento sullo sviluppo della situazione in Mali è stato fornito dai Ministri degli esteri e della difesa, Terzi e Di Paola, intervenuti presso le Commissioni Riunite Esteri e Difesa della Camera e del Senato il 16 gennaio 2013 per riferire sullo stato delle missioni in corso e degli interventi di cooperazione allo sviluppo a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione.
Da ultimo, il 22 gennaio 2013, le stesse commissioni riunite Esteri e Difesa della Camera e del Senato hanno dedicato un’apposita seduta ai recenti sviluppi della situazione in Mali, nella quale sono intervenuti nuovamente i due ministri competenti: il ministro degli affari esteri, Terzi, e il ministro della difesa, Di Paola. Il ministro Terzi ha inquadrato la crisi maliana in un contesto regionale caratterizzato da una forte presenza di gruppi terroristi e criminali, che dal Sahel minacciano di espandersi in tutto il Nord Africa, con il rischio di influenzare molto negativamente i processi di transizione dei paesi interessati delle cosiddette “primavere arabe”.
Il Decreto Legge 28 dicembre 2012, n. 227, Proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione, autorizza, all’art. 1, comma 17, a decorrere dal 1° gennaio 2013 e fino al 30 settembre 2013, la spesa di euro 1.900.524 per la partecipazione di personale militare alla missione dell'Unione europea denominata EUCAP Sahel Niger e alle iniziative dell'Unione europea per il Mali.
Il Ministro della difesa Giampaolo di Paola, nell’audizione del 22 gennaio 2013, ha affermato che l'Italia contribuirà alla missione europea con circa 15 unità estendibili fino a 24, come previsto dal D.L. n. 227 del 2012.
Il Parlamento ha seguito con grande attenzione gli sviluppi della grave crisi economico-finanziaria nella quale purtroppo ancora si dibatte anche il nostro Paese: in tale ottica sono stati considerati anche i diversi aspetti della sempre crescente globalizzazione economica e mediatica, che rendono indispensabile perseguire livelli di 'governance' via via più raffinati, per il mantenimento della pace mondiale e per dare uno sbocco alle necessità di crescita che impetuosamente provengono da gran parte del Pianeta.
Per quanto riguarda l’attività legislativa, va ricordato come i diversi livelli di governo della globalizzazione siano stati oggetto di numerosi interventi parlamentari a carattere normativo.
Per quanto concerne le prime fasi della crisi finanziaria internazionale, con l’art. 12 del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 si sono dettate norme per il contrasto ai paradisi fiscali, considerati tra l’altro possibili rifugi della speculazione finanziaria. Con l’art. 25, comma 1 del medesimo decreto-legge si è provveduto invece a stanziare 284 milioni di euro per urgente necessità di corrispondere la quota italiana delle risorse della XV ricostituzione delle risorse dell’IDA (International Development Association), appartenente al gruppo della Banca Mondiale, del quale è in pratica lo sportello concessionale.
La legge 13 ottobre 2009, n. 144 ha disposto in ordine alla partecipazione italiana alle modifiche allo statuto del Fondo monetario internazionale adottate con le risoluzioni del Consiglio dei Governatori n. 63 - 2 del 28 aprile e n. 63 - 3 del 5 maggio 2008, nonche' all’aumento della quota di partecipazione dell'Italia al FMI.
I problemi innescati nell’area dell’euro in particolare dalla crisi greca trovavano una risposta in Italia con il decreto-legge 10 maggio 2010, n. 67, emanato con riferimento al programma triennale di sostegno finanziario mediante prestiti bilaterali alla Grecia, definito ai sensi della dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell'Unione europea facenti parte dell'area euro assunta a Bruxelles il 25 marzo 2010 e delle conseguenti decisioni dell'Eurogruppo adottate l'11 aprile e il 2 maggio 2010.
La legge di stabilità 2011 (legge 13 dicembre 2010, n. 220), all’art. 1, comma 40 prevede il rifinanziamento per il 2011 del Fondo per le esigenze indifferibili ed urgenti, nell’ambito del quale (elenco 1 allegato) rientrano anche i contributi a banche e fondi internazionali di sviluppo.
I commi da 13 a 16 dell'articolo 2 del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 recano disposizioni dirette ad autorizzare la Banca d'Italia a concedere prestiti al Fondo monetario internazionale (FMI) in relazione ad operazioni dirette a fronteggiare la crisi finanziaria internazionale, nonché per la concessione di prestiti a favore dei Paesi più poveri. Su tali prestiti viene accordata la garanzia dello Stato per il rimborso dei capitali e degli interessi, nonché per la copertura degli eventuali rischi di cambio. D’altra parte il comma 17 dell’art. 2 del medesimo decreto-legge consente di provvedere mediante anticipazioni di tesoreria agli eventuali pagamenti che si rendessero necessari al fine di fronteggiare l'operatività della garanzia prevista dall'articolo 17, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, ossia la garanzia offerta dallo Stato sulle passività emesse per il finanziamento di prestiti agli Stati dell’area euro dalla società appositamente costituita assieme agli altri Stati dell'area, la European Financial Stability Facility (EFSF). Il comma 17-bis, infine, proroga quanto previsto dall'articolo 3 della legge 18 maggio 1998, n. 160, al fine di consentire l'estensione della partecipazione italiana al capitale della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), e precisamente nella misura di 76.695 azioni di capitale a chiamata, pari al controvalore in euro di 766.950.000. L'estensione consegue agli impegni internazionali assunti in diverse occasioni per far fronte alla crisi finanziaria globale, con particolare riferimento ai Vertici G20 di Londra e Pittsburgh (2009), e di Toronto (2010), nonché alla risoluzione del Consiglio dei governatori della BERS del 14 maggio 2010. La norma precisa che, riguardando l'estensione della partecipazione azioni di capitale a chiamata, non è previsto alcun esborso immediato a carico della finanza pubblica.
Il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, all’art. 21, comma 6 ha previsto, al fine di adempiere agli impegni dello Stato italiano derivanti dalla partecipazione a banche e fondi internazionali, la spesa di 200 milioni di euro per l'anno 2011.
Le legge 31 ottobre 2011, n. 190 ha autorizzato alla ratifica di ulteriori modifiche allo statuto del Fondo monetario internazionale e del quattordicesimo aumento generale delle quote derivanti dalla risoluzione del Consiglio dei Governatori del Fondo n. 66-2 del 15 dicembre 2010.
Con l’art. 7, commi 2 e 3 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 sono state dettate norme per il rifinanziamento della partecipazione italiana – in funzione anche di stabilizzazione del sistema finanziario internazionale – a banche e fondi di sviluppo; inoltre (art. 7, comma 1) il Presidente della Repubblica è stato autorizzato ad accettare gli emendamenti all'Accordo istitutivo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), adottati dal Consiglio dei Governatori della Banca medesima con le risoluzioni n. 137 e n. 138 del 30 settembre 2011.
Si ricorda anche l’art. 25 del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, dedicato alla proroga della partecipazione italiana, tramite un accordo di prestito bilaterale al Fondo Monetario Internazionale, per finanziarne ulteriori programmi volti a contrastare la crisi finanziaria in atto.
L’intervento s’inserisce nel quadro della strategia complessiva volta a rafforzare il governo economico dell’Unione europea, dando attuazione agli impegni assunti in occasione del Vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’area euro del 9 dicembre 2011 e della riunione dei Ministri delle finanze dell’Unione europea del 19 dicembre. In particolare, l’accordo politico raggiunto in sede europea si sostanzia nella concessione da parte dei paesi dell’area euro di risorse addizionali al FMI per un ammontare di 150 miliardi di euro nella forma di prestiti bilaterali. In questo contesto, il contributo italiano è pari al 15,66 per cento del totale europeo e ammonta a 23,48 miliardi di euro.
La legge 6 luglio 2012, n. 117 ha disposto la partecipazione italiana al sesto aumento di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d’Europa.
La partecipazione all'aumento di capitale viene attuata:
a) mediante sottoscrizione, senza obbligo di versamento immediato, di nuovi titoli di partecipazione dell'ammontare di euro 325.114.000;
b) con l'attribuzione supplementare di titoli di partecipazione dell'ammontare di euro 40.964.000, pari alla quota italiana di riserve da incorporare nel capitale.
Per quanto ancora concerne la governance finanziaria, rispettivamente, dell’area euro e dell’Unione europea nel suo insieme, vanno senn’altro ricordate nell’ordine la legge 23 luglio 2012, n. 116 – per la ratifica del Trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità – e la legge 23 luglio 2012, n. 114, per la ratifica del cosiddetto “Fiscal Compact”.
I commi da 3 a 6 dell'articolo 24 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 autorizzano la partecipazione italiana all’aumento di capitale della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS/IBRD), che appartiene al gruppo della Banca Mondiale.
Più in dettaglio, il comma 3 autorizza la partecipazione italiana all’aumento generale e all’aumento selettivo di capitale della BIRS, mentre i commi 4 e 5 autorizzano la sottoscrizione, rispettivamente, dell’aumento generale di capitale e dell’aumento selettivo di capitale. La sottoscrizione dell’aumento generale di capitale autorizzata è pari a 13.362 azioni per complessivi 1.611.924.870 dollari statunitensi, di cui 96.715.492,2 da versare. La sottoscrizione dell’aumento selettivo di capitale autorizzata è pari a 5.215 azioni per complessivi 629.111.525 dollari statunitensi, di cui 37.746.691,5 da versare.
La legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228) ha previsto, all’art. 1 commi 170 e 171, il rifinanziamento di Fondi multilaterali di sviluppo. In particolare, la norma specifica che beneficiano del rifinanziamento anzitutto i seguenti destinatari:
a) International Development Association (IDA) – Banca mondiale per euro 1.084.314.640, relativi alla quattordicesima (IDA XIV), quindicesima (IDA XV) e sedicesima (IDA XVI) ricostituzione del Fondo;
b) Fondo globale per l'ambiente (GEF) per euro 155.990.000, relativi alla quarta (GEF IV) e quinta (GEF V) ricostituzione del Fondo;
c) Fondo africano di sviluppo (AfDF) per euro 319.794.689, relativi alla undicesima (AfDF XI) e dodicesima (AfDF XII) ricostituzione del Fondo;
d) Fondo asiatico di sviluppo (ADF) per euro 127.571.798, relativi alla nona (ADF X) e alla decima (ADF XI) ricostituzione del Fondo;
e) Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD) per euro 58.000.000, relativi alla nona ricostituzione del Fondo (IFAD IX);
f) Fondo speciale per lo sviluppo della Banca per lo sviluppo dei Caraibi per complessivi euro 4.753.000, relativi alla settima ricostituzione del Fondo.
In questo ambito si ricorda anzitutto l’indagine conoscitiva sui problemi e le prospettive del commercio internazionale verso la riforma dell'Organizzazione Mondiale del Commercio. L'indagine ha preso le mosse dai risultati della Conferenza parlamentare sull'OMC, svoltasi l'11 e 12 settembre 2008 a Ginevra per iniziativa congiunta del Parlamento Europeo e dell'Unione Interparlamentare. La Conferenza parlamentare sull'OMC si era conclusa con l'approvazione di un documento favorevole al rafforzamento della dimensione parlamentare in seno all'OMC, nonché al potenziamento dell'azione di indirizzo e controllo dei Parlamenti nazionali verso i rispettivi Governi nel campo delle politiche commerciali. Deliberata dalla Commissione Affari esteri della Camera dei deputati il 30 settembre 2008, l’indagine è iniziata il 26 novembre con l'audizione del Direttore generale per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale del Ministero degli affari esteri, Ministro Giandomenico Magliano, per proseguire il 9 dicembre con l'audizione del presidente dell'Istituto nazionale per il Commercio Estero (ICE), Amb. Umberto Vattani. Nel 2009 la Commissione ha poi ascoltato l'Ambasciatore Giovanni Caracciolo di Vietri, Rappresentante permanente d'Italia presso le Organizzazioni internazionali a Ginevra (seduta del 21 gennaio) e il sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico, Adolfo Urso (19 febbraio). Nel 2010, dopo due deliberazioni di proroga del termine (sedute del 3 febbraio e dell'8 aprile), il 7 luglio si è svolta l'audizione del Vice Direttore Generale per il Commercio della Commissione europea, Péter Balás. Nella seduta del 27 ottobre la Commissione Affari esteri ha iniziato l'esame del documento conclusivo dell'indagine conoscitiva, terminandolo il 22 dicembre 2010. L'indagine conoscitiva ha inteso esplorare le questioni della definizione una nuovagovernance su varie filiere, tra loro interrelate, nel campo economico; della ricerca di meccanismi aggiornati di vigilanza sui mercati finanziari per garantirne la stabilità ed una efficienza duratura; della tutela della proprietà intellettuale e della lotta alla contraffazione; dell'esigenza di conseguire nuove regole commerciali nei vari settori primario, secondario e terziario, a beneficio dei Paesi avanzati, dei Paesi emergenti e dei Paesi che sono ancora oggi fuori dai circuiti economici internazionali. A consuntivo della disamina in oggetto il documento conclusivo pone l'accento sulle principali questioni aperte legate alla liberalizzazione degli scambi commerciali, quali le ragioni del fallimento della tornata negoziale del cosiddetto Doha Round, inaugurata nel 2001 nella capitale del Qatar; i nuovi profili che l'approccio bilaterale e quello multilaterale al commercio mondiale assumono nel corso della recessione economica globale; le ipotesi di riforma dell'OMC a partire dall'attuale struttura dell'Organizzazione Mondiale del Commercio; la posizione e le prospettive dell'Unione europea quale attore del commercio mondiale in un'epoca di profondi cambiamenti nella distribuzione della produzione e della ricchezza a livello globale.
In relazione alle tematiche dell’OMC si segnalano le comunicazioni del Presidente della Commissione Esteri (18 dicembre 2008) sulla missione svolta in settembre a Ginevra in occasione della Conferenza parlamentare sull’OMC. Non meno rilevante è stata il 22 aprile 2009 l’audizione dell’allora Commissario europeo per il commercio Catherine Ashton sui recenti sviluppi della politica commerciale della UE, svolta innanzi alle Commissioni congiunte Esteri e Politiche dell’Unione europea dei due rami del Parlamento.
Successivamente all’indagine conoscitiva sull’OMC, il 12 novembre 2008 la Commissione Esteri della Camera deliberava di condurre un’indagine conoscitiva sulla Presidenza italiana del G8 e le prospettive della governance mondiale: l’indagine conoscitiva veniva poi condotta congiuntamente all’omologa Commissione del Senato, con l’audizione dei Ministri degli Esteri Frattini e dell’Economia e finanze Tremonti, del diplomatico italiano (Ambasciatore Giampiero Massolo) incaricato delle attività collaterali e preparatorie della Presidenza italiana del G8 nel 2009 – che culminerà con il Vertice de L’Aquila dei Capi di Stato e di Governo -, e infine dei rappresentanti di alcuni enti di ricerca nel settore internazionalistico. Contemporaneamente, l’Assemblea della Camera – sedute del 24 e 27 novembre 2008 – discuteva e votava mozioni sul contributo della Presidenza italiana alla definizione dell’agenda del G8 dell’anno successivo. Nell’approssimarsi del Vertice G8 due problematiche occupavano in modo particolare l’Assemblea della Camera, che discuteva e approvava mozioni, rispettivamente su iniziative per il disarmo e la non proliferazione nucleare (15 e 23 giugno 2009) e per i diritti delle donne (23 giugno e 1° luglio 2009). Dopo lo svolgimento del Vertice l’Assemblea di Palazzo Madama discuteva e approvava alcune mozioni sul G8 (sedute pomeridiane del 21 e 28 luglio 2009).
Di grande rilevanza per la governance mondiale è stato anche il tema della sicurezza alimentare globale, approfondito nel corso dell’indagine conoscitiva condotta da luglio a novembre 2008 dalle Commissioni congiunte Esteri e Agricoltura dei due rami del Parlamento. Sempre in relazione al medesimo tema si ricorda che l’Assemblea del Senato, nella seduta antimeridiana del 22 giugno 2011, ha discusso e approvato mozioni su una strategia mondiale per il settore alimentare.
I due rami del Parlamento si dimostravano consapevoli della grave crisi economico-finanziaria in atto già nell’ottobre del 2008, quando il Governo svolgeva due informative parallele alla Camera e al Senato sugli sviluppi della crisi finanziaria.
Le iniziative per fronteggiare la crisi economica e finanziaria sono tornate già alla fine del 2008 al centro dell’attività parlamentare: si segnalano al proposito le due sedute dell’Assemblea di Montecitorio del 5 dicembre 2008 e del 28 gennaio 2009, nelle quali si sono discusse e votate mozioni sull’argomento. Le Medesime questioni erano oggetto della seduta del 24 febbraio 2009, quando l’Assemblea del Senato discuteva e approvava alcune mozioni sulla crisi dei mercati finanziari.
Si ricorda altresì che il tema della tassazione delle transazioni finanziarie internazionali è emerso nella seduta del 16 giugno 2010 della Commissione Esteri della Camera, con la discussione di tre risoluzioni presentate dagli Onn.li Zacchera, Barbi ed Evangelisti, conclusa con l’approvazione di tre risoluzioni conclusive (8-00075, 8-00076 e 8-00077). Lo stesso argomento è stato oggetto della discussione e votazione di mozioni alla Camera, nella seduta del 7 febbraio 2012.
La Commissione Esteri della Camera discute inoltre con regolarità annuale le relazioni al Parlamento del Ministro dell’economia e delle finanze sull’attività di banche e fondi di sviluppo internazionali e sulla partecipazione italiana alle ridorse di tali organismi. In rapporto a questo argomento si ricorda la risoluzione 7-00607 dell’On. Tempestini, incentrata appunto sulla partecipazione italiana a banche e fondi multilaterali di sviluppo: nella seduta del 29 giugno 2011 la Commissione Esteri ha discusso la risoluzione, approvando poi la risoluzione conclusiva 8-00129.
Istituito nel 1945 a seguito degli accordi raggiunti nella Conferenza di Bretton Woods del 1944, alla quale presero parte le potenze alleate nella Seconda Guerra mondiale, il Fondo monetario internazionale (FMI) nasceva per scongiurare il ripetersi di gravi crisi economiche, come la Grande depressione degli anni Trenta.
L’architettura istituzionale dell’ordine economico concepito a Bretton Woods si fondava su: il FMI, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (conosciuta come Banca mondiale) ed un’Organizzazione internazionale per gli scambi commerciali. Quest’ultima fu realizzata solo nel 1995, con l’istituzione della World Trade Organisation - WTO).
L’obiettivo statutario del FMI è la promozione della stabilizzazione delle relazioni monetarie e finanziarie internazionali. L’esigenza della cooperazione in tale settore deriva dalla constatazione che le economie sono interdipendenti e che la stabilità monetaria e finanziaria ha ripercussioni positive sulla crescita economica mondiale.
Il FMI ha inizialmente operato in un sistema di tassi di cambio fissi ma aggiustabili, imperniato sulla convertibilità del dollaro in oro, concedendo assistenza finanziaria a carattere temporaneo agli Stati membri per compensare gli squilibri delle bilance dei pagamenti. In realtà, in un primo momento, il ricorso alle risorse del Fondo fu limitato.
Negli anni Settanta, con l’abbandono del sistema dei cambi fissi, il FMI ha esteso la propria azione agli squilibri macroeconomici, mentre ha gradualmente assunto maggiore importanza la funzione di sorveglianza sulle politiche economiche dei Paesi membri. Nel frattempo, l’attività del FMI si è indirizzata in maniera crescente verso i Paesi in via di sviluppo (PVS) ed il credito a medio termine.
Con l’esplosione della crisi debitoria nei primi anni Ottanta, il FMI diventa di fatto il gestore delle crisi finanziarie a livello globale. Le crisi finanziarie degli anni Novanta (Messico, 1994-95; Asia orientale, 1997; Russia, 1998; Brasile, 1998-99; Argentina, 2001) e la transizione dei Paesi dell’Europa orientale verso l’economia di mercato hanno costituito una fase di difficile gestione del sistema finanziario internazionale e le raccomandazioni del FMI improntate su manovre fiscali restrittive e sulla prevalenza delle considerazioni di natura macro-economica sono spesso incorse in critiche.
In anni recenti, il FMI ha dato maggiore enfasi al rafforzamento del quadro istituzionale dell’economia di mercato, specie in tema di vigilanza bancaria, al potenziamento degli standard nel settore sociale e finanziario, all’ordinata successione temporale nel processo di liberalizzazione economica e finanziaria, alla trasparenza dell’azione delle autorità monetarie e fiscali.
Il FMI, che ha sede a Washington, è un’organizzazione a carattere universale composta da 184 Stati membri. Il Consiglio dei Governatori (Board of Governors) è il principale organo decisionale. E’ composto da un Governatore per ognuno dei 184 Paesi membri (per l’Italia il Ministro dell’economia e delle finanze, che ha per supplente il Governatore della Banca d’Italia) e si riunisce una volta l’anno, in occasione degli “Annual Meetings”, l’ultimo dei quali – il ventiquattresimo – si è svolto a Washington dal 23 al 25 settembre 2011. A tale organo competono, in via esclusiva, le decisioni in tema di aumento delle quote e di ammissione di nuovi membri.
Il Comitato monetario e finanziario internazionale (International Monetary and Finance Committee – IMFC; ex Comitato interinale) è organo consultivo cui partecipano i Governatori dei 24 Paesi maggiori contribuenti e definisce gli indirizzi strategici del FMI.
Il Consiglio esecutivo (Executive Board) esercita l’amministrazione dell’ente ed è composto da 24 Direttori Esecutivi. I Paesi con un maggior numero di quote del FMI hanno de iure un Direttore Esecutivo (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Stati Uniti). Gli altri Paesi sono raggruppati in constituencies che eleggono un proprio delegato. La Cina (la cui quota è stata incrementata, assieme a quella di Corea, Messico e Turchia, nel corso degli Annual Meetings del settembre 2006) ed Arabia Saudita costituiscono una costituency a sé ed hanno quindi, di fatto, un proprio rappresentate in Consiglio.
L’Italia, al pari altri paesi, è rappresentata stabilmente da un proprio Direttore esecutivo (attualmente il dott. Arrigo Sadun, già direttore generale del Dipartimento del Tesoro), a capo costituency formata oltre che dal nostro Paese da Albania, Grecia, Malta, Portogallo, Repubblica di San Marino e Timor-leste.
Il Consiglio esecutivo funziona in “sessione continua”, gestisce l’amministrazione corrente e decide sull’erogazione dei fondi. E’ coadiuvato dallo staff professionale del FMI, è controllato dall’IMFC ed è presieduto dal Direttore generale del FMI (Managing Director), carica attualmente ricoperta dall’ex ministro francese dell’economia, Christine Lagarde.
Il Direttore generale rappresenta l’istituzione, è eletto per un mandato di 5 anni (rinnovabile) e per prassi è un europeo (mentre il Presidente della Banca mondiale è statunitense). Nel 2001, è stato istituito l’Ufficio di Valutazione Indipendente (Independent Evaluation Office) quale struttura permanente all’interno del FMI ma indipendente dal management e dallo staff, con funzioni di vigilanza e controllo.
Benché siano previste diverse maggioranze a seconda delle tematiche trattate, nel Consiglio Esecutivo non si ricorre quasi mai al voto ma si decide per consenso. I diritti di voto in seno al Consiglio sono proporzionali al numero delle quote sottoscritte da ciascun paese, che sono a loro volta calcolate sulla base di particolari indici paese determinati in ragione di alcuni fattori economici, fra cui PIL, transazioni di conto corrente e riserve ufficiali.
Le quote di partecipazione al FMI (soggette a revisione ogni cinque anni) sono espresse in diritti speciali di prelievo (Special Drawing Rights, SDR), ovvero nell’unità di conto del FMI. La circostanza che le risorse principali del FMI consistano nelle quote partecipative dei Paesi membri, differenzia il sistema di finanziamento del FMI da quello della Banca Mondiale che, pur disponendo anch’essa di un capitale sociale, si rifornisce principalmente attraverso l’emissione di obbligazioni sui mercati internazionali.
La funzione di sorveglianza è la principale funzione del FMI e si svolge sia a livello bilaterale che multilaterale. La sorveglianza bilaterale si riferisce alla valutazione della situazione economica di ogni singolo Paese membro e si sostanzia nell’obbligo di garantire la convertibilità delle proprie partite correnti (ad eccezione dei Paesi che si avvalgono di un regime transitorio) e l’adeguatezza delle politiche economiche in relazione alla situazione della propria bilancia dei pagamenti e del cambio.
La sorveglianza multilaterale si attua attraverso l’elaborazione di analisi su aspetti specifici dell’economia mondiale, che vengono pubblicate nel World Economic Outlook (rapporto semestrale sui possibili scenari di breve-medio termine dell’economia mondiale) e nel Global Financial Stability Report (rapporto semestrale fornisce valutazioni dei mercati finanziari internazionali, con una particolare attenzione alla situazione dei mercati emergenti).
La funzione finanziaria mira ad attenuare gli squilibri nelle posizioni esterne dei Paesi membri. I prestiti del FMI non sono intesi a soddisfare pienamente i fabbisogni finanziari dei Paesi membri ma a catalizzare altre fonti di finanziamento pubbliche e private. L’erogazione di un prestito è subordinata agli “arrangements” approvati dal Consiglio esecutivo, che contengono un programma economico formulato dal paese destinatario, con la consulenza del FMI.
L’impegno, esplicitato in una “lettera di intenti”, eventualmente corredata da un “Memorandum di politiche economiche e finanziarie”, è parte integrante del prestito.
La condizionalità dei programmi di prestito del FMI si motiva con la volontà che il Paese rimedi in maniera duratura ai problemi strutturali che sottostanno allo squilibrio. I contenuti della condizionalità si concretizzano in obiettivi ben precisi (performance criteria) ed il loro raggiungimento è agevolato dal fatto che i prestiti del Fondo non sono erogati in una soluzione unica, ma in tranches di norma trimestrali.
Il 28 giugno il Consiglio esecutivo del FMI ha scelto Christine Lagarde quale nuovo direttore generale dell’organizzazione finanziaria internazionale, colmando la vacanza creatasi a seguito alle dimissioni del suo connazionale Dominique Strauss-Kahn. Christine Lagarde è ora chiamata a gestire anche la crisi finanziaria dei paesi dell’Eurozona a cominciare dal caso italiano.
In questo contesto si situano le notizie circa lo svolgimento delle ispezioni del FMI concordate nel summit G20 del 3-4 novembre a Cannes: secondo notizie di stampa una delegazione del FMI avrebbe incontrato, ai primi di dicembre, le autorità politico-economiche italiane per ricevere aggiornamenti sui recenti sviluppi di bilancio e discutere le modalità di future missioni. La missione, guidata dal vicedirettore del Dipartimento per l'Europa Aasim Husain e dal consigliere Antonio Spilambergo, avrebbe svolto anche un monitoraggio dell'azione di risanamento dei conti pubblici italiani.
Il 27 novembre scorso il quotidiano torinese La Stampa ha altresì diffuso la notizia di un programma di aiuti finanziari, fino a 600 miliardi di euro, che il FMI potrebbe destinare all’Italia: l’entità della cifra del cd. “programma Italia” sarebbe tale tuttavia da rendere difficile un intervento del FMI basato soltanto sulle risorse attualmente disponibili.
In ordine al tema dell’internazionalizzazione delle imprese l’attività parlamentare svolta dall’inizio della legislatura ha riguardato essenzialmente la legge 99/2009 (A.C. 1441-ter), nella quale all'articolo 12 sono contenute due deleghe legislative.
La prima delega prefigurava un generale riassetto della normativa in materia di internazionalizzazione delle imprese, secondo principi e criteri direttivi che non prevedono modifiche di carattere sostanziale della normativa vigente e che sembrano piuttosto orientati a consentire la predisposizione di un codice in materia di internazionalizzazione.
La seconda delega era volta alla ridefinizione, al riordino e alla razionalizzazione degli enti operanti nel settore dell’internazionalizzazione delle imprese nonché degli strumenti di incentivazione per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese gestiti dai medesimi enti.
Il Governo non ha esercitato le deleghe previste entro il termine di 18 mesi dall'entrata in vigore del provvedimento.
L'art. 14 della legge 99/2009 istituisce un Fondo rotativo destinato a favorire la fase di avvio di progetti di internazionalizzazione delle imprese, la cui gestione viene assegnata alla SIMEST Spa. Si ricorda che tale società, controllata dal Governo, è stata istituita con il compito di promuovere il processo di internazionalizzazione delle imprese italiane e di assistere gli imprenditori nelle loro attività all’estero.
Al Fondo saranno assegnate le disponibilità finanziarie derivanti da utili spettanti al Ministero dello sviluppo economico quale socio della SIMEST e già destinati, ai sensi del decreto legislativo 143/1998, allo sviluppo delle esportazioni.
Gli interventi del Fondo sono destinati ad investimenti di carattere transitorio, e non di controllo, nel capitale di rischio di società costituite appositamente da singole piccole e medie imprese, o da loro raggruppamenti, per la realizzazione di progetti di internazionalizzazione.
in attuazione del presente articolo è stato emanato il D.M. 4 marzo 2011, n. 102 "Regolamento recante le condizioni e le modalità operative del Fondo start-up, in attuazione dell'articolo 14 della legge 23 luglio 2009, n. 99".
L’articolo 14 del D.L. 98/2011 ha soppresso l’ICE. L’articolo 22 del D.L. 201/2011 ha quindi istituito un nuovo organismo denominato ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, e sottoposto ai poteri d’indirizzo e vigilanza del Ministero dello Sviluppo economico, che li esercita, per le materie di rispettiva competenza, d’intesa con il Ministero degli Affari esteri, sentito il Ministero dell’Economia e delle finanze.
Sono attribuiti all’Agenzia i seguenti compiti:
Essa opera in stretto raccordo con le regioni, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le organizzazioni imprenditoriali e gli altri soggetti pubblici e privati interessati.
L’Agenzia mantiene in Italia solo gli uffici di Roma e Milano, ed opera all’estero nell’ambito delle Rappresentanze diplomatiche e consolari, con modalità stabilite mediante apposita convenzione stipulata tra l’Agenzia, il Ministero degli Affari esteri ed il Ministero dello Sviluppo economico. Il personale dell’Agenzia all’estero può essere accreditato, previo nulla osta del Ministero degli Affari esteri, in conformità alla normativa internazionale.
Infine l'articolo 41 del decreto legge 83/2012 ha introdotto disposizioni per razionalizzare l'organizzazione dell'ICE, al fine di rilanciare gli interventi a favore dello sviluppo economico e della internazionalizzazione delle imprese.
L’art. 52 della legge 99/2009 aveva previsto l’adozione, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, di decreti legislativi destinati ad incidere sull’organizzazione dell’attività svolta dalla SACE Spa a favore dell’internazionalizzazione dell’economia italiana. Si ricorda che la SACE ha la funzione di assumere in assicurazione e in riassicurazione la garanzia sui rischi (di carattere politico, catastrofico, economico, commerciale e dei cambi) ai quali sono esposti gli operatori nazionali nella loro attività con l'estero. I decreti, allo scopo di ottimizzare l’efficienza della società e la sua competitività rispetto ad altri organismi operanti sui mercati internazionali con le stesse finalità, avrebbero dovuto disporre la separazione dell’attività che la SACE svolge a condizioni di mercato da quella che beneficia della garanzia dello Stato avendo come oggetto rischi non di mercato e quindi consentire l’esercizio delle due attività di cui sopra da parte di organismi diversi. A tale delega legislativa non è stata data attuazione dal Governo.
L’art. 8 del decreto-legge 78/2009 demanda a decreti del Ministro dell'economia la definizione, a condizioni di mercato, di un nuovo sistema integrato di finanziamento e assicurazione – denominato "export banca" - volto a promuovere l’internazionalizzazione delle imprese attraverso l’attivazione delle risorse finanziarie gestite dalla Cassa depositi e prestiti Spa. Il modello organizzativo proposto prevede in particolare che le operazioni per l'internazionalizzazione delle imprese assistite da garanzia o assicurazione della SACE Spa potranno essere finanziate dalla Cassa depositi e prestiti con l'utilizzo dei fondi provenienti dalla raccolta postale, ovvero dall’emissione di titoli, dall’assunzione di finanziamenti e da altre operazioni finanziarie.
La disposizione attribuisce ai medesimi decreti con cui il Ministro dell’economia autorizza e disciplina le attività della Cassa depositi e prestiti finalizzate alla costituzione del sistema di "export-banca", il compito di stabilire altresì le modalità ed i criteri per consentire le operazioni di assicurazione del credito per le esportazioni da parte della SACE anche in favore delle piccole e medie imprese nazionali.
In attuazione della norma in esame è stato adottato il D.M. 22 gennaio 2010 .
L’articolo 6 del decreto-legge 112/2008 (A.C. 1386), e successivamente modificato dall’articolo 42 del decreto legge 83/2012, prevede che le iniziative delle imprese italiane dirette alla loro promozione, sviluppo e consolidamento sui mercati diversi da quelli dell'Unione Europea possono fruire di agevolazioni finanziarie esclusivamente nei limiti ed alle condizioni previsti dal Regolamento (CE) n. 1998/2006 della Commissione Europea del 15 dicembre 2006, relativo agli aiuti di importanza minore (de minimis).
Le iniziative ammesse ai benefici sono:
Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dello sviluppo economico sono determinati:
Sino alla emanazione del decreto restano in vigore i criteri e le procedure attualmente vigenti. Si rinvia, al riguardo, alle delibere CIPE n. 113/2009 (G.U. 9 marzo 2010) e n. 112/2009 (G.U. 22 marzo 2010).
Il finanziamento delle agevolazioni è a valere sulle disponibilità del Fondo rotativo di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 28 maggio 1981, n. 251 con le stesse modalità di utilizzo delle risorse del Fondo rotativo, con riserva di destinazione alle piccole e medie imprese pari al 70% annuo.
Nell’Allegato 1, del decreto-legge 83/2012 sono contenute le disposizioni riguardanti l’attività dei consorzi per l’internazionalizzazione che sono state abrogate dal provvedimento in esame. Il riferimento è in particolare a:
la legge 83/1989, recante interventi di sostegno per i consorzi tra piccole e medie imprese industriali, commerciali ed artigiane;
l'art. 10 del D.L. 251/1981, recante misure a sostegno delle esportazioni italiane, che estende ai consorzi aventi come scopo esclusivo la esportazione di prodotti agro-alimentari, la concessione dei contributi previsti in generale a favore dei consorzi per l’export.
L’articolo 42 del decreto-legge 83/2012 rivede, quindi, l’ordinamento e l’attività dei. consorzi per l’internazionalizzazione. Essi hanno per scopo:
Inoltre costituiscono attività dei consorzi:
I consorzi per l'internazionalizzazione sono costituiti o in forma di società consortile o cooperativa da piccole e medie imprese industriali, artigiane, turistiche, di servizi e agroalimentari aventi sede in Italia.
Le risorse per il contributo in favore di istituti, enti, associazioni, consorzi per l'internazionalizzazione e di Camere di commercio italiane all'estero, risultano iscritte nel capitolo 2501 del Ministero dello Sviluppo economico. A causa della progressiva riduzione dei fondi stanziati per questi strumenti, nel corso degli ultimi esercizi, le risorse assegnate al capitolo 2501 sono state ridotte per effetto di manovre di bilancio pubblico: da uno stanziamento di circa 34 €/MLN del 2008, si è passati alla dotazione di circa 10,5 €/MLN fino alla dotazione del 2012 di poco più di 14 €/MLN.
Inoltre i contributi concessi non possono superare il 50 per cento delle spese da essi sostenute per l'esecuzione di progetti per l'internazionalizzazione Ai contributi si applica, il regolamento (CE) n. 1998/2006 della Commissione, del 15 dicembre 2006, in materia di aiuti de minimis, fatta salva l'applicazione di regimi più favorevoli.
L’articolo 35 del decreto-legge 179/2012 istituisce il Desk Italia - Sportello attrazione investimenti esteri come punto di riferimento per l'investitore estero in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il relativo progetto di investimento, con lo scopo di fungere da raccordo fra le attività svolte dall'ICE - Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane e quelle realizzate dall'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa - Invitalia; a tal fine è chiamato a convocare apposite conferenze di servizi e a proporre la sostituzione di procedimenti amministrativi con accordi integrativi o sostitutivi dei relativi provvedimenti.
Il Parlamento segue i numerosi profili di criticità connessi al quadro politico dell'Iran, che continua ad essere al centro delle tensioni internazionali sia per il procedere del programma nucleare, sia per il ruolo destabilizzante nella regione mediorientale e del Golfo Persico. Non secondaria è l'attenzione riservata alle questioni interne, come la persistente repressione di ogni manifestazione di dissenso - anzitutto delle iniziative di protesta dell'opposizione iraniana, emerse attraverso grandi raduni popolari all'indomani della rielezione di Ahmadinejad nel 2009, e proseguite poi con andamento periodico per oltre sette mesi - e i continui casi di violazione dei diritti umani fondamentali, soprattutto nei confronti delle donne.
All’inizio della XVI Legislatura la questione dello sviluppo delle tecnologie nucleari in Iran si è collocata alla più vasta problematica dei seguiti immediati della risoluzione 1803 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che prevedeva un inasprimento dell’embargo commerciale fino a ricomprendere le tecnologie dual use (prodotti che hanno impiego sia civile sia militare), un più severo regime di ispezioni delle merci in entrata e in uscita dall’Iran, il congelamento dei conti appartenenti ad alcune banche e società iraniane ed il divieto di rilascio di visti d’entrata al personale impiegato nel programma nucleare. La risoluzione 1803 inoltre estendeva la lista di persone connesse al programma nucleare iraniano, sottoposte a congelamento dei beni e interdizione dai voli internazionali. Non cambiava tuttavia l’impressione che nell’atteggiamento dell’Iran vi fosse una continua alternanza di aperture e di dilazioni, ma nella direzione sostanziale di un rifiuto delle proposte della Comunità internazionale.
Alla metà del 2009, tuttavia, l’Iran tornava clamorosamente al centro dell’attenzione mondiale per le grandi manifestazioni che facevano seguito alle elezioni presidenziali del 12 giugno, nelle quali il presidente Ahmadinejad riportava una chiacciante vittoria sullo sfidante Mir-Hosein Mousavi, nell’esorbitante misura di circa il 30% in più di consensi. Immediatamente, si diffondeva nel paese la sensazione di brogli perpetrati a danno delle opposizioni, e grandi cortei attraversavano il centro diTeheran e delle principali città iraniane, dando vita a scontri con le forze di sicurezza che apparivano come i più gravi dal tempo della Rivoluzione islamica del 1979. Si innescava in tal modo una spirale di repressione, con numerose vittime, e di rilancio della contestazione favorita anche dalla commemorazione delle vittime dei giorni precedenti, mentre si alzavano dagli Stati Uniti le prime voci internazionali di condanna della repressione, con esplicite prese di posizione congressuali. I tumulti e la repressione proseguivano fino alla fine di luglio, mentre la Comunità internazionale moltiplicava le prese di posizione verso gli eventi iraniani – le autorità intanto si profondevano in minacce e condanne del movimento di protesta, e veniva proclamata ufficialmente la vittoria di Ahmadinejad.
Le proteste si riaccendevano alla metà di settembre, e poi all’inizio di novembre 2009, per poi spegnersi progressivamente nei primi mesi del 2010, soprattutto per la pesante repressione, che avrebbe causato nel complesso l’arresto di quasi 4.000 persone, l’uccisione di oltre 70 manifestanti, cinque condanne a morte e circa 80 condanne a pene detentive. La repressione del movimento dell’Onda Verde, riuscita nell’immediato, ha però avuto come contropartita il massiccio ingresso di appartenenti alle guardie ausiliarie dei basij e ai pasdaran (militari, Guardiani della rivoluzione) nella gestione dell’economia iraniana, aprendo una sorda ma sempre più forte contesa con il ceto clericale sciita, parzialmente espropriato delle proprie prebende. Le accuse clericali hanno poi sempre più investito l’intera politica economica di Ahmadinejad, che avrebbe favorito dopo il 2005 livelli esagerati di importazioni e uno squilibrio commerciale molto grave. Così, nel regime iraniano cominciava una dura lotta dei rappresentanti del clero conservatore contro Ahmadinejad e i pasdaran, senza che alla base del contrasto sia possibile rinvenire motivazioni ideologiche di fondo, a parte il ricorso del presidente, talvolta, a suggestioni più nazionalistico-persiane che islamiche. In questo contesto la Guida Suprema Khamenei è divenuta il baricentro di manovre contrapposte volte a guadagnarne l’appoggio, il che però potrebbe indebolirne il prestigio quale mediatore tra le varie fazioni del regime.
Il quarto regime sanzionatorio adottato dall'ONU con la risoluzione 1929 del giugno 2010, non riusciva ancora ad estendersi ai settori petrolifero e creditizio, soprattutto per l’opposizione russa e cinese. La risoluzione, tuttavia, introduceva un nuovo meccanismo per le ispezioni dei cargo da e per l’Iran alla ricerca di materiali illeciti e inoltre, più dei precedenti regimi sanzionatori, mirava ad impedire l’approvvigionamento di componenti per il programma balistico.
Proseguivano tuttavia le iniziative sanzionatorie bilaterali da parte di paesi come gli USA, il Canada, l’Australia e la Corea del Sud e il Giappone, queste sì suscettibili di colpire i settori creditizio ed energetico. Anche l’Unione europea nel giugno 2010 varava un nuovo regime sanzionatorio nei confronti di Teheran.
Nella seconda metà del 2010 il programma nucleare iraniano iniziava ad essere colpito da gravi malfunzionamenti informatici, con il forte sospetto che si sia trattato di cyber-attacchi di provenienza americana o israeliana. Veniva anche ferito in un attentato nella capitale il principale scienziato impegnato nell’arricchimento dell’uranio, mentre un suo collega perdeva la vita. Ciononostante, in dicembre il responsabile politico del programma nucleare Ali Akbar Salehi subentrava addirittura nell'incarico di Ministro degli Esteri, con un’aperta sfida alla Comunità internazionale. D’altro canto, tuttavia, il regime doveva prendere atto delle difficoltà economiche e dichiarare alla fine del 2010 la cessazione dell'economia dei sussidi che aveva fino a quel momento previsto sovvenzioni di Stato per l'acquisto di carburante ed altri beni essenziali - si è calcolato che fossero arrivate ad una spesa annuale di circa 100 miliardi di dollari. L'abolizione dei sussidi, nonostante le misure compensative promesse dal governo, è suscettibile anch'essa, con l’aggravarsi degli altri fattori economici, di minare le basi del regime iraniano, da sempre sbilanciato verso politiche populistiche di accrescimento del consenso tramite forti concessioni pubbliche.
Nel marzo 2011 un nuovo rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia nucleare (AIEA) accresceva i sospetti sulla finalizzazione militare dell’arricchimento dell’uranio in Iran, il quale tuttavia tre mesi dopo annunciava misure per triplicare la produzione. In luglio veniva ucciso un altro fisico iraniano implicato nelle attività nucleari.
Intanto l’Iran doveva fare i conti con il versante positivo e con quello negativo dei rivolgimenti arabo-mediterranei: a favore della Repubblica islamica giocava la caduta di importanti leader da sempre forti avversari di Teheran, in primis Mubarak, mentre una troppo rapida propagazione nella regione delle rivolte antiautoritarie rischiava di riaccendere anche in Iran il fuoco della contestazione contro il regime islamico. Questo secondo profilo si delineava effettivamente già il 14 febbraio 2011, quando una prima protesta antigovernativa provocava la messa agli arresti domiciliari dei capi del movimento del 2009, Mousavi e Karroubi - poco dopo i due esponenti politici venivano trasferiti in carcere. D’altra parte, le difficoltà in cui cominciava a dibattersi anche l’alleato siriano mostravano una volta di più a Teheran il carattere bifronte degli effetti della Primavera Araba. In questo difficile equilibrio l’Iran manteneva comunque un atteggiamento di prudenza, sfruttando intanto gli spazi che si aprivano ad esempio nei confronti di Gaza, ove l'allentamento dei controlli egiziani sul Sinai consentiva di inviare forti quantità di armamenti.
Sul piano politico interno, intanto, si registrava un deciso rafforzamento degli ultraconservatori, che riuscivano finalmente (dal loro punto di vista) a colpire in modo decisivo Rafsanjani, che all'inizio di marzo si vedeva costretto a dimettersi dalla guida dell'Assemblea degli esperti dell'orientamento, un organo di derviazione confessionale che in teoria avrebbe il potere di nominare la Guida Suprema. La sconfitta di Rafsanjani può vedersi come un ulteriore momento della repressione contro il movimento riformista, che nell'importante esponente aveva in qualche modo trovato nel giugno 2009 una sua sponda. Il siluramento di Rafsanjani ha costituito inoltre un indubbio successo per la Guida Suprema Ali Khamenei, da sempre suo fiero avversario.
Le difficoltà del regime iraniano sono poi proseguite con una escalation dello scontro al più alto livello, quando a partire dal mese di aprile 2011 si accendeva un contrasto aperto tra il presidente Ahmadinejad e la Guida Suprema Khamenei, a partire dal siluramento del ministro dei servizi segreti Heydar Moslehi, che la Guida Suprema ha invece prontamente richiamato in servizio. L'accento si è spostato poi sullo stretto collaboratore di Ahmadinejad e suo consuocero Mashaei, mal visto oltretutto dal clero perché aperto propugnatore di un Islam senza clero e di valori apparentemente contrapposti a quelli islamici. Mashaei è sembrato inoltre incarnare il millenarismo islamico sciita basato sulla figura dell'imam nascosto, contagiando fortemente anche il presidente Ahmadinejad - il quale, pur non appartenendo al clero, è sempre stato tutt'altro che un laico. Il contrasto del presidente con la Guida Suprema è proseguito,i mostrando chiaramente la preminenza della seconda sul primo, fino alle elezioni legislative del marzo 2012, in cui seguaci di Ahmadinejad hanno patito una ulteriore netta sconfitta.
Le vicende dello sviluppo delle tecnologie nucleari in Iran sono tornate in primo piano l'8 novembre 2011, quando l'AIEA ha reso noto un rapporto dal quale per la prima volta emergeva con grande chiarezza il carattere di alcune attività nucleari della Repubblica islamica, che sembravano finalizzate alla costruzione di ordigni nucleari. Di fronte all’atteggiamento iraniano di totale chiusura, il Regno Unito e gli USA hanno adottato ulteriori pesanti provvedimenti sanzionatori: il Parlamento di Teheran, a seguito delle ulteriori sanzioni di Londra, decideva di declassare il rango delle relazioni con il Regno Unito, con conseguente espulsione dell’ambasciatore britannico, e il 29 novembre la stessa sede diplomatica era violata, con l’irruzione di alcuni manifestanti che riuscivano a sostituire la bandiera britannica con quella iraniana, a provocare un piccolo incendio e a sottrarre alcuni documenti, prima dell’intervento della polizia antisommossa iraniana. La reazione britannica e degli altri Paesi occidentali è stata durissima: il 1° dicembre anche l’Italia ha richiamato a Roma per consultazioni l’Ambasciatore a Teheran. L’Unione europea decideva lo stesso giorno un rafforzamento dell’apparato sanzionatorio contro Teheran, prevedendone altresì l’approfondimento in gennaio: sul punto dell’embargo al petrolio iraniano emergevano però punti di vista dissonanti, con la prudenza in merito di paesi come Grecia e Italia, maggiormente legati alle forniture di Teheran.
L’Iran dal canto suo proseguiva nella già sperimentata altalena tra possibili nuove iniziative diplomatiche e annunci di tutt’altro segno, come quello dell’avvio imminente di attività di arricchimento dell’uranio nell’impianto sotterraneo di Fordow (vicino alla città di Qom), della cui esistenza si era saputo solo nel 2009, e che era stato poi visitato da tecnici dell’AIEA.
L'11 gennaio 2012 vi è stata l'ennesima uccisione di uno scienziato iraniano legato alle attività nucleari, la quarta in due anni, per la quale Teheran ha lanciato nuovamente esplicite accuse ai servizi segreti israeliani. Il 23 gennaio i ministri degli esteri dell'Unione europea hanno imposto un livello di sanzioni senza precedenti alla Repubblica islamica, con l'embargo totale agli acquisti, importazioni e trasporto del greggio iraniano. Pertanto non si sarebbero più stipulati contratti nel settore petrolifero, mentre quelli in essere avrebbero dovuto essere rescissi entro il 1° luglio 2012. Le sanzioni sono state completate dalla decisione di congelare i beni in Europa della Banca centrale iraniana e di colpire altresì commercio di oro e diamanti, come anche la fornitura di valute e di monete. L'embargo è stato esteso anche al commercio di prodotti potenzialmente utilizzabili nel programma nucleare iraniano.
Il 2 marzo 2012 si sono svolte in Iran le elezioni legislative, alle quali non si è presentata gran parte delle opposizioni, e che quindi si sono giocate essenzialmente in seno al campo conservatore, da molti mesi lacerato da un duro contrasto tra il gruppo assai forte che si raccoglie attorno al presidente Ahmadinejad, e la parte maggioritaria, che fa capo alla Guida Suprema Ali Khamenei. La vigilia elettorale è stata percorsa dalla preoccupazione, sfruttata ad arte dalle autorità di governo, che un elevato astensionismo potesse favorire addirittura un immediato attacco di Israele alle installazioni nucleari del paese. Inoltre, la Guida suprema è intervenuta pesantemente, definendo la partecipazione al voto un obbligo religioso e un simbolo di devozione. L’affluenza al voto è stata in effetti di circa il 65% degli aventi diritto, più alta che nelle precedenti elezioni parlamentari, e ha segnato quindi un primo successo dello schieramento conservatore, nel quale è sembrata subito profilarsi una prevalenza dell'ala vicina alla Guida Suprema. Il nuovo Parlamento si è riunito alla fine di maggio, confermando alla Presidenza Larijani: su 290 seggi, solo 39 sono andati a deputati riformisti, mentre lo schieramento di Ahmadinejad ne ha ottenuti 75, pertanto meno della metà del composito fronte conservatore a lui avverso.
Si sono intanto riaccese le preoccupazioni intorno alle attività poste in essere dall'Iran nella base militare di Parchin, ubicata a una trentina di chilometri a sud di Teheran, che dal 2004 era terreno di scontro con l'AIEA: il 29 febbraio e nuovamente il 5 marzo l’AIEA, soprattutto sulla base di osservazioni satellitari, ha rilanciato l'allarme, a seguito del quale la Repubblica islamica ha risposto con un gesto distensivo, acconsentendo a una nuova visita al sito di Parchin dopo quella del 2005.
Sul fronte interno, va registrato che con decreto del 7 marzo la Guida Suprema Khamenei ha disposto la creazione di un Consiglio supremo per la rete Internet, a salvaguardia dei valori culturali e nazionali dell’Iran: la decisione ha ulteriormente allarmato i fautori di una maggiore apertura del paese, che da sempre devono misurarsi con censure e intrusioni delle autorità nell’utilizzazione della rete Internet. Irritazione ha poi destato tra i deputati iraniani l'audizione del presidente Ahmadinejad in Parlamento, le cui risposte sono state giudicate elusive e derisorie, sia nei confronti della situazione economica del paese che delle questioni politiche legate alle simpatie di Ahmadinejad per le idee del suo capo di gabinetto Esfandiar Mashaie, giudicate deviazioniste.
Il 28 e 29 marzo si è recato Teheran il premier turco Erdogan, il quale ha ribadito l'appoggio di Ankara al programma nucleare iraniano, registrando peraltro discordanza di opinioni in merito all’aggravarsi della crisi siriana. Il 30 marzo il presidente USA Obama ha di fatto dato il via a una nuova raffica di sanzioni nei confronti dell’Iran, appoggiando un provvedimento varato dal Congresso già da tempo per penalizzare istituzioni finanziarie e paesi che operano con Teheran, a meno che questi ultimi non dimostrino di aver drasticamente ridotto le importazioni di petrolio dall'Iran - salvaguardando in tal modo il Giappone e i propri alleati europei rispetto al nuovo regime sanzionatorio. Per tutta risposta alla metà di aprile l'Iran ha replicato bloccando le forniture di petrolio alla Grecia alla Spagna, quasi ad anticipare spavaldamente le conseguenze dell'embargo petrolifero europeo il cui inizio era fissato al 1° luglio 2012. Per quanto riguarda i negoziati sul nucleare tra l’Iran e il Gruppo 5+1, nonostante le speranze alimentate dalla loro ripresa in aprile a Istanbul, e anche al secondo round concluso il 24 maggio a Baghdad, l'approdo sostanziale, come si è visto nel terzo round di Mosca il 18 e 19 giugno, è stato poco più che nullo.
Nell'imminenza dell'entrata in vigore dell'embargo europeo sul petrolio iraniano, la produzione petrolifera di Teheran era tornata nel mese di giugno ai livelli di 25 anni prima, con l'estrazione di nemmeno 3 milioni di barili di petrolio al giorno. Dopo l'entrata in vigore dell’embargo europeo l'Iran ha oscillato tra una minimizzazione degli effetti di esso e il ritorno alla minaccia di chiudere la navigazione nello stretto di Hormuz, di fronte alla quale gli Stati Uniti hanno proceduto a un deciso rafforzamento della loro presenza militare nel Golfo Persico, sia con l'aumento del numero dei dragamine che con l'avvio della costruzione in Qatar di un terzo radar antimissile, il quale, unitamente a quelli già dislocati in Israele e in Turchia, dovrebbe consentire di intercettare eventuali lanci da parte dell'Iran. La Repubblica islamica, dal canto suo, il 3 e 4 luglio ha dato luogo ad una massiccia serie di test missilistici a breve, medio, e corto raggio in uno dei deserti del paese.
L’Iran, attraverso il movimento sciita libanese Hezbollah, che Teheran appoggia, è tornato al centro delle tensioni internazionali subito dopo l’attentato del 18 luglio che ha colpito un pullman di turisti israeliani Bulgaria, e che Tel Aviv ha senz'altro attribuito a Hezbollah. Mentre sembrava che il regime sanzionatorio nei confronti di Teheran avesse effetti non del tutto trascurabili, l’Iran appariva sempre più coinvolto dagli effetti della tragica crisi siriana: il 4 agosto una cinquantina di pellegrini sciiti iraniani venivano rapiti a Damasco da elementi sunniti della rivolta contro Assad. Mentre l'Iran tornava ad appoggiare il regime siriano, era dunque costretto a fare pressioni sulla Turchia per un intervento sui rapitori a favore dei pellegrini, quella stessa Turchia, tuttavia, alla quale l'Iran in ultima analisi rimprovera l'appoggio agli oppositori del regime siriano.
In settembre il presidente Obama – in piena campagna per la rielezione – e il premier israeliano sono giunti ad aspre polemiche sulla questione del nucleare iraniano, per poi, dopo i rispettivi interventi all’apertura della sessione annuale dell’Assemblea Generale dell’ONU, convergere su una posizione di completa inaccettabilità dell’ipotesi di un Iran in possesso dell’atomica. Frattanto l’economia iraniana sotto embargo dava segni di gravi difficoltà, con una svalutazione della moneta nazionale del 150 per cento sul dollaro negli ultimi nove mesi, nonché una forte discesa dell’occupazione e dell’export petrolifero. Il 3 ottobre vi sono stati a Teheran gravi scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, nel corso di tumulti di protesta per la situazione economica.
Alla metà di ottobre le sanzioni UE verso l’Iran sono state comunque inasprite, con il blocco di ogni trasferimento tra banche europee e iraniane, il congelamento di attività finanziarie legate a qualsiasi titolo al regime di Teheran e il divieto di importazione nel territorio comunitario esteso anche al gas iraniano.
Per quanto riguarda l’attività normativa, va ricordato che l’articolo 26 della legge comunitaria per il 2007 (legge 25 febbraio 2008, n. 34) ha delegato il Governo a introdurre disposizioni di attuazione del Regolamento (CE) 19 aprile 2007, n. 423/2007, concernente misure restrittive nei confronti dell’Iran (si tratta di uno dei numerosi provvedimenti adottati in conseguenza della prosecuzione da parte dell’Iran del proprio programma nucleare).
Dopo la presentazione alla Camera di uno schema di decreto legislativo al riguardo, le Commissioni riunite Giustizia ed Esteri – competenti per i diversi profili della materia - hanno dato parere favorevole sul provvedimento nella seduta del 17 marzo 2009.
Nelle sedute del 25 e del 31 marzo 2009 lo schema di Decreto legislativo è stato altresì discusso dalla Commissione politiche dell’Unione europea di Montecitorio – competente per il parere su tutti gli schemi di atti normativi del Governo per l’attuazione di norme comunitarie -, che ha concluso l’esame anch’essa con l’emissione di un parere favorevole.
Conseguentemente è stato emanato il decreto legislativo 14 maggio 2009, n. 64, che introduce nell'ordinamento italiano specifiche sanzioni per la violazione del regolamento comunitario n. 423/2007 che introduce misure restrittive nei confronti dell'Iran.
Sul piano dell'attività non legislativa, all'inizio della Legislatura il 15 ottobre 2008, è stata discussa e approvata senza modificazioni dalla Commissione Esteri una risoluzione sulla necessità di scongiurare la possibile elezione dell’Iran come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il 2009-2010.
La Commissione Esteri, nelle sedute del 26 novembre e del 3 dicembre 2008, ha poi discusso una risoluzione concernente il mantenimento dell’ Organizzazione dei mujahidin del popolo iraniano (OMPI) nella lista dell'Unione europea delle persone e delle entità i cui fondi devono essere congelati nell'ambito della lotta al terrorismo. La discussione è sfociata nell’approvazione di una risoluzione conclusiva che rileva come - in base a sentenze del Tribunale di primo grado della Corte di giustizia delle Comunità europee, nonché a determinazioni adottate nel Regno Unito – l’OMPI non vada più considerata organizzazione terroristica. Pertanto il Governo è stato impegnato a partecipare attivamente alla revisione semestrale dell’elenco europeo da parte del Consiglio dei ministri dell’Unione, e a richiedere alle autorità irachene e statunitensi particolare accuratezza nei procedimenti riguardanti i membri dell’OMPI protetti in Iraq nel campo di Ashraf, garantendone i diritti di difesa ed evitandone il rimpatrio forzoso in Iran. Proprio alla tutela dei rifugiati iraniani nel campo di Ashraf la Commissione Esteri della Camera ha dedicato le sedute del 7, 13 e 14 luglio 2011, nelle quali ha discusso una risoluzione di iniziativa dell’on. Mecacci, approvando poi la risoluzione n. 8-00135. Le diverse questioni riguardanti l’OMPI sono state peraltro oggetto alla Camera di ulteriori iniziative parlamentari di sindacato ispettivo, nelle quali sono sempre stati posti al Governo italiano quesiti concernenti il livello di conoscenza della situazione e la condotta che si intendeva porre in essere.
In precedenza, in relazione alla difficile situazione dell’Iran dopo le contestate elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, il 1° luglio 2009 si era svolta l’audizione del Ministro degli Affari esteri Frattini presso le Commissioni Esteri riunite della Camera e del Senato, dedicata ad un’analisi dei più recenti sviluppi della situazione in Iran. Il 9 febbraio 2010 le Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato hanno poi svolto l’audizione del ministro degli affari esteri, Franco Frattini, che aggiornava quanto esposto nella seduta del 16 dicembre 2009 delle Commissioni congiunte Esteri e Politiche dell’Unione europea della Camera e del Senato, nell’ambito delle comunicazioni del Governo sugli esiti del Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2009.
Una nuova occasione di dibattito parlamentare si è avuta nella seduta del 18 marzo 2010 della Commissione Affari esteri della Camera, quando, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, si è svolta l’audizione di Caspian Makan, attivista per i diritti umani in Iran.
Le iniziative internazionali, e in particolare quelle del nostro Paese e del Parlamento, per impedire l’esecuzione in Iran della condanna a morte per lapidazione nei confronti di Sakineh Mohammadi Ashtiani, ma anche per porre l’accento sulla lotta a tale inaccettabile modalità di esecuzione della pena capitale, hanno costituito l’oggetto delle comunicazioni del Presidente del Comitato permanente diritti umani della Commissione Esteri della Camera, On. Furio Colombo, integrate dagli interventi di alcuni membri della Commissione (seduta dell’8 settembre 2010). Successivamente, nell’ambito della lotta alla pratica delle esecuzioni capitali la Camera ha approvato un atto di indirizzo, e precisamente la mozione Zamparutti ed altri n. 1-00450, in ordine ad iniziative in ambito internazionale contro la pena di morte, in particolare per scongiurare l'esecuzione di Sakineh Mohammadi Ashtiani, discussa nella seduta del 6 ottobre 2010.
Il Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi di Sant’Agata riferiva alle Commissioni Esteri riunite della Camera e del Senato (seduta del 30 novembre 2011) in ordine alle linee programmatiche del suo Dicastero: in questo contesto il Ministro stigmatizzava duramente la recente violazione dell'immunità della sede diplomatica britannica a Teheran, ribadendo come, di fronte alla perdurante sordità iraniana verso gli appelli internazionali ad interrompere la via dell'arricchimento dell'uranio, l'Italia si schierava compatta per un aggravamento delle sanzioni contro la Repubblica islamica, giudicando peraltro che un'opzione di attacco all'Iran avrebbe conseguenze devastanti.
Infine la Commissione Esteri, nella seduta del 6 dicembre 2011, ha discusso una risoluzione dell’On. Nirenstein, concernente il programma nucleare iraniano, approvando la risoluzione conclusiva n. 8-00155, con la quale si impegna il Governo “a vigilare affinché sia assicurata la piena applicazione delle sanzioni già previste nei documenti ufficiali dell'Unione europea e dell'ONU”, favorendone altresì il possibile inasprimento; nonché a sostenere l’AIEA nelle sue attività di monitoraggio dei programmi nucleari di Teheran.
Osservatorio di politica internazionale
Il Parlamento ha seguito costantemente la fase post-bellica dell'Iraq, caratterizzata da elevata instabilità e grave frammentazione politica, anche dopo il completo ritiro dal paese delle truppe americane. L'Iraq è inoltre minacciato dalla pesante ipoteca iraniana sui partiti al governo, nonché dalla sempre più grave situazione di conflitto nella vicina Siria.
Dopo che la situazione di instabilità dell’Iraq, costellata da tragici attacchi terroristici, aveva raggiunto il picco tra 2006 e 2007, la strategia del generale Petraeus, basata sull'aumento degli effettivi USA messi in campo, ma anche su accordi con i capi tribù dei principali gruppi sunniti raggiungeva notevoli successi: proprio all'inizio della XVI Legislatura, nel giugno del 2008, il netto miglioramento della situazione della sicurezza veniva confermato con il numero di perdite USA nel mese precedente che era il più basso dall'invasione del Iraq del 2003. Nei mesi di luglio e agosto le tensioni si accentravano intorno alla città di Kirkuk, importantissimo centro petrolifero popolato da abitanti in parte curdi, in parte arabi e in parte di minoranze etniche e religiose più piccole. In settembre si riusciva ad approvare in Parlamento la nuova normativa elettorale locale, ma solo perché regole e calendari delle elezioni locali nel Kurdistan iracheno, e in particolare a Kirkuk, erano stati accantonati. Sempre nel mese di settembre 2008 il passaggio agli iracheni dei poteri militari e di polizia nella critica provincia occidentale di Anbar testimoniava ancora a volta il miglioramento della situazione della sicurezza - nella provincia avevano perso la vita più di mille militari statunitensi, e questo territorio era considerato una roccaforte della guerriglia sunnita e di al Qaeda in Iraq. Il 16 settembre il generale Petraeus veniva richiamato negli Stati Uniti per assumere la responsabilità per l'area dell'intero Medio Oriente allargato.
Il 17 novembre 2008 l'Amministrazione statunitense e il governo di Baghdad firmavano tra l’altro un accordo bilaterale destinato a regolare i rapporti di sicurezza tra i due paesi già a partire dall'inizio del 2009: l’accordo prevedeva un preciso calendario per il ripristino della piena sovranità irachena e il ritiro del forze armate statunitensi dall’ Iraq entro il 31 dicembre 2011 – ma già entro il 30 giugno 2009 avrebbero dovuto lasciare le città e ripiegare all’interno delle loro basi. Giuridicamente il recupero del pieno controllo iracheno della sovranità sul proprio territorio era previsto già dal 1° gennaio 2009, e proprio ciò subordinava la presenza statunitense all’autorizzazione fornita dallo stesso governo iracheno. Naturalmente, il raggiungimento dell'accordo sul ritiro delle forze statunitensi è stato possibile per il netto miglioramento della situazione della sicurezza in Iraq nel 2008, tant'è vero che all’inizio del 2009 ben 13 delle 18 province erano ritornate formalmente sotto l'esclusivo controllo delle forze di sicurezza irachene. Per quanto concerne comunque il futuro ruolo degli Stati Uniti nei confronti dell'Iraq, era previsto l'impegno americano, sempre su richiesta delle autorità di Baghdad, a continuare a proteggere la sicurezza interna ed esterna dell’Iraq finanche con strumenti militari, anche se gli Stati Uniti non avrebbero più mantenuto basi militari nel paese.
Il 31 gennaio 2009 si sono svolte in Iraq le elezioni provinciali, con la partecipazione di oltre 14.000 candidati - tra cui quasi 4000 donne - esponenti di più di 400 partiti, gruppi o movimenti politici. La consultazione ha riguardato 14 delle 18 province dell'Iraq, con esclusione delle tre province autonome curde e della provincia in cui si trova la città di Kirkuk, oggetto di una difficile trattativa fra i diversi gruppi del paese. Le elezioni hanno visto una notevole vittoria del partito del premier al Maliki, i cui seguaci avevano presentato una lista improntata a un carattere laico e denominata “Per lo stato di diritto”. Il partito del premier si è aggiudicato il controllo di 9 province, a fronte di un netto ridimensionamento dei partiti religiosi, e anzitutto di quello facente capo ad al Hakim, alleato di Maliki nella compagine di governo. Non va dimenticato tuttavia che proprio il 5 febbraio, giorno in cui sono stati resi noti i risultati preliminari della consultazione relativi al 90% delle schede, si è verificato un attentato suicida compiuto da una donna in una cittadina a circa 200 km. nord-est di Baghdad, che ha provocato 15 morti, mentre il 13 febbraio un'altra donna kamikaze ha colpito pellegrini sciiti facendone strage (35 morti e circa 70 feriti). Va comunque ricordato che il mese di gennaio 2009 aveva registrato il più basso numero di vittime di attentati dall'invasione dell’Iraq del 2003.
Il 27 febbraio 2009 il presidente USA Obama comunicava ufficialmente la data del ritiro delle forze combattenti dall'Iraq, fissato per la fine di agosto 2010 – tuttavia non meno di 35.000 uomini delle forze armate statunitensi sarebbero rimasti nel paese fino a tutto il 2011, con il compito di assistere le forze del governo di Baghdad nelle aree nevralgiche, nonché per fungere da istruttori.
Nonostante una chiara diminuzione del numero di atti di terrorismo durante il 2009, non è possibile sottacere che un certo numero di gravi attentati continuavano a punteggiare l'anno. Vi era certamente un legame tra l'andamento degli attacchi terroristici e la difficile gestazione dell'accordo tra le diverse forze politiche e confessionali per la riforma elettorale: solo alla fine di novembre 2009 il Parlamento approvava le ulteriori modifiche alla legge elettorale, ottenendo poi il via libera dal Consiglio di presidenza. Conseguentemente la data delle elezioni politiche veniva fissata per il 7 marzo 2010. Ancora una volta, uno dei punti più controversi dei negoziati per la nuova legge elettorale era quello dei meccanismi di voto concernenti la città di Kirkuk, al centro di gravi tensioni in ragione delle ricchezze petrolifere che possiede.
Va poi considerato un nodo politico ed economico di primaria importanza che ha caratterizzato il 2009 in Iraq, ossia la lotta intorno all’approvazione di una regolamentazione sulla gestione delle risorse petrolifere del paese - va infatti ricordato che tale argomento costituisce potenzialmente un fattore dirompente della compagine nazionale proprio in quanto le risorse petrolifere non sono dislocate omogeneamente nel paese, ma prevalentemente nel Nord curdo e nel Sud sciita; in assenza di un’accorta regolamentazione di legge il loro sfruttamento taglierebbe fuori quasi del tutto dai relativi proventi i gruppi sunniti, prevalenti nella zona centrale dell'Iraq. La stessa prima ricordata questione di Kirkuk è legata alla presenza in loco del secondo giacimento dell'Iraq, e la rivendicata incorporazione della città nella zona autonoma curda sarebbe di per sé suscettibile di garantire l'autonomia economica al Kurdistan iracheno. Alla preferenza dei curdi per la tenuta di un referendum si contrapponeva la proposta di rappresentanti arabi, sunniti e turcomanni di Kirkuk per un accordo di condivisione dei poteri di governo della città.
Nonostante le elezioni politiche del 7 marzo 2010 avessero registrato una buona affluenza alle urne, le difficili trattative tra le forze politiche, sociali ed etniche irachene - frammezzo a una ripresa di sanguinosi attentati imputabili ad al Qaida, che colpivano pesantemente anche i cristiani - partorivano solo il 7 novembre successivo un accordo generale per la spartizione delle cariche apicali dello Stato: si aveva così la riconferma di Talabani quale Capo dello Stato, e il 25 novembre il premier uscente al Maliki otteneva l'incarico di formare il nuovo governo, che riceveva la fiducia parlamentare il 21 dicembre. Il vasto incendio di rivolta partito dal Nordafrica non ha coinvolto l'Iraq – se non per gli effetti della gravissima crisi siriana tuttora in corso -, che peraltro non manca di destare preoccupazioni per la posizione sempre più critica delle minoranze cristiane, come rilevato dal Ministro degli Esteri Frattini a Baghdad nella sua visita dell'8 giugno 2011, in cui sono stati approfonditi i profili di politica regionale ed economica del paese, già allora partner essenziale dell'Italia.
D'altra parte, si ripetevano periodicamente gravissimi attentati, come quelli che il 5 agosto 2011 provocavano in diverse città 70 morti e circa trecento feriti. La Turchia dopo la metà di ottobre tornava a invadere per l'ottava volta territori posti nel nord dell'Iraq, attaccando postazioni del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ivi attestate, subito dopo l'uccisione di 24 soldati turchi nella Turchia sud-orientale. Negli stessi giorni, in una videoconferenza congiunta, il presidente americano Obama e il primo ministro Nouri al-Maliki informavano di aver raggiunto un accordo per un completo ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq entro la fine del 2011. La decisione – che suscitava forti critiche da parte dei repubblicani USA – giungeva dopo ripetuti e falliti tentativi per negoziare i termini di un accordo che avrebbe consentito a migliaia di soldati americani di rimanere in Iraq, per condurre operazioni speciali o addestramenti, anche oltre il 31 dicembre 2011. Sono rimasti invece, dopo il ritiro concordato con le autorità irachene, meno di duecento marines destinati alla protezione dell’ambasciata americana a Baghdad.
Il 18 dicembre l’ultima colonna di truppe americane varcava il confine con il Kuwait: solo due giorni dopo i contrasti tra sciiti e sunniti riesplodevano al massimo livello, quando nei confronti del vicepresidente sunnita Tareq al-Hashemi veniva spiccato un mandato d’arresto in relazione ad attività terroristiche, mentre il premier al-Maliki chiedeva al Parlamento di ritirare la fiducia al suo vice sunnita al-Mutlaq – ottenendo peraltro il risultato del ritiro dello schieramento laico-sunnita Iraqiya dai lavori legislativi e dalle riunioni dell’esecutivo. Il 22 dicembre Baghdad era scossa da una terribile ondata di 14 attentati, sia in quartieri sciiti che sunniti, che provocavano la morte di oltre sessanta persone e quasi duecento feriti. Il 25 dicembre un attentato suicida colpiva nella capitale la sede del ministero dell’interno, provocando la morte di sei guardie e il ferimento di una trentina di persone. Una nuova raffica di attentati colpiva, stavolta selettivamente, il 5 gennaio 2012, quando a Baghdad e nel sud dell’Iraq pellegrini sciiti erano bersaglio di numerose esplosioni, che uccidevano più di 70 persone, ferendone almeno altrettante. Il 24 gennaio quattro attentati nei quartieri sciiti di Baghdad provocavano non meno di 14 vittime, oltre a una cinquantina di feriti. La spirale terroristica, che aveva già provocato l’interruzione della collaborazione nel governo di unità nazionale, per le accuse di coinvolgimento rivolte al vicepresidente sunnita al Hashemi; aveva riflessi anche nei rapporti tra Iraq e Turchia, dopo che Ankara aveva difeso al Hashemi, e successivamente accusato il governo di al Maliki di alimentare lo scontro settario in Iraq. Il governo di Baghdad reagiva a quelle che giudicava indebite interferenze e addirittura provocazioni da parte del premier turco Erdogan. In questo difficile contesto anche al Qaida è tornata a minacciare “gli occupanti iraniani dell’Iraq”, nel tentativo di inserirsi nei rinnovati scontri interreligiosi. L’unica nota positiva, dopo che il 27 gennaio l’ennesimo attentato suicida aveva ucciso almeno 32 persone a sud della capitale, era l’annuncio (29 gennaio) del ritorno del blocco laico e sunnita di al Iraqiya ai lavori parlamentari.
Il 23 febbraio 2012 vi sono stati una ventina di attacchi terroristici – attribuiti dal governo ad al-Qaida - perpetrati in vario modo nella capitale e in altre sei province irachene: il bilancio è stato di 67 morti e più di 400 feriti. Nell’imminenza del primo vertice della Lega araba in terra irachena da 22 anni, previsto per il 29 marzo, il paese è stato scosso il 20 marzo da un’altra ondata di attentati, che hanno colpito Baghdad e altre sette province, provocando circa 50 morti e 200 feriti. Il 19 aprile un'altra serie coordinata di attacchi nella capitale, nonché nelle province di Kirkuk, Anbar e Diyala, ha provocatola morte di almeno 37 persone e il ferimento di oltre cento, per mezzo di autobomba o ordigni comandati a distanza. Il 31 maggio altri quattro attentati a Baghdad hanno ucciso 23 persone, con decine di feriti. Il 4 giugno un kamikaze ha provocato la morte di 26 persone e il ferimento di più di cento in un attentato contro la sede di una fondazione religiosa sciita incaricata della gestione di alcune moschee. L'attacco contro gli sciiti si è confermato il 13 giugno, quando 70 persone sono morte e decine di altre sono rimaste ferite in un'ondata di attentati in tutto l'Iraq, sostanziatisi nell'esplosione di 12 autobomba e altri 30 ordigni. Tutti questi atti terroristici sono stati attribuiti prevalentemente ad al Qaida, o comunque a elementi sunniti desiderosi di soffiare sul fuoco dei contrasti religiosi ed etnici riemersi nel dopo Saddam, senza che le autorità apparentemente riescano a porre argine al terrorismo. A riprova di ciò, il 3 luglio hanno perso la vita oltre 50 persone in una serie di attentati diretti ancora una volta prevalentemente contro gli sciiti. Il 22 luglio l'inizio del Ramadan ha coinciso con una serie di attentati nella zona della capitale, ma è stato il giorno successivo a far segnare una vera strage, con 18 città colpite da attentati terroristici nei dintorni di Baghdad e nel nord del paese: il bilancio tragico è Stato di 111 morti e oltre 230 feriti. Ancora una volta, bersagli prevalenti sono state le comunità sciite e agenti delle forze di sicurezza irachene.
Il 9 settembre 2012 si rivelava giorno cruciale, in quanto veniva pronunciata in contumacia la condanna morte del vicepresidente sunnita al Hashemi, mentre un'ondata di attentati in tutto il paese provocava un centinaio di morti. Gli attentati venivano rivendicati il giorno seguente da al Qaida. In effetti il mese di settembre del 2012 registrava il peggior bilancio degli ultimi due anni in riferimento alla sicurezza, con la morte di 365 persone, che confermava da un lato la forza di al Qaida in Iraq e dall'altro manteneva alto il livello delle tensioni tra sciiti e sunniti. In questo senso l’ictus che il 17 dicembre ha colpito il presidente iracheno Talabani ha segnato un ulteriore punto a sfavore della sicurezza, poiché Talabani si è sempre rivelato abile mediatore, attento a impedire il precipitare delle tensioni nel paese, suscettibili di porre in discussione anche l'autogoverno del Kurdistan iracheno dal quale Talabani proviene. Per di più, la sua malattia è giunta in un momento di particolare frizione tra il governo centrale e le autorità della regione autonoma del Kurdistan.
Il 18 ottobre 2012 il Ministro degli esteri iracheno Zebari aveva intanto presieduto alla Farnesina la terza Commissione mista italo-irachena, congiuntamente al collega italiano Giulio Terzi, a riprova del reciproco interesse economico tra i due Paesi.
Nella seconda metà di gennaio del 2013 un micidiale mix di attentati con autobomba e di attacchi terroristici ha provocato in Iraq quasi duecento morti. Non meglio andavano le cose in febbraio: il giorno 3 una trentina di persone venivano uccisi in un attacco terroristico contro il quartier generale della polizia di Kirkuk. Pochi giorni dopo nuovi attentati colpivano la comunità sciita provocando 40 morti, mentre manifestazioni di sunniti contestavano la politica del primo ministro al Maliki, giudicata discriminatoria nei loro confronti.
Per quanto concerne l’attività a carattere legislativo si ricorda che anche dopo la fine della presenza militare italiana in Iraq il Paese mediorientale è stato oggetto di interventi italiani di aiuto umanitario, ovvero di contributi alla formazione e addestramento delle forze militari, di polizia e della magistratura. In particolare, tali interventi sono stati previsti, nella corrente Legislatura, dai provvedimenti con cui è stata prorogata la partecipazione italiana alle missioni internazionali, da ultimo con il decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227, che estende l'impegno italiano nelle missioni internazionali dal 1° gennaio al 30 settembre 2013. Il decreto-legge 227/2012, in particolare:
Si segnala poi che con la legge 20 marzo 2009, n. 27 (A.C. 2037) il Parlamento ha autorizzato la ratifica del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Iraq, firmato nel 2007, e che testimonia della fiducia dell’Italia in un progressivo consolidamento della maggiore stabilità raggiunta dall’Iraq, cui appunto il Trattato mira a contribuire. L’intesa è stata siglata subito dopo la conclusione della partecipazione italiana alla missione militare in Iraq (dicembre 2006), dove le truppe italiane avevano il compito di garantire la cornice di sicurezza essenziale per consentire l’arrivo degli aiuti e di contribuire alle attività di più urgenti di ripristino delle infrastrutture e dei servizi essenziali.
Si ricorda da ultimo che con la legge 12 novembre 2009, n. 162 è stata istituita la Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace, tra i quali particolare rilievo assumono le vittime in Iraq dell’attentato di Nassiriya del 12 novembre 2003.
Sul piano dell’attività non legislativa, all’inizio della XVI Legislatura, anche a causa del miglioramento della complessiva situazione di sicurezza in Iraq, la Camera non ha dedicato al tema iracheno specifiche discussioni di carattere generale. Si segnalano peraltro due atti di sindacato ispettivo in ordine a fenomeni di violenza contro i cristiani verificatisi in Iraq, ovvero l’interpellanza urgente (2-00197) dell’On. Renato Farina, discussa nella seduta del 20 novembre 2008, e l’interpellanza n. 2-00630 dell’On. Castagnetti, svolta nella seduta del 4 maggio 2010. La difficile situazione delle comunità cristiane in alcune aree del Medio Oriente, tra le quali spicca proprio l’Iraq, è divenuta progressivamente nella trascorsa Legislatura un importante capitolo dell’attività parlamentare. In particolare, si segnala l’audizione di Monsignor Shlemon Warduni, vicario patriarcale caldeo di Baghdad, che la Commissione Esteri ha svolto il 19 gennaio 2011 nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo.
In precedenza l’Assemblea della Camera, nella seduta del 27 ottobre 2010, aveva discusso e approvato a larghissima maggioranza la mozione n. 1-00472, a prima firma dell’On. Mecacci ma condivisa da tutti i gruppi parlamentari, su iniziative per la moratoria della pena di morte in Iraq, in connessione alla vicenda della condanna alla pena capitale di Tarek Aziz. Il dispositivo della mozione impegna il Governo, alla luce dell’approvazione, nel dicembre 2007, della “Moratoria universale della pena di morte” da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU, a scongiurare l’esecuzione di Tarek Aziz intervenendo urgentemente in tal senso presso le Autorità di Baghdad. Il Governo viene inoltre impegnato, previo intervento presso le competenti istanze dell’Unione europea, a far sì che la UE richieda formalmente al Governo iracheno il ripristino della moratoria sulle esecuzioni capitali - che aveva avuto vigenza nel Paese subito dopo la caduta di Saddam Hussein -, in tal modo rafforzando la transizione democratica irachena, ponendola in sintonia con i più elevati standard internazionali della giustizia internazionale. In rapporto alla stessa vicenda, il 28 ottobre 2010 la Commissione Esteri di Montecitorio, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, ha svolto l’audizione di Marco Pannella, Presidente del «Senato» del Partito Radicale non violento transnazionale e transpartito.
Si segnalano poi le sedute del 28 aprile e dell’ 8 giugno 2011, nelle quali il Comitato permanente sulla politica estera della UE – costituito in seno alla Commissione Esteri – ha iniziato e proseguito l’esame in via istruttoria della Proposta di Decisione del Consiglio relativa alla conclusione di un accordo di partenariato e cooperazione tra l'Unione europea e la Repubblica dell'Iraq.
L’Iraq tornava al centro dell’attenzione parlamentare per la vicenda dei rifugiati iraniani del campo di Al Ashraf, avversari del regime di Teheran e perciò oggetto di minacce e attacchi man mano che l’asse del potere a Baghdad si è riorganizzato intorno ai partiti sciiti e filoiraniani: al proposito la Commissione Esteri della Camera nelle sedute del 7, 13 e 14 luglio 2011 ha discusso una risoluzione di iniziativa dell’On. Mecacci, approvando poi la risoluzione conclusiva n. 8-00135,la qualeha impegnato il Governo anzitutto a premere sulle autorità irachene perché ottemperassero all’impegno assunto di evitare l'uso della forza nei confronti dei residenti di Ashraf, tentando inoltre di fornire con la massima urgenza l'assistenza umanitaria ai residenti di Ashraf – anche con la diretta presa in carico in Italia di alcuni tra i feriti più gravi -, sensibilizzando a questo scopo anche l'Unione europea a promuovere analoga azione.
Osservatorio di politica internazionale
Dopo la stagione che ha visto l'affermazione a livello costituzionale e legislativo del diritto di voto per i cittadini italiani residenti all'estero, oramai in condizione di eleggere propri rappresentanti anche nel Parlamento nazionale, le tematiche degli italiani all'estero sono stabilmente al centro dell'attenzione parlamentare, come dimostra anche l'esistenza di appositi organismi sia alla Camera che al Senato. Anche grazie a queste sedi, nella corrente Legislatura si è sviluppato un continuo confronto tra Governo e Parlamento sulle generali problematiche del rapporto dell'Italia con le comunità italiane all'estero, in vista di riforme concernenti le strutture consolari e l'articolazione delle politiche di assistenza e del sistema della rappresentanza. Va altresì segnalato l'emergere di un dibattito in ordine alla riforma della stessa normativa sul voto degli italiani all'estero, che risale alla legge 459 del 2001.
Sul piano normativo si segnala l'articolo 10, commi 1 e 2, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, che ha operato un rinvio del termine per le elezioni dei COMITES (Comitati degli italiani residenti all’estero), e come conseguenza anche del CGIE (Consiglio generale degli italiani all'estero). Nelle more della discussione parlamentare sulla riforma dei COMITES e del CGIE - ancora in corso presso la Commissione Esteri della Camera alla scadenza della Legislatura - si è ritenuto opportuno operare ulteriori proroghe, dapprima non oltre il 31 dicembre 2012 mediante l’articolo 2, comma 1 del decreto-legge 28 aprile 2010, n. 63; e da ultimo non oltre la fine del 2014, in base all’art. 1, comma 1, del decreto-legge 30 maggio 2012, n. 67.
Si ricorda poi la legge 3 febbraio 2011, n. 13, con la quale sono state apportate modifiche e integrazioni al Decreto legislativo 9 marzo 1948, n. 812, in ordine a una particolare onorificenza – la cui nuova denominazione sarà quella di Ordine della Stella d’Italia -, rivolta tra l’altro anche a cittadini italiani all’estero che vantino particolari benemerenze nella promozione di rapporti di amicizia e di collaborazione tra l’Italia e gli altri paesi: il relativo regolamento di esecuzione è stato emanato con DPR 15 novembre 2011, n. 221. Si segnala altresì il Decreto legislativo 3 febbraio 2011, n. 71, recante ordinamento e funzioni degli Uffici consolari – con evidenti ricadute sulle collettività italiane all’estero -, scaturito dalla delega conferita con la Legge di semplificazione 2005.
Va altresì ricordato che l’art. 40, commi 3 e 6-9, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, ha dettato disposizioni in materia di carta di identita' e in materia di anagrafe della popolazione residente all'estero e l'attribuzione del codice fiscale ai cittadini iscritti. Sulla stessa materia i commi 1-2 dell’art. 2 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 hanno previsto ulteriori innovazioni.
Infine, l’art. 1-bis, aggiunto dalla legge di conversione al decreto-legge 18 maggio 2012, n. 63, reca contributi a favore di periodici italiani pubblicati all’estero, e perciò di rilevante interesse per i nostri connazionali ivi residenti.
Per quanto concerne l’attività non legislativa va ricordato che già nella seduta del 25 settembre 2008 il Comitato permanente sugli italiani all'estero costituito in seno alla Commissione Esteri della Camera aveva avuto un primo orientamento sulle prospettive delle politiche sugli italiani all’estero, con l'audizione del sottosegretario agli affari esteri, Sen. Alfredo Mantica, che dava conto al Comitato permanente dei preparativi e del calendario per lo svolgimento a Roma, all'inizio di dicembre 2008, della Conferenza dei giovani italiani nel mondo, per poi illustrare lo stato di avanzamento del progetto del Museo dell'emigrazione italiana. Il 19 febbraio 2009 il Comitato permanente sugli italiani all’estero tornava ad ascoltare sulle politiche per gli italiani all’estero nel 2009 il Sen. Mantica, il quale si soffermava soprattutto sui temi dell’insegnamento della lingua italiana all’estero, dei livelli di assistenza alle collettività italiane all’estero, confermati rispetto al 2008, e del piano di ristrutturazione della rete consolare. Proprio il tema della razionalizzazione della rete degli uffici all’estero del Ministero degli affari esteri, con i rilevanti effetti sulle attività dei consolati a supporto delle comunità italiane residenti all’estero, è stato al centro delle due ulteriori audizioni del Sen Mantica presso le Commissioni Esteri dei due rami del Parlamento nelle sedute del 10 giugno e del 24 giugno 2009. A seguito dell’esposizione ricordata, la Commissione Affari esteri della Camera aveva discusso il 21 luglio 2009 la risoluzione 7-00193 dell’On.Narducci, approvando la risoluzione conclusiva 8-00050. Sul tema della razionalizzazione degli uffici all’estero, le Commissioni Esteri di Camera e Senato hanno poi nuovamente ascoltato il Sottosegretario agli Affari esteri, Sen. Mantica (seduta del 23 febbraio 2010), che ha fornito una serie di aggiornamenti relativi alle procedure in corso e a quelle a più breve scadenza.
L’attenzione dei competenti Organi parlamentari si era frattanto diretta anche sul tema della riforma degli organismi di rappresentanza degli italiani all’estero, su cui si segnala la seduta del 10 febbraio 2010 del Comitato permanente sugli italiani all’estero della Commissione Esteri, dedicata all’esame istruttorio della Relazione recante le valutazioni del Consiglio generale degli italiani all'estero (CGIE) riferita all'anno 2008 con proiezione triennale per il periodo dal 2009 al 2011 (Doc. CXLIX, n. 1). Nel corso della seduta il presidente del Comitato On. Marco Zacchera si è anche soffermato sullo stato dei lavori, allora al Senato, per la riforma della rappresentanza dei cittadini italiani residenti all'estero. Con specifico riferimento al Consiglio generale degli italiani all’estero, si ricorda che nell'imminenza della prima assemblea plenaria del CGIE del 2010, il Comitato permanente sugli italiani all’estero ha ascoltato comunicazioni del proprio presidente (seduta del 21 aprile 2010): analoga attività il Comitato ha svolto l'8 giugno 2011 in ordine alla prima riunione plenaria del CGIE del 2011.
Nella seduta del 18 novembre 2010 la Commissione Esteri ha poi esaminato uno schema (Atto n. 282) di Decreto legislativo recante ordinamento e funzioni degli uffici consolari, formulando a beneficio della Commissione bicamerale per la semplificazione (sedute del 3 e del 24 novembre 2010) alcuni rilievi: in particolare, la Commissione Esteri ha richiamato l’attenzione sull’importanza delle funzioni consolari per l’anagrafe degli italiani all’estero, con effetti decisivi sul voto dei nostri connazionali; nonché sulla necessità di accelerare l’informatizzazione dei processi amministrativi a carico dei Consolati italiani, che sono di grande importanza per le nostre comunità residenti all’estero.
Nuovamente sul tema della ristrutturazione delle rete degli uffici all’estero del MAE la Commissione Esteri, nella seduta del 26 luglio 2011, ha iniziato la discussione della risoluzione 7-00638 dell’On. Narducci. Peraltro una specifica realtà, quella dell’importante funzione che svolge il Consolato italiano di Rosario (Argentina), era stata oggetto il 7 luglio 2011 della discussione della risoluzione 7-00602 dell’On. Angeli, al termine della quale la Commissione Esteri ha approvato la risoluzione 8-00131.
Sulle procedure per il voto degli italiani all'estero si segnala che nella seduta del 26 settembre 2011 la Camera ha avviato la discussione delle mozioni Garavini ed altri n. 1-00655, Di Biagio ed altri n. 1-00663 e Zacchera ed altri n. 1-00672, concernenti iniziative alla luce delle vicende delle ultime consultazioni referendarie: il 3 novembre 2011 si è conclusa la procedura, con l’approvazione di tutte le mozioni sottoposte al voto. I documenti impegnano il Governo, anzitutto, a un approfondito resoconto alle Camere – anche mediante apposita indagine in loco – sull’andamento del voto all’estero nelle ultime consultazioni referendarie, prevedendo nel contempo le opportune modifiche alla normativa in vigore, onde assicurare nelle prossime consultazioni un livello di esercizio del diritto costituzionale di voto all’estero pari a quello garantito nel territorio nazionale. Le mozioni impegnano inoltre l’esecutivo a superare finalmente il divario tra i dati dell’Anagrafe degli italiani all’estero e quelli degli schedari consolari.
Il 24 ottobre e l'8 novembre 2012 le Commissione Esteri riunite di Camera e Senato hanno svolto l’audizione del nuovo segretario generale della Farnesina, Ambasciatore Michele Valensise, nel corso delle quali anche le questioni relative agli italiani all’estero hanno avuto debita attenzione, soprattutto in rapporto ai profili delle attività a loro favore poste in essere dalla rete diplomatico-consolare e dagli appositi uffici del Ministero degli Affari esteri. Proprio il direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie del MAE, ministro Cristina Ravaglia, veniva ascoltata dal competente Comitato permanente della Commissione Esteri nella seduta del 19 dicembre, nell’ambito della quale il medesimo Comitato procedeva altresì ad esaminare ed approvare uno schema di relazione sulla propria attività nella XVI Legislatura.
Si ricordano infine due indagini conoscitive con importanti riflessi sulle tematiche di interesse degli italiani all'estero, e precisamente l’indagine conoscitiva sulla promozione della cultura e della lingua italiana all'estero, deliberata dalle Commissioni Riunite Esteri e Cultura della Camera in data 8 febbraio 2011, e indagine conoscitiva sulla riorganizzazione della rete diplomatico-consolare e sull'adeguatezza e sull'utilizzo delle dotazioni organiche e di bilancio del Ministero degli affari esteri, condotta congiuntamente dalle Commissioni Esteri dei due rami del Parlamento: nessuna delle due indagini conoscitive si è conclusa prima della fine della Legislatura.
OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
Nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla promozione della cultura e della lingua italiana all'estero, le Commissioni riunite Esteri e Cultura di Montecitorio hanno svolto tra l’altro l’audizione di qualificati esponenti stranieri nel settore della diffusione dei rispettivi patrimoni culturali e linguistici all’estero: si è trattato per l’esattezza della direttrice del British Council di Roma, dott.ssa Christine Melia e del direttore dell’ Institut Français della nostra capitale, consigliere Jean-Marc Séré-Charlet (seduta del 15 marzo 2012), nonché della direttrice del Goethe Institut di Roma, dott.ssa Susanne Hoehn (seduta del 14 novembre 2012) e del direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, prof. Sergio Rodriguez Lopez-Ros (seduta del 18 dicembre 2012).
La direttrice del British Council ha evidenziato come l’istituzione, operante dal 1934, abbia come base giuridica uno Statuto Reale (Royal Charter): il British Council, presente in Italia dal 1945, è un ente pubblico non ministeriale cui è stato ufficialmente conferito il titolo di ente britannico ufficiale per le relazioni culturali. Nel 1951 il British Council ha sottoscritto una convenzione culturale con il Governo italiano. L'istituto riceve il finanziamento pubblico di base dal ministero britannico degli affari esteri, e ciò consente al British Council di essere presente in 110 paesi nel mondo. Tuttavia, la maggior parte delle spese dell'istituto viene coperta attraverso l'erogazione di servizi educativi e le attività di insegnamento della lingua inglese: nel 2010, ad esempio, solo il 28% dei costi totali (equivalenti a circa 826 milioni di euro) delle relazioni culturali è stato coperto dal finanziamento pubblico, con un trend di ulteriore riduzione che stima la percentuale di copertura pubblica al 15% nel 2015. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che la moderata crescita, nell'ultimo trentennio, del finanziamento pubblico è stata di gran lunga sopravanzata dal raddoppio dei proventi dei corsi gestiti dall’istituto. Inoltre, anche nel Regno Unito è prevista una serie di riduzioni dei finanziamenti a favore della diffusione culturale, che già hanno provocato tagli di personale, prevalentemente nel Regno Unito.
Il British Council è retto da una Presidenza e da un Comitato indipendente di amministratori fiduciari esterni, che sono responsabili della direzione strategica in tutto il mondo e che lavorano con gli alti dirigenti che formano il Comitato esecutivo: questo Comitato esecutivo opera attraverso otto dirigenti regionali, in corrispondenza di altrettante suddivisioni del mondo. Il British Council si avvale dell’opera di circa 7.000 dipendenti, dei quali il 15% opera nel territorio del Regno Unito, mentre tutto il resto è impegnato all’estero, ove in posizione preponderante si trova il personale assunto localmente.
Nell’attività del British Council predomina ovviamente l’insegnamento della lingua inglese, ma accanto ad esso vengono diffusi rilevanti livelli di informazione sul sistema di istruzione e sugli aspetti della società britannica. L’istituto è perfettamente consapevole dell’importanza strategica che la diffusione più vasta possibile dell’inglese può rappresentare anche per i paesi in via di sviluppo e le loro future élites. A tale scopo si cerca di sensibilizzare le autorità britanniche sull’effetto moltiplicatore che proprio la spesa per espandere la conoscenza dell’inglese rappresenta per l’economia del paese.
Il direttore dell’Institut Français ha evidenziato come la diplomazia culturale francese sia da lungo tempo elemento essenziale della diplomazia in generale, ricordando anche che negli ultimi tre anni è stata attuata una riforma, in considerazione del costante calo dei finanziamenti per l’azione culturale francese all’estero e della relativa dispersione degli istituti e centri culturali francesi nel mondo. La riforma è consistita nella fusione della rete degli istituti e centri culturali presenti ciascun paese con i servizi culturali facenti direttamente capo alle ambasciate francesi in loco, con indubbi effetti di razionalizzazione, nonché nella creazione a Parigi di due grandi enti pubblici preposti alla politica culturale esterna, e dotati di grande autonomia nella gestione dei compiti loro affidati dall’amministrazione centrale del Quay d’Orsay - si tratta dell’Institut Français e di CampusFrance, che si sono aggiunti all’Agenzia per l’insegnamento del francese all’estero, già esistente. L’Institut Français è in pratica l’operatore unico del Ministero degli esteri in campo culturale, mentre CampusFrance è stato istituito allo scopo di accrescere la mobilità degli studenti stranieri verso la Francia di quelli francesi verso l’estero. Per quanto concerne l’Agenzia per l’insegnamento del francese all’estero, questa esiste dal 1990, ed è responsabile della scolarizzazione di circa 300.000 studenti nel mondo, solo un terzo dei quali francesi, ponendosi quale potente fattore di promozione della cultura nazionale.
Il direttore ha altresì evidenziato che, assai più che nel Regno Unito, in Francia la diplomazia culturale è imperniata sull’azione promotrice dello Stato, che senza la costituzione di particolari strutture vede a funzione centrale del Ministero degli esteri, cui vengono associati specialmente il dicastero della cultura e della comunicazione e gli enti culturali pubblici – quali ad esempio il Louvre, la Comédie Française, l’Opéra di Parigi. A livello inferiore, ma pur sempre in ambito pubblico, si pongono l’Institut Français e CampusFrance. La rete all’estero comprende anzitutto il servizio di azione culturale in ciascun paese sede di ambasciata francese – quindi in 160 paesi -, accanto a 130 istituzioni che prima della ricordata riforma erano autonome (quali i centri culturali francesi). Vi è poi il fenomeno tipico delle cosiddette Alliances Françaises, che sono 1.075 in 134 paesi del mondo. Ciascuna Alliance Française è un'associazione che deriva da iniziative locali spontanee di amici della Francia e/o cultori del francese, il cui statuto giuridico varia secondo il diritto locale. Le prime Alliances Françaises risalgono addirittura al 1880, e in Italia ne esistono 42. Le Alliances Françaises più importanti offrono un'intera gamma di iniziative culturali, ma tutte senza eccezione tengono corsi di francese rilasciando i relativi attestati. Negli ultimi tempi la tendenza è comunque quella di far confluire anche le Alliances Françaises in qualche modo sotto la direzione delle ambasciate francesi in loco. Esistono poi 27 centri di ricerca francesi nel mondo, che dipendono quasi tutti dal Ministero della ricerca e dell'università di Parigi. L'unico ente pubblico francese all'estero che non fa capo al Quay d’Orsay è in Italia: si tratta dell'Accademia di Francia di Villa Medici a Roma, che dispone di proprie regole e di una storica propria vocazione, in base alla quale vengono accolti giovani artisti francesi ma anche stranieri. Il personale della promozione culturale francese – ad eccezione di quello facente capo all'Agenzia per l'insegnamento del francese all'estero – assomma a quasi 11.000 unità, delle quali solo 800 distaccate dal territorio metropolitano francese. L'impostazione di fondo della promozione culturale francese ha come priorità l'Europa, anche in chiave di rafforzamento dell'unità del nostro Continente: tuttavia, buona parte dell'azione culturale del Quay d’Orsay si rivolge ai paesi in via di sviluppo, particolarmente quelli africani, anche in considerazione dell'importante passato coloniale della Francia in loco.
Per quanto riguarda il bilancio della promozione culturale francese all'estero, esso afferisce ad un apposito Programma di finanza pubblica, a carico del quale nel 2011 risultavano 760 milioni di euro: di questi 50 milioni vanno attribuiti ai costi di gestione, mentre la cooperazione culturale in senso stretto assorbe 90 milioni, e 100 milioni vanno alla promozione e alla ricerca. Infine, l'Agenzia per l'insegnamento del francese all'estero assorbe 420 milioni. Comune a tutte le destinazioni è lo stanziamento di 85 milioni per le spese di personale. Il tasso di autofinanziamento si aggira intorno al 50%, a riprova del ruolo rilevante dello Stato nella promozione culturale francese all’estero.
L'audizione della direttrice del Goethe Institut ha posto in luce lo statuto di carattere privato e senza fini di lucro dell'Istituto, che non è una struttura governativa pur essendo l'istituzione culturale ufficiale della Repubblica federale di Germania: la mancanza di legami di dipendenza con la burocrazia statale tedesca è legata alla storia della Germania, e in particolare alla scelta, nel Secondo Dopoguerra, di assicurare alla cultura uno statuto di indipendenza dal potere costituito. La Repubblica federale ha stipulato nel 1976 un contratto-quadro con il Goethe Institut, con tre obiettivi: anzitutto la promozione della lingua tedesca, e poi il dialogo interculturale e la promozione culturale, che includono naturalmente l'informazione sull'attuale vita politica e sociale tedesca.
La sede centrale dell'Istituto è nella città di Monaco di Baviera: la prima sede all'estero fu fondata già nel 1952 ad Atene: complessivamente il Goethe Institut possiede 156 sedi in 93 paesi, mentre 13 sono gli Istituti sul territorio nazionale, che però sono occupati quasi esclusivamente nello svolgimento dei corsi di lingua e nella relativa certificazione, in quanto, non essendo sovvenzionati dallo Stato tedesco, hanno difficoltà a promuovere iniziative culturali. Su 3.000 collaboratori complessivi dell'Istituto, soltanto 250 sono distaccati dalla Germania: ad esempio in Italia vi sono solo due collaboratori distaccati, mentre tutti i restanti hanno contratti di diritto italiano. Il successo del Goethe Institut è tale che nel 2011 ha potuto dare vita, nel contesto della propria rete, a circa 8.000 manifestazioni culturali, raggiungendo quasi 37 milioni di persone. Naturalmente anche il Goethe Institut si serve ormai ampiamente della Rete Internet. Tra l'altro, dopo il 1989 il Goethe Institut si è diffuso anche nei paesi ex comunisti, in precedenza ospitanti le sedi del Herder Institut della Germania orientale.
Per quanto concerne le questioni di bilancio, le 150 sedi del Goethe Institut ricevono complessivamente 218 milioni di euro dallo Stato tedesco, mentre circa 103 milioni sono generati dall'autofinanziamento della rete degli Istituti, attraverso i corsi di lingua e le sponsorizzazioni.
Per quanto concerne l'Italia, la rete dell'Istituto comprende sette sedi, le quali, dopo la razionalizzazione conseguente ai tagli che anche in Germania hanno colpito il settore della promozione culturale, vedono due Istituti principali a Roma e Milano, e cinque sedi minori a Genova, Trieste, Palermo, Napoli e Torino - si ricordi però che la sede di Torino è stata la seconda sede all'estero, dopo quella di Atene, nella storia del Goethe Institut. La ristrutturazione delle sedi italiane si inquadra in quella più complessiva che ha riguardato l'intera Europa, poiché il mutamento dei tempi ha indotto le autorità tedesche a investire sempre più nel Medio Oriente, in Asia, nei paesi ex comunisti.
In ogni modo, a giudizio della direttrice del Goethe Institut, l'importanza della lingua tedesca è sottovalutata in Italia, dove soltanto 400.000 allievi studiano il tedesco nelle scuole: da questo punto di vista, l'Istituto è attivo anche nella sensibilizzazione dei dirigenti scolastici e delle relative istituzioni a favore di una maggiore diffusione del tedesco nel nostro paese, collegandola anche a maggiori opportunità di lavoro, mediante gli scambi tra scuola e imprese che sempre più l'Istituto si sforza di includere nei propri programmi.
Il direttore dell'Istituto Cervantes ha aperto la propria audizione ricordando come vi siano oggi al mondo più di 500 milioni di ispanofoni, e dunque la Spagna trovi nella diffusione della lingua uno dei principali vettori della propria promozione culturale all'estero. Lo spagnolo si annovera al terzo posto tra le lingue parlate al mondo dopo cinese e inglese, e al secondo posto tra quelle più studiate dopo l'inglese, come anche, sempre dopo l’inglese, nell'ambito economico.
L'Istituto Cervantes è stato creato nel 1991 e risulta essere un organismo ufficiale affidato al Ministero degli affari esteri, con il rango di segreteria di Stato: l'Istituto tuttavia, nell'adempimento della proprie funzioni, si coordina con il Ministero dell'educazione, della cultura e dello sport.
L’Istituto Cervantes si articola in tre tipi di sedi, ovvero i centri, con presenza didattica e culturale in sede propria; le aule, ovvero sedi piccole normalmente ospitate da un'università e aventi come referente un insegnante; le estensioni, cioè le sedi decentrate dipendenti da un centro ma situate in altra località. L'Istituto Cervantes opera inoltre con un sistema di accreditamento di centri didattici e specializzati che ha riconosciuto oltre 150 di essi, che organizzano corsi di spagnolo in tutto il mondo.
L'organigramma dell'Istituto Cervantes comprende un Comitato presieduto dal Re di Spagna, e formato dal Presidente del Governo quale presidente esecutivo, e da una serie di figure nominate tra rappresentanti di spicco della cultura spagnola e ispano-americana. A livello maggiormente operativo si trova il Consiglio di amministrazione, che approva i piani strategici dell’Istituto Cervantes: esso include i rappresentanti di tre Ministeri, ovvero quello degli affari esteri e della cooperazione, quello dell'istruzione, della cultura e dello sport, e quello delle finanze. La gestione quotidiana è poi svolta da un direttore che ha la qualifica di segretario di Stato, e da un segretario generale con la qualifica di sottosegretario, coadiuvati da sei direttori di area. Ciascun Istituto Cervantes a livello locale ha un direttore che gode dello status diplomatico e si avvale di un responsabile amministrativo, di un responsabile didattico, di un responsabile culturale e di un responsabile della biblioteca. I direttori di ciascun centro a livello locale sono autonomi e riferiscono solamente al segretario generale.
L'organico dell'istituzione include attualmente 1.144 persone, di cui 882 impiegate nelle sedi all'estero: tutto questo personale viene assunto per pubblico concorso e con contratti statali a tempo indeterminato, ad eccezione dei dirigenti, di nomina governativa. Lo staff viene poi integrato da collaboratori assunti a progetto in base al diritto locale dei vari paesi.
Una parte rilevante dell'attività dell'Istituto Cervantes la certificazione del livello di conoscenza dello spagnolo, in base al diploma di spagnolo come lingua straniera (DELE): nell'anno accademico precedente ne sono stati rilasciati 65.000, da 700 centri di esame in 110 diversi paesi.
Il secondo ambito principale di lavoro dell’Istituto Cervantes è quello culturale, attraverso l'organizzazione di mostre, concerti, proiezioni cinematografiche e conferenze: non va poi dimenticata anche l'organizzazione di convegni per specialisti e per un pubblico generale. E’ stato in particolare ricordato come l’Istituto Cervantes risulti il primo distributore di cinema in lingua spagnola, avendo organizzato nel solo 2012 più di 3.000 proiezioni. Più in generale, emerge come l’Istituto sia il primo partner dell'industria culturale spagnola nel suo sforzo di diffusione all'estero.
Per quanto concerne la presenza in Italia, l’Istituto Cervantes è nel nostro paese dal 1992: la sede principale è quella di Roma, e vi sono poi sedi a Milano, Napoli e Palermo. Le quattro sedi agiscono sotto la supervisione dell'ambasciatore spagnolo in Italia e in una stretta collaborazione con le altre ambasciate ispanoamericane, nonché con l'Istituto italo-latinoamericano. Nell’anno accademico concluso si è registrato un totale di 6.180 iscrizioni ai corsi dell’Istituto Cervantes, tenuti da 121 docenti. L’attività culturale in Italia ha registrato, nell'anno accademico precedente, 337 attività, con la partecipazione di oltre 72.000 persone. Non vanno poi dimenticati gli accordi sottoscritti dall'Istituto con il Teatro dell'Opera e l'Accademia nazionale di Santa Cecilia, né tantomeno il ruolo che l'Istituto riveste nella diffusione in Italia anche delle tre lingue co-ufficiali della Spagna, ovvero il catalano, il basco e il gallego.
Infine, per quanto concerne le questioni di bilancio, nel 2012 l’Istituto Cervantes ha potuto contare su 97 milioni di euro, in parte soverchiante (83%) provenienti da finanziamento statale, mentre la restante quota è derivata dalle attività poste in essere dai vari centri. L’Istituto Cervantes, analogamente a quanto visto in precedenza per gli altri Istituti, offre al mondo imprenditoriale l'opportunità di sostenere le attività culturali spagnole, attraverso patrocini e sponsorizzazioni, nei quali già più di 2.300 enti risultano impegnati, contribuendo a compensare in parte il decremento dei contributi statali verificatosi anche in Spagna.
La disciplina dell'attività degli istituti italiani di cultura all'estero e degli interventi per la promozione della cultura e della lingua italiana è posta dalla legge 22 dicembre 1990, n. 401: le finalità della normativa sono fissate dall’articolo 2, in base al quale “la Repubblica promuove la diffusione all'estero della cultura e della lingua italiana onde contribuire allo sviluppo della reciproca conoscenza fra i popoli, nel quadro più generale dei rapporti tra il nostro Paese e la comunità degli altri Stati”.
La responsabilità istituzionale per il perseguimento di tali finalità è posta in capo al Ministero degli affari esteri, ferme restando le competenze previste dalle leggi vigenti per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e per le singole Amministrazioni dello Stato.
Occorre segnalare che il recente DPR 19 maggio 2010, n. 95, di riorganizzazione del dicastero, a norma dell'articolo 74 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) ha operato una profonda ristrutturazione dell’articolazione del Ministero degli Affari esteri, che ha comportato tra l’altro la soppressione della Direzione generale per la promozione culturale e la creazione di una Direzione generale per la promozione del sistema paese: a norma dell’art. 5, comma 5, la Direzione cura, tra l’altro, “la diffusione della lingua, della cultura, della scienza, della tecnologia e della creatività italiane all’estero, anche attraverso il coordinamento e la gestione della rete degli istituti di cultura e degli addetti scientifici”.
Per quanto concerne le funzioni specifiche del Ministero degli affari esteri, delineate all’art. 3 della legge n. 401/1990, esse consistono anzitutto nella definizione degli accordi sugli scambi culturali con gli altri Stati, e nella cura della loro attuazione. Il Ministero, inoltre, promuove il coordinamento da un lato delle Amministrazioni dello Stato e degli enti e istituzioni pubblici, e dall'altro delle associazioni, fondazioni e privati, al fine della massimizzazione della promozione culturale dell'Italia all'estero. Il Ministero provvede altresì all'istituzione ed eventuale soppressione degli Istituti italiani di cultura all'estero, la cui attività è sottoposta all’indirizzo e alla vigilanza nell'Amministrazione degli Affari esteri tramite le Rappresentanze diplomatiche e gli Uffici consolari.
La Commissione nazionale per la promozione della cultura italiana all’estero
Per quanto concerne gli obiettivi e gli indirizzi della promozione della cultura e della lingua italiana all'estero, essi sono definiti dal Ministero degli Affari esteri, sentita la Commissione nazionale per la promozione della cultura italiana all'estero (vedi infra), alla quale compete anche esaminare in sede consultiva i progetti proposti in materia di diffusione della cultura italiana all'estero da associazioni, fondazioni e privati.
Il Ministero degli Affari esteri, infine, cura la raccolta e la diffusione dei dati relativi alla vita culturale italiana nel suo complesso, avvalendosi delle informazioni che al riguardo le Amministrazioni statali, nonché gli enti ed istituzioni pubblici sono tenuti a trasmettere – uguale obbligo è posto in capo ad associazioni, fondazioni e privati; e presenta annualmente al Parlamento una relazione sull'attività svolta per la diffusione della cultura italiana all'estero, congiuntamente al rapporto predisposto dalla citata Commissione nazionale per la promozione della cultura italiana all'estero (L’ultima relazione, riferita all’anno 2009, è stata trasmessa al Parlamento il 18 gennaio 2011 - Doc. LXXX, n. 3).
La Commissione – il cui assetto è disciplinato dagli artt. 4 e 5 della legge n. 401/1990 - è istituita presso il Ministero degli Affari esteri, con diverse funzioni, tra le quali:
a) proporre gli indirizzi generali della promozione e diffusione all'estero della cultura e della lingua italiana e dello sviluppo della cooperazione culturale internazionale;
b) esprimere pareri - come si è visto - sugli obiettivi programmatici in materia del Ministero degli Affari esteri, di altre Amministrazioni statali, di Regioni ed enti pubblici vari, come anche su iniziative proposte da associazioni, fondazioni e privati, ed eventualmente sulle convenzioni da questi stipulate con il MAE;
c) formulare proposte di iniziativa su specifici settori di attività o particolari aree geografiche, soprattutto quelle con forte presenza di comunità italiane all'estero;
d) formulare indicazioni programmatiche per cooperare alla preparazione delle conferenze periodiche degli Istituti italiani di cultura all'estero (vedi infra);
e) predisporre annualmente un rapporto sulla propria attività, da trasmettere al Ministro degli Affari Esteri che, come già accennato, lo acclude alla relazione annuale da presentare in Parlamento.
La Commissione è nominata con decreto del Ministro degli Affari esteri per una durata triennale: il Ministro - o un Sottosegretario da lui delegato - la presiede, mentre i restanti componenti della Commissione sono assortiti tra eminenti personalità del mondo culturale e scientifico, rappresentanti del Consiglio generale degli italiani all'estero nonché della Conferenza permanente Stato-Regioni, alti funzionari ministeriali competenti, nei vari Dicasteri, per le attività di promozione culturale. Nella Commissione siedono inoltre un rappresentante della Rai e il presidente della Società Dante Alighieri, ovvero un suo delegato.
Gli Istituti italiani di cultura all’estero
La legge n. 401/1990, all’art. 7, prevede che gli Istituti italiani di cultura all'estero siano istituiti nelle capitali e nelle principali città degli Stati con i quali l'Italia intrattiene relazioni diplomatiche: come sopra richiamato, gli Istituti sono istituiti e soppressi con decreto del Ministro degli Affari Esteri, e nei limiti delle risorse finanziarie previste nell'apposito capitolo di bilancio del Ministero. Pur sottoposti alla funzioni di vigilanza dell'Amministrazione degli affari esteri, gli Istituti godono di autonomia operativa e finanziaria, con controllo consuntivo della Corte dei conti sui bilanci annuali.
Un regolamento emanato con decreto del Ministro degli Affari Esteri, di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze e con il Ministro della Funzione pubblica, detta i criteri generali dell'organizzazione e del funzionamento degli Istituti - si tratta in effetti del D.M. 27 aprile 1995, n. 392, che reca il regolamento sull'organizzazione, il funzionamento e la gestione finanziaria ed economico-patrimoniale degli Istituti italiani di cultura all'estero.
Tale regolamento prevede tra l'altro l'obbligo per gli Istituti di trasmettere annualmente al Ministero degli Affari esteri e al Ministero dell'Economia e delle Finanze, tramite la Rappresentanza diplomatica o l’Ufficio consolare territorialmente competente, il conto consuntivo, con acclusa una relazione sulle attività poste in essere.
La dotazione finanziaria di ciascun Istituto è stabilita dal Ministro degli Affari Esteri mediante ripartizione dell'apposito stanziamento di bilancio annuale. Gli Istituti di cultura, in vista di specifiche attività o settori di studio e ricerca, incluse quelle relative all'insegnamento della lingua italiana, possono creare proprie sezioni distaccate a valere sui fondi già stanziati per l'Istituto fondatore: ciò è tuttavia possibile agli Istituti solo dopo l'autorizzazione del Ministro degli Affari esteri di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze, sentita l'autorità diplomatica competente per territorio. La gestione finanziaria e patrimoniale delle sezioni distaccate è responsabilità dei Direttori degli Istituti fondatori.
Presso ogni Istituto di cultura è istituito un fondo scorta per i pagamenti e le spese necessarie al funzionamento dell'Istituto medesimo, il cui iniziale ammontare è stabilito con decreto del Ministro degli Affari Esteri di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze, che valutano le esigenze dei vari Istituti anche sulla base dei consuntivi degli anni precedenti. Il citato regolamento adottato con D.M 27 aprile 1995, n. 392, disciplina anche le modalità di gestione dei fondi scorta e del loro adeguamento mediante utilizzo delle entrate ordinarie degli Istituti.
Ai sensi dell’art. 8 della richiamata legge n. 401/1990, tra le principali funzioni degli Istituti italiani di cultura all'estero figurano:
a) stabilire contatti con le istituzioni e personalità del mondo culturale e scientifico del paese ospitante, favorendo tutte le iniziative volte alla conoscenza della cultura italiana e alla collaborazione culturale e scientifica, fornendo anche le relative documentazioni e informazioni;
b) promuovere iniziative, manifestazioni culturali e mostre; sostenere iniziative per lo sviluppo culturale della comunità italiane all'estero, onde agevolare tanto la loro integrazione nel paese ospitante quanto il legame culturale con la madrepatria;
c) assicurare collaborazione a studiosi e studenti italiani nelle loro attività di ricerca e studio all’estero;
d) favorire iniziative per la diffusione della lingua italiana all'estero, anche mediante la collaborazione dei lettori di italiano nelle università del paese ospitante.
È prevista la possibilità (art. 9) di istituire Comitati di collaborazione culturale presso gli Istituti, che contribuiscano alle loro attività - i Direttori degli Istituti formulano le proposte di costituzione dei Comitati e di nomina dei loro componenti, e le sottopongono all'approvazione delle autorità diplomatiche italiane territorialmente competenti. Dei Comitati possono essere chiamati a far parte a titolo onorifico sia esponenti dei paesi ospitanti particolarmente interessati ed esperti nella cultura italiana, sia qualificati esponenti delle comunità italiane in loco.
I Direttori degli Istituti (art. 14) sono nominati, di norma fra il personale direttivo dell'area della promozione culturale, ed acquisito il parere della Commissione nazionale per la promozione della cultura italiana all'estero, con decreto del Ministro degli Affari Esteri, che tiene conto, anche in vista della destinazione geografica, delle competenze relative all'area di riferimento e delle aspirazioni espresse dall'interessato. La funzione di Direttore può essere anche conferita, soprattutto in relazione alle esigenze di particolari sedi, a persone di prestigio culturale e provata competenza in ordine all'organizzazione della promozione culturale (art. 14, comma 6).
Al Direttore competono importanti funzioni (art. 15) come quella di rappresentare l'Istituto, mantenerne i rapporti con l'esterno e recare la responsabilità delle attività da esso svolte, che il Direttore programma e coordina sottostando alle funzioni di indirizzo e vigilanza in capo al Ministero degli Affari esteri.
In particolare, il Direttore di ciascun Istituto mantiene i rapporti con le autorità diplomatiche italiane competenti per territorio, predispone annualmente il programma di attività e dà impulso alle relative iniziative e manifestazioni, si incarica di assicurare adeguate iniziative linguistiche e culturali in riferimento alle comunità italiane in loco, provvede all'organizzazione dei servizi e del personale nonché alla gestione finanziaria e patrimoniale dell'Istituto di competenza, predispone un rapporto annuale sull'attività svolta che verrà inoltrato tramite la Rappresentanza diplomatica o l’Ufficio consolare competente, predispone il bilancio preventivo e consuntivo da sottoporre annualmente al Ministero degli Affari Esteri sempre tramite le competenti autorità diplomatiche.
È previsto altresì che gli organi centrali ed i vari Istituti di cultura possano stipulare convenzioni, nel caso si richiedano specifiche competenze non reperibili presso il personale di ruolo, per l'acquisizione di consulenze da parte di specialisti: ciò potrà avvenire solo per il tempo necessario allo svolgimento di tali attività e nei limiti delle disponibilità di bilancio.
La Società Dante Alighieri e la promozione della lingua italiana all’estero
Per quanto riguarda la promozione della lingua italiana all’estero, un ruolo centrale è quello rivestito dalla Società Dante Alighieri (SDA), sorta nel 1889 per iniziativa di un gruppo di intellettuali guidati da Giosuè Carducci, ed eretta in Ente morale con Regio decreto del 18 luglio 1893, n. 347. Con il decreto-legge 28 maggio 2004, n. 136 (Convertito, con modificazioni, dalla legge 27 luglio 2004, n. 186) è stata assimilata, per struttura e finalità, alle ONLUS.
La missione istituzionale della SDA è la valorizzazione, promozione e diffusione della lingua e della cultura italiana, e per il conseguimento di queste finalità, la Società si avvale dell’opera di oltre 500 Comitati, dei quali più di 400 attivi all’estero nei cinque continenti.
In Italia sono presenti 95 Comitati distribuiti in quasi tutte le province, attraverso i quali la SDA partecipa alle attività intese ad accrescere e ampliare la cultura della nazione e promuove ogni manifestazione rivolta a illustrare l’importanza della diffusione della lingua, della cultura e delle creazioni del genio e del lavoro italiani.
Per mezzo delle 423 sedi estere, diffuse in oltre 60 Stati, la Dante Alighieri istruisce e cura circa 5.900 corsi di lingua e cultura italiane a cui sono iscritti più di 200.000 soci studenti; la Società, inoltre, opera per assicurare la presenza del libro italiano in tutto il mondo attraverso la costituzione e l’aggiornamento di oltre 300 biblioteche con una dotazione libraria di oltre 500.000 volumi di vario genere.
Con riguardo all’attività didattica, in base alla convenzione del 4 novembre 1993, n. 1903 con il Ministero degli Affari esteri, la Società Dante Alighieri opera, tra l’altro, per la certificazione dell’italiano di qualità con un proprio progetto certificato, denominato PLIDA (Progetto Lingua Italiana Dante Alighieri). La certificazione è riconosciuta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca come titolo per l’immatricolazione universitaria a condizioni agevolate per gli studenti stranieri.
Il PLIDA attesta la competenza in italiano come lingua straniera secondo una scala di sei livelli rappresentativi di altrettante fasi del percorso di apprendimento della lingua e corrispondenti a quelli stabiliti dal Consiglio d’Europa. Vengono altresì rilasciate due ulteriori certificazioni: PLIDA Juniores, concepita per gli adolescenti, e PLIDA commerciale, destinata alla valutazione di specifiche competenze linguistico-settoriali. Un’ulteriore attività del PLIDA consiste nell’organizzazione di corsi di aggiornamento per insegnanti di italiano a stranieri.
A fronte, inoltre, della crescente domanda di conoscenza della lingua italiana da parte della popolazione immigrata, la Società Dante Alighieri, accanto ad altre istituzioni con competenza specifica nel settore - in primis la Caritas - ha in corso di progettazione iniziative volte ad agevolare l’inserimento degli stranieri nella società e nel mondo professionale italiano. Tali iniziative fanno seguito ai progetti pilota già realizzati dalla SDA in ordine all’insegnamento della lingua italiana nei Paesi di provenienza di notevoli flussi migratori, quali Tunisia, Moldavia e Sri Lanka.
Nel corso della XVI legislatura l'evoluzione del quadro politico libanese è stata costantemente seguita dal Parlamento, stante la posizione cruciale del paese nello scacchiere mediorientale, crocevia di innumerevoli tensioni e rischi. Attualmente la Comunità internazionale è preoccupata anche dalle possibili ricadute conflitto siriano sugli equilibri libanesi. Beirut è poi fondamentale per la presenza nel suo territorio della missione dell'ONU UNIFIL 2, nella quale il contingente italiano svolge un ruolo di primo piano. Il Libano è stato pertanto oggetto di ripetuti interventi legislativi volti, nell'ambito del rifinanziamento delle missioni militari, anche ad alleviare le condizioni di vita di quelle popolazioni.
Il periodo corrispondente all'inizio della XVI Legislatura vedeva nella situazione libanese un grave stallo istituzionale, con un blocco di oltre sei mesi dell'elezione del nuovo capo dello Stato, che poteva finalmente avvenire il 25 maggio 2008 in Parlamento grazie a un precedente decisivo intervento della Lega Araba sulle fazioni libanesi in contrasto. Nel luglio 2008 veniva poi formato il nuovo governo, guidato ancora da Fuad Siniora, ma nel quale l'opposizione filosiriana manteneva un significativo peso, tale da poter bloccare le decisioni dell'Esecutivo non gradite. Le intese di Doha mediate dalla Lega Araba nel complesso facevano dunque registrare un arretramento nella forza della coalizione antisiriana al potere. Tutto ciò emergeva soprattutto in un immediato miglioramento dei rapporti tra Beirut e Damasco, sottolineato dalla visita ufficiale del nuovo capo dello Stato libanese Suleiman nella capitale siriana alla metà di agosto del 2008.
Le elezioni politiche del 2009 registravano tuttavia una nuova affermazione della “Lista 14 marzo”, coalizione filoccidentale e antisiriana, mentre Hezbollah, e soprattutto il suo fondamentale alleato maronita Michel Aoun, registravano un insuccesso. Cionondimeno, nel contesto di una ripresa dell’influenza siriana sul Libano Saad Hariri incontrava gravi difficoltà nella formazione del nuovo governo, che vedeva finalmente la luce in novembre, dopo che il 7 ottobre il Re saudita e il presidente siriano avevano auspicato, incontrandosi a Damasco, la formazione di un governo di unità nazionale a Beirut. Intanto il riavvicinamento alla Siria - notevole proprio perché avveniva da parte del figlio di Rafik Hariri, che era stato assassinato in un attentato nel 2005 – proseguiva, con la clamorosa visita del sovrano saudita e del presidente siriano Assad a Beirut (fine luglio 2010).
A fronte di questi sviluppi, sul piano internazionale il Libano vedeva già dall’inizio del 2010 riaffacciarsi forti tensioni con Israele, sempre legate ai processi di riarmo del movimento sciita libanese e filoiraniano Hezbollah, che destavano anche preoccupazione negli USA, come palesato a Saad Hariri nella visita di maggio 2010. Circa un mese prima il premier libanese si era recato in visita anche in Italia. In agosto le tensioni israelo-libanesi culminavano in gravi scontri sulla frontiera meridionale del Libano.
Il 2011 segnava l'inizio della fine del governo di Saad Hariri: infatti Hezbollah - che già nell'estate precedente aveva minacciato gravi conseguenze in caso di messa in stato di accusa di propri esponenti da parte del Tribunale internazionale dell'ONU sull'assassinio di Rafik Hariri - a seguito del deposito di un atto d'accusa preliminare che incolpava proprio esponenti del movimento sciita libanese, accusava il governo di non aver difeso l'autonomia nazionale contro il Tribunale e gli ritirava la fiducia, provocandone pertanto la caduta. Senza nuove elezioni, emergeva subito dopo l’embrione di una nuova maggioranza la quale propriamente rappresentava la vittoria politica di Hezbollah, sulla quale fare perno per un rovesciamento nella leadership di governo. Non a caso Saad Hariri ufficializzava il passaggio del suo movimento all'opposizione, anche se il nuovo governo tardava a formarsi.
Intanto il Libano doveva far fronte alle prime fasi della gravissima crisi siriana e più generale agli effetti della cosiddetta Primavera araba: in una prima fase il paese si manteneva ben isolato dalle contestazioni e dagli scontri che ormai divampavano nella vicina Siria.
Il 14 giugno 2011 veniva presentato il nuovo governo libanese, con un ruolo centrale di Hezbollah e del suo alleato maronita Michel Aoun: il nuovo Esecutivo dovuto subito confrontarsi con la pubblicazione dell'atto d'accusa contro quattro esponenti di Hezbollah per l'omicidio di Rafik Hariri da parte del Tribunale delle Nazioni Unite. Le diverse anime del nuovo governo libanese sono state concordi nello sminuire le accuse con diverse argomentazioni, confermando una loro forte coesione. Inoltre, la matrice del nuovo esecutivo non poteva non avere riflessi nell'atteggiamento libanese verso la crisi siriana, rispetto alla quale si cercava da parte libanese di attenuare le misure adottate a livello internazionale, attribuendo la rivolta siriana – come ha fatto il presidente Assad - a un complotto di forze straniere.
Con il 2012 il coinvolgimento indiretto del Libano nella tragica crisi siriana aumentava, soprattutto a partire dal mese di aprile, e segnatamente con combattimenti nella regione settentrionale di Tripoli, ove si sono più volte affrontate comunità alawite (filosiriane) e sunnite. Va però riconosciuto l'atteggiamento di equilibrio di Hezbollah, pur fortemente alleato con la Siria, nell'impedire lo slittamente del Libano in una logica di guerra civile che, per il carattere estremamente articolato del panorama politico e confessionale libanese, assumerebbe nuovamente caratteri catastrofici come nel tragico periodo 1975-1990. Il Libano veniva comunque poi investito anche da numerose ondate di profughi siriani in fuga. Su questo problema, e più in generale sulla necessità di una soluzione praticabile e concordata per la pacificazione della Siria si soffermava papa Benedetto XVI nella sua visita di metà settembre in Libano.
L'ultimo episodio di grande tensione si verificava il 19 ottobre 2012 in occasione dell'attentato che uccideva il capo dell'intelligence della polizia libanese, generale Hassan. Nonostante scontri anche gravi in tutto il paese e in alcuni luoghi istituzionali, come il palazzo del primo ministro, di cui i manifestanti chiedevano le dimissioni, il paese è sembrato mantenere il proprio equilibrio, con il presidente Suleiman che ha impedito la fine dell'esecutivo in carica rifiutando le dimissioni pur vagheggiate dal premier Miqati, in ciò confortato dagli orientamenti prevalenti della Comunità internazionale. Inoltre, la sostanziale tenuta dello scenario politico ha consentito un forte intervento dell'esercito per impedire il dilagare degli scontri tra diverse fazioni armate.
Se il movimento Hezbollah è uscito rafforzato dalla nuova crisi interna libanese, evidenziando dosi di equilibrio e di realismo politico, la corrente sciita potrebbe tuttavia incontrare le più grandi difficoltà sul piano internazionale, per il rischio, che allarma soprattutto Israele e gli Stati Uniti, che riceva massicce forniture di armamenti anche letali che il regime siriano potrebbe decidere di spostare in previsione di un crollo interno. In tal senso, un nuovo scenario “caldo” sarebbe il confine siro-libanese, sul quale sarebbero già in corso attività di contrasto da parte di Israele. Proprio Israele, inoltre, dopo il tragico attentato contro alcuni turisti israeliani che si trovavano in Bulgaria (luglio 2012), aveva indicato Hezbollah quale mandante dell'azione suicida: il 5 febbraio 2013 il Ministro dell'interno della Bulgaria ha riferito che in effetti due delle tre persone identificate come autori dell’attentato sarebbero appartenenti a Hezbollah. Tutto ciò ha sollevato una nuova ondata internazionale contro il movimento sciita libanese, mentre anche il premier Miqati si è mantenuto su un atteggiamento prudente e disposto a collaborare per l'accertamento dei fatti.
Con riferimento all’attività legislativa, si segnala che il Parlamento ha esaminato a più riprese, nella corrente Legislatura, provvedimenti per la proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali, tra le quali alcune riguardano l’area mediorientale: si segnala da ultimo il decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227 – convertito con modificazioni dalla legge 1° febbraio 2013, n. 12 -, che estende l'impegno italiano nelle missioni internazionali al 30 settembre 2013.
I richiamati provvedimenti hanno provveduto, tra l'altro, a rifinanziare la presenza del contingente militare italiano nell’ambito della missione delle Nazioni Unite UNIFIL in Libano. Con riferimento al Libano, inoltre, i provvedimenti hanno previsto interventi per venire incontro a esigenze di prima necessità della popolazione, anche mediante il ripristino dei servizi essenziali. Il territorio libanese, in quanto limitrofo all’area di crisi politica e umanitaria siriana, può essere inoltre interessato dagli interventi di cooperazione cui al comma 2, articolo 5 del citato D.L. 227/2012, in particolare da quelli rivolti ai profughi nei Paesi confinanti.
Il teatro libanese è stato più volte al centro dell’attività non legislativa delle Camere: ad esempio, ciò è avvenuto in occasione delle periodiche comunicazioni del Governo - sulle missioni militari internazionali cui l’Italia partecipa, in ragione della presenza del nostro contingente in territorio libanese nell’ambito della missione delle Nazioni Unite UNIFIL 2, che nell’estate 2006 contribuì a porre fine al breve ma aspro conflitto israelo-libanese. L’ultima occasione è stata quella del 16 gennaio 2013, quando i Ministri degli Esteri e della Difesa hanno riferito alle omologhe Commissioni riunite dei due rami del Parlamento.
Del resto, il Libano è stato sin dall’inizio della XVI Legislatura argomento rilevante: basti pensare alla seduta del 27 maggio 2008 dell’Assemblea del Senato, ove si è svolta un’informativa del Ministro degli Affari esteri sui recenti sviluppi della situazione in Libano; nonché alla seduta del 17 settembre 2008, quando il Libano è stato considerato, sempre nell’Assemblea di Palazzo Madama, tra i principali temi di politica internazionale oggetto di un’altra informativa del Capo della nostra diplomazia.
Vanno altresì ricordate le comunicazioni rese il 1° ottobre 2008 dal presidente della Commissione Difesa, on. Cirielli, sulla visita effettuata da una delegazione della Commissione IV il 28 e 29 luglio 2008 al contingente militare italiano operante in Libano nell’ambito della missione UNIFIL.
Il contesto libanese si è poi affacciato anche nel corso dell'approfondimento della situazione dei profughi, assistiti da un'apposita Agenzia delle Nazioni Unite, l'UNRWA, il cui Commissario generale Filippo Grandi è stato ascoltato nell'ambito dell' indagine conoscitiva condotta dal Comitato permanente sui diritti umani della Commissione Affari esteri (seduta del 13 aprile 2010).
Dello scenario libanese la Camera tornava ad occuparsi nella seduta del 4 agosto 2010 dell’Assemblea, con un’informativa urgente del Governo sugli scontri armati del 3 agosto al confine tra Libano e Israele: nel corso del suo intervento il Ministro degli Affari esteri Frattini sottolineava una volta di più il ruolo chiave della missione UNIFIL 2 (cui l’Italia partecipa con 1.900 militari) per prevenire un’ulteriore escalation, pur nel contesto di gravi preoccupazioni per la fragilità degli equilibri nell’intera regione mediorientale, rispetto ai quali rimane fondamentale la prosecuzione di ogni sforzo per la ripresa dei negoziati di pace.
Proprio in riferimento alla missione UNIFIL, nella seduta dell’Assemblea della Camera del 31 maggio 2011 il Ministro della Difesa, On. La Russa, riferiva in ordine agli attentati in Libano e Afghanistan che avevano coinvolto militari italiani; analogo intervento si svolgeva l’8 giugno 2011 a Palazzo Madama.
Da ultimo, il Ministro degli Affari esteri Terzi, presso le Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato, si è soffermato sui profili della situazione libanese, nel quadro della sua audizione sui recenti sviluppi della situazione mediterranea (seduta del 6 giugno 2012).
Fin dal momento della loro adozione da parte dell'ONU (settembre 2000), gli otto Obiettivi del Millennio (MDGs) hanno assunto il ruolo di riferimento universale per lo sviluppo, condiviso da paesi in via di sviluppo e donatori. Le valutazioni circa lo stato di avanzamento effettuate a quattro anni dalla scadenza fissata per la loro realizzazione, hanno evidenziato battute di arresto e i rischi rappresentati dalla crisi economica globale e dagli effetti dei cambiamenti climatici. Il Rapporto 2012 sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio riferisce che tre importanti target sono stati raggiunti, tra i quali quello del dimezzamento dell'estrema povertà, a riprova della correttezza dell'approccio contenuto negli MDGs.Il raggiungimento di altri obiettivi è tuttora incerto e difficoltoso, possibile solo se i governi non si discosteranno dagli impegni assunti.
Nel corso della XVI Legislatura è stato costituito – all’interno della Commissione affari esteri della Camera - un Comitato permanente, presieduto dall'on. Enrico Pianetta, dedicato a seguire da vicino i progressi verso il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Il Comitato aveva – fra gli altri – il compito di rendere più incisiva l’azione del Parlamento nei confronti del governo italiano e delle organizzazioni internazionali per il rafforzamento delle politiche di contrasto alla povertà. L’Italia, infatti, ha fatto propri gli Obiettivi del Millennio quali linee guida della propria politica di cooperazione allo sviluppo e si è particolarmente adoperata per la realizzazione dell’Obiettivo 6 (lotta ad AIDS, e altre malattie) destinando rilevanti risorse al Fondo Globale per la lotta all'AIDS alla TBC e alla malaria.
L'Indagine conoscitiva condotta dal Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio era diretta ad approfondire l'attività posta in essere dalla comunità internazionale, ed in particolare dal Governo italiano, per il raggiungimento degli otto Obiettivi.
La prima fase dell'indagine si è conclusa il 24 giugno 2009 con l’adozione di un documento intermedio e con un Seminario interparlamentare organizzato dal Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio in collaborazione con la Campagna del Millennio delle Nazioni Unite sul tema “Il ruolo dei Parlamenti nazionali per gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio”.
L'Indagine conoscitiva è terminata il 1° febbraio 2011 con l'approvazione di un Documento Conclusivo (Doc. XVII, n. 12), il cui esame era cominciato il 22 dicembre 2010 e proseguito nella seduta del 25 gennaio 2011
Stante anche il rilevante impegno dell’Italia per la realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, il tema è stato trattato anche al di fuori dell’Indagine conoscitiva, tanto presso il Comitato permanente, quanto in altre sedi.
Le sedute nelle quali si è dibattuto sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio sono riassunte in un’apposita scheda di approfondimento.
Accanto alle attività svolte nel quadro dell'indagine conoscitiva, il Comitato ha svolto altre attività a carattere conoscitivo.
In particolare, il 31 luglio 2008 si è svolta l’audizione dell'Ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, Direttore Generale del Ministero degli affari esteri per la cooperazione politica multilaterale, sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e le priorità dell'Italia in vista della 63ma Sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
L’Ambasciatore Terzi ha ricordato che il Rapporto Onu sugli obiettivi del millennio per il 2007 aveva mostrato come la situazione a metà del percorso verso il 2015 non fosse in generale positiva, soprattutto in molte aree dell'Africa sub sahariana. Terzi ha quindi sottolineato la necessità di un’inversione di tendenza e di un approccio al problema che tenesse in maggiore considerazione la qualità degli aiuti e la ricostruzione dei Paesi falliti, secondo la nuova dottrina del peacebuilding. Importante inoltre, secondo l’ambasciatore Terzi, la costruzione di un partenariato più globale che includa l’elemento della mutual accountability cioè a dire della responsabilità condivisa tra paesi donatori e paesi beneficiari.
Il 2 ottobre 2008 il Comitato permanente sugli obiettivi di sviluppo del millennio ha ascoltato le Comunicazioni del Presidente sugli esiti della Riunione ad alto livello sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, in occasione della 63ma Sessione dell'Assemblea Generale dell'ONU che si è svolta a New York il 25 settembre 2008. L’on. Maran, che aveva preso parte alla Riunione, ha riferito che questa si era articolata nei tre ambiti della lotta alla povertà e alla fame, dell'educazione e salute e della sostenibilità ambientale. La Riunione ad alto livello ha lanciato il Summit per la valutazione dei risultati conseguiti in ciascuno degli otto obiettivi, che si sarebbe svolto nel 2010.
Nelle sedute del 3 giugno 2010 e del 10 giugno 2010 , il Comitato ha esaminato il documento europeo relativo al Piano d'azione in dodici punti a sostegno degli obiettivi di sviluppo del millennio (COM(2010)159 def.) che individua una serie di azioni da mettere in atto per imprimere un’accelerazione volta al conseguimento degli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio, a cinque anni dalla scadenza del 2015. Nel corso del dibattito, il relatore, on. Barbi, ha rilevato che il documento in esame “rappresenta un punto di riferimento politico di grande valore sia nella riflessione in corso presso le istituzioni europee, sia per il Parlamento e il Governo italiani in vista della Riunione ad alto livello sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che si terrà presso le Nazioni Unite dal 20 al 22 settembre 2010 a New York”.
La Commissione esteri della Camera ha approvato, il 29 luglio 2010 , la risoluzione Pianetta n. 8-00085. La risoluzione impegna tra l’altro il governo a delineare un quadro esaustivo degli adempimenti da parte dell'Italia rispetto agli impegni assunti nelle sedi internazionali rispetto alle tematiche connesse agli obiettivi del millennio, per incrementare la mutual accountability anche in vista del Vertice delle Nazioni Unite del 20-22 settembre 2010.
Ancora in tema di impegni assunti, nella seduta del 14 e 15 settembre 2010 l’Assemblea di Montecitorio ha discusso e approvato le mozioni Antonione ed altri n. 1-00430, Pezzotta ed altri n. 1-00431, Lo Monte ed altri n. 1-00432 e Tempestini ed altri n. 1-00433 recanti adempimenti ed iniziative dell'Italia nell'ambito degli Obiettivi di sviluppo del Millennio in vista del summit di settembre 2010 (La mozione Evangelisti ed altri n. 1-00424, non accettata dal governo, è stata respinta).
Dopo lo svolgimento del Vertice Onu del 20-22 settembre, nella seduta del 5 ottobre 2010 , il Comitato permanente sugli Obiettivi di sviluppo del Millennio ha svolto un dibattito sulle comunicazioni del Presidente relative alla missione a New York di una delegazione dello stesso Comitato per presenziare al Millennium Summit (20-22 settembre 2010). Il presidente ha dato conto dei contenuti dei diversi incontri avuti dalla delegazione parlamentare e della intenzione di realizzare un’iniziativa finalizzata a dare visibilità al lavoro di indagine in corso presso la Commissione.
Il Comitato si è poi riunito il 27 settembre 2011 per ascoltare le comunicazioni sulla missione svolta a Varsavia il 26 luglio 2011 per prendere parte al Seminario organizzato dall'Associazione dei parlamentari europei per l'Africa (AWEPA) sul tema «African Development Cooperation Strategies - Lessons from the new EU member States». L’on. Barbi ha sottolineato l’emergere di una nuova visione in materia di cooperazione allo sviluppo dovuta al fatto che il Seminario era organizzato da un paese UE di recente accessione, la Polonia. Tra le conclusioni del Seminario, l’on. Barbi ha citato la convinzione comune sulla necessità di un maggiore coinvolgimento dei parlamenti africani – anche attraverso la loro funzione di monitoraggio e controllo sull'operato dei Governo – per il conseguimento di risultati duraturi in materia di sviluppo e per la realizzazione degli Obiettivi del Millennio.
E’ stato presentato il 2 luglio 2012 a New York il Millennium Development Goals(MDGs) Report 2012 pubblicato a cura delle Nazioni Unite che si basa, come i precedenti, su dati raccolti ed elaborati da Agenzie specializzate delle Nazioni Unite e da un gruppo di esperti internazionali, sotto la direzione del Dipartimento degli Affari economici e sociali del Segretariato delle Nazioni Unite. Il Rapporto mette subito in evidenza che tre importanti target sono stati raggiunti: quello del dimezzamento dell’estrema povertà (raggiunto cinque anni prima della scadenza fissata al 2015), quello del dimezzamento della popolazione che non ha accesso a fonti affidabili di acqua potabile e quello che stabiliva, entro il 2020, il miglioramento delle condizioni di vita di cento milioni di abitanti delle baraccopoli. Il raggiungimento degli altri target viene considerato difficoltoso e tuttavia possibile, ma solo se i governi non si discosteranno dagli impegni assunti.
Come ha affermato il Segretario generale dell’ONU, Ban ki-Moon, nel presentare il nuovo Rapporto, gli ulteriori successi sono legati alla realizzazione dell’Obiettivo n. 8, che mira alla costruzione del partenariato globale per lo sviluppo per raggiungere i goals da 1 a 7. Il Segretario generale ha anche lanciato un monito affinché la crisi economica in atto nel mondo sviluppato, non rallenti o inverta i risultati ottenuti.
Il Rapporto tratteggia ancora uno scenario piuttosto articolato: da un lato è dimostrata la validità della scelta fatta nel 2000 di dare vita al progetto ambizioso degli Obiettivi del Millennio, ma dall’altro i progressi fin qui conseguiti mostrano il permanere di una disuguaglianza - sia sotto il profilo geografico, sia riguardo il grado di realizzazione di alcuni Obiettivi rispetto ad altri - che colpisce in maniera drammatica le fasce dei più poveri fra i poveri. Viene messo in luce inoltre il fatto che il procedere verso il traguardo finale è stato rallentato a causa della crisi economico-finanziaria, tuttora in corso, iniziata nel 2008-2009, di poco preceduta da una grave crisi alimentare.
Il Rapporto ricorda una volta ancora che la scadenza del 2015 è alle soglie e per raggiungere gli Obiettivi rimanenti, i governi, la comunità internazionale, la società civile e il settore privato, devono intensificare i loro contributi. Sta prendendo forma una nuova ambiziosa agenda per lo sviluppo per continuare sulla strada degli MDGs oltre il 2015, anche alla luce di quanto emerso dalla Conferenza Rio+20 dello scorso mese di giugno. A questo fine è stato istituito un Task Team interno al sistema delle Nazioni Unite per il coordinamento nella preparazione degli obiettivi post 2015 e a sostegno del lavoro del costituendo Panel ad Alto livello co-presieduto dai presidenti Yudoyono (Indonesia) e Johnson Sirleaf (Liberia) e dal primo ministro Cameron (Regno Unito).
Per la prima volta dal 1990, momento nel quale la Banca Mondiale ha cominciato ad osservare le tendenze sulla povertà, sia il numero delle persone che vivono al di sotto della soglia di povertà (meno di 1,25 dollari al giorno) che il tasso di povertà sono diminuiti in tutte le regioni in via di sviluppo. Il numero delle persone estremamente povere, che erano oltre due miliardi nel 1990 (47 per cento della popolazione mondiale) è sceso nel 2008 a meno di 1,4 miliardi (24 per cento) mentre studi condotti dopo il 2008 dimostrano che la percentuale di popolazione mondiale che vive in povertà è ancora in diminuzione nonostante il rallentamento del trend dovuto alla crisi alimentare e all’aumento dei prezzi di cibo e carburanti. Il Rapporto segnala il rilevante progresso della Cina, dove il tasso di povertà è precipitato dal 60 (1990) al 13 per cento (2008), ma anche la diminuzione della povertà nell’Africa Sub sahariana, che pure rimane la regione dove fame e povertà fanno ancora registrare dati allarmanti (Nel 2008 il 47% della popolazione viveva ancora con meno di 1,25 dollari al giorno. La diminuzione del tasso di povertà è stata, nel corso di diciotto anni -1990/2008 -, solo del 9%).
Nel presentare il Rapporto 2012, il Segretario generale dell’Onu ha voluto mettere l’accento sulla necessità di porre il lavoro in cima alla lista delle priorità, questione che tanto preoccupa le giovani generazioni, e in particolare un lavoro dignitoso (“decent job” secondo la definizione coniata da Juan Somavia, Direttore Generale dell'ILO - International Labour Organization), che possa procurare un reddito prevedibile e stabile per abitanti delle città, delle campagne, per i poveri e i marginalizzati.
Il Rapporto informa che nel 2011 c’erano 456 milioni di lavoratori che in tutto il mondo vivevano al di sotto della soglia di povertà, 233 milioni meno che nel 2000, e che tale riduzione è da attribuire in gran parte alla rilevante riduzione dell’estrema povertà tra i lavoratori dell’Asia orientale.
Quanto al numero di persone malnutrite nei paesi in via di sviluppo, questo sembra essersi stabilizzato negli ultimi due decenni intorno agli 850 milioni (Dati FAO pubblicati nel 2011 e riferiti al periodo 2006-2008). Cionondimeno, il tasso di malnutrizione in rapporto con il totale della popolazione dei paesi in via di sviluppo è in costante calo (dal 19,8% nel periodo 1990-92 al 15,5% nel periodo 2006-08), non in misura tale, tuttavia, da far ritenere che il target che prevedeva il dimezzamento del tasso di malnutrizione entro il 2015 potrà essere raggiunto. L’area più colpita è ancora quella dell’Africa sub sahariana, dove le conseguenze della crisi alimentare e finanziaria hanno prodotto il maggiore impatto. Nell’Asia orientale (esclusa la Cina), la misurazione dei progressi verso il superamento della privazione da cibo ha addirittura mostrato un’inversione di tendenza a partire dagli anni 2000. Particolarmente grave il dato che riguarda i bambini sottopeso al di sotto dei cinque anni che, nei paesi in via di sviluppo, sono quasi uno su cinque. E’ nell’Asia meridionale la situazione peggiore, dove – India esclusa - quasi un terzo dei bambini erano sottopeso nel 2010.
Il Rapporto riporta anche i dati riguardanti il numero dei rifugiati e degli sfollati, che rimane alto nonostante un incremento dei rimpatri nel 2011. Si calcola che nel 2011 vi siano stati 26,4 milioni di sfollati interni, 15,2 milioni di rifugiati e 900 mila richiedenti asilo, per un totale di 42,5 milioni di persone che, in tutto il mondo, nel 2011, vivevano in un luogo nel quale erano stati forzati ad andare a causa di conflitti armati o persecuzioni. Quattro su cinque rifugiati sono ospiti in paesi sviluppati.
Le iscrizioni alle scuole primarie sono aumentate in tutto il mondo in via di sviluppo a partire dall’anno di riferimento 1999, ma ad un passo che, già non molto veloce, è andato ulteriormente rallentando a partire dal 2004. La regione che ha fatto registrare più progressi è quella dell’Africa sub-sahariana anche se, date le condizioni di partenza, continua a rimanere quella con il più alto numero di bambini fuori dalla scuola (33 milioni, pari al 24% della popolazione sub sahariana in età scolare di primo grado e pari ad oltre la metà dei 61 milioni di bambini che in tutto il mondo non avevano frequentato le classi di istruzione primaria nel 2010). Naturalmente i più soggetti all’esclusione sono i bambini poveri, ancor di più le bambine, allo stato di rifugiati o che vivono in zone afflitte da conflitti. Si è registrata, tra il 1999 e il 2010, una diminuzione del tasso di esclusione delle bambine dalla scuola primaria (dal 58 al 53 per cento) ma, se tale miglioramento rispecchia la situazione generale, in alcune aree dell’Asia occidentale, e del Nord Africa, la percentuale è molto più alta (rispettivamente 55,6 e 79 %).
Ma il dato deve essere letto insieme a quello – anch’esso in miglioramento - che riguarda il completamento del ciclo scolastico primario che, globalmente, è salito dall’81% nel 1999 al 90% nel 2010.
L’analfabetismo investe però ancora circa 122 milioni (dati riferiti al 2010) di giovani fra i 15 e i 24 anni - 74 milioni donne, 48 milioni maschi – che abitano per lo più nell’Asia meridionale e nell’Africa Sub sahariana.
L’Obiettivo di raggiungere la parità di genere in tutti i livelli di istruzione sta avanzando, anche se ancora persistono disparità in molte regioni. Riguardo l’educazione primaria, la parità è raggiunta nelle regioni del Caucaso e dell’Asia centrale, dell’America latina e dell’Asia sudorientale; riguardo l’istruzione terziaria, invece, va notato come in ben cinque macroregioni vi sia una prevalenza femminile (Asia orientale, Nord Africa, Caucaso-Asia centrale, Asia sudorientale e America Latina).
Il gap tra uomini e donne sul piano dell’accesso a lavori retribuiti in campi diversi dall’agricoltura rimane in almeno la metà delle regioni, con le maggiori disparità in Asia occidentale, Asia meridionale e Nord Africa.
Le donne tendono ad essere impiegate nei lavori collocati ai osti più bassi della scala lavorativa e, a livello globale, le posizioni di senior manager sono ricoperti da donne solo per il 25 per cento. La percentuale di donne che svolgono lavori informali al di fuori dell’agricoltura è ancora molto alta in alcuni paesi come Mali, Zambia, India e Madagascar (oltre l’80%) e Perù, Paraguay, Uganda, Honduras, Bolivia, El Salvador e Liberia (75%).
La rappresentanza femminile nei parlamenti di tutto il mondo (monocamerali, o nelle camere basse) è in continuo, ancorché molto lento aumento. Persiste dunque una forte disparità fra il numero delle donne parlamentari e i loro colleghi uomini, talché il target della parità sarà ben lontano dall’essere raggiunto nel 2015. Alla fine di gennaio del 2012 le donne ricoprivano il 19,7% dei seggi parlamentari a livello globale: il 23 % dei seggi nei paesi sviluppati contro il 18% dei paesi in via di sviluppo. Le situazioni peggiori si registrano in Oceania, Asia occidentale e Africa settentrionale, mentre il livello più alto di presenza femminile si riscontra nei parlamenti dei paesi del nord Europa.
La riduzione di due terzi della mortalità dei bambini al di sotto dei cinque anni sta continuando ad avanzare in tutti i paesi, ma ad un passo troppo lento, tale per cui il traguardo non sarà raggiunto nel termine prefissato della fine del 2015.
Nonostante gli innegabili progressi in tutti i pvs (il tasso di mortalità è sceso del 35% dal 1990 al 2010), la mortalità infantile rimane considerevolmente alta nell’Africa sub Sahariana e nell’Asia Meridionale, regioni nelle quali si concentra l’82% dei decessi di bambini (6,2 milioni nel 2010). L’Obiettivo è invece stato raggiunto nell’Africa settentrionale, dove il tasso di mortalità è sceso del 67% nel ventennio 1990-2010, mentre l’Asia orientale sta per raggiungerlo, essendosi verificata una diminuzione pari al 63%. Prescindendo dalle differenze geografiche, tuttavia, i bambini che vivono in aree rurali o molto difficili da raggiungere, o che appartengono a famiglie poverissime, sono naturalmente molto più a rischio della media. Buona parte dei miglioramenti nel perseguimento dell’Obiettivo è dovuta alla diffusione della vaccinazione antimorbillo che, nei paesi in via di sviluppo, ha raggiunto l’84% dei bambini nel 2010 (contro il 70% nel 2000) determinando una riduzione dei decessi pari al 74% in dieci anni.
Il Rapporto informa anche che i progressi registrati non sono però riferibili alle morti nel periodo neonatale (il primo mese dopo la nascita) che, al contrario sono in aumento. Il livello di istruzione delle madri è un fattore che incide fortemente sulla mortalità infantile, che si presenta tanto più bassa quanto maggiore è il grado di cultura delle genitrici, come dimostrano i dati raccolti nel 2010 in 78 paesi in via di sviluppo.
Rimane un evidentissimo gap tra i dati sulla salute materna riguardanti le regioni sviluppate e quelle in via di sviluppo, dove il tasso di mortalità è di 15 volte superiore. Malgrado gli interventi effettuati per prevenire i decessi in gravidanza o durante il parto, i progressi sono ancora troppo deboli in molte parti del mondo, prima fra tutte l’Africa sub sahariana, dove si registrano (dati del 2010) 500 donne decedute ogni 100.000 nati vivi. Il dato è ancor più drammatico se paragonato a quello dei paesi sviluppati, dove il rapporto è di 16 a 100.000.
Del resto, l’Africa sub sahariana è anche la regione nella quale si verifica un numero molto basso di parti assistiti da personale qualificato (45 %) e i dati, se confrontati con quelli del 1990 (42%), non sembrano mostrare tendenze incoraggianti. Molto diversa invece la situazione nel Nord Africa, dove si registra il cambiamento più rilevante (dal 51% nel 1990 all’84% del 2010).
L’Obiettivo 5, attraverso i suoi target, monitora altri e diversi aspetti correlati con la salute materna. Si viene così a conoscenza del fatto che è in aumento la percentuale di donne (età tra 14 e 49) che riceve almeno una visita medica (o di altro personale qualificato) durante la gravidanza, ma che non abbastanza donne ricevono una sufficiente assistenza prenatale (il numero raccomandato è di almeno quattro visite in gravidanza); quest’ultimo dato è addirittura in calo nell’Africa sub sahariana dove si stima che, nel 2010, 46 donne su 100 siano state sottoposte ad un minimo di quattro visite in gravidanza, mentre nel 1990 il numero era di 50.
Vi è poi ancora il grave problema delle gravidanze adolescenziali (tra i 15 e i 19 anni): la gravidanza, infatti, se iniziata troppo precocemente, reca con sé maggiori rischi di complicazioni e perfino di morte. Sebbene si riscontrino dei miglioramenti, i progressi in questo campo vanno molto a rilento, soprattutto, ancora una volta, nell’Africa sub-sahariana, dove rimane elevatissimo il numero delle nascite da madri adolescenti(120 su mille nel 2009), oltre cinque volte in più della media nei paesi in via di sviluppo ed oltre il doppio della media dei pvs (nelle regioni sviluppate la proporzione è di 23 madri adolescenti ogni 1.000 nascite; nell’insieme dei paesi in via di sviluppo è di 52). In quasi tutte le regioni, inoltre, si registra, dopo un’iniziale sensibile diminuzione del numero delle madri adolescenti (avvenuta nel corso degli anni Novanta), un rallentamento di tale tendenza, quando non addirittura una sua inversione.
Il capitolo dei contraccettivi mostra un aumento del loro uso fra le donne - tra i 15 e i 49 anni - sposate o comunque accoppiate: oltre la metà di queste faceva ricorso nel 2010 ad una qualche forma di contraccezione, salvo che in due regioni, l’Africa sub-sahariana e l’Oceania. Nell’Asia orientale, dove l’uso dei contraccettivi è mediamente superiore a quello del mondo sviluppato, si è registrata negli ultimi dieci anni un’inversione di tendenza (da 86 donne accoppiate su cento nel 2000 a 84 nel 2010).
Il Rapporto rileva inoltre un lento declino del bisogno non soddisfatto di pianificazione famigliare da parte di donne che vorrebbero ritardare la gravidanza ma non fanno uso di contraccettivi; ancora una volta le percentuali indicano nell’Africa sub-sahariana (seguita dai Caraibi) la regione dove il fenomeno è più accentuato. Gli aiuti per la pianificazione famigliare, in proporzione al totale degli aiuti destinati alla salute sono diminuiti percentualmente nell’ultimo decennio. Una minima inversione di tendenza si è riscontrata però tra il 2009 e il 2010 dove i fondi per i servizi di pianificazione famigliare, rispetto a quelli destinati alla salute in generale, sono passati dal 2,5 al 3,2 per cento.
Nell’Africa sub-sahariana, dove lâ€epidemia di AIDS ha colpito il maggior numero di persone, si registra un trend incoraggiante, dato che dei 33 paesi nei quali il numero delle nuove infezioni è diminuito, 22 appartengono proprio a quella regione. I nuovi casi registrati nel 2010 a livello globale – 2,7 milioni di persone, fra cui 390 mila bambini – sono stati inferiori del 21 per cento rispetto ai nuovi casi del 1997 (l’anno in cui si è riscontrato il picco più alto) e inferiori del 15 per cento rispetto al 2001.
Alla fine del 2010, circa 34 milioni di persone vivevano con il virus dell’HIV, il 17% in più rispetto al 2001. Questo aumento, sostenuto anche dalle nuove infezioni, riflette soprattutto la significativa diffusione dell’accesso alla terapia antiretrovirale: sempre alla fine del 2010, 6,5 milioni di persone erano sottoposte a tale terapia nei paesi in via di sviluppo. Sebbene questo costituisca un incremento di circa 1,4 milioni di persone in confronto a quelle in trattamento alla fine dell’anno precedente, il target dell’accesso universale entro il 2010 è stato mancato ampiamente. L’accesso al trattamento è in aumento in tutte le macroregioni; fa eccezione l’Asia occidentale dove, tra il 2009 e il 2010, si è registrata addirittura una lieve flessione. Si calcola comunque che, a partire dal 1995, nei paesi a basso e medio reddito si siano evitate circa 2,5 milioni di morti proprio grazie all’introduzione della terapia antiretrovirale.
Le donne e i giovani sono i soggetti più vulnerabili e, soprattutto i secondi, sono i più inconsapevoli del fatto che l’uso del preservativo riduce il rischio di contagio. La maggiore ignoranza si registra tra le giovani donne (tra i 15 e i 24 anni) che vivono nell’Africa sub-sahariana.
Si deve anche registrare una diminuzione per quanto riguarda le morti per cause riconducibili all’AIDS, che nel 2010 sono state 1,8 milioni contro i 2,2 milioni negli anni a metà del 2000.
Considerevoli progressi sono stati fatti sul piano della lotta alla malaria grazie all’uso di reti impregnate di insetticida sotto le quali proteggere i bambini nel sonno e grazie anche al trattamento con i farmaci. Fra il 2000 e il 2010 si sono registrati il 50% dei casi in meno in 43 paesi (sui 99 nei quali la malaria è ancora presente). Si calcola che nel 2010 vi siano stati 216 milioni di casi di malaria, dei quali l’81 per cento circa (ossia 174 milioni di casi) si è verificato in Africa. Le morti – sempre nel 2010 – sono state pari a circa 655mila in tutto il mondo. I più colpiti sono i bambini al di sotto dei cinque anni di età anche se si deve notare che nell’Africa sub sahariana – la regione maggiormente affetta dal problema – la percentuale dei bambini che dorme sotto l’apposita rete è salita dal 2 per cento del 2000 al 39 per cento del 2010.
Accanto agli innegabili progressi (si sottolinea fra l’altro il caso dell’Armenia che nel 2011 è stata dichiarata paese libero da malaria), il Rapporto segnala anche la comparsa di sintomi di rallentamento della spinta al debellamento di questa malattia, in larga parte dovuto alla inadeguatezza dei finanziamenti internazionali che, per raggiungere un tale obiettivo, avrebbero dovuto raggiungere un totale di circa 5-6 miliardi di dollari nel 2011, contro gli 1,9 effettivamente erogati.
In declino anche la diffusione della tubercolosi e il numero delle morti causate da questa malattia mentre è in aumento il numero di pazienti trattati con successo fra quelli individuati attraverso il DOTS (Directly Observed Treatment Short Course) e il programma che lo ha in seguito sostituito (Stop TB Strategy) (Il DOTS, e lo Stop TB Strategy – che si basa sul precedente - sono strategie, articolate in vari punti, raccomandate a livello internazionale che hanno il fine di prevenire e tenere sotto controllo la diffusione della TBC e di indirizzare i malati verso la giusta terapia).
L’Obiettivo 7 contiene numerosi target relativi alla sostenibilità ambientale.
La superficie coperta da foreste sta riducendosi con velocità allarmante in Sud America e Africa, mentre in Asia, e soprattutto in Cina, essa sta aumentando. Il guadagno netto di circa 2,2 milioni di ettari di foresta l’anno in Asia è da attribuirsi principalmente ai programmi di rimboschimento su vasta scala messi in atto in Cina, India e Vietnam. La rapida deforestazione a favore di altri tipi di sfruttamento del terreno è invece ancora in atto in altri paesi asiatici.
La diminuzione delle aree forestali impatta negativamente su una serie di benefici che la foresta fornisce, a livello economico e sociale, difficilmente misurabili in denaro, che hanno a che vedere con la vita di una grande parte della popolazione mondiale, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Il Rapporto riferisce tuttavia che la gestione e la conservazione delle foreste danno lavoro a circa dieci milioni di persone, oltre ad altri benefici diretti o indiretti.
Crescono le aree protette che oggi coprono circa il 12,7 per cento delle terre emerse, ma la protezione del mare si estende solo sull’1,6 per cento degli oceani (al 2010).
Il rallentamento delle attività produttive, dovuto alla crisi economica, ha determinato una leggerissimadiminuzione delle emissioni di CO2 che, nel 2009, assommavano globalmente a 30,1 miliardi di tonnellate, mentre nel 2008 a 30,2 (ma erano 21,8 nel 1990). La diminuzione è totalmente a carico delle regioni sviluppate, dove però le emissioni rimangono altissime (10 tonnellate di CO2 pro capite nel 2009). Nei paesi in via di sviluppo, invece, le emissioni continuano ad aumentare, ma ad una velocità inferiore a quella degli anni precedenti al 2009.
Come già rilevato, è stato raggiunto il target che prevede il dimezzamento della popolazione che nel 1990 non aveva accesso all’acqua potabile. Se la tendenza attuale sarà mantenuta anche nei prossimi anni, nel 2015 il 92 per cento della popolazione mondiale potrà avervi accesso. In tutto il mondo rimane ancora alto il gap tra popolazione urbana e rurale – a sfavore di quest’ultima – in merito alla copertura con fonti di acqua potabile e, tra le più sfavorite, le genti che abitano le zone rurali dell’Africa sub sahariana.
Quando i rifornimenti idrici non sono facilmente disponibili, l’acqua deve essere prelevata alla fonte e trasportata. Uno studio condotto in 25 paesi dell’Africa sub sahariana, rappresentanti il 48% della popolazione della regione, nei quali solo un quarto degli abitanti aveva impianti idrici nell’edificio di abitazione, ha messo in luce che sono principalmente le donne, di tutte le età, ad occuparsi dei rifornimenti. Lo studio ha stimato che, in questi 25 paesi, le donne occupano almeno 16 milioni di ore al giorno per compiere il tragitto di andata e ritorno per procurarsi l’acqua, mentre gli uomini e i bambini 4 milioni di ore.
Nonostante i progressi, non è invece ipotizzabile il raggiungimento del target che prevede il dimezzamento della popolazione che non ha a disposizione bagni provvisti di sciacquone o altre forme di servizi igienici avanzati che, nel 2010, era pari a circa la metà degli abitanti delle regioni in via di sviluppo. Al ritmo di progresso attuale, nel 2015 solo il 67% della popolazione sarà fornita di tali servizi, una percentuale ben al di sotto del 75% necessario per raggiungere il target. Inoltre, la defecazione all’aperto, che costituisce un forte rischio per la salute pubblica, è ancora praticata diffusamente in molti paesi, tra i quali l’India dove si registra il primato peggiore (626 milioni di persone che utilizzano tale sistema).
Un ulteriore target, che prevede il raggiungimento di un significativo miglioramento delle condizioni di vita di circa cento milioni di abitanti delle baraccopoli entro il 2020 è stato raggiunto ben prima del termine fissato. Dal 2000 al 2012 la percentuale dei residenti in baraccopoli nei PVS è diminuita dal 39 al 33 per cento ma, in valori assoluti, il loro numero continua ad aumentare a causa del continuo e rapido aumento dell’urbanizzazione. Si stima che gli abitanti delle baraccopoli – la cui maggiore presenza è nell’Africa sub sahariana - siano oggi 863 milioni, mentre erano 650 milioni nel 1990 e 760 milioni nel 2000. Oltre 200 milioni di essi hanno avuto accesso a servizi igienici adeguati o ad abitazioni più stabili e meno affollate.
Riguardo questo Obiettivo (“Sviluppare un partenariato per lo sviluppo”), il Rapporto ci informa innanzitutto che gli aiuti allo sviluppo – nelle varie forme - hanno raggiunto nel 2010 l’ammontare di 133,5 miliardi di dollari, che equivale allo 0,31 per cento del reddito nazionale (cumulativo) dei paesi sviluppati. Nonostante questa cifra costituisca un aumento in termini assoluti, in termini reali essa si traduce in una diminuzione pari al 2,7 per cento degli aiuti provenienti dai paesi donatori dell’OCSE, per effetto della crisi finanziaria in atto. Escludendo le voci relative alla cancellazione totale o parziale del debito e gli aiuti umanitari, l’aiuto bilaterale per lo sviluppo è diminuito del 4,5 per cento.
L’analisi delle tendenze dell’aiuto pubblico allo sviluppo basata sui dati forniti dall’OCSE (che cita l’Italia tra i paesi che nel 2011 hanno fatto registrare un aumento dell’aiuto pubblico allo sviluppo in termini reali) rivela che gli aiuti continuano ad essere maggiormente diretti ai paesi più poveri, e per circa un terzo ai Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries – LDCs).
Uno dei target di questo Obiettivo prevede l’ulteriore sviluppo di un sistema finanziario aperto, regolamentato, prevedibile e non discriminatorio. Sotto questo profilo, il Rapporto sottolinea che, nonostante le pressanti richieste di gruppi di interesse per un ritorno al protezionismo, avanzate dopo il 2008-2009, l’incidenza di tali azioni è rimasta molto circoscritta nelle economie sviluppate e non ci sono stati contraccolpi sui mercati dei paesi in via di sviluppo.
Per quanto riguarda in particolare i Paesi meno sviluppati (LDCs), questi continuano a godere di un trattamento preferenziale nei commerci con le nazioni più ricche poiché le esportazioni dai Paesi meno sviluppati beneficiano di un margine preferenziale dal quale sono invece esclusi gli altri paesi in via di sviluppo.
In particolare, la diminuzione dei dazi applicati sull’esportazione di prodotti dai paesi in via di sviluppo e paesi meno sviluppati nel 2010, è stata significativa solo nel caso dei prodotti agricoli, con il risultato di un aumento del margine preferenziale sulla tariffa della nazione più favorita, particolarmente evidente nel caso dei paesi meno sviluppati.
Le nuove tecnologie, specialmente nel campo dell’informazione e della comunicazione, sono sempre più a disposizione degli abitanti del pianeta. Alla fine del 2011 il numero degli abbonati alla telefonia mobile era salito a 6 miliardi, 1,2 miliardi dei quali rappresentati da cellulari a banda larga. Il livello di penetrazione della telefonia mobile ha così raggiunto l’87 per cento a livello mondiale, il 79 per cento nei paesi in via di sviluppo.
Più di un terzo della popolazione mondiale, inoltre, utilizza internet, sempre più attraverso collegamenti a banda larga e, tra questi, circa i due terzi sono cittadini delle regioni in via di sviluppo. Un digital divide separa comunque il mondo sviluppato da quello in via di sviluppo, sotto forma di quantità e qualità di collegamenti a banda larga.
La prima fase dell’indagine ha consentito, attraverso l’acquisizione di contributi offerti da autorevoli esperti internazionali, rappresentanti di organismi multilaterali ed esponenti di organizzazioni non governative, di acquisire un quadro completo di elementi informativi.
Le audizioni hanno risposto a diverse finalità: in alcuni casi (v. le audizioni dei componenti della Commissione DAC dell’OCSE , del sindaco di Milano, Letizia Moratti e quella dell'ambasciatore Massolo), sherpa del Governo italiano per il G8) è risultata prevalente l’esigenza di acquisire elementi informativi sulla attività svolta dalla struttura cui facevano capo le personalità audite. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, è prevalsa l’esigenza di inquadrare in forma coerente ed approfondita i diversi profili coinvolti nella realizzazione di ciascuno degli MDGs, che spesso – nella percezione dell’opinione pubblica – vengono semplificati.
I grandi temi affrontati si possono così schematizzare:
1) il ruolo che le Istituzioni parlamentari possono svolgere nel processo di attuazione degli Obiettivi del Millennio. Di rilievo il contributo di Evelyn Herfkens , coordinatrice della Campagna delle Nazioni Unite per gli Obiettivi del Millennio, che ha invitato i parlamentari a non limitare il proprio sguardo alle politiche di assistenza, ma a valutare anche le altre politiche collegate, come quelle del commercio, per verificarne la compatibilità e la coerenza con gli MDGs e in particolare con l'Obiettivo n. 8 (sviluppare una partnership globale per lo sviluppo);
2) per quanto attiene al ruolo dei Paesi beneficiari, utili indicazioni sono state prospettate dal direttore della Campagna delle Nazioni Unite per gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, Salil Shetty e dal rappresentante italiano presso l’OCSE, Antonio Armellini. Il primo ha sottolineato come alcuni Paesi si stiano muovendo con maggiore rapidità verso il perseguimento degli Obiettivi e come, in questi casi, sia fondamentale il ruolo delle classi dirigenti. Il secondo ha rilevato come gli sforzi in atto in numerosi PVS debbano basarsi su alcuni presupposti essenziali: una leadership politica decisa; politiche per lo sviluppo chiare e mirate; bilanci nazionali ben predisposti; lotta alla corruzione;
3) l'impatto delle molteplici crisi (quella alimentare dall'inizio del 2006, l'aumento dei prezzi delle materie prime in tutto il mondo, la crisi energetica e quella finanziaria) Il rappresentante di Social Watch, Jason Nardi , ha ricordato come non sia ancora possibile compiere una valutazione definitiva sull’impatto delle crisi sullo sviluppo, aggiungendo che l'Italia può fare molto per contribuire a uscire dalla recessione globale, innanzitutto rispettando gli impegni già assunti. Anche il rappresentante speciale per l’Europa della Banca Mondiale, Cyril Muller , ha rilevato come il rallentamento economico incide fortemente sulla realizzazione dell’Obiettivo 1 (dimezzamento della povertà ) ed ha previsto che la crisi si ripercuoterà anche sugli Obiettivi relativi allo sviluppo umano e sulla salute.
4) il ruolo esiziale svolto dai cd. “paradisi fiscali” è stato analizzato da Tommaso Rondinella (Social Watch) che ha auspicato nei loro riguardi una posizione ferma del Governo italiano nelle diverse sedi G8.
5) la necessità di arrivare a destinare la quota dello 0,7% del PIL all’aiuto pubblico allo sviluppo (entro il 2015) , come deciso da tempo dalla comunità internazionale, aumentando al contempo l’efficacia degli interventi; la questione è stata sottolineata particolarmente dal direttore scientifico del CESPI, Marco Zupi, che ha anche analizzato nel dettaglio le numerose criticità che affliggono gli Obiettivi di sviluppo.
Infine, il direttore generale per la cooperazione allo sviluppo della Commissione europea, Stefano Manservisi ha ricordato che il ruolo e gli obiettivi dell’Unione europea in questo campo sono: il raggiungimento dello 0,56 per cento del PIL nel 2010 e lo 0,7 per cento nel 2015, tenendo presente le diverse velocità; e la riduzione della frammentazione delle politiche di sviluppo, per evitare l’intervento di troppi donatori in realtà diverse e con strumenti diversi.
Il 24 giugno 2009 la Commissione Affari esteri ha adottato un documento intermedio dell'indagine conoscitiva (v. punto 4 del Doc. XVII, n. 12) in cui sono tracciate alcune linee di intervento che si sintetizzano di seguito:
In connessione con queste attività, il 2 luglio 2009 si è svolto presso la Camera dei deputati un seminario interparlamentare organizzato dal Comitato permanente sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. L’iniziativa è stata promossa insieme con la Campagna del Millennio delle Nazioni Unite e si è incentrata sul tema “Il ruolo dei Parlamenti nazionali per gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio”.
Il seminario è stato organizzato in vista del Summit G8 dell’Aquila e in occasione della presentazione del documento intermedio dell’indagine conoscitiva. All’iniziativa, aperta dal presidente della Commissione esteri, on. Stefano Stefani, hanno preso parte parlamentari italiani e stranieri, provenienti da Europa, Asia e Africa, che hanno discusso le best practices nell’azione di indirizzo e controllo dei Parlamenti nei confronti dei Governi per la realizzazione degli Obiettivi.
Il seminario ha costituito altresì l’opportunità di un bilancio dello stato di conseguimento degli Otto Obiettivi del Millennio anche alla luce degli effetti della crisi mondiale. I lavori si sono conclusi con l’adozione di una Dichiarazione Finale e con gli interventi del Ministro degli affari esteri, on. Franco Frattini, e del Vicepresidente della Camera, on. Antonio Leone.
Il 29 luglio 2009 , alla ripresa dell'indagine, dopo l'adozione del documento intermedio, il Comitato ha ascoltato il direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni che, fra l’altro, ha posto l’accento sulla necessità di modificare la normativa vigente, da tutti considerata inadeguata.
Nella seduta del 22 ottobre 2009 , Staffan De Mistura, vice direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale, ha posto in rilievo l’incidenza dell’attività del PAM nel raggiungimento dell’Obiettivo n. 1, mentre nella seduta del 12 novembre 2009 , Helen Clark, amministratoredell'UNDP (United Nations Development Programme) ha fatto il punto sullo stato di avanzamento degli otto Obiettivi.
In occasione della giornata mondiale di lotta all’AIDS, il 1° dicembre 2009 , sono stati sentiti rappresentanti di ActionAid che hanno fornito i più recenti dati sulla diffusione di tale malattia e sull’accesso alle terapie.
Il 15 giugno 2010 è stato audito Olav Sejm, direttore dell'Education for All International Coordination Team dell'Unesco, che ha sottolineato il ruolo chiave dell'istruzione per la promozione dello sviluppo umano. Nella stessa seduta sono stati altresì ascoltati rappresentanti della Coalizione italiana per la Campagna globale per l'educazione.
Si è svolta poi il 1° luglio 2010 , un’audizione di rappresentanti dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), della Partnership for Maternal, Newborn and Child Health e di Save the Children.
Nella seduta del 27 luglio 2010 è stato ascoltato il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, il cui intervento è stato incentrato sull'impegno dell’Italia sul versante della cooperazione multilaterale anche per quanto concerne i riflessi sugli aiuti allo sviluppo a livello bilaterale.
Il 29 luglio 2010 è stato sentito il direttore esecutivo per l'Italia della Banca Mondiale, Giovanni Majnoni, che ha illustrato le attività che la Banca mondiale svolge ai fini dello sviluppo e del raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite.
L'ultima audizione nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio si è svolta il 5 ottobre 2010 , quando è stato sentito Riccardo Maria Graziano, Segretario Generale del Comitato Nazionale Italiano permanente per il microcredito. Dopo aver ripercorso la storia del microcredito e del Comitato italiano – strumento di lotta all’estrema povertà, costituito anche su sollecitazione delle Nazioni Unite - Graziano ha illustrato i progetti internazionali e i protocolli in corso.
Nelle sedute del 22 dicembre 2010 , del 25 gennaio 2011 e del 1° febbraio 2011 è stato esaminato ed approvato il Documento conclusivo .
L'indagine conoscitiva sugli Obiettivi di sviluppo del Millennio è stata avviata dalla III Commissione in occasione della seduta del 30 settembre 2008. L’organizzazione e lo svolgimento sono stati affidati al Comitato permanente sugli obiettivi di sviluppo del millennio (istituito il 2 luglio 2008). L'Indagine si è conclusa il 1° febbraio 2011 con l'approvazione di un Documento Conclusivo (Doc. XVII, n. 12).
L'indagine è stata principalmente focalizzata sulla valutazione delle iniziative, degli aspetti finanziari e dei rapporti del nostro paese con le istituzioni internazionali, al fine di qualificare la posizione dell’Italia in questo frangente. Sono poi state organizzate una serie di audizioni utili a delineare lo stato dell’arte in relazione ai singoli obiettivi.
L'attività del Comitato è stata scandita da due principali eventi, svoltisi durante il periodo dell’indagine: la presidenza italiana di turno del G8 del 2009 e il Vertice del Millennio delle Nazioni Unite nel settembre 2010.
In occasione del vertice del G8 dell’Aquila (8/10 luglio 2009) la Commissione ha stilato un documento intermedio (approvato il 24 giugno 2009) per fare il punto sull’indagine conoscitiva e rendere disponibili i primi risultati appositamente per il summit guidato dall’Italia.
Nel documento è stata evidenziata l’importanza del ruolo delle istituzioni parlamentari per il raggiungimento degli obiettivi fissati e sono stati identificati alcuni elementi quali aspetti qualificanti dell’azione: leadership politica decisa, politiche di sviluppo chiare, bilanci ben predisposti e lotta alla corruzione. È stata poi riportata la stima del Pil destinato agli aiuti allo sviluppo da parte dell’Italia, ed i numeri hanno evidenziato il nostro ritardo in questo frangente rispetto alla media internazionale: 0,19 per cento a fine 2007 a fronte della media dello 0,28 dei Paesi OCSE. L’azione dell’Italia è stata analizzata anche sotto il profilo qualitativo: è emerso che un’elevata quota della cooperazione è veicolata attraverso il canale multilaterale (circa il 68 per cento a fine 2007) e, a livello generale, è stata riscontrata un’elevata frammentazione degli aiuti e una marcata imprevedibilità delle risorse reperite per la cooperazione allo sviluppo a causa, soprattutto, dell’inadeguatezza dell’attuale legislazione a riguardo.
Infine il documento ha registrato la discesa in campo di nuovi donatori, soprattutto paesi di recente industrializzazione, come la Cina e diversi Paesi arabi.
I contributi del Comitato d’indagine e del vertice dell’Aquila (nel documento finale del G8 sono stati definiti alcuni impegni per la realizzazione dei MDG) sono poi confluiti nel Rapporto annuale sul monitoraggio degli Obiettivi di sviluppo del millennio, presentato nel giugno 2010 dal Segretario Generale dell’ONU. Questo documento ha evidenziato il trend di una continua progressione verso il raggiungimento degli obiettivi, ma allo stesso tempo ha denunciato l’eccessiva lentezza di tale processo. I migliori successi, secondo quanto riportato, sono stati conseguiti nella lotta alla povertà estrema, all’HIV e alla malaria. Minori risultati si sono visti per il tema della salute materna e dell’accesso ai servizi sanitari.
La seconda parte dell'indagine è stata caratterizzata da una serie di audizioni utili alla focalizzazione sui singoli obiettivi. Particolare attenzione in questa fase è stata data anche all’interazione tra i ministeri degli esteri e dell’economia in merito alle decisioni di “quanto e come” destinare agli aiuti allo sviluppo.
I dati riportati hanno messo in evidenza la riduzione del contributo del nostro paese ad istituzioni come il World Food Programme, l’UNDP e il Fondo globale per la lotta all’HIV.
La carenza dell’aiuto italiano, sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo, può essere contrastata, secondo quanto auspicato nell’indagine, da un maggior ricorso a strumenti di aiuto indiretti, come politiche commerciali, microcredito e attività solidali. Oltre ad una migliore collaborazione tra i ministeri interessati, è stata poi messa in risalto la necessità di attuare la cooperazione attraverso la dimensione comunitaria, in modo da sfruttare un miglior coordinamento delle risorse.
Infine è stato osservato come una migliore performance dell’Italia nella cooperazione allo sviluppo passi anche per una maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questi temi, da presentare non solo come politiche di solidarietà verso i paesi sottosviluppati, ma anche come strumenti di stabilità e sicurezza a livello globale.
La realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio nel continente africano è monitorata annualmente dall’AUC (Commissione dell’Unione Africana), dall’UNECA (United Nations Economic Commission for Africa), dall’AfDB (African Development Bank) e dall’Ufficio Regionale per l’Africa dell’UNDP (United Nations Development Programme) e riportata nel Rapporto congiunto Assessing Progress in Africa toward the Millennium Development Goals.
L’edizione 2012 del Rapporto menzionato, a tre anni di distanza dalla scadenza fissata (2015), riferisce innanzitutto del dibattito per la costruzione di un percorso che vada oltre tale scadenza, partendo dalla specificità delle priorità africane che dovranno caratterizzare l’agenda post 2015, in base ai risultati fino a quel momento ottenuti. Il completamento del percorso fissato dagli otto Obiettivi non è comunque considerato il target finale, poiché è da tutti riconosciuto che soprattutto necessario il mantenimento successivo dei progressi realizzati perché la differenza sia tangibile per la gente comune.
Il Rapporto mostra che, prima dell’insorgere della crisi alimentare ed energetica e prima della recessione globale, i paesi africani stavano facendo grandi progressi per il conseguimento degli Obiettivi del Millennio. Sebbene non siano ancora disponibili tutti i dati sull’impatto delle tre crisi sul raggiungimento degli otto Obiettivi, è ormai acclarato che molti paesi africani sono stati duramente colpiti da esse. Tuttavia, grazie al supporto dei partner internazionali, tra i quali anche la Banca africana di Sviluppo e l’UNDP, sono state prese le misure per contrastare le conseguenze della contingenza sfavorevole.
Sebbene dunque il continente africano non potrà raggiungere tutti gli Obiettivi fissati entro il 2015, sono visibili i progressi effettuati nella maggior parte di essi. Non sarà però raggiunto l’Obiettivo di sradicare la povertà estrema e la fame (Goal 1) che, nel continente africano (escluso il Nord Africa), è passata dal 56,5 per cento nel 1990 al 47,5 nel 2008. E’ la macroregione che, a livello mondiale, ha compiuto i più scarsi progressi, mancando ancora, per il conseguimento totale, il 41% dell’Obiettivo. Con i dati disponibili al momento, si può dire con certezza che solo Tunisia, Egitto (paese nel quale il rapporto tra povertà totale e povertà femminile è più elevato) e Cameroon sono riusciti a dimezzare il tasso di povertà rispetto al 1990.
Sia il tasso di povertà che il numero di poveri sono diminuiti negli anni a partire dal 1990, ma la diminuzione avviene troppo lentamente a causa di una crescita troppo modesta, del rilevante aumento della popolazione, delle persistenti ineguaglianze geografiche e di genere.
Come il Rapporto sottolinea, la riduzione della povertà non è soltanto fine a se stessa, ma è la condizione grazie alla quale anche gli altri Obiettivi potranno essere raggiunti in tempi più brevi. Infatti, a titolo esemplificativo, il Rapporto afferma che l’aumento del potere di acquisto delle persone, e in special modo quello delle donne, si ripercuote spesso positivamente su altri aspetti della vita famigliare, come quelli dell’istruzione e delle scelte riguardanti la salute. E’ infatti evidente che le persone che vivono al di sopra della soglia di povertà (1,25 dollari al giorno) ed hanno lavori stabili, sono maggiormente in grado di offrire una buona educazione ai loro figli e possono più facilmente accedere ai servizi medici di base.
Il Rapporto informa però che gli impieghi vulnerabili contano per oltre il 70% e di questi, la maggior parte riguardano il lavoro femminile, e che esiste un fenomeno di nuova povertà che colpisce parte della classe media, cresciuta esponenzialmente negli ultimi tre decenni.
La povertà è ancora inegualmente distribuita tra città e aree rurali, con forte penalizzazione di queste ultime e in alcuni casi, come in Etiopia, la rapida riduzione della povertà nel paese ha però portato con sé un aumento della differenza delle condizioni tra aree urbane e aree rurali.
L’elevato aumento della popolazione è una delle cause del rallentamento della riduzione della povertà, perché diluisce i risultati della crescita economica, appesantisce le strutture sanitarie ed educative, esaspera l’enorme pressione sulla spesa pubblica che l’Africa deve mettere in bilancio per affrontare, ad esempio, alcuni problemi quali la diffusione dell’AIDS e altre epidemie. La povertà stessa, però, favorisce l’aumento della popolazione perché la povertà e le sue cause (la crisi agricola, la scarsa istruzione, la posizione subordinata delle donne) tendono a perpetuare una elevata fertilità, in un circolo vizioso difficile da spezzare. L’esperienza del Ruanda, che negli ultimi cinque anni è riuscita ad accelerare il passo verso la riduzione della povertà, insegna che questo obiettivo è ottenibile solo attraverso una crescita inclusiva orientata alla riduzione dell’ineguaglianza, all’estensione della protezione sociale e al miglioramento dell’accesso al credito.
Il caso del Ruanda rafforza la convinzione che è necessario rafforzare il legame tra crescita e riduzione della povertà. Una delle ragioni per cui una crescita economica considerevole può spesso non tradursi in un’altrettanto considerevole diminuzione della povertà è la relativamente scarsa reattività della riduzione della povertà alla crescita (misurata attraverso l’indice di “elasticità della povertà in rapporto alla crescita”, che rivela la riduzione della povertà associata ad un aumento unitario della crescita. Più è alta l’elasticità ella povertà in rapporto alla crescita, più gli effetti della crescita sulla riduzione della povertà sono evidenti). La crescita media dell’elasticità della povertà, in valori assoluti, in rapporto alla crescita, in Africa è inferiore - talvolta in larga misura - a quella delle altre regioni.
Anche l’accesso limitato delle zone rurali alle infrastrutture moderne come strade, elettricità e telecomunicazioni, ha inoltre ridotto il potenziale contributo alla crescita.
Nonostante la riduzione del tasso di povertà, nell’Africa Subsahariana rimane molto alta la malnutrizione tra i bambini al di sotto dei cinque anni, che sono proporzionalmente diminuiti in misura molto ridotta. Il continuo aumento dei prezzi dei generi alimentari è stata una delle cause che hanno ostacolato un progresso in questo ambito e, ancora una volta, i più colpiti sono i bambini che vivono nelle aree rurali con la consueta ulteriore penalizzazione che interessa le bambine.
Sarà raggiunto invece l’Obiettivo riguardante l’istruzione primaria universale (Goal 2): in alcuni paesi africani il tasso di iscrizione alla scuola primaria è superiore al 90 per cento - Algeria, Burundi, Egitto, São Tomé e Principe, Tanzania, Togo e Tunisia hanno già superato il target - anche se la qualità dell’istruzione non è ancora soddisfacente. Anche i dati sul completamento del ciclo primario sono sconfortanti, in particolar modo per quanto riguarda il numero di bambine che abbandona prematuramente la scuola. Il Rapporto elenca una serie di cause che contribuiscono alla scelta di abbandonare la scuola e che concorrono a produrre un’istruzione di scarsa qualità. Fra queste: l’assenteismo degli insegnati, l’iscrizione in un’età troppo avanzata rispetto al ciclo di insegnamento, la malnutrizione e i problemi di salute dei bambini, l’eccessiva distanza dalla scuola, le ristrettezze finanziarie.
Notevoli progressi sono stati registrati, sempre per quanto riguarda l’istruzione, anche nel campo della parità di genere, che costituisce una parte importante del Goal 3 (Promuovere l’uguaglianza di genere e l’autonomia delle donne) del quale si prevede il raggiungimento entro il 2015. Il Rapporto ragazze/ragazzi nel ciclo scolastico primario è in generale in via di miglioramento anche se le iscrizioni dei ragazzi sono ancora superiori a quelle delle ragazze. Secondo i dati UNESCO riferiti al 2012, su 50 paesi africani di cui sono noti i dati, 32 hanno un indice di parità di genere nell’insegnamento primario inferiore a 1 (meno iscrizioni femminili rispetto a quelle maschili), 16 paesi hanno un indice uguale a 1 e solo 2 paesi (Gabon e Zimbabwe) hanno un indice superiore ad 1 (con una maggioranza di iscrizioni di bambine rispetto ai bambini). I progressi nel raggiungimento della parità di iscrizione nella scuola secondaria e terziaria sono invece più lenti.
Molto consistenti i progressi per quanto riguarda l’impiego delle donne nella politica: il Rapporto informa che per quanto riguarda la proporzione dei seggi assegnati alle donne nei parlamenti nazionali, sette paesi africani (Rwanda, Sudafrica, Mozambico, Angola, Tanzania, Burundi e Uganda) hanno già raggiunto il target del 30 per cento, mentre gli altri paesi stanno avanzando rapidamente verso questo obiettivo. I progressi più consistenti si sono registrati nell’Africa del Nord.
Gli obiettivi riguardanti la riduzione della mortalità infantile (Goal 4) e il miglioramento della salute materna (Goal 5), strettamente collegati, non saranno raggiunti. Tutti gli indicatori infatti mostrano che i progressi, pur in atto, non sono sufficientemente rapidi per garantire i cambiamenti auspicati.
Non sarà raggiunto il Goal 6 sulla lotta all’AIDS, malaria e altre malattie infettive, ma i progressi sono continui ed evidenti. La caduta nel tasso di diffusione, soprattutto fra le donne, è rilevante, così come la diminuzione del tasso di incidenza (cioè le nuove infezioni) e la riduzione del numero delle morti per cause collegate all’AIDS e la trasmissione del virus HIV da madre a figlio. Tali progressi sono da attribuire ai cambiamenti comportamentali avvenuti negli ultimi anni ed all’accesso sempre più diffuso alle terapie antiretrovirali in tutti i paesi africani. L’accesso a tali terapie è pero attualmente minacciato – e in tal senso potrà creare problemi ai paesi maggiormente interessati dalla malattia – a causa dei problemi riguardanti il reperimento dei fondi per finanziare il Fondo Globale per la lotta contro AIDS, TBC e malaria, per il quale è stato annunciato l’annullamento dell’11 round di rifinanziamento.
Il Goal 7, che prevede la realizzazione di un ambiente sostenibile, influisce nettamente sull’andamento di tutti gli altri Obiettivi dato che la conservazione dell’ambiente e una sua sana gestione costituiscono uno degli elementi fondamentali per la riduzione della povertà. La diminuzione della superficie coperta da foreste costituisce un serio problema per il continente africano che, più di altre regioni, si trova ad affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici in corso. Le emissioni di biossido di carbonio si sono stabilizzate nella maggior parte dei paesi africani, che hanno anche abbassato i consumi di sostanze nocive per l’ozono. 27 paesi, inoltre, hanno fatto registrare aumenti di aree protette, sia terrestri che marine, con un conseguente effetto di maggiore protezione della biodiversità (25 paesi nel 2010 hanno raggiunto il target di avere assegnato almeno il 10 per cento del proprio territorio e delle aree marine ad aree protette. Botswana, Zimbabwe e Guinea Bissau sono al vertice di questa classifica).
Il target che prevede il dimezzamento del numero di persone che non hanno accesso all’acqua potabile e a servizi igienici di base è stato raggiunto in tutto il mondo tranne che in Africa. La percentuale di popolazione africana che ha avuto accesso a questi servizi è passata dal 56 per cento nel 1990 al 66 per cento nel 2010, un dato ancora troppo lontano dal 78 per cento fissato per il raggiungimento del target.
Quanto al Goal 8 (Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo) si segnala solo che, riguardo al target relativo agli aiuti per le necessità dei paesi meno sviluppati, l’aiuto pubblico allo sviluppo proveniente dai donatori dell’OCSE (paesi DAC) ha raggiunto il picco più alto nel 2010 con finanziamenti pari a 129 miliardi di dollari, equivalenti allo 0,32 per cento del PIL degli stessi paesi (una percentuale di PIL superiore dello 0,01 per cento rispetto all’anno precedente). Tale impegno resta tuttavia ancora lontano dall’obiettivo dello 0,7% fissato dalle Nazioni Unite, raggiunto solo da cinque paesi, tutti europei: Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia.
Il finanziamento dello sviluppo rimane ancora un punto importante e irrisolto nell’agenda internazionale e il Rapporto sottolinea con forza la necessità che l’Africa si affranchi da una dipendenza troppo forte dagli aiuti dell’OCSE - i cui paesi sono nella contingenza afflitti dalla crisi economica globale - e che diversifichi pertanto le proprie fonti di finanziamento. In tale direzione, l’African Steering Group per gli Obiettivi del Millennio, supportata dai maggiori leader africani, ha individuato nel miglioramento del sistema fiscale e della gestione delle tasse un importante traguardo per una parziale soluzione del problema.
Inoltre, la promozione dei prodotti africani sul mercato globale potrà costituire un valido supporto, così come è dimostrato dalla continua crescita dell’iniziativa AfT (Aid for Trade). AfT è un’iniziativa in ambito WTO che ha lo scopo di aiutare i paesi in via di sviluppo, e in particolare i paesi meno sviluppati, a mettere a punto pratiche ed infrastrutture necessarie per implementare e beneficiare degli accordi WTO e per espandere i loro commerci. Sconta al momento il limite di essere circoscritta a troppo pochi paesi.
La tutela dei diritti umani a livello internazionale, questione che attraversa una pluralità di realtà e di contesti geografici, oggetto dell'attenzione della comunità internazionale e dell'attività del Parlamento italiano, rappresenta uno dei temi centrali dell'attività della Commissione Affari esteri. La III Commissione con la propria attività conoscitiva (indagini conoscitive ed audizioni) assicura al Parlamento italiano un sapere approfondito dello stato dei diritti umani nel mondo contribuendo anche all'aggiornamento degli strumenti giuridici preposti alla loro tutela. Con la presentazione di atti di indirizzo (mozioni e risoluzioni) i membri del Parlamento verificano che l'operato del Governo nel campo delle relazioni internazionali sia improntato alla difesa dei diritti umani. Vengono di seguito richiamate le principali attività svolte dagli organi parlamentari in tema di tutela dei diritti umani nel corso della XVI legislatura.
La tutela dei diritti umani nell’ordinamento internazionale si avvale oltre che di strumenti giuridicamente non vincolanti, anche di convenzioni internazionali che, entrate in vigore, vincolano gli Stati che le hanno ratificate. Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha approvato vari disegni di legge di autorizzazione alla ratifica di Convenzioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa.
Con la L.195/2012 approvata definitivamente dalla Camera il 12 ottobre 2012 (A.C.5466), è stato ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti. Il Protocollo, per prevenire tali pratiche nei luoghi di detenzione, prevede l’effettuazione di ispezioni regolari da parte di organismi indipendenti internazionali e nazionali. Inoltre, ogni paese Parte dovrà dotarsi di un meccanismo di prevenzione, ossia di un organo indipendente di controllo dei luoghi in cui le persone sono private della libertà.
Con la L.18/2009 che la Camera ha approvato in via definitiva il 24 febbraio 2009 (A.C.2121) sono stati ratificati la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità con Protocollo opzionale ed istituito l'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (Tutela della disabilità). La Convenzione ha segnato un punto di svolta nell’approccio verso le persone con disabilità, considerate ora soggetti in grado di rivendicare i propri diritti e membri attivi della società e non più come soggetti bisognosi di cure e protezione.
A coronamento di un processo evolutivo che ha progressivamente posto l'accento sull’opportunità della completa eliminazione della pena di morte il Consiglio d'Europa ha adottato il Protocollo n. 13 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Il protocollo (Vilnius 3 maggio 2002) riguarda l' abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza. Il disegno di legge di ratifica (A.C. 1551) approvato dalla Camera il 24 settembre 2008, e quindi dal Senato, è ora la L. 179/2008.
La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani (Varsavia 16 maggio 2005), approvata in via definitiva dalla Camera il 3 giugno 2010 (A.C. 1917 e A.C. 3402) ed ora L.108/2010, disciplina il fenomeno della tratta, considerata una violazione dei diritti umani. La Convenzione individua misure di prevenzione e contrasto e garantisce alle vittime standards di tutela ispirati al principio del riconoscimento dei diritti fondamentali dell’individuo, senza discriminazione di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinioni politiche. La Convenzione si riferisce alla tratta non solo a fini di sfruttamento sessuale, ma anche al lavoro forzato e ad altre pratiche di traffico illecito delle persone.
Con la L.172/2012 si è concluso l’iter parlamentare di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, nota come Convenzione di Lanzarote.
Il Comitato permanente sui diritti umani istituito in sena alla Commissione Affari esteri è stato incaricato, anche nel corso della XVI legislatura, di svolgere un' indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo con particolare riferimento alla tutela delle minoranze.
Nel corso dell’indagine sono state esaminate e discusse la condizione dei diritti umani in una serie di paesi o aree geografiche in corrispondenza dell'emergere o del protrarsi di situazioni di criticità; tra questi Birmania, Corea del nord, Turkestan orientale (e presenza islamica in Cina), Indocina, Tibet, Federazione russa, Colombia, Cuba, Brasile, Iran, Darfur, Somalia. In relazione alle situazioni emerse in alcuni di tali paesi il Parlamento, con atti di indirizzo, ha fornito orientamenti all'azione internazionale del Governo. Si rammentano, per la Birmania la mozione 1-00086 e la risoluzione in Commissione esteri 8-00048; le risoluzioni in Commissione 7-01071 e 7-01077 sulla Corea del Nord e 8-00160, 8-00154 e 7-00021 sul Tibet, sul quale l'Assemblea ha approvato la mozione 1-00089; le mozioni 1-00338, 1-00344, 1-00376, 1-00379, 1-00381, 1-00383 sulla situazione dei diritti umani a Cuba.
Tra le questioni di carattere più generale argomento dell'indagine conoscitiva emerge la condizione delle minoranze cristiane.
Sul versante interno italiano della tutela dei diritti umani e dell’implementazione degli strumenti preposti a tale obiettivo, nel corso dell’indagine conoscitiva si sono svolte audizioni incentrate, tra il resto, sull’attività del Comitato interministeriale per i diritti umani e sulla Revisione periodica universale del 2010.
Successivamente il Comitato è stato incaricato di svolgere anche un’indagine conoscitiva su diritti umani e democrazia finalizzata a valutare l’adeguatezza dell’azione di politica estera italiana rispetto agli obiettivi di pace e stabilità nei contesti di più recente o fragile democratizzazione.
Tra i paesi all’attenzione i protagonisti delle “primavere arabe” - in particolare Libia, Egitto e Siria – ma anche Mali e Kazakhstan. A livello tematico sono emersi gli sviluppi istituzionali in alcuni paesi europei, il ruolo della società civile in Afghanistan, i diritti delle donne nel mondo islamico, i diritti civili delle persone LGBT.
Entrambe le indagini si sono concluse.
La sede dell’indagine conoscitiva sui diritti umani e il Comitato permanente sui diritti umani hanno costituito il momento del dialogo tra Parlamento e Governo in occasione della Revisione periodica universale cui l’Italia è stata sottoposta per la prima volta nel 2010.
L’Universal Periodical Review (Upr) è l’esame dell’applicazione dei diritti umani negli ordinamenti degli Stati membri dell’Onu da parte delConsiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.
L’UPR, alla quale sono tenuti a sottoporsi a turno tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, consiste nell'esame del rispetto degli obblighi assunti in tema di diritti fondamentali dell’uomo da parte di ciascun paese.
Tale esame viene effettuato da un gruppo di lavoro che comprende tutti i 47 Stati membri, a rotazione, del Consiglio dei diritti umani. L’esame di ciascun Paese è guidato da una troika composta da tre di essi: l'UPR dell'Italia è stata condotta da Slovacchia, Argentina e Ghana.
L’ UPR è un meccanismo cooperativo fondato sul dialogo con il paese interessato, che è pienamente coinvolto nel procedimento. Al termine della procedura viene adottato, da parte del Consiglio dei diritti umani, un documento finale che la riassume e che, soprattutto, fornisce raccomandazioni al paese esaminato.
Sulla prima fase della UPR dell’Italia ha riferito al Comitato permanente sui diritti umani, il 16 febbraio 2010, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, il Presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani.
L' 11 marzo 2010 l'audizione dell'Alto Commissario Onu per i diritti umani si è incentrata sia sugli esiti dell'UPR dell'Italia sia sulle generali problematiche della tutela dei diritti umani nel nostro paese.
In vista della conclusione dell’UPR, nella seduta del 20 maggio 2010 presso il Comitato permanente sui diritti umani si è svolta l'audizione del sottosegretario di Stato per gli affari esteri che ha riferito sugli orientamenti del Governo in merito alle risposte da dare alle raccomandazioni rivolte all'Italia nel quadro della UPR.
La prossima UPR dell’Italia è prevista nel giugno 2014.
Una delle raccomandazioni formulate al nostro paese in esito all'UPR è la richiesta di istituire una Commissione nazionale indipendente per la promozione e la protezione dei diritti umani, in attuazione della risoluzione 48/134 del 1993 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Tale adempimento era già previsto tra gli impegni (pledges) assunti dall'Italia all'atto della candidatura alla membership nel Consiglio dei diritti umani dell'Onu per il triennio 2007-2010. Il pledge è stato ribadito anche nella candidatura per il triennio in corso, 2011-2014, che vede il nostro paese ancora tra i 47 membri del Consiglio.
Il relativo disegno di legge, all’esame della Camera (A.C.4534) dopo l’approvazione dal parte del Senato il 20 luglio 2011, non ha terminato l’iter parlamentare. La Commissione Affari costituzionali, alla quale è stato assegnato in sede referente, ne ha completato l’esame il 18 dicembre 2012 e al termine della legislatura il provvedimento si trovava pertanto in stato di relazione.
Un comitato di indagine composto da membri della Commissione Affari costituzionali e della Commissione Affari esteri ha svolto un’indagine conoscitiva sull’antisemitismo.
Il documento conclusivo approvato dalle due Commissioni in sede plenaria (6 ottobre 2011) analizza lo stato del fenomeno dell'antisemitismo a livello internazionale e nazionale ed offre una prospettiva di indirizzo politico nell’approccio al problema.
Rappresentanti del Comitato permanente dei diritti umani della Commissione esteri della Camera dei deputati, della Commissione diritti umani del Senato e del Ministero degli Affari esteri, compongono l’Osservatorio Parlamento-Governo per il monitoraggio dello stato di promozione e di tutela dei diritti fondamentali. Si tratta di un organismo di consultazione, istituito nel 2009, incaricato di fare il punto sull’attività internazionale del nostro paese in materia di diritti umani.
Gli esiti delle riunioni dell'Osservatorio vengono riferiti e discussi presso il Comitato diritti umani.
I temi della quinta - e ultima nel corso della XVI legislatura - riunione dell'Osservatorio, che si è svolta presso il Senato della Repubblica il 24 febbraio 2011, sono stati discussi nella seduta del 1° marzo 2011.
Tra gli argomenti esaminati si segnalano gli esiti della Revisione periodica Universale dell'Italia, con particolare riguardo all'istituzione di un'autorità nazionale indipendente per i diritti umani, la tutela della libertà religiosa e la questione delle mutilazioni genitali femminili.
Su tale ultima questione si rammenta che l'ordine del giorno 9/3610-A/1 (21 luglio 2010) aveva impegnato il Governo ad assumere iniziative utili all'adozione di una risoluzione Onu di messa al bando. La risoluzione che invita i paesi ad eliminare ogni forma di mutilazione genitale femminile, promossa dall'Italia insieme ad un gruppo di paesi africani, è stata adottata dall' Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2012.
Gli esiti delle precedenti riunioni dell'Osservatorio Parlamento-Governo erano stati riferiti al Comitato per i diritti umani con le Comunicazioni del Presidente nelle sedute del 29 luglio 2009, 20 gennaio 2010, 13 aprile 2010 e 28 luglio 2010.
L’evoluzione del quadro politico birmano ha visto, negli anni recenti, il passaggio da un atteggiamento repressivo, sanzionato dalla Comunità internazionale, del regime militare, ad una guida politica almeno formalmente civile, artefice di aperture in senso democratico. In questa evoluzione, fondata su esigenze sia di stabilizzazione interna sia di posizionamento internazionale, si inquadra anche la revoca degli arresti per Aung San Suu Kyi (13 novembre 2010) e la sua elezione al Parlamento (aprile 2012).
Il Myanmar è una repubblica di tipo semipresidenziale, con uno stretto controllo da parte delle autorità militari sul governo civile.
La situazione politica e sociale del Myanmar continua a essere fortemente influenzata da un clima autoritario che affonda le sue origini in due importanti eventi storici: un primo colpo di Stato che nel 1962 instaurò un regime militare monopartitico e un secondo colpo di Stato che nel 1988 portò all’affermazione del gruppo militare noto come “Consiglio di Stato per la restaurazione della legge e della sicurezza” (SLORC). Dopo la breve parentesi delle elezioni del 1990, vinte dalla Lega nazionale per la democrazia (NLD), il partito di Aung San Suu Ki (costretta agli arresti domiciliari nel 1989), e poi annullate dalla giunta militare, le prime elezioni multipartitiche della storia recente del Paese hanno avuto luogo il 7 novembre 2010.
Nonostante l’esistenza di un Parlamento il processo decisionale birmano è stato fortemente influenzato, fino al 2011, dal Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo (SPDC), ex SLORC (ha cambiato nome nel 1997), un organo composto da 12 membri e saldamente controllato dai militari.
La Costituzione birmana è stata approvata con un referendum nel maggio 2008. Nel febbraio dello stesso anno il governo militare aveva annunciato che avrebbe organizzato un referendum costituzionale nel maggio 2008, cui sarebbero seguite le elezioni parlamentari nel 2010. La nuova Costituzione stabilisce che il Myanmar è uno Stato governato da un governo civile guidato da un Presidente eletto indirettamente dal popolo.
Il Presidente della Repubblica è eletto per un mandato di 5 anni, rinnovabile una sola volta, da uno speciale collegio elettorale composto dai membri del Parlamento e da personalità designate dai militari. Il Presidente nomina il governo e lo sottopone all’approvazione del Parlamento.
Il Parlamento (Pyidaungsu Hluttaw) è bicamerale ed è formato dalla Camera dei Rappresentanti e dalla Camera delle Nazionalità. La Camera dei Rappresentanti è composta da 440 membri che durano in carica 5 anni. Di questi, 330 sono eletti con sistema maggioritario uninominale a turno unico, 110 sono nominati dalle forze armate. La Camera delle Nazionalità è composta da 224 membri. Di questi, 168 sono eletti con sistema maggioritario uninominale a turno unico e i rimanenti sono nominati dalle forze armate.
La nuova Costituzione aveva formalizzato il ruolo del Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo (SPDC), un organo di cui facevano parte il Capo dello Stato e il comandante in capo delle forze militari. Il Consiglio aveva il potere, riconosciuto dalla costituzione, di controllare l’apparato militare, di dichiarare lo stato d’emergenza, di sospendere il Governo e il Parlamento, e di nominare un nuovo comandante in capo dell’esercito. Nonostante ciò, il 30 marzo 2011 il Generale Than Shwe ha firmato un decreto che ha ufficialmente dissolto il Consiglio.
Presidente della Repubblica dal febbraio 2011 è l’ex generale ed ex Primo Ministro Thein Sein (n.1945). Il suo è il primo governo civile dopo quasi 50 anni di dittatura militare. Sein era un generale e anche molti dei suoi Ministri avevano svolto funzioni di governo all’interno della giunta militare.
L’elezione di Sein è stata immediatamente seguita dallo scioglimento del Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo (SPDC). Sein, pur essendo stato appoggiato dai vertici militari nell’ascesa alla Presidenza, è generalmente considerato un moderato e un riformista, e dall’inizio del suo mandato le liberalizzazioni in ambito politico hanno sortito alcuni risultati.
Numerosi prigionieri politici sono stati rilasciati, tra questi anche i leader storici della NLD e dei movimenti studenteschi del 1988, come Min KO Naing e Ko KO Kyi. Il Governo ha anche annunciato una tregua con il movimento insurrezionale della minoranza etnica Karen (il 6% circa della popolazione), in lotta con il potere centrale da oltre 60 anni.
Le ultime elezioni politiche sono state quelle suppletive dell’aprile 2012, precedute da quelle principali del novembre 2010. Le elezioni del 2010 sono state boicottate dalla NLD, che ha denunciato la legge elettorale come “ingiusta”. Il Primo Ministro Thein Sein, altri 22 Ministri di gabinetto e il Generale Than Shwe hanno abbandonato l’esercito pochi mesi prima delle elezioni e sono entrati a far parte del Partito dell’Unione di Solidarietà e Sviluppo (USPD). Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha dichiarato che il voto del 2010 è avvenuto in condizioni “non sufficientemente inclusive, partecipatorie e trasparenti”. Il partito USPD ha conquistato 259 dei 326 seggi contesi per Camera dei Rappresentanti e 129 dei 168 seggi contesi per la Camera delle Nazionalità.
Le elezioni suppletive del 2012 hanno avuto come protagonista la NLD, finalmente autorizzata dalle autorità a registrarsi come movimento politico. Dei 45 seggi contesi alla Camera dei Rappresentanti la NLD ne ha ottenuti 44, tra cui anche quello conquistato dalla leader Aung San Suu Ki (scarcerata nel novembre 2010) nella sua circoscrizione con l’82% dei voti.
Questa prima apertura democratica ha avuto effetti positivi sulle relazioni internazionali del Paese. Pochi giorni dopo le elezioni suppletive i Ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno deciso di sospendere per un anno le sanzioni economiche imposte nel 2008. Gli Stati Uniti, da parte loro, avevano approvato nel 2003 il “Burmese Freedom and Democracy Act”, ponendo come condizione per la ripresa delle importazioni l’avvio di riforme politiche sostanziali e il rilascio dei prigionieri politici. Nel luglio 2012 il Governo di Washington ha ritirato parte delle sanzioni economiche, e ha ripreso le relazioni diplomatiche che erano state interrotte nel 1990. Nel novembre 2012 il Presidente Obama ha effettuato la prima visita in Birmania di un Presidente degli Stati Uniti in carica.
Secondo Freedom House (2013) il Myanmar è uno Stato “non libero”, mentre l’Economist Intelligence Unit (2011) lo classifica come “regime autoritario”. Il 30 agosto 2003 il Generale Khin Nyunt aveva annunciato una “road map to democracy” basata su sette punti, tra cui l’approvazione di una nuova costituzione. Nonostante ciò, il Myanmar continua a essere un Paese dove violazioni e abusi di potere sono all’ordine del giorno. Esistono 43 carceri destinate ai prigionieri politici e circa 50 campi di detenzione dove gli internati sono costretti ai lavori forzati.
Human Rights Watch nel suo report annuale del 2013 riporta alcuni miglioramenti nel campo dei diritti civili e politici. Il Governo di Pyinmana ha infatti rilasciato nel corso del 2012 circa 400 prigionieri politici, ha allentato la censura sui mezzi di comunicazione, e ha permesso al partito di opposizione guidato da Aung San Suu Ki, la NLD, di ottenere 44 seggi parlamentari in occasione delle elezioni suppletive dell’aprile 2012. Tuttavia, le forze governative non sono riuscite ad arginare la violenza e gli abusi che hanno come protagonista l’apparato militare.
Il Comitato interministeriale per i diritti umani CIDU è un organismo interministeriale di coordinamento presieduto da un funzionario di carriera diplomatica nominato dal Ministro degli affari esteri.
Il Comitato fornisce supporto tecnico per l'indirizzo e la guida strategica in materia di tutela dei diritti umani; esamina le misure attuative di impegni assunti dall’Italia in virtù di convenzioni internazionali in materia di diritti umani; promuove l’adozione dei provvedimenti necessari ad assicurare il pieno adempimento degli obblighi internazionali; segue l’attuazione delle convenzioni internazionali e cura la preparazione dei rapporti periodici che l’Italia è tenuta a presentare; collabora nelle attività di organizzazione di iniziative internazionali sui diritti umani e mantiene e implementa i rapporti con le ONG attive nel settore.
Inoltre, il Comitato predispone per il Parlamento una relazione annuale sulla propria attività e, più in generale, sulla tutela e il rispetto dei diritti umani in Italia. L'esame della relazione riferita all'anno 2010 (Doc. CXXI, n. 4) è stato intrapreso dal Comitato permanente per i diritti umani nelle sedute del 14 febbraio 2012 e 21 febbraio 2012. Per un supplemento di esame istruttorio il Comitato sui diritti umani ha invitato in audizione il presidente del Comitato interministeriale, Diego Brasioli, nella seduta del 3 aprile 2012.
La relazione sull'attività svolta nell'anno 2011 dal Comitato interministeriale dei diritti dell'uomo, nonché sulla tutela e il rispetto dei diritti umani in Italia (doc. CXXI, n. 5) è stata trasmessa alla Camera il 27 agosto 2012.
La tutela dei diritti dell’uomo è uno dei fini delle Nazioni Unite; l’organismo politico incaricato di supervisionarne l’osservanza è il Consiglio per i diritti umani, istituito con la risoluzione 60/251 dell’Assemblea Generale ONU del 15 marzo 2006, in sostituzione della Commissione dei diritti dell’uomo.
Il Consiglio per i diritti umani (Human Rights Council, HRC) che ha sede a Ginevra, è composto da stati ed è organo sussidiario dell’Assemblea Generale dell’Onu. Il Consiglio promuove la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, si occupa delle situazioni di violazione dei diritti umani e formula all’Assemblea generale raccomandazioni orientate allo sviluppo della legislazione internazionale sul tema.
Con la Universal Periodic Review-UPR il Consiglio sottopone tutti i membri dell’Onu ad un esame periodico per valutare la situazione dei diritti umani.
La composizione del Consiglio tiene conto della rappresentanza geografica e i suoi 47 membri - eletti con voto segreto dalla maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea Generale - occupano seggi assegnati in ragione di 13 ai Paesi africani, 13 ai Paesi asiatici, 6 ai Paesi dell’Europa orientale, 8 all’America Latina e Caraibi e 7 all’Europa occidentale e altri Stati.
La durata del mandato è di tre anni per massimo due mandati consecutivi.
Il Consiglio si riunisce per almeno tre sessioni l’anno oltre, se necessario, per sessioni speciali.
Alla carica di Presidente del Consiglio dei diritti umani, che ha durata annuale, sono eletti alternativamente esponenti dei gruppi regionali. Dal 10 dicembre 2012 il presidente è il diplomatico polacco Remigiusz A. Henczel.
L’Italia, già membro del Consiglio per i diritti umani per il triennio 2007-2010, è stata nuovamente eletta per il triennio 2011-2014.
Il Comitato permanente sui diritti umani, presieduto dall’on. Furio Colombo, è stato istituito il 2 luglio 2008. Il 30 settembre la Commissione Affari esteri lo ha incaricato di effettuare un' indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo , con particolare riferimento alla tutela delle minoranze.
L’indagine conoscitiva è iniziata il 1° ottobre 2008 con l’audizione di rappresentanti della Fondazione per la democrazia nei Paesi arabi(Arab Democracy Foundation). Dal dibattito è emerso che la difficile lotta contro le autocrazie al potere in quell’area è stata complicata, negli anni recenti, dall’emergere della militanza islamica. Tra i più rilevanti contributi a sostegno del processo di democratizzazione in corso in taluni paesi arabi è stato ricordato l’apporto italiano all’iniziativa, intrapresa nel 2004 in ambito G8, conosciuta come Forum per il futuro (che riunisce i capi delle diplomazie dei paesi del G8, del Medio Oriente e del Nord Africa), di cui l’Italia è copresidente nel 2009.
L’indagine è proseguita (seduta del 2 ottobre 2008) con l’audizione di difensori dei diritti umani in Colombia. Gli esponenti di comunità di pace colombiane hanno rappresentato la situazione di coloro che hanno scelto la neutralità e la pratica della non violenza, rifiutandosi di appoggiare gli attori armati del conflitto ultracinquantennale, legato anche al traffico di cocaina, in corso in Colombia. Ai diritti umani dei popoli indigeni della Colombia è stata dedicata la seduta del 20 gennaio 2009 alla quale sono intervenuti i rappresentanti del Fondo Indigeno Latinoamericano. Dalle testimonianze è emerso che la precarietà della situazione di tutela di tali diritti dipende sia dal conflitto in corso, sia dalla mancata attuazione delle previsioni legislative nazionali di tutela dei diritti dei popoli indigeni, che pure sono tra le più avanzate. La seduta del 18 maggio 2010 è stata dedicata all'audizione del coordinatore dell'Ufficio internazionale per i diritti umani di Azione Colombia (OIDHACO), rete internazionale di organismi non governativi riconosciuta come il principale interlocutore europeo sulle problematiche dei diritti umani in Colombia.
Il sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Enzo Scotti, intervenuto nella seduta del 15 ottobre 2008, ha richiamato il lungo corso dell’azione italiana per la promozione e protezione dei diritti umani nel mondo, fondata sul presupposto che la pace e la sicurezza possono essere garantite solo da una comunità internazionale composta di Stati che rispettano i diritti dell'individuo. Il sottosegretario ha evidenziato l’impegno dell'Italia - nel periodo 2007-2010 membro del Consiglio dei diritti umani dell’Onu - per la trasformazione del nuovo organo in efficace strumento di promozione dei diritti umani. Scotti ha rammentato che i temi alla base del mandato italiano in Consiglio sono la promozione della democrazia e della legalità internazionale, il contrasto a ogni forma di discriminazione e di intolleranza, la protezione dei diritti dei bambini, il contrasto al ricorso alla tortura e, non ultimo, la prosecuzione dell’azione per l'abolizione della pena di morte nel mondo. I temi programmatici del mandato italiano nel Consiglio dei diritti umani faranno da sfondo anche alla revisione periodica universale dell’Italia nel 2010. E’ stato inoltre evidenziato il forte impegno italiano per la promozione dell’eguaglianza di genere e l'empowerment femminile.
La situazione dei diritti umani in Tibet è stata trattata nella seduta dell’11 novembre 2008. Il rappresentante tibetano intervenuto, che opera a Dharamsala, in India, dove ha sede il Governo tibetano in esilio, ha riferito la grande attesa circa le decisioni che verranno assunte dagli “stati generali” della società tibetana previsti per il 17 novembre 2008 e destinati a delineare una nuova linea strategica, che molti vorrebbero più marcatamente indipendentista, nei confronti della Cina. Il rappresentante tibetano ha informato il Comitato sulle attività del Partito democratico del Tibet, tra le quali la “Marcia fino al Tibet”, organizzata pochi mesi prima dei Giochi Olimpici di Pechino per mobilitare l’opinione pubblica internazionale sull’irrisolta situazione tibetana che, pur in mancanza di dati certi, riguarda circa 120 mila tibetani fuori dal Tibet e 6 milioni all'interno, questi ultimi destinati a diventare minoranza a causa dell’intensa crescita della popolazione cinese presente in Tibet. Rispondendo all’on Matteo Mecacci che, con riferimento ad una risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Tibet (n. 7-00021) a sua firma, approvata dalla Commissione esteri il 2 luglio 2008 ha chiesto dati aggiornati sulla situazione dei diritti umani in Cina, il rappresentante tibetano ha replicato che al momento sono alla ribalta condanne delle persone in carcere e attività di controllo, da parte della polizia cinese, degli attivisti rilasciati. Sempre in tema di rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche in Tibet l’on. Mecacci è tra i firmatari di una mozione (n. 1-00089) approvata dall’Assemblea nella seduta del 10 marzo 2009.
La seduta del 19 novembre 2008 è stata dedicata all’analisi delle azioni strategiche non violente attraverso l’audizione di un rappresentante dell'International Center on Nonviolent Conflict con sede a Washington, nato proprio con lo scopo di studiare e far conoscere la teoria e la pratica nonviolenta.
La situazione del Darfur è stata oggetto di audizione di rappresentanti di organizzazioni non governative operanti in quell’area che, ascoltati dal Comitato il 10 dicembre 2008, hanno riferito sull’emergenza umanitaria. Sono emersi, inoltre, profili problematici in ordine alla missione di pace UNAMID, che può contare su un organico di forze insufficiente. L’audizione è proseguita il 3 febbraio 2009 con l’intervento di rappresentanti di ONG attive in Darfur i quali, dopo aver sottolineato come l’aggravarsi del quadro di sicurezza ne ostacoli l’azione, hanno sostenuto la necessità di affiancare gli interventi di tipo militare con attività di cooperazione civile.
La seduta dell’11 dicembre 2008 è stata dedicata all’audizione del presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani CIDU, Valentino Simonetti, che ha delineato un quadro generale sia delle attività del Comitato, organismo interministeriale di coordinamento istituito presso il Ministero degli affari esteri nel 1978 e la cui composizione è stata aggiornata nel 2007, sia dei meccanismi internazionali di tutela dei diritti umani. Nel prosieguo dell’audizione (25 febbraio 2009) il presidente del CIDU ha rammentato, tra gli impegni (pledge) assunti dall’Italia all’atto della candidatura, nel 2006, al Consiglio dei diritti umani, tre iniziative di carattere legislativo interno, cioè di adeguamento dell'ordinamento nazionale alle prescrizioni provenienti dai vari fori internazionali: l'istituzione di una commissione nazionale indipendente per la tutela e la promozione dei diritti dell'uomo; la ratifica del protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura; l'adeguamento dell'ordinamento nazionale allo Statuto della Corte penale internazionale. Valentino Simonetti è stato ancora ascoltato dal Comitato il 16 febbraio 2010, quando ha dato conto degli sviluppi più recenti del monitoraggio internazionale sulla situazione dei diritti umani in Italia.
Rappresentanti di ONG del popolo saharawi (seduta del 18 febbraio 2009) hanno riferito al Comitato la situazione dei diritti umani nel territorio saharawi (Sahara occidentale), dove dal 1991 è dispiegata la missione Onu MINURSO per il referendum sull’autodeterminazione del popolo Saharawi (Sahara occidentale).
Nella seduta del 25 marzo 2009 il Comitato permanente sui diritti umani ha ascoltato il direttore dell'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce, Odihr(Office for Democratic Institutions and Human Rights), che ha illustrato gli interventi in Georgia ed Armenia e, su un piano più generale, le attività svolte dall’Odihr, tra cui in particolare le missioni di osservazione elettorale.
Il diritti umani a Cuba sono stati oggetto della seduta del 1° aprile 2009.
La situazione dei diritti umani nella Federazione russa è stata al centro dell’audizione di rappresentanti di Amnesty International (8 aprile 2009) invitati anche a seguito dell’auspicio formulato dai deputati della Commissione in vista dell’approvazione dell’Accordo italo-russo di cooperazione sulla lotta alla criminalità (ora L.73/2009).
Le violazioni dei diritti umani nel Turkestan orientale sono state al centro di un’audizione (5 maggio 2009) dove il presidente del World Uyghur Congress ha riferito sulla situazione del popolo uiguro, minoranza musulmana e turcofona nella Repubblica popolare cinese. Il Turkestan orientale (regione autonoma uigura dello Xinjiang, secondo la denominazione del governo cinese) dove vivono 18 dei 20 milioni di uiguri totali, è teatro di sistematiche violazioni dei diritti umani fondamentali ad opera delle forze di sicurezza cinesi. Ulteriori sviluppi della situazione sono stati riferiti nella seduta dell’ 8 luglio 2009.
La seduta del 26 maggio 2009 è stata dedicata alla Birmania, con l’audizione del segretario generale del Consiglio nazionale dell'Unione di Birmania e della Federazione birmana dei sindacati, Maung Maung, che ha riferito sugli sviluppi della vicenda di Daw Aung San Suu Kyi e sul processo in corso a carico della leader della Lega nazionale per la democrazia. Nel corso del dibattito è stata posta in rilievo la questione dei diritti dei lavoratori in Birmania nonché quella del quadro politico generale del paese, dove vengono violati i diritti elementari.
Nella seduta del 16 giugno 2009 è stata affrontata la questione dell’esodo degli 850 mila ebrei cacciati dai Paesi arabi nel 1948, la così detta Naqba (“disastro”) per il popolo ebraico.
La seduta del 18 giugno 2009 è stata dedicata all’audizione del direttore dell'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali che ha sede a Vienna e che svolge attività di raccolta e esame di dati nonché studi finalizzati alla formulazione di raccomandazioni e consigli alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri, titolari dell’azione politica.
Il 1° ottobre 2009 si è svolta l’audizione della presidente dell'Associazione Abuelas de Plaza de Mayo, e del presidente della Commissione diritti umani della Camera dei deputati della Repubblica Argentina. Nel corso del dibattito si è fatto riferimento al ruolo positivo dell’Italia nelle vicende giudiziarie di taluni responsabili delle violazioni dei diritti umani compiute dal regime dittatoriale argentino e di trattate le problematiche delle sparizioni dei figli di desaparecidos e le attività poste in essere per il loro ritrovamento.
La seduta dell' 8 ottobre 2009 è stata dedicata alle problematiche dei diritti umani in Brasile; sono emerse, quanto alle aree rurali, le violenze esercitata sui lavoratori senza terra e la questione delle popolazioni indigene costrette a sgomberi forzati da parte dei proprietari terrieri; nelle aree urbane, il problema della sicurezza pubblica e la violenza della polizia e delle forze di sicurezza, in particolare l’azione delle milizia.
Il 19 novembre 2009 si è svolta l'audizione di rappresentanti di organizzazioni non governative sulla situazione dei diritti umani in Indocina.
La seduta del 9 febbraio 2010 è stata dedicata all'audizione di rappresentanti della sezione italiana di Amnesty International i quali hanno sottolineato che in vista della Revisione Universale Periodica (UPR) cui l'Italia è stata sottoposta proprio nella giornata del 9 febbraio, Amnesty International, conformemente alle procedure previste dalla Revisione, ha presentato al Consiglio ONU dei diritti umani un documento contenente informazioni sulla situazione dei diritti umani in Italia e una serie di raccomandazioni indirizzate al Governo italiano. Sugli esiti dell’UPR ha riferito il presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani, Valentino Simonetti, membro della delegazione italiana, nella seduta del 16 febbraio 2010. L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navanethem Pillay, intervenuta nella seduta dell' 11 marzo 2010 si è soffermata anche sugli esiti dell'UPR dell'Italia sottolineando, in particolare, che numerose raccomandazioni formulate al nostro Paese da diversi Stati erano incentrate sulle modalità per il superamento della discriminazione razziale e della xenofobia. Dopo aver ricordato che una delle questioni sollevate nel corso dell'UPR è quella relativa ai rom e ai sinti, l'Alto Commissario ha espresso preoccupazione per l'immagine negativa associata ai migranti nei media e nel dibattito politico. In vista della conclusione della Revisione periodica universale dell'Italia, nella seduta del 20 maggio 2010 presso la Commissione Affari esteri si è svolta l'audizione del sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Vincenzo Scotti, che ha riferito sugli orientamenti del Governo in merito alle risposte da dare alle 92 raccomandazioni rivolte all'Italia nel quadro della UPR.
La situazione dei diritti umani in Iran è stata l'oggetto dell'audizione (seduta del 18 marzo 2010) di Caspian Makan, attivista per i diritti umani in quel paese.
La seduta dell'8 aprile 2010 è stata dedicata all'audizione di rappresentanti di nativi canadesi.
Il 13 aprile 2010 il Comitato permanente sui diritti umani ha ascoltato il commissario generale dell' UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), Filippo Grandi.
La seduta del 26 maggio 2010 si è incentrata sui diritti umani nella Repubblica popolare e democratica di Corea.
Il Rapporto annuale 2010 di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo è stato al centro della seduta del 6 luglio 2010.
La seduta del 28 ottobre 2010 è stata dedicata all’audizione di Marco Pannella incentrata prevalentemente sulla condanna a morte inflitta all'ex vicepresidente iracheno Tareq Aziz e sulle vicende della guerra in Iraq. Su tali temi l’Assemblea della Camera, nella seduta del 27 ottobre 2010 ha approvato, pressoché all’unanimità, la mozione n. 1-00472 a prima firma dell’on. Matteo Mecacci che impegna il Governo ad intervenire con urgenza nei confronti delle autorità irachene perché sia evitata l'esecuzione di Tareq Aziz e dei suoi coimputati, coerentemente con l'iniziativa che il 18 dicembre 2007 ha portato all'approvazione della «Moratoria universale della pena di morte» da parte dell'Assemblea generale dell'Onu; il Governo è impegnato, inoltre, a promuovere presso i partner europei una formale richiesta alle autorità irachene di reintrodurre la moratoria sulla pena di morte stabilita in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, al fine di rafforzare il completamento della transizione democratica dell'Iraq secondo i principi di uno Stato di diritto che rispetta i più alti standard della giustizia internazionale.
Nella seduta del 21 dicembre 2010 si è svolta l’audizione del sacerdote eritreo Moissié Zerai che ha riferito sulla vicenda, dei cittadini eritrei provenienti dalla Libia che, nel tentativo di immigrare in Israele, sono caduti nelle mani di predoni e trafficanti di esseri umani che li trattengono in campi di prigionia situati in territorio egiziano, nella regione del Sinai, al di fuori di ogni controllo da parte delle autorità locali.
Nella seduta del 19 gennaio 2011 il Comitato ha ascoltato il vicario patriarcale caldeo di Baghdad, Shlemon Warduni. Sono stati richiamati i contenuti della risoluzione n. 6-00052 sulla tutela della libertà religiosa, con particolare riferimento ai cristiani e alle minoranze perseguitate, approvata dalla Camera 12 gennaio 2011. Warduni, che ha rammentato l’impegno profuso dai parlamentari italiani a sostegno della minoranza cristiana irakena, ha auspicato che la comunità internazionale non limiti il proprio agire nel paese agli ingenti interessi energetici ma operi a favore del conseguimento di condizioni di pace e sicurezza per l’Iraq, dove la situazione politica e socio economica è in costante peggioramento, e per il Medio Oriente; l’ospite ha inoltre sottolineato la necessità che venga impedito il commercio di armi, che venga garantita la libertà di culto alla minoranza cristiana, che si stabilisca un tribunale speciale internazionale per indagare sui responsabili dell’uccisione di sacerdoti da parte di terroristi. Il vicario ha riferito di feroci attacchi ai cristiani esclusivamente a motivo della loro fede, ha invocato una più decisa azione delle Nazioni Unite nella difesa dei diritti umani, sottolineando, inoltre, i gravi problemi connessi agli ostacoli incontrati, in termini di accoglienza in altri paesi, dai numerossissimi dei cristiani in fuga dall’Iraq. Nel corso del dibattito sono state evidenziate, tra il resto, problematiche connesse alle azioni del governo di Al Maliki riguardo la libertà religiosa, alle indagini su attentati contro la comunità cristiana e al quadro giuridico irakeno.
Infine, nella seduta del 25 gennaio 2011 si è svolta l’audizione di rappresentanti dell'Associazione Migrare - Osservatorio sul fenomeno dell'immigrazione, incentrata sulla situazione della Somalia. Oltre alla instabilità politica ed istituzionale il paese è connotato da un quadro dei diritti umani definiti inesistenti a causa del radicalismo islamico che ha permeato un paese di tradizione laica, con situazioni di particolare gravità per donne e minori.
L’indagine conoscitiva, deliberata il 2 marzo 2011, ha preso l’avvio nella seduta antimeridiana del 15 marzo 2011 con l’audizione del Presidente dell'Associazione culturale berbera, Vermondo Brugnatelli che ha riferito sulla condizione della popolazione berbera in Libia, anche con riferimento alle rivolte in corso in quel paese e in tutta l’area nord africana. Nella seduta pomeridiana è intervenuto il professor Tareq Heggy, attivista per la democrazia in Egitto, che ha fornito un’ampia ricognizione del quadro politico nel paese.
La Rappresentante speciale e coordinatore per la lotta alla tratta degli esseri umani dell'OSCE, Maria Grazia Giammarinaro, è intervenuta il 29 marzo 2011. Nel corso dell’audizione sono state esposte le linee direttrici del lavoro dell’OSCE sul tema e delineati i principali caratteri che connotano il traffico a fini di sfruttamento di esseri umani, fenomeno in crescita in tutte le congiunture economiche.
Nella seduta del 5 aprile 2011 il Comitato diritti umani ha ascoltato Laura Boldrini portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che ha riferito della situazione umanitaria interna e del deflusso di molte decine di migliaia di persone dalla Libia verso i paesi confinanti a seguito dell’aggravarsi del quadro interno. Nel corso del suo intervento, Boldrini ha riferito anche sui flussi di cittadini, prevalentemente tunisini e in percentuale assai minore libici, giunti via mare in Italia (isole Pelagie) dall’inizio del 2011, dei problemi connessi alla loro accoglienza. Un aggiornamento della situazione dello stato dei diritti umani in Libia è stato fornito, un anno dopo 27 marzo 2012 con l’audizione di rappresentanti di Amnesty International.
Rappresentanti di Human Rights Watch sono stati ascoltati il 18 maggio 2011, tra i quali la dottoressa Judith Sunderland, che ha illustrato i contenuti del rapporto L'intolleranza quotidiana. La violenza razzista e xenofoba in Italia, pubblicato il 21 marzo 2011 in occasione della Giornata mondiale contro la discriminazione razziale, del quale è autrice.
Il 9 giugno 2011 sono intervenuti rappresentanti del Comitato organizzatore di Europride 2011. L’audizione si è incentrata sui temi dell’omofobia, della discriminazione e dei diritti civili per le persone LGBT.
L’attivista per i diritti umani in Somalia Shukri Said è intervenuto presso il comitato il 28 giugno 2011, dove ha dato conto dei recenti sviluppi della situazione nel paese.
Il 12 luglio 2011 in un’audizione dedicata alla situazione dei numerosissimi profughi eritrei, privi di tutela internazionale e costretti a cercare rifugio in vari paesi del nord africa e del medio oriente, con particolare riferimento alle persone in fuga dalla Libia, è stato ascoltato il sacerdote eritreo Moissié Zerai, Presidente dell'agenzia Habeshia.
Nella seduta del 29 settembre 2011 sono stati ascoltati attivisti per i diritti umani nella regione del Sahara Occidentale.
Ai più recenti orientamenti teorici e definitori del tema diritti umani e democrazia ed alla loro stretta interconnessione con le decisioni di politica estera è stata dedicata l’audizione (9 novembre 2011) di Sebastiano Maffettone, Direttore del Dipartimento di Scienze politiche (LUISS).
La situazione in Siria dieci mesi dopo l’inizio delle rivolte è stata rappresentata al Comitato diritti umani da Shady Hamadi, attivista per i diritti umani di quel paese nella seduta del 21 dicembre 2011.
Il 6 marzo 2012 al centro della seduta sono state le questioni dei diritti umani nella Corea del Nord.
I diritti umani in Ucraina, con particolare riguardo alle condizioni di Yulia Tymoshenko, ex premier condannata a sette anni di carcere per abuso d'ufficio in ragione delle sue scelte politiche in tema di accordi con la Russia per la fornitura di gas, sono stati oggetto dell’audizione di Eugenia Tymoshenko , figlia di Yulia 21 marzo 2012.
Il presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani, Diego Brasioli, è intervenuto nella seduta del 3 aprile 2012 in risposta ad una sollecitazione formulata all’interno del medesimo Comitato per i diritti umani durante l’esame istruttorio della relazione sull'attività svolta dal Comitato interministeriale nell’anno 2010 (avviato nelle sedute del 14 e 21 febbraio 2012. In ragione del tempo intercorso dalla redazione della relazione, l’audizione ha rappresentato un supplemento informativo sugli eventi più recenti in tema di tutela nazionale dei diritti umani e sugli indirizzi strategici per il 2012.
Rappresentanti dell'Associazione italiana Falun Dafa, pratica spirituale molto diffusa in Cina e i cui seguaci sono perseguitati dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, sono intervenuti nella seduta del 17 aprile 2012.
La questione del ritrovamento e dell’identificazione dei figli dei desaparecidos argentini è stata al centro della seduta del 29 maggio 2012 alla quale sono intervenute esponenti dell’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo. Nella seduta dell’11 dicembre 2012 sono state ascoltate rappresentanti dell’Associazione Madres de Plaza de Mayo - Linea Fundadora.
Il 5 giugno 2012 i diritti umani in Messico, con particolare riferimento ai migranti provenienti dall’America centrale e in transito verso gli Stati Uniti, sono stati al centro dell’audizione di padre Alejandro Solalinde. Nella seduta del 27 novembre 2012 sono intervenuti rappresentanti dell’associazione Cauce Ciudadano sorta nella capitale, Città del Messico, con lo scopo di prevenire e contrastare la violenza dilagante tra i giovani del Distrito Federal e gli abusi delle forze di polizia.
Nella seduta del 10 luglio 2012rappresentanti di Amnesty International hanno presentato il rapporto annuale dell’associazione, che offe un quadro aggiornato della situazione generale dei diritti umani ed un particolare approfondimento su Medio Oriente e Nord Africa, alla luce degli eventi dei diciotto mesi precedenti (primavere arabe). Le esigenze di approfondimento della situazione italiana sono state affrontate nella seduta del 6 novembre 2012.
La situazione del Mali è stata rappresentata nell’audizione del 24 luglio 2012 dal parlamentare maliano Demba Traoré, Segretario generale del Partito radicale nonviolento, transnazionale e transpartito.
Nella seduta del 18 settembre 2012 si è svolta l’audizione di Gianni Buquicchio, presidente della Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, nota come Commissione di Venezia, l’organismo del Consiglio d’Europa che assiste gli Stati nel consolidamento e rafforzamento delle istituzioni democratiche. Al centro della seduta il quadro costituzionale dell’Ungheria ed i più recenti sviluppi istituzionali in Romania.
Il quadro dei diritti umani in Kazakhstan con particolare riferimento ai fatti di Zhanaozen (dicembre 2011) ed alle gravi violazioni dei diritti dei lavoratori impiegati nel settore petrolifero, è stato al centro della seduta del 18 ottobre 2012.
La seduta del 30 ottobre 2012 è stata dedicata all’audizione di attiviste per i diritti umani e delle donne nel mondo islamico, presenti rappresentanti del mondo egiziano, tunisino ed iraniano.
Le prospettive della cooperazione bilaterale nel loro intreccio con la tutela dei diritti umani in Afghanistan sono state al centro dell’audizione di rappresentanti di Afgana, rete della Società civile italiana e di rappresentanti della società civile afgana intervenuti presso il Comitato diritti umani il 13 novembre 2012.
L’art. 6, par.1 del Trattato sullâ€Unione europea (TUE), in particolare, riconosce alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, adattata il 12 dicembre 2007, lo stesso valore giuridico dei trattati. Lâ€art. 6, par. 2 del TUE stabilisce che l’Unione aderisca alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e che tale adesione non modifichi le competenze dell’Unione definite dati Trattati.
Il protocollo n. 8 relativo all’articolo 6, paragrafo 2 allegato al trattato del TUE prevede che l'accordo relativo all'adesione dell'Unione alla CEDU deve garantire che siano preservate le caratteristiche specifiche dell'Unione e del diritto dell'Unione per quanto riguarda: a) le modalità specifiche dell'eventuale partecipazione dell'Unione agli organi di controllo della convenzione europea; b) i meccanismi necessari per garantire che i procedimenti avviati da Stati non membri e le singole domande siano indirizzate correttamente, a seconda dei casi, agli Stati membri e/o all'Unione.
A partire dal luglio 2010, i negoziatori della Commissione ed esperti del Comitato direttivo per i Diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa si sono riuniti regolarmente per elaborare l’accordo di adesione. Al termine del processo, l’accordo di adesione sarà concluso dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e, all’unanimità, dal Consiglio dell’UE. Anche il Parlamento europeo, che deve essere pienamente informato di ciascuna delle fasi dei negoziati, deve dare il proprio consenso. Una volta concluso, l’accordo dovrà essere ratificato da tutte le 47 parti contraenti della CEDU, conformemente alle rispettive disposizioni costituzionali.
L’adesione alla CEDU comporterà un controllo giurisdizionale aggiuntivo nel settore della tutela dei diritti fondamentali nell’Unione. Sarà in effetti competenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo controllare, ai fini del rispetto della Convenzione, gli atti delle istituzioni, degli organi e organismi dell’UE, e anche le sentenze della Corte di giustizia. I cittadini disporranno poi di un nuovo mezzo di ricorso; potranno infatti adire la Corte dei diritti dell’uomo in caso di violazione dei diritti fondamentali imputabile all’Unione, a condizione però che abbiano già esaurito tutte le vie di ricorso interne.
L’adesione dell’Unione europea alla CEDU richiederà altresì la convergenza su una serie di questioni giuridiche rilevanti:
Secondo l’Osservatorio sulla libertà religiosa curato dall’Associazione ACS - Aiuto alla Chiesa che Soffre, il già complesso quadro della libertà religiosa in Pakistan ha avuto nel 2011 il suo annus horribilis. I due omicidi di esponenti politici di primo piano, il governatore musulmano del Punjab Salman Taseer e il Ministro federale per le Minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti, per mano di estremisti islamici, sono strettamente legati al tema della libertà religiosa in quanto entrambi i leader sono caduti perché favorevoli ad abolire, o almeno modificare, la cosiddetta legge antiblasfemia.
La legge antiblasfemia (sezione 296, paragrafi B e C del Codice penale pakistano), introdotta nel 1986 dal dittatore Zia-ul-Haq, punisce con l’ergastolo chi offende il Corano e prevede la condanna a morte per chi insulta il Profeta; sin dalla sua entrata in vigore la legge viene strumentalizzata per risolvere controversie private e usata anche come mezzo di oppressione delle minoranze religiose. Secondo la Catholic Church’s National Commission for Justice and Peace (NCJP) pakistana, delle 993 persone incriminate ai sensi di tali norme nel periodo 1986-2010, 120 (12%) sono cristiani.
Sebbene la Costituzione pakistana stabilisca che la Repubblica islamica del Pakistan è ufficialmente un paese laico, la legge antiblasfemia e le Ordinanze Hudood, anch’esse in vigore, continuano ad affliggere le minoranze religiose.
Le Ordinanze Hudood sono norme di diritto penale basate sul Corano approvate nel 1979, sotto la giunta militare del generale Ziaul-Haq. Composte da quattro parti e destinate a regolare i temi della proprietà, dell'adulterio e delle proibizioni religiose, prevedono la flagellazione e la lapidazione per i comportamenti incompatibili con la legge islamica (adulterio, gioco d’azzardo, consumo di alcool).
Il caso specifico che è costato la vita ai due leader pakistani è la vicenda (iniziata al 19 giugno 2009) di Asia Bibi, cittadina pakistana di religione cristiana della provincia del Punjab (Pakistan orientale), denunciata per blasfemia e condannata alla pena capitale dal Tribunale distrettuale di Nankana. La condanna a morte della prima donna pakistana in base alla legge sulla blasfemia ha suscitato la reazione immediata della comunità internazionale e della Santa Sede, attivatisi presso le autorità di Islamabad a favore sia di un approfondimento delle accuse mosse alla Bibi in vista del prosieguo dell’iter giudiziario, sia di una più stretta vigilanza contro l’abuso della legge sulla blasfemia finalizzato alla discriminazione delle minoranze cristiane. Tuttavia, sia l’ipotesi della concessione della grazia ad Asia Bibi (dall’inizio del 2011 in cella di isolamento nel carcere di Sheikhpura, in Punjab, dopo che sulla sua testa era stata messa una taglia) sia i progetti di modifica o di abrogazione della legge antiblasfemia sono naufragati di fronte alla reazione dei movimenti religiosi islamici pachistani, propugnatori dell’esecuzione della sentenza capitale nei confronti di Asia Bibi e del tutto contrari ad ogni ipotesi di modifica della legge sulla blasfemia.
La spirale di violenza ha avuto esito il 4 gennaio 2011 nell’omicidio, da parte di una guardia del corpo, del governatore del Punjab, Salman Taseer, musulmano, personalmente mobilitatosi a favore della grazia per la Bibi. Il 2 marzo 2011 i talibani pakistani hanno assassinato a Islamabad Shahbaz Bhatti ministro cristiano per le minoranze, a causa della sua campagna contro la legge antiblasfemia.
Il dibattito sulla legge era giunto sino alla presentazione in Parlamento di un proposta di revisione della legge antiblasfemia firmata da Sherry Rehman, parlamentare del Pakistan People's Party, il partito di maggioranza, successivamente nominata ambasciatrice del Pakistan negli Stati Uniti. La proposta, presentata proprio sull’onda del caso di Asia Bibi, prevedeva, fra l’altro: cinque anni di carcere invece della pena di morte per i presunti blasfemi; pene severe per chi formula false accuse di blasfemia e per chi incita all’odio religioso; il passaggio dei procedimenti giudiziari per blasfemia alla competenza dell’Alta Corte; la necessità di prove e garanzie preventive all’arresto di un accusato. La sollevazione dei gruppi e dei partiti religiosi estremisti, culminata con l'accusa di blasfemia alla stessa Rehman, ha indotto al ritiraro del disegno di legge mettendo a tacere ogni il dibattito sul tema dopo gli assassini di Taseer e Bhatti.
La reazione del Governo ai due omicidi, sostanziatasi – come sostenuto da difensori dei diritti umani – in un atteggiamento più orientato a placare gli estremisti che a ritenerli responsabili, ha incoraggiato questi ultimi a porre in essere ulteriori azioni intimidatorie dando esito a un incremento dei casi di accusa per blasfemia.
Sulla difficile condizione delle minoranze religiose, sull'urgenza di tutela della libertà religiosa e sulla crescita dell'estremismo, le cifre e le analisi fornite da recenti rapporti di accreditati analisti locali sono concordi. Si tratta delle analisi condotte da Human Rights Commission of Pakistan (HRCP), una delle maggiori ONG del Paese (Perils of Faith, dicembre 2011); dalla Commissione Giustizia e Pace, espressione istituzionale della Chiesa cattolica (Human Rights Monitor 2011); dal Jinnah Institute, think-thank laico, già diretto dall’attuale ambasciatrice pakistana negli Stati Uniti, Sherry Rehman, di cui fanno parte intellettuali musulmani (A Question of Faith, 7 giugno 2011) .
Uno studio condotto nel 2011 dalla United States Commission on International Religious Freedom – USCIRF, basato sull’esame del contenuto dei libri di testo e su interviste a studenti ed insegnanti ha indicato nel sistema scolastico la radice del diffuso radicalismo islamico spiegando quindi perché la militanza è spesso sostenuta, tollerata e giustificata. Gli esiti della ricerca hanno infatti evidenziato che i membri delle minoranze religiose sono spesso dipinti come cittadini inferiori o di seconda categoria.
USCIRF (United States Commission on International Religious Freedom) è una commissione indipendente e bipartisan dell’Amministrazione federale statunitense, i cui membri sono di nomina presidenziale, incaricata dell’esame delle violazioni della libertà religiosa a livello internazionale al fine di formulare raccomandazioni politiche per il Presidente, il Segretario di Stato e il Congresso. USCIRF pubblica ogni anno un rapporto che presenta una graduatoria dei paesi dove sono documentati abusi e limitazioni della libertà di religione; il livello di gravità assegnato a ciascun paese determina il tipo di azione che l’Amministrazione prenderà al riguardo. Nell’edizione 2012 il Pakistan si conferma CPC (Country of Particular Concern), il livello più severo di gravità, assegnato ai paesi il cui governo ha commesso o tollerato violazioni enormi, sistematiche e protratte della libertà religiosa. A gennaio 2013 la Corte Suprema del Pakistan ha approvato la richiesta di processare per blasfemia l’ambasciatrice pakistana negli USA Sherry Rehman, richiesta che era stata respinta da un tribunale di prima istanza del capoluogo provinciale del Punjab. La Rehman era stata denunciata nel febbraio 2010 dopo la sua partecipazione ad un programma televisivo da una persona che si era detta “sconvolta” dalla sua posizione riguardo alla “legge antiblasfemia”. Gli osservatori hanno giudicato la decisione della Corte Suprema pakistana un risultato importante per gli estremisti religiosi e per le loro affiliazioni politiche, ed un ulteriore elemento di dissuasione verso che si oppone agli effetti più arbitrari o severi di una legge che finisce per diventare strumento di oppressione contro le minoranze, ma anche contro musulmani moderati o modernisti. L’agenzia pontificia Fides ha rilevato che solo un anno fa l’Jinnah Insitute, allora diretto dalla Rehman, segnalava come il giudizio contro Asia Bibi fosse stato viziato da evidenti pressioni di estremisti islamici e motivato da vendetta personale.
L’attività parlamentare di indirizzo sulla situazione delle minoranze cristiane nel mondo ha trovato, nel corso della XVI legislatura, un momento di culmine nell'approvazione della risoluzione n. 6-00052 approvata dall’Assemblea a larghissima maggioranza nella seduta del 12 gennaio 2011.
La risoluzione, presentata dall'on. Mazzocchi ed altri, riguarda iniziative finalizzate a far cessare le persecuzioni anticristiane nel mondo. Il documento richiama preliminarmente il messaggio del pontefice Benedetto XVI del 1° gennaio 2011, "Libertà religiosa via per la pace", nel quale si denuncia la grave mancanza di libertà religiosa che affligge numerosi esseri umani tra i quali cristiani in molti paesi; il messaggio, inoltre, evidenzia che il termine «cristianofobia» è quello che descrive più compiutamente questo fenomeno di portata universale e come tale è stato adottato dall'ONU sin dal 2003 e dal Parlamento europeo nel 2007.
La parte dispositiva della risoluzione impegna il Governo a far valere con ogni forma di legittima pressione, diplomatica ed economica, il diritto alla libertà religiosa, in particolare dei cristiani e di altre minoranze perseguitate dove essa risulti minacciata o compressa, per legge o per prassi, sia direttamente dalle autorità di governo sia attraverso un tacito assenso e l'impunità degli autori di violenze; a far valere, nelle relazioni diplomatiche ed economiche bilaterali o multilaterali, la necessità di un effettivo impegno degli Stati per tolleranza e libertà religiosa, fino alla sanzione del diritto alla «libertà di cambiare religione o credo»; a tener conto del rispetto dei diritti umani nei paesi con cui ci sono scambi economici, in coerenza e in applicazione degli articoli 8 e 19 della nostra Costituzione; a richiedere in ambito internazionale di concerto con i partner dell'Unione europea la rimozione delle limitazioni dei diritti umani, ed in particolare della libertà religiosa, in quei paesi dove vige la sharia; a proseguire nell'impegno perché la risoluzione sulla libertà religiosa sia effettivamente implementata negli Stati dell'ONU e ad istituire un “Osservatorio sulla condizione dei cristiani nel mondo” per monitorare e valutare l'applicazione di tali impegni.
In una nota pervenuta alla Camera il 29 settembre 2011 il Governo ha affermato il proprio impegno in ogni sede per la promozione della libertà religiosa e per la tutela delle comunità cristiane nel mondo, in conformità col mandato politico ricevuto dalla mozione approvata dalla Camera dei deputati il 12 gennaio 2011.
In corrispondenza di gravi violenze contro le comunità cristiane in India, il 10 novembre 2008 l’Assemblea ha adottato la mozione n. 1-00058, (Evangelisti ed altri), nella quale oltre che alle stragi compiute nello Stato dell'Orissa, si fa riferimento anche alla diffusione di atti di cristianofobia in molti paesi al mondo, richiamando a tale fine i contenuti di specifici rapporti; la mozione impegna il Governo a “porre in essere azioni adeguate volte a contrastare la persecuzione delle comunità cristiane e di qualsiasi altra rappresentanza religiosa”. Nella stessa seduta l’Assemblea della Camera ha adottato anche le mozioni 1-00037 (Volontè ed altri), 1-00052 (Bertolini ed altri) e la risoluzione 6-00010 (Cota e Gibelli), che impegnano il Governo ad intraprendere, in sede sia bilaterale sia multilaterale, iniziative volte alla protezione delle comunità cristiane del distretto indiano di Kandhamal, fatte oggetto di gravi e ingiustificate violenze perché accusate dell’omicidio della guida spirituale dei fondamentalisti indù del distretto.
Tra i paesi all’attenzione dell’Assemblea in riferimento alle persecuzioni anticristiane emerge l’Iraq, oggetto, il 20 novembre 2008, di un'interpellanza urgente (n. 2-00197) (Renato Farina) relativa all’ondata di violenze di matrice qaedista che ha determinato la fuga di numerosissimi cristiani dai villaggi intorno a Mossul, nel Kurdistan iracheno: la “strage di cristiani” denunciata dalle autorità religiose e l’esodo da Mossul di centinaia di membri di tale comunità sono state al centro dell’interpellanza n. 2-00630 (Castagnetti) discussa il 4 maggio 2010.
L’interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3-00834, (Vietti), presentata nella seduta del 13 gennaio 2010 ha ulteriormente focalizzato le violenze nei confronti di comunità cristiane presenti oltre che in Iraq ed India, in altri paesi quali Pakistan, Nigeria, Vietnam, Filippine, Malaysia ed Egitto. Dal dibattito è emerso l’auspicio di un ulteriore rafforzamento dell’azione già condotta dal governo italiano presso i partner internazionali, azione che ha contribuito all’adozione, sul piano europeo del documento sulla libertà di religione e in ambito Onu, all'approvazione, da parte dell'Assemblea Generale, di una risoluzione sull'intolleranza religiosa. Ancora sulla tutela della libertà religiosa in Egitto, con riferimento in particolare alla situazione delle minoranze copte sono intervenute (20 ottobre 2011) le interpellanze urgenti n. 2-01225 (Renato Farina) e n. 2-01239 (Tempestini e Ventura); sul medesimo tema insiste l’interpellanza urgente n. 2-01363 (Renato Farina) discussa dall’Assemblea il 16 febbraio 2012.
Le persecuzioni anticristiane in Pakistan sono reiteratamente tornate all’attenzione sia dell’Assemblea, sia della Commissione Affari esteri. Proprio in sede di Commissione il 25 novembre 2010, si è svolta l'interrogazione n. 5-03573 (Polledri e Pini) vertente anche su soprusi e violenze ai danni delle minoranze cristiane di quel paese, non sempre raggiunte dagli interventi umanitari e di soccorso successivi alla devastante alluvione dell’agosto 2010. Nella seduta del 27 gennaio 2011 l'Assemblea ha svolto l'interpellanza urgente n. 2-00938 (Renato Farina) incentrata, tra il resto, sulla vicenda di Asia Bibi cittadina pachistana di religione cristiana condannata a morte da un tribunale del Punjab con l'accusa di blasfemia, e sulla legge antiblasfemia in vigore in Pakistan. Un'ulteriore interpellanza urgente di iniziativa dell'on. Farina ed altri (2-01048) in tema di iniziative per la salvaguardia della vita di Asia Bibi, è stata svolta dall'Assemblea nella seduta del 14 aprile 2011. Ulteriori atti di controllo aventi ad oggetto varie problematiche inerenti le minoranze cristiane in Pakistan sono stati discussi presso la Commissione Affari esteri: si tratta, in particolare, delle interrogazioni 5-04890) sul rapimento di una studentessa pakistana di religione cristiana (22 giugno 2011) e 5-05968 e 5-07737 sulla condizione dei cristiani in Pakistan (discusse rispettivamente il 7 febbraio e il 6 novembre 2012) tutte d’iniziativa dell’on. Farina.
L’attenzione della Commissione, con iniziative dell’on. Farina, si è rivolta anche a specifici episodi di persecuzione di cristiani avvenuti in Vietnam con le interrogazioni 5-05745 e 5-05876 discusse in Commissione il 21 febbraio 2012; in Cina (interrogazione 5-06121, 4 aprile 2012), nella Repubblica delle Maldive (5-05512 e 5-05749, 17 aprile 2012) e, con l’interrogazione 5-08552 (18 dicembre 2012) in Nigeria.
L’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona stabilisce:
L’articolo 218 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede che l’accordo sull’adesione alla CEDU dovrà essere concluso dal Consiglio all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo e con ratifica da parte degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Alla luce del nuovo impulso fornito dal Trattato di Lisbona, la tutela dei diritti fondamentali con particolare riguardo alla lotta al razzismo e alla xenofobia, alla protezione dei minori e dei gruppi più vulnerabili costituisce una priorità nel programma 2010-2014 per lo spazio di libertà sicurezza e giustizia (programma di Stoccolma), adottato dal Consiglio europeo il 10-11 dicembre 2009.
Nel giugno 1999 il Consiglio europeo di Colonia ha convenuto che fosse opportuno riunire in una Carta i diritti fondamentali riconosciuti a livello dell’Unione europea (UE), per dare loro maggiore visibilità.
In particolare, il Consiglio europeo aveva indicato che occorreva includere nella Carta i principi generali sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni dei paesi dell’UE. Inoltre, la Carta doveva includere i diritti fondamentali attribuiti ai cittadini dell'UE, nonché i diritti economici e sociali enunciati nella Carta sociale del Consiglio d’Europa e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, come pure i principi derivanti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
La Carta è stata elaborata da una Convenzione composta da un rappresentante di ogni paese dell’UE e da un rappresentante della Commissione europea, nonché da 16 membri del Parlamento europeo e 30 dei Parlamenti nazionali (2 per ogni Parlamento nazionale) ed è stata inizialmente proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza.
La Carta, con le modifiche apportate in vista del suo inserimento nel Trattato costituzionale (Trattato mai entrato in vigore), è stata nuovamente proclamata solennemente in occasione della seduta plenaria del Parlamento europeo del 12 dicembre 2007 dai Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea.
Infine, nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è stato conferito alla Carta lo stesso effetto giuridico vincolante dei trattati (A differenza di quanto originariamente previsto dal Trattato costituzionale, mai entrato in vigore, il Trattato di Lisbona non prevede l’inclusione del testo della Carta nei Trattati).
Merita sottolineare che la Carta non conferisce all'UE una facoltà generale di intervento in tutti i casi di violazione dei diritti fondamentali da parte di autorità nazionali: essa si applica agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. Gli Stati membri possiedono una regolamentazione nazionale molto ampia sui diritti fondamentali, il cui rispetto è garantito dalle giurisdizioni nazionali.
L’art. 6 del Trattato sul l’Unione europea stabilisce, infatti, che l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.
Il protocollo n. 30, allegato ai Trattati introduce misure specifiche per il Regno Unito e la Polonia, in particolare: apportando limitazioni alla giurisdizione della Corte di giustizia europea e dei tribunali nazionali in materia di conformità della normativa nazionale dei due Stati membri rispetto ai diritti, libertà e princìpi sanciti dalla Carta e prevedendo che ove una disposizione della Carta faccia riferimento a leggi e pratiche nazionali, essa si applicherà a Regno Unito e Polonia solo nella misura in cui i princìpi e i diritti in essa contenuti siano riconosciuti nelle leggi e nelle pratiche di Regno Unito e Polonia.
Una dichiarazione n. 61 unilaterale della Polonia, allegata all’atto finale del Trattato di Lisbona, afferma che la Carta lascia impregiudicato il diritto degli Stati membri di legiferare nel settore della moralità pubblica, del diritto di famiglia nonché della protezione della dignità umana e del rispetto dell'integrità fisica e morale dell'uomo.
Il 9 ottobre 2012 la Commissioni affari costituzionali del Parlamento europeo ha espresso un parere contrario alla richiesta avanzata dalla Repubblica ceca di aderire al protocollo derogatorio relativo al Regno unito e alla Polonia. La questione è all’attenzione del Consiglio europeo.
La Carta dei diritti fondamentali comprende un preambolo introduttivo e 54 articoli, suddivisi in sette capi:
Nell'ottobre 2010 la Commissione ha adottato una strategia per garantire l'effettivo rispetto della Carta (COM(2010)573) e ha elaborato una "check-list dei diritti fondamentali " per agevolare la valutazione del loro impatto su tutte le proposte legislative. La Commissione si è inoltre impegnata a pubblicare una relazione annuale sull'applicazione della Carta al fine di monitorare i progressi realizzati.
In tale quadro, il 16 aprile 2012 è stata presentata la relazione sull’applicazione della Carta relativa all’anno 2011 (COM(2012)169). Partendo dalla considerazione che , nell’attuale periodo di crisi economica, un contesto giuridicamente stabile basato sullo Stato di diritto e sul rispetto dei diritti fondamentali costituisce la migliore garanzia per instaurare un clima di fiducia da parte dei cittadini e di sicurezza dei partner e degli investitori, la Commissione ricorda le iniziative assunte dalle istituzioni europee nel corso del 2011 in applicazione dei principi della Carta, incluse le azioni relative all’attuazione della Strategia per la parità tra donne e uomini (2010-2015),
In particolare la relazione rammenta che nel corso del 2011 la Commissione ha rafforzato la valutazione dell'impatto sui diritti fondamentali a cui procede prima di adottare le proposte, attraverso l’adozione di nuove linee guida in materia (SEC(2011)567) e l’istituzione di un gruppo interservizi sull'attuazione della Carta.
E’ dato inoltre rilievo alla dimensione dei diritti fondamentali nell’attività del Parlamento europeo e del Consiglio in qualità di colegislatori. In particolare il Consiglio si è impegnato a garantire che, nel proporre modifiche a iniziative legislative della Commissione o nel presentare iniziative proprie, gli Stati membri valutino l'impatto dei loro interventi sui diritti fondamentali (conclusioni del 5 febbraio 2011), e ha fissato orientamenti per individuare e affrontare le questioni attinenti ai diritti fondamentali nelle discussioni sulle proposte dinanzi ai suoi organi preparatori.
Per quanto riguarda l’attività giurisdizionale, la relazione osserva che la Corte di giustizia dell'Unione europea rinvia sempre più spesso alla Carta: il numero di sentenze che la citano nella motivazione sarebbe aumentato di più del 50% rispetto al 2010, passando da 27 a 42. Conterrebbero sempre più spesso riferimenti alla Carta anche le questioni poste alla Corte di giustizia dalle giurisdizioni nazionali (domande di pronunzia pregiudiziale): fra il 2010 e il 2011 tali riferimenti sono aumentati del 50%, da 18 a 27.
Relativamente alla tutela dei diritti fondamentali nelle differenti politiche dell’Unione, il documento attribuisce particolare rilevanza alle recenti iniziative delle istituzioni UE in materia di:
La Comunicazione della Commissione europea è stata favorevolmente accolta dal Consiglio Affari generali che, nelle conclusioni adottate in materia adottate il 26 giugno 2012, ha sottolineato, tra l’altro, che l'adesione dell'Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come previsto all'articolo 6 del trattato sull'Unione europea, rafforzerà la coerenza nella protezione dei diritti umani in Europa.
Nelle già citate conclusioni del 26 giugno 2012, sull’applicazione della Carta, il Consiglio sottolinea che i dati raccolti dall'Agenzia UE per i diritti fondamentali su argomenti tematici specifici e i pareri forniti conformemente al suo mandato restano uno strumento importante per le istituzioni dell'UE e i suoi Stati membri in molte questioni collegate all'attuazione della normativa UE. In questo quadro il Consiglio esorta tutte le istituzioni dell'UE e gli Stati membri ad avvalersi appieno delle competenze specialistiche dell'Agenzia e, ove opportuno e conformemente al suo mandato, a tenere con essa consultazioni sull'evoluzione della legislazione e delle politiche avente implicazioni per i diritti fondamentali.
L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, con sede a Vienna, è stata istituita con il regolamento (CE) 168/2007 ed è entrata in funzione il 1° marzo 2007, in sostituzione dell’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia.
L’Agenzia ha lo scopo di fornire alle istituzioni dell’UE e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali, in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti nell’adozione di misure o nella definizione di iniziative nei loro rispettivi settori di competenza. Il regolamento istitutivo attribuisce all’Agenzia i seguenti compiti:
L’agenzia non può invece esaminare ricorsi di singole persone fisiche o giuridiche.
L’ambito di attività dell’Agenzia è circoscritto all’UE e ai suoi 27 Stati membri. Essa può consentire la partecipazione, come osservatori, dei paesi candidati.
Secondo il regolamento istitutivo, l’Agenzia coordina le sue attività con il Consiglio d’Europa, al fine di sviluppare relazioni in tutti i settori d'interesse comune, in particolare nel campo della promozione e della tutela della democrazia pluralista, del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dello Stato di diritto, della cooperazione politica e giuridica, della coesione sociale e degli scambi culturali.
A questo scopo, il 31 maggio 2007 il Consiglio ha approvato un memorandum d'intesa tra il Consiglio d'Europa e l'Unione europea, in vista dello sviluppo di relazioni in tutti i settori d'interesse comune, Il 28 febbraio 2008 è stato concluso un accordo (decisione del Consiglio 2008/578/CE) che ha stabilito i metodi della cooperazione e le modalità di scambio di informazioni e dati tra l’Agenzia e il Consiglio d’Europa.
Nello svolgimento delle sue funzioni, l’Agenzia coopera inoltre con gli organi dell’OSCE e dell’ONU competenti nel settore umanitario, gli Stati membri (tramite funzionari nazionali di collegamento), le istituzioni nazionali di difesa dei diritti dell’uomo negli Stati membri, l’Istituto europeo per la parità di genere e la società civile (attraverso una rete flessibile, la piattaforma dei diritti fondamentali, meccanismo di scambio e condivisione di conoscenze).
Come previsto dal regolamento istitutivo, con decisione del Consiglio 2008/203/CE del 28 febbraio 2008 è stato adottato il quadro pluriennale per l’Agenzia per il periodo 2007-2012, volto a definire precisamente i settori tematici di attività.
I settori tematici individuati sono i seguenti:
a) razzismo, xenofobia e intolleranza ad essi associata;
b) discriminazione fondata su sesso, origine razziale o etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età, orientamento sessuale o appartenenza a una minoranza e qualsiasi combinazione di tali motivi (discriminazione multipla);
c) risarcimento delle vittime;
d) diritti del bambino, compresa la tutela dei minori;
e) asilo, immigrazione e integrazione dei migranti;
f) visti e controllo delle frontiere;
g) partecipazione dei cittadini dell’Unione al funzionamento democratico della stessa;
h) società dell’informazione, in particolare rispetto della vita privata e protezione dei dati personali;
i) accesso a una giustizia efficiente e indipendente.
E’ attualmente in corso di esame la proposta di decisione del Consiglio che istituisce un quadro pluriennale per l'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali per il periodo 2013-2017 (COM(2011)880), nella quale vengono riconfermati i settori tematici già individuati per il periodo precedente.
L’Agenzia ha quattro organi:
Il nostro Paese non si è ancora dotato dell’organo nazionale indipendente di controllo e prevenzione della tortura previsto dal Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 18 dicembre 2002.
L’articolo 17 del Protocollo prevede che entro un anno dall’entrata in vigore del Protocollo o dalla sua ratifica ogni Stato Parte che non ne sia dotato, costituisca o crei uno o più meccanismi nazionali indipendenti di prevenzione della tortura e degli altri trattamenti sanzionati.
In riferimento a tale scadenza si rammenta che il nostro paese ha firmato il Protocollo opzionale il 20 agosto 2003; il Protocollo è in vigore dal 22 giugno 2006 (come previsto dall’articolo 28 del medesimo Protocollo, un mese dopo il deposito della ventesima ratifica): la legge di ratifica del Protocollo contro la tortura, L. 195/2012, è entrata in vigore il 20 novembre 2012 (ai sensi dell’articolo 4 della legge medesima, il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Alla data del 20 febbraio 2013 lo strumento di ratifica dell’Italia non risulta essere stato ancora depositato presso le Nazioni Unite.
Quanto alla tortura, il diritto penale italiano non prevede tale reato, nonostante i ripetuti tentativi del Parlamento, a partire dalle ultime due legislature, di approvare in tal senso una novella al codice penale.
In virtù del processo di allargamento, che costituisce sin dalle origini un elemento chiave del progetto europeo, l'Unione europea è passata dagli originali 6 Stati membri (Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) agli attuali 27.
Gli allargamenti si sono verificati: nel 1973 (con l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Regno Unito); nel 1981 (con l’ingresso della Grecia); nel 1986 (con l’ingresso di Portogallo e Spagna); nel 1995 (con l’ingresso di Austria, Finlandia e Svezia); nel 2004, con l’adesione di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica ceca, Repubblica slovacca, Slovenia e Ungheria. A partire dal 1° gennaio 2007 anche Bulgaria e Romania hanno aderito all’Unione europea.
Il 9 dicembre 2011, in occasione del Consiglio europeo è stato firmato il Trattato di adesione della Croazia, che dovrebbe entrare a far parte dell’UE il 1° luglio 2013, a conclusione del processo di ratifica.
Al momento, oltre alla Croazia, i paesi candidati sono cinque, Turchia, ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Islanda, Montenegro e Serbia. Si ricorda inoltre che l’Albania ha avanzato richiesta di adesione all’UE il 28 aprile 2009. Come concordato già in occasione del Consiglio europeo tenutosi a Feira il 19 e 20 giugno 2000, i paesi dei Balcani occidentali sono “candidati potenziali all’adesione all’Unione europea”.
In base all’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea, ogni paese europeo può presentare richiesta di adesione se rispetta i valori di libertà, democrazia, Stato di diritto, uguaglianza, tutela dei diritti umani (compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze) e della dignità umana, valori che sono comuni agli Stati membri. Il medesimo articolo stabilisce che sulla richiesta di adesione il Consiglio si esprime all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. A conclusione di tale procedura, è il Consiglio europeo ad attribuire lo status di paese candidato.
L’apertura formale dei negoziati tra gli Stati membri e lo Stato candidato avviene sulla base di una decisione in tal senso del Consiglio europeo e dopo l’approvazione del mandato negoziale da parte del Consiglio. All’apertura formale dei negoziati segue la fase di screening - preliminare all’avvio dei negoziati tecnici veri e propri - cui partecipano esperti della Commissione e dello Stato interessato.
L’obiettivo dello screening è quello di esaminare la legislazione del paese candidato sotto il profilo della compatibilità con l’acquis comunitario e di tracciare, settore per settore, un itinerario per il suo recepimento. L’acquis comunitario è suddiviso in capitoli, organizzati per materia, su ciascuno dei quali ha luogo un negoziato separato.
La conclusione della fase di screening prende la forma – per ciascun capitolo - di una relazione della Commissione, accompagnata da una raccomandazione ad aprire direttamente i negoziati per il capitolo in questione o a richiedere che alcune condizioni siano soddisfatte prima dell’apertura (cosiddetti opening benchmarks). In ogni caso, prima che i negoziati possano partire il paese candidato deve sottoporre le sue posizioni e l’UE deve adottare una posizione comune. Per la maggior parte dei capitoli, l’UE definisce anche condizioni per la chiusura.
Il passo dei negoziati dipende dalla velocità delle riforme e dell’adeguamento alla legislazione dell’UE da parte di ogni paese.
Nessun negoziato viene chiuso finché tutti i governi degli Stati membri dell’UE non siano soddisfatti dei progressi compiuti dal paese nel settore specifico; l’intero processo negoziale è concluso definitivamente quando ciascun capitolo è stato chiuso.
Una volta che, a seguito dei negoziati, tutti i capitoli siano stati positivamente esaminati, il risultato dei negoziati confluisce in un progetto di trattato di adesione, in cui sono riportati le scadenze e gli accordi provvisori, nonché i dettagli sugli accordi finanziari ed eventuali clausole di salvaguardia. Se ottiene il consenso di Consiglio, Commissione e Parlamento europeo, il trattato viene firmato dal paese candidato e dai rappresentanti di tutti gli Stati membri, quindi sottoposto a ratifica negli Stati membri e nel paese candidato in base alle rispettive norme costituzionali. Dopo la firma del trattato di adesione, il paese candidato diventa “Stato aderente” e può beneficiare di una serie di diritti provvisori prima di diventare Stato membro dell’UE. Può esprimere osservazioni su progetti di proposte, comunicazioni, raccomandazioni o iniziative dell’UE e acquisisce lo status di “osservatore attivo” in seno agli organi e alle agenzie dell’Unione, con diritto di espressione ma non di voto. È al termine del processo di ratifica, con l’entrata in vigore del trattato di adesione alla data prevista, che lo Stato aderente diventa a tutti gli effetti Stato membro dell’UE.
L’adesione può essere conseguita soltanto se il paese soddisfa i cosiddetti criteri di Copenaghen, stabiliti dal Consiglio europeo di Copenaghen del giugno 1993 e rafforzati dal Consiglio europeo di Madrid del 1995:
- criteri politici: istituzioni stabili in grado di garantire democrazia, Stato di diritto, diritti umani e protezione delle minoranze;
- criteri economici: economia di mercato funzionante e capacità di far fronte alle pressioni concorrenziali e alle forze di mercato all’interno dell’Unione;
- capacità di fare fronte agli obblighi derivanti dall’adesione, ivi compresi gli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria;
- adozione dell’acquis comunitario e sua effettiva attuazione attraverso adeguate strutture amministrative e giudiziarie.
In aggiunta, come ribadito in particolare in occasione dell’apertura dei negoziati di adesione della Turchia, nei futuri allargamenti si terrà conto anche della capacità di assorbimento dell’Unione europea.
Nel corso del processo di adesione, l’Unione europea sostiene gli sforzi di ciascun paese attraverso una strategia di pre-adesione che si compone di diversi strumenti e meccanismi, tra i quali la partecipazione ai programmi, ai comitati e alle agenzie dell’UE, il dialogo politico, il programma nazionale di adozione dell’acquis comunitario, il cofinanziamento da parte di istituzioni internazionali, l’assistenza di preadesione.
A partire dal 1° gennaio 2007, nel quadro delle prospettive finanziarie 2007-2013, è in vigore un unico strumento di preadesione (denominato IPA) destinato a paesi candidati e precandidati, istituito con il regolamento(CE)1085/2006 del 17 luglio 2006. La dotazione finanziaria dello strumento di preadesione ammonta a più di 11 miliardi di euro per l’intero periodo. In vista delle prossime prospettive finanziarie. la Commissione ha presentato una proposta di regolamento che stabilisce il quadro normativo del nuovo IPA, con un importo di oltre 14 milioni di euro per il periodo 2014-2020.
Inoltre, il livello di preparazione di ciascun paese è costantemente monitorato dalla Commissione europea, che segue i progressi compiuti sulla strada dell’adesione e suggerisce i settori prioritari di intervento. I risultati dell’attività di monitoraggio e lo stato di attuazione delle riforme vengono resi pubblici attraverso relazioni periodiche.
La Croazia diventerà membro dell’UE il 1° luglio 2013, a condizione che il trattato di adesione – firmato il 9 dicembre 2011, in seguito al parere favorevole della Commissione, al parere conforme del Parlamento europeo e alla decisione del Consiglio relativa all’ammissione della Croazia – sia ratificato da tutti gli Stati membri. La ratifica del Trattato di adesione della Croazia è stata finora approvata, oltre che dall’Italia, con la legge n. 17 del 29 febbraio 2012, da Austria, Bulgaria, Estonia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Repubblica di Cipro, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria .
Dopo la firma del trattato di adesione, la Croazia è diventata “Stato aderente” e può beneficiare di una serie di diritti provvisori prima di diventare Stato membro dell’UE. Può esprimere osservazioni su progetti di proposte, comunicazioni, raccomandazioni o iniziative dell’UE e acquisisce lo status di “osservatore attivo” in seno agli organi e alle agenzie dell’Unione, con diritto di espressione ma non di voto. È al termine del processo di ratifica, con l’entrata in vigore del trattato di adesione alla data prevista, che lo Stato aderente diventa a tutti gli effetti Stato membro dell’UE.
Sull’adesione del paese all’Unione europea il 23 gennaio 2012 si è svolto in Croazia il referendum popolare: il 66,27% dei votanti si è espressa favorevolmente. Tale esito è stato salutato con soddisfazione in una dichiarazione congiunta dal Presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e dal Presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, che hanno sottolineato come l’adesione all’UE della Croazia rappresenti un segnale positivo per gli altri paesi della regione.
Nel lungo periodo, la prospettiva dei paesi dei Balcani occidentali è infatti quella della progressiva integrazione nell’Unione europea, sulla base delle previsioni del Trattato sull’Unione europea e dei criteri di Copenaghen. Tale approccio è stato ribadito in più occasioni dal Consiglio europeo, a partire da quello tenutosi a Feira il 19 e 20 giugno 2000 che ha definito i paesi della regione “candidati potenziali all’adesione all’Unione europea”.
La Croazia, che era stata dichiarata paese candidato dal Consiglio europeo del 17 e 18 giugno 2004, aveva avviato formalmente i negoziati per l’adesione il 3 ottobre 2005. I negoziati sono stati dichiarati conclusi il 30 giugno 2011 nel corso della tredicesima Conferenza di adesione UE-Croazia a livello ministeriale. Gli Stati membri hanno concordato che la Commissione continuerà a verificare il rispetto da parte della Croazia degli impegni assunti nel corso dei negoziati e la sua preparazione in vista dell’adesione.
Nella stessa occasione è stato approvato il quadro finanziario post-adesione: per la seconda metà del 2013 i fondi totali UE in favore della Croazia ammonteranno a 687,5 milioni di euro, di cui 449.4 dai fondi strutturali e dal fondo di coesione; inoltre la Croazia disporrà di 40 milioni di euro nell’ambito della cosiddetta Schengen facility, intesa a finanziare l’attuazione dell’acquis di Schengen; di 29 milioni di euro nell’ambito dello strumento di transizione, destinato al rafforzamento della capacità amministrativa e giudiziaria e di 75 milioni di euro dello strumento temporaneo per i flussi di tesoreria per aiutare la Croazia a migliorare i flussi di tesoreria del bilancio nazionale.
Come stabilito nella citata conferenza di adesione e conformemente all’articolo 36 dell’atto di adesione, la Commissione deve dunque sorvegliare attentamente tutti gli impegni assunti dalla Croazia nel corso dei negoziati di adesione, con particolare attenzione alla politica di concorrenza, al sistema giudiziario e ai diritti fondamentali, nonché a libertà, sicurezza e giustizia, e predisporre una relazione globale di controllo per il Consiglio e il Parlamento europeo. Le principali conclusioni di tale relazione sono contenute in una comunicazione (COM(2012)600) che la Commissione ha presentato il 10 ottobre 2012, nell’ambito dell’annuale pacchetto allargamento.
Secondo la Commissione, la Croazia continua a progredire nell’adozione e nell’attuazione della legislazione dell’Unione e l’allineamento con l’acquis è in dirittura d’arrivo. La Commissione ha tuttavia individuato alcuni ambiti che necessitano di ulteriori sforzi e un numero limitato di settori che richiedono un maggiore impegno. Si tratta in particolare: 1) dei preparativi per i futuri fondi strutturali dell’UE onde assicurarne la corretta gestione; 2) della ristrutturazione dell’industria cantieristica croata; 3) del rafforzamento dello Stato di diritto attraverso la costante attuazione degli impegni assunti dal paese per continuare a migliorare la pubblica amministrazione e il sistema giudiziario, 4) delle misure volte a prevenire e combattere efficacemente la corruzione, nonché 5) della gestione delle frontiere esterne. Fatta salva l’importanza di affrontare tutte le questioni sottolineate nella relazione globale di controllo, la Commissione ritiene che nei prossimi mesi la Croazia dovrebbe prestare particolare attenzione alle seguenti azioni specifiche in materia di politica di concorrenza, sistema giudiziario e diritti fondamentali, libertà, sicurezza e giustizia.
- 1. Firmare il contratto di privatizzazione del cantiere navale di Brodosplit e prendere le decisioni necessarie per trovare una soluzione valida per 3.Maj e Brodotrogir al fine di portare a termine la ristrutturazione dell’industria cantieristica croata.
- 2. Attuare le misure immediate e compiere progressi per quanto riguarda le misure a breve termine elaborate nel settembre 2012 per aumentare l’efficienza del sistema giudiziario e smaltire l’arretrato giudiziario.
- 3. Adottare la nuova normativa per garantire l’esecuzione delle sentenze e ridurre l’arretrato di casi riguardanti l’esecuzione delle sentenze.
- 4. Costituire la commissione competente in materia di conflitto di interessi affinché possa iniziare le sue regolari attività.
- 5. Adottare la nuova legge sull’accesso all’informazione al fine di rafforzare il quadro giuridico e amministrativo pertinente.
- 6. Completare l’adozione dei regolamenti necessari per garantire l’attuazione della legge sulla polizia.
- 7. Completare la costruzione di strutture ai valichi di frontiera lungo il corridoio di Neum.
- 8. Conseguire l’obiettivo stabilito per il 2012 in materia di assunzione di agenti di polizia di frontiera.
- 9. Mettere a punto e adottare la strategia sulla migrazione, definendo chiaramente le misure per l’integrazione delle categorie più vulnerabili di migranti.
- 10. Potenziare la capacità di traduzione e revisione dell’acquis affinché tale compito possa essere portato a termine in tempo per l’adesione.
La Croazia dovrà sforzarsi per concludere in tempo i preparativi e permettere alla Commissione di renderne conto nella comunicazione sulla relazione di monitoraggio finale sui preparativi del paese in vista dell’adesione, che verrà presentata nella primavera del 2013.
Come ribadito in più occasioni dalle istituzioni europee, la prossima fase del processo di allargamento dovrebbe riguardare i paesi dei Balcani occidentali che, già in occasione del Consiglio europeo tenutosi a Feira il 19 e 20 giugno 2000, sono stati definiti “candidati potenziali all’adesione all’Unione europea”.
Il 9 dicembre 2011, in occasione del Consiglio europeo è stato firmato il Trattato di adesione della Croazia, che dovrebbe entrare a far parte dell’UE il 1° luglio 2013, a conclusione del processo di ratifica. Al momento, i paesi candidati della regione dei Balcani sono ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Montenegro e Serbia. L’Albania ha presentato domanda di adesione all’UE il 28 aprile 2009.
Attualmente le relazioni tra l’Unione europea e i paesi dei Balcani occidentali si svolgono prevalentemente nel quadro del Processo di stabilizzazione ed associazione (PSA), istituito nel 1999. Il processo è la cornice entro cui diversi strumenti sostengono gli sforzi compiuti da questi paesi nella fase di transizione verso democrazie ed economie di mercato stabili; come già anticipato, nel lungo periodo la prospettiva è quella della piena integrazione nell’Unione europea, sulla base delle previsioni del Trattato sull’Unione europea e dei criteri di Copenaghen.
I principali elementi dell’impegno di lungo termine nella regione sono stati proposti in una comunicazione della Commissione del 26 maggio 1999 ed approvati dal Consiglio il 21 giugno dello stesso anno. Successivamente, il Vertice di Zagabria del 24 novembre 2000 ha suggellato il PSA, ottenendo il consenso della regione su un insieme definito di obiettivi e condizioni. Gli strumenti che compongono il processo di stabilizzazione ed associazione, formalizzati in quell’occasione, sono stati successivamente arricchiti da elementi ispirati al processo di allargamento nel giugno 2003, con l’approvazione da parte del Consiglio europeo della cosiddetta “Agenda di Salonicco”. Elaborata sulla base di una comunicazione della Commissione di maggio 2003, l’Agenda propone una serie di iniziative per sostenere e migliorare il processo di integrazione europeo, tra le quali in particolare: promozione della cooperazione parlamentare, anche con la creazione di commissioni parlamentari congiunte con tutti i paesi aderenti al PSA; istituzione dei partenariati europei, ispirati ai partenariati per l’adesione relativi ai paesi candidati; rafforzamento delle istituzioni, attraverso l’utilizzo dello strumento del gemellaggio e la fornitura di un’assistenza tecnica ulteriore; promozione del dialogo politico e della cooperazione nel settore della politica estera e di sicurezza comune; partecipazione dei paesi della regione alle agenzie e ai programmi comunitari; cooperazione nella lotta al crimine organizzato.
Lo stato di avanzamento del processo viene costantemente seguito dalla Commissione che, attraverso la pubblicazione di una relazione annuale, fornisce indicazioni sui progressi realizzati dai paesi dei Balcani occidentali rispetto alla situazione dell’anno precedente. Tale relazione rappresenta l’indicatore principale per valutare se ciascun paese sia pronto per una relazione più stretta con l’UE.
Le componenti principali del PSA sono quattro: accordi di stabilizzazione ed associazione, elevato livello di assistenza finanziaria, misure commerciali e dimensione regionale.
a)Accordi di stabilizzazione ed associazione
Lo strumento operativo del PSA è costituito dalla stipula, con ciascun paese della regione, di un accordo di stabilizzazione ed associazione (ASA), basato sul rispetto dei principi democratici e degli elementi fondanti del mercato unico europeo.
Per ciascun paese, la Commissione è chiamata a valutare l’opportunità di avviare i negoziati per un accordo di stabilizzazione ed associazione sulla base di diversi criteri: il grado di compatibilità con le condizioni poste dal PSA; il funzionamento generale del paese; l’esistenza di una politica commerciale unitaria; i progressi nelle riforme settoriali.
Accordi di stabilizzazione ed associazione sono già in vigore con la Croazia, con la ex Repubblica iugoslava di Macedonia, con l’Albania e – dal 1° maggio 2010 - con il Montenegro (15 ottobre 2007). L’accordo è stato firmato con la Bosnia Erzegovina (16 giugno 2008). Il 29 aprile 2008 – a margine della riunione del Consiglio affari generali e relazioni esterne - UE e Serbia hanno firmato l’accordo di stabilizzazione ed associazione che, come deciso dal Consiglio, verrà sottoposto ai parlamenti di tutti gli Stati membri per la ratifica. Inoltre, il Consiglio ha ribadito che la piena cooperazione con il Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia "è un elemento essenziale" dell'ASA. Contestualmente è stato firmato un accordo interinale, che di norma consente l’applicazione immediata di alcune disposizioni prima dell’entrata in vigore dell’accordo vero e proprio. Nel caso della Serbia, invece, l’attuazione dell’accordo interinale è stata subordinata alla piena cooperazione con il tribunale dell’Aja. Soltanto il 1° febbraio 2010, a seguito della valutazione positiva del procuratore generale del Tribunale penale per la ex Iugoslavia, è stata data attuazione all’accordo interinale.
La situazione del Kosovo consente soltanto adesso di considerare la possibilità di negoziare l’accordo.
b) Assistenza finanziaria
Per il periodo 2000-2006 l’UE ha stanziato in favore dei Balcani occidentali circa cinque miliardi di euro (La cifra indica l’ammontare complessivo dell’assistenza finanziaria fornita dall’UE sia ai singoli paesi sia a livello regionale). L’assistenza comunitaria, originariamente destinata agli interventi relativi alle infrastrutture ed alle misure di stabilizzazione democratica (ivi compresi gli aiuti ai profughi), ha gradualmente spostato l’accento sul potenziamento istituzionale e sulle iniziative in materia di giustizia e affari interni.
A partire dal 1° gennaio 2007 l’assistenza finanziaria ai paesi dei Balcani occidentali viene fornita attraverso il nuovo strumento di preadesione, denominato IPA, che sostituisce i precedenti programmi.
Come risulta dal quadro finanziario multiannuale predisposto dalla Commissione per il periodo dal 2007 al 2013, i paesi dei Balcani occidentali beneficeranno di assistenza per un totale di circa 5,17 miliardi di euro, di cui: 1.183,6 milioni di euro alla Serbia; 167 al Montenegro; 614,87 alla ex Repubblica iugoslava di Macedonia; 465,1 al Kosovo; 550,3 alla Bosnia Erzegovina e 498 all’Albania. (I restanti 1,6 miliardi di euro sono distribuiti tra la Croazia e i programmi regionali multi beneficiari). Saranno considerati particolarmente prioritari la costruzione dello Stato, lo Stato di diritto, la riconciliazione, la riforma amministrativa e giudiziaria, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata e le riforme economiche.
In linea con la comunicazione di giugno 2011 dal titolo "Un bilancio per la strategia 2020" e nell'ambito del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-2020, il 7 dicembre 2011 la Commissione ha presentato la proposta di regolamento che fissa il quadro normativo per il nuovo strumento di assistenza preadesione, attraverso il quale l’UE fornirà assistenza tecnica e finanziaria ai paesi candidati e potenziali candidati all’adesione (COM (2011) 838). L’importo totale sarà di 14,110 miliardi di euro.
c) Misure commerciali
Nel marzo 2000, il Consiglio europeo ha dichiarato che la conclusione di accordi di stabilizzazione e di associazione con i paesi dei Balcani occidentali doveva essere preceduta da una liberalizzazione asimmetrica degli scambi. Conformemente a questa dichiarazione, il regolamento del Consiglio n. 2007/2000 del 18 settembre 2000 prevede misure commerciali eccezionali, stabilendo che i prodotti originari dei paesi della regione possono essere importati nella Comunità senza restrizioni quantitative e in esenzione dai dazi doganali o da altre imposte di effetto equivalente. Tale regime preferenziale è stato di recente prolungato fino al 2015, con il regolamento (UE) n.1336/2011 del 13 dicembre 2011.
d) Dimensione regionale
Il PSA non è semplicemente un processo bilaterale tra l’UE e ciascun paese della regione. Già in occasione del Vertice UE-Balcani di Zagabria del 2000, le Parti hanno posto una grande enfasi sulla centralità della cooperazione regionale nell’ambito del processo.
In materia di cooperazione regionale, i principali obiettivi della politica dell’UE sono:
Bosnia Erzegovina
Nella relazione annuale sui progressi compiuti dal paese, la Commissione segnala che la Bosnia-Erzegovina ha conseguito scarsi progressi nel conformarsi ai criteri politici: il paese, che stenta a dotarsi di un assetto istituzionale più funzionale, meglio coordinato e più duraturo, dovrà impegnarsi profondamente per rafforzare il settore giudiziario, secondo le priorità individuate nell’ambito del dialogo strutturato UE-Bosnia-Erzegovina sulla giustizia. Stesso dicasi per la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata e per la riforma della pubblica amministrazione. La Commissione rileva che manca tra gli esponenti politici una visione condivisa della direzione generale, del futuro e dell’assetto istituzionale del paese, condizione indispensabile per progredire sulla strada dell’Unione. Il paese inoltre non dispone di un dispositivo di coordinamento efficace tra i vari livelli di governo in grado di assicurare il recepimento, l’attuazione e l’applicazione della normativa dell’Unione e questa carenza va colmata quanto prima per permettere al paese di esprimersi in modo univoco sulle questioni europee e beneficiare realmente dell’assistenza preadesione. Per questo motivo la relazione ricorda che a giugno 2012 è stato lanciato a Bruxelles un dialogo a alto livello sul processo di adesione. Il dialogo ha permesso di definire una roadmap interna sull’integrazione con l’UE per il rispetto delle condizioni necessarie all’entrata in vigore dell’accordo di stabilizzazione e associazione (ASA) e per la presentazione di una candidatura credibile. La Commissione rileva inoltre che entro il 31 agosto 2012 il paese avrebbe dovuto raggiungere un accordo politico per modificare la costituzione e rispettare così la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) sulla discriminazione etnica nella composizione istituzionale del paese (causa Sejdic-Finci), ma la scadenza non è stata rispettata.
Come segnalato dalla relazione, il sistema di governo della Bosnia-Erzegovina rende tuttora necessaria una presenza internazionale con mandato esecutivo.
A tale proposito si ricorda che l’UE è presente in Bosnia Erzegovina con la missione PSDC di peacekeeping EUFOR Althea - lanciata nel 2004 rimpiazzando la missione SFOR della NATO - nonché con un Rappresentante speciale che svolge un ruolo molto importante nel coordinamento generale della politica dell’UE. L’attuale rappresentante, Peter Sørensen, è stato nominato con decisione del 18 luglio 2011, per il periodo dal 1 settembre 2011 al 30 giugno 2015. Il suo incarico è quello di assicurare una visione complessiva dell’intera gamma di azioni dell’UE nel settore dello Stato di diritto e in tale contesto fornire, se del caso, consulenza all’Alto rappresentante e alla Commissione.
Albania
Nell’ultima relazione sui progressi compiuti dal paese,pubblicata il 10 ottobre 2012, nell’ambito del Pacchetto allargamento 2012, la Commissione segnala che l’Albania ha fatto buoni progressi verso il rispetto dei criteri politici previsti per l’adesione all’UE realizzando una serie di riforme in linea con le dodici priorità fondamentali stabilite dal parere della Commissione del 2010. Nell’insieme il paese continua ad attuare senza problemi l’accordo di stabilizzazione e di associazione e a svolgere un ruolo costruttivo nella regione. Il coordinamento delle attività connesse all’integrazione nell'UE è stato ulteriormente migliorato, così come il dialogo politico tra le parti, consentendo all'Albania di attuare quattro delle priorità chiave, in particolare quelle riguardanti: il buon funzionamento del parlamento, l'adozione di leggi in corso che richiedono maggioranza rafforzata, la nomina del Mediatore e la modifica del quadro legislativo per le elezioni. L'Albania è inoltre sulla buona strada per il raggiungimento delle due priorità concernenti la riforma della pubblica amministrazione e il miglioramento del trattamento dei detenuti.
Per quanto riguarda le restanti priorità, sono stati compiuti ulteriori passi significativi, come l'adozione della legge sui tribunali amministrativi, l'aumento dei sequestri di beni di criminali, l'adozione di una strategia globale per la riforma della proprietà e sanzioni più rigorose contro la violenza domestica. L'adozione di emendamenti costituzionali che limitano l'immunità degli alti funzionari e dei giudici ha segnato un passo importante nella lotta contro la corruzione.
Per passare tuttavia alla fase successiva e aprire i negoziati di adesione, l'Albania dovrà confermare l’attuazione degli impegni già assunti e completare le priorità fondamentali che non sono state soddisfatte in pieno, con particolare riferimento alle riforme nell’ambito dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali e del dialogo politico. Prima che la Commissione raccomandi di concedere al paese lo status di candidato e di avviare i negoziati di adesione con l'Unione, l'Albania dovrà impegnarsi a fondo e conseguire progressi tangibili su questi fronti. Lo svolgimento delle elezioni parlamentari dell’estate 2013 sarà una prova cruciale in questo senso e una pre-condizione per ogni raccomandazione volta ad avviare i negoziati.
Kosovo
Come anticipato, in assenza di condizioni adeguate, finora Kosovo e UE non hanno potuto concludere un accordo di associazione e stabilizzazione, come invece è avvenuto per gli altri paesi della regione. Soltanto ad ottobre 2012, nell’ambito del pacchetto allargamento, la Commissione ha adottato una comunicazione (COM(2012)602) su uno studio di fattibilità per un accordo di stabilizzazione e associazione con il Kosovo, ritenendo che fossero stati compiuti notevoli passi avanti. Secondo la Commissione, dal conflitto degli ultimi anni novanta, il Kosovo ha compiuto notevoli progressi nel cammino verso l’UE, predisponendo un quadro istituzionale e giuridico stabile indispensabile per garantire la governance democratica e la tutela dei diritti umani, di tutte le minoranze presenti in Kosovo e dei diritti degli sfollati che vi fanno ritorno. Esiste inoltre il quadro istituzionale e giuridico di base per garantire lo Stato di diritto. La legislazione prevede solide garanzie di indipendenza della magistratura. Le principali istituzioni giudiziarie hanno iniziato a svolgere il proprio ruolo. Esiste, in larga misura, anche il quadro giuridico necessario per garantire la stabilità e la professionalità della pubblica amministrazione.
Il Kosovo ha attuato inoltre le prime riforme indispensabili per la creazione di un’economia di mercato funzionante. Esso presenta un regime liberale di scambi e, nel complesso, ha un’economia molto aperta, con poche restrizioni al commercio. Uno dei principali problemi del Kosovo sotto il profilo economico consiste nell’elevatissimo tasso di disoccupazione.
Partecipando al dialogo con la Serbia agevolato dell’UE, il Kosovo ha dimostrato il proprio impegno a favore della cooperazione regionale e della stabilità. Ha inoltre instaurato buone relazioni con la maggior parte dei paesi vicini.
Su tali basi, lo studio conferma la realizzabilità dell’ASA tra l’Unione e il Kosovo, per altro rispettando la diverse posizioni che gli Stati membri continuano ad avere sullo status. In ogni caso, la Commissione proporrà le direttive di negoziato per l’ASA solo quando il Kosovo avrà realizzato progressi in una serie di priorità a breve termine (nei settori Stato di diritto, pubblica amministrazione, protezione minoranze e commercio). È fondamentale naturalmente che il Kosovo continui a attuare in buona fede gli accordi finora raggiunti tra Belgrado e Pristina e si impegni costruttivamente a risolvere tutte le questioni in sospeso, con l’aiuto dell’Unione. Le relazioni tra Kosovo e Serbia devono registrare progressi visibili e duraturi in modo da permettere ad entrambi di proseguire sulla strada dell’Unione e evitare che si ostacolino a vicenda. Il processo dovrà in particolare risolvere i problemi nel Kosovo settentrionale nel rispetto delle esigenze specifiche della popolazione locale.
La Turchia – che ha ottenuto lo status di paese candidato dal Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 – ha avviato i negoziati di adesione con l’Unione europea il 3 ottobre 2005. A partire da quella data, si sono tenute otto conferenze di adesione. Attualmente:
Si ricorda inoltre che – in conseguenza della mancata applicazione del Protocollo di Ankara nei confronti della Repubblica di Cipro da parte della Turchia (vd. par. seguente) - sono tuttora sospesi otto capitoli negoziali: libera circolazione delle merci, diritto di stabilimento e libera prestazione dei servizi, servizi finanziari, agricoltura e sviluppo rurale, pesca, politica dei trasporti, unione doganale e relazione esterne.
Per quanto riguarda l’assistenza finanziaria resa disponibile per la realizzazione delle priorità e delle riforme richieste, si segnala che l’Unione europea ha previsto in favore della Turchia, nell’ambito dello strumento di preadesione IPA, un finanziamento a livello nazionale pari a 4.831,6 milioni di euro per il periodo 2007-2013. Tale somma (così suddivisa: 497.2 milioni di euro per il 2007; 538.7 per il 2008; 566.4 per il 2009; 653.7 per il 2010; 779.9 per il 2011; 860,2 per il 2012 e 935,5 per il 2013) fa della Turchia uno dei principali destinatari dell’assistenza esterna dell’UE nel mondo. Per il periodo dal 2004 al 2006 la Turchia aveva beneficiato di un finanziamento totale di 1.050 milioni di euro.
Sulla base della relazione periodica e della raccomandazione presentate dalla Commissione il 6 ottobre 2004, il Consiglio europeo del 16 e 17 dicembre 2004 ha deciso che la Turchia soddisfa sufficientemente i criteri politici di Copenaghen, fissando per il 3 ottobre 2005 la data di avvio dei negoziati di adesione, a condizione che entrassero in vigore alcuni specifici atti legislativi (legge sulle associazioni; nuovo codice penale; giurisdizione d’appello; codice di procedura penale; istituzione della polizia giudiziaria; esecuzione delle pene).
Determinante per la decisione favorevole del Consiglio europeo di dicembre 2004 è stata la disponibilità manifestata dal Governo turco a firmare, prima dell’avvio dei negoziati, il Protocollo che estende ai dieci nuovi Stati membri, compresa la Repubblica di Cipro, l’Accordo di associazione stipulato nel 1963 con la Comunità europea (cosiddetto Accordo di Ankara). La firma del Protocollo è avvenuta il 29 luglio 2005. In occasione della firma, la Turchia ha allegato al protocollo una dichiarazione in cui riafferma di non riconoscere la Repubblica di Cipro. Il 21 settembre 2005, in una contro dichiarazione, l’Unione europea ha precisato fra l’altro che la dichiarazione della Turchia è unilaterale, non fa parte integrante del Protocollo e non ha effetti giuridici sugli obblighi che derivano al paese dall’applicazione dell’accordo.
Dopo l’apertura formale dei negoziati e l’avvio del processo di screening della legislazione turca, è stato possibile avviare la fase dei negoziati tecnici. Il 12 giugno 2006, nel corso della prima conferenza di adesione tra UE e Turchia, è stato provvisoriamente chiuso il negoziato sul capitolo scienza e ricerca.
Come anticipato, uno degli aspetti più seri riscontrati dalla Commissione nel corso dei negoziati ed evidenziati nella relazione del novembre 2006è rappresentato dalla mancata applicazione del Protocollo di Ankara. Si richiede infatti che la Turchia applichi il Protocollo integralmente e in maniera non discriminatoria e che siano eliminati tutti gli ostacoli alla libera circolazione delle merci, comprese le restrizioni sui mezzi di trasporto nei confronti di Cipro. In più occasioni le istituzioni dell’Unione europea hanno ribadito che tale applicazione integrale è considerata determinante per il buon proseguimento dei negoziati.
Su tale base e in linea con la proposta avanzata dalla Commissione, il Consiglio affari generali nella riunione dell’11 dicembre 2006 ha raggiunto un accordo per rallentare il processo di adesione della Turchia. I 25 ministri degli Esteri hanno concordato di congelare parzialmente le trattative per l'adesione di Ankara, sospendendo otto dei 35 capitoli in cui è diviso il negoziato. Gli altri capitoli andranno avanti ma non si chiuderanno fino a quando Ankara non avrà soddisfatto i requisiti che riguardano Cipro. Il Consiglio valuterà costantemente la situazione sulla base delle relazioni predisposte annualmente dalla Commissione.
In più occasioni le istituzioni dell’Unione europea hanno invitato la Turchia a collaborare per la soluzione della questione cipriota, ritenendo che la mancanza di progressi in tal senso costituisse un serio ostacolo all’adesione della Turchia all’UE.
A seguito del referendum sul piano di unificazione dell’isola proposto dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, tenutosi a Cipro il 24 aprile 2004, il Consiglio Affari generali del 26 aprile 2004 ha accolto con favore il contributo fornito dalla Turchia e ha sottolineato che il voto espresso dalla comunità turca di Cipro manifesta un chiaro desiderio di adesione all’Unione europea.
In considerazione del risultato del referendum, il 29 aprile 2004 l’Unione europea ha adottato il regolamento n. 866/2004, inteso a gestire il movimento di beni e persone attraverso la cosiddetta linea verde che separa le aree controllate dal governo cipriota dal resto dell’isola.
In aggiunta al regolamento sulla “linea verde”, l’Unione europea ha intrapreso altre iniziative con l’obiettivo di porre fine all’isolamento della parte settentrionale dell’isola e di facilitare la riunificazione di Cipro, promuovendone lo sviluppo economico e sociale. Tra di esse si ricorda il regolamento CE 389/2006, adottato il 27 febbraio 2006, che ha istituito uno strumento di sostegno finanziario per promuovere lo sviluppo economico della comunità turco-cipriota.
Non è stata invece ancora approvata la proposta di regolamento del Consiglio presentata dalla Commissione il 7 luglio 2004 per agevolare gli scambi tra la parte settentrionale dell’isola e l’UE, prevedendo l’applicazione di un regime preferenziale ad una serie di beni, prodotti o trasformati a Cipro, ammessi sul territorio doganale dell’UE. La proposta della Commissione non ha finora incontrato il favore del governo cipriota che riteneva che tali misure comportassero di fatto un riconoscimento politico della comunità turca da parte dell’UE.
Le istituzioni dell’Ue hanno ribadito in più occasioni che è urgente che turco-ciprioti e greco-ciprioti trovino una soluzione alla questione, concludendo una controversia su suolo europeo che dura da oltre quarant’anni. L’UE ha sostenuto pienamente i negoziati tra i leader delle due comunità – al momento sospesi -, sotto gli auspici delle Nazioni Unite per raggiungere una soluzione complessiva che porti alla riunificazione dell’isola. L’UE approverà qualsiasi aggiustamento, a patto che consenta a Cipro di giocare pienamente il suo ruolo di Stato membro e rispetti i principi fondamentali su cui di basa l’UE – democrazia, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani.
L’ultima relazione sui progressi compiuti dalla Turchia sulla via dell’adesione all’Unione europea è stata pubblicata dalla Commissione il 10 ottobre 2012, nell’ambito dell’annuale pacchetto allargamento e si riferisce al periodo compreso tra ottobre 2011 e settembre 2012.
Nella relazione la Commissione rileva come la Turchiasia un partner chiave per l’UE, in considerazione della sua economia dinamica, della sua localizzazione strategica e del suo importante ruolo regionale, che contribuisce alla politica estera e alla sicurezza energetica dell’UE. Grazie all’Unione doganale, la Turchia è già ampiamente integrata con l’UE ed è diventata una componente di valore della competitività europea; d’altro canto, l’UE rimane l’ancora per la modernizzazione economica e politica del paese. Entrambe le parti, secondo la valutazione della Commissione, ricaverebbero benefici da un ulteriore sviluppo di queste relazioni.
Secondo la Commissione, il potenziale delle relazioni UE-Turchia può essere pienamente espresso soltanto nel quadro di un attivo e credibile processo di adesione, nel rispetto degli impegni assunti e delle condizioni imposte. Il processo di adesione rimane il quadro più adeguato per promuovere le riforme, sviluppare il dialogo su questioni di politica estera e di sicurezza, rafforzare la competitività economica e incrementare la cooperazione nel settore energetico e degli affari interni. E’ dunque interesse di entrambe le parti – secondo la Commissione - che i negoziati di adesione recuperino slancio.
A tale proposito, nella relazione la Commissione evidenzia il buon avvio della cosiddetta agenda positiva, inaugurata ufficialmente il 17 maggio 2012 per dar vita, dopo un periodo di stagnazione, ad un nuovo circolo virtuoso nel processo di adesione della Turchia, con l’obiettivo di instaurare relazioni migliori e più costruttive secondo un approccio pragmatico che tenga conto delle realizzazioni concrete nei settori di comune interesse, partendo da una comprensione comune dei vincoli e dalla volontà di compiere progressi nel processo di allineamento della Turchia con l'UE.
Il programma dell’agenda positiva spazia in un'ampia gamma di settori: il dialogo e la cooperazione rafforzati su riforme politiche, visti, mobilità, migrazione, energia, lotta contro il terrorismo, l'ulteriore partecipazione della Turchia a programmi UE quali "L'Europa per i cittadini", i gemellaggi tra città, il commercio e l'Unione doganale per dirimere gli attuali contrasti commerciali, cercare una più stretta cooperazione nei negoziati sugli accordi di libero scambio e esplorare nuove strade per sfruttare al massimo il potenziale economico comune dell'Unione e della Turchia. In parallelo ai negoziati di adesione, la Commissione intende approfondire la cooperazione con la Turchia a sostegno degli sforzi del paese nel realizzare le riforme e allinearsi con l'acquis, anche per quanto riguarda i capitoli su cui non è ancora possibile avviare negoziati di adesione. La Commissione continuerà ad informare il Consiglio, appena ritiene che la Turchia abbia soddisfatto importanti parametri. Come rilevato nella relazione, sei degli otto gruppi di lavoro che sono stati istituiti nell’ambito dell’agenda positiva hanno tenuto i loro primi incontri.
In aggiunta a tale iniziativa, il Consiglio ha invitato la Commissione a stabilire un dialogo più ampio e un quadro di cooperazione nell’ampia gamma di settori della giustizia e affari interni. Il Consiglio ha anche invitato la Commissione a compiere passi verso la graduale liberalizzazione dei visti, in una prospettiva di lungo termine, in parallelo con la firma dell’accordo di riammissione. Dopo la sua inizializzazione a giugno 2012, è infatti cruciale che la Turchia firmi l’accordo di riammissione per consentire l’attuazione della tabella di marcia sulla liberalizzazione dei visti.
Come ricordato dalla relazione, in considerazione dell’ulteriore sviluppo della Turchia quale potenziale hub energetico e delle sfide condivise, la Commissione e la Turchia hanno deciso di incrementare la cooperazione su diversi importanti temi energetici. Anche il dialogo politico sulla politica estera e di sicurezza si è significativamente incrementato. Gli sviluppi nel vicinato comune e il ruolo positivo giocato dal paese nel sostenere i movimenti di riforma nel nord Africa e nel Medio Oriente hanno infatti confermato l’importanza del contributo della Turchia alla politica estera e alla sicurezza energetica dell’UE.
Criteri politici
La relazione esprime soddisfazione per il lavoro partecipativo sulla nuova costituzione, l’adozione della legge sull’istituzione dell’Ombudsman e i miglioramenti introdotti nel sistema giudiziario turco attraverso il terzo pacchetto di riforme. Tuttavia, vi è stata secondo la Commissione una ricorrente mancanza di consultazione durante il processo legislativo. A dispetto dei recenti cambiamenti, il quadro legislativo su terrorismo e crimine organizzato è applicato così ampiamente da indurre violazioni della libertà di espressione, riunione ed associazione. Mentre proseguono i dibattiti su temi ritenuti sensibili (quali la questione armena e il ruolo dei militari), le restrizioni alla libertà dei media e i numerosi processi contro scrittori e giornalisti continuano a destare preoccupazione, anche in considerazione del fatto che è molto diffuso il fenomeno dell’auto censura.
Pur in presenza di alcuni risultati, la Commissione manifesta dunque la propria preoccupazione per la mancanza di progressi sostanziali nel pieno rispetto dei criteri politici da parte della Turchia. In particolare è importante che la Turchia affronti tutte le questioni legate all’indipendenza, imparzialità ed efficienza del sistema giudiziario. A tale proposito la Commissione esprime soddisfazione per l’impegno assunto dal governo turco di presentare rapidamente il quarto pacchetto di riforma del sistema giudiziario e lo sollecita ad affrontare gli ostacoli alla piena manifestazione della libertà di espressione.
Con riguardo ai temi regionali e obblighi internazionali, la Turchia ha espresso sostegno ai negoziati tra i leader delle due comunità cipriote sotto gli auspici del Segretario generale delle Nazioni unite, per trovare una soluzione complessiva alla questione di Cipro. Tuttavia, nonostante i ripetuti richiami di Commissione e Consiglio, la Turchia non ha ancora assicurato la piena e non discriminatoria attuazione dei suoi obblighi doganali con l’UE né del Protocollo aggiuntivo e non si sono registrati progressi nella normalizzazione dei rapporti con la Repubblica di Cipro. La Commissione ribadisce dunque la propria grave preoccupazione con riguardo alle dichiarazioni e alle minacce della Turchia e richiede il pieno rispetto della Presidenza del Consiglio.
Criteri economici
Secondo la Commissione, la Turchia è un’economia di mercato funzionante. Nel 2012 l’economia turca è cresciuta di un impressionante 8.5%. La crescita è stata guidata prevalentemente dalla domanda interna, in particolare dal settore privato. La robusta espansione economica ha consentito una forte crescita occupazionale; il bilancio ha retto meglio delle attese e il debito pubblico è caduto fino al 39% del prodotto interno lordo.
Allo stesso tempo, lo scenario è caratterizzato da fasi di incertezza finanziaria e percezioni di rischio globale. Per mitigare tali rischi, sarebbe necessario un migliore coordinamento delle politiche fiscale e monetaria.
Adeguamento alla legislazione dell’UE
La Turchia continua a migliorare la sua capacità di mantenere gli obblighi derivanti dalla partecipazione all’UE. Progressi sono stati compiuti in molti settori, in particolare diritto societario, scienza e ricerca e disposizioni dell’unione doganale. La capacità amministrativa di fronteggiare il corpo del diritto UE in termine di efficacia ed efficienza necessita di essere rafforzato in diverse aree.
L’ultima risoluzione del Parlamento europeo sulla Turchia – approvata il 29 marzo 2012 - segnala che le relazioni tra l'UE e la Turchia hanno bisogno di slancio e che ciò può essere ottenuto solo se la Turchia continua sulla strada delle riforme.
La risoluzione esprime preoccupazioni in particolare riguardo al deterioramento della libertà di stampa e alle leggi che limitano la libertà di espressione in Turchia, ai numerosi processi in corso contro i giornalisti e ai lunghi periodi dicarcerazione preventiva.
Il Parlamento europeo evidenzia che una riforma per un sistema giudiziariomoderno, indipendente e imparziale creerebbe le condizioni adeguate per aprire i negoziati sul sistema giudiziario, i diritti fondamentali e gli affari interni. A tale proposito si esprime a favore del nuovo approccio adottato dalla Commissione, che consiste nell'affrontare questi temi nelle prime fasi del processo negoziale e nel chiuderli come ultimo atto.
Il Parlamento europeo ritiene che una riforma nel campo della libertà di pensiero sia cruciale, e chiede che tutte le comunità religiose siano trattate allo stesso modo. Un'altra necessità è la parità di genere, nonché una politica di tolleranza zero nei confronti della violenza contro le donne e i bambini e un accesso all'istruzione il più ampio possibile.
Secondo il Parlamento europeo la Turchia deve attuare il pacchetto di riforme costituzionali del 2010 e garantire un processo politico sereno, basato sul consenso, per redigere una nuova Costituzione civile. La società civile deve essere inclusa nel processo. Il processo di elaborazione costituzionale dovrebbe permettere il pieno riconoscimento di tutte le comunità etniche e religiose della Turchia, nonché riconoscere una cittadinanza moderna di natura inclusiva e promuovere la protezione costituzionale dei diritti linguistici madrelingua.
Nel mettere in risalto il ruolo strategico della Turchia nella regione, il Parlamento europeo afferma che l'UE e la Turchia dovrebbero rafforzare la loro cooperazione sulle priorità comuni in politica estera e di vicinato e nel campo dell'energia.
Il 10 ottobre 2012 la Commissione ha presentato l’annuale pacchetto allargamento, composto dalla comunicazione Strategia di allargamento e sfide principali per il periodo 2012-2013 (COM (2012) 600), e dalle relazioni sui progressi compiuti dai singoli paesi, candidati e potenziali candidati.
La comunicazione rende conto dello stato di avanzamento del programma di allargamento dell’Unione europea. Sulla base delle analisi approfondite per paese, la comunicazione passa in rassegna le realizzazioni di ciascun paese sulla strada dell’adesione, fa il punto della situazione, valuta le prospettive per i prossimi anni e formula raccomandazioni. Come in passato, la comunicazione si concentra su una serie di problematiche chiave e sul sostegno dell’Unione ai paesi dell’allargamento, soprattutto tramite lo strumento di assistenza preadesione (IPA).
Come in passato, la Commissione sottolinea la necessità di prestare particolare attenzione ad una serie di sfide fondamentali:
ex Repubblica iugoslava di Macedonia
La ex Repubblica iugoslava di Macedonia ha avanzato domanda di adesione all’Unione europea il 22 marzo 2004, ottenendo lo status di paese candidato dal Consiglio europeo del 15 e 16 dicembre 2005. Il 14 ottobre 2009 - nell’ambito del pacchetto allargamento - la Commissione ha deciso di raccomandare l'apertura di negoziati di adesione tra l’UE e l'ex Repubblica iugoslava di Macedonia sulla base dei notevoli progressi registrati, e ha ribadito tale posizione negli anni successivi ma l’UE non ha ancora preso una decisione in merito.
Come ribadito anche nell’ultima relazione, la Commissione è fermamente convinta che si debba passare alla fase successiva del processo di adesione per consolidare il ritmo e la sostenibilità delle riforme, soprattutto per quanto riguarda lo Stato di diritto, e per rafforzare le relazioni interetniche. Questo sviluppo gioverebbe all’intera regione.
Anche il Parlamento europeo - da ultimo nella risoluzione del marzo 2012 - chiede che sia stabilita una data per l'inizio dei negoziati d'adesione. Secondo il Parlamento europeo, un ritardo in tal senso da parte del Consiglio potrebbe causare una frustrazione legittima fra l'opinione pubblica del Paese balcanico.
L'adesione del paese all'Unione è stata finora bloccata dalla disputa con la Grecia sul nome.
In considerazione dei progressi compiuti negli ultimi mesi dai recenti contatti tra le due parti, in seguito alla proposta greca relativa ad un memorandum d'intesa, e con il mediatore delle Nazioni Unite, il Consiglio dell’11 dicembre 2012 ha deciso che esaminerà la situazione, sulla scorta di una relazione che la Commissione presenterà nella primavera del 2013. La relazione valuterà lo stato di attuazione delle riforme nel contesto del dialogo ad alto livello sull'adesione nonché gli interventi compiuti per promuovere le relazioni di buon vicinato e per raggiungere una soluzione negoziata e accettata da ambo le parti riguardo alla questione del nome del paese, sotto l'egida delle Nazioni Unite. Se l'esito della valutazione sarà positivo, la Commissione sarà invitata dal Consiglio europeo a presentare senza indugio una proposta relativa ad un quadro negoziale con l'ex Repubblica jugoslava di Macedonia e a portare avanti il processo di esame analitico dell'acquis dell'UE iniziando dai capitoli sul sistema giudiziario e i diritti fondamentali, nonché la giustizia, la liberta e la sicurezza.
Islanda
Il 17 luglio 2009 l’Islanda ha presentato domanda di adesione all’Unione europea. Sulla base della valutazione positiva della Commissione, Il 17 giugno 2010 il Consiglio europeo ha deciso di aprire i negoziati di adesione con il paese.
La Commissione ha rilevato infatti che l’Islanda – che è una repubblica parlamentare con una profonda e radicata tradizione di democrazia rappresentativa, con un ordinamento costituzionale e giuridico stabile - soddisfa i criteri politici stabiliti dal Consiglio europeo di Copenaghen del 1993, condizione indispensabile per l’apertura dei negoziati. Inoltre l’Islanda presenta un elevato grado di integrazione con l'UE: partecipando, infatti, al mercato unico da oltre 15 anni, tramite l’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE), l’Islanda ha adottato una porzione significativa delle normative dell’Unione europea; dal 1996, il paese è inoltre associato agli accordi Schengen, di cui applica le disposizioni in materia di libera circolazione delle persone dal 2001.
Il 26 luglio 2010 è stato adottato il quadro negoziale dell’UE, il quale delinea i principi, la sostanza e le procedure che dirigono i negoziati con l’Islanda, che sono stati avviati ufficialmente il 27 luglio 2010 a Bruxelles, nel corso della prima conferenza intergovernativa tra UE e Islanda.
Allo stato 11 sono i capitoli negoziali conclusi e 16 quelli aperti.
In una risoluzione del luglio 2010 il Parlamento europeo pur esprimendo il suo sostegno all’apertura dei negoziati di adesione, chiede all'Islanda di cessare tutte le attività di caccia alla balena e di abbandonare ogni riserva formulata nei confronti della Commissione baleniera internazionale.
Secondo il PE il paese ha inoltre bisogno di riformare in modo sostanziale l'organizzazione e il funzionamento del proprio sistema di vigilanza finanziaria, oltre che il modo in cui sono nominati i giudici, i pubblici ministeri e le supreme autorità giudiziarie. I settori che dovranno essere integralmente negoziati con l'Islanda sono l'agricoltura, la pesca, la tassazione, la politica economica e monetaria e le relazioni esterne.
Montenegro
Il Montenegro ha avanzato richiesta di adesione all’Unione europea il 15 dicembre 2008 e ha ottenutolo status di paese candidatonel dicembre 2010.
I negoziati di adesione sono stati avviati ufficialmente il 29 giugno 2012, a margine del Consiglio europeo, sulla base delle valutazioni positive espresse dalla Commissione europea nella relazione annuale di ottobre 2011 e nella successiva relazione di maggio 2012.
Il Montenegro è il primo paese al quale si applica il nuovo approccio ai negoziati di adesione – proposto dalla Commissione, in occasione del consenso rinnovato sull'allargamento stabilito dal Consiglio europeo del dicembre 2006 -, che prevede un’attenzione particolare alle questioni relative a diritti fondamentali, sistema giudiziario, lotta alla corruzione e al crimine organizzato, coperte dai capitoli negoziali 23 e 24. Il nuovo approccio consente di aprire tali complessi capitoli all’inizio dei negoziati di adesione e di chiuderli per ultimi, concentrandosi sull’attuazione di tabelle di marcia e introducendo progressive prove delle prestazioni raggiunte.
Come risulta dalla relazione 2012 sui progressi compiuti dal Montenegro, presentata dalla Commissione il 10 ottobre 2012, nell’ambito dell’annuale pacchetto allargamento, già nella primavera del 2012 è stato avviato lo screening dei capitoli in questione mentre per gli altri capitoli è cominciato a settembre 2012 e dovrebbe concludersi entro l’estate del 2013.
Per quanto riguarda i progressi compiuti dal paese rispetto agli anni precedenti, nella relazione sul Montenegro la Commissione rileva che il rispetto dei criteri politici risulta soddisfacente: il quadro legislativo-istituzionale e le politiche sono stati migliorati in modo da garantire un funzionamento più efficiente del parlamento e del settore giudiziario e da rafforzare la politica anticorruzione, i diritti umani e la tutela delle minoranze. In particolare, si è iniziato ad applicare la recente legislazione sulle elezioni e la capacità del parlamento è stata rafforzata a livello amministrativo e di esperti; la trasparenza è migliorata e sono state previste commissioni separate sull’integrazione europea e sulla lotta alla corruzione. Secondo la Commissione occorre tuttavia proseguire gli sforzi volti a potenziare la capacità legislativa e di controllo del parlamento. Le riforma della costituzione e della pubblica amministrazione proseguono e il Montenegro ha continuato a onorare gli obblighi sottoscritti nell’ambito dell’accordo di stabilizzazione e di associazione (ASA) e a svolgere un ruolo costruttivo nella regione nel rispetto degli impegni internazionali.
Per quanto riguarda lo Stato di diritto, secondo la Commissione il Montenegro deve impegnarsi di più per rendere irreversibile l’attuazione delle riforme, soprattutto nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione, in particolare nelle alte sfere. Il paese deve inoltre portare a termine il processo di revisione costituzionale per aumentare l’indipendenza del sistema giudiziario. Occorrono inoltre ulteriori sforzi per garantire un sistema di nomine e di carriere basato sul merito nonché per rafforzare la responsabilità e l’integrità della magistratura. Date le dimensioni ridotte dell’amministrazione nazionale, lo sviluppo della capacità amministrativa necessaria ad attuare l’acquis è visto come un problema trasversale.
Il 18 dicembre 2012 nel corso della conferenza intergovernativa UE-Montenegro è stato chiuso il primo dei capitoli negoziali, il n. 25 relativo a scienza e ricerca.
Serbia
il Consiglio europeo dell’1 e 2 marzo 2012 ha concesso alla Serbia lo status di paese candidato.
Nell’esprimere soddisfazione per la concessione dello status di paese candidato, il Parlamento europeo – nella risoluzione adottata il 29 marzo 2012 - ritiene necessario avviare quanto prima negoziati di adesione con la Serbia, dimostrando così l'impegno dell'UE rispetto alla prospettiva di adesione del paese all'Unione europea. La condizione è che la Serbia abbia normalizzato i rapporti con il Kosovo e il processo di riforma continui.
La Serbia aveva presentato domanda di adesione all’UE il 22 dicembre 2009. Su invito del Consiglio del 25 ottobre 2010, il 12 ottobre 2011 la Commissione aveva espresso parere positivosull’attribuzione dello status di paese candidato.
Per quanto riguarda invece l’apertura dei negoziati di adesione, la Commissione raccomanda che essi siano avviati non appena il paese avrà compiuto progressi significativi nella normalizzazione delle relazioni con il Kosovo secondo le condizioni del processo di stabilizzazione e di associazione: rispettando pienamente i princìpi alla base di una cooperazione regionale inclusiva; rispettando pienamente le disposizioni del trattato che istituisce la Comunità dell’energia; trovando soluzioni per quanto riguarda le telecomunicazioni e l'accettazione reciproca dei diplomi; continuando ad applicare in buona fede tutti gli accordi conclusi e collaborando attivamente con la missione EULEX perché possa svolgere i suoi compiti in tutte le parti del Kosovo.
Dal 9 dicembre 2008 è stata dispiegata in Kosovo la missione EULEX, con l’obiettivo di sostenere le autorità kosovare nel monitoraggio e nel potenziamento di tutti gli ambiti relativi allo Stato di diritto, con particolare attenzione a forze di polizia, sistema giudiziario e sistemi di correzione.
Come si legge nella relazione sui progressi compiuti dalla Serbia, secondo la Commissione, la stabilità e il funzionamento delle istituzioni sono state garantite prima e dopo le elezioni presidenziali, politiche e locali e in Vojvodina; malgrado il rallentamento dell’attività legislativa dovuto alle elezioni, nella maggior parte dei settori si osservano progressi nell’attuazione delle riforme. La relazione rileva che la Serbia ha continuato a collaborare senza riserve con il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) e la realizzazione degli obblighi in forza dell’accordo interinale e/o dell’accordo di stabilizzazione e associazione procede senza problemi. Secondo la Commissione il dialogo con Pristina ha prodotto una serie di risultati, ma gli accordi raggiunti non sono stati applicati in modo uniforme: di recente la Serbia ha firmato il protocollo tecnico sulla gestione integrata delle frontiere ed è stata finalmente chiarita l’interpretazione serba dell’accordo sulla cooperazione regionale e sulla rappresentanza del Kosovo; dall’entrata in vigore dell’accordo il carattere inclusivo della cooperazione regionale non risulta più ostacolato. Come rilevato dalla Commissione, i nuovi leader serbi hanno ribadito l’impegno ad attuare tutti gli accordi già raggiunti nel dialogo con Pristina e a cominciare ad affrontare questioni politiche più ampie. Il rispetto di questo impegno è fondamentale per il passaggio del paese alla fase successiva dell’integrazione nell’Unione.
Sulla base di tali risultati, secondo la Commissione la Serbia è dunque sulla buona strada verso un rispetto soddisfacente dei criteri politici e delle condizioni legate al processo di stabilizzazione e di associazione. Il paese deve però garantire maggiore impegno sullo Stato di diritto, soprattutto per quanto riguarda il settore giudiziario; le recenti difficoltà evidenziano infatti la necessità di un rinnovato impegno a proseguire le riforme e a garantire l’indipendenza, l’imparzialità e l’efficienza del settore, anche alla luce delle recenti pronunce della Corte costituzionale e tenuto conto della necessità di riconquistare la fiducia dei cittadini dopo il discredito gettato dal processo di riconferma dei giudici. Anche alla luce dei recenti eventi, la Serbia deve prestare particolare attenzione ai diritti dei gruppi vulnerabili e all’indipendenza delle principali istituzioni, come la banca centrale. Il paese deve continuare a impegnarsi in modo costruttivo nella cooperazione regionale e a approfondire le relazioni con i paesi del vicinato. Dovrà inoltre rilanciare l’interesse per le riforme e compiere ulteriori progressi verso un miglioramento visibile e duraturo delle relazioni con il Kosovo.
La Commissione intende raccomandare l’avvio dei negoziati di adesione con la Serbia, non appena avrà stabilito che il paese rispetta adeguatamente i criteri e le condizioni di adesione stabiliti dal processo di stabilizzazione e associazione, in particolare la questione del Kosovo, ritenuta prioritaria dal Consiglio. In linea con le conclusioni del Consiglio del 5 dicembre 2011, le relazioni tra Serbia e Kosovo devono registrare progressi visibili e duraturi in modo da permettere a entrambi i paesi di proseguire sulla strada dell’Unione e evitare che si ostacolino a vicenda. Questo processo dovrà consentire gradualmente la piena normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo permettendo ad entrambi di esercitare pienamente i rispettivi diritti e di assumersi le rispettive responsabilità nell’ambito dell’Unione. Il processo dovrà in particolare risolvere i problemi nel Kosovo settentrionale rispettando al tempo stesso l’integrità territoriale del paese e le esigenze specifiche della popolazione locale.
La Commissione sottolinea che il processo di normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina andrà affrontato anche al momento di definire il quadro negoziale, che permetterà in futuro di condurre i negoziati di adesione con la Serbia. È importante che le parti seguano con determinazione questo approccio globale, avvalendosi del pieno sostegno dell’Unione.
Come dettagliato nel seguito, la strategia dell’Unione europea in materia di allargamento è stata definita dal Consiglio europeo alla fine del 2006 e resta tuttora valida.
Nel novembre 2006 la Commissione ha presentato il documento di strategia 2006-2007 sull’ampliamento, comprendente una relazione speciale sulla capacità di integrazione dell'Unione. Nel documento la Commissione ribadisce i tre principi su cui si basa la strategia, già preannunciati nel 2005:
Basandosi sull'esperienza acquisita con i precedenti allargamenti, la Commissione propone di migliorare ulteriormente la qualità del processo di adesione adottando le seguenti misure concrete:
La relazione speciale costituisce parte integrante del documento di strategia sull'ampliamento del 2006. A seguito della richiesta formulata dal Consiglio europeo del giugno 2006, essa è incentrata sui problemi da affrontare a medio e lungo termine per quanto riguarda la capacità dell'UE di integrare nuovi Stati membri.
Dopo avere fatto una panoramica storica sulla capacità di integrare nuovi membri dimostrata dall’Unione europea nel corso dei precedenti allargamenti, la Commissione delinea un metodo di valutazione della capacità dell'Unioneeuropea in previsione degli allargamenti futuri, alla luce di tre componenti: istituzioni, politiche comunitarie e bilancio.
Secondo la Commissione, l'Unione deve garantire l'efficienza e la continuità di funzionamento delle istituzioni comunitarie e dei processi decisionali, come pure il mantenimento del livello di responsabilità corrispondente alle une e agli altri, sia per l'attuale configurazione dell’UE che in vista di un ulteriore allargamento.
Un più efficace funzionamento dell'Unione europea, secondo la Commissione, è nell'interesse sia dell'Unione allargata che dei potenziali Stati membri per gli anni a venire. Anche con le nuove adesioni, l'Unione deve essere in grado di continuare a garantire lo sviluppo e l'attuazione delle politiche comuni in tutti i settori. L'impatto dell'allargamento sulle politiche comunitarie sarà valutato durante tutte le fasi essenziali del processo. In futuro, i pareri della Commissione sulle domande di adesione di ciascun paese candidato comprenderanno una valutazione dell'impatto dell'adesione del paese interessato sulle politiche dell'UE. Tale valutazione verrà presa in considerazione nel quadro di definizione del mandato per i negoziati di adesione.
La relazione sottolinea che l'Unione deve essere in grado di continuare a finanziare le politiche comunitarie in modo sostenibile, perciò l'impatto delle nuove adesioni sul bilancio dell'UE sarà oggetto di una scrupolosa disamina nel corso dell'intero processo dell'allargamento. I pareri della Commissione sulle domande di adesione di ciascun paese candidato forniranno una stima circa il corrispondente impatto sul bilancio comunitario.
La comunicazione sulla strategia futura ha costituito la base del dibattito sull’allargamento che si è tenuto in occasione del Consiglio europeo di dicembre 2006, che ha riguardato tutti gli aspetti relativi a ulteriori allargamenti, ivi compresa la capacità dell'Unione di accogliere nuovi membri, nonché i modi di migliorare la qualità del processo di allargamento, sulla base delle positive esperienze finora acquisite. Nelle conclusioni adottate sull’argomento, il Consiglio europeo “conviene che la strategia di allargamento, fondata su consolidamento, condizionalità e comunicazione, combinata con la capacità dell'UE di integrare nuovi membri, rappresenta la base di un rinnovato consenso sull'allargamento”. Nel confermare che l’UE mantiene i suoi impegni riguardo ai negoziati in corso, il Consiglio europeo ha convenuto sui miglioramenti proposti dalla Commissione riguardo a gestione e qualità dei negoziati ed ha sottolineato che il ritmo dell’allargamento deve tener conto della capacità dell’Unione europea di assorbire nuovi paesi. A tale scopo, il Consiglio europeo invita la Commissione a fornire valutazioni di impatto sulle principali politiche europee nelle fasi cruciali del processo di adesione e, in particolare, nella predisposizione del parere sulla domanda di adesione dei singoli paesi.
La Politica estera e di sicurezza comune (PESC) è uno degli strumenti di cui dispone l'Unione europea nell'ambito delle relazioni esterne.
La sua base giuridica è stata elaborata piuttosto tardi. Nonostante il fatto che, sin dalle origini della Comunità europea, gli Stati membri avessero individuato forme di concertazione sui grandi problemi di politica internazionale, è soltanto con il Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993) che viene formalmente definito l’obiettivo di una “politica estera comune”.
La politica estera e di sicurezza comune dell'UE ha la funzione di mantenere la pace e rafforzare la sicurezza internazionale, promuovere la collaborazione internazionale e sviluppare e consolidare la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
La PESC, via via sviluppatasi con i trattati successivi a quello di Maastricht, è stata ulteriormente rafforzata dal Trattato di Lisbona del 2009, che ha istituito la figura dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e ha creato il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), che funziona come un servizio diplomatico, con una rete di oltre 141 delegazioni e uffici in tutto il mondo.
Nonostante i cambiamenti introdotti, la PESC resta tuttavia un settore d'azione intergovernativo nel quale il ruolo del Consiglio europeo è preponderante e l'unanimitàcontinua ad essere la regola, ferma restando la possibilità di cooperazioni rafforzate tra i singoli Stati membri.
La politica estera e di sicurezza comune (PESC) dell'UE si fonda sul ricorso alla diplomazia, facendo leva, se necessario, sul commercio, gli aiuti e le misure di sicurezza e di difesa per risolvere i conflitti e promuovere la pace a livello internazionale.
In qualità di principale donatore di aiuti allo sviluppo e di prima potenza commerciale, dotata della seconda valuta più importante del mondo, l'UE svolge un ruolo importante negli affari internazionali.
Nel quadro della PESC, l’Unione ha inoltre creato una politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), volta ad assicurare che l’UE disponga di una propria capacità operativa per contribuire a garantire, al suo esterno, il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale. Detta politica prefigura, in prospettiva, un’evoluzione verso la graduale definizione di una difesa comune dell’UE. Nel quadro della PSDC, l’Agenzia europea per la difesa è incaricata tra l’altro di rafforzare la base industriale e tecnologica del settore della difesa e promuovere la cooperazione europea nel settore degli armamenti.
Nel quadro della PSDC, non disponendo di un esercito permanente, l’UE utilizza contingenti speciali forniti dai paesi dell'UE per missioni di pace in diverse zone del mondo.
Una delle principali novità introdotte dal Trattato di Lisbona nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC) è rappresentata dalla creazione di un Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), che unifica i precedenti ruoli di Alto rappresentante e Commissario per le relazioni esterne. L’Alto rappresentanteguida la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione, contribuisce con proposte alla sua elaborazione e la attua in qualità di mandatario del Consiglio; assicura la coerenza dell’azione esterna dell’Unione; presiede il Consiglio “Affari esteri” ed è uno dei Vicepresidenti della Commissione. L'AR rappresenta l'Unione per le materie che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune.Conduce, a nome dell'Unione, il dialogo politico con i terzi ed esprime la posizione dell'Unione nelle organizzazioni internazionali e in seno alle conferenze internazionali. Il Consiglio europeo del 1° dicembre 2009 ha nominato la britannica Catherine Ashton Alto rappresentante. La nomina ha una durata di cinque anni ed è rinnovabile.
L’AR è assistito dal “Servizio europeo per l’azione esterna” (SEAE), che rappresenta un’altra importante novità nel quadro della PESC.
Il Trattato prevede che tale Servizio lavori in collaborazione con i servizi diplomatici degli Stati membri e sia composto da funzionari dei servizi competenti del Segretariato generale del Consiglio, della Commissione europea e da personale distaccato dai servizi diplomatici nazionali.
Come previsto dal Trattato, l’organizzazione e il funzionamento del servizio sono stati fissati dalla decisione 2010/427/CE del Consiglio, del 26 luglio 2010, su proposta dell’Alto rappresentante, previa approvazione della Commissione e consultazione del Parlamento europeo. Il Servizio è stato avviato formalmente il 1° dicembre 2010; la sua sede è Bruxelles. Hanno integrato la decisione istitutiva le modifiche al regolamento finanziario applicabile al bilancio generale dell’Unione e allo statuto dei funzionari dell’Unione. Si segnala che nel corso del 2013 è prevista una revisione dell’organizzazione e del funzionamento del SEAE e che nel mese di aprile il Parlamento europeo dovrebbe approvare una risoluzione di iniziativa sull’argomento, contenente raccomandazioni al SEAE e al Consiglio.
Si riportano di seguito gli elementi principali della decisione istitutiva in tredici articoli che ha fissato l’attuale organizzazione e il funzionamento del SEAE:
Come risulta dal bilancio generale dell’UE per il 2013 al SEAE è assegnato un finanziamento di oltre 514 milioni di euro.
Per quanto concerne le ricadute dell’istituzione del SEAE sulle amministrazioni italiane, si ricorda che come stabilito dall’articolo 4 del decreto-legge n. 1 del 2010 (convertito dalla legge n. 30 del 2010) per l’istituzione del Servizio europeo per l’azione esterna il Ministero degli affari esteri può mettere a disposizione delle istituzioni dell’Unione europea fino a 50 funzionari della carriera diplomatica, destinati a prestare servizio presso le predette istituzioni, le loro delegazioni ed uffici nei paesi terzi o presso organizzazioni internazionali o regionali, nonché presso strutture di direzione e gestione di specifiche iniziative o operazioni nell’ambito della PESC. A tal fine il Ministero degli affari esteri è autorizzato, in deroga alle vigenti disposizioni sul blocco delle assunzioni del pubblico impiego, negli anni 2010-2014 a bandire annualmente un concorso di accesso alla carriera diplomatica e ad assumere un contingente annuo non superiore a 35 segretari di legazione in prova.
Delle 141 delegazioni del SEAE, 8 sono quelle dirette da funzionari di nazionalità italiana: Albania (Ettore Sequi), Giamaica (Paoloa Amadei), Liberia (Attilio Pacifici), Mauritius (Alessandro Mariani), Tanzania (Filiberto Ceriani Sebregondi ), Uganda (Roberto Ridolfi), presso Unesco e Ocse a Parigi (Maria Francesca Spatolisano), presso le Nazioni Unite a Ginevra (Mariangelea Zappia).
Per quanto riguarda le posizioni apicali sono stati nominati: Ugo Astuto alla carica di direttore per l'Asia meridionale e sud-orientale, Fernando Gentilini, alla carica di direttore per l'Europa Occidentale, i Balcani Occidentali e la Turchia e Agostino Miozzo alla carica di direttore dell’unità di risposta alle crisi.
Il 9 e 10 settembre 2012 si è tenuta a Paphos (Cipro) la prima Conferenzaper il controllo parlamentare sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC).
Nel corso della riunione inaugurale è stato adottato il regolamento della conferenza, in linea con le decisioni adottate dalla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea (UE) alle riunioni di Bruxelles il 4-5 aprile 2011 e di Varsavia il 20-21 aprile 2012.
Nelle conclusioni la conferenza ha espresso la volontà di potenziare l’impegno democratico nel campo della PESC e della PSDC dell’Unione promuovendo uno scambio d’informazioni più sistematico, cadenzato e tempestivo sui vari aspetti e implicazioni della PESC e della PSDC a livello nazionale ed europeo e ovviando alle manchevolezze della PESC e della PSDC in campo decisionale, in stretta cooperazione con l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza. La conferenza si prefigge inoltre un periodico riesame delle missioni dell’Unione in corso nel quadro della PSDC, nonché del ruolo e delle attività dell’Agenzia europea per la difesa.
L’accordo sull’istituzione della Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC e sulla PSDC è stato raggiunto dalla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE che si è svolta a Varsavia il 19-21 aprile 2012.
Successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), e in particolare delle disposizioni in materia di politica estera e di difesa comune - tra cui la clausola di mutua assistenza in caso di aggressione armata - il 31 marzo 2010 la Presidenza spagnoladell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), a nome degli Stati membri effettivi del Trattato UEO, ha annunciato la decisione collettiva di ritirarsi dal Trattato stesso,determinandone così la dissoluzione avvenuta il 30 giugno 2011. Conseguentemente sono cessate anche le attività dell’Assemblea parlamentare dell’UEO che, a seguito del trasferimento delle attività operative all’UE, aveva concentrato i suoi lavori sulla politica europea di sicurezza e difesa, esercitando anche un ruolo di controllo nel settore degli armamenti e della ricerca e sviluppo in materia di armamenti.
La dissoluzione dell’Assemblea parlamentare dell’UEO ha posto dunque la questione delle modalità e della sede per esercitare il controllo parlamentare sulla politica estera e di difesa dell’Unione europea. L’istituzione di una Conferenza interparlamentare per il controllo sulla PESC/PSDC era stata discussa durante laConferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE svoltasi a Bruxelles il 4 e 5 aprile 2011. In quella sede non si riuscì ad addivenire a un accordo su tutti i profili relativi all’istituzione della Conferenza, in particolare per le differenze di posizioni sulla composizione della Conferenza stessa, con specifico riguardo alla consistenza delle rappresentanze rispettivamente del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, nonché sulle modalità di assicurare ad essa un segretariato.
Sulla base dei principi istitutivi successivamente fissati dalla conclusioni della Conferenza dei Presidenti dei Parlamentidi Varsavia, il regolamento della Conferenza stabilisce le seguenti disposizioni:
- la Conferenza interparlamentare per la PESC/PSDC è composta da delegazioni dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell'Unione europea e del Parlamento europeo, e sostituisce le riunioni dei Presidenti delle Commissioni affari esteri dei Parlamenti dell’UE (COFACC) e dei Presidenti delle Commissioni difesa (CODAC);
- ogni Parlamento decide autonomamente sulla composizione della sua delegazione. I Parlamenti nazionali sono rappresentati da delegazioni composte da 6 membri. Per i Parlamenti bicamerali il numero dei membri potrà essere distribuito con accordi interni. Il Parlamento europeo è rappresentato da una delegazione di 16 membri. I Parlamenti dei paesi candidati all’adesione ed i Parlamenti di paesi europei membri della NATO potranno partecipare con una delegazione composta da 4 osservatori. Si tratta di Croazia (in procinto di divenire membro dell’UE), ex Repubblica iugoslava di Macedonia,Islanda, Montenegro, Serbia e Turchia in quanto candidati all’adesione e Norvegia e Albania, in quanto Paesi europei membri della NATO;
- la Conferenza si riunisce due volte l'anno nel Paese che esercita la Presidenza semestrale del Consiglio o presso il Parlamento europeo a Bruxelles. La decisione spetta alla Presidenza. La Conferenza può tenere riunioni straordinarie in caso di necessità o urgenza;
- la Presidenza delle riunioni è esercitata dal Parlamento nazionale dello Stato membro che ricopre la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo;
- Il Segretariato della Conferenza è esercitato dal Parlamento nazionale dello Stato membro che esercita la Presidenza di turno dell’UE, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo, e dei Parlamenti nazionali della precedente e successiva Presidenza di turno dell’UE;
- l'Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza è invitato alle riunioni della Conferenza per esporre le linee d’indirizzo e le strategie della politica estera e di difesa comune dell'Unione;
- la Conferenza può adottareper consenso conclusioni non vincolanti.
La Conferenza dei Presidenti di Varsavia ha, inoltre, previsto che al termine di due anni dalla prima riunione della Conferenza interparlamentare si procederà ad una revisione della formula adottata per la sua composizione.
La seconda Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC si svolgerà a Dublino il 24 e 25 marzo 2013.
Il Trattato di Lisbona prevede la realizzazione di una politica estera e di sicurezza comune (PESC) fondata sullo sviluppo della reciproca solidarietà politica degli Stati membri, sull'individuazione delle questioni di interesse generale e sulla realizzazione di un livello di convergenza delle azioni degli Stati membri.
La PESC resta fondamentalmente un settore d'azione intergovernativo nel quale il ruolo del Consiglio europeo è preponderante; l'unanimitàcontinua ad essere la regola e la maggioranza qualificata viene applicata soltanto per l'attuazione delle decisioni prese dal Consiglio europeo, per le proposte presentate dall'AR su richiesta del Consiglio europeo o per la nomina di un rappresentante speciale. Il Consiglio europeo può decidere all'unanimità di estendere i casi in cui il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata.
Il Trattato di Lisbona ha tuttavia modificato il ruolo degli attori della PESC, attraverso la creazione di:
Importanti progressi sono stati compiuti nel settore specifico della politica di sicurezza e difesa comune (PSDC). La prospettiva di una difesa comune, o comunque la definizione di una politica di difesa comune, i cui principi erano già stati stabiliti nel trattato di Maastricht, diventa più realistica. La decisione di creare, quando verrà il momento, una difesa comune è adottata dal Consiglio europeo che delibera all'unanimità; essa esige anche l'approvazione di tutti gli Stati membri secondo le proprie procedure costituzionali. Tale politica comune di difesa conferisce all'Unione una capacità operativa basata su strumenti civili e militari. Il Trattato di Lisbona ribadisce che il perseguimento della politica di sicurezza e di difesa comune non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, rispetta gli obblighi derivanti dal Trattato del Nord-Atlantico, per gli Stati membri che ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite la NATO, ed è compatibile con la politica di sicurezza e di difesa comune adottata in tale contesto.
Tra le principali innovazioni si ricordano:
Il Trattato di Lisbona rafforza inoltre la solidarietà tra gli Stati membri attraverso:
Per quanto riguarda in particolare le missioni PSDC, si segnala che il Trattato ha disposto l’estensione delle cosiddette missioni di Petersberg - missioni umanitarie e di soccorso; missioni di mantenimento della pace (peace-keeping); missioni di unità di combattimento nella gestione di crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace (peace-making) - integrandole con ulteriori compiti relativi alle missioni di disarmo, di consulenza ed assistenza in materia militare, di stabilizzazione al termine dei conflitti. L’articolo specifica inoltre che tutte queste missioni possono contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a paesi terzi per combattere il terrorismo sul loro territorio.
In merito alle missioni, si ricorda che, secondo il Consiglio europeo del dicembre 2008, l'UE dovrebbe essere effettivamente in grado nei prossimi anni, nell'ambito del livello di ambizione stabilito, ossia il dispiegamento di 60.000 uomini in 60 giorni per un'operazione importante, nella gamma di operazioni previste dagli obiettivi primari 2010, di pianificare e condurre simultaneamente:
- due importanti operazioni di stabilizzazione e ricostruzione, con un'adeguata componente civile sostenuta da un massimo di 10.000 uomini per almeno due anni;
- due operazioni di reazione rapida di durata limitata utilizzando segnatamente i gruppi tattici dell'UE;
- un'operazione di evacuazione d'emergenza di cittadini europei (in meno di 10 giorni), tenendo conto del ruolo primario di ciascuno Stato membro nei confronti dei suoi cittadini e ricorrendo al concetto di Stato guida consolare;
- una missione di sorveglianza/interdizione marittima o aerea;
- un'operazione civile-militare di assistenza umanitaria della durata massima di 90 giorni;
- una dozzina di missioni civili PSDC (segnatamente, missioni di polizia, di Stato di diritto, di amministrazione civile, di protezione civile, di riforma del settore della sicurezza o di vigilanza) in forme diverse, incluso in situazione di reazione rapida, tra cui una missione importante (eventualmente fino a 3000 esperti) che potrebbe durare vari anni.
Come anticipato, il Trattato di Lisbona dispone che gli Stati membri che rispondano ai criteri più elevati di capacità militari e che hanno sottoscritto gli impegni sulle capacità militari previsti dagli articoli 1 e 2 del protocollo sulla cooperazione strutturata permanente(Protocollo n. 10 del Trattato Lisbona), possano stabilire una cooperazione strutturata permanente nell’ambito dell’Unione. La procedura prevede che gli Stati membri intenzionati a partecipare alla cooperazione strutturata notifichino la loro intenzione al Consiglio e all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Entro tre mesi dalla notificazione il Consiglio adotta una decisione che istituisce la cooperazione strutturata permanente e fissa l'elenco degli Stati membri partecipanti. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata previa consultazione dell’Alto rappresentante.
In base all’art. 238, par.3, punto a, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - TFUE, per maggioranza qualificata si intende almeno il 55 % dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti, che totalizzino almeno il 65 % della popolazione di tali Stati. La minoranza di blocco deve comprendere almeno il numero minimo di membri del Consiglio che rappresentano oltre il 35 % della popolazione degli Stati membri partecipanti, più un altro membro; in caso contrario la maggioranza qualificata si considera raggiunta.
Il Protocollon. 10 in materia di cooperazione strutturata permanente prevede, agli artt. 1 e 2, che essa sia aperta ad ogni Stato membro che si impegni, in particolare, a:
L’art. 3 stabilisce che l’Agenzia europea per la difesa contribuisca alla valutazione regolare dei contributi degli Stati membri partecipanti in materia di capacità.
Come anticipato, la politica estera e di sicurezza comune – e di conseguenza la PSDC - è soggetta a norme e procedure specifiche. Essa è definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all'unanimità, salvo nei casi in cui i trattati dispongano diversamente. È esclusa l'adozione di atti legislativi.
Il Consiglio europeo individua gli interessi strategici dell'Unione e fissa gli obiettivi della sua politica estera e di sicurezza comune.
Il Consiglio elabora tale politica nel quadro delle linee strategiche definite dal Consiglio europeo.
L’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli Stati membri attuano la politica estera e di sicurezza comune, ricorrendo ai mezzi nazionali e a quelli dell'Unione.
Gli Stati membri si concertano in sede di Consiglio europeo e di Consiglio su qualsiasi questione di politica estera e di sicurezza di interesse generale per definire un approccio comune. Prima di intraprendere qualsiasi azione sulla scena internazionale o di assumere qualsiasi impegno che possa incidere sugli interessi dell'Unione, ciascuno Stato membro consulta gli altri in sede di Consiglio europeo o di Consiglio.
In materia di politica estera e di sicurezza comune la procedura legislativa ordinaria non si applica. La disciplina di tale settore è affidata alle decisioni europee adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio all'unanimità - salvo i casi previsti di voto a maggioranza qualificata da parte del Consiglio (vedi oltre) - su iniziativa di uno Stato membro, su proposta dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, o su proposta di quest'ultimo con l'appoggio della Commissione.
In caso di astensione dal voto, ciascun membro del Consiglio dei ministri può motivare la propria astensione con una dichiarazione formale. In tal caso non è obbligato ad applicare la decisione europea, ma accetta che questa impegni l'Unione. In uno spirito di reciproca solidarietà, lo Stato membro interessato si astiene da azioni che possano contrastare o impedire l'azione dell'Unione basata su tale decisione. Qualora i membri del Consiglio dei ministri che motivano in tal modo l'astensione rappresentino almeno un terzo degli Stati membri che totalizzano almeno un terzo della popolazione dell'Unione, la decisione non è adottata.
Per quanto riguarda in particolare le missioni PSDC, il Consiglio adotta le relative decisioni stabilendone l'obiettivo, la portata e le modalità generali di realizzazione. L'Alto rappresentante, sotto l'autorità del Consiglio e in stretto e costante contatto con il comitato politico e di sicurezza, provvede a coordinare gli aspetti civili e militari di tali missioni.
Nel quadro di tali decisioni, il Consiglio può affidare la realizzazione di una missione a un gruppo di Stati membri che lo desiderano e dispongono delle capacità necessarie per tale missione. Tali Stati membri, in associazione con l'alto rappresentante, si accordano sulla gestione della missione. Gli Stati membri che partecipano alla realizzazione della missione informano periodicamente il Consiglio dell'andamento della missione, di propria iniziativa o a richiesta di un altro Stato membro.
Gli Stati membri partecipanti investono immediatamente il Consiglio della questione se la realizzazione di tale missione genera conseguenze di ampia portata o se impone una modifica dell'obiettivo, della portata o delle modalità della missione. In tal caso il Consiglio adotta le decisioni necessarie.
In deroga alla regola generale dell’unanimità, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata nel settore della politica estera e di sicurezza comune quando adotta una decisione europea – che non abbia implicazioni militari o rientri nel settore della difesa – relativa a:
Se un membro del Consiglio dichiara che, per vitali ed espliciti motivi di politica nazionale, intende opporsi all'adozione di una decisione europea che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione. Il Ministro degli affari esteri dell'Unione cerca, in stretta consultazione con lo Stato membro interessato, una soluzione accettabile per quest'ultimo. In mancanza di un risultato il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può chiedere che della questione sia investito il Consiglio europeo, in vista di una decisione europea all'unanimità.
Il Consiglio europeo può decidere all'unanimità di estendere i casi in cui il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata.
Sotto il profilo del controllo parlamentare in tale ambito, il Parlamento europeo acquisisce in linea generale il diritto di essere informato (o consultato), il diritto di controllo (interrogazioni, dibattiti) e di voto del bilancio PESC.
In base al Trattato di Lisbona, il Parlamento europeo è consultato regolarmente dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza comune sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica di sicurezza e di difesa comune edè tenuto al corrente della sua evoluzione. L’Alto rappresentante provvede affinché le opinioni del Parlamento europeo siano debitamente prese in considerazione. I rappresentanti speciali possono essere associati all’informazione del Parlamento europeo. Il Parlamento europeo può rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio e all’Alto rappresentante. Il Trattato prevede inoltre che il Parlamento europeo svolga due volte l’anno il dibattito sui progressi compiuti nell’attuazione della politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica di sicurezza e difesa comune.
Si ricorda inoltre che è stata da poco istituita la Conferenza per il controllo parlamentare sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), composta da delegazioni dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell'Unione europea e del Parlamento europeo.
La competenza della Corte di giustizia è invece limitata alla delimitazione fra la PESC e gli altri settori di intervento dell'UE nonché al controllo della legalità delle decisioni europee che comportano misure restrittive nei confronti dei privati.
I principi e gli obiettivi generali dell'azione dell'Unione Europea nelle sue relazioni esterne (riportati all'art. 21 del Trattato sull'Unione europea) sono quelli stessi che l'Unione applica e persegue al proprio interno, e che si propone di diffondere e consolidare nel resto del mondo:la salvaguardia dei valori e interessi fondamentali dell'UE; il sostegno alla democrazia e allo Stato di diritto; il rafforzamento della pace e della sicurezza internazionali; lo sviluppo dei paesi meno avanzati e l'integrazione di tutti gli Stati nell'economia mondiale; l'azione a favore dell'ambiente e dello sviluppo sostenibile e l'assistenza alle popolazioni colpite da calamità; infine, la promozione di un sistema internazionale fondato sulla cooperazione multilaterale.
In tale contesto generale, l’Unione europea intrattiene stretti rapporti sia con gli Stati terzi che con le altre organizzazioni internazionali. Tali rapporti spaziano dalle relazioni commerciali alla politica di allargamento, dalla Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) agli aiuti allo sviluppo e gli interventi umanitari.
Numerosi accordi stipulati disciplinano le relazioni di cooperazione, gli scambi e il dialogo politico tra l’UE e i paesi del Mediterraneo, del Medio Oriente, dell’Asia e dell’America latina, dell’Europa orientale e dell’Asia centrale, nonché dei Balcani occidentali.
Tra questi rientrano gli accordi in materia di politica commerciale (art. 207 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), relativi a modificazioni tariffarie, misure di aiuti all’esportazione, misure di difesa commerciale o gli accordi di associazione (art. 217 dello stesso Trattato). L'Unione può infatti concludere con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un'associazione caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari.
In linea generale, l’Unione europea può concludere accordi internazionali:
- nei casi previsti dai trattati istitutivi;
- qualora un atto giuridico vincolante lo preveda;
- qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare uno degli obiettivi dell'UE, anche in assenza di una regolamentazione europea interna;
- qualora la conclusione dell'accordo possa incidere su norme comuni adottate dall'UE nel diritto interno. Pertanto, qualora l'UE abbia adottato delle norme comuni per l'attuazione di una politica, gli Stati membri non hanno più il diritto di contrarre con degli Stati terzi obblighi che incidano su tali norme.
Indipendentemente dalla conclusione o meno di accordi vincolanti, l'UE ha sviluppato partnership con i maggiori protagonisti della scena mondiale. L'obiettivo è garantire che tali partnership siano basate su interessi e vantaggi reciproci, con diritti e obblighi per entrambe le parti.
Nell’ottica di ampliare e approfondire le relazioni con gli altri paesi e le diverse regioni del mondo, l’UE partecipa a scadenze regolari a vertici con i suoi principali partner - quali gli Stati Uniti, il Giappone e il Canada o, in tempi più recenti, la Russia, l’India e la Cina. Le sue relazioni con questi ed altri paesi riguardano diversi settori, tra cui istruzione, ambiente, sicurezza e difesa, criminalità e diritti umani.
L'UE è inoltre tra i protagonisti dei negoziati e consessi internazionali su diversi temi quali il riscaldamento globale, lo sviluppo sostenibile, il processo di pace in Medio Oriente, gli Obiettivi di sviluppo del millennio.
La “politica europea di vicinato” (PEV) si rivolge ai nuovi Stati indipendenti (Bielorussia, Moldova, Ucraina), ai paesi del Mediterraneo meridionale(Algeria, Autorità palestinese, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco, Siria, Tunisia) e agli Stati del Caucaso (Armenia, Azerbaigian e Georgia). L’obiettivo è quello di prevenire l’emergere di nuove linee di divisione tra l’Unione europea allargata e i suoi vicini, condividendo con questi ultimi i benefici dell’allargamento e consentendo loro di partecipare alle diverse attività dell’UE, attraverso una cooperazione politica, economica e culturale rafforzata.
La politica europea di vicinato, nettamente distinta dalla questione della potenziale adesione all’UE, propone un nuovo approccio nei confronti dei paesi interessati: in cambio dei progressi concreti compiuti in termini di riconoscimento dei valori comuni e di attuazione effettiva di riforme politiche, economiche e istituzionali, si riconosce loro una partecipazione al mercato interno dell’UE, nonché un’ulteriore integrazione e liberalizzazione per favorire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali.
Inaugurata dalla Commissione con una comunicazione presentata nel marzo 2003, l’iniziativa è stata in più occasioni rafforzata e precisata.
Successivamente, nel quadro della PEV si sono articolate due distinte dimensioni, l’Unione per il mediterraneo rivota al vicinato meridionale e il Partenariato orientale, rivolta al vicinato orientale.
In particolare, una comunicazione del 12 maggio 2004 ha fissato i principi, le metodologie, gli ambiti geografici e i temi della cooperazione regionale. Si segnalano in particolare:
Si segnala che sono in vigore: gli accordi euromediterranei di associazione con Tunisia (1° marzo 1998), Marocco (1° marzo 2000), Israele (1° giugno 2000), Giordania (1° maggio 2002), Egitto (1° giugno 2004), Algeria (1° settembre 2005) e Libano (1° aprile 2006); l’accordo interinale d’associazione sugli scambi e la cooperazione con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina a vantaggio dell’Autorità palestinese (1° luglio 1997); gli accordi di partenariato e cooperazione con Armenia, Azerbaigian, Georgia (1° luglio 1999), Moldova e Ucraina (1° luglio 1998). La firma dell’Accordo di associazione tra UE e Siria è congelata dal maggio 2011;
In linea generale, tali strumenti offrono assistenza per allineare la legislazione nazionale a quella comunitaria con l’obiettivo di migliorare l’accesso al mercato interno; consentono la partecipazione a numerosi programmi comunitari, fra cui quelli in materia di istruzione, ricerca, ambiente e audiovisivi; accrescono la cooperazione in materia di gestione delle frontiere, di migrazione, di tratta di esseri umani, di crimine organizzato, di riciclaggio di denaro e di crimini finanziari ed economici; migliorano i collegamenti con l’UE in materia di energia, trasporti e tecnologie dell’informazione; estendono il dialogo e la cooperazione ai temi della lotta al terrorismo, della non proliferazione delle armi di distruzione di massa e della gestione dei conflitti regionali.
La situazione creatasi in alcuni paesi del bacino meridionale del Mediterraneo sta dimostrando, ancora una volta, la portata delle sfide che l’UE deve affrontare nell’ambito del suo vicinato. In considerazione di ciò, si è resa necessaria una revisione della PEV al fine di dotare la politica di una visione strategica per affrontare tali sfide.
L’argomento è stato anche oggetto di dibattito presso il Parlamento europeo, che il 7 aprile 2011 ha approvato due risoluzioni, rispettivamente dedicate alla dimensione meridionale e a quella orientale.
Il Parlamento europeo ha manifestato innanzitutto il proprio apprezzamento per i progressi compiuti nelle relazioni tra l'UE e i paesi vicini nell'ambito della PEV, ritenendo che tale politica continui a essere un quadro d'importanza strategica per approfondire e rafforzare le relazioni con i nostri partner più prossimi, in modo da sostenere le loro riforme politiche, sociali ed economiche.
Il Parlamento europeo ha riconosciuto, tuttavia, il fallimento della PEV nel promuovere i diritti umani nei paesi terzi e chiede ai governi nazionali di trarne le giuste conseguenze, realizzando un "meccanismo di applicazione" per facilitare l'uso della clausola che permette la sospensione degli accordi in caso di violazione dei diritti umani.
Secondo il PE, nella nuova politica di vicinato, l'UE deve inoltre giocare "un ruolo attivo da protagonista e non solo quello di finanziatore", in particolare nel processo di pace in Medio Oriente e nel Sahara occidentale. Le relazioni future con il Nord Africa e il Medio Oriente dovrebbero essere sufficientemente flessibili da permettere soluzioni mirate per ciascun paese, con la possibilità di garantire ad alcuni degli Stati partner uno status più avanzato nelle relazioni con l'Unione. I negoziati condotti dalla Commissione per gli accordi bilaterali dovrebbero essere più trasparenti, cosi come i criteri utilizzati per garantire lo "status avanzato".
Il PE ha sottolineato come la revisione della politica europea di vicinato debba dare priorità ai criteri relativi all'indipendenza della magistratura, al rispetto delle libertà fondamentali, al pluralismo e alla libertà di stampa nonché alla lotta contro la corruzione; chiede un miglior coordinamento con le altre politiche dell'Unione rivolte ai paesi in questione. Ha posto, inoltre, l'accento sulla necessità di aumentare i fondi assegnati alla PEV nelle prossime prospettive finanziarie dell'Unione dopo il 2013, attribuendo la priorità, alla luce degli ultimi avvenimenti, alla dimensione meridionale della PEV; le prossime prospettive finanziarie, inoltre, dovrebbero tenere conto delle caratteristiche e delle esigenze specifiche di ciascun paese.
Il PE ha chiesto di dedicare maggiore attenzione alla cooperazione con le organizzazioni della società civile, poiché esse sono state il motore principale delle rivolte popolari verificatesi nell'intera regione.
In accordo con le proposte della Commissione, il PE ha chiesto, inoltre, di facilitare l'ottenimento dei visti d'ingresso per tutti i partner del Mediterraneo, in particolare per studenti, ricercatori e uomini d'affari. Criticando "l'approccio asimmetrico" dell'UE in materia di mobilità nei confronti dei paesi vicini, il PE ha reiterato la convinzione che gli accordi di riammissione devono valere solo per gli immigrati irregolari, e non per i richiedenti asilo, i rifugiati o le persone che necessitano protezione. Inoltre, ha ribadito il valore del principio del "non respingimento", da applicare a qualsiasi persona che rischia la pena di morte, trattamenti disumani e tortura.
In una comunicazione congiunta del 25 maggio 2011, nell’ambito della pubblicazione dell’annuale “pacchetto PEV” (il quinto) da parte della Commissione, l’Alto rappresentante dell’UE e vicepresidente della Commissione, Catherine Ashton, e il commissario per l’allargamento e la politica di vicinato, Ĺ tefan Füle, hanno lanciato una nuova ed ambiziosa politica europea di vicinato. Tale comunicazione rappresenta il culmine di un ampio riesame e di consultazioni con i governi e le organizzazioni della società civile sia all'interno dell'UE che nei 16 paesi partner della PEV.
Il nuovo approccio è volto a sviluppare un partenariato tra i popoli al fine di promuovere e sostenere lo sviluppo di una “democrazia profonda” e la prosperità economica nell’area dei Paesi PEV. Pertanto, oltre ai 5,7 miliardi di euro già stanziati per il periodo 2011-2013, viene previsto un finanziamento aggiuntivo di 1,24 miliardi di euro, che sarà messo a disposizione della politica europea di vicinato principalmente per sostenere le riforme politiche ed economiche che i paesi intendono affrontare.
In questo contesto, il Consiglio europeo ha approvato la proposta dell’Alto rappresentante di aumentare l'erogazione di prestiti da parte della BEI (Banca europea degli investimenti) al Mediterraneo meridionale di 1 miliardo di euro per lo stesso periodo. La BERS (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) ha appoggiato la richiesta di estendere l’attività nella regione del MENA, iniziando con l'Egitto. L’aspettativa è che il volume dei prestiti annuali possa raggiungere circa 2,5 miliardi di euro all'anno entro il 2013.
Il nuovo approccio, dunque, implica un livello molto più elevato di differenziazione: questo farà sì che ogni paese partner sviluppi i suoi legami con l'UE in base alle proprie aspirazioni, esigenze e capacità. Il sostegno dell'UE ai paesi vicini dipenderà dai progressi nella costruzione e nel consolidamento della democrazia e dal rispetto dello Stato di diritto: più velocemente un paese progredirà nelle sue riforme interne, maggiore sarà il sostegno da parte dell'Unione europea. Per rispondere alle sfide di un’area in rapido mutamento, gli strumenti utilizzati dovranno dunque essere flessibili.
Inoltre, si sviluppa ulteriormente il 'Partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il sud del Mediterraneo', che è stato approvato nel marzo 2011 in risposta alle turbolenze che si sono verificate, e che si stanno verificando, in Nord Africa. Esso si basa sul modello del partenariato orientale, lanciato nel 2009.
Gli obiettivi principali della nuova PEV sono quattro:
Con il partenariato orientale - rivolto ad Armenia, Azerbaigian, Bielorussia Georgia, Moldavia e Ucraina – l’Unione europea si prefigge di rafforzare la dimensione orientale della politica europea di vicinato (PEV), in modo complementare rispetto all’iniziativa dell’Unione per il Mediterraneo, che coinvolge i partner del vicinato meridionale.
Inaugurata dalla Commissione con la comunicazione “Europa ampliata - Prossimità: Un nuovo contesto per le relazioni con i nostri vicini orientali e meridionali”, presentata nel 11 marzo 2003 e a più riprese rafforzata, la politica europea di vicinato ha l’obiettivo di creare ai confini dell’Unione una zona di prosperità condivisa e buon vicinato. La PEV, nettamente distinta dalla questione della potenziale adesione all’UE, propone un nuovo approccio nei confronti dei paesi interessati: in cambio dei progressi concreti compiuti in termini di riconoscimento dei valori comuni e di attuazione effettiva di riforme politiche, economiche e istituzionali, si riconosce loro una partecipazione al mercato interno dell’UE, nonché un’ulteriore integrazione e liberalizzazione per favorire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali.
Il Vertice inaugurale del Partenariato orientale si è tenuto a Praga il 7 maggio 2009, alla presenza dei rappresentanti degli Stati membri dell’UE e dei sei Paesi partner che, a conclusione dell’incontro, hanno approvato una dichiarazione congiunta in cui è espressa la comune volontà di attuare un partenariato più ambizioso fondato su interessi e impegni reciproci e su responsabilità condivise, nella quale sono richiamati gli aspetti qualificanti dell’iniziativa (vedi infra).
Il partenariato orientale – fondato sull'approfondimento delle relazioni bilaterali e la realizzazione di un nuovo quadro multilaterale di cooperazione - è inteso come un ulteriore passo avanti rispetto alla PEV e ai risultati da essa conseguiti nell'intensificare le relazioni tra l'UE e i paesi confinanti. Come dettagliato più avanti, gli strumenti principali attraverso i quali si propone l’avanzamento e il rafforzamento delle relazioni sono:
Improntato all'idea di offrire quanto più possibile, nel rispetto della realtà politica e economica del paese partner interessato e del relativo stato delle riforme, il partenariato dovrebbe apportare massimi benefici ai cittadini di ciascun paese. Esso sarà incentrato sull'impegno dell'UE ad assecondare maggiormente lo sforzo riformatore dei singoli partner. Secondo la Commissione, è fondamentale che il partenariato si avvalga del pieno impegno politico degli Stati membri dell'UE, nonché dei contatti e degli scambi attivi a livello parlamentare.
Anche il Partenariato orientale è interessato dagli aggiustamenti di recente introdotti nella PEV e illustrati nella comunicazione del 25 maggio 2011 “Una nuova risposta ad un vicinato in mutamento”. Sulla base dei risultati di un’ampia consultazione con le parti interessate avviata già nell’estate 2010 e alla luce dei recenti avvenimenti nei paesi del bacino meridionale del Mediterraneo, l’UE intende rivedere e rivitalizzare la politica europea di vicinato attraverso un nuovo approccio, definito more for more, vale a dire “più fondi per più riforme”. Come indicato nella comunicazione, gli avvenimenti del Mediterraneo e i risultati della consultazione hanno mostrato che il sostegno dell’UE alle riforme politiche nei paesi vicini ha ottenuto risultati limitati; è emersa dunque la necessità di una maggiore flessibilità e di risposte più adeguate, in linea con la rapida evoluzione della situazione nei partner. Il nuovo approccio dovrebbe essere basato su mutua affidabilità e impegno condiviso nei valori universali di rispetto dei diritti umani, democrazia e stato di diritto e comporterà un più alto livello di differenziazione per consentire a ciascun paese di sviluppare legami con l’UE corrispondenti alle proprie aspirazioni, necessità e capacità.
L'approccio “more for more” prevede maggiori finanziamenti per lo sviluppo socioeconomico, programmi globali di sviluppo istituzionale, un più ampio accesso al mercato interno dell'Unione, maggiori finanziamenti dell'Unione per gli investimenti (prestiti della BEI e sovvenzioni dal bilancio dell'UE combinati a prestiti della BEI e di altre istituzioni finanziarie internazionali) e un dialogo politico potenziato. I progressi sulla strada delle riforme saranno valutati ogni anno nell'ambito delle relazioni della PEV per paese.
Per quanto riguarda in particolare il rafforzamento del Partenariato orientale, la proposta prevede:
Per tradurre in pratica il principio more for more e realizzare gli obiettivi appena indicati, il 15 maggio 2012, nell’ambito del pacchetto sul vicinato, è stata presentata una roadmap che definisce un ambizioso programma di lavoro fino al prossimo Vertice del Partenariato orientale, previsto per l’autunno 2013.
La roadmap del partenariato orientale, permetterà all'Unione e ai partner orientali di indirizzare e monitorare le riforme e i progressi.
Per ciascuno degli ambiti sopra indicati (associazione politica e integrazione economica; accresciuta mobilità dei cittadini in un ambiente sicuro e ben gestito; cooperazione settoriale rafforzata) la roadmap individua:
La roadmap prevede una stima dello stadio di realizzazione degli obiettivi da parte dell'Unione e dei paesi partner entro la fine del secondo semestre del 2013.
Per favorire la realizzazione della roadmap sono stati previsti finanziamenti aggiuntivi. Di recente è stato infatti istituito il nuovo programma EaPIC (programma di integrazione e cooperazione del partenariato orientale) con una dotazione indicativa di 130 milioni di euro per il periodo 2012-2013 che va ad aggiungersi all'impegno 2010-2013 di 1,9 miliardi di euro a favore dei partner dell'Europa orientale. Il programma EaPIC mira a promuovere la trasformazione democratica e il consolidamento istituzionale, a stimolare la crescita sostenibile e inclusiva e a incentivare misure di rafforzamento della fiducia. Inoltre, per permettere ai partner orientali di partecipare ai programmi di cooperazione per l'istruzione superiore la dotazione di bilancio verrà raddoppiata nel caso di Erasmus e aumenterà sostanzialmente per il programma Tempus.
Sul versante dell’approfondimento delle relazioni bilaterali, i principali strumenti dell'iniziativa si possono così riassumere:
rapporti contrattuali più stretti.
Come anticipato, il Partenariato orientale si prefigge di instaurare un partenariato più ambizioso, attraverso accordi di associazione - comprendenti accordi di libero scambio globali e approfonditi. Secondo l'articolo 310 del Trattato della Comunità europea, gli accordi di associazione sono accordi che istituiscono "un'associazione caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari." La caratteristica di questo tipo di intese risiede nel grado piuttosto elevato di collaborazione che si pone in essere tra le parti. Secondo quanto indicato dalla Commissione nella proposta iniziale di istituzione del PO, perché i negoziati possano prendere avvio, sarà necessario un livello sufficiente di progresso in termini di democrazia, stato di diritto e tutela dei diritti umani e, più in particolare, occorrerà provare la conformità del quadro legislativo e delle prassi elettorali alle norme internazionali; il paese dovrà inoltre cooperare pienamente con il Consiglio d'Europa, l'OSCE e le agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani.
Attualmente le relazioni tra l’UE e i paesi interessati dal Partenariato orientale sono disciplinate da accordi di partenariato e cooperazione, con l’eccezione della Bielorussia, il cui accordo – firmato nel 1995 – non è mai entrato in vigore. In più occasioni l’UE ha manifestato alla Bielorussia la propria disponibilità a integrarla completamente nella politica di vicinato a condizione che migliorasse la situazione del paese per quanto riguarda democratizzazione, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani. Allo stadio attuale, secondo quanto indicato dalla Commissione: sono stati condotti in porto i negoziati per un accordo di associazione con l'Ucraina, che prevede la creazione di una zona di libero scambio globale e approfondita, e il testo finale è stato siglato il 30 marzo 2012; con la Repubblica moldova, la Georgia, l'Armenia e l'Azerbaigian i negoziati per la conclusione di accordi di associazione sono stati avviati e procedono in modo soddisfacente; a dicembre 2011 è stata adottata la decisione di avviare i negoziati con la Georgia e la Repubblica moldova per la creazione di un’area di libero scambio, quale parte integrante degli accordi di associazione, e a febbraio 2012 è stata adottata la decisione di avviare analoghi negoziati con l'Armenia.
graduale integrazione nell'economia dell'UE
Tale integrazione – ritenuta essenziale per lo sviluppo dei paesi partner - avverrà con ritmo diseguale, per tenere opportunamente conto del diverso livello di sviluppo economico dei singoli paesi partner, segnatamente mediante impegni giuridicamente vincolanti sul ravvicinamento delle normative. L’obiettivo finale è la creazione di una zona di libero scambio globale e approfondita con ogni paese partner alla quale si darà vita solo dopo l'adesione del paese interessato all'Organizzazione mondiale del commercio (OMC). A tale proposito si ricorda che Armenia, Georgia, Moldova e Ucraina sono membri dell’OMC e che attualmente sono in corso i negoziati di adesione per Azerbaigian e Bielorussia. Gli accordi interesseranno sostanzialmente tutti gli scambi, compresi quelli energetici, e mireranno al massimo grado di liberalizzazione.
Alla luce di tale obiettivo, e in considerazione delle diseguaglianze sul piano sociale ed economico presenti all’interno dei paesi partner, si prevede l’attuazione di programmi di sostegno allo sviluppo socioeconomico, volti a consentire a tali paesi di ispirarsi ai meccanismi delle politiche socioeconomiche dell’UE;
misure in materia di mobilità e sicurezza.
Nell’ambito del Partenariato orientale si prevede la conclusione di "patti in materia di mobilità e sicurezza" volti ad intensificare le iniziative di lotta alla corruzione, alla criminalità organizzata e alla migrazione illegale, in linea con l’approccio definito dall’UE con il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo adottato dal Consiglio europeo di ottobre 2008.
Tale Patto è fondato su cinque impegni politici principali: organizzare l’immigrazione legale; combattere l’immigrazione clandestina, in particolare assicurando il ritorno nel loro paese o in un paese di transito degli stranieri in posizione irregolare; rafforzare l’efficacia dei controlli alle frontiere; costruire una Europa dell’asilo, attraverso l’introduzione di una procedura unica in materia di asilo che preveda garanzie comuni, l’adozione di status uniformi per i rifugiati e i beneficiari di protezione sussidiaria e l’intensificazione della cooperazione pratica tra Stati membri; creare un partenariato globale con i paesi di origine e di transito favorendo le sinergie tra migrazione e sviluppo.
I patti in materia di mobilità e sicurezza dovrebbero prevedere l'adeguamento alle normative comunitarie dei sistemi di asilo e l'istituzione di strutture di gestione integrata delle frontiere, con l'obiettivo ultimo di creare un regime di esenzione dall'obbligo del visto con tutti i partner che intendono aderirvi. La politica di facilitazione dei visti – che si prefigge l’obiettivo finale della completa liberalizzazione – verrà attuata in maniera graduale. Nell’ambito di tale processo la Commissione procederà ad una valutazione dei costi e benefici di una possibile mobilità della forza lavoro ai fini di una maggiore apertura del mercato del lavoro UE. Si prevede inoltre l’elaborazione di un piano coordinato per potenziare la copertura consolare degli Stati membri nella regione.
Nella Repubblica moldova e in Ucraina, che attuano dal 2008 gli accordi di riammissione delle persone illegalmente residenti e di facilitazione delle procedure di visto, sono attualmente in corso i piani d'azione per la liberalizzazione del visto. Con la Georgia e la Repubblica moldova, e più di recente anche con l'Armenia, sono stati istituiti partenariati per la mobilità. Da marzo 2011 la Georgia attua con successo gli accordi di riammissione e facilitazione del visto e a marzo 2012 la Commissione europea, in base al mandato conferitole dal Consiglio dei ministri dell'UE a dicembre 2011, ha avviato i negoziati per accordi omologhi con Armenia e Azerbaigian. Un'offerta in tal senso è stata fatta anche alla Bielorussia a giugno 2011, per favorire i cittadini del paese, ma il governo di Minsk non ha ancora risposto. Per facilitare il rilascio dei visti ai cittadini bielorussi, gli Stati membri dell'Unione si impegnano a sfruttare al massimo la flessibilità offerta dal codice dei visti, soprattutto per quanto riguarda l'esenzione o la riduzione dei diritti di rilascio dei visti per alcune categorie di cittadini bielorussi o in casi singoli.
sicurezza energetica
Uno degli obiettivi del Partenariato orientale è quello di garantire un livello rafforzato di sicurezza energetica per l'Unione e per i paesi partner orientali, da raggiungersi attraverso una serie di iniziative (prevedere negli accordi di associazione disposizioni in materia di “interdipendenza energetica”; se del caso, concludere memorandum d’intesa su questioni energetiche con Moldova, Georgia e Armenia quali strumenti flessibili supplementari per sostenere e controllare la sicurezza della fornitura e del transito di energia; sottoscrivere un maggior impegno politico con l’Azerbaigian, in quanto unico partner orientale che esporta idrocarburi nell’UE). Come previsto dalla Commissione, sono stati conclusi celermente i negoziati per la partecipazione dell’Ucraina e della Moldova alla Comunità dell’energia – che,istituita nell’ottobre 2005, instaura un mercato integrato dell'energia elettricità e del gas tra l'Unione europea e gli Stati balcanici – mentre l’Armenia e la Georgia vi partecipano con lo status di osservatore. Un altro obiettivo della Commissione consiste nel fornire maggior sostegno alla piena integrazione del mercato energetico dell’Ucraina nel mercato UE, riconoscendo l’importanza di una valutazione soddisfacente del livello di sicurezza nucleare di tutte le centrali nucleari ucraine in funzione. E’ inoltre prioritario secondo la Commissione ripristinare la rete ucraina di gasdotti e oleodotti, anche tramite un controllo più scrupoloso dell’afflusso di gas e petrolio provenienti dalla Russia.
Tra i progressi compiuti nell’attuazione del PO, nell’ottobre 2010 si sono tenuti per la prima volta sottocomitati su energia, trasporti ed ambiente con Georgia ed Armenia. La Commissione europea e la Georgia nel novembre 2010 hanno inoltre co-ospitato una conferenza sull’energia per attrarre finanziamenti dagli istituti finanziari internazionali e dal settore privato. La cooperazione energetica con l’Azerbaigian è ulteriormente rafforzata nel quadro del sostegno dell’UE alla realizzazione del corridoio meridionale. Con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, l’UE ha ribadito infatti il suo sostegno politico ai progetti infrastrutturali sul gas naturale nell’ambito del corridoio meridionale, incluso l’effettivo avvio del progetto Nabucco. L'Ucraina e l'Armenia sono impegnate a migliorare la sicurezza nucleare: nel 2011, all'indomani dell'incidente di Fukushima, entrambi i paesi hanno infatti deciso spontaneamente di condurre "stress test" secondo le indicazioni dell'Unione. Anche la Bielorussia si è impegnata a eseguire valutazioni della sicurezza e dei rischi nucleari sul suo progetto di centrale nucleare.
Come anticipato, il partenariato orientale è caratterizzato anche da un nuovo ambito multilaterale di cooperazione tra l’UE e i suoi partner, che si articola dal punto di vista organizzativo su quattro livelli:
Sul versante della cooperazione multilaterale, si prevede inoltre:
Nella dichiarazione congiunta i partecipanti al Vertice inaugurale di Praga del 2009 hanno invitato i parlamenti dell’UE e dei Paesi partner ad attuare la proposta del Parlamento europeo di istituire un’Assemblea parlamentare del vicinato orientale (EURO.NEST PA).
Il 15 gennaio 2009 la Conferenza dei Presidenti dei gruppi del PE ha deciso di istituire l'Assemblea parlamentare Euronest per associare il Parlamento europeo ai parlamenti di Ucraina, Moldova, Bielorussia, Armenia, Azerbaigian e Georgia.
L’Assemblea è costituita da due componenti: la delegazione del PE, composta da 60 membri, e le delegazioni dei Paesi partner, ciascuna composta da 10 membri (ad eccezione della Bielorussia, che per il momento non partecipa).
Si articola in Assemblea plenaria, quattro commissioni permanenti (affari politici, diritti umani e democrazia; integrazione economica, approssimazione normativa e convergenza con le politiche UE; sicurezza energetica; affari sociali, istruzione, cultura e società civile) e due gruppi di lavoro (uno sulla Bielorussia e l’altro sulle regole).
Dovrebbe rappresentare il forum parlamentare per accelerare l’associazione politica e l’integrazione economica tra UE e paesi del Partenariato orientale, senza pregiudicare le aspirazioni individuali e le agende dei singoli partner. Contribuirà al rafforzamento sviluppo e visibilità del Partenariato orientale, si riunirà di norma una volta l’anno, alternativamente in un Paese partner e presso il Parlamento europeo, in una delle sedi di lavoro (Bruxelles, Lussemburgo o Strasburgo).
Sulla questione si è espressa anche la Commissione affari esteri della Camera dei deputati che, nel parere favorevole approvato il 14 luglio 2009 sulla proposta di istituzione del Partenariato orientale, ha impegnato il Governo italiano a “favorire il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali degli Stati membri dell'Unione europea nell'Assemblea parlamentare del Partenariato orientale, contrastando ogni suo eventuale riconoscimento di natura istituzionale ove tale condizione non sia assicurata”. Nel citato parere la Commissione affari esteri impegna inoltre il Governo “a sostenere convintamente l'evoluzione del Partenariato orientale, ferma restando l'esigenza che esso proceda in parallelo con il Partenariato strategico con la Russia e non alteri, con riferimento alla determinazione delle risorse finanziarie, il rapporto attualmente esistente con il Partenariato euro-mediterraneo di un terzo e due terzi”.
A seguito dei processi di trasformazione in corso in alcuni dei Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, in più occasioni le istituzione europee hanno ribadito il dovere dell’UE di sostenere l’aspirazione delle popolazioni alla democrazia, alla libertà e a condizioni di vita migliori e, di conseguenza, la necessità di adeguare le politiche dell’UE verso tali Paesi.
Attualmente il quadro delle relazioni dell’UE con tali paesi è rappresentato dalla politica di vicinato, la cui revisione è stata avviata a partire da maggio 2011, e dall’Unione per il Mediterraneo (vedi infra), evoluzione del Partenariato euro mediterraneo.
A quest’ultimo proposito, l’UE ammette che pur essendo positiva l'idea alla base dell'istituzione dell'Unione per il Mediterraneo – quella di un partenariato di alto livello tra le due sponde del Mediterraneo -, la sua applicazione non ha prodotto i risultati auspicati. Per realizzare tutte le sue potenzialità, l'Unione per il Mediterraneo ha dunque bisogno di una riforma: nelle valutazioni della Commissione e dell’Alto rappresentante, essa deve operare maggiormente come catalizzatore, facendo partecipare gli Stati, le istituzioni finanziarie internazionali e il settore privato a progetti concreti in grado di generare posti di lavoro, innovazione e crescita. Essa dovrebbe inoltre creare le condizioni per far avanzare il processo di pace in Medio Oriente.
L'Alto Rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), Catherine Ashton, ha istituito una task force volta a riunire il Servizio europeo di azione esterna e gli esperti della Commissione per adattare gli strumenti già a disposizione dell’UE al fine di aiutare i Paesi del Nord Africa. L'obiettivo è quello di fornire un pacchetto completo di misure adeguate alle esigenze specifiche di ciascun Paese.
Durante il Consiglio europeo dell’11 marzo 2011 l’Alto rappresentante e la Commissione hanno presentato un documento orientativo, volto a proporre un nuovo partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo meridionale.
Tale partenariato dovrebbe essere fondato su:
La comunicazione sottolinea la necessità di sostenere la domanda di partecipazione politica, dignità, libertà e opportunità di occupazione proveniente dai popoli della regione e di delineare un approccio basato sul rispetto dei valori universali e su interessi condivisi. Si propone inoltre il principio del “more for more” in base al quale maggiore assistenza finanziaria, mobilità incrementata e accesso al mercato unico dell’UE saranno resi disponibili ai paesi partner più avanzati sulla strada delle riforme.
Tale approccio è stato ulteriormente elaborato nella comunicazione “Una nuova risposta ad un vicinato in mutamento” (COM (2011) 313)[1] che l’Alto rappresentante e la Commissione hanno presentato il 25 maggio 2011 nell’ambito dell’annuale pacchetto sulla politica di vicinato. Secondo quanto indicato nella comunicazione, i risultati di un’ampia consultazione con le parti interessate avviata già nell’estate 2010 nonché i recenti avvenimenti nei paesi del bacino meridionale del Mediterraneo hanno mostrato che il sostegno dell’UE alle riforme politiche nei paesi vicini ha ottenuto risultati limitati; è emersa dunque la necessità di una maggiore flessibilità e di risposte più adeguate, in linea con la rapida evoluzione della situazione nei partner. Su tali basi, l’UE è impegnata nel breve e lungo periodo ad aiutare i suoi partner in due importanti sfide:
Pur riconoscendo che un certo numero di sfide sono comuni a tutti i paesi partner, l’UE - come già anticipato - sosterrà ogni paese su una base differenziata, corrispondendo a necessità e priorità individuali.
L’impegno verso elezioni libere ed eque, oggetto di un’adeguata osservazione sarà il requisito per poter accedere al partenariato ma significherà anche una più stretta cooperazione nel quadro della politica estera e di sicurezza comune (PESC) e un maggior lavoro congiunto nelle sedi internazionali su questioni d'interesse comune. L'UE continuerà ad offrire il suo impegno e il suo sostegno per la risoluzione pacifica delle controversie negli Stati della regione e tra di essi.
I paesi partner che attuano le riforme necessarie possono aspettarsi la ripresa dei negoziati sugli accordi di associazione, in vista di arrivare allo "status avanzato", che consente dirafforzare significativamente il dialogo politico e moltiplicare le relazioni tra il paese partner ele istituzioni dell'UE. Ciò comporterà un rinnovato impegno sulla mobilità e l'accesso aimercati per l'UE.
Su tali basi e su sollecitazione del Consiglio europeo dell’1 e 2 marzo 2012, Commissione e AR hanno presentato – nell’ambito del pacchetto sulla politica europea di vicinato del 15 maggio 2012 - una tabella di marcia intesa a definire e orientare l'attuazione della politica dell'UE nei confronti dei partner del Mediterraneo meridionale, che elenca gli obiettivi, gli strumenti e le azioni, concentrandosi sulle sinergie con l'Unione per il Mediterraneo e altre iniziative regionali.
Il Consiglio europeo di marzo 2012 ha inoltre ribadito la volontà dell’UE di far corrispondere l’entità del sostegno economico al livello delle riforme democratiche, “offrendo maggiori aiuti ai partner che compiono maggiori progressi verso sistemi democratici inclusivi, riconsiderando il sostegno ai governi in casi di oppressione o di gravi o sistematiche violazioni dei diritti umani''.
La nomina del rappresentante speciale dell’UE per il Mediterraneo meridionale, Bernardino León, - avvenuta il 18 luglio 2011 – dovrebbe rispondere all’obiettivo di incrementare il dialogo politico con i vicini meridionali e aiutare ad assicurare il coordinamento degli sforzi tra le istituzioni UE, gli Stati membri, gli istituti finanziari rilevanti (quali BEI e BERS) e il settore privato. Le attività del rappresentante speciale saranno coordinate, oltre che con quelle della Commissione e degli Stati membri, anche con quelle degli altri rappresentanti speciali dell’UE attivi nella regione, ivi compreso il rappresentante per il processo di pace in Medio Oriente, Task force di alto livello copresiedute dall’AR e dai leader nazionali dei paesi partner rappresentano un ulteriore importante strumento a questo riguardo. La prima task force è stata inaugurata in Tunisia a settembre 2011 e altre sono previste nei mesi a venire.
Nell’ambito del quadro così delineato l’UE ha assunto ed è in procinto di assumere diverse iniziative.
Finanziamenti
A partire dal 2007 l’assistenza finanziaria ai paesi del vicinato meridionale e orientale viene fornita dall’UE attraverso lo strumento europeo di vicinato e partenariato (ENPI). La tabella mostra gli importi già stanziati per singolo paese del vicinato meridionale e a livello regionale:
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2007-2010 |
2011-2013 |
Cooperazione bilaterale |
|
|
Algeria |
184.1 |
172 |
Egitto |
558 |
449 |
Giordania |
265 |
223 |
Libano |
187 |
150 |
Marocco |
654 |
580.5 |
Siria |
140 |
129 |
Tunisia |
300 |
240 |
Israele |
7.5 |
6 |
Libia |
0 |
60 |
Totale bilaterale |
2295,6 |
2009,5 |
Cooperazione regionale |
343,3 |
100 |
TOTALE |
2638,9 |
2109,5 |
(Impegni in milioni di euro)
Nel maggio 2011 l’UE ha reso disponibili - in aggiunta agli importi sopra indicati - ulteriori 1,24 miliardi di euro per il periodo 2011-2013 da risorse già esistenti, da dividere tra i partner del vicinato meridionale ed orientale.
In aggiunta, la Banca europea per gli investimenti (BEI) fornirà oltre ai 4 miliardi disponibili prima della primavera araba, contributi aggiuntivi di 1 miliardo di euro per la regione. La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) ha deciso di estendere la sua copertura geografica per includere il vicinato meridionale e fornire annualmente 2,5 miliardi di euro agli investitori del settore privato e pubblico per sostenere l’espansione degli affari e il finanziamento delle infrastrutture.
Il 22 dicembre 2011 la Commissione ha adottato un nuovo programma regionale per i vicini meridionali denominato SPRING e rivolto inizialmente a Tunisia e Marocco con l’obiettivo di promuovere indipendenza e efficienza del sistema giudiziario, governance e lotta alla corruzione, protezione dei diritti umani e dei principi democratici, contrasto al traffico di esseri umani. Il budget ammonta a 350 milioni di euro totali per gli anni 2012 2013.
E’ stata inoltre istituita nell’ambito dello strumento finanziario per il vicinato e il partenariato (ENPI) un fondo società civile con un budget di 22 milioni di euro per ciascun anno (2012 e 2013) rivolto ad attori non statali con gli obiettivi di:
Nell’ambito del programma Erasmus mundus è stato disposto un finanziamento di 30 milioni di euro per i paesi del vicinato meridionale. L’obiettivo è ottenere una migliore comprensione reciproca tra UE e paesi vicini favorendo la mobilità di studenti e accademici e lo scambio di conoscenze e competenze.
Nelle proposte di bilancio per il periodo 2014-2020 presentate il 7 dicembre 2011, la Commissione raccomanda di allocare 18,1 miliardi di euro a sostegno dei paesi del vicinato sia orientale sia meridionale, con un incremento significativo (pari quasi il 40%) rispetto alle precedenti prospettive finanziarie. Secondo la proposta della Commissione, il nuovo strumento per il vicinato sarà capace di fornire assistenza in modo più rapido e flessibile, consentendo una maggiore differenziazione ed incentivi per i partner più attivi, secondo il citato principio del more for more.
Mobilità
I contatti interpersonali sono importanti per promuovere la comprensione reciproca e l'attività commerciale, con effetti positivi per lo sviluppo culturale ed economico dell'intera regione mediterranea e per l'integrazione dei migranti nell'Unione europea. Sarà favorita dunque la mobilità nell’UE dei cittadini dei paesi partner attraverso:
I partenariati per la mobilità costituiscono uno strumento già elaborato dall’Unione europea a partire dal 2007. In particolare nella comunicazione “Migrazione circolare e partenariati di mobilità tra UE e paesi terzi” (COM(2007)248), del maggio 2007, volta a promuovere l’immigrazione legale, la Commissione europea aveva esaminato la natura giuridica, la forma e i contenuti di tali partenariati, che l’Unione europea potrà concludere con i paesi terzi, che si sono impegnati a cooperare attivamente nella gestione dei flussi migratori, anche combattendo contro la migrazione illegale, e che desiderano assicurare ai loro cittadini un migliore accesso al territorio dell’Unione. In questo quadro il 5 giugno 2008, erano stati lanciati, come progetti pilota, partenariati di mobilità con la Repubblica di Moldavia e con Capo Verde, attraverso la firma di dichiarazioni comuni con ciascuno dei due paesi. I partenariati per la mobilità, che saranno concertati a livello politico tra l’Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, e il paese partner interessato, dall’altro, dovrebbero riguardare, tutte le misure (legislative od operative) atte a garantire che la circolazione delle persone tra l’UE e il paese partner sia gestita correttamente ed avvenga in condizioni di sicurezza. L’Unione europea sosterrà, sia tecnicamente che economicamente, gli sforzi compiuti dal paese partner, anche tramite le sue agenzie (FRONTEX, EASO ed EUROPOL);
Mercati
Un migliore accesso al mercato dell’UE e la progressiva integrazione delle economie dei paesi partner nel mercato unico dell’UE saranno gli obiettivi principali dei futuri negoziati su aree di libero scambio con Marocco, Giordania, Tunisia, Egitto e Tunisia che saranno lanciati appena i lavori preparatori saranno stati completati. Messi a confronto con le attuali relazioni commerciali tra UE e paesi partner, le aree di libero scambio andranno oltre la sola rimozione delle tariffe per coprire tutte le questioni regolamentari relative al commercio, quali protezione degli investimenti e pubblici appalti.
Un nuovo strumento per gli investimenti delle piccole e medie imprese denominato SANAD ('sostegno' in lingua araba) è stato inaugurato nell’agosto 2011, insieme alla banca tedesca "Kreditanstalt Für Wiederaufbau" (KFW), per un totale di 20 milioni di euro. Il fondo è rivolto alle piccole e medie imprese della regione del Medio Oriente e del Nord Africa, segmento che è troppo piccolo per le banche e troppo grande per il microcredito. Infine, si sta sviluppando un nuovo strumento per il Mediterraneo denominato “Investimento sicuro”, congiuntamente all’Agenzia multilaterale di garanzia degli investimenti, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e l’Unione per il Mediterraneo.
I negoziati su una convenzione regionale unica sulle norme di origine preferenziali paneuromediterranee sono stati conclusi nel 2009. La convenzione consolida tutti i protocolli bilaterali esistenti in un unico documento, facilitando la successiva revisione delle norme di origine pan euro mediterranea. E’ stata aperta alla firma nel giugno 2011 e firmata, ma non ancora ratificata, dalla Giordania nel luglio 2011 e dal Marocco nell’aprile 2012. L’UE sollecita i paesi del Mediterraneo meridionale ad accelerare le procedure interne di firma e ratifica.
Gli accordi sulla valutazione di conformità e l'accettazione dei prodotti industriali (Acaa) sono strumenti per l’apertura dei mercati dei prodotti industriali, inducendo i paesi partner ad allinearsi con le regolamentazioni tecniche gli standard europei. I paesi del vicinato mediterraneo stanno, ciascuno alla propria velocità, preparandosi a negoziare gli accordi. In particolare la Tunisia dovrebbe avviare i negoziati nel corso del 2012 su sue settori (prodotti elettrici e materiali da costruzione)
Società civile
Una priorità dell’UE è rappresentata dal sostegno alle organizzazioni della società civile, che svolgono un ruolo chiave nel migliorare la governance e rendere affidabili i governi. La società civile in tutte le sue componenti (organizzazioni non governative, università, media, ricercatori), insieme con i parlamenti e le assemblee costituzionali saranno essenziali nel delineare il futuro della regione. Donne e giovani avranno un ruolo importante da giocare a questo riguardo e l’UE sta lanciando progetti concreti a sostegno della loro attiva partecipazione alla vita economica e politica.
L’UE continuerà a sostenere la società civile sia attraverso l’assistenza bilaterale differenziata in ogni paese sia rinvigorendo gli esistenti forum, quale quello creato nell’ambito dell’Unione per il Mediterraneo. Come anticipato, la UE ha già inaugurato il fondo società civile. L’UE inoltre consulterà le organizzazioni della società civile in maniera più sistematica nella preparazione e verifica dei piani di azione bilaterali e dei progetti di cooperazione finanziaria. E’ in corso la preparazione di una Sovvenzione europea per la democrazia, con un focus iniziale sul vicinato, che rifletterà la volontà dell’UE di rendere più semplice per i beneficiari il sostegno e il finanziamento delle attività. Infine, la Commissione, per iniziativa del Vice presidente Neelie Kroes, ha avviato la "No Disconnect Strategy" che contribuirà ad assicurare il rispetto dei diritti umani anche online. La strategia fornirà strumenti tecnologici per aumentare privacy e sicurezza nelle comunicazioni online; accrescere la consapevolezza degli utenti sulle opportunità e i rischi della comunicazione digitale; monitorare il livello di sorveglianza; aiutare i soggetti interessati a condividere informazioni; favorire la cooperazione interregionale.
Cooperazione settoriale
L’UE si prefigge di:
L’Unione per il Mediterraneo è stata inaugurata a Parigi il 13 luglio 2008, con l’obiettivo di rafforzare le relazioni e accelerare il processo di integrazione regionale nell’ambito del Partenariato euro mediterraneo.
Al Vertice inaugurale di Parigi hanno partecipato i Capi di Stato e di Governo di 43 paesi (i 27 Stati membri dell’UE, i 12 partner del Partenariato euromediterraneo oltre a Bosnia, Croazia, Montenegro e Monaco). La Libia – benché invitata – ha deciso di non prendere parte all’iniziativa.
Successivamente, la Conferenza dei ministri degli affari esteri, tenutasi a Marsiglia nel novembre 2008, ha approvato le modalità operative dell’iniziativa nonché il programma di lavoro per il 2009. Su tali basi, le nuove strutture avrebbero dovuto essere operative entro la fine del 2008 ma, a causa della crisi di Gaza intervenuta tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, l’UPM ha subito una parziale sospensione delle iniziative.
Una ripresa delle attività si è verificata alla fine del 2009, quando si è tenuta a Bruxelles la conferenza dei ministri del commercio dell’Unione per il Mediterraneo che hanno esaminato i progressi del negoziato in previsione della creazione di una zona di libero scambio nel Mediterraneo, inizialmente prevista per il 2010, ed hanno adottato una tabella di marcia post 2010.
Il 4 marzo 2010 si è inoltre tenuta a Barcellona la cerimonia di insediamento del Segretario generale dell’UPM (vedi infra), Ahmad Khalaf Mas´deh, ambasciatore della Giordania presso l'UE.
La seconda Conferenza dei ministri degli esteri - fissata per giugno 2010 a Barcellona - non si è mai tenuta.
Il Partenariato euromediterraneo (o Processo di Barcellona) è stato inaugurato dalla Conferenza di Barcellona del 27 e 28 novembre 1995, che ha riunito i Ministri degli affari esteri degli Stati membri dell'Unione europea insieme a quelli di Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia, dell'Autorità palestinese. Dal 6 novembre 2007 partecipano a pieno titolo al Processo di Barcellona anche Albania e Mauritania.
Obiettivo generale dell'iniziativa è quello di fare del bacino del Mediterraneo una zona di dialogo, di scambi e di cooperazione che garantisca la pace, la stabilità e la prosperità. Il partenariato si articola in tre aree:
Il riesame avviato a partire dal 2005 - a dieci anni dall’inizio del processo - ha evidenziato come, nonostante i progressi realizzati, gli sforzi compiuti non abbiano prodotto risultati corrispondenti alle attese. È quindi emersa la necessità di operare una trasformazione del processo, per renderlo in grado di superare le difficoltà che ne hanno rallentato lo sviluppo.
In particolare, sono emersi i seguenti elementi di criticità, come evidenziato dalla Commissione:
Allo scopo di accelerare il processo, il Consiglio europeo del 13 e 14 marzo 2008 ha approvato – sulla base di una proposta avanzata dalla Francia e dalla Germania – il principio di un’Unione per il Mediterraneo, comprendente gli Stati membri dell’UE e gli Stati costieri mediterranei non appartenenti all’UE.
Su invito del Consiglio europeo, il 20 maggio 2008 – con la comunicazione “Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo” (COM(2008)319) – la Commissione ha avanzato proposte sulle modalità operative della nuova iniziativa.
La comunicazione della Commissione sull’Unione per il Mediterraneo è stata esaminata dalla Commissione affari esteri della Camera dei deputati che il 26 giugno 2008 ha approvato un documento finale in cui esprime una valutazione positiva dell’iniziativa, impegnando il Governo a riaffermare il ruolo dell'Italia nella nuova Unione per il Mediterraneo.
La comunicazione è stata accolta con favore dal Consiglio europeo del 19 e 20 giugno 2008 che, nel sottolineare l’importanza strategica della regione mediterranea per l’Unione europea sul piano politico, economico e sociale, ha espresso la convinzione che tale iniziativa imprimerà un ulteriore impulso alle relazioni dell’UE con il Mediterraneo, integrando i rapporti bilaterali esistenti.
Le innovazioni
L’Unione per il Mediterraneo – costruita sulle strutture e sull’acquis del Processo di Barcellona – se ne prefigge il rafforzamento, puntando in particolare su tre aspetti: potenziamento del profilo politico dei rapporti fra l'UE e i suoi partner mediterranei; governance su base egualitaria; priorità data a progetti concreti di dimensione regionale.
Restano fermi la validità della dichiarazione di Barcellona e le tre aree della cooperazione.
Il potenziamento del profilo politico viene realizzato soprattutto attraverso l’organizzazione ogni due anni di Vertici a livello di Capi di Stato e di Governo, che si concluderanno con l’approvazione di una dichiarazione politica e di una short list di progetti concreti da avviare. I ministri degli esteri dovrebbero, invece, riunirsi tra un vertice e l'altro per valutare l'applicazione delle conclusioni del vertice precedente e preparare il successivo. I Vertici si terranno alternativamente nell’UE e in un paese non UE del bacino del Mediterraneo. Con riferimento al quadro istituzionale consolidato del Processo di Barcellona, l’Assemblea parlamentare euromediterranea (APEM) è la legittima espressione parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo: andrà promosso il suo ruolo e migliorato il coordinamento con le altre istituzioni. Si segnala che la Commissione ha caldeggiato il rafforzamento dell’APEM come luogo di dibattito aperto e di dialogo.
Continueranno a tenersi inoltre le conferenze ministeriali settoriali, le riunioni tra alti funzionari e a livello di esperti; i dialoghi politici ed economici.
La governance su base egualitaria sarà basata su:
I progetti da realizzare dovranno essere in grado di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile, la coesione regionale, l'integrazione economica e le interconnessioni infrastrutturali. Il processo di selezione dei progetti – che avverrà in conformità con gli obiettivi della dichiarazione di Barcellona - terrà conto fra l’altro dei seguenti aspetti:
A tale proposito si segnala che al Vertice di Parigi è stato convenuto di dare la priorità a sei “iniziative chiave”. Si tratta, in particolare, di:
- disinquinamento del Mediterraneo, ivi incluse zone costiere e aree marine protette,
- costruzione di autostrade marittime e terrestri per migliorare le fluidità del commercio e la circolazione delle persone fra le due sponde del Mediterraneo;
- rafforzamento della protezione civile, visto anche l’aumento dei rischi regionali legati al riscaldamento dell’ambiente;
- creazione di un piano solare mediterraneo, per sviluppare fonti di energia alternativa nella regione;
- sviluppo di un’università euromediterranea, già inaugurata a Portoroz, in Slovenia;
- iniziativa di sostegno alle piccole e medie imprese.
Come segnalato dal ministero degli Affari esteri, nell’ambito di tali progetti le priorità italiane sarebbero:
Il finanziamento
L’Unione per il Mediterraneo mobiliterà fondi supplementari a favore della regione, principalmente attraverso i progetti regionali e subregionali. Come indicato nella dichiarazione congiunta di Parigi, il suo valore aggiunto dipenderà in larga misura dalla capacità di attrarre risorse finanziarie ingenti, con un alto livello di coordinamento tra i donatori, principalmente dalle seguenti fonti:
Negli anni recenti è proseguita la ridefinizione del ruolo dell'Alleanza Atlantica, in particolare con i vertici di Lisbona (2010) e di Chicago (2012) che hanno approvato il nuovo concetto strategico e il progetto di Smart Defense, che riformano l'organizzazione e i compiti della NATO nel prossimo decennio. L'interesse del Parlamento sugli sviluppi della politica interna ed estera degli Stati Uniti è risultato rilevante nella XVI Legislatura, nelle due campagne presidenziali che hanno visto l'elezione e la riconferma di Barack Obama. L'attenzione del Parlamento si è indirizzata sugli effetti che molte delle decisioni assunte ai vertici dell'amministrazione USA hanno prodotto tanto sulle relazioni bilaterali con il nostro Paese quanto su quelle euroatlantiche.
I tre temi principali che hanno caratterizzato il dibattito e le decisioni dell’Alleanza Atlantica negli ultimi anni riguardano:
I Vertici di Lisbona (novembre 2010) e di Chicago (maggio 2012) hanno definito e confermato la exit strategy dall’Afghanistan: il ritiro delle truppe della missione ISAF sarà completato entro il dicembre 2014, quando sarà concluso il graduale trasferimento in corso delle responsabilità per la sicurezza del paese dalle truppe ISAF alle Forze di sicurezza afghane. Gli alleati continueranno a sostenere l’Afghanistan nella marcia verso la sua autonomia in materia di sicurezza, verso una migliore governance ed uno sviluppo economico e sociale. Al Governo afghano è contestualmente richiesta la conferma della sua determinazione a perseguire i principi del buon governo, della lotta alla corruzione e del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, compresa la parità tra uomini e donne, nonché la trasparenza e la regolarità delle elezioni.
Per quanto riguarda le capacità di difesa, durante i medesimi summit, la NATO ha individuato il cuore del nuovo approccio alle capacità dell'Alleanza, in una prospettiva che abbraccia il decennio in corso, fino al 2020, nella Smart Defence, all’insegna della massima sinergia possibile fra paesi alleati, imposta dalla critica situazione finanziaria internazionale. Il concetto di Smart defence rappresenta una rinnovata visione d’insieme della cooperazione tra gli alleati, alla ricerca di economie di scala necessarie per la realizzazione e il mantenimento di programmi troppo costosi per ogni singolo Stato. In questo ambito il vertice conferma la centralità della sinergia fra Nato e UE.
Nell’ambito delle decisioni approvate dal Vertice si collocano una serie di misure per garantire la reattività e l'efficacia dell'Alleanza nello svolgimento dei compiti previsti dal Concetto strategico, dallaDichiarazione di Lisbona e dalla Dichiarazione sulle capacità di difesa rivolta al 2020. Sono previste:
L'Italia ha sempre sostenuto l'esigenza di aggiornare il concetto di sicurezza di riferimento della NATO: la ridefinizione del ruolo dell'Alleanza, in linea con l'approccio multilaterale dell'Italia, implica a sua volta un ulteriore aggiornamento del nostro modello di difesa ed uno sforzo finanziario nel settore della difesa in controtendenza rispetto alle tendenze degli ultimi anni.
In vista del vertice NATO di Chicago, la Commissione Esteri della Camera ha effettuato, il 23 aprile 2012, una missione a Bruxelles (su cui i membri della delegazione hanno riferito nella seduta del successivo 30 maggio), mentre i Ministri degli esteri e della difesa hanno svolto, il 15 maggio 2012, comunicazioni alle Commissioni riunite esteri e difesa della Camera e del Senato sulle posizioni che il Governo italiano avrebbe rappresentato al vertice di Chicago del 20 e 21 maggio, sui temi dell'Afghanistan, delle capacità strategiche di cui l'Alleanza dovrà dotarsi nel 2020 nel quadro del nuovo concetto strategico, e dei rapporti fra la NATO e i partner esterni.
Nella seduta del 15 maggio 2012 l’Assemblea della Camera dei deputati ha inoltre approvato a larghissima maggioranza alcune mozioni, in merito alle iniziative per il disarmo e la non proliferazione nucleare proprio in vista del vertice di Chicago.
Tra gli eventi di maggior rilievo emerse durante la legislatura si segnala la questione dell’allargamento della base militare americana di Vicenza, sulla quale il Sottosegretario alla difesa, Crosetto, in risposta all’interpellanza urgente Bosi ed altri n. 2-00060 nella seduta del 3 luglio 2008, ha espresso gli orientamenti del Governo. L’interpellanza traeva spunto dal pronunciamento del TAR del Veneto, che aveva ritenuto insufficienti gli atti relativi all'ampliamento della base Dal Molin, e chiedeva di conoscere in quali modi il Governo intendesse procedere per mantenere l’impegno precedentemente assunto con gli USA di consentire all’ampliamento.
Nella sua risposta, il sottosegretario Crosetto ha specificato innanzitutto che, poiché la richiesta americana di ampliamento della base di Vicenza rientra nell’ambito dell’Accordo tecnico aereo Italia-Usa del 1954 (in quanto non prevede una modificazione della natura dell’insediamento), essa risulta coerente con la politica estera e militare del nostro Paese; inoltre, ha ricordato la nomina del professor Paolo Costa quale Commissario straordinario di Governo da parte del precedente Governo Prodi. Il Commissario è l'interlocutore principale delle amministrazioni interessate, delle istituzioni locali e delle comunità territoriali, con le quali tiene aperto un costante confronto sulla realizzazione dell'ampliamento della base, al fine di garantire il rispetto dell'impegno internazionale assunto dal nostro paese e – allo stesso tempo - delle istanze provenienti dalla realtà locale.
Il Sottosegretario sottolineava inoltre che il Governo intende adoperarsi, con il massimo impegno, nella direzione di una soluzione idonea a superare le obiezioni, in punto di diritto, che appaiono a fondamento dell’ordinanza del TAR del Veneto ed ha ribadito che il Governo italiano ritiene comunque necessario mantenere fede ad un impegno assunto con un Paese alleato.
Strettamente collegato a tale tema, quello della sicurezza dei siti militari italiani che ospitano armi nucleari statunitensi. Sulla base di informazioni comparse sul sito web della Federation of American Scientists, due interrogazioni (3-00095 Mogherini Rebesani e 3-00139 Ferrari e Corsini) hanno sollevato dubbi in merito al rispetto degli standard internazionali di sicurezza. A tali interrogazioni il governo in Aula il 23 settembre 2008. Il Sottosegretario alla difesa, Giuseppe Cossiga, ha dichiarato che le denunce riportate nelle due interrogazioni non trovano riscontro ufficiale in alcun documento, nonostante le fonti indicate dal sito web citato siano il Dipartimento della difesa ed il Governo americano. Sia per quanto concerne la base militare di Ghedi, che dal 1951 è sede del 6° stormo dell'Aeronautica militare, sia per la base di Aviano, Cossiga ha rassicurato che, sulla base degli elementi forniti dai competenti organi tecnico-militari, la cooperazione nelle attività del personale statunitense e italiano, nonché le infrastrutture della base e gli equipaggiamenti utilizzati, rispondono pienamente agli standard richiesti dalle direttive NATO e dalle regolamentazioni nazionali vigenti.
Inoltre, il rappresentante del Governo ha richiamato il concetto strategico dell’Alleanza atlantica che definisce come politico l'obiettivo fondamentale delle forze nucleari degli alleati in Europa e il fatto che è concorde l’orientamento dei Paesi NATO di mantenere una capacità nucleare in Europa che, così come è oggi configurata, rappresenta un valido effetto deterrente.
In materia di rapporti con gli Stati Uniti, nel corso della legislatura il Parlamento ha autorizzato la ratifica dei seguenti accordi:
E’ inoltre stato sottoscritto un Memorandum d’intesa tra USA e Italia sul reciproco procurement per la difesa (Washington, 20 ottobre 2008), che non richiede ratifica parlamentare e che è entrato in vigore dal 3 maggio 2009.
L’Unione europea e la NATO percorrono da oltre quindici anni un cammino di avvicinamento reciproco, tanto in termini di membership (21 membri comuni), quanto a livello di condivisione di obiettivi strategici, di funzioni e di potenziale raggio d’azione. Le organizzazioni svolgono due ruoli complementari e di reciproco sostegno per la tutela della pace e della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
L'istituzionalizzazione delle relazioni tra esse è stata avviata nel 2001, a partire dai passi compiuti negli anni 90 per promuovere una più grande responsabilità europea sui temi della difesa. Fino al 1999, era l'Unione Europea occidentale (UEO) a porsi come controparte della NATO per il dialogo sulla difesa nel territorio europeo, mentre non sussisteva alcun legame formale tra l'Alleanza atlantica e l'Unione europea. La crisi dei Balcani, del 1999, rese manifesta l’esigenza di dotarsi di un'autonoma capacità logistica per la gestione delle situazioni di crisi, portando all’avvio della riflessione per la creazione di una Politica comune europea di difesa e sicurezza (PESD). In occasione del Consiglio europeo di Helsinki del 1999, vennero definiti degli obiettivi – headline goals – per dotare l’Unione di capacità militari credibili per attuare le missioni di Petersberg.
Le missioni di Petersberg furono definite e ricondotte nell’ambito delle competenze UEO, dal Consiglio ministeriale della stessa del 19 giugno 1992, svoltosi nella omonima cittadina tedesca. Si trattava delle missioni umanitarie o di evacuazione, delle missioni intese al mantenimento della pace, nonché delle missioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace. Con il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1º maggio 1999, la responsabilità di tali missioni è stata trasferita all’Unione europea.
Gli headline goals sono stati aggiornati nel 2004, con gli headline goals 2010 ed hanno previsto, tra le altre cose, la creazione di un’Agenzia europea della difesa (effettivamente istituita nel 2004) per conseguire una maggiore integrazione nel mercato europeo della difesa; l’implementazione di un coordinamento congiunto per il trasporto strategico e la creazione di gruppi di combattimento rapidamente dispiegabili (battlegroups).
D’altra parte, con il summit di Washington, nell’aprile del 1999, la NATO aveva manifestato la propria disponibilità a rendere fruibili le risorse strategiche dell’alleanza per operazioni a guida UE, anche in contesti per i quali la competenza NATO non sarebbe prevista.
Quella partnership operativa è stata confermata in una dichiarazione congiunta nel dicembre 2002 e poi formalizzata nel marzo 2003 con gli Accordi Berlin Plus. Tali accordi consentono all’Unione europea di accedere alle capacità di pianificazione e di comando della Nato e di utilizzarne i mezzi per realizzare missioni di gestione delle crisi.
ACCORDI BERLIN PLUS
Istituzionalmente, la partnership si concretizza in una “intelaiatura organizzativa leggera”, articolata in due incontri annuali a livello di Ministri degli Esteri e tre incontri NAC–COPS, riunioni congiunte per ogni turno semestrale di Presidenza dell'Unione Europea degli Ambasciatori accreditati rispettivamente presso il Consiglio Atlantico e il Comitato Politico e di Sicurezza dell'Unione Europea. L’agenda è completata da eventuali incontri bisemestrali dei Comitati militari delle due organizzazioni e riunioni periodiche di alcuni organi sussidiari.
Il riparto delle competenze nell’ambito degli accordi è improntato al criterio della flessibilità. Viene data per acquisita la disponibilità (presumption of availability) a favore dell'Unione Europea di capacità e di assetti comuni preidentificati della NATO ai fini dell'impiego in operazioni a guida UE, in cui la NATO non sia direttamente impegnata. A garanzia del coordinamento tra le due organizzazioni, la supervisione su tali operazioni è attribuita al Deputy Supreme Allied Commander Europe (DSACEUR), parte integrante dello Staff militare dell’Alleanza atlantica. Sono altresì stabilite cellule di collegamento tra le due strutture militari.
Gli accordi Berlin Plus sono stati attivati due volte: in Macedonia, nel 2003 (Operazione Concordia), e in Bosnia, nel 2004 (operazione Eufor Althea), dove l’Ue ha assunto la guida di missioni prima dirette dalla Nato, ma continuando a utilizzare la struttura di comando dell’Alleanza.
Con l’adozione del Terzo concetto strategico, è stato ribadito l’impegno della NATO anche in contesti esterni all’area Euro-Atlantica purché necessari per la tutela della sicurezza di quest’ultima. In questo senso, la partnership NATO – UE, si pone come un ulteriore tassello per lo sviluppo di un “Comprehensive approach”, un approccio globale internazionale alla gestione delle crisi che richiede l’applicazione effettiva sia di strumenti militari che civili. Di conseguenza, sono state prese in considerazione nuove aree in cui le due organizzazioni possano incrementare la cooperazione, in particolare le questioni inerenti la sicurezza energetica e la difesa da attacchi informatici.
Il 3 ed il 4 aprile 2009, si è svolto a Strasburgo e Kehl il vertice NATO che ha celebrato il sessantesimo anniversario della nascita dell’Alleanza atlantica. A margine dell’incontro è stato approvato un documento conclusivo, la Dichiarazione sulla sicurezza atlantica (DAS), che riafferma i valori fondanti l’organizzazione, i principi e gli obiettivi politico – militari dell’Alleanza. Gli intervenuti hanno stabilito di dare avvio ad un processo di riflessione per la definizione di un nuovo concetto strategico, che sia rispondente al ruolo assunto dalla NATO nel ventunesimo secolo e ne fissi le priorità d’azione nel lungo periodo. I 28 leader si sono pronunciati per la prosecuzione del dialogo e della cooperazione con i paesi partner e della politica dell’ open door, al fine del rafforzamento dell’intera area euro-atlantica.
Centrale è stato il tema della gestione e del futuro della missione ISAF. L’Alleanza ha ribadito con forza la propria determinazione al successo nelle operazioni militari in Afghanistan; a tal fine, è stata approvata una intesa tra i partecipanti volta all’incremento del coinvolgimento logistico di diversi Paesi membri nel teatro di conflitto. In particolare, si è definito un incremento del contingente impiegato nell’area fino a 5000 unità, inclusi gli addestratori (tra essi, 524 militari italiani). Il Vertice ha, inoltre, raggiunto il consenso su ulteriori iniziative, tra cui, l’intensificazione dello sforzo di addestramento delle Forze di Sicurezza afgane, un maggiore coinvolgimento dei paesi confinanti e un approccio più integrato tra la Comunità internazionale e il governo afgano per l’implementazione della Strategia di Sviluppo Nazionale dell’Afghanistan (ANDS). La NATO ha riconosciuto la necessità di un maggior impegno civile, tra l’altro destinato a sostenere lo sviluppo economico e la stabilità dell’Afghanistan, in linea con le priorità stabilite dal governo nazionale, ed ha sottolineato “l’importanza della tutela dei diritti delle donne”.
Il Vertice Nato di Strasburgo-Kehl ha inoltre sancito l'ingresso ufficiale di Albania e Croazia nell’Alleanza Atlantica ed il ritorno della Francia nel Comando Integrato, da cui era assente dal 1966. Da ultimo, dopo aver superato le resistenze della Turchia che ha dato il proprio assenso solo in seguito ad un lungo colloquio con il presidente Obama, la NATO ha nominato il nuovo segretario generale, il premier danese Anders Fogh-Rasmussen.
Il 19 e 20 novembre 2010 si è tenuto il Vertice di Lisbona; unitamente alla ripresa delle attività del Consiglio NATO-Russia al più alto livello ed alle dichiarazioni concernenti la missione ISAF in Afghanistan esso sembra aver soddisfatto molte delle aspettative suscitate. L’incontro si è concluso con l’adozione del TerzoStrategic Concept dalla fine della guerra fredda, con l’obiettivo di riformare e modernizzare la struttura stessa dell’Alleanza atlantica e renderla maggiormente rispondente alle mutate finalità di azione nonché alle esigenze gestionali imposte dalla situazione di crisi economica che interessa la gran parte dei Paesi Membri dell’Alleanza. Tale approvazione giunge a conclusione del processo di riflessione che era stato avviato in occasione del precedente summit di Strasburgo- Kehl e si pone come una operazione di public diplomacy per ridefinire nei confronti della Comunità internazionale il ruolo della NATO. Infatti, il Documento conclusivo reca le tracce dell’esperienza maturata dall’Alleanza atlantica nell’ultimo ventennio, relativamente ad interventi compiuti al di fuori del territorio degli Stati membri, come quello nei Balcani a metà e alla fine degli Anni Novanta ed il coinvolgimento in Afghanistan, seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001, dal 2003 sotto comando della NATO.
L’Alleanza atlantica ha riaffermato la propria natura di organizzazione globale della sicurezza volta ad assicurare l’autodifesa collettiva degli Stati membri, mettendo in campo capacità militari che solo pochi degli Alleati potrebbero dispiegare individualmente. Nel documento finale emerge il tema del joint threat assessment, cioè della gestione delle crisi in un contesto di sicurezza cooperativa e del necessario progresso nello sviluppo di capacità di addestramento congiunto e dirafforzamento della collaborazione civile e militare con le Istituzioni fondamentali a livello globale, regionale e locale. Contestualmente, viene focalizzata l’attenzione su nuove questioni generali quali le minacce di proliferazione nucleare o di attacchi terroristici, ma anche i rischi derivanti da attacchi ai sistemi informatici o da difficoltà negli approvvigionamenti di energia .
Nel corso del vertice sono state compiute anche approfondite digressioni sul futuro del rapporto con la Russia. Grazie ad un ritrovato dialogo nell’ambito del Consiglio NATO – Russia, è’ stato raggiunto un compromesso sul concetto di deterrenza negli armamenti nucleari e sulla creazione di uno scudo antimissile. Riguardo a quest’ultimo punto, il Nuovo concetto strategico recepisce le iniziative che hanno caratterizzato il 2010 in materia di disarmo nucleare, tra cui la conclusione del nuovo Trattato START tra Russia e Stati Unitied il Vertice mondiale sulla sicurezza nucleare di Washington. Viene posta, infatti, particolare enfasi sull'estensionedella difesa antimissilistica non più solo ai teatri di schieramento delle truppe NATO, ma all'intero territorio dei 28 Stati membri, trasferendo su un piano universale la precedente impostazione basata sul centro-Europa, che urtava la sensibilità russa. Logisticamente, si ipotizza il collegamento informatico dei sistemi antimissilistici esistenti, i quali, attraverso linguaggi standardizzati, potrebbero diramare allarmi rilevati dai propri apparati intercettori anche alle strutture di risposta di altri Paesi. Il risultato più importante risiede nell'invito rivolto alla Russia a partecipare a pieno titolo alla gestione di tale sistema, il che nell’ipotesi più probabile potrebbe avvenire con un collegamento delle rispettive reti difensive.
Altro punto fondamentale affrontato nel Vertice è quello relativo alla consistenza e finalità degliarmamenti nucleari. I Paesi membri hanno sostenuto la necessità di perseguire verso un mondo privo di armi nucleari. Tuttavia, è stato ribadito che l’Allleanza atlantica è imperniata sulla deterrenza, e quindi necessariamente in possesso di una quantità di armi atomiche a ciò indispensabile, perlomeno fino a che altri attori mondiali ne saranno in possesso.
Sul punto, si segnala il contrasto tra Francia e Germania. La prima, tesa a salvaguardare al massimo livello lo statuto di autonomia della propria forza di deterrenza nucleare, la seconda, assai ferma nel considerare secondaria la deterrenza attiva nel quadro di una difesa antimissilistica generalizzata. Il raggiungimento di una posizione di compromesso tra queste due istanze è dimostrato anche dalla mancata insistenza della Germania sulla sollecita eliminazione delle testate nucleari tattiche del Patto atlantico dal suolo tedesco, contestualmente a un'iniziativa diplomatica forte per indurre anche Mosca a un analogo sforzo.
A Lisbona, inoltre, è stata avviata la riflessione sull’exit strategy dall’Afghanistan, da compiere congiuntamente alla responsabilizzazione delle forze militari e di difesa locali a tutela della sicurezza collettiva, con l'obiettivo di giungere entro il 2014 al completo ritiro delle truppe di combattimento attualmente operanti nel quadro della missione ISAF. Si tratta, infatti, di un percorso assai delicato che esclude la possibilità di un ritiro eccessivamente rapido, al fine di evitare il rischio di destabilizzazione e di rinvigorimento delle forze talebane. Difatti, ripetute rassicurazioni sono state fornite – specie da parte statunitense – sul fatto che la data del 2014 debba essere intesa in maniera flessibile in relazione all’evoluzione dei rapporti di forza sul campo. Inoltre è stato assicurato che il Paese asiatico non verrà abbandonato a se stesso, nemmeno dopo tale anno, proponendo, a tal fine, la conclusione di partenariati di lungo periodo con le autorità locali.
Al vertice, inoltre, è stato affrontato il nodo problematico del sostegno dei costi delle missioni e dello squilibrio esistente tra i vari Paesi in termini di capacità di spesa in difesa. A titolo di esempio, valga richiamare il dato per cui i Paesi europei membri della NATO, considerati in blocco, spendono un terzo della quota di spesa sostenuta dagli Stati Uniti (nel 2010 tra i 500 ed i 600 miliardi di dollari, esclusi i costi delle guerre, spesa pari al 4,6% del PIL 2010). Si è convenuto, in proposito, che dopo il 2014 dovrà esservi una generale condivisione della Comunità internazionale delle spese collegate alla presenza militare nel paese centroasiatico. Il documento conclusivo del Vertice, più in generale, richiama l’attenzione sulla necessità che le notevoli risorse a disposizione dell'Alleanza atlantica vengano usate in maniera più efficiente ed efficace. La soluzione percorribile, a tal fine, è quella di una specializzazione dei diversi paesi in specifici settori, nel quadro di una logica di condivisione a livello europeo in materia di Difesa, in particolare massimizzando le capacità di dispiegamento delle forze e la loro operatività sul terreno, riducendo inutili duplicazioni e potenziando l'operatività congiunta delle forze degli Stati membri, sia per conseguire risparmi nei costi, sia per accrescere la solidarietà reciproca. Il Vertice ha stabilito, da ultimo, che questi obiettivi debbano essere perseguiti in un quadro di continua riforma che impegnerà l’intera Organizzazione a tutti i livelli.
Il Vertice di Chicago del 20 e 21 maggio 2012 è stato dominato dalle riflessioni su tre temi fondamentali per il futuro dell’Alleanza atlantica: in primo luogo, l'impegno in Afghanistan dopo la conclusione della missione ISAF a fine 2014 e il progressivo passaggio di responsabilità della sicurezza alle forze locali; il mantenimento delle capacità operative per la difesa degli Stati membri, nonostante la contingenza della crisi economica ed il suo impatto sulla capacità di spesa per la difesa; da ultimo, il nodo strategico del rafforzamento dei rapporti di partenariato dell’Alleanza con altri Paesi.
Il Vertice ha ribadito e precisato gli indirizzi già assunti in occasione del precedente summit di Lisbona, del novembre 2010 .
Con riferimento al conflitto in Afghanistan, la NATO ha confermato il completamento del ritiro delle truppe della missione ISAF per il dicembre 2014 quando sarà concluso il processo di trasferimento delle responsabilità alle forze afghane,opportunamente addestrate. Il Vertice ha confermato che, terminata la missione ISAF, l’Alleanza assumerà un ruolo nuovo incentrato sulla formazione, consulenza e supporto. A tal fine, i Paesi membri dell’Alleanza hanno confermato la propria disponibilità, logistica e finanziaria all’addestramento ed equipaggiamento delle forze di difesa del paese asiatico. Il costo di questo percorso, di durata decennale, è stimato in 4.100 milioni di dollari annui, con possibilità di aggiornamento degli stanziamenti alla luce delle esigenze di sicurezza del Paese. Paralleleamente, al Governo afghano è richiesta la conferma della sua determinazione a perseguire i principi del buon governo, della lotta alla corruzione e del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, compresa la parità tra uomini e donne, nonché la trasparenza e la regolarità delle elezioni. Inoltre, l’Afghanistan ha annunciato un impegno che parte da un contributo minimo di 500 milioni di dollari nel 2015 fino ad assumere progressivamente l’intero onere della difesa nazionale entro il 2014. Per quanto riguarda l’Italia, invece, l’impegno complessivo ammonta a 360 milioni di euro (nel triennio 2015-2017). Il Vertice dell’Alleanza atlantica ha inoltre riconosciuto l’importanza del ruolo dei paesi della regione asiatica, in particolare del Pakistan, nel garantire una pace duratura nell’area, nonché la stabilità e la sicurezza dell’Afghanistan.
Al Vertice di Chicago è stato introdotto il concetto di Smart Defence, ovvero il richiamo all’utilizzo più efficiente ed efficace delle risorse a disposizione dell’Alleanza, in relazione alla situazione di crisi finanziaria che interessa la gran parte dell’area NATO. Le difficoltà di budget per la difesa, la pressione per la riduzione del disavanzo di bilancio degli Stati Uniti hanno reso necessario lo studio di collaborazioni che consentano di ottenere un alto grado di efficienza attraverso l’utilizzo delle conoscenze e dell’esperienza comune ai vari Paesi. In un orizzonte temporale medio – lungo (fine 2020), i Paesi hanno convenuto di sviluppare la massima sinergia possibile nel dispiegamento delle forze allo scopo di massimizzare le capacità di dispiegamento congiunto delle forze degli Stati membri e la loro operatività sul territorio. Questa impostazione, propone una nuova visione della cooperazione tra gli Stati al fine di individuare delle economie di scala per affrontare programmi altrimenti troppo onerosi per il singolo Stato.
Tra i programmi proposti nel quadro della Smart Defence, si segnala l’Allied Ground Surveillance (AGS), volto all’incremento della capacità di sorveglianza del territorio attraverso l’utilizzo di tecnologie avanzatissime, quali gli aerei senza pilota (UVA). La principale base operativa per questo programma è la baseamericana di Sigonella(CT).
In occasione del Vertice, è stato ribadito che una delle priorità essenziali dell'Alleanza rimanga quella del mantenimento nel prossimo decennio della capacità di approntare e di realizzare complesse operazioni congiunte nel breve termine e con breve preavviso. In seguito al riesame degli assetti di deterrenza e difesa, poi, i Paesi membri hanno convenuto sulla necessità la NATO posseggaun appropriato mix di capacità nucleari, convenzionali e di difesa missilistica per fini di dissuasione e difesa A Chicago, sono stati, inoltre riaffermati gli impegni assunti a Lisbona in materia di difesa antimissili balistici (BMD), ed hanno sottolineato che quest’ultima non possa sostituire la funzione di deterrenza svolta dalle armi nucleari, ma possa e debba integrarla. I documenti conclusivi approvati al summit, affermano che l’Alleanza ha raggiunto una “capacità interinale di difesa contro i missili balistici”, che rappresenterà immediatamente una prima tappa significativa sul piano operativo, conformemente alla decisione di Lisbona, offrendo la massima copertura in tutta la regione sudeuropea, contro un attacco portato con missili balistici. Nondimeno, permane l’obiettivo di raggiungere una capacità operativa BMD in grado di assicurare la copertura totale dell’intera area NATO, da perseguire attraverso contributi nazionali volontari, accordi per lo stazionamento e l’estensione della capacità di difesa attiva multistrato contro i missili balistici di teatro (ALTBMD).
Il Vertice, inoltre, ha visto l’approvazione di una serie di misure volte alla garanzia della reattività e l'efficacia dell'Alleanza nello svolgimento dei compiti previsti dalConcetto strategico e dagli altri documenti ufficiali post- Lisbona. Sono state previste: la riduzione delle componenti della Struttura di comando della NATO; la razionalizzazione dell’organizzazione della Sede della NATO, accanto alla revisione del Segretariato internazionale e dello Stato maggiore internazionale con il coinvolgimento del Comitato militare; la razionalizzazione delle funzioni e dei servizi delle attuali agenzie della NATO ed apertura, il 1° luglio 2012, delle nuove Agenzie NATO per il supporto, per la comunicazione e l'informazione e per l'approvvigionamento.
Da ultimo, al fine di preservare ed accrescere la propria capacità di salvaguardia della sicurezza e dei valori dei Paesi membri, l’Alleanza atlantica ha optato per l’approfondimento delle relazioni di partnership esistenti con Paesi terzi e l’avvio di nuove. Al partenariato, infatti, viene attribuito un grande valore in ragione del contributo che i paesi partner rendono al funzionamento dell'Alleanza, specie di sostegno alle operazioni di gestione delle crisi. Inoltre, essi rivestono un ruolo chiave della sicurezza cooperativa, che resta uno dei compiti fondamentali dell'Alleanza. Il Vertice, infine, ha preso atto dei progressi nel processo di adesione dei quattro candidati membri della NATO: della FYROM, del Montenegro, della Bosnia-Erzegovina e della Georgia. La NATO continua inoltre a sostenere l’integrazione euro-atlantica della Serbia.
Il Nuovo concetto strategico della NATO è un documento di orientamento politico-strategico chiamato a delineare finalità e compiti operativi dell’organizzazione su base decennale. La primo Concetto Strategico è nata immediatamente dopo il crollo del blocco Sovietico, nel novembre 1991, a Roma, in occasione del vertice dei Capi di Stato e Governo dell’Alleanza. Il documento enunciava un insieme coerente di principi politici e militari della dottrina NATO, e si proponeva di lanciare un approccio più ampio alla sicurezza, basato sul dialogo e la cooperazione, cercando il confronto con i Paesi dell’Europa centro-orientale e dell’ex Unione Sovietica. La seconda versione (il primo Nuovo concetto strategico ) è stata invece approvata al vertice di Washington del 23-25 aprile 1999. Il testo rifletteva il mutato scenario della sicurezza Euro-Atlantica, con l’intento di regolare la politica della sicurezza e della difesa dell’Alleanza, i suoi concetti operativi, l’assetto delle sue forze convenzionali e nucleari, e le disposizioni della sua difesa collettiva.
L’ultima versione del Nuovo Concetto Strategico è stata approvata dal vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’Alleanza tenutosi a Lisbona il 19 e il 20 novembre 2010 . Con questo documento la NATO ha reinterpretato il suo testo base – il Trattato di Washington del 1949 – alla luce dello scenario geopolitico del XXI secolo. L’area Euro-Atlantica sta vivendo un periodo di pace e le probabilità di un attacco convenzionale contro i territori NATO sono molto basse. Nonostante ciò, si legge nel testo del Nuovo Concetto Strategico, la minaccia di un attacco convenzionale non può essere del tutto ignorata. Molti Stati non membri stanno intraprendendo programmi di sviluppo di capacità militari moderne, con conseguenze per la stabilità dell’area Euro-Atlantica che sono difficili da prevedere.
I rischi maggiori per l’Alleanza sono la proliferazione di missili balistici, delle armi atomiche e delle altre armi di distruzione di massa. Il pericolo è esacerbato dal fatto che questo genere di programmi militari sarà intrapreso, nel corso del decennio a venire, da Governi ritenuti politicamente “volatili”. Il terrorismo rappresenta ancora il fronte più problematico. I gruppi estremisti continuano a espandersi in regioni di importanza strategica per l’Alleanza, e le tecnologie moderne amplificano la potenza distruttiva di loro eventuali attacchi. Esiste il timore che organizzazioni terroristiche possano entrare in possesso di armi nucleari, chimiche, biologiche o radiologiche. Gli attacchi cibernetici sono diventati sempre più frequenti, e i danni che infliggono alle amministrazioni pubbliche, alle imprese private, ai network di comunicazione e alle infrastrutture hanno raggiunto un valore economico non trascurabile.
Nel testo approvato a Lisbona si legge che questo genere di attacco, sempre più frequente, rischia di minare la prosperità, la sicurezza e la stabilità dell’intera area Euro-Atlantica.
Di fronte a queste minacce, provenienti da aree del mondo differenti e da soggetti disparati, la NATO rinnova con il Nuovo Concetto Strategico il suo impegno a proteggere la popolazione Euro-Atlantica seguendo una strategia che si articola nei seguenti punti:
Lo scopo ultimo dell’Alleanza, secondo quanto approvato nel vertice di Lisbona, è garantire la sicurezza con il minore dispiegamento possibile di forze militari. Il disarmo e la non proliferazione contribuiscono alla pace, alla sicurezza e alla stabilità, ma il loro perseguimento non può tradursi in una riduzione della sicurezza per i Paesi Membri. Gli sforzi militari devono affiancarsi a quelli politici e diplomatici. Il primo passo verso una riduzione delle testate nucleari consiste nel convincere il Governo di Mosca a incrementare il processo di trasparenza sulle armi nucleari posizionate nei pressi dei confini europei e a riallocarle lontano dai territori della NATO.
Per quanto concerne la questione dell’allargamento, i Paesi membri ribadiscono che l’ampliamento dell’Alleanza ha contribuito in maniera sostanziale a rafforzare la sicurezza dell’area Euro-Atlantica. Pertanto la prospettiva di un ulteriore allargamento è ben vista. In particolare sono considerate importanti le adesioni di tutte le democrazie europee che condividano lo spirito del Trattato di Washington e che siano disposte ad assumersi le necessarie responsabilità.
La NATO inoltre si propone come obiettivo il dialogo e la cooperazione con i Paesi non membri. A tal fine si dice pronta a sviluppare meccanismi di confronto politico con qualsiasi entità, statale o sovrastatale, che sia interessata a promuovere relazioni internazionali pacifiche.
La North Atlantic Treaty Organization (NATO) è un’organizzazione Internazionale per la difesa nata con il Trattato del Nord Atlantico, firmato a Washington il 4 aprile 1949. Essa conta attualmente 28 membri; sono Paesi fondatori il Belgio, il Canada, la Danimarca, la Francia, l’Islanda, l’Italia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, la Norvegia, il Portogallo, il Regno Unito e gli Stati Uniti. Successivamente, hanno aderito: Grecia e Turchia (1952); Germania (1955); Spagna (1982); Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia (1999); Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia (2004) ed, in ultimo, Croazia e Albania (2009).
L’obiettivo prioritario dell’organizzazione è la salvaguardia della sicurezza e della libertà degli Stati firmatari, da perseguire attraverso strumenti politici e militari, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
Anche in assenza di attacco armato, vige l’obbligo di consultazione tra le parti ogni volta che, nell’opinione di una di queste, sussista una minaccia all’integrità territoriale, all’indipendenza politica o sicurezza di essa (articolo 4). La chiave di volta dell’architettura dell’Alleanza Atlantica è l’articolo 5, base del sistema di difesa collettiva: a norma di esso, sussiste l’impegno reciproco delle parti a considerare un attacco armato contro una o più di esse come un attacco diretto contro tutte. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le contromisure adottate dal singolo Stato o da più di essi, devono essere segnalate al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sospese dopo che questo abbia adottato le necessarie disposizioni.
L’articolo 5 è stato oggetto di interpretazione evolutiva che ha portato a ricomprendere nella nozione di aggressione “ogni attacco armato sul territorio di Alleati, proveniente da qualsiasi direzione” e, dunque, includere anche gli attentati terroristici nel novero delle minacce alla pace, alla sicurezza ed integrità degli stati.
L’attivazione dell’articolo 5 ha trovato applicazione per la prima volta per decisione del Consiglio atlantico riunitosi immediatamente dopo gli attentati terroristici di New York e Washington dell’11 settembre 2001, che stabilì che, qualora accertato che gli attacchi fossero diretti dall'estero contro gli Usa, essi sarebbero stati considerati come azioni offensive rientranti nell’ambito dell' articolo 5. D’altronde, l’articolo 24 del Nuovo Concetto Strategico della NATO, approvato a Washington nell’aprile 1999, aveva già incluso il terrorismo tra i “rischi di più ampia natura” per la sicurezza degli Stati membri.
L’articolo 6 del Trattato individua, invece, la direzione dell’attacco armato suscettibile di rendere applicabile l’articolo 5; ai sensi della prima disposizione citata: “per attacco armato contro una o più parti si intende un attacco armato contro il territorio di una di essere in Europa e o nell’America Settentrionale, contro la Turchia o le isole situate sotto la giurisdizione di una delle parti nella regione dell’Atlantico a nord del tropico del Cancro. E’ altresì, attacco armato quello rivolto contro le navi o gli aeromobili di una delle parti che si trovino su detti territori o in qualsiasi altra regione d’Europa nella quale, alla data di entrata in vigore del trattato, siano stazionate forze di occupazione di una delle parti, o che si trovino nel mare Mediterraneo o nella zona dell’Atlantico a nord del Tropico del Cancro”.
L’Alleanza Atlantica non dispone di un esercito proprio bensì si avvale delle forze armate dei Paesi membri. Esse sono, in via preliminare, sotto il comando e controllo esclusivo dei rispettivi Capi di Stato maggiore, fino a quando non vengono assegnate alla NATO dai Paesi stessi per intraprendere compiti nell’ambito di attività dell’organizzazione, sulla scorta di quanto pianificato dalle strutture politiche e militari dell’Alleanza atlantica.
In generale anche la struttura dell’Alleanza atlantica ha subito un’importante innovazione nel corso degli anni, particolarmente accelerata dopo il crollo dell’URSS.
Già nel 1991, infatti, in concomitanza con lo stabilimento delle relazioni diplomatiche con le repubbliche ex sovietiche ed i paesi dell’Europa centro-orientale, venne adottato un concetto strategico improntato al dialogo ed alla cooperazione, poi rafforzato nel 1994 con il programma Partnershipfor peace (PfP). Lo scopo di questa iniziativa era l’intensificazione della cooperazione politica e militare in Europa tramite relazioni bilaterali sempre più strette con i paesi partner, spesso culminate nell’adesione all’organizzazione. Con analoghe finalità, in riferimento al quadrante Mediterraneo, nel 1995 è stato avviato il Dialogo Mediterraneo, con sei paesi dell’area (Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia).
Di fondamentale importanza per il rilancio del ruolo internazionale della NATO è stato il vertice di Washington del 23-25 aprile 1999, che ha approvato il citato “Nuovo concetto strategico”, con il quale sono stati ridefiniti: lo scopo, la struttura e le funzioni dell’organizzazione, dando atto del mutato scenario della sicurezza euro-atlantica. E’ stata ribadita la politica dell’open door attraverso l’avvio del programma MAP (Membership Action Plan), che promuove l’adozione di riforme su base volontaria da parte di Paesi candidati all’adesione con lo scopo di facilitarne l’ingresso nell’organizzazione.
Anche dal punto di vista strutturale la NATO si è modificata consistentemente: con una riduzione da 65 a 20 quartier generali ed il superamento della tradizionale visione geografica delle responsabilità, in luogo di un approccio globale alla difesa, speculare all’espandersi della gamma di missioni dell’Alleanza.
Il vertice di Praga del 21-22 novembre 2002 ha visto l’approvazione di una serie di misure di riorganizzazione, culminate nella creazione della NATO Response Force (NRF) - una forza di reazione rapida entro 5 giorni - la riforma della struttura del Comando militare e l’impegno sulle capacità. Nella stessa occasione, è stato anche approvato un nuovo concetto militare che stabilisce un approccio globale per la difesa contro il terrorismo e consente alle forze NATO di intervenire ovunque i suoi interessi lo richiedano, anche fuori dai territori dei Paesi membri. Coerentemente, il 16 aprile 2003, il Consiglio Nord Atlantico ha avviato la prima missione militare extraeuropea dell’Alleanza Atlantica, disponendo l’assunzione da parte della NATO del comando, coordinamento e pianificazione della missione ISAF. Nel giugno 2004, al vertice di Istanbul è stato disposto il rafforzamento e l’estensione di tale missione ed è stata lanciata la Istanbul Cooperation Initiative (ICI), per la cooperazione bilaterale per la sicurezza con i Paesi del Medio oriente allargato (hanno aderito Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Quatar).
Il vertice di Lisbona del novembre 2010 ha approvato un nuovo Concetto Strategico che comprende la minaccia del terrorismo cibernetico e del narcotraffico tra le sfide da affrontare. E’ stato raggiunto un compromesso sul concetto di deterrenza nucleare e sulla creazione di uno scudo antimissile, grazie ad un ritrovato dialogo con la Federazione Russa nell’ambito del Consiglio NATO - Russia. E’ stata inoltre avviata la riflessione sull’exit strategy dall’Afghanistan, prevista per il 2014, da compiere congiuntamente alla cessione alle forze locali della responsabilità dell sicurezza collettiva.
Tali indirizzi sono stati ribaditi e precisati formalmente in occasione del vertice di Chicago del 20 e 21 maggio 2012. Nell’incontro è stato introdotto il concetto di smart defence, ovvero il richiamo all’utilizzo più efficiente ed efficace delle risorse a disposizione dell’Alleanza, in relazione alla situazione di crisi finanziaria che interessa la gran parte dell’area NATO. In un orizzonte temporale medio –lungo (fine 2020), i Paesi hanno convenuto di sviluppare la massima sinergia possibile nel dispiegamento delle forze allo scopo di massimizzare le capacità di dispiegamento congiunto delle forze degli Stati membri e la loro operatività sul territorio.
Il Consiglio Nord Atlantico (NAC) è l’organo politico più autorevole poiché trae legittimazione direttamente dal Trattato Atlantico, ed è dotato di una funzione consultiva molto incisiva sui temi più rilevanti. Il Consiglio si riunisce con frequenza settimanale nella composizione di rappresentanti permanenti. Alternativamente, può riunirsi in sessioni ministeriali (Esteri, ma anche Difesa e Finanze) nonché a livello di Capi di Stato e di Governo. Dal 2013, il Rappresentante Permanente dell’Italia è l’ambasciatore Gabriele Checchia.
I governi degli Stati membri designano il Presidente del Consiglio Nord Atlantico, che ricopre l’incarico di Segretario Generale della NATO. Egli ha funzioni di coordinamento, promozione e direzione del processo decisionale in seno all’Organizzazione. Inoltre, è il portavoce ufficiale dell’organizzazione e il capo del personale internazionale dell’ente.
Dall’agosto 2009, Segretario Generale è l’ex primo ministro danese Andres Fogh Rasmussen (il cui mandato, in scadenza il 31 luglio prossimo, è stato prorogato al 31 luglio 2014), che è coadiuvato dal Segretario generale delegato, l’ambasciatore statunitense Alexander Vershbow.
Il Comitato Militare è la più alta autorità militare della NATO e la fonte primaria di consigli strategici per gli organi decisionali civili della NATO (Consiglio Nord Atlantico e Il Gruppo di pianificazione nucleare). Ha funzioni consultive per ogni azione militare e rappresenta il collegamento essenziale tra il processo di decisione politica e le strutture militari della NATO. Collabora, inoltre, allo sviluppo di politiche strategiche per l’Alleanza e fornisce guida militare ai due Comandi Strategici: l’ACO(Allied Command operations) e l’ACT (Allied Command Transformation). Il primo è responsabile operativo per tutte le attività militari a livello globale ed opera presso SHAPE (Supreme Headquarters allied Powers Europe) sotto la direzione del Comandante supremo alleato in Europa (SACEUR), la cui sede è Monk (Belgio); il secondo provvede alla formazione ed addestramento delle forze NATO ed agisce sotto l’autorità del Comandante Supremo alleato per la trasformazione (SACT), con sede a Norfolk, Virginia (USA). ACO ed ACT costituiscono il comando integrato NATO, recentemente reintegrato dal ritorno della Francia, che lo aveva abbandonato sin dal 1966, pur nel mantenimento della piena operatività in seno all’Organizzazione.
Struttura ACT
Fonte: http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_52092.htm
Struttura ACO
Fonte: http://www.aco.nato.int/structure.aspx
Al vertice del Comitato Militare vi è un Presidente, eletto a scrutinio segreto dai Capi di Stato maggiore dei paesi dell’Alleanza per un periodo di 3 anni. L’incarico è stato ricoperto dal febbraio 2008 al novembre 2011 dall’Ammiraglio Giampaolo Di Paola. Dal gennaio 2012, ricopre l’incarico il Generale danese Knuf Bartels.
L’Assemblea Parlamentare della NATO, non è un organo dell'Alleanza atlantica in senso stretto, non essendo esplicitamente prevista dal Trattato di Washington del 1949, bensì una struttura parallela che costituisce il punto di raccordo tra istanze governative in seno all’Alleanza Atlantica e quelle politiche dei Parlamenti Nazionali dei Paesi Membri. Il suo obiettivo è di favorire lo sviluppo della solidarietà atlantica sui temi della difesa e della sicurezza, tramite il confronto interparlamentare.
L’Assemblea si occupa, inoltre, di favorire lo sviluppo della democrazia parlamentare nell’area euroatlantica tramite il coinvolgimento dei parlamentari di paesi non membri nei lavori e nelle discussioni dell’organo.
Esso si compone di delegazioni dei Parlamenti nazionali (ciascuna da 3 a 36 parlamentari) in proporzione alla popolazione dei paesi membri, per un totale di 257 componenti attuali. La delegazione Italiana è composta da 18 parlamentari, 9 per ciascun ramo del Parlamento, nominati dai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato su designazione dei Presidenti dei gruppi Parlamentari. Il presidente dell’Assemblea è eletto al termine della sessione annuale, per un anno, rinnovabile una sola volta. Attuale presidente è l’inglese Hugh Bayley, eletto nel corso della 58esima Sessione Annuale (Praga, 9 – 12 Novembre 2012).
Organo direttivo dell'Assemblea è la Commissione permanente, costituita dai Presidenti delle delegazioni nazionali, dal Presidente dell'Assemblea, dai cinque Vice Presidenti dell'Assemblea, dal Tesoriere e dai Presidenti delle cinque Commissioni. L'Assemblea dispone di un Segretariato internazionale, con sede a Bruxelles, che assicura l'infrastruttura necessaria per l'organizzazione dei lavori dell'Assemblea, delle Commissioni e Sottocommissioni. La carica di Segretario Generale è ricoperta da David Hobbs (Regno Unito).
Il Consiglio di partenariato euroatlantico (EACP) è un forum di regolare consultazione, coordinamento e dialogo su questioni politiche e di sicurezza tra la NATO ed i 22 partner esterni (Armenia, Austria, Azerbaijan, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Finlandia, Georgia, Irlanda, Kazakistan, Kirghizstan, Malta, Moldova, Montenegro, Russia, Serbia, Svezia, Svizzera, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina ed Uzbekistan) che partecipano al Partenariato per la pace (PfP). L'EACP si riunisce mensilmente, a Bruxelles, a livello di Rappresentanti permanenti; due volte l'anno, sono previste riunioni sia a livello di Ministri degli Affari esteri che a livello di Ministri della difesa. Se necessario, possono tenersi riunioni anche a livello di Capi di Stato e di Governo.
Il Parlamento, anche nella scorsa legislatura, si è costantemente confrontato con il Governo in ordine alle risorse ed agli strumenti posti al servizio della politica estera nazionale: in tale ambito ha esercitato non solo un'articolata azione normativa ma anche di indirizzo, controllo e informazione, nei confronti del Ministero degli Affari esteri, impegnato in un'ampia opera di riassetto della propria Amministrazione centrale e delle rete operante all'estero (ambasciate, consolati, istituti italiani di cultura).
Per quanto attiene all'attività normativa, si ricorda in primo luogo che il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, all’art. 83, comma 25 ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri il Comitato strategico per lo sviluppo e la tutela all'estero degli interessi nazionali in economia, con compiti di indirizzo, consulenza e coordinamento informativo nei confronti delle più rilevanti imprese italiane – in special modo quelle a partecipazione pubblica.
La legge 18 giugno 2009, n. 69, recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, ha fissato alcune misure di riforma dell'Amministrazione degli Affari esteri. In particolare, l’art. 6 ha introdotto misure per la semplificazione della gestione amministrativa e finanziaria delle rappresentanze diplomatiche e degli uffici consolari; l’art. 13, comma 6 è intervenut sulla cooperazione allo sviluppo gestita dagli Uffici all’estero del MAE, con fondi della Commissione europea o di altri Stati membri della UE; l’art. 29, comma 1 ha disposto ulteriori interventi del Ministero degli affari esteri, per le spese connesse al funzionamento e alla sicurezza delle rappresentanze diplomatiche e consolari nonché agli interventi di emergenza per la tutela dei cittadini italiani all’estero; l’art. 29, comma 2, infine, ha disposto l’applicazione differenziata, anche agli Uffici all’estero del MAE, delle disposizioni dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Si ricorda poi che l’art. 12, comma 3-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 ha disposto la modifica del contingente di esperti di cui all’articolo 168 del DPR 5 gennaio 1967, n. 18, per il potenziamento del contrasto ai paradisi fiscali.
Il decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194 ha disposto all’art. 10 che gli incarichi di direttore di Istituto di cultura all'estero, gia' rinnovati per il secondo biennio e in scadenza tra il 1° gennaio 2010 ed il 30 giugno 2010, possono essere rinnovati per ulteriori due anni, anche in deroga ai limiti di eta' previsti dalla legge.
Il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 ha dettato all’art. 9, comma 31 norme in materia di limitazioni ai trattenimenti in servizio dei capi di rappresentanze diplomatiche.
Particolarmente rilevante quanto previsto dall’art. 51 della legge 4 giugno 2010, n. 96 (legge comunitaria 2009) rispetto all’Amministrazione degli Affari esteri, in conseguenza dell’avvio dell’attività del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE). Va peraltro ricordato che anche il decreto-legge 1° gennaio 2010, n. 1, all’art. 4, commi 1-3, aveva dettato norme collegate con l’entrata in funzione del SEAE, mentre i commi 4-5 riguardavano l’aumento della tariffa per i visti nazionali di breve e di lunga durata.
Da ricordare anche la legge 13 agosto 2010, n. 149 che ha innovato alcune procedure di somministrazione dei fondi per la cooperazione italiana allo sviluppo affidati alla gestione della rete diplomatico-consolare.
La durata massima del servizio all'estero del personale docente e amministrativo della scuola è stata ridisciplinata dall’art. 2, comma 4-novies del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225.
La legge 22 marzo 2012, n. 38, in materia di diritti e prerogative sindacali, mira ad assicurare la possibilità di partecipare alle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU) anche al personale a contratto in servizio presso le rappresentanze diplomatiche, gli uffici consolari e gli istituti italiani di cultura all’estero, ancorché assunto in base alle normative locali.
Nell’ambito dei numerosi interventi volti a ridurre, in coerenza con gli indirizzi di finanza pubblica, anche le spese per l’Amministrazione degli Affari esteri, si segnala anzitutto l’art. 1-bis del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, che detta una norma di interpretazione autentica dell’art. 170 del DPR 5 gennaio 1967, n. 18. Sempre nell’alveo dei risparmi di spesa si è posta la legge di stabilità 2012 (legge 12 novembre 2011, n. 183), e in particolare l’art. 4, commi 2, 3 e 6. Il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 ha previsto ulteriori risparmi ai commi 11-12 e 23-25 dell’art. 14, mentre il decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (art. 41-bis, commi 1-3) ha stabilito l’incremento del 10 per cento della tariffa consolare, soprattutto a fini di potenziamento degli uffici all’estero e dei servizi da essi offerti ai flussi turistici e all’internazionalizzazione del sistema Italia – l’aumento è stato attuato con successivo decreto del Ministro degli Affari esteri del 19 ottobre 2012. A testimonianza delle difficoltà della finanza pubblica nella lunga fase di crisi che attraversa il Paese, la legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228) all’art. 1, cc. 37-42 ha disposto diverse ulteriori riduzioni di spesa a carico del Ministero degli Affari esteri.
Di grande rilevanza sono stati gli esami parlamentari in sede consultiva (v. infra) che hanno poi condotto all’emanazione di alcuni atti del Governo, e in particolare, del decreto legislativo 3 febbraio 2011, n. 71 in materia di riforma dell’ordinamento e delle funzioni degli uffici consolari (sulla base della delega conferita dalla legge 28 novembre 2005, n. 246); del DPR 19 maggio 2010, n. 95 sulla riorganizzazione del Ministero degli Affari esteri, a norma dell’art. 74 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112; del DPR 4 dicembre 2009, n. 207 sull’organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro degli Affari esteri e del DPR 1° febbraio 2010, n. 54 sull’autonomia finanziaria e di gestione delle Ambasciate e dei Consolati di I categoria.
Sul piano dell’attività parlamentare d'indirizzo e di controllo è possibile individuare anzitutto alcuni nuclei principali attorno ai quali le problematiche organizzatiove del Ministero degli Affari esteri sono state trattate nel corso della legislatura.
Il primo di questi nuclei riguarda lo schema di regolamento di organizzazione del MAE (Atto n. 192), che alla Camera è stato esaminato in sede consultiva primaria dalla Commissione Affari costituzionali – sedute del 9, 11, 16 e 17 marzo 2010 -, e, in sede di rilievi alla medesima, da parte della Commissione Affari esteri – sedute del 10, 11 e 16 marzo 2010. Collegata a queste attività è stata l’audizione del Ministro degli Esteri Frattini del 10 marzo 2010 presso le Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato.
Le grandi aree tematiche in cui vengono suddivise le nuove direzioni generali del MAE sono modulate sulle principali priorità geopolitiche nazionali: affari politici e sicurezza, mondializzazione e questioni globali, promozione del Sistema Paese, Unione europea. A queste direzioni generali, se ne affiancano altre due, anch'esse tematiche, già esistenti: quella per gli Italiani all'estero e le politiche migratorie e quella per la cooperazione allo sviluppo, mentre un'altra direzione generale per il patrimonio, l'informatica e le comunicazioni, curerà gli aspetti collegati all'uso delle nuove tecnologie, i beni d'investimento, la valorizzazione del patrimonio immobiliare all'estero e le esigenze della sede centrale.
Le Commissioni Commissione Affari costituzionali e Commissione Affari Esteri hanno altresi esaminato lo schema di regolamento recante modifiche all’organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro degli Esteri, il cui esame è stato concluso da entrambi i collegi nelle sedute del 14 ottobre 2009.
Altro importante centro di interesse è stato quello della ristrutturazione e razionalizzazione delle rete degli uffici all’estero del MAE, anche in funzione di contenimento delle spese - su questo tema la Camera si è soffermata a più riprese, cominciando dalle due audizioni del Sottosegretario agli Affari esteri, sen. Alfredo Mantica, presso le Commissioni Esteri dei due rami del Parlamento nelle sedute del 10 giugno e del 24 giugno 2009. A seguito dell’esposizione ricordata, la Commissione Affari esteri della Camera ha discusso il 21 luglio 2009 la risoluzione 7-00193 presentata dall’on.Narducci, approvando la risoluzione conclusiva 8-00050. Sul tema della razionalizzazione degli uffici all’estero, le Commissioni Esteri dei due rami del Parlamento hanno poi nuovamente ascoltato il Sottosegretario agli Affari esteri, sen. Mantica (seduta del 23 febbraio 2010), che ha fornito una serie di aggiornamenti relativi alle procedure in corso e a quelle a più breve scadenza.
Sullo stesso argomento la Commissione Esteri, nella seduta del 26 luglio 2011, ha iniziato la discussione della risoluzione 7-00638 dell’on. Narducci. Peraltro una specifica realtà - quella delle funzioni svolte dal Consolato italiano di Rosario (Argentina), era stata oggetto il 7 luglio 2011 della discussione della risoluzione 7-00602 dell’on. Angeli, al termine della quale la Commissione Esteri ha approvato la risoluzione 8-00131.
Nella seduta del 18 novembre 2010 la Commissione Affari esteri aveva peraltro esaminato uno schema di Decreto legislativo recante ordinamento e funzioni degli uffici consolari (Atto n. 282) , formulando alcuni rilievi a beneficio della Commissione bicamerale per la semplificazione (sedute del 3 e del 24 novembre 2010). In precedenza il tema dell’autonomia gestionale e finanziaria delle Ambasciate e dei Consolati di I categoria era stato affrontato dalla Commissione Esteri durante l’esame dell’apposito schema di regolamento di semplificazione (sedute del 14 e 22 ottobre 2009). Si ricorda al proposito che la Commissione Esteri, nella seduta del 27 ottobre 2010, ha successivamente discusso una risoluzione dell’on. Di Biagio concernente il personale a contratto locale nella rete estera, approvando la risoluzione conclusiva 8-00094. La rete degli uffici era stata al centro dell’attenzione della Commissione esteri già il 26 novembre 2009, ma per un diverso profilo, ovvero le celebrazioni all’estero del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, oggetto di una risoluzione dell’On. Narducci, al termine del cui esame veniva approvata la risoluzione conclusiva 8-00058.
Un altro momento essenziale si è avuto con una serie di attività parlamentari non legislative inerenti all’entrata in funzione, in conseguenza del Trattato di Lisbona, del nuovo Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) – conosciuto anche come Servizio diplomatico europeo - con notevole impatto sull’organizzazione della diplomazia italiana. In dettaglio si è trattato anzitutto dell’audizione del 17 marzo 2010 del Ministro per le politiche europee, Andrea Ronchi presso le Commissioni riunite Esteri e Politiche dell’Unione europea della Camera. Sempre sull’istituzione del SEAE la Commissione Esteri della Camera il 4 maggio 2010 ascoltava il Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione europea, ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci. Il 12 maggio 2010 le Commissioni congiunte Esteri e Politiche dell’Unione europea della Camera e del Senato ascoltavano una rappresentanza di parlamentari italiani componenti della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo sull'organizzazione e il funzionamento del Servizio europeo per l'azione esterna. La parte conoscitiva delle attività parlamentari sul SEAE si concludeva a Montecitorio con l’audizione del Segretario generale del MAE, Ambasciatore Massolo, nella seduta del 25 maggio 2010 della Commissione Affari esteri.
Su un piano più direttamente normativo, il Progetto di decisione del Consiglio dei ministri UE che fissa l’organizzazione ed il funzionamento del SEAE è stato esaminato in via primaria dalla Commissione Affari esteri (sedute del 20 aprile e del 20 luglio 2010), che ha approvato un documento finale, utilizzando anche il parere favorevole con condizioni e osservazioni fornito sullo stesso atto comunitario dalla Commissione Politiche dell’Unione europea (sedute del 12 maggio e del 16 giugno 2010).
Il 24 ottobre e l’8 novembre 2012 le Commissione Esteri riunite di Camera e Senato hanno svolto l’audizione del nuovo Segretario generale della Farnesina, ambasciatore Michele Valensise.
Si ricordano infine due indagini conoscitive con importanti riflessi sull’articolazione organizzativa degli uffici all’estero del MAE, e precisamente l’indagine conoscitiva sulla promozione della cultura e della lingua italiana all'estero, deliberata dalle Commissioni Riunite Esteri e Cultura della Camera l’8 febbraio 2011, e l’indagine conoscitiva sulla riorganizzazione della rete diplomatico-consolare e sull'adeguatezza e sull'utilizzo delle dotazioni organiche e di bilancio del Ministero degli affari esteri, condotta congiuntamente dalle Commissioni Esteri dei due rami del Parlamento: nessuna delle due indagini conoscitive si è conclusa prima della conclusone della legislatura.
Con la riforma organizzativa dell'Amministrazione degli Affarie esteri, è stata creata una Direzione generale unitaria per la promozione del sistema Paese, competente per il coordinamento delle iniziative d’internazionalizzazione del sistema economico italiano, per i partenariati pubblico/privato e per la gestione degli strumenti assicurativi e finanziari del commercio estero. La Direzione cura altresì la promozione della lingua e dell'editoria italiane nel mondo e l'organizzazione della rete degli Istituti italiani di culturale e delle istituzioni scolastiche italiane all'estero, nonchè la promozione e la cooperazione culturale multilaterale, in ambito universitario e scientifico-tecnologico.
Parallelamente, l'articolo 22 del D.L. 201/2011 ha istituito un nuovo organismo denominato ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, e sottoposto ai poteri d’indirizzo e vigilanza del Ministero dello Sviluppo economico, che li esercita, per le materie di rispettiva competenza, d’intesa con il Ministero degli Affari esteri, sentito il Ministero dell’Economia e delle finanze.
Sono attribuiti all’Agenzia i seguenti compiti: sviluppo dell’internazionalizzazione delle imprese italiane; commercializzazione dei beni e dei servizi italiani nei mercati internazionali; promozione dell'immagine del prodotto italiano nel mondo. Essa opera in stretto raccordo con le regioni, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le organizzazioni imprenditoriali e gli altri soggetti pubblici e privati interessati.
L’Agenzia mantiene in Italia solo gli uffici di Roma e Milano, ed opera all’estero nell’ambito delle Rappresentanze diplomatiche e consolari, con modalità stabilite mediante apposita convenzione stipulata tra l’Agenzia, il Ministero degli Affari esteri ed il Ministero dello Sviluppo economico. Il personale dell’Agenzia all’estero può essere accreditato, previo nulla osta del Ministero degli Affari esteri, in conformità alla normativa internazionale.
Infine l'articolo 41 del decreto-legge 83/2012 ha introdotto disposizioni per razionalizzare l'organizzazione dell'ICE, al fine di rilanciare gli interventi a favore dello sviluppo economico e della internazionalizzazione delle imprese, mentre le competenze e i servizi della rete degli uffici all’estero del MAE sono state coinvolte nella normativa istitutiva del cosiddetto “Desk Italia”, ovvero lo sportello unico per l’attrazione degli investimenti esteri di cui all’art. 35 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179.
Lo scoppio delle "primavere arabe" nell'area del Mediterraneo meridionale ha costituito un momento di svolta per la politica estera italiana che, da sempre, riconosce alla politica mediterranea una valenza strategica per gli interessi del Paese. Il Parlamento della XVI legislatura ha seguito gli sviluppi della situazione regionale, intervenendo sul piano normativo con il finanziamento della partecipazione di un contingente italiano alle operazioni militari della NATO in Libia a sostegno delle forze d'opposizione e successivamente ad assicurare il sostegno alla ricostruzione economica e sociale della Libia. Sul piano conoscitivo, la III Commissione ha promosso un'articolata indagine conoscitiva intesa ad acquisire una panoramica dei nuovi equilibri geopolitici emersi all'indomani dei rivolgimenti ed a definire le nuove linee-guida per una coerente ed efficace proiezione del nostro Paese nella regione.
Ricordando come i fenomeni di rivolta o comunque di contestazione dei regimi esistenti abbiano interessato marginalmente anche la Giordania e l’Algeria, e, assai di più, il Bahrein; non vi è dubbio il primo paese ad entrare in crisi è stata la Tunisia, dove rapidamente crollava il regime di Ben Alì, e si aoriva un periodo di instabilità politica e caos economico assai gravi, dovendo per di più il paese fronteggiare anche le ondate di profughi provenienti dalla Libia in rivolta contro Gheddafi. Le manifestazioni, i fenomeni di vandalismo e le ondate migratorie verso l’Italia ponevano la Tunisia in sempre maggiori difficoltà, ma il 23 ottobre potevano svolgersi, differite di 4 mesi, le elezioni per l’Assemblea costituente, con l’affermazione netta del partito islamico moderato Ennahdha. In dicembre un compromesso istituzionale fra i tre maggiori partiti della Costituente permetteva di eleggere il Presidente della Repubblica e di dar vita al nuovo governo.
Il partito Ennahdha ha dato prova tuttavia di grande ambiguità nei confronti degli islamici più radicali e dei loro atteggiamenti aggressivi, destando a più riprese la reazione degli ambienti laici largamente presenti nel paese. Anche nella duplice crisi per le offese (vere o presunte) a Maometto nel settembre 2012 gli apparati di sicurezza sono sembrati paralizzati nei confronti dei salafiti che davano l’assalto alle ambasciate occidentali. Le forze laiche, pur riuscendo a scongiurare una modifica costituzionale contro la parità tra uomo e donna, venivano duramente colpite il 6 febbraio 2013 dall’assassinio di Chokri Belaid, simbolo della resistenza all’avanzata delle istanze dell’islamismo radicale. Tale atto ha però già indotto gravi divisioni nel seno di Ennahdha, che potrebbero comprometterne il predominio.
Il paese strategicamente più importante tra quelli coinvolti nella Primavera Araba del 2011 è senz'altro l'Egitto: qui la propagazione degli eventi tunisini provocava la rapida caduta del regime di Hosni Mubarak (11 febbraio 2011), dopo la quale si assisteva a un difficile processo di assestamento istituzionale, pur nel permanere di uno Stato di mobilitazione di piazza soprattutto nella capitale. Il 19 marzo si teneva un referendum costituzionale su alcune modifiche alla Costituzione vigente, che venivano approvate con una larga maggioranza dei votanti, ma con una partecipazione ben al di sotto della metà degli aventi diritto al voto - soprattutto l'opposizione liberale lamentava la scarsa incisività degli emendamenti costituzionali, ai quali avrebbe preferito la redazione di una nuova Carta.
Dopo il referendum, comunque, iniziava un periodo di tacito accordo tra i Fratelli musulmani e gli ambienti militari di governo. Intanto veniva al pettine il nodo delle imputazioni a carico di Mubarak e del suo clan: in aprile veniva arrestato l'ex rais insieme ai due figli Gamal e Alaa, e il loro rinvio a giudizio avveniva nella prima metà di giugno, mentre il processo si sarebbe aperto due mesi dopo. Tensioni con Israele si verificavano a partire dall'agosto 2011 per il coinvolgimento di alcune guardie di frontiera egiziane nella risposta israeliana a una serie di attacchi perpetrati nel Neghev meridionale. Gli umori largamente antiisraeliani di ampie fasce della popolazione egiziana si mostravano in tutta la loro virulenza il 9 settembre, quando veniva dato l'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo, ponendo in grave pericolo anche l'incolumità dell'ambasciatore e del personale diplomatico.
Dopo la gravissima tensione con la minoranza cristiano-copta successiva agli incidenti del 9 ottobre nella capitale, il dibattito politico e nei media si concentrava sulle conseguenze del giro di vite sulla sicurezza operato dalle forze armate proprio a seguito degli incidenti in cui avevano perso la vita 26 cristiano-copti. Nuovi incidenti portavano poi alla caduta del governo Sharaf - e in carica dal mese di marzo 2011 - e alla sua sostituzione con una compagine guidata da un ex premier di Mubarak, al-Ganzuri.
Erano intanto iniziate le elezioni legislative, in tre complesse tornate che si completavano all'inizio di gennaio 2012: nella quota proporzionale i risultati registravano la grande vittoria dei partiti islamisti - i Fratelli musulmani si aggiudicavano 127 seggi, mentre il salafiti del Nour ne conquistavano 96. Il 23 gennaio il nuovo Parlamento eleggeva come presidente Mohammed el-Katatni, esponente dei Fratelli musulmani.
Le convulsioni rivoluzionarie e le reazioni ad esse giungevano a coinvolgere anche un evento sportivo, con il tragico massacro nello stadio di Porto Said del 1° febbraio 2012, con 73 morti e un migliaio di feriti. Questi tragici avvenimenti non bloccavano comunque i processi istituzionali: per il mese di maggio veniva fissato il primo turno delle elezioni presidenziali, rispetto alle quali nel frattempo maturava la decisione dei Fratelli musulmani di presentare un proprio candidato, Mohamed Morsi, il quale, sfruttando la vasta contrarietà di tutte le anime della rivoluzione alla candidatura di Ahmed shafik, rimasto in ballottaggio contro di lui -, in giugno si affermava con poco più della metà dei consensi. L'elezione di Morsi veniva generalmente salutata con soddisfazione dalla Comunità internazionale, e si compiva pacificamente il previsto passaggio di poteri dai vertici militari al nuovo presidente.
Iniziava però subito dopo una serrata lotta istituzionale di Morsi nei confronti dei principali organi giurisdizionali del paese, mentre il 2 agosto nasceva ufficialmente il nuovo governo guidato da un tecnico precedentemente a capo del ministero delle risorse idriche, Hisham Kandil. Un brusco ricambio dei vertici militari avveniva poi contemporaneamente al coinvolgimento dell'Egitto nei gravi problemi di sicurezza del Sinai, con la morte di 16 poliziotti. Tra l'altro, lo status del Sinai dipende dagli accordi di pace di Camp David del 1978, ed è dunque un punto assai delicato nei rapporti con Israele. Successivamente, il presidente Morsi dispiegava anche un grande attivismo diplomatico, recandosi presso le istituzioni europee di Bruxelles e anche in Italia (13-14 settembre 2012).
Negli ultimi mesi, mentre si infittivano i rapporti dell'Egitto con l’Unione europea e con il Fondo monetario internazionale, con il quale il Cairo ha negoziato un prestito di 4,8 miliardi di dollari, il prestigio dell'Egitto si manteneva elevato in occasione della mediazione per il raggiungimento della tregua per la nuova crisi tra israele e Gaza alla metà di novembre 2012. Successivamente, tuttavia, Morsi innescava gravi tensioni con un decreto presidenziale che rendeva inappellabili le sue decisioni: la mobilitazione crescente induceva Morsi a ritirare il decreto del 22 novembre, come anche alcuni provvedimenti economici suscettibili di inimicargli l'elettorato nell'imminenza del referendum costituzionale del 15 dicembre, nel quale la bozza di nuova Costituzione è stata approvata con il 64% dei voti, ma in una consultazione che ha visto solo un terzo degli aventi diritto prendere parte al voto. Alla fine di gennaio 2013, infine, il ripetersi di gravissimi incidenti sempre in relazione al massacro di Porto Said del 1° febbraio 2012, induceva le forze armate a far sentire dopo molti mesi la propria voce ammonendo le forze politiche, in una situazione politica ed economica del paese che rimane sempre molto critica.
A parte il tragico scenario siriano da cui tuttora non si intravvede un'uscita credibile, la situazione di più classico scontro frontale scaturita dalla Primavera araba del 2011 è stata senz'altro quella libica, dove la contestazione del regime di Gheddafi ha assunto anche forti caratteri regionali e tribali, soprattutto per iniziativa della regione della Cirenaica. Proprio la possibilità che la reazione delle forze lealiste ai primi sommovimenti facesse ripetere nei confronti di Bengasi la tragica vicenda di Srebrenica del 1995 facilitava nel marzp 2011 l'intervento della Comunità internazionale e l'unità, perlomeno in un primo momento, all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU. I combattimenti successivamente si trascinavano però per mesi, facendo temere che come Assad anche Gheddafi fosse in grado di mettere in campo una forza militare notevolissima, ma poi nell'autunno 2011 si aveva il rapido crollo del regime e anche la cattura e l'uccisione del rais libico.
La situazione della nuova Libia resta tuttavia molto preoccupante perché, se da un lato si è proceduto nel luglio 2012 all'elezione del Congresso nazionale con funzioni di assemblea costituente e il paese ha superato la fase dei governi di transizione, sul piano della sicurezza tuttora le condizioni si presentano proibitive. Soprattutto il nostro paese, nonostante un recente grave attentato patito dal console italiano a Bengasi, mostra interesse a sostenere il percorso delle nuove autorità di Tripoli e la loro lotta contro l'estremismo e le possibili derive di tipo somalo della Libia.
A seguito delle proteste verificatesi a partire dal mese di febbraio 2011, lo Yemen ha avviato un processo di transizione costituzionale, sulla base di un piano di pace predisposto dal Consiglio di cooperazione del Golfo (organizzazione che riunisce Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Qatar, Oman e Yemen). Sulla base del piano, il 23 novembre 2011, il presidente della Repubblica Ali Abdullah Saleh (n. 1942) ha ceduto, dopo lunghe esitazioni, i poteri al vicepresidente Hadi, conservando il titolo di presidente onorario. Saleh era Capo dello Stato sin dalla riunificazione del paese nel 1990, dopo essere stato già presidente della Repubblica araba dello Yemen del Nord dal 1978.
Il piano di transizione prevedeva la costituzione di un governo di unità nazionale, effettivamente avvenuta nel dicembre 2011 (il governo è stato affidato all’esponente dell’opposizione a Saleh Mohammed Basindawa) e la convocazione di elezioni presidenziali, che si sono tenute il 21 febbraio, registrando la larghissima affermazione di Mansur Hadi, dal 1994 vicepresidente sotto Saleh, che in due anni dovrà garantire la redazione di una nuova Costituzione e lo svolgimento di elezioni multipartitiche.
Tuttavia, lo Yemen resta sotto alcune pesanti minacce, che vanno dalle rivendicazioni secessioniste alle attività di al Qaida nella penisola arabica, senza dimenticare la possibilità che l’ex presidente Saleh o più probabilmente esponenti del suo clan possano sfruttare le posizioni di rilievo che tuttora rivestono soprattutto nelle forze armate e di sicurezza yemenite.
Il provvedimento di rifinanziamento delle missioni militari italiane all'estero relativo alla seconda metà del 2011 - decreto-legge 12 luglio 2011, n. 107 -, recava rilevanti disposizioni relative all'impegno del nostro Paese nello scenario libico. Si tratta anzitutto dell'art. 4, comma 19, che autorizza per il periodo 1º luglio-30 settembre 2011 la spesa di circa 58 milioni di euro per la partecipazione italiana alle operazioni militari in Libia a protezione dei civili, in attuazione delle pertinenti risoluzioni dell'ONU. L'art. 2, poi, prevede la possibilità di "scongelare" le attività finanziarie della Libia in Italia a favore del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, in ottemperanza alle norme dell'Unione europea e alle decisioni del Gruppo di contatto sulla Libia (comma 2); nonché lo stanziamento di circa 2,3 milioni di euro per gli interventi a sostegno dei processi di stabilizzazione in Iraq e Libia (comma 4).
Il successivo decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 215 - che prorogava e rifinanziava le missioni internazionali per tutto il 2012 -, in considerazione del mutato scenario libico, ha previsto (art. 1, comma 16) la partecipazione di sole 100 unità di personale militare per assistenza, supporto e formazione in territorio libico; nonché (art. 1, comma 16-bis) l’autorizzazione al Ministero della difesa alla cessione gratuita al governo provvisorio libico di mezzi non più in uso alle Forze Armate italiane. Inoltre, l’art. 7, comma 3, include la Libia tra i paesi destinatari di iniziative volte a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e a sostenere la ricostruzione civile.
Infine sempre la Libia è stata oggetto di ulteriori interventi nel decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227 - che ha prorogato e rifinanziato la partecipazione italiana a missioni internazionali per il periodo 1° gennaio-30 settembre 2013 -, e segnatamente: la prosecuzione degli interventi di cui al già richiamato art. 1, comma 16 del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 215; la missione di personale della Guardia di Finanza per il ripristino dell’efficienza delle unità navali cedute al governo libico, per la loro manutenzione e per compiti di addestramento del personale locale in funzione di contrasto all’immigrazione clandestina; iniziative di cooperazione nei confronti, tra l’altro, della Libia e dei paesi ad essa limitrofi, al fine di assicurare il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e degli eventuali rifugiati e il sostegno alla ricostruzione civile.
Si segnala infine il decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89 – convertito con modificazioni dalla legge 2 agosto 2011, n. 129 -, recante tra l’altro disposizioni urgenti per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari, che nei mesi caratterizzati dalle crisi nordafricane è stata più volte al centro dell’attenzione politica nazionale ed europea.
Nella seduta delle Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato del 18 marzo 2011, i Ministri degli Affari esteri e della Difesa avevano già informato il Parlamento – prima ancora dell’intervento internazionale in Libia, avviato il 19 marzo - sugli ulteriori sviluppi della situazione libica in relazione all’approvazione della risoluzione n. 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al termine della seduta le Commissioni riunite Affari esteri e Difesa della Camera avevano approvato la risoluzione 7-00520: in pari data le le omologhe Commissioni del Senato avevano a loro volta approvato una risoluzione d'identico tenore. I due documenti d'indirizzo impegnano il Governo ad assicurare che l’Italia “partecipi attivamente, con gli altri Paesi disponibili ovvero nell’ambito delle organizzazioni internazionali di cui il Paese è parte, alla piena attuazione” della citata risoluzione ONU n. 1973.
Nel corso delle comunicazioni sulla crisi libica, rese alla Camera nella seduta del 24 marzo 2011, i Ministri degli Affari esteri e della Difesa illustravano gli sviluppi dell’intervento militare multilaterale: il dibattito si è concluso con l’approvazione di due risoluzioni, una presentata dalle forze di maggioranza (6-00071) e l’altra dall’opposizione (6-00072), che impegnano il Governo a proseguire nella cooperazione internazionale per la piena attuazione della risoluzione ONU n. 1973, nonché a perseguire un rinnovato approccio diplomatico per la soluzione della crisi.
L’Assemblea di Montecitorio, nelle sedute del 3 e 4 maggio 2011, ha iniziato e concluso la discussione di mozioni sull’impegno del nostro Paese in Libia, con particolare riferimento alla nuova fase di partecipazione dell’Italia ad attacchi aerei mirati in territorio libico. Il 27 aprile 2011, il ministro Frattini era appunto intervenuto, unitamente al suo collega titolare del Dicastero della Difesa, nella riunione delle Commissioni riunite Affari esteri e Difesa delle due Camere, per aggiornare il Parlamento circa gli sviluppi dello scenario libico alla luce della decisione assunta il 25 aprile dal presidente del Consiglio di concorrere agli interventi aerei della NATO su obiettivi strategici posti in territorio libico.
Altri interventi parlamentari sulla crisi politica e umanitaria in Nord Africa e Medio Oriente si sono avuti in due occasioni indirette, ovvero la riunione delle Commissioni Esteri e Politiche dell’Unione europea di Camera e Senato del 22 giugno 2011, nella quale il Ministro Frattini ha riferito in ordine all’imminente Consiglio europeo del 23-24 giugno, fornendo anche precisi ragguagli sulla situazione libica, come anche sulle iniziative europee per potenziare il partenariato con la sponda Sud del Mediterraneo e per far fronte al problema migratorio; nonché la seduta congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa dei due rami del Parlamento del 13 luglio 2011, dedicata parimenti a comunicazioni del Governo, ma sugli sviluppi relativi alle missioni internazionali cui l’Italia partecipa, e nel corso della quale i Ministri degli Esteri e della Difesa hanno toccato anche i temi della difficile situazione del conflitto in Libia, oltre alla situazione dei flussi migratori verso il nostro Paese in conseguenza della crisi libica. Si segnala anche la seduta della Commissione Esteri del 5 ottobre 2011, nel corso della quale è stato affrontato anche il tema dei rapporti dell’Unione europea con gli altri paesi del Mediterraneo nel nuovo scenario successivo alla primavera araba.
Nella seduta del 7 settembre 2011 delle Commissioni Esteri congiunte della Camera e del Senato si era peraltro svolta l’audizione del Ministro degli Affari esteri Frattini sugli sviluppi più recenti della crisi libica, nel corso della quale l'On. Frattini ha riferito sulle vicende della caduta della capitale libica, auspicando un clima di riconciliazione nel quale vi sia posto per numerosi appartenenti all'apparato statale del passato regime non macchiatisi di crimini - evitando i drammatici errori compiuti in Iraq.
Il nuovo Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi riferiva alle Commissioni Esteri riunite della Camera e del Senato (seduta del 30 novembre 2011) in ordine alle linee programmatiche del suo Dicastero: il Ministro, tra l’altro, individuava i rapporti con l’area mediterranea come una delle quattro dimensioni fondamentali della missione del Ministero, soffermandosi sia sull’intera regione che sui casi particolari di Egitto, Tunisia e Libia. Sulla sola situazione libica aveva in precedenza fatto rapidi accenni il suo predecessore On. Frattini, riferendo in via principale alle Commissioni riunite Esteri, Bilancio e Politiche dell'Unione europea dei due rami del Parlamento (seduta del 19 ottobre 2011) in ordine ai temi all'ordine del giorno dell'imminente Consiglio europeo del 23 ottobre 2011.
Nella seduta del 15 febbraio 2012 il Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi veniva poi ascoltato dalle Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato in ordine ai recenti sviluppi politici nella regione mediterranea. Problematiche affini, ma con specifico riferimento all’Egitto, erano emerse in Commissione Esteri il 14 marzo 2012, con le comunicazioni del presidente sulla missione in Egitto svoltasi dal 6 all’8 marzo. Sul significato globale delle rivoluzioni arabe vi era stato modo di discutere in Commissione Esteri il 29 febbraio 2012, con le comunicazioni del presidente riguardanti, tra l’altro, la riunione appositamente tenuta il 24 gennaio dal Parlamento europeo.
Il 6 giugno 2012 il Ministro degli Esteri Giulio Terzi ha aggiornato il Parlamento, nella seduta delle Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato, sull’evoluzione della situazione nello scenario di crisi mediterraneo e mediorientale, che era stato altresì uno dei temi principali trattati negli incontri della missione a Washington che una delegazione della Commissione Esteri aveva svolto presso il Congresso e il Dipartimento di Stato, nonché presso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, e sui quali è stato riferito nella seduta del 30 maggio 2012.
Le criticità per l’Italia derivanti dalla situazione libica e le linee-guida del Governo per la gestione dell'emergenza umanitaria prodottasi nell'area mediterranea sono state più volte oggetto di informative del Governo al Parlamento, in particolare nelle sedute del: 23 marzo, 7 e 12 aprile, 31 maggio, 3 agosto e 28 settembre 2001. L’Assemblea della Camera, poi, nelle sedute del 16 e del 18 gennaio 2012, ha discusso e votato mozioni in ordine alla cooperazione con il Governo libico per la gestione dei flussi migratori originati dalla Libia durante il recente conflitto. Si ricorda altresì, in riferimento alla tutela degli interessi delle imprese italiane coinvolte dalle crisi nordafricane, con particolare riguardo all’Egitto, alla Libia ed alla Tunisia, l’approvazione di una risoluzione (13 aprile 2011) da parte della Commissione Affari esteri, per iniziativa dell'on. Tempestini.
Si ricorda anche l'indagine conoscitiva sugli obiettivi della politica mediterranea dell'Italia nei nuovi equilibri regionali, che la Commissione Esteri ha deliberato il 21 febbraio 2012, approvando il documento conclusivo il 22 gennaio 2013.
Nell’ambito di un’altra indagine conoscitiva, quella su diritti umani e democrazia condotta dal Comitato permanente sui diritti umani della Commissione Esteri, si è svolta il 27 marzo 2012 l’audizione di rappresentanti di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nella Libia post-Gheddafi; nonché, sulla più complessiva situazione nel Nord Africa e Medio Oriente, un’altra audizione di rappresentanti di Amnesty International (10 luglio 2012). Il 30 ottobre 2012 la stessa indagine conoscitiva ha ospitato l’audizione di alcune attiviste per i diritti umani e delle donne nel mondo islamico.
Osservatorio di politica internazionale
Il quadro istituzionale
La Repubblica popolare democratica di Algeria è, dal punto di vista della forma di governo, un sistema presidenziale. Il Presidente della Repubblica è eletto direttamente dai cittadini con un mandato di cinque anni. A seguito della revisione costituzionale della fine del 2008, è stata soppressa la previsione di un limite di due mandati presidenziali ed attualmente il Capo dello Stato può essere rieletto per un numero indeterminato di mandati. Spetta a lui la nomina del Primo Ministro che presiede il Consiglio dei Ministri.
Il Parlamento è bicamerale. L’Assemblea popolare nazionale è composta da 462 membri, eletti a suffragio universale diretto con sistema proporzionale. Una decreto presidenziale del 7 febbraio 2012 ha ampliato il numero di seggi, che prima erano 389. Il Consiglio della Nazione è composto di 144 membri, eletti per due terzi in modo indiretto dai componenti delle assemblee locali e per un terzo nominati dal Presidente della Repubblica.
La situazione politica interna
Capo dello Stato, dal 1999, è Abdelaziz Bouteflika (n. 1937).
La prima elezione di Bouteflika ha segnato la fine di un lungo periodo di guerra civile iniziata nel gennaio 1992 allorché l’Esercito annullò il risultato delle elezioni vinte dal Fronte islamico di salvezza (FIS) nel dicembre 1991 e dichiarò uno stato di emergenza durato fino al 2011. Bouteflika è stato rieletto una seconda volta nel 2004, e dopo aver emendato la costituzione nel 2008 per rimuovere il limite di due mandati presidenziali, anche una terza volta nel 2009.
L’elezione del 2009, vinta da Bouteflika con il 90,24% dei consensi è stata però boicottata da importanti partiti di opposizione come il Fronte delle Forze socialiste, il Rassemblement per la Cultura e la Democrazia e il Partito islamista Nahdha, che hanno giudicato non sussistenti le condizioni per un voto corretto e trasparente.
A partire dal gennaio 2011 l’Algeria è stata scossa dalle proteste della “Primavera araba”. Un aumento dei prezzi dei beni alimentari di prima necessità e un incremento della disoccupazione hanno portato a rivolte in tutte le zone del Paese. Migliaia di studenti sono scesi in piazza per manifestare contro il malfunzionamento dell’Università. Nel mese di gennaio diciotto persone hanno tentato di immolarsi dandosi fuoco. La risposta del governo è stata un immediato abbassamento del prezzo dello zucchero e dell’olio da cucina, ma ciò non è bastato ad impedire ai partiti dell’opposizione di sinistra di spostare le proteste in un contesto politico più ampio.
Il 21 gennaio 2011 i rappresentanti del Fronte delle Forze socialiste, del Partito della Libertà e della Giustizia, del Movimento Socialdemocratico, della Lega algerina per i Diritti Umani e del Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia si sono incontrati ad Algeri ed hanno dato vita al Coordinamento nazionale per il Cambiamento e la Democrazia.
Di fronte a questa forte opposizione il Presidente Bouteflika è stato costretto, il 3 febbraio, ad annunciare la revoca dello stato di emergenza in tutta l’Algeria fatta eccezione per la capitale. Pochi giorni dopo i partiti d’opposizione hanno radunato migliaia di manifestanti nelle piazze per chiedere le dimissioni del Presidente. L’Esecutivo da parte sua ha risposto promettendo riforme istituzionali ed economiche che i partiti della sinistra hanno però giudicato insufficienti.
Le elezioni politiche del maggio 2012 sono state fortemente influenzate dagli avvenimenti dell’anno precedente. La coalizione di governo composta dal Fronte di liberazione nazionale (FLN) del Presidente Bouteflika e dal Raggruppamento democratico nazionale (RND) del Primo Ministro Ahmed Ouyahia hanno dovuto fronteggiare la sfida lanciata dai partiti di sinistra e da quelli islamico-moderati che pochi giorni prima delle elezioni hanno abbandonato il Governo (avevano quattro ministri) per passare all’opposizione.
A differenza degli altri Paesi del Maghreb investiti dall’ondata di rivolta, in Algeria le forze islamiche non sono riuscite ad ottenere la maggioranza, neppure quella relativa (come è invece accaduto in Marocco). Il blocco islamico, la Coalizione Verde Algerina, è diventato la terza forza politica del Paese con 49 seggi. Il Fronte delle Forze Socialiste, che aveva animato le proteste del 2011, si è piazzato quarto con 27 seggi. La vittoria è invece andata alla coalizione di governo. Il FLN e il RND hanno conquistato rispettivamente 208 e 68 seggi, circa il 60% del totale.
Primo Ministro dal settembre 2012 è Abdelmalek Sellal (n.1948), scelto dal Presidente Bouteflika quattro mesi dopo le elezioni parlamentari. Il nuovo capo dell’esecutivo non appartiene a nessun partito politico ma è ritenuto molto vicino al FLN e ha già ricoperto varie cariche: ambasciatore in Ungheria, Ministro dell’Interno, della Gioventù, dei Lavori pubblici, e dei Trasporti.
A parere di alcuni analisti internazionali, il risultato di queste elezioni e la vittoria della coalizione formata da FLN e RND sembrano aver decretato che l’Algeria è passata immune attraverso i rivolgimenti della “Primavera Araba”. Le forze vicine al presidente Bouteflika sono rimaste al potere e il FIS che vinse le elezioni del 1991 (poi annullate dall’intervento dell’Esercito) continua ad essere bandito dall’agone politico.
Tuttavia, il Presidente non ha potuto ignorare i grossi problemi sociali da cui sono scaturite le proteste del 2011. In particolare si continuano a registrare un’alta disoccupazione giovanile, una distribuzione diseguale dei proventi della vendita degli idrocarburi, costi molto elevati del cibo e degli affitti. Di fronte a questa situazione esplosiva il FNL è stato costretto a promettere durante la campagna elettorale che ha preceduto le ultime elezioni parlamentari una serie di interventi: 156 miliardi di dollari di investimenti in progetti infrastrutturali per il biennio 2012 – 2014, tra cui case e ferrovie; un aumento del finanziamento ai giovani disoccupati affinché possano intraprendere una propria attività; prestiti pubblici per un valore di 23 miliardi di dollari.
Si calcola che il Governo abbia cercato di dare una risposta al malcontento popolare aumentando la spesa pubblica del 50% nel corso degli ultimi due anni.
Le risorse energetiche
L’Algeria è un Paese che ricava la maggior parte delle sue risorse economiche dalla produzione di gas e petrolio. La vendita degli idrocarburi corrisponde al 60% delle entrate del bilancio nazionale e al 30% del PIL. Circa il 60% della forza lavoro algerina è impiegata in questo settore.
L’Algeria oltre ad essere un membro dell’ONU e dell’Unione Africana fa anche parte dell’OPEC (l’organizzazione che riunisce i Paesi esportatori di petrolio).
Attualmente l’Algeria fornisce all’Italia il 35% del gas necessario al Paese principalmente attraverso un gasdotto che passa attraverso la Tunisia e sotto il Mediterraneo. E’ in atto un progetto per la realizzazione di un nuovo gasdotto che dovrebbe unire Koudiet Draouche (sulla costa algerina) a Piombino passando per la Sardegna.
Del consorzio che si occupa della realizzazione del progetto fanno parte la Sonatrach (una società algerina), l’Edison, l’Enel produzione, la Sfirs (la finanziaria della Regione Sardegna) e il gruppo HERA. Il 2 dicembre 2012 la Sonatrach, che controlla il 41,6% del consorzio, ha fatto sapere che la decisone finale sulla realizzazione dell’opera sarà posticipata al 30 maggio 2013.
Rispetto delle libertà politiche e civili
L’Algeria è definita dal Democracy Index 2011 e dll’Economist Intelligence Unit “regime autoritario” . Per quel che concerne il rispetto delle libertà politiche e civili, si segnala che la creazione dei partiti è subordinata all’autorizzazione del Ministero dell’Interno. Esistono comunque più partiti riconosciuti. Inoltre, anche i mezzi di comunicazione di massa appaiono sotto il controllo del governo, mente esiste una stampa indipendente, pure sottoposta a pressioni da parte delle autorità governative (anche se in misura minore di quanto avvenuto nel corso della guerra civile degli anni Novanta). In particolare, per quanto concerne Internet, il numero degli utenti algerini è cresciuto più di venti volte in otto anni, passando dai 150.000 del 2000 a circa 3 milioni e mezzo nel 2008
Indicatori internazionali sul paese:
• Libertà politiche e civili: Stato “non ibero” (Freedom House 2012); “regime autoritario”” (130 su 167; Economist Intelligence Unit 2011)
• Indice della libertà di stampa: 122 su 179 (Reporters sans frontières 2011 – 2012)
• Libertà di Internet: nessuna evidenza di filtraggio dei siti (OpenNet Initiative 2009)
• Libertà religiosa: disposizioni legali assai restrittive per quanto concerne l’esercizio di attività di culto non islamiche (ACS 2012); gruppi religiosi non islamici incontrano serie difficoltà nel processo di registrazione richiesto dal governo (USA 2011).
• Corruzione percepita: 112 su 182 (Transparency International 2011)
• Libertà economica: Stato “prevalentemente non libero” (140 su 179; Heritage Foundation 2012)
• Gap nelle differenze di genere: 120 su 135 (World Economic Forum 2012)
• PIL 2013: +3,38% (International Monetary Fund, ottobre 2012)
(Gli indicatori internazionali sul paese, ripresi da autorevoli centri di ricerca, descrivono in particolare: la condizione delle libertà politiche e civili secondo le classificazioni di Freedom House e dell’Economist Intelligence Unit; la posizione del Paese secondo l’indice della corruzione percepita predisposto da Transparency International (la posizione più alta nell’indice rappresenta una situazione di minore corruzione percepita) e secondo l’indice della libertà di stampa predisposto da Reporters sans Frontières (la posizione più alta nell’indice rappresenta una situazione di maggiore libertà di stampa); la condizione della libertà di Internet come riportata da OpenNet Initiative; la condizione della libertà religiosa secondo il rapporto annuale di “Aiuto alla Chiesa che soffre” (indicato con ACS) e del Dipartimento di Stato USA (indicato con USA); la condizione della libertà economica come riportata dalla Heritage Foundation; la misura delle differenze di genere secondo il Global Gender Gap Index pubblicato dal World Economic Forum (la posizione più alta nell’indice rappresenta una situazione di maggiore uguaglianza); le stime sulla crescita del PIL secondo il World Economic Outlook Database pubblicato nell’ottobre 2012 dal Fondo Monetario Internazionale).
Il primo turno delle elezioni presidenziali egiziane, che si è svolto il 23 e 24 maggio 2012 ha determinato i seguenti risultati:
Nonostante si trattasse di elezioni storiche per il paese, l’affluenza alle urne, hanno rilevato gli osservatori, è risultata piuttosto bassa, con un dato fermo al 46,42 per cento (circa 23.672.236 votanti).
Morsi e Shafiq si sono quindi contesi la presidenza al secondo turno, celebrato il 16 e il 17 giugno.
L’esito del voto ha visto prevalere Mohammed MORSI con il 51.7% dei suffragimentre Ahmed SHAFIQ si è fermato al 48.3%.
Mursi, nato nel 1959, proviene dalla provincia di Sharqiya (Egitto settentrionale), dove è cresciuto nelle fila della Fratellanza musulmana. Negli anni Ottanta ha ottenuto un dottorato in ingegneria in California e, presentandosi come indipendente, nel 2005 è stato eletto deputato, aumentando da allora la propria influenza in seno alla Fratellanza. È stato membro del Consiglio Esecutivo del movimento, portavoce della Guida Suprema e, nel giugno 2011, fondatore del Partito di libertà e giustizia, che pur formalmente indipendente, è da considerarsi espressione politica della Fratellanza..
Sulla base delle riforme costituzionali predisposte dalla Commissione istituita dal Consiglio supremo delle forze armate e approvate con referendum nel marzo 2011 il Presidente, eletto direttamente, avrà un mandato di cinque anni e sarà rieleggibile una sola volta.
La proclamazione ufficiale della vittoria di Morsi si è avuta il 24 giugno: il giuramento del Presidente, non essendo in funzione il Parlamento, a causa dello scioglimento deciso a seguito di una decisione della Corte costituzionale, è avvenuto il 30 giugno innanzi alla Corte stessa. Tale richiesta era stata avanzata dalle Forze armate il cui capo, il maresciallo Tantawi, ha rispettato la previsione del passaggio dei poteri al nuovo presidente. Come è noto, il 29 giugno Morsi aveva tenuto a Piazza Tahrir, un discorso, non scevro da elementi giudicati populistici, con il quale il neopresidente aveva fatto in modo di far scaturire proprio dalla piazza la propria investitura.
Le reazioni internazionali all'elezione di Morsi al vertice dell'Egitto sono state generalmente favorevoli, sia da parte dei paesi occidentali - che hanno posto l'accento soprattutto sugli aspetti di completamento del processo democratico - sia da parte di paesi arabi e mediorientali, incluso l'Iran – con il quale l’Egitto non ha più relazioni diplomatiche dalla rivoluzione khomeinista del 1980. Con grande entusiasmo la vittoria di Morsi è stata salutata a Gaza, retta da Hamas, che deriva proprio da una costola della Fratellanza egiziana; ma anche dal Consiglio nazionale siriano in lotta con il regime di Assad. Più sfumata è, comprensibilmente, la posizione di Israele, il cui premier Netanyahu ha espresso apprezzamento per il processo democratico egiziano e rispetto per l'esito di esso, non omettendo tuttavia di accennare alle aspettative israeliane di poter proseguire la cooperazione con l'Egitto sulla base degli accordi di pace fra i due paesi - che peraltro Morsi, subito dopo la proclamazione della sua vittoria, ha affermato di voler continuare ad onorare.
Gli Stati Uniti, in particolare, si sono congratulati con il popolo egiziano per l’importante risultato democratico raggiunto con l'elezione del nuovo presidente, richiamando però parallelamente alla necessità del rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze religiose, prima fra tutte quella dei cristiano-copti.
I primi giorni di luglio sono stati connotati da una serie di colpi di scena istituzionali, a partire dal decreto dell'8 luglio con il quale Morsi ha annullato la decisione del Consiglio supremo militare del 15 giugno che - sulla base della sentenza della Corte costituzionale che aveva annullato la normativa che aveva consentito l'elezione di un terzo dei parlamentari - si era spinta fino a decretare lo scioglimento dell'intero Parlamento.
La reviviscenza dell'Assemblea del popolo, peraltro, è stata limitata fino alle elezioni parlamentari che dovranno seguire entro due mesi dall'approvazione della nuova Costituzione - anche qui tuttavia è stata messa in dubbio la legittimità dell'Assemblea di 100 componenti riunitasi per la prima volta il 18 giugno, in quanto a sua volta designata dall’Assemblea del popolo sciolta subito dopo.
Il 10 luglio la Corte costituzionale sospendeva il decreto dell'8 luglio del presidente Morsi: nel contempo l'Assemblea del popolo, riunitasi solo per 12 minuti, decideva di rinviare alla Corte di cassazione la sentenza della Corte costituzionale sulla parziale illegittimità della legge elettorale che aveva consentito tra il 2011 e il 2012 l’elezione della medesima Assemblea. Il suo presidente, Saad Katatni, ha tenuto a precisare sottilmente che il decreto dell'8 luglio del presidente Morsi non ha colpito la sentenza della Corte costituzionale, ma la conseguente decisione adottata dal Consiglio militare, che ha determinato lo scioglimento dell'intero Parlamento.
L’11 luglio, Morsi si è recato in Arabia saudita per la prima visita di Stato del suo mandato, assai delicata, poiché riguarda un paese che, notoriamente, aveva sempre sostenuto con forza il regime di Mubarak, e senz'altro teme una possibile estensione della Primavera Araba, come anche le ventilate ma non confermate aperture dell'Egitto all'Iran.
Di ritorno dall'Arabia saudita, il 13 luglio Morsi ha ricevuto il presidente tunisino Marzuki. Nonostante le diverse impostazioni politiche, i due capi di Stato hanno convenuto su una medesima linea sia nei confronti della crisi siriana che in ordine alla questione palestinese - e in particolare alla riconciliazione tra Fatah a Hamas, rispetto ai quali, nonostante l'oggettivo legame tra i Fratelli musulmani egiziani e Hamas, Morsi ha dichiarato di essere equidistante.
Ben più rilevante è stato senz'altro il viaggio del Segretario di Stato USA Hillary Clinton in Egitto (14-15 luglio), dove ha incontrato sia il presidente Morsi che il vertice del Consiglio militare, il maresciallo Tantawi. La posizione americana è stata piuttosto netta nel sostegno completo al passaggio dell'Egitto verso un governo civile, con il ritorno dei militari al ruolo loro precipuo del mantenimento e della garanzia della sicurezza.
Il presidente Morsi ha assicurato che l'Egitto continuerà a rispettare gli accordi internazionali, e ciò è stato salutato con favore dagli Stati Uniti, soprattutto in riferimento agli accordi di pace del 1979 con Israele. Hillary Clinton non ha mancato di ricordare al presidente Morsi la necessità del rispetto dei diritti delle minoranze e delle donne, e ha assicurato al Cairo un contributo di 250 milioni di dollari a sostegno delle piccole e medie imprese egiziane nel difficile momento che il paese tuttora attraversa.
Intanto, i verdetti della Corte di cassazione di cui era attesa la pronuncia, a partire dal 17 luglio, su numerosi ricorsiriguardanti lo scioglimento del Parlamento, lo scioglimento dell'Assemblea costituente e anche il Decreto presidenziale di ripristino dei poteri dell'Assemblea del popolo (e in ordine ai quali Morsi aveva stemperato i toni, affermando di voler rispettare tutte le sentenze), non hanno avuto esito in un quadro definitivo. Il tribunale, infatti, si è dichiarato incompetente sul decreto del presidente Morsi di riconvocazione dell’Assemblea del popolo, rinviando la questione alla Corte costituzionale mentre la decisione sui ricorsi per lo scioglimento dell’Assemblea costituente è stata differita al 30 luglio.
Nella stessa giornata del 17 luglio Hisham Kandil, un funzionario del ministero delle risorse idriche che egli stesso ha diretto l’anno, ha ricevuto dal Capo dello Stato l’incarico di formare il nuovo governo.
Il 26 luglio al Cairo si è svolto il primo incontro tra il ministro degli esteri Giulio Terzi ed il presidente Mohammed Morsi. Nel corso dei colloqui il ministro ha affermato il sostegno del nostro paese al processo di transizione democratica in Egitto, che sta attraversando ora una fase particolarmente delicata con il perdurare del confronto tra capo dello Stato e militari. Il presidente egiziano, per il quale si prospetta nei prossimi mesi una visita in Italia, ha assicurato che gli investimenti e le imprese italiane, grandi e piccole, saranno garantite e accolte in un clima amichevole.
La nuova leadership egiziana ha confermato al ministro Terzi, rappresentante del primo partner commerciale europeo dell'Egitto, la ''fortissima volonta''' di garantire gli investimenti italiani e di continuare a sviluppare una cooperazione economica. In questo quadro – riportano fonti di agenzia - Roma auspica una rapida conclusione dell'accordo tra Egitto e Fmi che garantirebbe al Paese un prestito da 3,2 miliardi di dollari, più risorse aggiuntive dalla Banca mondiale e dalla Banca africana di sviluppo. Nei colloqui con Hussein Tantawi, e con gli altri esponenti politici di vertice, Terzi ha fatto il punto sulla situazione nella regione, con particolare riferimento alla Siria.
Il Parlamento, in costante raccordo con il Governo, segue sin dalle sue prime manifestazioni la crisi politica che ha investito anzitutto la Tunisia, e successivamente l'Egitto, la Libia e la Siria. Con riferimento alla grave crisi siriana, il decreto-legge n. 58 del 2012 ha disciplinato la partecipazione di un nucleo di militari italiani non armati alla missione di osservatori internazionali prevista dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 2043 del 21 aprile 2012, mentre il successivo decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227 ha finanziato iniziative di cooperazione in favore, tra l'altro, della Siria e dei Paesi ad essa limitrofi.
La crisi siriana , tuttora in corso e della quale non si intravedono facilmente soluzioni praticabili, iniziava alla metà di marzo 2011, anch’essa sull’onda dei cambiamenti già avvenuti in Tunisia ed Egitto. La repressione del regime, subito avviata contestualmente ad iniziative di facciata o promesse di apertura, si mostrava spietata ed efficace, ma destava quasi immediate reazioni internazionali, con gli Stati Uniti e soprattutto l’Unione europea in prima fila – Bruxelles approvava l’embargo sugli armamenti nei confronti di Damasco, e congelava la firma dell’Accordo di associazione UE-Siria. D’altra parte, la Siria trovava solidi alleati nella Cina e soprattutto nella Russia, il che bloccava ogni iniziativa in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che comunque il 3 agosto si pronunciava con una semplice Dichiarazione presidenziale contro le violazioni dei diritti umani in corso in Siria.
La situazione siriana provocava intanto le prime difficili iniziative di aggregazione delle opposizioni, tuttavia nettamente divise tra chi operava nel paese e quanti si trovavano all’estero. Iniziava anche un flusso di profughi nei paesi vicini, e soprattutto in Turchia. A partire da agosto emergeva in modo sempre più irreversibile la sfiducia di larga parte della Comunità internazionale nei confronti di Assad, e nel mese successivo gli scontri vedevano la partecipazione di nuclei di disertori dalle forze armate siriane. Il 5 ottobre un progetto di risoluzione presentato da alcuni Stati europei veniva bloccato in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU dal veto russo e cinese, ma anche dall’astensione significativa di paesi come India, Brasile, Sudafrica e Libano.
In questo contesto assumeva importanza l'iniziativa della Lega araba, che dopo difficilissime trattative, e nel proseguire degli scontri sul terreno siriano, dopo essersi spinta a sospendere la Siria dall'Organizzazione riusciva finalmente ad imporre a Damasco (19 dicembre 2011) l'accettazione di una missione di circa 500 osservatori arabi sul proprio territorio. Tuttavia, l'iniziativa araba già un mese dopo si mostrava del tutto incapace di frenare le violenze in corso nel paese soprattutto da parte delle forze governative, tanto che l'Arabia saudita annunciava il ritiro dei propri osservatori ed emergeva progressivamente anche da parte dei paesi arabi il disegno di portare la questione siriana al Palazzo di Vetro. Soprattutto la riunione del 12 febbraio 2012 della Lega araba al Cairo segnava il punto di svolta: gli Stati araba concordavano in quella sede la richiesta alle Nazioni Unite di promuovere una forza di pace congiunta con la Lega araba, nonché l’incriminazione secondo il diritto internazionale dei responsabili dei massacri in corso. La Lega araba apriva pure con chiarezza al fronte degli oppositori al regime di Assad.
Mentre emergevano concreti segnali della possibilità di infiltrazione di elementi del terrorismo internazionale per sfruttare l'instabilità della Siria, le Nazioni Unite e la Lega Araba giungevano infine ad incaricare l'ex Segretario dell'ONU Kofi Annan di un’iniziativa diplomatica a tutto campo per far fronte alla questione siriana. Il 21 marzo il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava una Dichiarazione, stavolta con l'appoggio di Russia e Cina, nella quale si chiedeva a Damasco di attuare prontamente le proposte di Kofi Annan, a partire dal ritiro delle forze militari dalle città e dal rilascio di tutti coloro che fossero stati arbitrariamente arrestati. L'attuazione del piano Annan effettivamente iniziava il 12 aprile con una temporanea cessazione delle ostilità, e nel nuovo clima due giorni dopo il Consiglio di sicurezza approvava la risoluzione n. 2042, che prevedeva l'invio di una missione esplorativa di non più di 30 osservatori militari disarmati in Siria per il monitoraggio del rispetto del cessate il fuoco. Mentre vi erano già i primi segnali di cedimento della tregua, il 21 aprile il CdS approvava una seconda risoluzione, la n. 2043, per l’invio di un contingente di non più di 300 osservatori militari disarmati, accompagnati da una componente civile. Anche questa missione avrebbe dovuto monitorare il rispetto del cessate il fuoco, con un mandato iniziale di 90 giorni.
I massacri tuttavia continuavano, mentre le opposizioni non si mostravano all’altezza della situazione, continuando nelle loro endemiche divisioni – espressione probabilmente dell’estrema frammentazione etnica e confessionale del paese. In tal modo il ruolo della missione ONU scemava progressivamente, e gli osservatori si ritiravano il 16 giugno nelle loro caserme. L’abbattimento di un jet militare turco apriva intanto un altro fronte di tensione per la Siria, mentre un altro fallimento si registrava con la Conferenza internazionale di Ginevra del 30 giugno. Così, nell’ambito di un progressivo stallo della diplomazia, gli scontri sul terreno assumevano sempre più il profilo di veri e propri combattimenti militari, superando il precedente schema della repressione nei confronti di cittadini inermi. Per di più, gli scontri si avvicinavano sempre più al cuore della capitale, fino a che il 18 luglio un attentato alla sede della sicurezza nazionale provocava la morte del ministro della difesa e di due alti funzionari impegnati a dirigere le attività repressive. In questo contesto perdeva ogni significato il prolungamento di 30 giorni della missione ONU, e, mentre i combattimenti si estendevano massicciamente anche ad Aleppo, seconda città della Siria, il 2 agosto Kofi Annan gettava la spugna, constatando le insuperabili divisioni nella Comunità internazionale – persino l’Assemblea generale dell’ONU giungeva a deplorare irritualmente lo stallo in seno al Consiglio di sicurezza. Emergeva frattanto che anche da parte delle opposizioni, seppure in misura minore, si commettevano atrocità nell’ambito degllo scontro sempre più esteso. Il Consiglio di sicurezza il 16 agosto poneva fine alla missione di osservatori, nominando Lakhdar Brahimi al posto di Kofi Annan.
Sono così cresciuti i rischi di un’estensione regionale del conflitto siriano: resi acuti dal lancio di alcuni proiettili di artiglieria sul territorio turco e nel Golan occupato da Israele e con il sequestro, da parte di Ankara, di un velivolo proveniente da Mosca, sospettato di trasportare armi per le forze del regime siriano. Sempre Ankara si poneva al centro della tensione con la richiesta alla NATO di missili “Patriots” per la difesa dei propri confini con la Siria.
Per quanto riguarda le opposizioni, nel novembre 2012 queste sembrano aver trovato un punto di sintesi dando vita alla Coalizione nazionale, subito ampiamente riconosciuta nel mondo arabo, come anche dalla Turchia, dalla Francia, dall’Italia e dal Regno Unito – solo il 12 dicembre è venuto il riconoscimento da parte degli USA, che intanto hanno più volte ammonito la Siria a non tentare di dispiegare armamenti chimici ne all’interno né sui confini, pena una reazione durissima (anche Israele comprensibilmente segue la questione con particolare apprensione).
All’inizio del 2013 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani stimava ormai a circa 60.000 le vittime del conflitto siriano, con due milioni di sfollati interni e mezzo milione di profughi nei paesi vicini.
Sul piano degli interventi legislativi connessi alla crisi siriana, si segnalano le disposizioni del decreto-legge 15 maggio 2012, n. 58 riguardanti la partecipazione di militari italiani non armati in qualità di osservatori internazionali incaricati dell’attuazione del Piano Annan in Siria, nell’ambito della missione delle Nazioni Unite, denominata UNSMIS, prevista dalla risoluzione 2043 del Consiglio di sicurezza.
Successivamente, l’art. 5, comma 2 del decreto-legge 28 dicembre 2012, n. 227 ha finanziato iniziative di cooperazione in favore, tra l’altro, della Siria e dei Paesi ad essa limitrofi, iniziative volte ad assicurare il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e dei rifugiati, nonché il sostegno alla ricostruzione civile.
Nella riunione delle Commissioni Esteri e Politiche dell’Unione europea di Camera e Senato del 22 giugno 2011, il Ministro Frattini riferiva in ordine all’imminente Consiglio europeo del 23-24 giugno, fornendo anche precisi ragguagli, tra l’altro, sulla situazione siriana; il Ministro, assieme al suo collega della Difesa, tornava a toccare i temi del conflitto siriano nella seduta congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa dei due rami del Parlamento del 13 luglio 2011, dedicata a comunicazioni del Governo sugli sviluppi relativi alle missioni internazionali cui l’Italia partecipa.
La situazione della Siria veniva inoltre affrontata con atti parlamentari d'indirizzo : infatti l' 11 e il 27 luglio 2011 l’Assemblea della Camera ha discusso e votato mozioni sulle iniziative relative alla crisi siriana. I due documenti approvati impegnano il Governo italiano, anche con opportuni passi nelle sedi internazionali, ad esercitare le dovute pressioni sulla Siria perché desista dalle violenze contro la popolazione che protesta, e a monitorare gli sviluppi regionali nel delicatissimo scacchiere mediorientale.
Nella seduta del 2 agosto 2011, poi, il Governo ha reso un’informativa urgente alla Camera sui recenti sviluppi della situazione in Siria. Successivamente, la difficile situazione del paese arabo è stata oggetto dell’audizione dell’attivista per i diritti umani Shady Hamadi, svoltasi il 21 dicembre 2011 nell’ambito dell’indagine conoscitiva su diritti umani e democrazia dell’apposito Comitato permanente della Commissione Esteri della Camera.
Il Ministro degli Affari esteri Giulio Terzi, di fresca nomina, aveva peraltro riferito alle Commissioni Esteri riunite della Camera e del Senato (seduta del 30 novembre 2011) in ordine alle linee programmatiche del suo Dicastero: il Ministro aveva, tra l’altro, definito il regime siriano come ormai privo di ogni legittimità, appoggiando le iniziative internazionali ed europee per un inasprimento dei regimi sanzionatori nei confronti di Damasco.
Nella seduta del 9 maggio 2012 delle Commissioni riunite Esteri e Difesa si sono poi svolte comunicazioni del Governo, nell’ambito dei tentativi di attuazione del piano di Kofi Annan, sull’invio in Siria di personale militare non armato, in qualità di osservatori, in attuazione delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nn. 2042 e 2043 del 14 e 21 aprile 2012. Il rappresentante dell’Esecutivo, dopo aver ripercorso le tappe della crisi siriana e degli sforzi della Comunità internazionale per porvi termine; sottolineava l’urgenza umanitaria della situazione siriana, che riveste oltretutto per l’Italia un decisivo interesse geopolitico – senza dimenticare i possibili effetti negativi di essa sulla presenza del nostro contingente nella missione UNIFIL in Libano. Il Consiglio dei ministri deliberava pertanto la partecipazione italiana alla missione di osservatori delle Nazioni Unite, mettendo a disposizione 17 nominativi, tra i quali il Dipartimento per le operazioni di peace-keeping dell’ONU ne designava in un primo momento 5.
Il 6 giugno 2012 il Ministro degli Esteri Giulio Terzi ha aggiornato il Parlamento, nella seduta delle Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato, sull’evoluzione della situazione siriana e sugli altri scenari di crisi della regione mediterranea.
La Siria è così venuta sempre più in primo piano nell’attività di indirizzo del Parlamento: nella seduta del 25 luglio 2012 le Commissioni Esteri riunite dei due rami del Parlamento hanno svolto l’audizione del Ministro degli affari esteri, Giulio Terzi di Sant'Agata, sui recenti sviluppi della situazione in Siria nel quadro regionale. In precedenza, il 18 giugno 2012, l’Assemblea della Camera aveva avviato la discussione di mozioni di iniziativa degli Onn.li Di Pietro e Cicchitto – rispettivamente la n. 1-00975 e la n. 1-00986, dedicate alle iniziative in ambito internazionale e comunitario in relazione alla situazione in Siria. Il 19 giugno, d'altra parte, la Commissione Affari esteri ha discusso e approvato la risoluzione n. 7-00852 dell’On. Pistelli sulle responsabilità del Presidente Assad per le violazioni dei diritti umani nella crisi in atto in Siria: la risoluzione impegna il Governo ad attivare le procedure per la revoca dell’onoroficenza – quella dell’ordine al merito della Repubblica italiana - concessa nel 2010 al Presidente siriano in occasione di una sua visita ufficiale. L'onorificenza veniva poi effettivamente revocata, come da comunicato del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica del 31 ottobre 2012.
La crisi siriana è stata da ultimo trattata nella seduta del 18 dicembre 2012 delle Commissioni riunite Esteri, Bilancio e Politiche dell'Unione europea della Camera ed Esteri e Politiche dell’Unione europea del Senato, in occasione delle comunicazioni del Governo sugli esiti del Consiglio europeo del 13 e 14 dicembre 2012.
Dopo cinque giorni, le manifestazioni in corso a Daraa venivano represse duramente dalle forze dell’ordine il 23 marzo 2011: fonti ospedaliere riportavano il dato di 37 morti, mentre per gli organizzatori delle manifestazioni il bilancio sarebbe stato più grave, con circa 100 morti. Il 24 marzo il consigliere del presidente Assad Bhutayana Shaaban annunciava l’avvio di un processo di riforme, attraverso la convocazione di un Alto comitato di studio incaricato di predisporre l’abrogazione dello stato diemergenza in vigore ininterrottamente dal 1963, e di elaborare una legge sui partiti, per superare il monopolio del partito Baath. Veniva inoltre annunciato l’aumento del 30% degli stipendi dei pubblici dipendenti, unitamente all’introduzione di misure anti-corruzione. Tuttavia, il 25 e 26 marzo nuove manifestazioni venivano promosse dall'opposizione a Daraa ed a Latakia, città di origine della famiglia Assad, accompagnate da nuovi scontri. Il regime annunciava contestualmente il rilascio di prigionieri politici detenuti nelle carceri siriane. Il 27 marzo il consigliere Bhutayana Shaaban annunciava la decisione della revoca dello stato di emergenza,da sostituire con una nuova legislazione antiterrorismo, nonché la prossima costituzione di una nuova compagine governativa. Nelle giornate successive al 24 marzo quella siriana emergeva a tutto tondo come ulteriore situazione di consistente instabilità politica nel quadro dei paesi arabi in fermento. Una prima valutazione dei fatti indicava nelle proteste scoppiate anche in Siria una combinazione tra le richieste di maggiori libertà civili e politiche avanzate dagli storici dissidenti del regime, la cui influenza era però limitata, e circoscritta alle aree urbane, e l’insoddisfazione di alcuni clan tribali (quali quello degli Abizaid) assai influenti nelle aree rurali, insoddisfazione legata a fattori politici locali e a presunti episodi di corruzione. Questi fattori si inserivano nel delicato equilibrio siriano che vedeva il controllo del governo – sia pure su basi laiche e attraverso l’ideologia nazionalista panaraba del Baath – da parte della famiglia Assad, appartenente alla setta di derivazione sciita degli Alawiti, in un paese a maggioranza sunnita. L'atteso discorso del 30 marzo del presidente Bashar al Assad veniva preceduto il giorno prima da segnali contraddittori: infatti, a fronte di una vasta mobilitazione pro-governativa, che attivisti di opposizione non hanno mancato di qualificare come forzata, vi sono state per la prima volta in mezzo secolo le dimissioni di un governo siriano sotto la spinta delle proteste popolari. Occorre peraltro ricordare che nel particolare sistema autoritario di governo che caratterizza il regime siriano la sostanza del potere si concentra, assai più che nel governo e del Parlamento, o anche nei vertici del partito Baath, nella ristretta cerchia alawita che occupa i vertici dei servizi di sicurezza e dell'élite militare: pertanto, le dimissioni di un governo non hanno carattere tale da porre in pericolo la sopravvivenza del regime, che ha altrove le sue roccaforti. Ciò è stato puntualmente confermato il 30 marzo dal discorso di Assad, che infatti è sembrato rivolgersi, molto più che alla popolazione, alla ristretta cerchia delle forze di sicurezza del regime. Il presidente siriano, il cui discorso ha subito provocato rinnovate proteste a Daraa ed a Latakia, lungi dall'annunciare l'abrogazione dello stato d'emergenza vigente in Siria da ormai 48 anni, è tornato a toccare il tasto del complotto internazionale contro il paese.
Assad ha anche rivendicato fedeltà alle promesse riformistiche formulate nel 2000, le quali tuttavia non sarebbero state attuate per via della situazione regionale di grande instabilità e, da ultimo, per i quattro anni di siccità nei quali il paese si è dibattuto. Ciò che il presidente ha ribadito con forza è stata la necessità di preservare la stabilità del paese, e per tale obiettivo non ha mancato di minacciare apertamente le opposizioni. Il discorso di Assad ha destato le critiche del Dipartimento di Stato USA, che si è detto profondamente deluso dell’intervento del leader siriano.
Dopo la delusione suscitata nell’opinione pubblica dal discorso del 30 marzo del presidente Assad, il governo è sembrato muoversi in direzione di concessioni anche importanti a gruppi religiosi o territoriali del paese, quali i sunniti e i curdi. Ciononostante la situazione della Siria si confermava quella più agitata nell’area medio-orientale. Il 14 aprile veniva annunciata la formazione del nuovo governo, unitamente alla liberazione di centinaia di prigionieri politici arrestati nelle settimane precedenti: l'abile strategia del regime siriano non ha però ottenuto i risultati sperati: infatti già il 17 aprile vedeva dilagare le proteste in ogni parte del paese, nonostante la spietata repressione messa in atto dalle varie forze di sicurezza pro-regime. Mentre proseguivano le uccisioni indiscriminate di manifestanti da parte delle forze sicurezza del regime di Assad, vi erano segnali del tutto opposti di apertura del regime, come quando il 19 aprile veniva annunciata l'approvazione da parte del nuovo governo di tre progetti di legge che avrebbero dovuto attenuare il rigore del regime di sicurezza nel paese. I progetti riguardavano rispettivamente la concessione del diritto di manifestazione previa autorizzazione del ministero degli interni, l'abolizione della Corte suprema per la sicurezza dello Stato e l’abolizione dello stato d'emergenza in senso proprio, che in Siria è rimasto ininterrottamente in vigore dal marzo 1963. Gli ambienti della dissidenza siriana manifestavano comunque sfiducia nella reale volontà di riforma delle autorità, le quali mantenevano il controllo sulla magistratura, nonché la normativa che conferisce loro l'immunità giudiziaria. L'abolizione del Tribunale speciale, poi, non eliminava il fatto che vi fossero ancora tremila detenuti politici, in carcere per condanne da esso pronunciate, e il diritto di manifestazione, com'è chiaro, rimaneva pur sempre subordinato al parere del ministero degli interni, cui si sarebbe dovuto preventivamente comunicare persino il tenore degli slogan che si prevedeva di scandire durante una manifestazione. Il 25 aprile il regime siriano lanciava una massiccia operazione militare contro la protesta, che non a caso colpiva con particolare forza proprio Daraa, investita addirittura da carri armati, con più di venti vittime. Il 26 aprile, mentre gli Stati Uniti disponevano il ritiro del personale diplomatico non essenziale e relative famiglie dalla Siria, a Daraa ha le forze di sicurezza isolavano l'abitazione del muftì che aveva aspramente criticato il governo e presentato le proprie dimissioni.
Il 27 aprile, con un'azione coordinata, erano convocati gli ambasciatori diDamasco a Parigi, Roma, Londra, Madrid e Berlino, per esprimere loro una forte condanna delle violenze e delle repressioni in atto nel paese: nello stesso tempo, la propensione dei paesi europei a imporre sanzioni contro la Siria si mostrava crescente, con particolare riferimento ad Italia e Francia, che avevano espresso questo orientamento già nel vertice bilaterale del 26 aprile.
Il 29 aprile il previsto “venerdì della collera” registrava una nuovamassiccia mobilitazione delle proteste in tutto il paese, alla quale il regime rispondeva in modo sanguinoso, provocando una sessantina di morti, soprattutto a Daraa: nella stessa giornata l'Amministrazione statunitense haimposto sanzioni economiche contro due esponenti del regime siriano, un fratello e un cugino del presidente Assad, per violazioni dei diritti umani.
Ben più pesanti sono state le sanzioni decise poche ore dopo a seguito di una riunionedel Comitato politico e di sicurezza dell'Unione europea - il maggior partner commerciale e donatore nei confronti della Siria. I 27 si sono accordati per l'applicazione rapida dell'embargo sulla fornitura di armi alla Siria, incluse le attrezzature utilizzabili in azioni di repressione contro i manifestanti. È stata inoltre avviata la procedura per la redazione di un elenco di esponenti politici da sottoporre a misure restrittive, come il divieto di concessione del visto e il congelamento dei beni eventualmente detenuti all'estero.
L'Unione europea ha inoltre reso noto di considerare congelata la procedura relativa all'Accordo diassociazione, che dall'ottobre 2009 attendeva la firma, e di essere intenzionata a procedere alla revisione della cooperazione bilaterale con Damasco, che nel periodo 2011-2013 prevedeva per la Siria un contributo europeo di circa 130 milioni di euro. A tali sanzioni si aggiungeva la decisione del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), che sospendeva un progetto quinquennale di aiuti alla Siria.
Nelle successive due settimane proseguiva la repressione, che provocava ancora numerose vittime, attuata in buona parte assediando con mezzi militari diverse città. Il regime di Assad l’11 maggio annunciava inoltre la formazione di una commissione incaricata di redigere una bozza di nuova legge elettorale.
Per quanto concerne l’attività repressiva, una valutazione del 13 maggio daparte dell’Alto commissariato ONU per i diritti umani parlava di circa 850 civiliuccisi dall’inizio della repressione, concentratasi in modo particolare il 6 e il 13 maggio, in occasione delle manifestazioni convocate in concomitanza dei venerdì di preghiera. Vi sono state anche più volte segnalazioni di interruzione dei servizi Internet diretti ai telefoni cellulari, che fanno capo in buona parte a una compagnia privata di proprietà di un cugino del presidente Assad. Va ricordato che il 10 maggio erano entrate in vigore le sanzioni dell’Unione europea - che al momento ancora escludevano la figura del presidente Assad - contro tredici alte personalità siriane, cui è stato negato il visto per l’ingresso in territorio europeo e sono stati congelati i beni eventualmente in esso detenuti (tali misure si accompagnavano al già richiamato embargo allo Stato siriano sulla vendita e fornitura di armi o attrezzature utilizzabili contro i dimostranti).
Un’altra conseguenza della situazione critica della Siria era la rinuncia diDamasco a candidarsi per un posto nel Consiglio per i diritti umani delle NazioniUnite, presentendo una secca sconfitta in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. D’altra parte la Siria trovava nella Federazione russa e nella Cina due validi alleati per impedire in seno al Consiglio di sicurezza l’adozione di qualsiasi sanzione, mentre le autorità di Damasco continuavano a impedire alla delegazione ONU inviata per accertare la situazione di Daraa – sotto assedio dal 25 aprile - di svolgere il proprio compito, negandole l’accesso alla città.
Il 18 maggio vi è stato uno sciopero generale indetto dal fronte del dissenso, mentre il regime, dal canto suo, proseguiva nella strategia di minimizzazione delle proteste e di sostanziale negazione della repressione, parlando invece di martiri delle forze di sicurezza uccisi da terroristi nel corso delle manifestazioni. Per iniziativa soprattutto della Francia e del Regno Unito il Consiglio dei ministri degli affari esteri dell'Unione europea, svoltosi a Bruxelles il 23 maggio, estendeva anche al presidente Assad e ad altri nove suoi collaboratori le sanzioni che avevano già colpito 13 personalità siriane di alto livello, consistenti nella negazione del visto di ingresso nel territorio dell'Unione europea e nel congelamento dei beni eventualmente in esso detenuti.
Il 26 maggio il Vertice G8 di Deauville lanciava un appello a Damasco aporre fine all'uso della forza contro i manifestanti - appello peraltro non firmato da Mosca. Va peraltro segnalata una certa evoluzione delle posizioni russe, poiché il presidente Medvedev esortava Assad a passare dalle parole ai fatti, ovvero alle promesse riforme. Analogo consiglio veniva alla Siria dalla Turchia, che auspicava un freno alla durezza della repressione e un ingresso degli islamici del governo di Damasco.
Il 31 maggio, mentre l'offensiva nella regione di Homs proseguiva, il regime concedeva quella che definiva un'amnistia generale, nella quale erano ricompresi anche tutti i detenuti politici appartamenti ai Fratelli musulmani - movimento posto fuorilegge da 31 anni – e ad altri partiti e correnti politiche ugualmente messi al bando da decenni (ma non agli appartenenti al Partito comunista del lavoro). Il provvedimento veniva tuttavia giudicato insufficiente e tardivo dai circa 300 oppositori siriani riuniti nella località turca di Antalya dal 31 maggio al 2 giugno. Analogo il giudizio del Dipartimento di Stato americano sul decreto di amnistia firmato da Assad.
Il 1º giugno il presidente Assad emanava un decreto per la formazione diun organismo incaricato del dialogo nazionale, la cui composizione non lasciava tuttavia spazio all'ottimismo, trattandosi di membri diretti del regime o di personalità indipendenti comunque ad esso assai vicine. Diverse voci internazionali si levavano intanto per denunciare i crimini della repressione in atto nel paese: l'UNICEF riferiva che almeno trentabambini erano stati vittime della repressione nelle ultime dieci settimane, mentre un numero ben più alto era stato ferito, arrestato o torturato. Human Rights Watch, dal canto suo, pubblicava il 1º giugno un rapporto basato su colloqui diretti con vittime o testimoni della repressione attuata dal regime nella regione meridionale di Daraa, da cui era partita la mobilitazione contro il regime: secondo il rapporto si sarebbero toccati livelli inauditi di orrore nella repressione e nelle torture contro i manifestanti.
Ad Antalya si concludeva intanto la conferenza degli oppositori edissidenti siriani, con l'invito ad Assad a dimettersi immediatamente, affidando la transizione a un direttorio con poteri limitati, come previsto dalla Costituzione in vigore. Gli oppositori hanno dato vita ad un organismo di coordinamento dellamobilitazione - attribuendo ad esso anche il compito di reperire fondi - composto da appartenenti alla Fratellanza musulmana, ai movimenti laici, ai curdi siriani, ma anche da alawiti, drusi, cristiani e indipendenti.
Il 3 giugno vi è stato il dodicesimo venerdì di proteste in tutto il paese: particolarmente cruento il bilancio nella roccaforte dei sunniti più conservatori, la città di Hama, che si trova tra la capitale e Aleppo, dove vi sarebbero state una cinquantina di vittime. L'Osservatorio siriano sui diritti dell'uomo confermava frattanto intanto la notizia della liberazione di oltre 450 detenuti a seguito dell'amnistia annunciata dal regime il 31 maggio.
Verso la confinante provincia turca dell’Hatay cominciavano intanto ad affluire centinaia di profughi siriani, alcuni dei quali feriti: il primo ministro turco Erdogan aveva infatti assicurato l'apertura della frontiera per i siriani in cerca di salvezza: il 14 giugno il numero dei profughi siriani in Turchiaraggiungeva quasi la cifra di novemila.
Va anche ricordato che in Libano erano arrivati dopo il 15 maggio circa seimila profughi dalla zona circostante alla città di Tall Kalakh, sottoposta ad assedio e saccheggiata dalle forze governative siriane e da bande di lealisti al regime di Assad. La morsa sullacittà di Jish ash Shughur, vicina al confine turco, si stringeva con sempremaggior forza, fino a che il 12 giugno l'escalation nella città nordoccidentale vedeva l’ingresso delle truppe governative con l'appoggio di carri armati ed elicotteri: conseguentemente, si sono moltiplicate le file dei fuggiaschi verso il confine turco.
Il Ministro degli esteri britannico Hague esortava il Consiglio di sicurezzadell’ONU ad adottare una risoluzione di chiara condanna della repressione, in ciò concordando con la Germania. Il Governo italiano, dal canto suo, chiedeva a quello siriano la cessazione di ogni violenza, nonché di permettere l'accesso alla Croce Rossa per interventi umanitari quanto mai necessari - il Ministro degli esteri Frattini, intervenuto al seminario internazionale sulla libertà religiosa di Fiesole, tornava poi sulla questione il 14 giugno, anch'egli esortando le Nazioni Unite a una presa di posizione chiara, forte ed ultimativa nei confronti di Damasco.
Per quanto concerne il fronte della protesta, va segnalato che il 13 giugno per la prima volta i presunti organizzatori della mobilitazione popolare, i Comitati dicoordinamento locale, rendevano noto il loro documento programmatico, nel quale si affermava che l'obiettivo era di assicurare, attraverso una transizione pacifica, il cambiamento del sistema politico e la fine del mandato presidenziale di Bashar al Assad, considerato il primo ''responsabile politico e legale dei crimini commessi nel Paese''.
I Comitati si definivano laici e privi di articolazioni confessionali, etniche o di classe, e chiedevano prima di tutto alle autorità di Damasco ''la fine delle uccisioni e delle violenze da parte delle forze di sicurezza, delle milizie” e dei lealisti alawiti armati, il rilascio di tutti i prigionieri politici; la fine della propaganda mediatica contro i manifestanti; l'apertura del Paese alla stampa araba e internazionale'.
Successivamente, si leggeva nel documento, si auspicava l'apertura di una Conferenza nazionale, dalla quale ''non saranno esclusi i membri dell'attuale regime'', purché in grado di dimostrare di non essersi macchiati di crimini contro il popolo siriano. I Comitati prevedevano ''un periodo di transizione di non oltre sei mesi, gestito da personalità civili e militari, durante il quale verrà redatta una nuova Costituzione, che limiterà a quattro anni non rinnovabili il mandato presidenziale. Al termine del periodo transitorio si svolgeranno elezioni libere e indipendenti”.
La prosecuzione dell'offensiva della regione nord-occidentale del paese daparte delle forze governative provocava un innalzamento della tensione con laTurchia, che negli ultimi annii era stato invece uno dei paesi più importanti per la politica estera di Damasco: il Primo Ministro Erdogan aveva nei giorni precedenti ripetutamente stigmatizzato le violenze contro i civili siriani che manifestavano contro il regime di Assad, e che li avevano costretti alla fuga in massa in Turchia. Parallelamente alle tensioni con la Turchia la Siria si è trovata in sempre maggiore difficoltà anche nei confronti dell'Unione europea, che il 23 giugno 2011 ha deciso di varare con effetto immediato un terzo pacchetto di sanzioni contro società ed esponenti siriani, includendovi anche tre alti ufficiali dell'Iran, che avrebbero collaborato con il regime di Assad nella violenta repressione delle proteste. Più in generale, cresceva l'isolamento internazionale del regime di Assad, e mentre il governo britannico invitava i connazionali a lasciare immediatamente il paese, il Segretario di Stato USA Hillary Clinton affermava che il presidente siriano non aveva ormai più alcuna possibilità di accreditarsi come riformatore, dopo la gravissima repressione messa in atto negli ultimi tre mesi contro le proteste del paese.
Il 20 giugno peraltro, dopo due mesi di silenzio, lo stesso Assad teneva un discorso di un'ora trasmesso in diretta tv, con argomentazioni non dissimili da quelle usate in precedenza, tornando a promettere con una certa genericità riforme politiche, ma soprattutto non menzionando affatto gli oltre 1.300 siriani vittime della repressione durante le proteste degli ultimi tre mesi. Le reazioni al discorso di Assad sono state comprensibilmente negative: il Ministro degli esteri italiano ha ravvisato nei toni usati dal presidente siriano forti analogie con le argomentazioni di Gheddafi quando iniziava la violenta repressione in Libia, mentre il suo omologo transalpino ha condiviso il giudizio di Hillary Clinton sull'irreversibilità del discredito internazionale della figura di Assad. Il 24 giugno decine di migliaia di manifestanti sono tornati nelle strade di tutta la Siria nell’ennesimo venerdì di protesta, mentre in Turchia si allestiva la sesta tendopoli per i profughi siriani, ormai giunti al numero di 12.000 a seguito dell'avanzata delle forze corazzate siriane verso il confine turco. Piccoli gruppi di profughi hanno raggiunto anche il territorio libanese, provenendo dalla regione di Homs.
Il 27 giugno si è tenuta in un hotel di Damasco una riunione di dissidenti e intellettuali siriani, durante la quale sono emersi diversi approcci alla questione del superamento dell'attuale regime siriano. La riunione ha destato peraltro numerose critiche in patria e all'estero, soprattutto dalle frange più radicali, che rifiutavano ormai ogni prospettiva di dialogo con il regime di Assad, il quale avrebbe tollerato l'incontro dei dissidenti a Damasco allo scopo di riaccreditarsi almeno parzialmente come riformatore, togliendo così mordente anche alla forza della contestazione di piazza.
Il 1º luglio si è avuto il sedicesimo venerdì consecutivo di manifestazioni diprotesta per le strade di quasi tutta la Siria, con un particolare fortissimo concentramento nella città di Hama, dove circa 400.000 manifestanti hanno tra l'altro festeggiato una sorta di vittoria per il ritiro dell'esercito avvenuto all’inizio di giugno. Le speranze dei manifestanti confluiti a Hama sono state amaramente deluse già il 5 luglio, quando dopo 48 ore di inutile resistenza le forze di sicurezza governative e le milizie lealiste hanno nuovamente occupato il centro della città, uccidendo a quanto pare più di dieci dimostranti. In tal modo, il regime siriano dimostrava l’interesse strategico e simbolico della città, da sempre roccaforte della resistenza musulmana sunnita contro il predominio della minoranza alawita cui appartengono lo stesso presidente Assad e gran parte dei membri del suo clan.
Frattanto, mentre il numero dei manifestanti uccisi a Hama raddoppiava, il 6 luglio Amnesty international chiedeva ufficialmente all’ONU di dar vita ad un'inchiesta sulla repressione del regime siriano nella città di Tail Kalakh, nei pressi del confine libanese, ove vi sarebbero state le prove di numerosi casi di torture, arresti arbitrari e morti in stato di detenzione. Secondo Amnesty international il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite doveva spingersi a deferire la situazione siriana al procuratore della Corte penale internazionale, in quanto il comportamento del regime di Damasco avrebbe configurato veri e propri crimini contro l’umanità.
Il nuovo venerdì di protesta dell'8 luglio ha visto ancora una volta un duro confronto tra i manifestanti in tutta la Siria e le forze di sicurezza, il cui intervento avrebbe provocato almeno 16 vittime. Anche nella città di Hama, nonostante il rinnovato assalto delle forze armate e delle milizie filogovernative, le manifestazioni sono stati imponenti: qui tuttavia il fatto più eclatante era la presenza tra i manifestanti dell'ambasciatore statunitense Robert Ford, il quale si era recato a Hama nell’intento dichiarato di stabilire contatti con l’opposizione di piazza e verificare la fondatezza o meno della qualificazione, da parte del regime, dei manifestanti alla stregua di oppositori armati e terroristi. Anche l'ambasciatore francese Chevallier si era recato nella città per testimoniare l'impegno di Parigi a fianco delle vittime della dura repressione.
L’iniziativa dei diplomatici americano e francese provocava una dura reazione delle autorità di Damasco, che hanno accusato soprattutto Washington di voler fomentare un’insurrezione tramite il comportamento del proprio rappresentante in loco, il cui ruolo sarebbe stato appunto dimostrato dalla presenza nella città di Hama. A breve giro di ore manifestanti filogovernativi e milizie lealiste davano l’assalto alle ambasciate di Washington e Parigi a Damasco. Intanto il regime siriano, tra il 10 e l’11 luglio, tentava di rilanciare il dialogo nazionale in precedenza prospettato, dando vita a una riunione a Damasco con la partecipazione di membri del partito Baath e di esponenti “indipendenti” della società civile: l'appuntamento è stato tuttavia disertato dalle opposizioni, che hanno ritenuto impossibile l’avvio di ogni dialogo in presenza dell'occupazione militare di molte città del paese e della detenzione di avversari politici e pacifici manifestanti, rispetto ai quali le opposizioni hanno chiesto anche l'apertura di un'inchiesta sulle responsabilità delle violenze e dei crimini nei loro confronti messi in atto.
Il 16 luglio si svolgeva a Istanbul una riunione di oltre 300 dissidentisiriani in esilio, che ha registrato peraltro parecchie dissonanze. Una delle ipotesi più rilevanti emersa nel fronte antiregime è stata quella della possibilità di dar vita a un governo ombra composto in maggioranza da esponenti operanti all'interno del paese e da una minoranza di esponenti degli ambienti dell'esilio. Alcuni dei partecipanti alla riunione hanno anche ipotizzato la messa in atto di momenti di disobbedienza civile contro il regime di Assad, causando danni economici o addirittura una vera e propria paralisi del paese, piuttosto che impegnare uno scontro frontale con le forze di sicurezza che appariva suicida.
Il 25 luglio l'agenzia ufficiale del regime siriano (la Sana) dava notizia dell'approvazione di una legge per un sistema multipartitico controllato, che si inseriva nei tentativi del regime di accreditarsi come riformista, avendo già in precedenza messo fine allo stato di emergenza in vigore dal 1963, e avendo successivamente concesso un'amnistia per centinaia di prigionieri politici, inclusi appartenenti ai Fratelli musulmani, da sempre sono considerati il pericolo numero uno per Assad e la sua élite di potere alawita. Nulla invece sarebbe stato deciso con riferimento all'articolo 8 della Costituzione che l’opposizione voleva vedere abrogato, poiché esso sanciva il monopolio politico del Partito Baath al potere.
In ogni modo, il testo della nuova legge prevedeva che per ogni nuovo partito il permesso di costituirsi fosse accordato da un comitato, il quale avrebbe vigilato per non ammettere alla vita politica formazioni costruite su basi religiose o tribali - tale previsione poteva effettivamente costituire una forma di rassicurazione per gli USA e l'Europa, ma anche, soprattutto, per Israele, che pur non coltivando sentimenti amichevoli verso il regime di Assad, poteva considerarlo tuttavia come una garanzia rispetto a possibili derive etniche o confessionali della Siria. Va comunque registrata, parallelamente a queste aperture, una fitta rete di arresti, probabilmente per prevenire ulteriorimanifestazioni in occasione dell'imminente inizio del Ramadan, che avrebbe reso tutto più difficile per il regime, potenziando le capacità di mobilitazione delle opposizioni.
Al proposito, dopo pochi giorni, l’organizzazione non governativa Avaaz asseriva che dall’inizio delle proteste nel paese (metà di marzo) erano scomparse nel nulla circa tremila persone, oltre ai 12.600 arrestati e a più di 1.600 vittime della repressione. Nell’ultima settimana soltanto gli arresti avrebbero riguardato un migliaio di persone. La poca credibilità delle mosse del regime siriano veniva confermata dalla decisione del Qatar, per lunghi anni solido alleato di Damasco, di sospendere le attività della propria ambasciata nella capitale siriana.
L'attenzione internazionale era poi in modo clamoroso nuovamente attratta dalla situazione in Siria il 31 luglio, quando carri armati dell'esercito entrati nellacittà di Hama hanno compiuto un massacro, provocando un centinaio di morti, mentre altri atti di repressione ne provocavano almeno trenta in altre città. L'azione aggressiva a Hama è stata accompagnata dalla consueta interruzione dell'erogazione di acqua ed elettricità. Ondate di protesta si sono diffondevano immediatamente in tutto il paese, mentre una condanna pressoché unanime dei massacri emergeva a livello internazionale.
Per tutta risposta, il regime siriano non interrompeva la repressione a Hama nemmeno il primo giorno del Ramadan (1° agosto), provocando nella città almeno sei vittime e protraendo i bombardamenti sino a tarda sera. Di fronte all'ostinazione di Assad l’Unione europea imponeva il quarto round di sanzioni contro il regime siriano, portando a 35 i componenti dell’elenco di suoi esponenti colpiti nei loro beni e nei loro spostamenti nel territorio dell'Unione europea.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite veniva inoltre convocato inseduta straordinaria proprio per una discussione della situazione siriana, ma lostesso Consiglio era intanto bloccato dalla contrarietà di Cina e Russia ad approvare una risoluzione contro la Siria: alla fine prevaleva la linea del Brasile, quando il 3 agosto il Consiglio di sicurezza approvava una dichiarazione presidenziale non vincolante – anche da questa, peraltro, il Libano ha ritenuto di doversi dissociare.
Nella Dichiarazione il Consiglio di Sicurezza condannava le violazioni diffuse dei diritti umani e l'uso della forza contro i civili da parte delle autorità siriane, chiedendo l'immediata cessazione di ogni violenza. In particolare, pur esortando tutte le parti ad agire con la massima moderazione e ad astenersi da rappresaglie, compresi gli attacchi contro le istituzioni dello Stato, il Consiglio di Sicurezza invitava le autorità siriane a rispettare pienamente i diritti umani e ad adempiere ai loro obblighi ai sensi del diritto internazionale, punendo quindi i responsabili della violenza. Il Consiglio di Sicurezza invitava anche le autorità siriane ad alleviare la situazione umanitaria nelle aree di crisi, consentendo l'accesso rapido e senza ostacoli alle agenzie umanitarie internazionali.
Nella seconda settimana di agosto il regime siriano, proseguendo in uno schema ormai consolidato, concentrava la pressione in un’altra zona del paese, ritenendo ormai evidentemente di aver spento ogni focolaio di resistenza a Hama: i carri armati del governo si sono mossi verso la regione orientale dell'Eufrate, a forte connotazione tribale e confinante con l'Iraq, per una nuova azione militare, in un contesto teoricamente sempre più difficile per Damasco, poiché gli Stati Uniti - ma anche l'Italia - tornavano a invitare tutti i propriconnazionali a lasciare con effetto immediato il paese, mentre anche le monarchie arabe del Golfo, e soprattutto l'Arabia Saudita, condannavano l'eccessivo uso della forza da parte del regime siriano.
Proprio mentre veniva messa in atto una dura repressione nella città diDayr az Zor, con la morte di una quarantina di persone, il regime tornava a promettere libere e trasparenti elezioni nel paese entro la fine dell'anno, e si mostrava incurante anche del richiamo dei propri ambasciatori decretato dai governi saudita, del Kuwait e del Bahrein. Al contrario, il regime di Damasco tentava di utilizzare il lento formarsi di una coalizione internazionale come una palese dimostrazione della veridicità delle accuse che da sempre aveva lanciato nei confronti di interferenze internazionali che si servirebbero di elementi terroristici.
In ciò il regime veniva oggettivamente aiutato dalle permanentispaccature in seno al consiglio di sicurezza dell’ONU anche dopo che questo aveva ascoltato il rapporto del segretario generale previsto nella Dichiarazione presidenziale del 3 agosto: in particolare, il Brasile l'India e il Sudafrica davano molto credito alle timide ammissioni di Assad di un qualche errore commesso dalle forze dell'ordine siriane, mostrando di prestare fede ai progetti di democrazia multipartitica e di libere elezioni più volte agitati dal governo di Damasco.
Alla metà di agosto il governo siriano apriva un ulteriore fronte nellarepressione, con al centro la città di Latakia, che non è solo il principale porto della Siria, ma anche la città da cui proviene il clan alawita di Assad: la morsa su Latakia è durata diversi giorni, e l’ingresso delle forze di sicurezza nella città avrebbe poi provocato la fuga precipitosa di oltre cinquemila rifugiati palestinesi ospitati nel campo di Raml.
Proprio la metà di agosto sembrava aver segnato un passaggio irreversibile nel livello di sfiducia della Comunità internazionale verso la Siria: un coro unanime – che ha visto uniti il presidente degli Stati Uniti, l'Alto rappresentante dell'Unione Europea per la politica estera, il presidente francese e i Primi Ministri di Germania e Regno Unito - invitava con fermezza Assad a lasciare il potere. Gli Stati Uniti inoltre disponevano poi ulteriori congelamenti di beni siriani nel loro territorio, come anche il divieto di effettuare investimenti in Siria e di qualunque scambio commerciale di prodotti petroliferi con Damasco. Mentre il 19 agosto segnava, nel ventiquattresimo venerdì consecutivo di proteste, un nuovo pesante bilancio di almeno 22 vittime; l'Unione europea arricchiva con ulteriori venti nominativi di persone e società l'elenco dei soggetti colpiti dalle sanzioni di Bruxelles. A favore di Assad giocava però ancora un parziale ripensamento di Mosca, non convinta di doverne richiedere le dimissioni, ma anche un analogo e meno atteso atteggiamento della Turchia, che pure nelle ultime settimane, anche per il timore di ripercussioni sulle proprie frontiere, si era fatta interprete di una forte contrarietà alla repressione in Siria. Il 21 agosto, poi, per la prima volta il presidente Assad si è fatto intervistare dalla tv di Stato, delineando una vera e propria roadmap del processo di riforma, comprensiva di una nuova legge sui media, nonché della revisione della posizione di supremazia del partito Baath nel sistema costituzionale siriano. In tal modo, secondo Assad, avrebbe dovuto essere possibile svolgere entro il 2011 le elezioni amministrative, e non oltre due mesi dopo quelle legislative. L’ultima settimana di agosto vedeva permanere la dispersione delle forze oppositive al regime siriano, nonostante l'annuncio a Istanbul della nascita del Consiglio nazionale siriano, che avrebbe dovuto essere rappresentativo di tutte le opposizioni, ma che ha incontrato subito notevoli dissensi, e in particolare da parte dei Comitati di coordinamento locale, la principale forza di mobilitazione interna contro il regime di Assad. Sul piano internazionale, tuttavia, il regime siriano ha dovuto subire la condanna da parte del Consiglio ONU per i diritti umani, con una risoluzione approvata nonostante il voto contrario della Russia e della Cina. Il 2 settembre vi è stato un giro di vite per le sanzioni europee contro la Siria: infatti, per la prima volta è stato colpito direttamente il settore petrolifero, con un embargo riguardante l'acquisto, l'importazione e il trasporto sia del petrolio che degli altri prodotti derivati, ad eccezione dei contratti già in corso, che su iniziativa dell'Italia sono stati salvaguardati fino al successivo 15 novembre. Le nuove sanzioni hanno altresì ampliato l'elenco dei soggetti siriani sottoposti a congelamento dei beni e a divieto di ingresso nel territorio europeo, includendovi quattro nuove personalità e altri tre organismi. La repressione tornava ad infierire il 7 settembre a Homs, e due giorni dopo, in occasione del ventiquattresimo venerdì di proteste contro il regime: questi eventi hanno determinato il rinvio della missione a Damasco del segretario della Lega Araba Nabil al Arabi, che avrebbe dovuto essere latore di una ambiziosa proposta di soluzione della difficile situazione siriana, articolata in 13 punti, con l'obiettivo di condurre alla formazione di un governo di unità nazionale e alla preparazione di elezioni presidenziali libere e trasparenti, il tutto sotto la supervisione della Lega Araba medesima. A sei mesi dall’inizio (metà marzo 2011) della repressione, il regime siriano insisteva nel tentativo di accreditare alcuni progressi sulla via della liberalizzazione del paese, con la prosecuzione delle sessioni del dialogo nazionale e con l'annuncio della creazione del primo partito non affiliato al Baath per opera di quattro dissidenti moderati. Il 15 settembre, tuttavia, il Segretario generale delle Nazioni Unite sosteneva che il presidente Assad era venuto meno alla promessa di fermare la repressione e che un'azione coerente della Comunità internazionale appariva ormai indispensabile. L'Unione europea intanto proseguiva nell'inasprimento delle sanzioni contro Damasco, approvando un pacchetto incentrato sull’estensione dell'embargo petrolifero agli investimenti nel relativo settore in Siria. Venivano inoltre colpite ulteriori personalità ed entità imprenditoriali siriane, soprattutto quelle collegate con la comunicazione a favore del regime e con la produzione di strumenti per la repressione. Per quanto concerne le dinamiche interne del regime di Damasco, dopo che in agosto era stato rimosso, ufficialmente per motivi salute, il Ministro della difesa, il 24 settembre il regime annunciava la morte per infarto di un vicecapo di stato maggiore dell'esercito. Queste notizie venivano interpretate generalmente come la risposta del regime ad alcuni dissensi, o anche solo a titubanze, negli alti gradi delle forze armate, nei quali fino a quel momento non si erano registrate defezioni, numerose invece tra i sottufficiali. La sostituzione, in particolare, del ministro della difesa con il cristiano Dawud Rajha – con evidente tentativo di coinvolgimento dell’elemento cristiano nella repressione generalizzata - portava l'attenzione sulla difficile posizione delle comunità cristiane in Siria nell'attuale contingenza: se infatti avevano destato disappunto le ripetute attestazioni di fedeltà dei cristiani alla politica del regime di Assad, non va dimenticato che tale posizione derivava da due considerazioni ben fondate, ovvero da un lato dalla paura di una immediata vendetta del regime in caso di defezione dei cristiani, e dall'altro dalla cautela verso gli esiti dello scontro in atto, che potrebbe sfociare anche nel trionfo di elementi integralisti islamici. Dal 27 settembre nella regione centro-settentrionale di Rastan sono comunque iniziati scontri di natura in parte nuova, poiché hanno visto in campo un buon numero di disertori dalle forze armate, schieratisi a fianco della protesta. Dopo una battaglia di quattro giorni sembra che le forze governative abbiano avuto ragione dei ribelli, la maggior parte dei quali sarebbe stata trucidata. A Damasco, intanto, l’ambasciatore USA rischiava nuovamente l’aggressione per opera di bande lealiste, quando il 29 settembre si recava in visita ad un anziano dissidente. Il 5 ottobre segnava un deciso chiarimento a livello internazionale sull'atteggiamento nei confronti della crisi siriana: in questa data infatti il Consiglio di sicurezza dell'ONU veniva chiamato a votare su un progetto di risoluzione presentato da alcuni Stati europei, che conteneva la richiesta di misure appropriate da parte del regime di Assad per porre termine alla repressione ormai in atto da più di sei mesi. Il documento ha visto il voto favorevole di nove paesi, tra i quali Francia, Regno Unito, Germania, Portogallo, Stati Uniti, nonché della Bosnia-Erzegovina, della Nigeria, del Gabon e della Colombia. A fronte del voto contrario da parte di Cina e Russia, che ha bloccato per il meccanismo del veto l'approvazione del testo, vi sono state le astensioni dei rappresentanti di India, Sudafrica, Libano e Brasile. Peraltro, a fronte dell'opposizione completa della Cina, la Russia ha cercato di ammorbidire la situazione preannunciando la possibilità di incontrare esponenti delle organizzazioni di opposizione siriane interne e all'estero, e anche prospettando la necessità di un passaggio di mano del potere a Damasco in mancanza delle necessarie riforme, che dovranno però per i russi essere decise congiuntamente dal popolo e dal regime siriano. Per quanto concerne la prosecuzione della repressione in Siria, mentre venivano diffuse a Ginevra dal Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell'infanzia cifre agghiaccianti, riguardanti la morte di 187 bambini per mano delle forze di sicurezza del regime di Assad dall'inizio della contestazione, nel nord-est della Siria veniva perpetrato il 7 ottobre l’omicidio mirato contro un capo curdo, di orientamento moderato, componente del Consiglio nazionale siriano, la piattaforma di opposizione da poco costituita da dissidenti all'interno e all'esterno del paese. Mishaal Tammo, di 53 anni, aveva fondato un partito curdo che non mirava a creare una provincia autonoma all'interno della Siria: recentemente scarcerato dopo una detenzione di tre anni, l'8 settembre era scampato ad un altro attentato. Nella stessa giornata del 7 ottobre venivano uccisi in varie località del paese una ventina di oppositori. L'8 ottobre, ai funerali del leader curdo ucciso il giorno precedente, si registravano cinque vittime per mano delle forze di sicurezza, mentre altri sei civili venivano uccisi in diverse località della Siria. L'agenzia ufficiale d'informazione siriana riportava intanto notizie su un decreto emesso dal presidente Assad per dar vita a un comitato con il compito di elaborare in quattro mesi un progetto di nuova Costituzione: all'inizio delle proteste questa era in effetti una delle richieste fondamentali delle opposizioni, ma la mossa è apparsa inutile e tardiva, in quanto già da tempo gli oppositori si erano espressi in modo assolutamente contrario alla permanenza di Assad al potere e quindi ad ogni sua iniziativa di carattere istituzionale. L'importante riunione di emergenza del 16 ottobre della Lega Araba al Cairo, dopo che in seno all'organismo erano emerse richieste di sospendere la partecipazione di Damasco, si concludeva con la decisione di dar vita a una commissione per avviare il dialogo tra le parti in conflitto in Siria, entro al massimo 15 giorni. La situazione di grande tensione per la repressione in atto nel paese ha avuto un riflesso importante nelle relazioni con gli Stati Uniti alla fine di ottobre 2011, quando Robert Ford, capo della diplomazia statunitense a Damasco, è stato rimpatriato in seguito alle numerose e pesanti minacce ricevute, che Washington ha ritenuto di dover prendere sul serio. Il governo siriano, con una mossa con ogni evidenza ritorsiva, ha a sua volta richiamato per consultazioni l’ambasciatore negli Stati Uniti.
Gli ultimi giorni di ottobre hanno visto intrecciarsi nella vicenda siriana due piani apparentemente del tutto contrastanti, ossia la prosecuzione della dura repressione di ogni manifestazione di dissenso in tutto il paese, e il procedere di una difficile trattativa con la Lega Araba per una composizione del conflitto interno: va a questo proposito ricordato che la Lega Araba alla metà di ottobre aveva avanzato alla Siria una proposta di soluzione – sul momento non accolta - comprendente la fine della repressione, la liberazione dei prigionieri politici, l’avvio di un dialogo con le opposizioni sotto gli auspici della Lega stessa e il monitoraggio arabo dell’attuazione delle riforme promesse dal regime siriano. La trattativa tra Siria e Lega Araba è tuttavia proseguita, con incontri a Damasco e nella capitale qatariota Doha: nel frattempo nella seconda metà di ottobre le vittime della repressione sono state più di 340, e gli organismi cui hanno dato vita gli oppositori in patria e all’estero si sono spinti a chiedere l’istituzione di una no fly zone sulla Siria, oltre alla fornitura di armamenti ai numerosi militari che avevano disertato e combattevano contro le forze di sicurezza di Assad. Il presidente siriano, dal canto suo, ha tentato di dissuadere la Comunità internazionale da ogni interferenza in Siria, servendosi della minaccia di scatenare un altro Afghanistan, ma anche alludendo alle riforme che a suo dire il regime avrebbe già da tempo intrapreso, nonché allo scontro in Siria quale prosecuzione della pluridecennale lotta tra panarabismo e islamismo – quest’ultimo, secondo Assad, necessariamente destinato a sfociare nel terrorismo jihadista. La Lega Araba ha cercato di stringere il negoziato, prospettando al regime siriano i pericoli di un ulteriore inasprimento delle sanzioni occidentali, ma anche di un progressivo venir meno, di fronte al tragico scenario interno, dell’appoggio fino a quel punto incassato da Russia e Cina. Nella serata del 2 novembre la Lega Araba, durante l’incontro straordinario con la Siria tenutosi al Cairo, ha reso noto il raggiungimento di un accordo su tutti i punti prospettati – inclusa la fine della presenza militare nelle città -, ad eccezione dell’avvio di negoziati in Egitto con le opposizioni interne e all’estero. Infatti si è potuto convenire solamente sulla convocazione a Doha, entro due settimane, di colloqui indiretti tra le parti in causa, mediati dalla commissione ministeriale interaraba. Una prima smentita di fatto all’accettazione reale del piano di pace veniva dal sanguinoso attacco contro Homs, durato 6 giorni: l’esercito siriano è penetrato nella terza città del paese, epicentro delle sommosse antiregime. Le case sono state bombardate per giorni, e la città si è trovata senza cibo, acqua ed elettricità. I principali gruppi di opposizione hanno dichiarato che Homs era un’area disastrata e hanno chiesto l’intervento internazionale per la protezione dei civili. La settimana successiva ha visto crescere nel consesso interarabo la consapevolezza in ordine alla negatività dell’atteggiamento di Damasco. Dopo l’appello per il ritiro dalla Siria degli ambasciatori europei, lanciato dal presidente del Consiglio nazionale siriano Ghalioun in visita a Roma, la Lega Araba il 12 novembre ha deciso pressoché all’unanimità la sospensione della Siria dall’Organizzazione, dando a Damasco il termine di tre giorni per l’attuazione del piano di pace finora recepito solo a parole. La posizione della Lega Araba è stata corroborata anche dalla minaccia di ulteriori forme di pressione diplomatica, fino alla possibilità di deferire il caso siriano alle Nazioni Unite; nonché dalla previsione di incontri a breve con rappresentanti delle opposizioni al regime di Assad. La decisione della Lega Araba è stata salutata con favore dal Segretario generale dell’ONU, mentre in Siria vi sono stati attacchi contro le ambasciate turca e saudita, e contro i consolati di Ankara e Parigi a Latakia. Damasco ha inoltre organizzato il 13 novembre manifestazioni a favore del regime, e ha chiesto con urgenza una riunione della Lega Araba, il cui segretario, l’egiziano al-Arabi, rendeva noto che l’Organizzazione era in procinto di esaminare misure per la protezione dei civili siriani – il che sembrava confermare i timori di Assad per l’apertura di uno scenario simile a quello che aveva preceduto l’intervento internazionale in Libia. A fronte della prosecuzione della repressione governativa contro i manifestanti e gli oppositori cresceva il numero dei disertori, ora organizzati in un Consiglio militare provvisorio, che reagivano alle violenze dei loro commilitoni. Dopo la sospensione della Siria da parte della Lega Araba, il 16 novembre la Turchia e la Lega Araba, riunite a Rabat per un vertice congiunto, ribadivano tuttavia la contrarietà a interventi stranieri in Siria. La Lega Araba concedeva, nel vertice marocchino, ulteriori tre giorni alla Siria per attuare quanto concordato il 2 novembre, ma nelle stesse ore a Damasco venivano assaltate anche le ambasciate del Marocco, del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti, mentre il giorno prima il regime aveva rilasciato quasi 1.200 manifestanti, pur proseguendo nella sanguinosa repressione del dissenso. Il 20 novembre il termine fissato dalla Lega Araba scadeva senza che la Siria – che nel frattempo aveva invano tentato di modificare parzialmente quanto previsto in ordine a una missione araba di 500 osservatori in Siria – avesse ottemperato a quanto richiesto dal consesso panarabo: lo stesso presidente Assad si diceva pronto a combattere, accusando la Lega Araba di preparare il terreno a un intervento internazionale nel paese. Il 21 novembre il Regno Unito, il cui Ministro degli Esteri Hague aveva incontrato una delegazione di oppositori siriani, nominava un ambasciatore ad hoc per i rapporti con il movimento di contestazione del regime di Assad. Dopo la sospensione della Siria da parte della Lega Araba, il 22 novembre l'Assemblea generale dell'ONU approvava a larga maggioranza una risoluzione di condanna del regime siriano, e di esortazione allo stesso perché applicasse il piano proposto dalla Lega Araba. Dopo una ulteriore proroga alla Siria, il 27 novembre la Lega Araba, per la prima volta, colpiva con sanzioni uno Stato facente parte dell’Organizzazione – la Siria, appunto -, in una giornata particolarmente sanguinosa della repressione interna. Le sanzioni includevano il congelamento delle transazioni commerciali e dei conti bancari del governo di Damasco, lo stop ai visti di ingresso nei paesi arabi per gli esponenti del regime, nonché l'interruzione dei rapporti degli Stati arabi con la Banca centrale siriana e degli investimenti arabi nel paese. Il 29 novembre a difendere il regime siriano interveniva la Federazione russa, preannunciando manovre navali in dicembre proprio nelle acque territoriali siriane, con un preoccupante possibile incrocio con le iniziative turche contro il proseguire della repressione in Siria. In costanza della violenta repressione in Siria, il 2 dicembre il Consiglio ONU per i diritti umani approvava – con la contrarietà russa e cinese - una risoluzione di condanna delle violazioni “estese e sistematiche” dei diritti umani nel paese. La Siria protestava, definendo la risoluzione un’ingiustificata interferenza nei propri affari interni. Nella prima metà di dicembre la Siria riusciva a temporeggiare rispetto alla firma del protocollo per l'invio di osservatori della Lega Araba nel paese, ponendo ad esempio una serie di condizioni, al primo posto delle quali si trovava l'annullamento delle sanzioni che proprio la Lega Araba aveva imposto contro la Siria alcuni giorni prima. Frattanto il furore repressivo del regime siriano giungeva alla messa al bando dal paese degli iPhone, considerati pericolosi strumenti di documentazione, nonché all'arresto della titolare di un noto blog, Razan Ghazzawi, prelevata mentre cercava di recarsi dalla Siria in Giordania. Prendeva quota inoltre una guerra commerciale tra la Turchia e la Siria, che rispondeva alle sanzioni economico-commerciali di Ankara imponendo una tassa del 30% sull'importazione di prodotti turchi, e altre imposte sull'acquisto di combustibili e autoveicoli dalla Turchia: tali misure si aggiungevano alla sospensione della zona di libero scambio turco-siriana in vigore dal 2004, annunciata da Damasco come prima e immediata reazione alle sanzioni turche. A sua volta la Turchia ha rilanciato, con l'introduzione di una tassa del 30% su tutte le importazioni provenienti dalla Siria. Sul piano dell'attività internazionale va ricordato che tanto il segretario di Stato americano Hillary Clinton, quanto il ministro degli esteri italiano Giulio Terzi hanno incontrato in questo periodo esponenti dell'opposizione, riuniti nel Consiglio nazionale siriano: il Ministro Terzi, in particolare, ha voluto chiarire la posizione dell'Italia, basata su un progressivo inasprimento delle sanzioni contro la Siria, auspicabilmente per mezzo dell'adozione di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU. A proposito delle vittime, va rimarcato che per la prima volta i calcoli dei comitati di coordinamento locali siriani e quelli dell'Alto commissariato dell'ONU per i diritti umani sono sembrati collimare quasi perfettamente, riferendo di un totale di oltre 5.000 siriani uccisi dall'inizio delle mobilitazioni. Il 14 dicembre vi sono state ancora 38 vittime, in una giornata caratterizzata soprattutto dal brutale assalto di milizie lealiste nella città di Hama. Lo stillicidio inesorabile di violenze, che ancora il 15 dicembre ha visto l'uccisione di una quarantina di persone, tra le quali stavolta anche alcuni soldati lealisti, costringeva anche la Russia a uscire dal proprio immobilismo e apresentare al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un progetto di risoluzione di condanna di ogni violenza in Siria, compreso un uso eventualmente sproporzionato della forza da parte delle autorità. La posizione della Siria si aggravava anche in seguito alla pubblicazione nella stessa giornata di un rapporto di Human Rights Watch, dal quale è emerso – su testimonianza concordante di numerosi disertori - che sin dall'inizio del movimento di protesta i vertici dell'esercito e delle forze di sicurezza siriani avrebbero autorizzato l'uso di ogni forma di violenza per fermare le manifestazioni, ordinando in modo esplicito di sparare contro i dimostranti anche se disarmati e di procedere a torture e arresti illegali. Il 19 dicembre la Siria accettava, dopo sei settimane di estenuanti trattative, una parte rilevante del piano di pace della Lega Araba - cui Damasco aveva acconsentito formalmente già il 2 novembre -, ovvero l’invio di una missione di circa 500 osservatori arabi in territorio siriano. La Siria aveva comunque ottenuto che i movimenti degli osservatori si coordinassero con quanto richiesto dal governo per ragioni di sicurezza interna. Il raggiungimento dell’accordo è stato anche in parte risultato delle pressioni di Mosca e Teheran su Damasco. I primi osservatori giungevano a Damasco tre giorni dopo la firma dell’intesa tra Siria e Lega Araba, e la missione era a pieno organico entro Natale. La presenza degli osservatori non sembrava però aver modificato granché la situazione sul terreno, poiché veniva continuamente riferito di vittime civili durante rinnovate proteste contro il regime, mentre anche il fenomeno più recente degli attentati suicidi proseguiva, culminando nei due attacchi contemporanei del 23 dicembre e in quello del 6 gennaio 2012, in entrambi i casi a Damasco. Lo stesso svolgimento della missione della Lega Araba destava critiche, soprattutto per l’asserito scarso contatto con esponenti della contestazione al regime, oltre al fatto di una certa dissonanza tra quanto dichiarato dagli osservatori sul campo e quanto riferito dal Segretario generale della Lega Araba, decisamente più ottimista in ordine agli sviluppi siriani. Il nuovo anno registrava un cospicuo reingresso sulla scena mediatica del presidente Assad, con il quarto discorso televisivo (10 gennaio 2012) alla nazione dall'inizio della crisi politica del paese: Assad insisteva nel negare qualunque responsabilità diretta del regime nella sanguinosa repressione, attribuendo gli sviluppi tragici dei dieci mesi di proteste ad una serie di eventi innescata principalmente da una cospirazione contro il paese, che si sarebbe servita anche dell'azione di gruppi armati e terroristici. Proprio la lotta contro questi elementi avrebbe dovuto accompagnare secondo Assad l'azione riformistica del governo, peraltro già più volte preannunciata, e stavolta nella forma di emendamenti alla Costituzione da sottoporre al voto popolare entro il mese di marzo 2012, per tenere poi due mesi dopo elezioni legislative. Il presidente siriano ribadiva altresì la sua volontà di restare al potere. L'11 gennaio Assad ha rilanciato con un comizio in Piazza degli Omayyadi, a Damasco, davanti a una folla di propri sostenitori e sotto gli occhi della moglie e dei figli. Quasi a smentire i toni trionfalistici di Assad, tuttavia, vi è stata nella stessa giornata la defezione di uno degli osservatori della Lega Araba impegnati in Siria, algerino, che in un'intervista rilasciata ad al-Jazira ha accusato il regime siriano di perpetrare crimini e organizzare una serie di messinscene per depistare gli osservatori, utilizzando in pratica la missione della Lega Araba come un paravento dietro il quale proseguire nella repressione. Inoltre, un noto corrispondente di guerra francese, Gilles Jacquier, recentemente vincitore del premio Ilaria Alpi, ha perso la vita nelle stesse ore,mentre seguiva un corteo lealista nella città di Homs, colpito da schegge di mortaio. Mentre proseguiva senza soluzione di continuità l'ondata di violenze nel paese, che in effetti vedeva tra le vittime sempre più frequentemente anche appartenenti alle forze di sicurezza, la Siria rigettava con forza l’ipotesi, avanzata qualche giorno prima dall’emiro del Qatar, di inviare truppe di paesi arabi per fermare i massacri. Damasco si diceva pronta solo a considerare l'eventualità di una proroga del mandato della missione degli osservatori della Lega Araba. Il 22 gennaio si svolgeva nella capitale egiziana una riunione dei Ministri degli esteri degli Stati aderenti alla Lega Araba, nel corso della quale l'Arabia saudita annunciava il ritiro dei propri osservatori di fronte al mancato rispetto siriano del piano di pace. Alla fine della riunione si perveniva ad un risultato rilevante: la Lega Araba chiedeva ufficialmente alle Nazioni Unite il sostegno per il nuovo piano di pace, che prevedeva entro due mesi il trasferimento dei poteri del presidente Assad al suo vice e la costituzione di un governo di unità nazionale - una soluzione molto simile a quella adottata per lo Yemen. Collateralmente la Lega Araba decideva anche di estendere il mandato della missione di osservatori che aveva già operato in Siria per circa un mese. I Ministri degli affari esteri dell'Unione europea, riunitisi il 23 gennaio, concordavano nel sostenere il ruolo giocato dalla Lega Araba nella crisi siriana, approvando contestualmente l'undicesima tornata di sanzioni contro Damasco, con un'ulteriore estensione dei divieti sui visti e il congelamento di altri beni siriani in territorio europeo. Non vi sono stati tuttavia segnali di cedimento nel forte appoggio russo alla Siria. Mentre sul terreno gli scontri tra le forze di sicurezza e i disertori oramai numerosi prendevano sempre più il posto delle pacifiche dimostrazioni duramente represse, e il regime, nel timore di uno sblocco della situazione in seno alle Nazioni Unite che avrebbe potuto preludere all'intervento internazionale, cercava di accelerare le operazioni contro manifestanti e oppositori armati; sul piano diplomatico la Siria, pur continuando a rifiutare il piano di pace messo a punto dalla Lega Araba, il 24 gennaio acconsentiva però a una proroga della missione di osservatori della Lega Araba medesima in territorio siriano. La Lega Araba, dal canto suo, doveva fare i conti con il ritiro dell'Arabia Saudita e di altri stati monarchici del Golfo Persico dal team di osservatori. L’obiettivo del segretario generale al Araby è pertanto divenuto quello di portare la questione siriana al Palazzo di vetro, per ottenere maggiore prestigio e credibilità sulla proposta di pace avanzata alla Siria, pur scontando anticipatamente l'opposizione russa, intenzionata con il veto a bloccare ogni possibilità di via libera a un intervento internazionale contro il regime di Assad. L'escalation di violenza in atto in Siria trovava il 27 gennaio corrispondenza anche in Egitto, dove più di un centinaio di oppositori siriani assaltava l'ambasciata di Damasco, riuscendo a penetrarvi e a danneggiare alcune suppellettili, prima dell’intervento della polizia egiziana. Considerata la grave accelerazione delle violenze in Siria, il 28 gennaio la Lega Araba annunciava la sospensione della missione di osservatori, riservando ad un momento successivo una decisione definitiva sul destino di essa. Nel contempo, la Lega avviava colloqui con la Russia per un’intesa in sede ONU, ove sperava di far approvare una risoluzione, già messa a punto unitamente ad alcuni paesi occidentali, basata sul piano di pace già da tempo avanzato dalla stessa Lega Araba al presidente Assad. L'inizio di febbraio registrava il dispiegarsi di un intenso lavoro diplomatico concernente la situazione siriana, dapprima con il tentativo di far votare in Consiglio di sicurezza una risoluzione presentata dal Marocco per conto della Lega Araba che prevedeva l'uscita di scena di Assad, e successivamente, nel tentativo di ottenere il consenso russo e cinese, un testo molto ammorbidito, che in pratica si limitava alla condanna della repressione messa in atto dal regime di Assad. Anche su questo testo, tuttavia, il 4 febbraio si registrava il veto della Russia e della Cina, che innescava durissime reazioni delle cancellerie occidentali, come anche dei paesi appartenenti alla Lega Araba: in particolare, il 6 febbraio gli Stati Uniti hanno chiuso la loro rappresentanza a Damasco, mentre il giorno successivo gli Stati arabi appartenenti al Consiglio di cooperazione del Golfo e diversi paesi occidentali - Italia, Francia, Spagna e Olanda - hanno richiamato per consultazioni i propri ambasciatori in Siria. I paesi del CCG hanno fatto anche di più, giungendo ad espellere gli ambasciatori siriani accreditati nelle loro capitali e ad accusare il regime di Assad di massacro collettivo contro un popolo disarmato. Di fronte all’impasse diplomatica, nei giorni successivi alla bocciatura della risoluzione in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU si rincorrevano le indiscrezioni su progetti di fornitura di armi ai ribelli siriani, sulla valutazione da parte americana di possibili opzioni di intervento militare - sulle quali non vi sarebbe stato l'accordo dell'Unione europea, comunque pronta anche ad operare mediante piani di evacuazione di emergenza dalla Siria -, nonché sulla presenza in territorio siriano di agenti militari dei paesi occidentali, ipotesi questa agitata soprattutto dalla Russia. Il 12 febbraio la Lega Araba, riunita al Cairo, ha impresso un nuovo slancio agli sforzi per venire a capo della tragica situazione della Siria: infatti l'Organizzazione panaraba ha posto fine con nettezza alle ambiguità che avevano circondato lo svolgimento della missione di osservatori in territorio siriano, dichiarandone la cessazione, e rilanciando abbastanza clamorosamente con la richiesta alle Nazioni Unite della creazione di una forza di pace congiunta formata da Nazioni Unite e Lega Araba. È stato inoltre deciso di sospendere il coordinamento diplomatico tra paesi arabi e Siria, sia a livello bilaterale, sia in seno alle Organizzazioni internazionali. Di grande importanza appare poi la richiesta di sottoporre al diritto internazionale la punizione di quanti verranno ritenuti responsabili dei massacri contro la popolazione civile siriana. La Lega Araba ha altresì aperto con chiarezza al fronte degli oppositori al regime di Assad, ai quali, in cambio del raggiungimento di una maggiore compattezza ed unità di intenti, ha assicurato appoggio politico e finanziario, come dimostrava anche il via libera dato alla richiesta tunisina di ospitare il 24 febbraio una conferenza degli amici della Siria. Anche l’inizio di febbraio vedeva purtroppo proseguire lo stillicidio di attacchi delle forze armate e di sicurezza siriane contro i civili, mentre il regime di Assad continuava a presentare gli avvenimenti quale legittima reazione ad un complotto armato in atto nel paese. Già il 1º febbraio si registravano una sessantina di morti nella regione centrale di Homs e nei dintorni di Damasco, ma anche sulle montagne occidentali nei pressi del confine libanese. Dalla serata del 3 febbraio iniziava poi un pesante bombardamento della città di Homs, che secondo fonti dell’opposizione avrebbe provocato circa 250 morti e la distruzione di 30 edifici, fatti oggetto di colpi di mortaio e di artiglieria. Anche in altre località della Siria, come in un sobborgo a sud della capitale e nella città nordoccidentale di Hama vi sono state vittime della repressione. Per converso, le ambasciate siriane in molti paesi arabi ed europei venivano assaltate da seguaci dell'opposizione, che ne hanno quasi ovunque danneggiato gli arredi e sostituito la bandiera con il tricolore siriano dell'indipendenza. Dopo il veto russo e cinese del 4 febbraio alla risoluzione in discussione nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, il giorno successivo si registrava una recrudescenza dei combattimenti tra soldati governativi e disertori, con quasi sessanta vittime, mentre la furia degli oppositori siriani all'estero prendeva di mira anche le ambasciate russe in Libano e in Libia. Il 6 febbraio, nonostante l'imminente arrivo a Damasco del Ministro degli esteri russo Lavrov, con l’obiettivo di indurre il regime a considerare la possibilità di una trattativa con gli oppositori, oltre cinquanta persone morivano per bombardamenti a Homs e nei sobborghi di Damasco. Frattanto si registravano segnali di tensione nell'elemento militare delle opposizioni, ancora privo di una consolidata leadership. Il 10 febbraio anche l'ambasciata siriana a Roma veniva danneggiata da alcuni militanti del “Coordinamento siriani liberi” di Milano, successivamente arrestati. Nella stessa giornata del 10 febbraio un duplice attentato suicida ha colpito nella regione settentrionale Aleppo, il maggiore centro economico del paese, provocando la morte di 28 persone e il ferimento di oltre duecento. Finora non toccata dalla contestazione al regime di Assad, una settimana prima Aleppo aveva visto però le prime manifestazioni contro il governo, cui le opposizioni hanno attribuito la paternità degli attentati in funzione punitiva. Intanto, proseguendo il bombardamento di Homs e i combattimenti nei sobborghi di Damasco, si contavano il 10 febbraio almeno altre cinquanta vittime. Emergeva frattanto la possibilità che effettivamente elementi del terrorismo internazionale si fossero progressivamente infiltrati nel paese per sfruttarne l'instabilità. In tal senso si esprimevano ad esempio alcune fonti dell'intelligence statunitense, per le quali alla base di alcuni attentati perpetrati in Siria a partire dal dicembre 2011 vi sarebbero stati elementi di al Qaida provenienti dall'Iraq. Il 12 febbraio il capo di al Qaida al Zawahiri è sembrato in qualche modo dar ragione a questa ipotesi, intervenendo in video a sostegno della rivolta contro Assad, ma mettendo in guardia la popolazione nei confronti delle iniziative occidentali e di quelle della Lega Araba. Nella seconda metà di febbraio proseguiva la repressione violenta di ogni manifestazione di dissenso, con particolare accanimento contro le due città centrali di Homs e Hama, ma senza trascurare la capitale e l’area meridionale di Daraa. Frattanto veniva messa in campo un'intensa attività diplomatica intorno alla questione siriana, che ha visto però sempre la Russia e la Cina ostacolare ogni progetto della Comunità internazionale nei confronti di Damasco. Il regime di Assad il 15 febbraio ha annunciato che 11 giorni dopo si sarebbe svolto un referendum su un progetto di nuova Costituzione che prevedeva l'introduzione di un sistema multipartitico, dando corso alla soppressione del monopolio politico del partito Baath. Tuttavia, la nuova Costituzione avrebbe vietato tanto i partiti costituiti su base religiosa, quanto quelli a base regionale: in tal modo sarebbero stati comunque esclusi dalla competizione politica sia i Fratelli musulmani che i partiti curdi. Il progetto di Costituzione prevedeva inoltre l'elezione a suffragio universale diretto del presidente, per non più di due settennati. Da notare che il combinato disposto di altre previsioni del progetto costituzionale faceva sì che il presidente potesse essere soltanto di sesso maschile e di religione musulmana. La giurisprudenza islamica sarebbe stata posta alla base di tutte le norme del paese, e sarebbe stato abolito qualsiasi riferimento al socialismo nell'organizzazione socio-economica del paese. La reazione occidentale è stata quella di considerare l'offerta del regime assolutamente tardiva e non credibile, e ci si è spinti anche a parlare di una farsa. Il 16 febbraio l'Assemblea generale dell'ONU approvava un progetto di risoluzione di condanna della repressione attuata dal regime siriano, oramai definita più volte anche dallo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite alla stregua di crimini contro l'umanità: il documento, presentato dall'Egitto a nome della Lega Araba, ha ricevuto il voto contrario di soli 12 paesi, mentre 17 si sono astenuti. Tra i contrari anche Russia e Cina, che proseguivano nel sostegno al regime di Assad, al di là di una dissociazione formale dagli aspetti più plateali della repressione. Mentre la Croce rossa internazionale intraprendeva trattative con il regime siriano per una temporanea cessazione delle ostilità volta a consentire di recare aiuto ai civili coinvolti nella repressione in diverse città della Siria, Cina e Russia inviavano propri emissari a Damasco, e si pronunciavano a favore del processo di riforme intrapreso dal regime con il progetto di nuova Costituzione. Il 22 febbraio un'inviata del Sunday Times e un fotografo francese rimanevano uccisi nel bombardamento dell'edificio in cui si trovavano nel quartiere Bab Amro di Homs, uno dei più martoriati dalla repressione. L'organizzazione Reporters sans frontières riferiva del ferimento di altri due giornalisti occidentali, e accusava il regime di aver bombardato intenzionalmente la casa in cui si trovavano le due vittime, poiché era ampiamente risaputo che essa ospitava da tempo giornalisti stranieri.
Intanto Nazioni Unite e Lega Araba incaricavano l'ex segretario dell'ONU Kofi Annan di intraprendere un'iniziativa diplomatica a tutto campo per tentare di giungere alla cessazione delle ostilità in Siria: anche la Cina e la Russia appoggiavano la nomina di Annan, soprattutto per togliere credibilità alla riunione del 24 febbraio degli amici della Siria, svoltasi a Tunisi su iniziativa della Lega Araba, e con l'adesione di Stati Uniti, Unione europea e Turchia. Nonostante una vasta partecipazione di circa 60 paesi, l'incontro si è chiuso senza particolari risultati, più che altro con una serie di dichiarazioni di intenti per un inasprimento dell'azione della Comunità internazionale verso il regime siriano. L’unica prospettiva credibile per una miglioramento del situazione nel paese mediorientale rimaneva pertanto l'iniziativa della Croce rossa internazionale per una tregua negoziata. Il 26 febbraio si svolgeva il previsto referendum costituzionale, con un'affluenza di poco superiore alla metà degli aventi diritto: il progetto veniva tuttavia approvato con una larghissima maggioranza da quasi il 90% dei partecipanti alla consultazione. Il 27 febbraio l'Unione europea varava il dodicesimo pacchetto di sanzioni contro il regime di Assad, procedendo in particolare al congelamento delle attività finanziarie della Banca centrale siriana, nonché al divieto del commercio di metalli preziosi e di diamanti e all'interdizione dei voli merci effettuati da compagnie siriane. Tali misure si aggiungevano all'embargo sugli armamenti e all'embargo sulle importazioni ed esportazioni di petrolio siriano già in precedenza deliberati. Alle 150 personalità ed entità della Siria già colpite dall'Unione europea congelandone i beni e bloccandone i visti di ingresso nel territorio dell'Unione sono stati aggiunti sette ministri del governo di Damasco. Successivamente, la sanguinosa repressione ha nuovamente raggiunto con particolare accanimento la roccaforte di Bab Amro nella città di Homs, nella quale peraltro sono rimasti per giorni prigionieri due reporter francesi, dopo che il 22 febbraio due altri loro colleghi avevano perduto la vita sotto le bombe del regime. Il 1º marzo fortunosamente i due reporter francesi hanno potuto raggiungere il Libano e mettersi in salvo, ma solo grazie all'aiuto di gruppi di ribelli al regime di Assad. Il 2 marzo il vertice dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea decideva un ulteriore inasprimento delle sanzioni mirate contro il regime siriano, riconoscendo altresì il Consiglio nazionale siriano come legittimo rappresentante del popolo, e dando il via a una raccolta di prove per l'incriminazione dei responsabili delle stragi dinanzi alla Corte penale internazionale. Intanto la situazione a Bab Amro, nonostante le affermazioni del regime di averne preso pieno possesso, si manteneva incerta, tanto che la Croce Rossa internazionale non poteva recare nel quartiere di Homs gli aiuti umanitari, limitandosi a rifornire le zone ad esso limitrofe e a soccorrere i numerosi profughi in fuga dalla regione centrale verso il confine con il Libano. La repressione proseguiva anche nella settimana successiva, concentrandosi in particolare contro la città di Idlib. Vi sono stati peraltro alcuni segnali di indebolimento del regime, quando l'8 marzo la televisione panaraba al Arabiya riportava notizie sulla diserzione di tre generali dell'esercito, che erano stati preceduti dall’ancor più importante abbandono del regime da parte del viceministro del petrolio Hussameddin, l'esponente di più alto grado a lasciare Assad dall'inizio delle proteste nel paese. Il 10 marzo l'ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, inviato dall'ONU e dalla Lega Araba per tentare di avviare una soluzione della questione siriana, si recava a Damasco: qui lo stesso presidente Assad ribadiva la versione ufficiale per cui la repressione in atto sarebbe stata occasionata esclusivamente dall'esistenza di gruppi armati e terroristi nel paese. Sostegno alla difficile missione di Kofi Annan veniva ribadito al Cairo nelle stesse ore da una dichiarazione congiunta della Lega Araba e della Russia, che tornavano a chiedere la cessazione delle violenze da qualsiasi parte perpetrate, la possibilità di un controllo da parte di istituzioni neutrali ma al di fuori di qualsiasi influenza straniera in Siria, il libero accesso di aiuti umanitari alla popolazione nelle zone più martoriate. Nella notte tra 11 e 12 marzo un nuovo atroce episodio di violenza si consumava a Homs, ove intere famiglie venivano decimate, con un bilancio di una cinquantina di vittime, tra le quali molte donne e bambini. Frattanto al Palazzo di Vetro non registrava progressi un’ulteriore bozza di risoluzione, incentrata sulla necessità dell’afflusso di aiuti umanitari urgenti alla popolazione siriana, e sulla quale persisteva lo scetticismo russo e cinese, i due paesi temendo sempre la ripetizione dello scenario libico di un anno prima. In questo contesto, nel quale oltre alla prosecuzione delle violenze contro i civili sarebbero stati ormai secondo l’ONU circa trentamila i siriani fuggiti nei paesi vicini e duecentomila gli sfollati interni; il regime, sulla base del referendum costituzionale di febbraio, indiceva per il 7 maggio elezioni legislative, subito bollate alla stregua di una farsa dal Dipartimento di Stato USA. Il 14 marzo anche il nostro paese ha sospeso l’attività della propria rappresentanza diplomatica a Damasco, richiamandone in patria il personale, per motivi di sicurezza e per dimostrare la riprovazione italiana per le violenze perpetrate dal regime siriano. Due giorni dopo il primo ministro turco Erdogan annunciato che il proprio paese stava valutando la possibilità di creare una zona-cuscinetto al confine con la Siria, in presenza di un costante flusso di profughi verso la Turchia, che sarebbero arrivati ormai al numero di quindicimila. Intanto il 17 marzo due esplosioni colpivano a Damasco la sede dei servizi di sicurezza dell'aeronautica e gli uffici della sicurezza criminale, provocando 27 vittime, per lo più tra i civili. I servizi di sicurezza dell'aeronautica erano particolarmente famigerati, in quanto ritenuti la più efficiente agenzia di controllo e direzione della repressione. Il 19 marzo giungeva a Damasco una squadra di cinque esperti nominati dall'emissario speciale dell'ONU e della Lega Araba per la crisi siriana, Kofi Annan, con l'obiettivo di esaminare congiuntamente con le autorità di governo siriane la possibilità di applicare alcune delle proposte elaborate dall'ex segretario generale delle Nazioni Unite. Altro personale ONU si trovava già dal giorno precedente in Siria per una valutazione sul campo della situazione umanitaria.
Quasi facendo seguito alle aspre critiche all'atteggiamento del governo siriano da parte della Russia, pronunciate dal ministro degli esteri Lavrov il 20 marzo, il giorno successivo il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava una Dichiarazione - con il concorso della Russia della Cina, che stavolta non si opponevano all’adozione del documento - nella quale si richiedeva a Damasco di attuare prontamente le proposte dell'inviato dell'ONU e della Lega Araba Kofi Annan. Tali proposte comprendevano il ritiro delle forze militari dalle città e il rilascio di tutti coloro che fossero stati arbitrariamente arrestati. Come notava lo stesso Ministro degli esteri francese Juppé, si delineava una certa evoluzione della posizione russa, in rapporto al fatto che il regime siriano appariva impermeabile a qualunque iniziativa internazionale, come dimostra il fatto che il giorno dopo la Dichiarazione del Consiglio di sicurezza, dunque il 22 marzo, si verificava un’intensificazione delle violenze, con un bilancio non inferiore a 70 morti. Tra l'altro veniva impedito anche a centinaia di famiglie che cercavano di abbandonare il territorio siriano per entrare in Giordania di lasciare il paese, costringendole ad accamparsi a ridosso della frontiera. La presa di posizione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite veniva comunque criticata da esponenti del Consiglio nazionale siriano, poiché giudicata troppo blanda. Il 23 marzo l'Unione europea adottava ulteriori misure sanzionatorie nei confronti di esponenti del regime siriano e di entità del paese, portando complessivamente a 126 il numero degli individui e a 41 il numero delle entità da esse toccati. L'ultima tornata di sanzioni riguardava quattro donne al vertice del potere siriano, ovvero la first lady, la madre del presidente Assad, nonché una sorella maggiore e una cognata di questi. Le ultime sanzioni hanno colpito anche il Ministro dell'elettricità, il ministro dell'amministrazione locale, alcuni sottosegretari e un imprenditore siriano. Due sono state invece le società toccate dalle nuove misure restrittive. Proseguiva intanto l’iniziativa di Kofi Annan, recatosi a Mosca il 25 marzo, e a Pechino il 27 marzo. L’acutizzazione dello scontro militare La crisi siriana sembrava dunque sempre più precipitare in una dimensione di scontro militare, come testimoniava anche la decisione di creare un Consiglio militare nel quale avrebbero dovuto confluire tutte le truppe dei disertori. La Turchia, che aveva visto sempre più deteriorarsi i rapporti con l’ex alleato siriano, dal quale oltretutto temeva di veder favorire un rilancio del terrorismo secessionista curdo del PKK; concordava con gli Stati Uniti, nell’incontro tra Erdogan e il presidente Obama a Seul (25 marzo), nel dare il via a forniture di carattere non militare ai ribelli siriani. La successiva settimana, apertasi con le speranze suscitate dal convergere della Russia e della Cina a favore del piano di Kofi Annan per la cessazione delle violenze nel paese, e soprattutto con l'annuncio del governo siriano (27 marzo) dell'accettazione del piano Annan; si è poi dipanata con il consueto elenco quotidiano di scontri e di vittime, senza sostanziali progressi verso il cessate il fuoco. Nulla infatti veniva attuato del piano, a cominciare dal ritiro delle truppe e delle armi pesanti dai centri abitati della Siria e dalla parziale tregua quotidiana per consentire la fornitura di aiuti umanitari laddove necessario. Profondo scetticismo era stato del resto espresso dagli oppositori siriani riuniti a Istanbul, ove il 28 marzo riuscivano a convergere su un itinerario mirante all’instaurazione di un governo transitorio dopo l'auspicata fine del regime di Assad. Gli oppositori ribadivano inoltre che il Consiglio nazionale siriano andava considerato l'interlocutore ufficiale e formale del popolo siriano. L'unico neo sulla riunione era la parziale defezione di alcuni elementi curdi, scontenti per la mancanza di prospettive di autonomia nel futuro assetto della Siria. Il vertice della Lega Araba, che per la prima volta in 22 anni si è svolto nella capitale irachena Baghdad (29 marzo), rilanciava l'esortazione alla Siria ad applicare immediatamente il piano Annan, constatando l'assoluta inerzia di fatto del regime di Assad nel dare seguito a quanto a parole accettato il 27 marzo. Tuttavia, Damasco non prendeva troppo sul serio quanto uscito dalla riunione di Baghdad, anche perché ufficialmente sospesa dalla Lega Araba. Va del resto rilevato che anche da parte dei ribelli si poneva un ostacolo non irrilevante all'attuazione del piano Annan, poiché anche questi ultimi non intendevanoo deporre le armi prima che a farlo fosse il regime siriano, ritirando i blindati e le armi pesanti dalle principali città. Il 1º aprile si svolgeva a Istanbul la seconda Conferenza degli amici della Siria, cui prendevano parte circa 80 paesi, dalla quale usciva l’indicazione di porre una data ultimativa al regime siriano per l'applicazione del piano Annan formalmente accettato. In particolare, il segretario generale della Lega Araba, al Arabi, esortava le Nazioni Unite ad adottare misure severe contro il regime di Assad, non escluse quelle previste dal VII capitolo della Carta dell'ONU, che riguarda gli interventi armati a difesa della pace. Nonostante questa presa di posizione, nel complesso la Conferenza non ha espresso alcun orientamento per armare direttamente i ribelli, bensì solo per appoggiarli finanziariamente. La Conferenza ha inoltre ribadito il riconoscimento del Consiglio nazionale siriano come legittimo rappresentante di tutti i cittadini e raggruppamento delle varie frange dell'opposizione. Lo stesso Consiglio nazionale siriano, peraltro, ha giudicato un po' tiepide le misure uscite dalla Conferenza di Istanbul, richiedendo l'apertura di corridoi umanitari per la popolazione sotto il tallone della repressione, nonché la fornitura di armi ai disertori dell'esercito siriano impegnati nei combattimenti.
La data del 10 aprile, entro la quale secondo l'inviato speciale dell'ONU e della Lega Araba Kofi Annan il governo siriano si sarebbe impegnato a ritirare le truppe dalle città e a cessare dalla repressione, diveniva il terreno di scontro con il regime di Assad: infatti la Siria ha sostenuto che il 10 aprile andava considerata data di inizio del ritiro delle proprie forze armate dai centri abitati, da completare semmai entro i due giorni successivi, ed esattamente entro le ore 6 del 12 aprile. Successivamente il regime di Assad manifestava la tendenza ad un’ulteriore dilazione del termine, considerando la mancanza di qualunque impegno delle forze di opposizione a cessare a loro volta dai combattimenti, che, si ricorda, il regime di Damasco aveva costantemente richiamato quale vera causa della repressione. L'atteggiamento della Siria prendeva corpo nonostante le esortazioni di Kofi Annan e dell'attuale Segretario generale dell'ONU a cessare immediatamente ogni violenza, e nonostante la seconda Dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU del 5 aprile, nella quale si ribadiva il pieno sostegno all'opera di Kofi Annan, con l'obiettivo di favorire l'accesso degli ormai indispensabili aiuti umanitari in Siria e avviare un processo di transizione politica verso un regime pluralistico nel paese. La Dichiarazione insisteva altresì sull’importanza di una credibile supervisione delle Nazioni Unite sul rispetto degli impegni assunti da Damasco - nella stessa giornata del 5 aprile, infatti, un primo gruppo di appartenenti alla missione di osservatori ONU giungeva nella capitale siriana. Nei giorni successivi la repressione e i combattimenti proseguivano, mentre da parte dell'opposizione armata siriana emergeva progressivamente un impegno ad aderire alla cessazione delle ostilità entro il 12 aprile, accompagnato però dalla minaccia di riprendere immediatamente i combattimenti in caso di inosservanza del cessate il fuoco da parte del regime di Assad. Ulteriori difficoltà si manifestavano poi con il coinvolgimento indiretto dei paesi confinanti, anzitutto della Turchia, che vedeva salire in modo esponenziale il numero di profughi provenienti dalla Siria, e il cui campo di Kilis veniva più volte attinto dal fuoco delle truppe governative siriane impegnate a scoraggiare l'esodo dei profughi o a fronteggiare oppositori armati - naturalmente ciò suscitava forti proteste da parte del governo di Ankara. Anche nel Nord del Libano il fuoco delle forze di sicurezza siriane provocava la morte di un cameraman della televisione libanese e il ferimento di due suoi colleghi, nelle stesse ore in cui due siriani e due turchi venivano feriti nel campo profughi di Kilis. La pericolosità delle tensioni turco-siriane era tanto maggiore alla luce delle accuse che Damasco rivolgeva alla Turchia, ma anche all’Arabia saudita e al Qatar, di sostenere attivamente e di addestrare i gruppi armati operanti nel paese. Esortazioni a rispettare gli impegni per la cessazione delle ostilità venivano nuovamente da Kofi Annan il 10 aprile, in occasione della visita in un campo profughi che ospitava siriani nel sud della Turchia. Nelle stesse ore, tuttavia, il Ministro degli esteri siriano poneva ulteriori condizioni all'espletamento del mandato della missione di osservatori, pretendendo anche di intervenire sulla composizione di essa, mentre le truppe governative provocavano la morte di un altro centinaio di persone. L’11 aprile il governo siriano, dopo un trionfalistico annuncio sulla sconfitta dei “terroristi” e la ripresa totale di controllo del territorio, si diceva pronto ad attuare la tregua a partire dal giorno successivo, mantenendo peraltro le truppe pronte a nuovi interventi. In effetti nella giornata del 12 aprile, nonostante sporadici bombardamenti a Hama e Homs, il cessate il fuoco veniva sostanzialmente rispettato da entrambe le parti, come rilevato con moderata soddisfazione da Kofi Annan. L’evoluzione della posizione russa e la Risoluzione 2042 La giornata del 12 aprile vedeva maturare a Washington, durante la seconda giornata della riunione dei ministri degli esteri del G8, un'evoluzione della posizione russa, disponibile ad accettare nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU la discussione di una bozza di risoluzione per l'invio di una missione di osservatori in Siria. Mentre la tregua veniva rispettata solo parzialmente, tanto che nelle prime 36 ore le forze governative uccidevano una trentina di persone, al Palazzo di Vetro la Russia frapponeva qualche ulteriore resistenza all'approvazione del testo in discussione, giudicato da Mosca eccessivamente lungo e dettagliato. Il 14 aprile, infine, la bozza di risoluzione veniva approvata all'unanimità dal Consiglio di sicurezza (Risoluzione 2042): il testo approvato prevedeva l'invio immediato di una missione esplorativa in Siria, composta da non più di trenta osservatori militari non armati, allo scopo di controllare il rispetto del cessate il fuoco, ma anche degli altri punti del piano di pace sottoposto ad Assad da Kofi Annan, con particolare riguardo al ritiro delle forze militari e degli armamenti pesanti dai centri abitati. Le autorità siriane erano inoltre invitate a consentire il libero accesso del personale umanitario a tutte le persone bisognose di assistenza, facilitandone l’operato. La risoluzione conteneva inoltre l’intendimento del Consiglio di Sicurezza, qualora le parti avesero assicurato una cessazione duratura delle violenze, a dar vita immediatamente ad una vera e propria missione di monitoraggio dell’ONU in Siria. Il Segretario generale delle Nazioni Unite avrebbe dovuto riferire sull’attuazione della risoluzione 2042 entro e non oltre il 19 aprile 2012. La Russia, per bocca dell'ambasciatore presso le Nazioni Unite Churkin, avvertiva tuttavia che per l'invio della missione di osservatori vera e propria avrebbe dovuto essere approvata una seconda risoluzione, successivamente ad un rapporto sulla situazione siriana da parte del Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon. Nella serata del 15 aprile, comunque, giungevano a Damasco i primi osservatori dell'ONU, mentre il segretario generale Ban Ki-moon esprimeva preoccupazione per le violazioni della tregua, che avrebbero provocato nella giornata 13 vittime tra i civili. Peraltro il governo di Damasco metteva in qualche modo le mani avanti, precisando di non essere in grado di garantire l'incolumità degli osservatori se il loro lavoro e i loro movimenti non fossero avvenuti in completo raccordo con le autorità del paese, e ribadendo inoltre di avere il diritto di non accettare eventualmente la nazionalità di alcuni degli osservatori. A tale proposito il Consiglio nazionale siriano, per bocca di un suo esponente, ha esplicitamente accusato il regime di voler controllare tutti i movimenti della missione di osservatori, anche per mezzo della sezione speciale dei servizi di sicurezza che sarebbe stata creata già durante la missione di osservatori della Lega Araba dei mesi precedenti. Si confermava intanto il rispetto solo parziale della tregua in vigore dal 12 aprile da parte del regime siriano, e anche nella giornata del 16 aprile vi sarebbero state una trentina di vittime, soprattutto nella regione di Idlib, ma anche con bombardamenti su Homs e incursioni delle forze di sicurezza nelle province di Hama e Daraa. Il 19 aprile il Segretario generale dell'ONU denunciava il proseguire delle violenze da parte delle forze del regime e il mancato ritiro delle truppe e degli armamenti dalle città, mentre non vi era stato alcun rilascio di prigionieri e si continuavano a denunciare abusi contro di essi. Anche l'accesso di aiuti umanitari risultava ancora problematico. Da parte dei combattenti contro il regime di Assad venivano rivolte nella stessa giornata esortazioni a compiere operazioni militari mirate in appoggio alle azioni dei ribelli.
Il 21 aprile il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvava una seconda Risoluzione sulla Siria (la n. 2043), la cui urgenza era stata particolarmente sostenuta dalla Russia, votando all'unanimità l’invio di un contingente di non più di trecento osservatori militari disarmati, oltre alla necessaria componente civile. La missione deliberata (UNSMIS – United Nations Supervision Mission in Syria), guidata dal generale norvegese Robert Monod, della durata iniziale di 90 giorni e sulla quale già in precedenza le Nazioni Unite avevano firmato un protocollo d'intesa con il governo siriano, sarebbe stata soggetta ad una frequente (15 giorni) periodica valutazione da parte del Segretario generale dell'ONU che avrebbe riferito al CdS, soprattutto in ordine all'effettivo rispetto – fino a quel momento solo parziale - del cessate il fuoco. La Risoluzione invitava inoltre sia le autorità siriane che le opposizioni armate a porre fine a ogni combattimento, presupposto questo essenziale per la valutazione del Segretario generale sulle modalità e i tempi di dispiegamento di UNSMIS. Per quanto riguarda l’Italia, il Consiglio dei ministri ha autorizzato, l'8 maggio 2012, la partecipazione all’UNSMIS di militari italiani, nel ruolo di “osservatori delle Nazioni Unite”, non armati, fino ad un massimo di 17 unità. Gli attivisti dei comitati di coordinamento che si oppongono in Siria al regime non hanno nascosto la loro delusione, sostenendo che la missione avrebbe fallito il proprio obiettivo, in quanto insufficiente a coprire il vasto territorio siriano, e si sarebbe risolta solo in un’ulteriore concessione di tempo al regime di Assad. La nuova risoluzione apriva inoltre il problema di trovare l'accordo con la Siria sulle nazionalità dei componenti della missione, che Damasco desiderava il più possibile appartenere a paesi non ostili al regime di Assad. Il 23 aprile, mentre nuovamente si levavano voci a denunciare la perdurante repressione in atto nel paese, che violava l'impegno sul cessate il fuoco, nuove sanzioni europee e americane colpivano la Siria: in particolare, quelle decise dal Presidente USA Obama si sono rivolte verso una serie di tecnologie con le quali il regime sarebbe stato in grado di rintracciare e colpire gli oppositori mediante il controllo dei telefoni cellulari e dei social network della rete Internet. Il 26 aprile vi era, tra l’altro, l’uccisione di 11 bambini nel bombardamento di un palazzo a Hama – ma il governo ha attribuito l’esplosione all’attività di terroristi che preparavano ordigni -, nelle stesse ore in cui la Turchia ventilava la possibilità di portare in sede NATO la situazione di tensione del proprio confine con la Siria, oggetto nei giorni precedenti di ripetute violazioni durante l’inseguimento di profughi. Il giorno successivo un attentato suicida colpiva il centro di Damasco, confermando che il cessate il fuoco veniva sostanzialmente violato, con conseguente fallimento del piano di Kofi Annan, come già rilevato dalla Francia ed a seguire dagli USA. Quando il 30 aprile diverse esplosioni colpivano la città nordoccidentale di Idlib, solo da un mese ritornata sotto il controllo del regime di Assad, il governo aveva buon gioco nell’attribuire la morte di non meno di otto persone ai “terroristi”. Gli oppositori hanno tuttavia rigettato ogni responsabilità sulle autorità siriane, accusate di organizzare attentati – come alcuni episodi recenti avrebbero dimostrato – per poter figurare quali vittime del terrorismo agli occhi della Comunità internazionale. Del resto anche l’arrivo degli osservatori della Lega Araba nel dicembre 2011 era stato accompagnato, sempre secondo gli oppositori, da una serie di attentati. Il 3 maggio sono stati gli studenti universitari di Aleppo, solo da poco tempo unitisi alla contestazione del regime siriano, ad essere vittime della repressione, con una massiccia irruzione delle forze di sicurezza nei dormitori del campus, danneggiando suppellettili, procedendo ad arresti e - secondo quanto riferito – uccidendo due dei giovani ospiti del campus. Nel contempo si diffondeva la notizia dell’arresto di due figli del noto dissidente Fayez Sara, fondatore della Lega dei giornalisti siriani. Il portavoce della UNSMIS rilevava in effetti che non vi era ancora il completo rispetto del cessate il fuoco. Nemmeno le elezioni politiche del 7 maggio hanno segnato una ricomposizione dei contrasti: piuttosto, esse sono state boicottate anche da forze di opposizione moderata non colpite dalla repressione, in quanto giudicate solo un’operazione cosmetica del regime, il cui controllo sul Parlamento – già di per sé scarsamente incidente sulla vita politica siriana – non sarebbe venuto meno meno per la sola fine del monopolio politico del Partito Baath, giacché il Baath avrebbe continuato pur sempre a designare oltre la metà dei deputati su base corporativa, mentre il divieto della formazione di partiti a sfondo etnico o confessionale avrebbe reso possibile solo la presentazione di liste di candidati indipendenti piuttosto omogenei tra loro. Inutile dire che le elezioni sono state bollate alla stregua di una farsa dalle opposizioni più radicali. Il pessimismo sul destino della missione ONU si accresceva il 9 maggio, quando un attentato sfiorava addirittura un convoglio di osservatori che si dirigeva verso Daraa, e soprattutto il giorno successivo, con la morte di oltre 50 persone – tra cui 11 bambini - e il ferimento di trecento in un duplice attacco di kamikaze a Damasco. L’attentato veniva rivendicato due giorni dopo da un gruppo fondamentalista sunnita poco conosciuto, il Fronte della vittoria, che già si era attribuito in gennaio un analogo ma meno sanguinoso atto terroristico nella capitale. I dissidi all’interno del fronte delle opposizioni Il 13 maggio il Ministro degli Esteri Giulio Terzi riceveva a Roma il capo del Consiglio nazionale siriano Burhan Ghalioun, nella capitale italiana impegnato dal giorno precedente in un incontro del Segretariato del Cns. Proprio tale riunione contribuiva a sancire le perduranti divisioni nel fronte che si contrapponeva al regime di Assad, scosso da polemiche politiche e rivalità personali tra i dissidenti all'estero e quelli in patria - questi ultimi, riuniti in maggioranza nella Commissione di coordinamento nazionale (Ccn). Gli esponenti della Ccn accusavano il Cns di essere diretto solo da esponenti di élite espatriati, pur avendo un importante seguito di militanti all'interno della Siria I dissidi interni alle opposizioni siriane si sono acuiti dopo la rielezione di Ghalioun nella riunione di Roma, ove ha sconfitto il candidato Sabra, cristiano e più legato all’opposizione operante all’interno della Siria, tanto che lo stesso Ghalioun si è detto pronto alle dimissioni per scongiurare il completo fallimento dei tentativi di unificare il fronte delle opposizioni, e si è dopo pochi giorni effettivamente dimesso, criticando anche le divisioni tra laici e islamici in seno allo stesso Cns. Frattanto si verificavano, a partire dalla metà di maggio, casi di propagazione del conflitto siriano in Libano, che hanno destato comprensibilmente una grande preoccupazione sia nelle locali autorità che nella Comunità internazionale. Il 18 maggio lo stesso segretario generale dell’ONU, a seguito di prove presentategli dal rappresentante siriano alle Nazioni Unite, riconosceva la presenza di al Qaida in Siria e l’elevata probabilità che avesse portato a termine gli attentati di Damasco del 10 maggio. Nella stessa giornata del 18 maggio si svolgeva ad Aleppo – seconda città della Siria -, in concomitanza con il venerdì di preghiera, la più massiccia manifestazione di contestazione al regime dall’inizio delle proteste nel 2011.
Il 25 maggio i carri armati del regime siriano entravano per la prima volta anche ad Aleppo, ma, soprattutto, va segnalato il massacro di Hula, cittadina della provincia di Homs, dove pesanti bombardamenti di artiglieria attribuiti dagli osservatori dell’ONU ai carri armati delle forze governative – che peraltro hanno negato ogni responsabilità, attribuendola a forze terroristiche impegnate in un complotto straniero - provocavano più di cento morti, e tra questi moltissimi bambini. Tra le reazioni indignate della Comunità internazionale spiccava quella del ministro degli esteri italiano Giulio Terzi,il quale, incontrando a Roma l'omologo francese Laurent Fabius, richiedeva una nuova riunione del Gruppo degli Amici della Siria, per valutare ulteriori iniziative in sede ONU anche al di là del piano Annan, e definito inaccettabile lo sviluppo degli eventi in Siria. D'altra parte, il massacro di Hula ha fatto sì che l'Esercito libero siriano, essenzialmente composto da militari disertori, dichiarasse la fine del piano Annan, esortando le Nazioni Unite e i paesi amici dell'opposizione siriana a lanciare raid aerei contro le forze del presidente Assad, e preannunciando una escalation militare contro le forze governative, suscettibile di configurare sempre più la crisi siriana come una vera e propria guerra civile. La Russia peraltro continuava a puntare con forza sulla riuscita del piano Annan, mettendo in luce come le responsabilità delle violenze fossero ormai condivise dal regime e dall’opposizione siriani, e non sembrava disponibile ad accogliere una soluzione – che sarebbe piaciuta invece agli USA - come quella che nello Yemen ha portato all’allontanamento dal potere del presidente Saleh, mantenendo però alla direzione del paese buona parte del suo entourage politico. Il 28 maggio Kofi Annan tornava a Damasco, lanciando un appello per l’effettiva applicazione del piano di pace da lui stesso formulato, soprattutto con la fine delle violenze da chiunque perpetrate. La reazione alla strage consumatasi a Hula raggiungeva il 29 maggio un momento di coordinamento a livello europeo, con la decisione di Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito di espellere i rappresentanti diplomatici siriani nelle rispettive capitali, dichiarandoli persona non grata. Altrettanto hanno fatto gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia: i capi delle diplomazie europee hanno chiuso in modo apparentemente irrevocabile ogni possibilità per Assad di rimanere alla guida della Siria, e anche il premier turco Erdogan ha parlato di situazione ormai giunta al limite da parte del regime di Assad. La Russia, invece, ha proseguito nel sostegno al regime siriano, continuando a lanciare appelli alla fine delle violenze a tutti gli attori del conflitto, ed esortando l’ONU a condurre un'inchiesta imparziale sui fatti di Hula, sui quali veniva peraltro reso noto dall’Alto commissariato ONU per i diritti umani che i resti delle vittime avrebbero suggerito che solo una piccola parte di esse sia stata provocata dai colpi di artiglieria, mentre quattro quinti dei morti sarebbero stati uccisi in un secondo tempo, in vere e proprie esecuzioni, anche con armi da taglio, da parte dei miliziani filogovernativi – questo tragico clichet si sarebbe poi ripetuto nei giorni successivi in varie circostanze.
Va rilevato come le divisioni nel seno dell'opposizione al regime di Assad siano proseguite e semmai si siano aggravate - i vertici all'estero dell’Esercito di liberazione siriano (ELS) non hanno condiviso l'ultimatum di 48 ore lanciato il 30 maggio dai ribelli operanti all'interno della Siria perché il regime di Assad applicasse finalmente tutti punti del piano Annan - e va altresì segnalato come, in modo abbastanza strumentale, la questione siriana fosse ormai entrata pienamente anche nella campagna per le presidenziali americane. Il candidato repubblicano Romney infatti accusava il presidente Obama di consentire il massacro siriano rifiutandosi di armare i ribelli, mentre l'Amministrazione in carica ribattvae che, per le divisioni al loro interno e le loro caratteristiche ancora in buona parte non chiarite, sarebbe stato troppo rischioso consegnare armamenti alle numerose fazioni dell'opposizione; anche sul piano europeo si rilevavano notevoli divergenze di posizione, con il Belgio quale unico sostenitore della prospettiva di intervento armato in Siria - ma il neopresidente francese Hollande non escludeva a sua volta del tutto tale eventualità -, mentre la Germania, ad esempio, affidava solo alla via dei negoziati e della politica la soluzione del rebus di Damasco. Ciò consentiva al presidente russo Putin, teoricamente in difficoltà per il costante appoggio alla permanenza del regime siriano, di affrontare senza troppe difficoltà il doppio vertice del 1º giugno a Berlino e del 2 giugno a Parigi, rispettivamente con la cancelliera Merkel ed il Presidente francese, facendo valere l'approccio più morbido della Germania nei confronti di una Francia per la quale era assolutamente improponibile l'ipotesi di una permanenza di Assad al potere. In tal modo, comunque, né la Germania né la Francia riuscivano ad ottenere alcun cedimento russo sulla prospettiva, perlomeno, di un inasprimento sanzionatorio nei confronti di Damasco. Il ruolo di sostegno al regime siriano da parte di Cina e Russia veniva confermato anche il 1º giugno, quando il Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani approvava a Ginevra una risoluzione di condanna del massacro di Hula, con una maggioranza nella quale non figuravano né Mosca né Pechino. Il 2 giugno, mentre una sessione straordinaria della Lega Araba convocata in Qatar sollecitava nuovamente il rispetto del piano di pace di Kofi Annan, minacciando in caso contrario l'uso della forza, lo stesso Kofi Annan paventava la prospettiva di una guerra a tutto campo ormai imminente in Siria. Inoltre, il 2 e 3 giugno il conflitto siriano tornava a riecheggiare anche nel Nord del Libano, dove nella città di Tripoli vi sono stati 14 morti e più di trenta feriti in rinnovati scontri tra gruppi sunniti e alawiti. Nemmeno l’intervento di Assad in Parlamento (3 giugno) offriva speranze di una qualche evoluzione positiva della situazione: il presidente siriano tornava ad accusare forze straniere e terroristiche per l’escalation delle violenze, incluso il massacro di Hula, e in tal senso escludeva qualsiasi possibilità di dialogo con il Consiglio nazionale siriano. Dure critiche ha destato il discorso di Assad da parte dell’Arabia Saudita – il cui capo della diplomazia ha auspicato la creazione in Siria di una zona-cuscinetto – e della Turchia, per bocca del premier Erdogan. Il Vertice tra Russia ed Unione europea svoltosi nei pressi di San Pietroburgo e concluso il 4 giugno non ha portato novità in riferimento alla tragedia siriana: le parti hanno sì convenuto sulla necessità di sostenere ulteriormente l’attuazione del Piano Annan, ma confermando le divergenze già registrate in ordine al livello di pressioni da esercitare sul regime siriano e sul suo capo Bashar al-Assad – la cui permanenza al potere, tuttavia, la Russia ha precisato subito dopo – e nello stesso senso si è espressa Pechino - non è una priorità inderogabile. All’interno della Siria appariva poi con chiarezza il superamento della tregua che i ribelli avevano accettato all’inizio dell’applicazione del Piano Annan: soprattutto dopo il massacro di Hula essi dichiaravano di voler riprendere i combattimenti a protezione delle popolazioni siriane attaccate dal regime, mentre chiedevano a gran voce l’intervento armato della Comunità internazionale. Che il conflitto siriano, nello stallo sostanziale della diplomazia, precipitasse sempre più in una sorta di guerra civile, sembrava confermato anche dal relativo calo del numero dei civili uccisi, accompagnato dal netto incremento delle vittime tra i governativi e i ribelli in armi. Il 5 giugno, come ritorsione all’espulsione degli ambasciatori siriani decretata il 29 maggio in diversi Paesi occidentali, la Siria dichiarava indesiderati 17 diplomatici. Il 6 giugno – mentre a Damasco veniva incaricato un ex ministro dell’agricoltura di dar vita al nuovo governo dopo le contestate elezioni legislative del mese precedente - si svolgeva il Vertice russo-cinese a Pechino, dal quale usciva la proposta di una Conferenza internazionale per garantire l’attuazione del Piano Annan. Parallelamente, paesi occidentali e arabi si erano ritrovati a Istanbul nell’ambito del gruppo degli Amici della Siria, esprimendosi per nuove sanzioni contro Damasco e per il deciso avvio di un processo di transizione. A quest’ultima prospettiva sembravano però opporsi le gravi divisioni interne al fronte degli oppositori del regime di Assad, come anche i rischi di degenerazione in uno scontro confessionale aperto tra sunniti e alawiti in Siria e nel vicino Libano.
Il 6 giugno si assisteva anche ad una nuova strage di civili ad opera dell’artiglieria governativa e delle milizie lealiste alla periferia di Hama: il bilancio è stato di circa cento vittime, di cui venti bambini. La nuova strage faceva dichiarare apertamente il giorno dopo al segretario generale Ban Ki-moon, davanti all’Assemblea generale dell’ONU, che il regime di Damasco aveva ormai perso ogni legittimità. Segnali di ricompattamento delle opposizioni al regime siriano si sono avuti il 10 giugno, quando il Consiglio nazionale siriano, nella riunione di Istanbul, eleggeva il nuovo leader, nella persona del curdo lungamente esiliato in Svezia Abdelbasset Sied, una figura potenzialmente capace di coinvolgere maggiormente le minoranze etniche e religiose della Siria nell’opposizione ad Assad. Sied ha subito annunciato che il Cns avrebbe assunto la direzione dei ribelli armati operanti all’interno del paese, inquadrati nell’Esercito libero siriano. Sied, inoltre, è tornato a lanciare un vibrante appello alla Comunità internazionale perché, ai sensi del Capitolo VII della Carta dell’ONU, autorizzasse un intervento armato a protezione dei civili siriani. L'11 giugno gli osservatori della missione ONU in Siria facevano rilevare una ulteriore escalation da parte del regime di Assad, con l'uso di elicotteri militari contro le basi della ribellione armata, e nel mezzo del conflitto sempre più numerosi erano i civili intrappolati e privi anche dei più elementari mezzi di sussistenza. Non a caso gli stessi osservatori si sarebbero impegnati nell'evacuazione di un gran numero di civili, fra cui naturalmente anche donne e bambini, bloccati nella città di Homs. Un rapporto sempre di fonte ONU evidenziava subito dopo gli orrori nei quali venivano coinvolti in Siria i bambini, uccisi, incarcerati e fatti oggetto di ogni forma di violenza, fino a utilizzarli come scudi umani nei convogli di soldati governativi. Anche i ribelli, tuttavia, si sarebbero resi responsabili di tali atrocità, con il reclutamento e l'uso in combattimento di numerosi bambini. Il 13 giugno la Francia tornava con forza, per bocca del ministro degli esteri Fabius, a invocare un intervento delle Nazioni Unite basato sul capitolo VII della Carta dell'ONU, che avrebbe consentito di armare coloro che vengono inviati sul campo. Inoltre, Fabius è tornato a ventilare l'opportunità di imporre una parziale no fly zone sui cieli siriani, a protezione dei civili delle zone più martoriate. Emergeva intanto il raccapricciante assassinio di una madre e di cinque figli tutti di età non superiore a sei anni in una zona a Nord di Aleppo a maggioranza curda, nelle stesse ore nelle quali l'esercito governativo assumeva il controllo della cittadina di Haffe, nella regione costiera di Latakia, popolata da sunniti e cristiani, ma circondata da villaggi alawiti. Parallelamente al rilancio francese in direzione di una possibilità almeno parziale di intervento armato Nazioni Unite - che Parigi ha poi ulteriormente corroborato annunciando la fornitura ai ribelli di mezzi di comunicazione -, gli Stati Uniti hanno accentuato la pressione su Mosca, accusata anche di fornire al regime siriano gli elicotteri militari utilizzati già più volte nella repressione: il ministro degli esteri russo Lavrov, in visita a Teheran, ha respinto ogni accusa, asserendo che Mosca avrebbe fornito a Damasco esclusivamente armamenti difensivi, confermando la propria opposizione ad ogni ipotesi di ricorso all'intervento armato in Siria e rigettando le accuse nel campo statunitense, con l'accusa a Washington di fornire armamenti ai ribelli siriani. Il capo della missione di osservatori delle Nazioni Unite accusava il 15 giugno sia i governativi che i ribelli di limitare il lavoro della UNSMIS a causa della escalation delle violenze: il giorno successivo le operazioni venivano sospese e gli osservatori militari si ritiravano nelle loro basi, disposti a riprendere il proprio lavoro solo quando le condizioni di sicurezza fossero migliorate. Il Consiglio nazionale siriano richiedeva intanto l’invio di una missione ONU più numerosa e armata, in grado di proseguire nella propria opera nonostante le violenze. Nell’incontro in margine al Vertice G20 di Los Cabos (Messico) del 18 e 19 giugno i presidenti russo e americano, in un clima assai più disteso rispetto alle relazioni bilaterali degli ultimi mesi, convenivano sull’opportunità di collaborare per contribuire a porre fine alle violenze in Siria e scongiurare lo spettro di una guerra civile totale, nonché permettere al popolo siriano di scegliere indipendentemente e democraticamente il proprio futuro: in pratica, tuttavia, ognuno è rimasto sulle sue posizioni, senza far registrare alcun progresso. Mentre continuava l’impasse della missione di osservatori disarmati delle Nazioni Unite, impossibilitati a svolgere il loro compito per l’escalation della violenza, si assisteva intanto a un notevole intensificarsi delle azioni armate dei ribelli contro le forze di sicurezza del regime siriano: il 20 giugno un convoglio che comprendeva operatori italiani dell’ANSA è stato colpito, probabilmente da una bomba posta al margine della strada, che ha provocato la morte di uno degli agenti siriani che accompagnavano il convoglio e il ferimento di altri tre. Si infittivano anche le voci di intense trattative per giungere a uno sblocco della situazione siriana attraverso l'esilio di Bashar al-Assad, e si verificava il 21 giugno il primo caso di defezione di un pilota militare siriano, il cui Mig-21 è atterrato in Giordania, ove veniva concesso al militare asilo politico.
Il 22 giugno la questione siriana si arricchiva di un nuovo elemento di grave tensione, quando un velivolo militare turco veniva abbattuto dalla contraerea siriana mentre si trovava in volo sul mare poco più a sud del confine turcosiriano, poiché avrebbe, secondo Damasco, violato lo spazio aereo nazionale. Una riunione d'urgenza veniva convocata ad Ankara da Erdogan, con la partecipazione del capo di stato maggiore, dei ministri dell'interno, degli esteri e della difesa, nonché del capo dei servizi segreti di Ankara. Il 23 giugno interveniva il presidente turco Abdullah Gul, dopo un contatto telefonico con Damasco, preannunciando un'indagine per comprendere se il velivolo turco avesse violato lo spazio aereo siriano: Gul affermava inoltre che la vicenda dell'abbattimento dell'aereo era di gravità tale da non poter in nessun caso essere ignorata. Il 24 giugno il ministro degli esteri turco Davutoglu, in un intervento in diretta televisiva, sosteneva che il velivolo si trovava nello spazio aereo internazionale – un possibile breve sconfinamento nello spazio aereo siriano non è stato escluso, ma si sarebbe verificato un quarto d'ora prima dell'abbattimento - , era disarmato e non tentava in alcun modo di nascondere la propria nazionalità. Inoltre, l'abbattimento sarebbe avvenuto senza alcun preavviso, e Davutoglu ha espresso scetticismo sulla dichiarazione siriana per la quale la contraerea di Damasco avrebbe ignorato trattarsi di un aereo della Turchia. Il governo di Ankara dichiarava dunque quello siriano un atto ostile, precisando peraltro di voler dare una risposta nei limiti del diritto internazionale. Dalla Siria veniva una secca replica, rivendicando l'abbattimento come atto di difesa della propria sovranità, e comunque perpetrato alla stregua di un incidente, e non con intenti aggressivi, verso un velivolo che comunque si sarebbe trovato nello spazio aereo siriano. I rapporti bilaterali tra Turchia e Siria venivano inaspriti anche dalla denuncia di Damasco, che in qualche modo potrebbe collegarsi all’abbattimento del velivolo turco, delle continue infiltrazioni di gruppi definiti terroristici dal confine settentrionale - ovvero dalla Turchia - a tale proposito si moltiplicavano le voci e le conferme di un’intensa attività della CIA nei pressi del confine siriano, con una sorta di smistamento degli armamenti che l'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia avrebbero inviato ai ribelli siriani, anche per impedire con il loro controllo che finissero nelle mani di Al-Qaïda o di gruppi fondamentalisti sunniti siriani. Il governo turco chiedeva intanto alla NATO la convocazione di una riunione sull'abbattimento del proprio caccia da parte dei siriani: secondo la portavoce della NATO la Turchia avrebbe chiesto consultazioni sulla scorta dell'articolo 4 del Trattato istitutivo dell'Alleanza atlantica, che le prevede appunto qualora uno Stato membro ritenga di essere oggetto di una possibile minaccia alla sua sicurezza o indipendenza politica. La Turchia ha inoltre accompagnato l'iniziativa diplomatica con una nota di protesta inviata alla Siria. In riferimento all’abbattimento del jet militare turco da parte dei siriani, avvenuto il 22 giugno, le riunioni dei ministri degli esteri UE del 25 giugno e quella degli Ambasciatori NATO del giorno successivo esprimevano solidarietà alla Turchia, anche per il carattere equilibrato della sua reazione. Ai toni di crescente rabbia delle massime autorità turche la Siria – appoggiata da esperti russi – ribatteva di non credere alla versione turca del jet disarmato sconfinato per errore: si sarebbe trattato piuttosto di un tentativo di spiare le forze armate siriane a vantaggio dei ribelli, o addirittura di un test sulle difese antiaeree siriane a beneficio di possibili azioni della NATO. La Turchia iniziava frattanto a rafforzare il dispositivo militare sui 600 km. di frontiera con la Siria, preannunciando immediate reazioni in caso di violazioni di confine. Il 30 giugno, il 1° e il 2 luglio velivoli turchi F-16 si alzavano in volo a prevenire eventuali violazioni dello spazio aereo turco da parte di elicotteri siriani in avvicinamento alla frontiera comune. Il 3 luglio il presidente Assad, in un’intervista a un quotidiano turco, tentava di allentare la tensione esprimendo rincrescimento per l’abbattimento dell’aereo di Ankara e condoglianze alle famiglie dei due piloti - i cui corpi sono stati finalmente individuati il 4 luglio, giorno nel quale la pubblicazione della seconda parte dell’intervista ad Assad ha rinfocolato le tensioni, con accuse al premier turco Erdogan di ingerenza negli affari interni della Siria e di aperto sostegno ai gruppi “terroristi”. Peraltro il ritrovamento dei corpi dei due piloti e dei resti del jet turco abbattuto faceva emergere la maggior credibilità della tesi siriana, per la quale l'abbattimento sarebbe avvenuto effettivamente nelle acque territoriali della Siria, e la prova principale sarebbe stata l'assenza di tracce, sui rottami, dell’impatto di un missile - dunque l'aereo sarebbe stato colpito dal fuoco della contraerea a distanza ravvicinata. In tal senso Erdogan, che non aveva ricevuto se non espressioni di solidarietà a parole, iniziava a incassare anche le critiche della stampa nazionale, che constatava il sostanziale blocco dell'iniziativa di Ankara. Anche l'opposizione politica turca, soprattutto quella socialdemocratica, attaccava il governo denunciando i lati oscuri della vicenda e facendosi interprete dei sentimenti largamente pacifisti dell'opinione pubblica turca. Nuovo piano internazionale di transizione per la Siria. Attentato al ministro siriano della difesa a Damasco. Escalation delle vittime Il 30 giugno si era intanto svolta a Ginevra una Conferenza sulla Siria convocata da Kofi Annan dopo la constatazione del fallimento di fatto del proprio piano per la cessazione delle violenze nel paese mediorientale. Alla conferenza hanno preso parte USA, Regno Unito, Francia, Cina, Russia, Iraq, Qatar, Kuwait e Turchia, oltre ai segretari generali di ONU e Lega Araba e all’Alto rappresentante UE per la politica estera Catherine Ashton. La Conferenza approvava un piano di transizione imperniato sulla creazione di un organo esecutivo formato da esponenti dell’attuale governo di Damasco e da membri dell’opposizione. Il piano non trattava esplicitamente del destino politico del presidente Assad, e proprio su tale questione riemergevano dopo la Conferenza le divergenze tra chi (i paesi occidentali) riteneva che il piano implicasse la fine politica di Assad, e chi invece (la Russia), attenendosi alla lettera del documento, non ne prevedeva necessariamente le dimissioni. Tanto le opposizioni quanto il regime di Assad hanno per una volta convenuto nel definire la Conferenza di Ginevra come l’ennesimo fallimento, poiché non avrebbe fatto registrare alcun mutamento nelle posizioni dei principali attori internazionali. Nel crescente scetticismo sulle possibilità di una soluzione diplomatica del conflitto siriano, il regime promulgava il 2 luglio una nuova legge che prevede la pena di morte per chi a seguito di atti terroristici cagioni la menomazione o addirittura il decesso delle vittime. A fronte di tali inasprimenti, le opposizioni proseguivano nel mostrare profonde divisioni, con il boicottaggio della riunione del 3 luglio al Cairo – alla quale hanno partecipato il Consiglio nazionale siriano, la Turchia e la Lega Araba – da parte dell’Esercito siriano libero, che opera all’interno del paese. Uno dei leader curdo-siriani si è spinto ad accusare il Cns di vole instaurare un regime islamico. Il 6 luglio si svolgeva a Parigi l’ennesima Conferenza degli amici della Siria, con la massiccia presenza di ben 107 delegati di altrettanti Stati – ma con l’assenza di Russia e Cina -, dalla quale risuonava un vigoroso monito ad Assad perché lasciasse il potere. In particolare, il segretario di Stato USA Hillary Clinton ha propugnato con forza la necessità di adottare una nuova risoluzione in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, nella quale si definissero con chiarezza le conseguenze per il regime siriano se acesse continuato a non rispettare il piano Annan, conseguenze che dovrebbero attingere anche le misure previste dal capitolo VII della Carta dell’ONU (che, si ricorda, prevede anche come extrema ratio interventi armati). Tra i punti della dichiarazione finale della Conferenza spiccavano il rifiuto di ogni impunità per i crimini fino ad allora commessi, l’effettiva applicazione delle sanzioni economico-finanziarie e un deciso rafforzamento dell’appoggio alle opposizioni al regime di Assad. La Conferenza si è svolta mentre era in volo verso Parigi il generale Manaf Tlass, comandante di una delle unità della Guardia repubblicana e vicinissimo ad Assad, come suo padre lo era stato nei confronti del padre del presidente siriano, Hafez Assad: la defezione di Tlass è stata vista unanimemente come un duro colpo alla compattezza del regime siriano. Il 7 luglio, a più riprese, razzi e proiettili di mortaio siriano raggiungevano il nord del Libano, uccidendo cinque persone, tra cui due profughi siriani. Il 10 luglio altre bombe siriane colpivano il territorio libanese, dopo che nella notte una sparatoria aveva coinvolto presso il confine le forze di sicurezza di Damasco e miliziani presumibilmente appartenenti alle opposizioni armate siriane. Una nuova iniziativa diplomatica di Kofi Annan si sviluppava il 9 e 10 luglio, rispettivamente con incontri a Damasco con il presidente Assad e a Teheran con la dirigenza iraniana, che l'ex segretario generale dell'ONU avrebbe voluto senz'altro coinvolgere nei tentativi di soluzione della grave crisi siriana - al proposito, la posizione di Teheran sembrava relativamente distaccata rispetto al futuro politico di Assad, rimandando a libere elezioni dei siriani nel 2014, in attesa delle quali tuttavia gli Stati stranieri avrebbero dovuto astenersi da interferenze nella grave situazione di scontro sul terreno interno. Kofi Annan, che aveva poi concluso il suo tour diplomatico con un incontro a Baghdad con il premier iracheno al-Maliki, faceva cenno a un “nuovo approccio” concordato con Assad, e volto a risolvere dapprima le situazioni di più grave conflitto in vari distretti siriani. Va comunque rilevato che tanto le opposizioni al regime di Assad quanto gli Stati Uniti rifiutavano con forza la prospettiva di un coinvolgimento dell'Iran nella questione della Siria, il cui esercito intanto, a partire dal 7 luglio, dava dimostrazione di forza con lo svolgimento di esercitazioni militari su larga scala.
La situazione siriana si è mantenuta così a lungo sullo sfondo di un sostanziale stallo diplomatico, con la Russia sempre impegnata a difendere la posizione del presidente Assad, perlomeno fino allo svolgimento di elezioni politiche - difficilmente ipotizzabili, però, nello scenario attuale -, mentre i paesi occidentali tentavano di accrescere le pressioni sul regime siriano, senza trovare tuttavia gli strumenti necessari. Infatti, nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si sono confrontate due diverse bozze di risoluzione, quella russa, che si limitava ad auspicare il rinnovo trimestrale del mandato della missione di osservatori dell'ONU, e quella dei paesi occidentali, che intimava al regime di Assad di cessare entro dieci giorni di utilizzare armi pesanti contro le città maggiormente coinvolte nella ribellione, a pena dell'imposizione immediata di sanzioni economiche e diplomatiche. Il 12 luglio vi sarebbe stato un nuovo massacro nella città di Tremseh, nella provincia di Hama: secondo lo stesso Kofi Annan le forze di sicurezza siriane avrebbero utilizzato armi pesanti, carri armati ed elicotteri, violando impegni contratti con il piano di pace da lui prediposto. Il bilancio della strage sarebbe stato almeno di 150 morti. Di fronte alle veementi proteste internazionali, alle quali si univano anche il Segretario di Stato USA Hillary Clinton e il Segretario generale dell'ONU, il regime siriano, servendosi anche di un rapporto degli osservatori dell'ONU giunti il 14 luglio a Tremseh, sosteneva che nella cittadina l'attacco sarebbe stato concentrato contro cinque edifici usati come base da “terroristi”, e che il numero dei morti sarebbe stato di gran lunga inferiore a quello riportato, con l'uccisione di 37 ribelli e solo due civili. Inoltre, a Tremseh le forze siriane non avrebbero utilizzato nessun tipo di arma pesante. Intanto il 15 luglio i combattimenti tra forze governative e ribelli raggiungevano i sobborghi della capitale, ancora immuni dalle violenze, provocando la chiusura della strada che collega la capitale con l'aeroporto internazionale. Il 16 luglio i combattimenti divampavano nel punto più vicino al centro di Damasco mai raggiunto dall'inizio della ribellione in Siria, il quartiere di al Midan, mentre il ministro degli esteri russo Lavrov denunciava come irrealistiche le pressioni occidentali su Mosca per convincerla ad accettare la dipartita di Assad - secondo Lavrov ricattando la Russia con la minaccia di non prorogare il mandato della missione degli osservatori dell'ONU - poiché il presidente siriano sarebbe sostenuto in primis da una parte cospicua della popolazione siriana stessa. Sul fronte delle pressioni diplomatiche va intanto segnalato che il 16 luglio il Marocco espelleva l'ambasciatore siriano, ricevendone come ritorsione l’immediata dichiarazione di persona non grata nei confronti dell'ambasciatore marocchino. Il 17, e soprattutto il 18 luglio, la situazione siriana registrava un’ulteriore escalation, con l’infuriare dei combattimenti nella capitale, che si avvicinavano sempre più al centro della città, mentre diversi quartieri subivano i bombardamenti delle forze governative. Sintomaticamente, anche il governo iracheno riteneva di dover invitare i propri cittadini presenti in Siria a rientrare in patria, dopo la morte di 23 connazionali coinvolti negli scontri dei giorni passati - tra le vittime irachene anche due giornalisti che seguivano gli eventi siriani sul terreno. Cresceva inoltre l’allarme sollevato già alcuni giorni prima, quando informazioni di intelligence avevano evidenziato come il regime siriano stesse spostando una frazione del notevole arsenale di armi chimiche in suo possesso: oltre all’attenzione statunitense, anche Israele iniziava serrate consultazioni interne tra i vertici politici e militari per studiare l'evoluzione della situazione, con particolare riguardo, oltre che alle armi non convenzionali in possesso dei siriani, anche all'eventualità che le alture del Golan - tuttora occupate dagli israeliani - possano divenire il terreno di un esodo di massa dalla Siria, che porrebbe a diretto contatto con le truppe israeliane masse di profughi disarmati in marcia per lasciare il paese. Tutto ciò nello scenario già paventato da Israele da tempo, per il quale lo sfaldamento eventuale del regime siriano, con conseguente liberazione di un gran numero di elementi sunniti in precedenza repressi, potrebbe agevolare le attività terroristiche di Al-Qaida contro lo Stato israeliano. Il 18 luglio la sede della sicurezza nazionale siriana, mentre era in corso una riunione ad alto livello tra ministri e funzionari, veniva colpita da un attentato la cui dinamica è rimasta poco chiara, anche se la rivendicazione è venuta poco dopo sia dall’Esercito libero siriano che dal gruppo Liwa al Islam, e che provocava la morte del ministro della Difesa Daud Rajha – l’esponente cristiano più in alto nel regime, del generale Hassan Turkmani e soprattutto di Assef Shawkat, cognato del presidente Assad e direttamente impegnato nella direzione della repressione. Il successo dell'attentato è parso corroborare le aspettative degli oppositori, già palesate anche dai Fratelli musulmani, di trovarsi in un momento di svolta nella crisi siriana, della quale hanno dichiarato di attendersi una fine non lontana: in tal senso le dichiarazioni di Abdulbaset Sieda, presidente del Consiglio nazionale siriano. Intanto la Russia, che ha duramente condannato l’attentato, ha continuato a rifiutare l’ipotesi di una nuova risoluzione ONU sulla Siria, poiché essa sarebbe servita a sostenere quella che per Mosca è una rivoluzione in corso. Mentre Kofi Annan chiedeva un differimento del voto in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, La Lega Araba onvocava a Doha per il 22 luglio una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione. Sulla questione delle armi chimiche va segnalato che gli Stati Uniti hanno accresciuto la propria attenzione, soprattutto allarmati dall'ipotesi per cui, vistosi alle strette, il regime di Assad potrebbe addirittura usarne una parte contro l'opposizione e i civili, per non parlare dell'ipotesi funesta per la quale l'arsenale non convenzionale siriano possa finire nelle mani del terrorismo internazionale. Tuttavia, Il portavoce del Dipartimento di Stato sottolineava il 19 luglio che non vi erano al momento indizi di una perdita di controllo del regime siriano su tali armamenti, aggiungendo anche che Damasco era comunque ritenuta responsabile della sicurezza delle proprie armi non convenzionali, e il mancato rispetto dei relativi obblighi sarebbe stato motivo di incriminazione a livello internazionale dei responsabili. In ogni caso, secondo il New York Times, sarebbero stati avviati contatti tra israeliani americani su possibili iniziative comuni nei confronti degli armamenti non convenzionali siriani. Il 19 luglio vi sono stati comunque anche segnali di ripresa del regime siriano, con un’apparizione televisiva del presidente Assad impegnato a ricevere il nuovo ministro della difesa, contraddicendo le voci di una sua fuga nella città costiera di Latakia. Per la prima volta sono apparsi anche i carri armati governativi a Damasco, ponendo le premesse di una progressiva ripresa di controllo della situazione nei quartieri semicentrali. Intanto la Russia e la Cina hanno nuovamente posto il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU di iniziativa occidentale, che prevedeva sanzioni contro il regime e faceva riferimento anche al capitolo VII della Carta dell'ONU. Non è dunque stato sufficiente differire il voto sulla risoluzione, come era stato chiesto da Kofi Annan: l'ambasciatore russo presso le Nazioni Unite ha sostenuto che la bozza in discussione avrebbe aperto la porta ad un intervento militare, e minacciava sanzioni solo nei confronti del governo di Damasco, e non degli oppositori. Anche il rappresentante cinese ha rilevato come il documento fosse sbilanciato e suscettibile di un ulteriore aggravamento della situazione. Ancora una volta, l'atteggiamento russo cinese ha destato le aspre critiche dei paesi occidentali. Nella difficile situazione siriana emergeva intanto progressivamente la tendenza più o meno forte delle minoranze etniche e religiose a non vedere un futuro e a lasciare preferenzialmente il paese: non va infatti dimenticato che il regime siriano, anche al vertice, ha visto per decenni esponenti di una minoranza, quella degli alawiti, in posizione preminente, e può caratterizzarsi proprio come un regime coalizionale di minoranze, che non a caso sotto il dominio degli Assad hanno sempre goduto di un elevato livello di garanzie. Nel nuovo scenario, in cui si prevede l'arrivo al potere della maggioranza sunnita (circa il 70% dei siriani), le minoranze, oltre a temere vendette per il precedente status privilegiato, vedono un oggettivo restringimento degli spazi culturali e religiosi a propria disposizione. Il 19 luglio era anche il giorno dell'incontro a Roma del Ministro degli esteri Giulio Terzi con il presidente del Consiglio nazionale siriano Sieda, a margine del quale il Ministro si diceva preoccupato per lo stallo della risoluzione nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, che avrebbe potuto dare al regime siriano la sensazione di essere ancora più indisturbato nel continuare con le violenze. Secondo il Ministro degli esteri italiano era comunque necessario reagire alla situazione, riattivando al massimo grado le possibilità insite nell'azione del Gruppo di amici del popolo siriano, per esercitare ulteriori pressioni sul regime e un potenziamento delle iniziative umanitarie al momento carenti. Il Ministro Terzi ha infatti ricordato che vi erano ormai in Siria 2 milioni di rifugiati interni, e, oltre alle circa 20.000 vittime, 70.000 feriti, 170.000 arrestati e 70.000 scomparsi. Il 19 luglio si confermava giornata cruciale della crisi siriana anche sul piano delle vittime: infatti l'Osservatorio nazionale per i diritti dell'uomo in Siria ha reso noto che vi sono stati 248 morti, il record dall'inizio della crisi. Il 20 luglio il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava all'unanimità una risoluzione che si limitava a prolungare di 30 giorni il mandato della missione di osservatori in Siria. Va rilevato che la Russia aveva minacciato di opporsi anche a questa bozza di risoluzione, per la condizionalità che essa poneva al regime di Damasco, nel senso di specificare il divieto di ulteriore proroga del mandato della missione di osservatori qualora il regime non avesse cessato di utilizzare armi pesanti contro i ribelli e non avesse creato una situazione più sicura per l'espletamento dei compiti degli osservatori. L'approvazione del documento non metteva la sordina alle polemiche tra Russia e paesi occidentali: gli Stati Uniti hanno autorevolmente sostenuto di aver ormai intenzione di agire al di fuori del quadro delle Nazioni Unite, e la Russia ha ribattuto definendo preoccupante ma anche inefficace questo tipo di iniziative. A Damasco intanto proseguiva la controffensiva dell'esercito per respingere le infiltrazioni dei ribelli, mentre per la prima volta si accendevano scontri nella seconda città siriana, Aleppo. Per quanto riguarda la situazione dei profughi, risultava che tra 19 e 20 luglio circa 30.000 siriani si fossero riversati in Libano: ben più imponente il flusso di ritorno dei 400.000 iracheni circa che avevano a suo tempo cercato riparo in Siria, e che ora ritenevano preferibile muoversi nella direzione opposta. Il governo iracheno, tra l'altro, iniziava a rafforzare il dispositivo di sicurezza nella regione di Anbar confinante con la Siria, inviando rinforzi alla frontiera, anche per prevenire iniziative di Al-Qaida o dei ribelli siriani, che il 19 luglio si erano impadroniti di un posto di confine siriano nella zona. Per quanto concerne la situazione degli scontri, nella capitale appariva come le forze governative avessero ripreso progressivamente il controllo dei quartieri prossimi al centro, mentre anche nella giornata del 20 luglio vi sono state ben 145 vittime – tra di esse va annoverata la morte di un quarto esponente degli apparati repressivi per le ferite riportate nell’attentato del 18 luglio, segnatamente il capo degli apparati di sicurezza Hiktiyar. Mentre appariva sempre più chiaramente che le forze governative avevano ripreso il controllo di buona parte della capitale, gli scontri proseguivano con violenza ad Aleppo. Proseguiva poi con successo la strategia dei ribelli di conquistare alcuni posti di frontiera: nella giornata del 21 luglio ne veniva conquistato uno al confine tra Iraq e Siria, mentre due posti di frontiera tra Siria e Turchia erano già caduti nelle mani degli oppositori. Risultava anche che altri due generali avevano abbandonato il regime siriano ed erano fuggiti in Turchia nella notte tra 20 e 21 luglio, unitamente a uno stuolo di altri ufficiali. Il 22 luglio venivano confermati i progressi militari del regime nella capitale, giacché i bombardamenti cominciavano ad interessare oramai i sobborghi, ma anche la continuazione degli scontri nel centro di Aleppo. Bombardamenti sarebbero stati effettuati anche su Homs e Dayr az Zor. Un altro generale siriano avrebbe disertato nella notte tra 21 al 22 luglio, portando a 25 il numero dei suoi pari grado riparati in Turchia, secondo lo stesso ministero degli esteri di Ankara. Intanto la Farnesina ripeteva l'invito ai connazionali presenti in Siria a lasciare il paese. Fonti dei ribelli in Turchia asserivano poi che gli oppositori avevano conquistato un ulteriore posto di frontiera tra Siria e Turchia, situato a nord di Aleppo: la notizia sarebbe stata confermata da diplomatici turchi a Istanbul. Nella giornata del 22 luglio il nuovo primo ministro siriano Hijab si presentava in Parlamento per illustrare il programma di governo, al centro del quale ribadiva esservi la sicurezza. Hijab ha espressamente reso omaggio alle forze armate, impegnate a suo dire nella resistenza a piani ostili. Per quanto riguarda il ruolo della Turchia nella crisi siriana, va rilevato il rafforzamento del dispositivo militare lungo la frontiera comune, con l'invio di batterie di missili terra-aria e veicoli da trasporto truppe nel sud-est della Turchia. Il 23 luglio i ministri degli esteri dell'Unione europea, riuniti a Bruxelles, hanno adottato il 17° pacchetto di sanzioni nei confronti del regime siriano, con effetto dal 25 luglio: in particolare, è stato sancito per gli Stati membri l'obbligo di rafforzare i controlli sulle navi e sugli aerei diretti in Siria, al fine di prevenire la fornitura di armamenti o di altro materiale utilizzabile dalle forze di sicurezza contro la popolazione. Anche gli aspetti umanitari, sia nei confronti della popolazione sfollata in territorio siriano che della prevedibile crescente ondata di profughi nei paesi vicini, sono stati al centro della riunione di Bruxelles, contemporaneamente alla quale la Commissione europea ha annunciato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro. Per quanto concerne le armi chimiche vi è stata il 23 luglio per la prima volta l'ammissione di Damasco di detenere tali armamenti: il portavoce del ministero degli esteri ha tuttavia sottolineato come la Siria potrebbe servirsi delle armi chimiche solo in caso di aggressione dall'esterno, e non mai contro i civili e in territorio siriano. Per quanto riguarda i combattimenti, mentre anche nella capitale sono rimaste sacche di resistenza dei ribelli, gli scontri più violenti si sono spostati ad Aleppo, dove anche nella giornata successiva, il 24 luglio, sono state fatte affluire ingenti forze dell'esercito. Il generale Tlass, che alcuni giorni prima era riparato in Francia in polemica con il regime del suo fraterno amico Assad, ha rivolto un appello ai militari siriani a defezionare, per non rendersi complici di veri e propri atti criminali di un regime corrotto. Il 25 luglio la televisione turca Ntv ha annunciato la chiusura dei posti di confine con la Siria, dopo che nei giorni precedenti erano stati oggetto di attacco da parte dei ribelli siriani, che ne avevano conquistati tre. Il viceministro degli esteri russo Gatilov, dal canto suo, ha reso noto che la Russia avrebbe ricevuto forti rassicurazioni dalla Siria sul pieno controllo dell'arsenale chimico da parte delle forze del regime. Va rilevato come, dopo la proroga di un mese del mandato della missione di osservatori dell’ONU, e dopo le successive dimissioni del capo della missione medesima, circa la metà degli osservatori hanno lasciato la Siria e di fatto abbandonato la missione delle Nazioni Unite. Va segnalato come il 26 luglio rappresentanti di 11 gruppi dell'opposizione interna siriana hanno firmato a Roma, con il patrocinio della Comunità di S. Egidio, un appello per una soluzione pacifica della crisi siriana affidata alla Comunità internazionale e non all'uso delle armi. In tal senso le Nazioni Unite, quale unico responsabile degli aiuti umanitari, dovrebbero intervenire per il completo ritiro degli apparati militari e un vero cessate il fuoco. L'appello di Roma non esclude nemmeno la possibilità che esponenti del regime siriano non macchiatisi di crimini possano essere considerati interlocutori nel processo di soluzione, del quale però non dovrà far parte il presidente Assad. Da notare la critica che gli esponenti convenuti a Roma hanno riservato al Consiglio nazionale siriano, il quale, composto da siriani espatriati, non avrebbe diritto a chiedere interventi armati esterni dei quali il popolo siriano sarebbe la prima vittima. Il tragico scenario siriano, nel quale aumentavano le defezioni di importanti esponenti del regime, tra i quali deputati e diplomatici, cominciava a preoccupare seriamente per le sue conseguenze su scala regionale la Turchia - che vede un grave rischio nel prevalere nel nord della Siria di milizie curde, e perciò ha preannunciato di riservarsi la possibilità di eventuali inseguimenti in territorio siriano- e Israele, che si è preparata a fronteggiare massicci esodi, o addirittura attacchi, dalla parte delle alture del Golan. Frattanto, confermando alcune voci del giorno precedente, è divenuto evidente il 27 luglio l'assedio che le forze corazzate del regime avevano posto attorno alla città di Aleppo, nella quale le postazioni dei ribelli sono state colpite da ripetute incursioni di elicotteri. Particolarmente drammatica si è subito rivelata la situazione dei civili nella seconda città della Siria, per i quali il Comitato internazionale della Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa siriana hanno allestito rifugi di fortuna in diverse scuole, mentre proseguiva l'esodo di numerosi siriani verso il Libano, la Turchia e la Giordania. Intanto, mentre il regime annunciava la creazione di un Tribunale speciale per l'antiterrorismo, per la prima volta si verificava uno scontro tra le forze armate siriane e quelle giordane al confine tra i due paesi, dopo che i siriani avevano a quanto pare occupato una postazione di avvistamento in territorio giordano. Il 28 luglio si è pienamente scatenata l'offensiva delle forze del regime su Aleppo, con massicci bombardamenti da terra e dal cielo, aggravando ulteriormente le condizioni dei civili, in gran parte intrappolati nei loro quartieri. Il ministro degli esteri russo Lavrov, d'altra parte, ha sostenuto essere irrealistica l’aspettativa che il governo siriano non reagisse all'occupazione delle grandi città da parte dei ribelli - al proposito, infatti, i combattimenti sono proseguiti anche nella capitale e nei sobborghi di essa. Il 29 e il 30 luglio è proseguita la battaglia nella città di Aleppo, con dichiarazioni di opposto tenore delle parti in lotta, ciascuna delle quali ha vantato successi, a scopo più che altro propagandistico. Sul fronte diplomatico non si sono registrate evoluzioni nella posizione russa in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, mentre il regime ha dovuto prendere atto delle defezioni dell'incaricato d'affari siriano a Londra e del vicecapo della polizia di Latakia, città da cui proviene il clan alawita degli Assad. Oltre ad Aleppo, sono infuriati scontri a Homs, come riferito dal nuovo capo della missione di osservatori dell’ONU Babacar Gaye, che il 29 luglio è stato fatto segno con il suo team di un attacco, che non ha fortunatamente provocato vittime né feriti. Si sono inoltre intensificati gli scontri tra le forze del regime e i ribelli in prossimità del confine turco (regione di Idlib), accrescendo sensibilmente le preoccupazioni di Ankara, che ha rafforzato il dispositivo militare al confine con la Siria con ulteriori truppe e batterie missilistiche, e ha effettuato il 1° agosto manovre di mezzi corazzati. La stessa giornata vedeva la prosecuzione dei combattimenti ad Aleppo per il quinto giorno consecutivo, mentre nel complesso perdevano la vita in tutta la Siria quasi 120 persone. Le opposizioni tornavano a mostrare tutte le loro divisioni, che passavano soprattutto per la discriminante di fondo dell'essere all'interno della Siria o dell'agire all'estero. In particolare, gli espatriati vedevano una prematura volontà di spartizione del potere all’interno della Siria, come avrebbe dimostrato la proposta di una fazione vicina all'Arabia Saudita, che aveva ipotizzato la possibilità di dar vita a un governo di transizione. Il 2 agosto 2012 la situazione apparentemente senza sbocco della Siria induceva Kofi Annan ad annunciare le sue dimissioni dall’incarico di inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba per il conflitto in Siria: l'ex segretario generale dell'ONU rilevava l'ostinazione del governo siriano a non applicare nella sua intierezza il piano in sei punti a suo tempo sottoscritto, ma nello stesso tempo stigmatizzava l'escalation in senso militare dell'azione delle opposizioni. Questi elementi si inserivano poi, secondo Kofi Annan, nello stallo nell’iniziativa della Comunità internazionale, in ragione delle profonde divisioni all'interno di essa: tali divisioni erano del resto confermate persino nella sede non vincolante dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove subiva un rinvio il voto su una bozza di risoluzione della crisi siriana presentata dai paesi arabi. Il 2 agosto era anche la giornata di un tentativo di attacco dei ribelli all'aeroporto militare sito a nord di Aleppo, servendosi di un carro armato con ogni probabilità sottratto alle forze del regime: l'attacco era tuttavia respinto dalla pronta reazione delle forze lealiste. Il ministero degli esteri siriano criticava intanto aspramente i servizi di sicurezza turchi per l'appoggio che fornirebbero alle azioni dei ribelli, cui sarebbe consentito di partire dal territorio turco per compiere attacchi in Siria, e verrebbe assicurato appoggio logistico. In effetti, le affermazioni del governo siriano sembravano corroborate da più voci, compresa quella degli Stati Uniti, che hanno confermato lo stanziamento di 25 milioni di dollari in aiuti di carattere non letale ai rivoltosi siriani. Mentre la battaglia in corso ad Aleppo registrava anche l'interruzione delle comunicazioni telefoniche e telematiche per quasi 24 ore, l'esercito siriano tornava a bombardare pesantemente il territorio giordano, aumentando i rischi di estensione regionale del conflitto, al di là della motivazione di colpire elementi della ribellione rifugiatisi in Giordania. Il 3 agosto l’Assemblea generale dell'ONU poteva finalmente approvare la risoluzione sulla Siria, passata con una larga maggioranza, nella quale si sollecitava la transizione politica nel paese, ma, soprattutto, si deplorava in modo del tutto irrituale lo stallo in seno al Consiglio di sicurezza a fronte dell’escalation di violenza nel paese. Nelle stesse ore i ribelli, che significativamente avevano cominciato a esercitare un servizio di protezione delle proteste ripetutesi in tutta la Siria in occasione della preghiera islamica del venerdì, pronunciavano una forte condanna delle esecuzioni sommarie di lealisti emerse nei giorni precedenti, diffondendo anche un rudimentale codice etico per il rispetto dei diritti dei prigionieri e la disciplina del comportamento degli appartenenti alla ribellione armata, in vista anche di una riconsegna completa delle armi alle future autorità legittime della Siria. La maggior parte delle vittime nella giornata del 3 agosto si sono avute a Hama, dove avrebbero perso la vita sotto i bombardamenti dell'artiglieria governativa quasi 70 persone. Frattanto il perdurante sostegno della Russia al regime di Assad era confermato dal raggiungimento a Mosca di un accordo per la fornitura di greggio alla Siria. Il 4 agosto, nonostante le affermazioni dei giorni precedenti da parte delle forze governative, nuovi combattimenti di grande intensità interessavano alcuni quartieri della capitale siriana, non troppo distanti dai palazzi del potere. Ad Aleppo intanto i ribelli riuscivano a prendere per qualche ora il controllo dell'edificio dove opera la televisione di Stato, per essere poi nelle ore successive respinti: grande preoccupazione ha destato l'avvicinarsi dei combattimenti alla cittadella antica di Aleppo, dichiarata dall'UNESCO patrimonio culturale dell'umanità. L'Iran è stato frattanto nuovamente coinvolto nel conflitto siriano, dopo la vicenda di alcuni mesi prima che aveva visto il rapimento e la successiva liberazione di una decina di iraniani a Homs, per la mediazione decisiva della Turchia: infatti 48 pellegrini sciiti iraniani venivano catturati da bande di ribelli sulla strada tra Damasco e l'aeroporto internazionale, che oltretutto è una delle arterie più importanti per il regime siriano. Il giorno successivo, il 5 agosto, emergeva che tra i pellegrini iraniani rapiti vi sarebbero stati anche alcuni pasdaran. Il 6 agosto vi è stata la clamorosa defezione del neo premier del regime siriano, Riad Hijab, che tramite il suo portavoce ha dichiarato alla tv panaraba al-Jazira di denunciare il genocidio collettivo commesso dal regime di Assad. Hijab ha sostenuto di essere stato sin dall'inizio dalla parte della ribellione, ma di non aver potuto disertare perché sotto minaccia di morte, anche nei confronti dei propri familiari. La defezione di Hijab ha avuto sicuramente un alto valore simbolico, come segno ulteriore della disgregazione del regime siriano, ma scarso impatto istituzionale, poiché l'ordinamento peculiare della Siria vede per il capo del governo e per il Parlamento un ruolo meramente rappresentativo, con il potere reale saldamente nelle mani del rais Assad e della sua cerchia di uomini fidati. Il 7 agosto l’alto rappresentante della Guida Suprema iraniana Jalili, incontrando a Damasco il presidente Assad, ribadiva pienamente il sostegno della Repubblica islamica al regime siriano, impegnato secondo gli iraniani in uno scontro tra i sostenitori e gli avversari dell'asse della resistenza - con ciò intendendo il fronte antisraeliano nel Medio Oriente: la Siria, secondo l'Iran, è un perno essenziale di tale asse, cui Teheran non farà mai mancare il proprio sostegno. Intanto l'osservatorio nazionale dei diritti umani in Siria, per una volta all'unisono con l'agenzia ufficiale Sana, denunciava come grave crimine l'uccisione di 16 operai a Homs, la maggior parte dei quali alawiti, che sarebbe stata perpetrata da ribelli non controllati dall’Esercito libero siriano. Oltre a ribadire il sostegno alla Siria, tuttavia, la diplomazia iraniana, nella persona del ministro degli esteri Salehi – recatosi ad Ankara – si è impegnata nei confronti della Turchia per ottenere la liberazione dei pellegrini iraniani catturati nei giorni precedenti. Oltre alla richiesta di interessamento, tuttavia, la Turchia si è vista anche investire da minacce del capo di stato maggiore iraniano, per il quale in Turchia potrebbe spostarsi il prossimo teatro di violenze nella regione, proprio per il sostegno di Ankara alle opposizioni siriane. L’8 agosto Teheran ha ammesso comunque la presenza di alcune guardie rivoluzionarie in pensione nel gruppo dei pellegrini sequestrati in Siria, negando tuttavia ogni motivazione extrareligiosa del loro pellegrinaggio. In una giornata in cui è stata documentata l’uccisione di non meno di 91 persone, tra cui 12 donne e 10 bambini, è stato anche diramato il tragico bilancio sulle vittime del conflitto siriano nel mese di luglio: in una carneficina che ha raggiunto l'apice a un anno e mezzo dall'inizio delle manifestazioni contro il regime di Assad, sarebbero morte in luglio 3.643 persone, con una media di 121 al giorno, e tra queste vi sarebbero ben 274 bambini e 322 donne. Il 9 agosto infuriava ancora la battaglia ad Aleppo, con le forze governative in avanzata, senza peraltro riuscire a piegare in via definitiva il fronte dei ribelli. Intanto a Damasco veniva nominato il nuovo primo ministro, nella persona del ministro della sanità Wael Halqi. Sono cresciuti i segnali di una possibile estensione del conflitto siriano a livello regionale: infatti, la Turchia si spingeva ad accusare Damasco di appoggiare l'offensiva dei ribelli separatisti curdi del PKK, che in pochi giorni, a partire dalla fine di luglio, aveva provocato nel Kurdistan turco quasi 150 morti. In tal senso il ministro degli esteri turco accusava direttamente la Siria di armare il PKK, e il premier di Ankara Erdogan minacciava di colpire i separatisti curdo-turchi anche in territorio siriano. D'altro canto, la Turchia riceveva a sua volta accuse siriane di sostenere e armare i ribelli in lotta contro il regime di Assad, e nel contempo vedeva complicarsi ulteriormente i rapporti con Teheran, che sospendeva l'esenzione dei visti per l'ingresso dei cittadini turchi in Iran. In tal senso, nei colloqui di Istanbul dell’11 agosto, il premier turco Erdogan e il segretario di Stato USA Hillary Clinton concordavano su un più stretto coordinamento operativo, in previsione di un peggioramento dello scenario. Lo stesso Iran si rendeva protagonista sul piano diplomatico, attraverso l’organizzazione di una Conferenza consultiva sulla Siria, con la partecipazione di una trentina di paesi non schierati con il fronte occidentale anti Assad. La Conferenza lanciava un appello al dialogo nazionale tra il governo di Damasco e le opposizioni, nonché alla fine delle violenze in Siria, ma anche un avvertimento a non mettere in atto alcun tipo di intervento militare nel paese storicamente alleato dell'Iran. Il 9 agosto vi è stato anche il secondo sbarco di profughi siriani in Calabria, al largo di Crotone, con l'arrivo di 108 persone, dopo le 27 già arrivate il 4 agosto nella Calabria meridionale. Il 12 agosto, mentre ristagnava la battaglia ad Aleppo, si spargeva la notizia dell’uccisione, il giorno precedente, di due giornalisti che lavoravano per la tv pubblica e per l’agenzia ufficiale Sana, mentre il 10 era scomparsa una troupe televisiva filogovernativa – il cui cameraman Hatem Yahiya è stato ucciso il 13 agosto. Il conflitto siriano è divenuto intanto teatro di ulteriori atrocità, per lo più perpetrate proprio dai ribelli e documentate da molteplici fonti di informazione, tanto che gli stessi ambienti dell’opposizione al regime di Assad hanno reagito con sdegno alle brutalità perpetrate da alcune frange dei ribelli - tra i quali sembrava crescere progressivamentela la componente jihadista non siriana -; lo stesso presidente dell'osservatorio siriano dei diritti umani ha parlato di atrocità, e il comando dell'Esercito libero siriano si è dissociato da tali atti. Il 13 agosto è stato anche abbattuto per la prima volta un Mig siriano, a quanto pare grazie all'utilizzazione da parte dei ribelli di un mitragliatore antiaereo sottratto alle forze di sicurezza del regime – il quale ha ricevuto un altro colpo quando il proprio rappresentante presso il Consiglio ONU dei diritti umani ha annunciato a Ginevra la propria defezione, per unirsi al gruppo dissidente di Parigi denominato Raggruppamento democratico. Il 15 agosto è stato pubblicato un rapporto della Commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite, stabilita su mandato del Consiglio ONU per i diritti umani, al fine di investigare sulle violazioni e gli abusi commessi nel corso della crisi siriana. Il rapporto attesta la commissione di crimini di guerra e crimini contro l'umanità su indicazione e con il coinvolgimento dei più alti livelli di governo e delle forze di sicurezza siriani. In particolare, la Commissione ha accertato omicidi, esecuzioni extragiudiziali e torture, nonché gravi violazioni dei diritti umani quali uccisioni illegali, attacchi contro i civili e atti di violenza sessuale. La Commissione ha rilevato altresì come crimini di guerra, in particolare assassinii e torture, siano stati compiuti anche dagli oppositori del regime siriano, ma non della stessa efferatezza, né con la stessa frequenza. Il rapporto mette a fuoco in modo ben preciso il modus operandidelle forze del regime siriano nel portare a termine i massacri, perpetrati dai militari con l'aiuto delle milizie Shabbiha, dapprima attraverso massicci bombardamenti, e poi andando a stanare casa per casa i nemici del regime - compito quest'ultimo nel quale si sono distinti particolarmente proprio i miliziani, accanitisi con ferocia sugli oppositori catturati, ma anche spesso su civili innocenti. Il 15 agosto è stato anche il giorno in cui l’Organizzazione per la cooperazione islamica – la ex Organizzazione della Conferenza islamica – ha deciso di sospendere la rappresentanza siriana, e nel quale è stata resa nota l’ennesima strage, con il ritrovamento di 60 cadaveri con le mani legate in una discarica nel sobborgo di Qatana della capitale siriana. La fine della missione di osservatori dell’ONU. Il 16 agosto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di porre fine in via definitiva alla missione degli osservatori in territorio siriano, ordinando il ritiro degli ultimi berretti blu. Nella stessa riunione il Consiglio di sicurezza ha scelto il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi in sostituzione di Kofi Annan, dimessosi dal ruolo di inviato speciale della Lega Araba e delle Nazioni Unite per la Siria. In una giornata che ha visto altre 179 vittime certificate dagli attivisti siriani - particolarmente raccapricciante quanto constatato da Human Rights Watch nella cittadina settentrionale di Azaaz, ove si sono registrati almeno 40 morti, tra cui molte donne e bambini, colpiti dall'aviazione governativa -, il regime ha dato luogo a un ulteriore rimpasto governativo, sostituendo i ministri dell'industria e della giustizia. Gli oppositori hanno rilevato che probabilmente i due ministri avevano tentato di disertare, come già aveva fatto l'ex premier Hijab. Frattanto in Libano il clan Miqdad - fiancheggiatore del movimento sciita Hezbollah -, un esponente del quale era stato catturato dai ribelli siriani nei pressi di Damasco nei giorni precedenti, scatenava la propria rappresaglia, dando luogo al rapimento di più di 30 siriani e di un cittadino turco. Il 17 agosto, mentre veniva pienamente ufficializzata la nomina di Brahimi, circa 160 persone perdevano la vita in Siria in varie località. Sul piano diplomatico l'Iran si diceva favorevole alla proposta egiziana di formare un gruppo di contatto delle potenze regionali musulmane sulla Siria, per riunire oltre a Egitto e Iran anche Arabia Saudita e Turchia. Il 18 agosto, mentre si diffondevano voci di una defezione tentata dal vice presidente siriano Faruk al Sharaa, che secondo i ribelli sarebbe poi stato arrestato, venivano uccise in Siria più di 140 persone, con l'artiglieria del regime che infieriva in maniera particolarmente pesante sulla regione meridionale di Daraa. Nei giorni successivi, mentre proseguivano i combattimenti, e il 20 agosto ad Aleppo perdeva la vita la giornalista giapponese Mika Yamamoto proprio mentre cercava di documentarli; si verificava un botta e risposta tra gli Stati Uniti e il regime siriano, con il presidente Obama ad ammonire per l’ennesima volta la Siria a non fare ricorso ad armi chimiche (e nemmeno a dispiegarle), pena l’intervento militare statunitense, e il regime di Assad a ribattere che anche contro l’Iraq nel 2003 le armi chimiche si rivelarono un pretesto falso, ma decisivo per l’attacco, che evidentemente i Paesi occidentali preparerebbero anche contro la Siria. A parziale sostegno delle tesi siriane sono sembrate andare le ammissioni francesi in ordine alla forniture militari ai ribelli da parte di Arabia Saudita e Qatar, come anche le indiscrezioni di stampa in Germania e nel Regno Unito sul supporto di intelligence che già da tempo Londra e Berlino avrebbero fornito ai ribelli siriani. Intanto il 21 agosto perdevano la vita in Siria 183 persone, e tra queste le decine di cadaveri ritrovati in alcuni sotterranei nel sobborgo sud-occidentale della capitale di Muaddamiya. Forse ancor più cruenta era il 22 agosto l'azione repressiva delle forze governative siriane contro alcuni sobborghi della capitale in cui i ribelli si erano attestati in posizioni di forza: secondo i consueti schemi, ai bombardamenti e all'attacco massiccio delle forze corazzate faceva seguito l’irruzione casa per casa delle milizie lealiste, anche per terrorizzare la popolazione di queste località, in buona parte favorevole ai ribelli. Nel corso di queste azioni di “disinfestazione” - così le hanno definite i media ufficiali - è stato ucciso anche un ex giornalista ormai da mesi schieratosi contro il regime, Musaab Awdallah, freddato con un colpo alla testa in una vera e propria esecuzione. Il suo destino è stato condiviso da una settantina di altre persone, passate per le armi durante i rastrellamenti. Nel Libano si sono intanto ripetuti scontri armati nella città portuale settentrionale di Tripoli, ancora una volta tra fazioni filosiriane e militanti sunniti. 103 morti hanno caratterizzato la giornata del 23 agosto, che ha visto una nuova offensiva delle forze governative contro la periferia meridionale e i sobborghi antistanti della capitale, senza trascurare la prosecuzione dei combattimenti ad Aleppo, anche qui con le forze del regime in fase di ripresa. Nei giorni successivi l'offensiva governativa si è concentrata particolarmente su uno dei sobborghi della capitale, quello meridionale di Daraya, provocando più di duecento vittime, tra le quali, numerosi, donne e bambini. Mentre il 24 agosto sono rimasti feriti nel Nord del Libano due giornalisti, coinvolti negli scontri in atto tra miliziani sunniti e filosiriani alawiti, il presidente Assad ha incontrato il 26 agosto un emissario iraniano, e al termine dei colloqui ha rincarato la dose, inquadrando gli eventi in corso in Siria nel più vasto contesto regionale, contro il quale sarebbero diretti gli sforzi delle potenze straniere di destabilizzazione del regime di Damasco, quale premessa di un generale ridisegno dei rapporti di forza nella regione mediorientale. Nella stessa giornata del 26 agosto è stato posto fine al giallo che riguardava il vicepresidente siriano Faruk al Sharaa, secondo l'emittente panaraba saudita al Arabiya ormai in salvo in Giordania: in realtà al Sharaa è ricomparso nel suo ufficio nella capitale e ha anche partecipato all'incontro di Assad con l'inviato iraniano, senza peraltro nell’immediato rilasciare dichiarazioni. In seguito, tuttavia, al Sharaa è intervenuto sul complesso della situazione siriana, asserendo che la soluzione della crisi passa per una cessazione della violenza da parte di tutti gli attori in campo, senza precondizioni di sorta. Il 27 agosto, in occasione della conferenza degli ambasciatori di Francia all’Eliseo, il Presidente François Hollande ha affiancato gli Stati Uniti nel sostenere che l'eventuale utilizzazione di armi chimiche da parte del regime siriano costituirebbe per la Comunità internazionale legittima causa di intervento militare diretto. Hollande ha in un certo senso concordato con quanto affermato in precedenza dal presidente siriano Assad sul carattere strategico della Siria per tutta la sicurezza in Medio Oriente, con particolare riguardo alla stabilità libanese. Il presidente francese si è detto disposto a riconoscere un governo provvisorio siriano già all'atto della sua formazione. Nella stessa giornata si è registrato l'abbattimento di un elicottero governativo da parte dei ribelli sui cieli della capitale, mentre l'offensiva governativa si concentrava sulla parte orientale di Damasco. Nel complesso si sono registrati 112 morti, dei quali 41 nella capitale e dintorni. Di 61 persone è stato invece il bilancio delle vittime il 28 agosto, 17 delle quali uccise nella cittadina del nord ovest di Kfarnabl pesantemente bombardata dall'aviazione siriana. Nel sobborgo di Jaramana, a sud di Damasco, vi è stato un attentato che ha provocato la morte di 12 persone, e che il governo ha attribuito ai ribelli: Jaramana ha una popolazione prevalentemente costituita da drusi, un'altra minoranza sciita non ortodossa, che non si è apertamente schierata contro il regime di Assad. Il 29 agosto, mentre proseguivano i combattimenti a Damasco e ad Aleppo, nella parte orientale della capitale i ribelli hanno conquistato un deposito di missili all'interno della base militare di Saqba. Inoltre, i ribelli avrebbero attaccato l'aeroporto militare di Duhur, tra le città di Aleppo e Idlib, nel Nordovest siriano. Nel complesso, la giornata ha fatto registrare 76 vittime, la maggior parte delle quali nella capitale e negli immediati dintorni. Il 30 agosto il presidente egiziano Morsi, recatosi in Iran per il passaggio di consegne della presidenza triennale del Movimento dei non allineati al collega Ahmadinejad, ha affermato con nettezza la liceità della ribellione al regime siriano, definito sanguinosamente oppressivo, rimanendo in ciò agli antipodi della posizione di Teheran, che continuava ad appoggiare strenuamente il regime di Assad. Morsi ha chiesto ai 120 paesi non allineati intervenuti al Vertice di Teheran di sostenere la lotta dei siriani con la ricerca di una soluzione non militare, ma politica alla crisi in atto. Nella stessa giornata i ribelli siriani riuscivano per la seconda volta in meno di un mese ad abbattere un Mig governativo, e, soprattutto, progredivano nel tentativo di impadronirsi dell’aeroporto militare di Duhur. Ne seguiva un pesante bombardamento sulla cittadina, con il sapore della rappresaglia, che provocava anche la morte di otto bambini. La giornata del 30 agosto avrebbe registrato complessivamente 67 vittime tra i civili e i ribelli, in seguito tra l’altro a combattimenti nei sobborghi meridionali e nordorientali di Damasco, durante i quali i governativi avrebbero anche assaltato un ospedale. Il 31 agosto mostrava che le forze filogovernative non intendevano rinunciare al controllo dell’aeroporto di Duhur, intorno al quale tornavano a infuriare i combattimenti, peraltro forti anche in altre zone della Siria, come in prossimità del confine iracheno – qui l’offensiva era in mano ai ribelli -, ad Aleppo e nei dintorni settentrionali della capitale, ove le autorità procedevano a sbarrare gli accessi dall’esterno, nonché ad isolare le principali moschee dei quartieri maggiormente interessati dalla rivolta. Anche il 31 agosto il numero delle vittime è stato stimato in 67. In considerazione del sempre crescente numero di sfollati e profughi siriani – secondo stime dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati avrebbe raggiunto alla fine di agosto la cifra di 230.000 la massa dei siriani espatriati, a fronte di un milione e mezzo di sfollati interni – la cooperazione italiana allo sviluppo ha inviato in Turchia un volo carico di aiuti umanitari per i profughi siriani colà ospitati. Il 1° settembre è caduta la resistenza dei governativi nella base della difesa aerea di Albukamal, nell’estremo lembo orientale della Siria: in tal modo i ribelli hanno potuto impadronirsi di grandi quantità di armi e munizioni antiaeree – sembra al proposito che gli oppositori armati non siano in grado di pilotare i velivoli eventualmente catturati, le cui bombe e missili sono perciò inservibili. Infatti, un gran numero di aerei ed elicotteri sarebbero stati distrutti a terra nei vari attacchi ad aeroporti militari. Il 2 settembre, a conferma del delicato ruolo che l’intelligence americana ricopre in Turchia per coordinare gli aiuti ai ribelli e, al tempo stesso, impedire che finiscano nelle mani sbagliate (al Qaida), rassicurando nel contempo Ankara sulla possibile escalation delle azioni armate del terrorismo curdo, il capo della CIA David Petraeus si è recato in Turchia. I ribelli hanno denunciato frattanto una campagna di attacchi indiscriminati contro i civili in tutto il territorio siriano, con l’obiettivo, da parte delle forze lealiste, di prevenire l’estensione della rivolta, colpendo soprattutto i giovani, potenziali nuovi ribelli; nonché di precostituire forse una ridotta di estrema resistenza per gli alawiti nella regione occidentale di Latakia, previa una vera e propria pulizia etnica. Da parte loro i ribelli hanno colpito con due diversi ordigni il quartier generale dell’esercito siriano, con effetti tuttavia assai limitati. Per porre fine alle persistenti divisioni in seno alle opposizioni – la ribellione è infatti guidata dall’Esercito libero siriano e da comitati locali, assai più che dal Consiglio nazionale siriano - lo stesso Cns avrebbe deciso di aprirsi alla partecipazione di ulteriori gruppi di oppositori, operanti sia in patria che all’estero. Si segnala che il 3 settembre si è tenuta a Roma la prima riunione del “Tavolo interministeriale sulla Siria”, presieduta dal ministro degli esteri Giulio Terzi, assistito dal sottosegretario Marta Dassù, dopo pochi giorni dall’incontro del “Core Group” del Gruppo degli Amici della Siria svoltosi sempre nella capitale il 29 agosto. "La caduta del regime di Assad, quando avverrà, non deve trovarci impreparati. L’Italia è impegnata con i principali partner a definire le linee che guideranno l’azione internazionale e, in questo ambito, il suo impegno nazionale - nei settori dell’aiuto umanitario, del sostegno economico, e della ricostruzione delle istituzioni - nella Siria del 'dopo Assad'”: con queste parole il Ministro degli Affari esteri ha commentato l’insediamento di questo nuovo organismo che ha trattato la preoccupante questione degli sfollati all’interno del Paese (almeno un milione e mezzo) e dei rifugiati nei Paesi confinanti (oltre 200mila, fra Turchia, Giordania, Libano, Kurdistan iracheno), un aspetto della crisi che, oltre ai suoi dolorosi risvolti umanitari, può ripercuotersi sulla stabilità regionale, ed in prospettiva può costituire anche un elemento di preoccupazione per i flussi migratori verso l’Europa. Il Tavolo ha altresì affrontato il tema della ricostruzione economica della Siria, in considerazione dei tradizionalmente forti legami economici bilaterali, che, prima della crisi, vedevano l’Italia primo partner commerciale del Paese fra gli europei. Si è concordato di individuare le aree prioritarie e di tracciare una mappatura dei settori verso i quali Governo e imprese dovranno concentrare il loro impegno nel dopo Assad. Frattanto la preoccupazione per la possibile prossima caduta del regime ha indotto anche alcune frange di cristiani ad organizzare proprie milizie, per fronteggiare la temuta ondata di vendette da parte dei sunniti, da sempre discriminati dal “regime delle minoranze” del clan degli Assad; più in generale, il conflitto sembra pericolosamente seguire sempre più le linee di faglia delle diverse confessioni religiose del paese, e ciò potrebbe preludere a una tragica guerra civile di stampo confessionale, come quella libanese del 1975- 1990. Il 12 settembre, quando la prosecuzione inarrestabile dei combattimenti registrava più di cento vittime, un attentato ad un posto di blocco governativo nella provincia di Idlib, perpetrato per mezzo di un’autobomba, provocava la morte di 18 soldati. Nulla più di un valore interlocutorio ha avuto l’incontro del 15 settembre a Damasco tra Bashar al-Assad e Brahimi, che il giorno prima aveva incontrato anche gli oppositori interni tollerati dal regime. Diversi appelli sono stati lanciati negli stessi giorni dal Papa Benedetto XVI, durante la sua delicata visita in Libano, perché la Comunità internazionale e i paesi arabi raggiungessero un’intesa praticabile per la pacificazione della Siria. Le Nazioni Unite, con il progredire dello stallo siriano, hanno registrato un sempre maggiore afflusso nel paese di miliziani integralisti islamici, accanto all’incremento delle violazioni dei diritti umani, attribuite ormai ad entrambe le parti in conflitto. Il 19 settembre ha visitato la Siria il Ministro degli esteri iraniano Salehi, dopo consultazioni ad Ankara e al Cairo, e ha ribadito il sostegno illimitato di Teheran al regime di Assad, quale parte fondamentale dell’”asse della resistenza” al nemico sionista e occidentale. Il giorno dopo il bombardamento aereo di una stazione di rifornimento nell’estremo nord siriano provocava decine di morti, mentre il regime siriano ribadiva la linea dura, e accusava il gesuita italiano Paolo dall’Oglio, già espulso dal paese, di dar vita dall’estero a una campagna prezzolata di disinformazione contro il governo siriano e a favore di gruppi sunniti integralisti. Il 22 settembre una fazione dell’Esercito libero siriano ha annunciato lo spostamento nella parte settentrionale del territorio siriano – che sarebbe ormai libera dai governativi – del proprio comando, finora ubicato nella Turchia meridionale: la stessa Tuschia, intanto, rafforzava il dispositivo militare nella parte centrale della frontiera con la Siria, in previsione di più aspri combattimenti. Il 23 settembre sono cominciati a Damasco i lavori di una Conferenza sponsorizzata da Russia e Cina, nella quale si sono ritrovati membri di diverse fazioni delle opposizioni operanti all’interno del paese: la Conferenza ha chiesto una serie di misure, a partire dal cessate il fuoco, per ristabilire condizioni atte all’instaurazione di un vero negoziato con il regime per la costruzione di una Siria democratica. Il 26 settembre un duplice attentato dinamitardo ha colpito lo stato maggiore delle forze armate siriane, mentre i lavori della sessione annuale dell’Assemblea Generale dell’ONU non registravano alcun mutamento nelle posizioni del regime siriano, né in quelle di chi lo appoggia o lo avversa. Intanto il giornalista iraniano Maya Nasser, dell’emittente pubblica Press Tv, ha perso la vita a Damasco, colpito da un cecchino: è salito in tal modo a 11 il numero dei reporter uccisi nel2012 in Siria nell’esercizio della loro professione. Il divampare degli scontri ad Aleppo ha intanto coinvolto il 30 settembre anche il â€suk’, che già dal 1986 figura tra i siti UNESCO del patrimonio mondiale dell’umanità, il quale è stato raggiunto dalle fiamme, con la distruzione di molti degli oltre 1.500 negozi che ne formano il corpo vivo. Il 2 ottobre, per la prima volta, il governo siriano ha fatto riferimento al numero di profughi e sfollati del conflitto, che avrebbe coinvolto 671.000 famiglie, senza peraltro distinguere tra la componente espatriata e quella interna. Le stime ONU parlano di oltre un milione di sfollati interni e di oltre trecentomila profughi nei paesi vicini. Crescono i rischi di estensione regionale del conflitto siriano; si rinnovano le tensioni con la Turchia. Il 3 ottobre è cresciuto il rischio di escalation regionale del conflitto siriano: infatti, mentre ad Aleppo quattro attacchi mediante autobomba hanno provocato la morte di una cinquantina di persone soprattutto tra i governativi, alcuni colpi di mortaio sparati dal territorio siriano hanno raggiunto la Turchia, provocando nella cittadina frontaliera di Akcakale la morte di una donna e dei suoi quattro bambini, nonché diversi feriti. La Turchia, la cui artiglieria ha risposto martellando alcune postazioni siriane di confine, ha prontamente informato dell’accaduto il segretario generale dell’ONU e l’Alleanza atlantica, che in una riunione notturna a Bruxelles ha condannato la Siria, intimandole di cessare da atti considerati aggressivi di uno Stato membro della NATO. La Turchia ha anche inviato una lettera al Consiglio di sicurezza dell'ONU, denunciando l'incidente di Akcakale alla stregua di una flagrante violazione del diritto internazionale, e richiedendo al Consiglio le azioni necessarie. In questo contesto è cresciuto anche l'allarme da parte di Israele, che ha inviato il capo dell'intelligence militare, generale Cochavi, unitamente ad altri ufficiali, per compiere un sopralluogo sulle alture occupate del Golan, alle quali pericolosamente si avvicinava il conflitto in corso in Siria - va ricordato che alcuni colpi di mortaio sparati dalle forze siriane avevano raggiunto nelle passate settimane anche la parte del Golan occupata da Israele, pur senza provocare vittime. In tal modo il governo israeliano sembrava dar credito alle previsioni per le quali il Golan potrebbe essere una delle zone di prossima frizione in Medio Oriente, e in tal senso si preparerebbe ad affrontare soprattutto minacce di carattere terroristico, assai più che un conflitto di tipo classico con la Siria. Allo stesso tempo è stato elevato anche lo stato di allerta delle forze armate israeliane nell'Alta Galilea, per prevenire eventuali iniziative degli Hizbollah libanesi, da sempre attivi sostenitori del presidente siriano Assad. Nella giornata del 4 ottobre sembrava ristabilirsi una situazione di quasi normalità – ma il Parlamento turco intanto autorizzava per un anno il Governo di Erdogan, qualora provocato, ad azioni militari di ritorsione in territorio siriano -, con la cessazione dei bombardamenti turchi e una qualche forma di scuse da parte siriana, non priva tuttavia di accenni alla necessità che anche la Turchia metta fine al libero transito dei ribelli fra la Siria e il suo territorio. Il 5 ottobre tuttavia un altro colpo di mortaio siriano raggiungeva il territorio turco, provocando la risposta dell’artiglieria di Ankara, e uguale copione si recitava il 6, il 7 e l’8 ottobre, mentre a fronte dei continui bombardamenti delle forze fedeli ad Assad su diverse città siriane i ribelli si vedevano bloccare la fornitura di armamenti pesanti promessa da Arabia Saudita e Qatar, per il timore americano che potessero finire nelle mani degli elementi integralisti islamici parte in causa nella ribellione al regime di Damasco. Per quanto riguarda il ruolo della Turchia, va tenuto presente che larga parte dell'opinione pubblica interna e buona parte dello schieramento politico rimproverano a Erdogan le contraddizioni della sua politica nei confronti di Damasco, che in una fase precedente era stato individuato quale paese-chiave della regione e interlocutore fondamentale per Ankara. Il rovesciamento di atteggiamento verso il regime di Assad, privilegiando nettamente gli elementi sunniti in lotta con esso, oltre a esporre, come si è visto, la Turchia a pericolosi rischi di guerra - rispetto alla quale la maggioranza dei turchi sembra nettamente contraria -, stava conducendo al completo smantellamento dell'approccio di politica estera incarnato dal Ministro Davutoglu, che era basato su una ripresa di prestigio turco in stile neo-ottomano, e soprattutto sull'assioma di relazioni positive con tutti i paesi confinanti. In ogni modo il 9 ottobre la NATO faceva sentire la propria voce, con il segretario generale Rasmussen, che, pur augurandosi una soluzione politica del contrasto turco-siriano, metteva in chiaro come l'Alleanza atlantica avesse già pronti i piani per difendere la Turchia - significativamente, però, non ha fatto cenno ad alcun intervento in territorio siriano. Nella stessa giornata va registrato che secondo le opposizioni il regime avrebbe utilizzato nei sobborghi di Damasco persino bombe a grappolo, particolarmente devastanti soprattutto per i civili, per gli effetti ritardati e diffusivi della loro esplosione. Il 10 ottobre il capo di stato maggiore turco ammoniva la Siria, avvertendo che eventuali nuovi colpi di mortaio in territorio turco avrebbero avuto una risposta violenta. Le dichiarazioni del segretario alla Difesa USA Leon Panetta, rilasciate a Bruxelles, sulla presenza di un contingente militare americano ormai da tempo in Giordania per cooperare alle necessità umanitarie che il forte afflusso di rifugiati nel paese comporta, ma soprattutto per un monitoraggio dei siti delle armi chimiche e batteriologiche siriane, contribuivano a infittire la complessa trama che si svolge alle frontiere della Siria dilaniata da un conflitto che sembra sempre più senza sbocco. In questo contesto l'aviazione militare turca costringeva un aereo di linea proveniente da Mosca, e sospettato di trasportare armi destinate alle forze del regime di Assad, ad atterrare ad Ankara. Immediatamente la Siria accusava la Turchia di aver compiuto un atto di pirateria aerea, mentre la Russia metteva l'accento sui rischi fatti correre all'equipaggio dell'aereo, composto da 17 passeggeri tutti i russi. Il presidente Putin, che avrebbe dovuto recarsi in Turchia pochi giorni dopo, rinviava la propria visita. A parte questi i rischi di escalation della tensione anche tra due paesi come la Russia e la Turchia che dopo la caduta dei regimi comunisti avevano inaugurato un corso di relazioni positive, sempre più la situazione siriana si configurava priva di sbocchi, a maggior ragione nell'attesa dell’esito delle presidenziali americane. Solo l'inviato dell'ONU Brahimi sembrava ancora convinto di poter strappare una minima tregua alle parti in lotta in Siria, dove intanto alla metà di ottobre 2012 si è giunti a parlare di un totale di 34.000 morti e più di 100.000 profughi riparati nella vicina Turchia. Ciò che appariva in tutta chiarezza era l’errore di calcolo in merito alla possibilità di una rapida caduta del regime siriano, in questo senso rivelatosi assai più forte degli altri governi autoritari caduti durante la Primavera Araba. Soprattutto la posizione della Turchia, in questo contesto, si è palesata sempre più difficile, con il venir meno della precedente impostazione di politica estera sulle buone relazioni con tutti paesi vicini, nell'ottica di una ripresa di influenza ispirata al prestigio ottomano del passato del paese, senza per questo riuscire nemmeno nell’opposto obiettivo di un’affermazione di prestigio nei riguardi della Siria. Da parte di Ankara giungeva ad un certo punto la richiesta alla NATO – il Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Alleanza dava il via libera ai primi di dicembre - di ricevere alcune batterie di missili Patriot per proteggere i propri confini: le ulteriori tensioni che certamente l'eventuale arrivo dei missili poteva comportare facevano risorgere l’idea di un'uscita dalla crisi siriana mediante l'offerta al presidente Assad di un salvacondotto per recarsi in esilio - in tal senso tornava a pronunciarsi il premier britannico Cameron durante una visita in Giordania nei primi giorni di novembre. Tuttavia da Damasco veniva una risposta del tutto negativa, accanto all'ennesima messa in guardia sugli effetti catastrofici che un attacco alla Siria potrebbe comportare per tutto il complesso equilibrio mediorientale.
L'11 novembre a Doha si compiva però forse un passo decisivo per il potenziamento della lotta contro il regime siriano: le diverse formazioni dell'opposizione hanno infatti, dopo quattro giorni di trattative sponsorizzate dal Qatar e dalla Lega Araba, firmato un accordo per la creazione di una ''Coalizione nazionale'' che per molti versi assomiglia a quello che era stato il Consiglio nazionale di transizione libico. Tra i punti principali dell’intesa vi è l’impegno di tutti i contraenti a non portare avanti alcun dialogo o negoziati con il regime, la cui completa caduta è l’unico obiettivo comune, assieme alla punizione di tutti i crimini perpetrati contro il popolo siriano. L’impegno concerne anche l'unificazione dei consigli militari rivoluzionari sotto la supervisione del Consiglio militare supremo. Dopo il riconoscimento internazionale, la Coalizione nazionale procederà a dar vita ad un governo provvisorio, mentre alla caduta effettiva del regime verrà convocato un Congresso generale nazionale e si formerà un governo di transizione, con lo scioglimento della Coalizione nazionale e del governo provvisorio. La Coalizione nazionale ha subito ottenuto il riconoscimento delle monarchie arabe del Golfo e dei paesi del Nordafrica usciti dalla Primavera Araba, nonché della Turchia, della Francia, dell’Italia e del Regno Unito. Il premier britannico Cameron spingeva intanto l’Unione europea a togliere l’embargo sulle armi nei confronti dei ribelli siriani: dal canto loro, i Ministri degli Esteri della UE riuniti a Bruxelles il 19 novembre diffondevano un comunicato di riconoscimento della nuova Coalizione nazionale siriana. Questi importanti sviluppi avvenivano mentre sia il confine turco-siriano che le alture del Golan tra Israele e Siria vedevano lo sconfinamento di tiri di artiglieria siriani, con Israele che rispondeva colpendo un obiettivo militare nel territorio della Siria. All’inizio di dicembre il premier turco Erdogan ha ricevuto la visita del presidente russo Putin: frammezzo ad importanti questioni di reciproco interesse economico, soprattutto legate costruzione di future grandi pipelines per il gas russo, il cui tragitto coinvolge la Turchia; Putin non ha mancato di esprimere la propria preoccupazione per l'imminente dispiegamento dei Patriots della NATO al confine turco-siriano, facendo ricorso a una citazione di Anton Cechov che allude all'inevitabile utilizzazione di un'arma una volta schierata sul teatro. Nelle stesse ore, il perdurare della situazione di grave pericolo sul territorio siriano induceva l'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite ad annunciare il ritiro del proprio staff non indispensabile dal paese, con il rimanente personale che sarebbe rimasto solo nella capitale. I giorni successivi sembravano fornire uno scenario di progressivo venir meno della coesione attorno al regime di Assad, a partire dal vertice di Dublino del 6 dicembre fra il segretario di Stato USA Hillary Clinton, il Ministro degli esteri russo Lavrov e l'inviato dell'ONU Brahimi, nel corso del quale da parte russa veniva qualche ammissione sulla scarsa presa che ormai Mosca eserciterebbe sul regime di Damasco. La posizione di quest'ultimo si faceva poi via via più difficile in ragione dei crescenti moniti americani ad astenersi da qualunque progetto di utilizzazione di armi chimiche contro l’opposizione o contro paesi della regione, il che innescherebbe conseguenze catastrofiche in primis proprio per la Siria. La situazione economica siriana si è intanto molto aggravata, con un crollo del 20% del PIL e un tasso di inflazione del 40%, tutti indicatori perfettamente coerenti con lo stato di caos in cui il paese versa ormai da quasi due anni. Il 12 dicembre il governo americano ha formalmente riconosciuto la Coalizione nazionale siriana, invitando il suo leader al-Khatib ad una visita ufficiale negli USA – nel tentativo comprensibile di esercitare una qualche forma di controllo sulla matrice ideologica del nuovo organismo che ha raggruppato tutte le posizioni politiche a Bashar Assad. Uguale riconoscimento la Coalizione ha ottenuto dal gruppo degli amici del popolo siriano (nel quale figura anche l'Italia) formato da paesi arabi e occidentali contrari al regime di Assad. Oltre ai tentennamenti russi, un altro segnale delle difficoltà del regime siriano veniva fornito dall'Iran, che con toni assai meno bellicosi del passato si appoggiava a Pechino per richiedere un cessate il fuoco sul terreno. Dopo che nel luglio 2012 due tecnici dell’Ansaldo operanti in Siria erano stati rapiti, per essere poi rilasciati una settimana dopo; il 17 dicembre veniva comunicata la sparizione nei giorni precedenti di un ingegnere elettronico italiano, Mario Belluomo, che lavorava in uno stabilimento a Homs. Il 4 febbraio 2013, fortunatamente, Belluomo veniva liberato insieme ai due colleghi russi rapiti insieme a lui. Il 26 dicembre ha abbandonato il regime siriano il generale al-Shalal, capo della polizia militare, lasciandosi andare nella descrizione del regime alla stregua di una banda di assassini e saccheggiatori. Al-Shalal ha anche sostenuto, per la verità in maniera non lineare, che il regime avrebbe usato armi chimiche, almeno nell’attacco a Homs avvenuto alla vigilia di Natale - i ribelli dal canto loro avevano parlato nei giorni precedenti di utilizzazione di un gas velenoso che avrebbe causato la morte di sette persone, intossicandone altre decine. L’inizio del 2013 vedeva diramare alcuni dati dell’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani, in base ai quali si sono stimate in circa 60.000 le vittime del conflitto siriano dal marzo 2011 - anche oltre le valutazioni delle opposizioni al regime di Assad - si pensi che le vittime dell’Afganistan, una guerra in corso dal 2001, non supererebbero nel complesso il numero di 50.000. Inoltre, nel conflitto siriano prevale ancor più largamente che è altre situazioni la quota dei civili che hanno persola vita, mentre si stima in due milioni e mezzo il numero dei profughi, dei quali due milioni di rifugiati interni. Sempre più chiaramente emergono intanto le preoccupazioni di Israele e della Comunità internazionale per un un possibile passaggio di armamenti anche letali dalla Siria ormai in disfacimento al forte alleato in territorio libanese, Hezbollah. In questo senso il 29 gennaio 2013 il capo dell'aviazione militare israeliana aveva senz'altro ammesso che lo Stato di Israele è già impegnato in una efficace lotta contro il trasferimento di armamenti agli Hezbollah attraverso il confine siro-libanese: solo poche ore dopo fonti estere che non hanno però ricevuto conferma ufficiale in Israele hanno riferito di un attacco di caccia israeliani sul confine tra Libano e Siria per impedire che una batteria di missili AS-17 giungessero in possesso di Hezbollah. La partita più pericolosa potrebbe innescarsi nel momento in cui il sospetto dei trasferimenti di armi riguardasse anche armamenti chimici.
La degenerazione del quadro siriano ha indotto il Pontefice Benedetto XVI ad intervenire due volte in poco più di un mese con appelli in nome della ricerca di una soluzione pacifica al conflitto in Siria e del silenzio delle armi.
Dopo che il 21 giugno, ricevendo in udienza i partecipanti della Riunione delle Opere in aiuto delle Chiese orientali (ROACO), il Santo Padre aveva chiesto - come riferito dagli organi di stampa - che non fosse ”risparmiato alcuno sforzo, anche da parte della comunità internazionale, per far uscire la Siria dall’attuale situazione di violenza e di crisi, che dura già da molto tempo e rischia di diventare un conflitto generalizzato che avrebbe conseguenze fortemente negative per il Paese e per l’intera regione”, il 29 luglio Benedetto XVI ha nuovamente fatto sentire la sua voce.
Il Papa ha affermato di seguire “con apprensione i tragici e crescenti episodi di violenza in Siria con la triste sequenza di morti e feriti, anche tra i civili, e un ingente numero di sfollati interni e di rifugiati nei Paesi limitrofi”. Nel chiedere che “sia garantita la necessaria assistenza umanitaria e l’aiuto solidale” ai profughi e nel rinnovare il suo “pressante appello, perché si ponga fine ad ogni violenza e spargimento di sangue” Benedetto XVI ha auspicato che “non venga risparmiato alcuno sforzo nella ricerca della pace, anche da parte della comunità internazionale, attraverso il dialogo e la riconciliazione, in vista di un’adeguata soluzione politica del conflitto”.
Le preoccupazioni della Santa Sede - viene rilevato - sono correlate al destino della presidenza di Assad, il cui regime ha sino ad ora ottemperato alle disposizioni costituzionali ed alle leggi che proteggono la libertà religiosa, sebbene con talune restrizioni all’esercizio di tale diritto; ma il Vaticano è preoccupato, altresì, dell’affluire in Siria di mercenari che hanno combattuto in Iraq e in Libia, particolarmente temuti dalla comunità cristiana siriana che ora teme la crescita dell’islamismo più radicale, come anche della situazione degli sfollati che dalla Siria si spostano in Giordania e in Libano con rischi di destabilizzazione dell’intera regione.
Il Vaticano, per cui l’esito più temibile della crisi siriana sarebbe l’implosione in una guerra civile dagli esiti disastrosi per la popolazione e per la stabilità dell’area, spera in una soluzione negoziata che abbia per protagonista a fianco degli Stati Uniti anche l’Europa.
Nel riportare la notizia dell’amplissima diffusione data al messaggio del Pontefice del 29 luglio dai media locali siriani, l’agenzia Asianews ha dato ampio rilievo all’affermazione del nunzio apostolico in Siria, arcivescovo Mario Zenari, il quale ha sottolineato che “la via politica indicata dal Papa è l'unica soluzione. La comunità internazionale deve ritornare su questa strada e fare pressioni su ribelli e regime. Un sincero compromesso politico vale molto di più di un conflitto portato avanti senza alcun senso e criteri”.
Un esplicito riferimento alla guerra civile è stato fatto anche, con riguardo in particolare alla situazione della città di Aleppo, da padre Bernardo Cervellera, direttore di Asianews in un’intervista pubblicata il 2 agosto, nella quale egli ha affermato che “di fatto c’è uno scontro armato, tra ribelli e l’esercito di Assad. La gente sta cercando di fuggire, da Aleppo come da Homs. E chi rimane ha molte difficoltà perché mancano ormai i beni di prima necessità: acqua e pane. Moltissimi sono fuggiti e hanno davanti a loro un futuro davvero tragico perché in Libano, Turchia e Giordania, dove si recano i siriani, non ci sono campi profughi”.
Padre Cervellera, inoltre, ha evidenziato che la dimensione internazionale del conflitto determinata dalla posizione della Siria che “si trova in un dedalo di alleanze e intrecci molto pericolosi” ne fa sfuggire il controllo ai protagonisti in loco e diventa un problema anche per la Chiesa, che si trova in una posizione difficile: “da una parte – afferma il direttore di Asianews – la Chiesa non può appoggiare Assad, anche se il dittatore siriano ha garantito una certa libertà di culto e religiosa per le minoranze e la mancanza di violenze per tanti anni, ma non ha garantito i diritti umani per la popolazione; dall’altra parte ha il timore di schierarsi con i ribelli perché tra essi vi sono fondamentalisti e gruppi legati ai fratelli musulmani e ad Al Queda che mettono una grande ipoteca sulla libertà religiosa del paese”.
L’agenzia Fides ha riferito (31 luglio) che mentre ad Aleppo proseguono i combattimenti tra le forze governative e gli insorti, le comunità cristiane della città siriana hanno deciso di costituire un comitato di coordinamento per fornire assistenza umanitaria alle persone i difficoltà ed ai profughi che, secondo fonti locali contattate da Fides, è formato da 11 rappresentanti delle 11 comunità cristiane della città. Scopo dell’organismo è quello di trovare il modo di garantire una certa sicurezza nei quartieri abitati dai cristiani affinché costoro non abbandonino le loro abitazioni, come invece è accaduto ad Homs, dove le case abbandonate dai civili in fuga sono state usate come capisaldi dai combattenti provocando, di conseguenza, la strage nei quartieri cristiani della città.
L’appello a “fermare tutte le azioni ostili, provenienti da ogni parte” è stato lanciato, il 27 luglio, a tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano, in Siria e all’estero, dal Patriarca Ignazio IV di Antiochia, Primate della Chiesa greco-ortodossa di Antiochia e di tutto l'Oriente, che risiede a Damasco.
Anche Jean-Clément Jeanbart, Arcivescovo Metropolita di Aleppo per i Greco-cattolici (melkiti), ha invitato (26 luglio) l’occidente “se vuole rendere un buon servizio alla popolazione siriana” a sostenere e fare pressione per il dialogo fra le parti. Come riportato da Fides il metropolita di Aleppo ha affermato che “fra i cristiani siriani circola la paura di perdere quanto hanno ottenuto negli ultimi 70 anni: una cultura non confessionale, un pluralismo che è un bene molto prezioso. Vogliamo vivere – ha proseguito Jeanbart - nel nostro paese, con pieni diritti e doveri. Abbiamo timore che, se verrà un governo fondamentalista o una teocrazia islamica, perderemo la libertà di testimoniare la nostra fede, la libertà religiosa e la libertà di espressione, indispensabile per essere cittadini di una nazione che garantisce i diritti di tutti”.
Come riportato dall’agenzia Fides il 23 agosto la sede dell’Arcivescovo Metropolita Jeanbart, è stata violata e saccheggiata durante scontri fra miliziani e truppe lealiste. L’Arcivescovo, il suo Vicario e alcuni religiosi se ne erano allontanati poche ore prima. Secondo fonti dell’agenzia nella comunità cattolica locale, i responsabili “sono gruppi non identificati, che intendono alimentare una guerra confessionale e coinvolgere la popolazione siriana in conflitti settari”. Nei giorni successivi, quando i militari hanno ripreso il controllo della situazione, iI Vicario di Mons. Jeanbart (nel frattempo fuggito in Libano) ha potuto fare ritorno presso l’episcopio. Danni si sono avuti anche all’episcopio cattolico maronita e nel museo cristiano bizantino “Maarrat Nahman”.
In un’intervista rilasciata il 28 agosto 2012 ad Asianews il nunzio apostolico in Siria, arcivescovo Mario Zenari, ha affermato che “la Siria sta scivolando nell'inferno e quando si scende in tal modo, non si può pensare di poter vedere la luce”. Con riferimento alle varie posizioni presenti in seno alla comunità internazionale, il nunzio ha sottolineato che l’interpretazione del conflitto siriano è piena di contraddizioni, sia da parte siriana sia internazionale. “All’inizio – ha affermato mons. Zenari - tutta la comunità internazionale aveva letto le rivolte in Siria come un altro capitolo della Primavera araba, come qualcosa di simile a quanto avvenuto in Tunisia, Egitto, o Libia. Invece la Siria è qualcosa di unico e si sta giocando col fuoco, in un conflitto complesso, con tante componenti delicate. E c'è il timore che le conseguenze divengano tragiche e inimmaginabili”. Rispondendo alla domanda se il conflitto abbia per obiettivo i cristiani, il nunzio apostolico ha affermato che “la comunità cristiana qui soffre quello che soffrono tutti quanti. Anzi, devo dire che in qualche caso, qua e là, ci si accorge che alcune violenze - bollate con troppa facilità come "confessionali" - hanno poi radici in odi familiari e ingiustizie passate”; inoltre si ha notizia di “migliaia e migliaia di casi in cui proprio a chi è cristiano viene salvata la vita”.
Il 4 settembre il patriarca greco-cattolico melkita di Damasco, Gregorio III Laham con una lettera aperta all’agenzia Fides ha lanciato un appello per “una campagna internazionale per la riconciliazione in Siria”. Auspicando uno sforzo di pace condiviso da “tutte le Chiese sorelle in tutto il mondo cattolico, ortodosso e protestante”, il patriarca chiede ai leader spirituali di unire la loro voce a quella della Chiesa siriana in tale campagna. Ai fedeli cristiani siriani “si chiede “pazienza” e di non lasciare il paese” mentre a tutti i cittadini siriani è rivolta la preghiera a cercare “una strada diversa dalla violenza”.
Il 16 agosto 2012 la Independent international commission of inquiry on the Syrian Arab Republic ha rilasciato un rapporto relativo al quadro dei diritti umani in Siria nel periodo 15 febbraio-20 luglio.
Il documento si basa su numerose interviste alla popolazione siriana e ai rifugiati all’estero; l’estrema difficoltà incontrata nel raccogliere le informazioni, tuttavia, ha limitato - si legge nel report - la possibilità di adempiere compiutamente al mandato.
Dal testo si evince che gravi violazioni dei diritti umani sono state commesse nell’ambito di una vera e propria politica di Stato, come evidenziato dal fatto che si è trattato di operazioni su larga scala condotte con modalità analoghe in aree differenti del paese, nell’ambito delle quali la complessità e l’integrazione degli apparati militari e di sicurezza sono sintomatici del coinvolgimento ai massimi livelli delle forze armate, delle forze di sicurezza e del governo. In particolare, appartenenti a Shabbiha sono stati identificati come autori di molti dei reati descritti nel report. Sebbene anche i gruppi armati anti governativi siano indicati come responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, i due commissari, evidenziano che “la maggior parte dei massacri è opera del governo Assad”.
A giudizio degli autori del rapportola soluzione migliore è quella negoziale, fondata su un dialogo inclusivo e significativo fra tutte le parti, capace di sostenere una transizione politica che rifletta le legittime aspirazioni di tutti i segmenti della società siriana, comprese le minoranze etniche e religiose.
L’inasprimento delle violenze registrato nel corso dell’estate 2012 ha causato una vera e propria impennata dei numero dei rifugiati siriani nei paesi dell’area.
Secondo i dati pubblicati dall’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR) la moltitudine dei cittadini siriani rifugiati all’estero è quasi raddoppiata da luglio, passando da circa 100mila individui a oltre 191mila registrati a inizio settembre.
La Turchia, che accoglie la quota maggiore di tali soggetti, vede nei propri campi profughi oltre 80mila persone, 44mila delle quali giunte dalla fine di luglio; le autorità di Ankara hanno sollecitato l’UNHCR a cercare soluzioni sul territorio siriano, ritenendo di non poter accogliere più di 100mila persone.
In Giordania i rifugiati registrati dalla autorità sono oltre 47mila; ad essi si aggiungono circa 30mila soggetti in attesa di registrazione. Le autorità di Amman stimano, tuttavia, che dal marzo 2011 185mila siriani siano entrati in territorio giordano.
In Libano sono presenti oltre 45mila siriani registrati, mentre circa 17mila attendono la registrazione.
Oltre 18mila rifugiati sono registrati in Iraq.
Secondo notizie diffuse sempre dall’UNHCR il 4 settembre, 103.416 persone hanno lasciato la Siria in agosto in cerca di asilo nei paesi circostanti. Si tratta del più alto totale mensile registrato sino ad oggi, che porta il numero totale di profughi siriani registrati o in attesa di registrazione a oltre 235.300.
La Somalia, considerato internazionalmente uno "Stato fallito", senza istituzioni nazionali per due decenni, ha tenuto le prime elezioni democratiche nel 2012. La difficile transizione politico-istituzionale somala è stata costantemente seguita dagli organi parlamentari nel corso della XVI legislatura, particolarmente attenti alle gravi problematiche poste dal terrorismo a matrice islamiche e dall'insicurezza alimentare che continua ad affliggere le popolazioni dell'area.
L’inaspettato abbandono di Mogadiscio da parte degli Shebaab, il 6 agosto 2011, e la riconquista della città portuale di Kisimayo (settembre 2012), ultima roccaforte del gruppo terrorista islamico, hanno aperto la strada alla nascita delle istituzioni che dovranno costituire l’asse portante del nuovo stato somalo.
Il 10 ottobre 2012 il Capo dello Stato somalo, l’accademico Hassan Sheikh Mohamud, ha nominato Primo ministro un uomo d'affari, estraneo alla politica, Abdi Farah Shirdon Saaid, suscitando il plauso della comunità internazionale. Il nuovo governo, formato da Shirdon poco meno di un mese dopo la sua nomina, è composto da dieci ministeri ed è stato approvato definitivamente dal parlamento il 20 novembre, con la maggioranza di 219 voti su 225.
Il nuovo governo deve far fronte a molte sfide, a cominciare dalla presenza degli Shebaab che, nonostante il loro arretramento, controllano ancora una vasta area della Somalia meridionale e centrale. L’attentato suicida del 29 gennaio 2013 nel quale hanno perso la vita due guardie della sicurezza nei pressi degli uffici del primo ministro, provano che gli Shebaab sono ancora una temibile minaccia. Il programma del governo Shirdon - in linea con la Politica dei Sei Pilastri del Presidente Mohamud – pone al centro della sua azione i progressi nelle aree della sicurezza e dell’economia, la ricostruzione delle istituzioni pubbliche del paese e le relazioni con il Puntland e il Somaliland.
Quasi vent’anni di ingovernabilità causata dalle continue lotte claniche tra i signori della guerra, avevano favorito l’insediamento del gruppo al-Shabaab (tra i 7 e i 9000 miliziani) che, nato nel 2004 e inizialmente presente solo nel sud del Paese, nel corso del 2010 era arrivato fino alle porte di Mogadiscio. Al-Shabaab è un gruppo ideologicamente riconducibile all’islam radicale salafita, collegato con al-Qaeda. Pur essendo stato fondato da elementi provenienti da diversi clan rappresentati nell’UCI (Unione delle Corti Islamiche), i suoi affiliati non sono schierati in base a legami clanici; per questa ragione, parte della popolazione li aveva inizialmente sostenuti e accolti come liberatori dai signori della guerra. La perdita di Kisimayo, il porto dal quale si svolgeva il commercio di carbone che costituiva tanta parte dei finanziamenti del gruppo, ha sottratto ad al-Shabaab non solo risorse economiche, ma anche un grande bacino di reclutamento. L’appoggio popolare è poi andato gradualmente diminuendo a causa delle azioni violente messe in atto in nome della sharia; il gruppo, tra l’altro, ha impedito l’accesso delle Ong internazionali nelle zone colpite dalla carestia.
Molti esperti, come riporta il Council on Foreign Relations, ritengono che oggi al-Shabaab sia fortemente indebolito dalle recenti sconfitte militari che hanno alimentato le divisioni interne; altri, invece, avvertono che il gruppo costituisce tuttora una minaccia, soprattutto in un paese come la Somalia, ancora politicamente instabile e distrutta dalla lunga guerra civile.
AMISOM è la missione dell’Unione Africana in Somalia, istituita nel 2007 sotto l’egida delle Nazioni Unite con il mandato di contribuire alla stabilizzazione del paese e di creare la condizione per lo svolgimento delle operazioni umanitarie, fino alla presa in carico dell’Onu. A partire dal 2010, con l’ampliamento del mandato, AMISOM può combattere attivamente le milizie islamiche anti-governative.
I paesi che maggiormente contribuiscono alla missione sono Uganda, Kenya Burundi e Djibuti. L’Uganda è il primo paese ad avere inviato proprie truppe in Somalia nel marzo 2007 ed è tuttora ugandese il contingente più numeroso (oltre 6.000 soldati).
Ma l’intervento militare contro al-Shabaab è stato condotto, oltre che dalle truppe di AMISOM e dall’Esercito Nazionale Somalo (ENS), dal Kenya - le cui truppe sono passate integralmente sotto il comando di AMISOM soltanto a novembre 2012 – e dall’Etiopia.
L’Etiopia aveva invaso la Somalia, su richiesta del governo transitorio somalo, nel dicembre 2006 per cacciare le Corti Islamiche da Mogadiscio. Avendo fallito l’obiettivo di soffocare il radicalismo nel paese, le truppe etiopi si ritirarono dalla Somalia nel gennaio 2009, lasciando le mal equipaggiate truppe dell’Unione Africana a difendere da sole il governo transitorio. Il ritorno delle truppe etiopi all’inizio del 2012 ha fornito un consistente aiuto all’esercito somalo nella riconquista di Baidoa, terza città della Somalia e allora roccaforte di al-Shabaab.
L’intervento del Kenya, con l’operazione Linda Nchi (“Proteggere la Patria”) decisa nel 2010 con il supporto statunitense e francese, aveva lo scopo di creare una zona-cuscinetto tra il Kenya e le regioni centrali della Somalia occupate dagli Shabaab per sottrarle al loro controllo. Una volta conquistata Kisimayo, le truppe keniote sono passate sotto il comando di AMISOM.
Sia l’intervento keniota che quello etiope avevano lo scopo di sconfiggere le milizie di al-Shabaab o quantomeno di limitare l’espansione territoriale del gruppo jihadista che aveva già dimostrato, con un certo numero di attentati, di voler estendere la propria attività anche ai paesi che confinano con la Somalia.
L’assenza di un apparato statale in Somalia ha consentito, oltre al radicamento della presenza di al-Shabaab, anche il dilagare del fenomeno della pirateria marittima. Il ripetersi di attacchi su larga scala ha portato alla fine del 2008 al dispiegamento della missione Ocean Shield della NATO e della missione Atalanta dell’Unione Europea. Altre misure di contrasto alla pirateria sono state prese da singoli governi e compagnie mercantili che hanno consentito l’imbarco di personale militare a bordo delle navi che attraversano il golfo di Aden e le altre acque infestate dai pirati.
Si calcola che nel 2011 vi siano stati 439 atti di pirateria in tutto il mondo, ma oltre la metà di questi sono attribuiti ai pirati somali. Secondo il Piracy Reporting Centre dell’International Maritime Bureau, però, nel 2012 il numero degli attacchi è globalmente diminuito (da 439 a 297) grazie alla drastica riduzione degli episodi in Somalia e nel golfo di Aden, dove solo 75 navi hanno riportato attacchi nel 2012, contro le 237 dell’anno precedente.
I diversi profili della gravissima emergenza somala - dalla transizione istituzionale, alla crisi umanitaria, fino alla presenza della pirateria - sono state oggetto di numerosi atti d'indirizzo e di controllo da parte dei competenti organi parlamentari della XVI legislatura, sintetizzati in un apposito focus di approfondimento.
Al-Shabaab, che tradotto significa “La Gioventù”, è un gruppo militare legato ad al-Qaeda e inserito dagli Stati Uniti nella lista delle organizzazioni terroristiche. Il suo obiettivo è la creazione di uno Stato islamico-fondamentalista in Somalia. L’organizzazione nasce, nel 2004, dalla secessione delle fazioni islamiche radicali interne all’UCI (Unione delle Corti Islamiche) all’indomani della sconfitta di queste da parte del GFT (Governo Federale di Transizione) e dei suoi alleati etiopi. In essa sono confluiti il movimento Hizbul Islam (Partito dell’Islam), composto prevalentemente da appartenenti al clan Rahanwein, ed elementi minoritari dei clan Darod e Ishaak, entrambi opposti al GFT. Oltre agli esponenti del clan Rahanwein, tra le personalità più influenti di Al-Shabaab si annoverano Sheikh Hassan Aweys, leader di Hizbul Islam e del clan Hawiya, Mukhtar Abu Zubeyr “Godane”, emiro del gruppo nonché veterano del jihad afghano anti-sovietico, e Fuad Mohamed Qalaf “Shongole”, membro del clan Darod.
L’invasione etiope della Somalia avvenuta nel dicembre 2006 ha trasformato Al-Shabaab, fino a quel momento solo piccola fazione di un più moderato movimento Islamico, nel più potente e radicale gruppo armato del Paese. Nel corso del biennio 2006-2008 il numero dei membri di Al-Shabaab è aumentato a dismisura. All’inizio erano meno di 400, poi mano a mano che i guerriglieri di ideologia islamico-nazionalista confluivano tra le fila del gruppo, sono diventati quasi 5.000. Ad oggi non è possibile fornire un numero preciso perché nel corso degli ultimi mesi la popolarità del movimento ha sofferto molto a causa delle suoi metodi brutali adotatti a discapito della popolazione somala.
Il Dipartimento di Stato Americano ha inserito al-Shabaab nella liste delle organizzazioni terroristiche nel 2008. Nel febbraio 2012 i leader del gruppo hanno reso pubblica la propria alleanza con al-Qaeda. Fin dalla sua nascita al-Shabaab è stato caratterizzato da due correnti. La prima, incentrata sulla figura di Aweys e sostenuta dal clan Rahanwein, è focalizzata sull’irredentismo pan-somalo e sulla volontà di creare un emirato comprendente la Somalia, il nord del Kenya, il Somaliland, e la regione etiope delll’Ogaden. La seconda corrente, guidata da Godane, Shongole e Robow, si ispira invece al pan-islamismo salafita. E’ la meno disposta a riconoscere il ruolo politico dei clan e la più vicina ad al-Qaeda.
Quando nel febbraio 2012 Godane e Ayman al-Zawahiri hanno sancito l’ingresso di al-Shabaab nel network di al-Qaeda, creando “Al Qaeda nell’Africa dell’Est” (AQEA), pare che i membri più influenti della corrente pan-somala, tra cui lo stesso Aweys, siano stati confinati nelle proprie abitazioni per alcuni mesi, fino a giugno.
Nel luglio 2010 al-Shabaab ha lanciato il suo primo attacco al di fuori del territorio somalo, in Uganda. Durante la proiezione dei Mondiali di calcio nella città di Kampala, i miliziani hanno fatto scoppiare diversi ordigni, causando la morte di 74 persone e ferendone 70. Al-Shabaab ha dichiarato che l’attacco rappresentava una vendetta contro l’uso indiscriminato dell’artiglieria da parte delle truppe ugandesi a Mogadiscio.
Nel corso degli ultimi anni, a partire dal 2010, la missione keniota “Linda Nchi”, le truppe della Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) e l’esercito nazionale somalo (ENS) hanno mosso una forte offensiva congiunta contro al-Shabaab. I miliziani sono stati espulsi da Mogadiscio, da Kisimayo e da Baidoa, tre fondamentali basi logistiche. In particolare, Kisimayo rappresentava il quartiere generale dell’organizzazione, il luogo da cui veniva controllato il traffico di carbone, la principale forma di finanziamento di al-Shabaab. Baidoa invece era l’aeroporto attraverso cui giungevano le armi dall’Eritrea. Dal punto di vista numerico, l’offensiva ha causato la morte di 2.000 miliziani.
Nonostante le forti perdite, umane, territoriali ed economiche, al-Shabaab è ben lungi dall’essere neutralizzato. I comandanti hanno avuto l’abilità di ripensare la loro strategia, tornando ad essere una forza asimmetrica. I miliziani hanno infatti abbandonato l’utilizzo di brigate numericamente consistenti (circa 200 unità ciascuna) e si sono riorganizzati in piccole squadre (10-15 componenti ciascuna) facenti capo a un comandante con vasta esperienza di guerriglia.
Il gruppo è oggi ancora presente nelle regioni meridionali della Somalia, ma l’invasione delle truppe keniote ha spinto molti miliziani verso nuovi fronti del jihad globale, come lo Yemen, dove è già forte la presenza delle brigate di al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQPA). Un report pubblicato nel 2010 da Human Rights Watch ha descritto come rigidissima l’amministrazione della società da parte di al-Shabaab nei territori occupati. Il gruppo islamico proibisce ogni sorta di assembramento di persone (perfino in occasione dei matrimoni), l’utilizzo delle suonerie dei cellulari, la musica e i film occidentali, e l’uso del reggiseno, ritenuto una sconsiderata pratica occidentale. Le punizioni sono molto dure, e vanno dalla confisca dei beni alle amputazioni, passando per il taglio dei capelli e le frustate. Le donne sono obbligate a indossare l’abaya, un velo che copre l’intero corpo, e non possono viaggiare senza un accompagnatore di sesso maschile. Non possono prendere parte a nessuna attività legata al commercio.
Il 4 febbraio 2009 sottosegretario agli esteri, Scotti, ha risposto all'interrogazione Maran ed altri n. 5-00936 sulla situazione in Somalia, gravata da una crisi sul piano politico-istituzionale, della sicurezza e umanitaria. Il sottosegretario ha rassicurato circa l’impegno del governo italiano a sostegno del Governo Federale Transitorio e degli sforzi di pace dell'Unione Africana.
Il 13 luglio e il 14 luglio 2009 si è svolta la discussione e la votazione di mozioni recanti Iniziative volte a sostenere il processo di riconciliazione nazionale in Somalia. Al termine del dibattito sono state approvate le mozioni Maran ed altri n. 1-00140, Pianetta, Dozzo, Lombardo ed altri n. 1-00209, Vietti ed altri n. 1-00210 ed Evangelisti ed altri n. 1-00215. Le mozioni erano volte ad impegnare il governo, tra l’altro, a continuare a farsi promotore di nuove iniziative politico-diplomatiche nell'ambito degli organismi internazionali, allo scopo di sostenere il processo di una riconciliazione nazionale inclusiva di tutte le forze presenti nel Paese e a garantire la continuità degli aiuti umanitari nell'area.
Il 29 giugno 2011 il sottosegretario Mantica ha risposto in Commisisone esteri alla Camera all’interrogazione Tempestini n. 5-04973 che poneva il problema della proroga delle istituzioni del governo federale transitorio in scadenza. L’Italia, che aveva ripetutamente sostenuto la proroga del mandato delle istituzioni provvisorie come ha riferito il sottosegretario, aveva reso nota la sua posizione con due position papers del 31 gennaio e del 21 aprile 2011, fatti circolare fra i partners internazionali.
Le Commissioni esteri riunite della Camera e del Senato hanno sentito, il22 febbraio 2012, il Ministro degli affari esteri Terzi di Sant'Agata, sugli sviluppi della situazione in Somalia e nel Corno d'Africa, durante la quale il ministro ha evidenziato il forte ruolo, non solo diplomatico, che l’Italia ricopre in quei paesi, anche su sollecitazione della comunità internazionale.
Sulla situazione di tutto il continente africano, il ministro degli esteri è poi stato sentito nuovamente dalle Commissioni esteri riunite della Camera e del Senato il 20 giugno 2012.
Il sottosegretario agli esteri, De Mistura, ha risposto il 12 dicembre 2012 presso la Commissione esteri della Camera all’interrogazione Pianetta n. 5-08492 sulla situazione in Somalia sottolineando l'importanza del processo di institution building in corso in Somalia, cui l'Italia sta assicurando un contributo determinante in ragione della sua tradizionale vicinanza a quel Paese.
Da ultimo, la Commissioni riunite esteri e difesa di Camera e Senato hanno ascoltato, il 16 gennaio 2013 comunicazioni del governo sullo stato delle missioni in corso e degli interventi di cooperazione allo sviluppo a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione. In particolare, il Ministro Terzi ha precisato che era da qualche meste stato attivato un tavolo interministeriale per fornire un concreto aiuto alle autorità somale, specialmente nel settore del rafforzamento della sicurezza e della giustizia. L’assistenza italiana è anche volta, come ha affermato il ministro,a mettere il nuovo governo somalo in condizione di gestire un bilancio e creare una amministrazione finanziaria, un aspetto fino ad oggi completamente assente.
Il 21 maggio 2008 il sottosegretario agli affari esteri Mantica ha fornito un’informativa urgente del Governo presso l’Assemblea della Camera dei deputati sul rapimento in Somalia di due cooperanti italiani (Jolanda Occhipinti e Giuliano Paganini) e di un cittadino somalo che operavano per conto della CINS (Cooperazione italiana nord sud) su un progetto agricolo gestito dalla FAO. Il sottosegretario ha rassicurato circa la tempestiva attivazione dell’unità di crisi e l’impegno della Farnesina per ottenere il rilascio dei rapiti, nonostante la situazione fosse complicata dal fatto che né l’Italia, né altri paesi dell’Unione europea avessero sedi consolari in Somalia. I due italiani sono stati poi rilasciati nel successivo mese di agosto.
Il 17 dicembre 2008 il sottosegretario Mantica ha risposto in Commissione esteri della Camera all’interrogazione n. 5-00776 presentata dall’onorevole Evangelisti sull'esecuzione di una giovane donna somala nello stadio di Chisimaio. Con l’occasione il sottosegretario ha illustrato l’impegno che l’Italia profonde a favore della promozione dei diritti umani nelle sedi internazionali, aggiungendo però che il contesto di crisi della Somalia non lasciva spazio, in alcune aree, alla implementazione della difesa di tali diritti e neppure del rispetto delle più elementari forme di convivenza civile.
Il 6 luglio 2010 presso la Commissione straordinaria sui diritti umani del Senato, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale, si è svolta l’audizione dell'esperto indipendente ONU per i diritti umani in Somalia, Shamsul Bari, accompagnato dal desk officer Somalia dell'OHCHR, Idrissa Kane, e dall'ambasciatore somalo presso le Nazioni Unite a Ginevra, Yusuf Mohamed Ismail Bari Bari, e dal capo della rappresentanza permanente d'Italia presso le Organizzazioni internazionali, ambasciatore Laura Mirachian. Gli auditi hanno sottolineato le difficoltà ad intervenire sul piano umanitario e di avere dunque contatti diretti sul campo, a causa della grave situazione della sicurezza interna nel territorio somalo.
Il 28 giugno 2011, il Comitato permanente sui diritti umani della Commissione esteri della Camera ha sentito Shukri Said, attivista per i diritti umani in Somalia, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva su diritti umani e democrazia.
Il 22 dicembre 2011 il sottosegretario agli esteri, De Mistura, ha dato risposta all’interpellanza urgente presentata dall’on. Pezzotta n. 2-01294 per conoscere le iniziative volte a contrastare il traffico di esseri umani, con particolare riferimento ai profughi fuggiti dal Corno d'Africa e dall'Africa sub-sahariana. Anche i profughi somali, in fuga dalla terribile situazione di conflitto e carestia, erano fra coloro che, nell’impossibilità di raggiungere luoghi sicuri, cadevano preda di trafficanti di essere umani presenti soprattutto nel Sinai. Il sottosegretario De Mistura ha fornito una dettagliata risposta, articolata in quindici punti, nella quale dà conto delle azioni intraprese dall’Italia, anche tramite la cooperazione, per alleviare la condizione dei profughi ed intervenire nelle situazioni di maggiore criticità.
Il 27 luglio 2011, la Commissione esteri della Camera ha approvato la risoluzione n. 8-00140 degli onorevoli Renato Farina ed altri, che impegna il governo a mettere a disposizione delle organizzazioni internazionali aiuti per fronteggiare la carestia; a contribuire alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica italiana su quella tragedia ; e a incrementare lo sforzo diplomatico per dare alle popolazioni del Corno d'Africa sistemi statuali e Governi stabili e democratici.
Il 6 settembre 2011 la Camera ha discusso mozioni riguardanti le iniziative in relazione alla grave carestia nel Corno d’Africa. Il 7 settembre 2011 è stata approvata la mozione unitaria Renato Farina, Evangelisti, Binetti, Di Biagio, Mosella, Tempestini, Dozzo, Razzi e Commercio n. 1-00710 che, tra l’altro, impegna il governo a mettere a disposizione delle organizzazioni internazionali aiuti utili a fronteggiare l’emergenza-carestia; a incrementare gli interventi di cooperazione allo sviluppo soprattutto nei settori agricolo e sanitario; e ad adottare iniziative normative atte a semplificare il sistema di adozioni internazionali a favore dei bambini del Corno d'Africa.
Il 20 dicembre 2011 il sottosegretario agli esteri, De Mistura, ha risposto all’interrogazione n. 5-05490 dell’on. Renato Farina sugli aiuti umanitari per la carestia in Corno d'Africa, ribadendo la centralità di quella regione nella politica estera italiana e ricordando la molteplicità degli interventi della cooperazione italiana.
Al fine di approvare una specifica risoluzione e di esprimere indirizzi, la Commissione difesa del Senato ha dato avvio, il 4 maggio 2011, all’esame di un Affare assegnato riguardante il possibile impiego di personale militare a bordo del naviglio mercantile e da diporto, che transita in acque internazionali colpite dal fenomeno della pirateria. L’esame, proseguito nelle sedute del 21 giugno 2011, del 22 giugno 2011, del 25 gennaio 2012 e del 1° marzo 2012, quando è stato proposto lo svolgimento di una parallela indagine conoscitiva.
L'8 marzo 2012 la Commissione difesa del Senato ha deliberato lo svolgimento di una Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della normativa sul contrasto della pirateria, con particolare riguardo alle acque del Corno d'Africa e dell'Oceano Indiano. L’Indagine aveva il fine di acquisire in tempi rapidi elementi conoscitivi sullo stato di attuazione, ed eventuali criticità, delle disposizioni di cui all'art. 5 del decreto-legge n. 107 del 2011, con particolare riferimento all'impiego di nuclei di protezione a bordo del naviglio civile che transita in acque colpite dal fenomeno della pirateria.
Il 21 marzo 2012 si è svolta l’audizione del prefetto Gianfranco Tomao, responsabile del Tavolo tecnico interministeriale di attuazione della normativa relativa all'impiego dei servizi di vigilanza privata sul naviglio battente bandiera italiana, vertente appunto sulle modalità attuative dell'impiego di guardie giurate a bordo del naviglio italiano contenute nel D.L. 107 del 2011.
L’audizione del prefetto Tomao è continuata il 28 marzo 2012, quando sono stati auditi anche esponenti apicali di Assosecurnav, un'associazione sorta con finalità di security consulting in relazione alla possibilità di imbarcare operatori di sicurezza privata a bordo delle navi battenti bandiera italiana.
Il 18 aprile 2012 è stato sentito il Comandante in capo della Squadra navale della Marina militare. L’ammiraglio De Giorgi ha posto l’accento sulle gravi ripercussioni economiche che il fenomeno della pirateria determinerebbe, se non debellato, sui porti mediterranei, che si vedrebbero svuotati del traffico di merci a favore dei porti atlantici.
L’indagine conoscitiva è poi proseguita il 31 luglio 2012 con l’audizione del ministro dell’interno Cancellieri.
L’esame dell’affare assegnato sullo Stato di attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 5 del decreto-legge n. 107 del 2011, con particolare riferimento all'impiego di nuclei di protezione a bordo del naviglio civile che transita in acque colpite dal fenomeno della pirateria è proseguito nelle sedute del 13 giugno 2012, del 17 luglio 2012 e del 27 settembre 2012.
A conclusione dell’affare assegnato, nella seduta del 2 ottobre 2012, è stata approvata la risoluzione (Doc. XXIV, n. 46) che vincola il governo a numerosi e dettagliati impegni, fra i quali quello di estendere la platea delle imbarcazioni possibili destinatarie dei servizi di protezione armata anche al naviglio da pesca e a quello da trasporto passeggeri.
Il Senato ha svolto il 18 dicembre 2008 una seduta su mozioni (1-00067, 1-00076 e 1-00080) relative al problema della pirateria al largo delle coste somale. Nel corso della discussione è stato deciso il ritiro delle mozioni in favore dell’approvazione di un ordine del giorno unitario (ordine del giorno G1 -testo 2) che, tra l’altro, impegna il Governo ad assumere ogni possibile iniziativa in seno alle Nazioni Unite affinché la Comunità internazionale adotti urgentemente gli atti necessari a porre fine a crimini di pirateria marittima e ad adottare provvedimenti per consentire all'Italia di prendere parte alla missione "Atalanta".
In occasione del sequestro del rimorchiatore d'altura italiano Buccaneer, avvenuto l'11 aprile 2009 nel Golfo di Aden da parte di pirati somali, il governo ha dato risposta alla Camera all’interrogazione n. 3-00487, Vietti ed altri (seduta del 22 aprile 2009) e all’interpellanza n. 2-00400, Ginoble ed altri (25 giugno 2009). Oltre a dare conto dei passi intrapresi dal Ministero degli esteri, pur con il riserbo dovuto alla delicatezza del caso, i rappresentanti del governo intervenuti – il Ministro Frattini e il sottosegretario Cosentino – hanno posto l’accento sulla necessità di continuare a contribuire alla pacificazione della Somalia come unica strada per porre definitivo rimedio alla insicurezza dell’area.
Il caso Buccaneer è stato nuovamente affrontato il 29 luglio 2009 nella risposta all’interrogazione Tullo n. 5-01377 sul fenomeno della pirateria internazionale. Il sottosegretario Scotti, intervenuto presso la Commissione esteri della Camera, ha ricordato che era stato istituito il Gruppo di Contatto sulla pirateria al largo delle coste somale, cui l’Italia aveva aderito, con il compito di facilitare il coordinamento della lotta alla pirateria in tutti i suoi aspetti, inclusi l'assistenza alla Somalia, la repressione giudiziaria, i rapporti con le società di trasporto e gli armatori.
Il sottosegretario Cossiga nel rispondere congiuntamente alle interrogazioni n. 3-02007 (Pinotti ed altri) e n. 3-02017 (Amato), vertenti sulle iniziative per contrastare il fenomeno della pirateria in acque internazionali (Senato - Commissione difesa, seduta del 6 aprile 2011) ha riferito come l’Italia nei due anni precedenti si fosse posta come parte attiva in seno alle Nazioni unite e alla comunità internazionale per partecipare allo studio sulle possibili soluzioni per perseguire i responsabili dei crimini di pirateria. Il sottosegretario ha ancora una volta sottolineato la difficoltà della lotta alla pirateria a causa di fattori quali l’estensione dell’area di operazioni, le imprevedibili modalità di attacco dei pirati e la mancanza di un contesto legale idoneo a garantire la repressione dei reati di pirateria.
Il 13 aprile 2011 presso la Camera dei deputati è stata data risposta all’interrogazione n. 3-01589 dell’on. Muro che chiedeva di conoscere le iniziative in merito al sequestro della petroliera italiana Savina Caylin avvenuto al largo della costa somala in data 8 febbraio 2011, con particolare riferimento alla situazione dei componenti dell'equipaggio e ai contatti con le rispettive famiglie.
Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, ha informato dei passi intrapresi dal governo italiano per affrontare la situazione ed ha affermato che la petroliera era oggetto di attività di sorveglianza da parte di unità e sistemi nazionali e di forze alleate che operano nell'area.
Il 29 giugno 2011 presso la Commissione esteri della Camera dei deputati, il sottosegretario agli esteri Mantica ha dato risposta all’interrogazione presentata dall’on. Di Pietro n. 5-04846 sul sequestro della petroliera italiana Savina Caylyn.
Il 12 luglio 2011 il governo ha invece dato risposta alla Commissione difesa della Camera all’interrogazione n. 5-05085 dell’on. Rugghia riguardante le iniziative per il contrasto degli atti di pirateria contro mercantili italiani. Nella sua risposta, il sottosegretario Cossiga ha tra l’altro ricordato che il decreto legge “Proroga missioni internazionali” in quel momento alla firma del Capo dello Stato, conteneva una norma che avrebbe consentito la possibilità di impiegare nuclei militari di protezione della Marina Militare o servizi di vigilanza privata a bordo delle navi commerciali battenti bandiera italiana (D.L. n. 107/2011).
Il sottosegretario alla difesa Cossiga ha altresì dato risposta , il 26 luglio 2011, all’interrogazione dell’on. Fiano n. 5-04210 sull'intervento della Fregata Zefiro in aiuto della petroliera Savina Caylyn sequestrata da pirati somali.
A distanza di sette mesi dal sequestro, il governo ha nuovamente risposto il 22 settembre 2011 alla Camera all’interpellanza urgente Franceschini ed altri n. 2-01204 sulla vicenda della petroliera Savina Caylyn. Il sottosegretario Mantica ha riferito che non si avevano notizie della nave dal punto di vista logistico e che pertanto non era possibile immaginare un intervento militare per la liberazione degli ostaggi.
Il 28 settembre 2011 il sottosegretario Elio Vito ha risposto alla Camera all’interrogazione n. 3-01895 dell’on. Muro concernente iniziative del Governo in ordine ai sequestri delle navi Savina Caylyn e Rosaria D'Amato entrambe nelle mani dei pirati somali (che verranno rilasciate nei mesi successivi) e alla liberazione degli ostaggi.
Il sottosegretario Milone ha risposto, il 28 marzo 2012, presso la Commissione difesa della Camera all’interrogazione n. 5-06448 Di Stanislao sull'attività dei militari italiani che operano per la protezione da atti di pirateria su navi mercantili italiane e all’interrogazione n. 5-06496 Gidoni sui limiti geografici d’impiego dei nuclei militari di protezione e sulle responsabilità connesse al loro operato.
Di pirateria somala, tra l’altro, ha parlato anche il ministro della difesa, Di Paola, nel corso delle Comunicazioni del Governo alle Commissioni Riunite esteri e difesa di Camera e Senato svolte l’ 11 ottobre 2012.
Infine, il 24 ottobre 2012, il sottosegretario per l’interno, De Stefano, ha risposto alla Camera all’interrogazione dell’on. Compagnon n. 3-01996 su Iniziative per la protezione delle navi italiane da atti di pirateria. Il sottosegretario ha rassicurato circa l’imminenza dell’emanazione del decreto del Ministero dell’Interno, la cui stesura ha presentato un notevole grado di complessità, che disciplina l'impiego di guardie giurate a protezione delle navi nei casi in cui non sia possibile assicurare l'invio dei nuclei militari di protezione.
Il referendum del 9 gennaio 2011 ha decretato la separazione del Sud Sudan dal Sudan. Ma le dispute su questioni territoriali ed economiche perdurano, determinando una situazione di conflitto permanente e di emergenza umanitaria.
Il CPA (Comprehensive Peace Agreement), siglato tra l’SPLM (Sudan People’s Liberation Movement) e il Governo del Sudan nel 2005, aveva messo fine ad una guerra civile tra il nord e il sud del paese durata 22 anni e costata oltre milioni di morti. Il pacchetto di accordi comprendeva anche la fissazione di un referendum sull’indipendenza della regione del sud e un referendum sull’indipendenza di Abyei che, a causa del perdurare del conflitto, non è stato indetto.
Il referendum del 9-15 gennaio 2011 ha decretato l’indipendenza del Sud Sudan con il voto favorevole della quasi totalità dei votanti. Il fatto però che le due parti non abbiano ancora risolto definitivamente la questione dei confini, e la difficoltà ad attuare gli accordi sulla spartizione dei proventi del petrolio impedisce il ristabilimento della pace e ostacola il processo di riconciliazione e di stabilizzazione delle istituzioni.
Grazie all’intermediazione dell’Unione africana, il 4 agosto 2012 è stato raggiunto un accordo sulla spartizione delle rendite petrolifere, seguito da un’ulteriore round di incontri negoziali. Nonostante i progressi determinati da questi colloqui, restano dissensi su molte questioni che determinano la mancata applicazione dell’accordo. La produzione di greggio sud sudanese, che necessita del transito attraverso gli oleodotti sudanesi fino al Mar Rosso per la sua commercializzazione, non è ancora ripresa.
L’indipendenza del Sud Sudan e gli scontri tra nord e sud hanno messo in secondo piano l’altro fronte di crisi sudanese, il Darfur, anche se la situazione rimane sempre critica, soprattutto dal punto di vista umanitario. Non a caso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 2063 del 2012 fino al 31 luglio 2013, ha esteso il mandato di UNAMID, la missione ONU/Unione Africana in Darfur che ha il compito principale di proteggere la popolazione civile.
La guerra civile tra il governo del Sudan e alcuni gruppi di miliziani, da un lato, e altri gruppi militari ribelli dall’altro, raggiunse il suo culmine nel 2003. L’accordo del 2006, importante pietra miliare del processo di pace, non ha posto fine al conflitto, non essendo stato firmato da tutti i gruppi di ribelli. In molte parti del Darfur si registrano ancora scontri tra le forze governative, le milizie filo governative e i movimenti armati che si pongono al di fuori del processo di pace, con devastanti conseguenze sulla popolazione civile.
Tra il 9 e il 15 gennaio 2011 si è tenuto in Sudan il referendum che ha deciso l’indipendenza del Sudan del Sud secondo la volontà della stragrande maggioranza degli elettori, recatisi in massa alle urne, come dimostrano le tabelle a seguire.
SI’ |
3.792.518 |
98,83% |
NO |
44.888 |
1,17% |
Elettori Registrati: |
3.947.676 |
|
Votanti: |
3.851.994 |
97,58% |
Schede valide: |
3.837.406 |
99,62% |
Schede nulle o bianche: |
14.588 |
0,38% |
I dati definitivi del referendum sulla secessione del Sudan meridionale dal resto del Paese africano confermano il trionfo dei sì all'indipendenza, con il 98,83% dei voti espressi. Il processo di registrazione degli elettori si è svolto non solo nel Sud del Sudan, ma anche nel Nord dove risiedevano centinaia di migliaia di profughi, e in altri paesi in cui è presente la diaspora sud sudanese: Australia, Canada, Stati Uniti, Regno Uniti, Egitto, Etiopia, Uganda e Kenya.
Lo svolgimento di un referendum per l’indipendenza del Sud, faceva parte del pacchetto di accordi (Comprehensive Peace Agreement) siglato il 9 gennaio 2005 tra il governo del Sudan e l’SPLM (Sudan People’s Liberation Movement) al termine di un conflitto tra il nord e il sud del paese durato più di venti anni. L’Onu calcola che nel conflitto siano morte 2 milioni di persone, mentre 4 milioni sono state strappate dalle loro terre. 600 mila persone, inoltre, hanno trovato rifugio oltre confine, in paesi altrettanto poveri e instabili.
Il CPA si compone di sei accordi, firmati negli anni precedenti. Fra questi, il Protocollo di Machakos (Kenya, 2002) con cui le parti delineavano il quadro normativo con il quale si sarebbero stabiliti i principi di governo, il processo della transizione e le strutture di governo, così come il diritto all’autodeterminazione per le regioni meridionali del paese.
Il CPA prevedeva anche un referendum della regione di Abyei, da tenere in parallelo con quello del 9 gennaio. Nello specifico il referendum chiede se la regione sudanese deve mantenere lo status amministrativo speciale come parte del Nord, o se dovesse entrare a far parte del Sud. La mancanza di accordo fra le popolazioni che hanno diritto a votare ha fatto sì che la data del referendum sia slittata a data da destinarsi.
La divisione dei due Sudan non ha portato, come molti speravano, ad una soluzione stabile e duratura della guerra civile che, quasi ininterrottamente dal 1956, insanguinava la regione (almeno due milioni di morti dallo scoppio delle violenze). Ma la scarsa chiarezza degli accordi di pace (soprattutto riguardo alla definizione delle zone di frontiera) ha causato una recrudescenza di questo conflitto mai veramente sopito.
Il fatto che le zone di confine contese fossero ricche di petrolio ha costituito un terribile innesco per lo scoppio dei nuovi scontri tra le fazioni del nord e quelle del sud. Con la creazione di due Stati indipendenti, la gran parte delle risorse petrolifere è andata sotto il controllo del sud. Ma, allo stesso tempo, le raffinerie e l’unico porto dal quale il petrolio può essere esportato sono nel territorio del nord.
Già nel gennaio 2012 erano esplose le prime tensioni, quando a Juba (capitale del Sud Sudan) avevano deciso di bloccare le estrazioni petrolifere dai pozzi situati entro i propri confini, come ritorsione verso Khartoum (capitale del Sudan), accusata di essersi indebitamente appropriata di ingenti quantità di petrolio in transito sul suo territorio (secondo alcune stime, l’equivalente di 1 miliardo di dollari) e di aver imposto un prezzo spropositato per il passaggio del greggio verso i porti di esportazione (32 dollari al barile quando il prezzo di mercato era intorno ai 7).
Nell’impossibilità di risolvere la questione attraverso dei colloqui, il conflitto armato si è nuovamente acuito. Le regioni di confine, in particolare il Kordofan Meridionale (formalmente sotto la giurisdizione sudanese, ma con ancora una folta presenza di guerriglieri del sud), il Nilo Azzurro, Abyei e lo Stato di Unity, sono stati oggetto di pesanti bombardamenti da parte dell’aviazione militare del Sudan (che possiede in dotazione gli aerei Antonov, di fabbricazione sovietica) deciso a non perdere il controllo dei pozzi che si trovano in quelle zone e a piegare la resistenza dei guerriglieri dell’SPLA (Sudan People’s Liberation Army).
Omar Al Bashir, Presidente del Sudan, ha deciso di usare la mano dura nella regione, favorendo l’ascesa alla carica di governatore del Kordofan Meridionale di Ahmed Harun, già incriminato dal Tribunale penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Darfur, e facendo leva sulle rivalità interetniche (dato che con la separazione dei due Sudan era venuto meno il pretesto dell’odio interreligioso).
A pagare il prezzo più alto è stata, ed è tuttora, la popolazione civile. Gli abitanti dei villaggi delle zone colpite hanno cercato rifugio tra i Monti Nuba (catena montuosa del Kordofan Meridionale), le cui caverne offrono riparo dalle micidiali bombe a grappolo (il cui uso è stato vietato dalla Convenzione di Oslo del dicembre 2008, entrata in vigore nell’agosto 2010). Ma chi ha potuto, ha deciso di allontanarsi da quelle zone di guerra e migrare verso sud, attraversare la frontiera e cercare riparo in Sud Sudan.
La bomba umanitaria si è riversata su uno Stato giovanissimo ed ancora molto fragile. Nei campi profughi allestiti dalle organizzazioni internazionali (in particolare dall’agenzia ONU per i rifugiati – UNHCR) nella parte settentrionale del Sud Sudan, a ridosso del confine, l’afflusso quotidiano di sfollati è aumentato in modo considerevole nel corso del 2012.
Secondo dati delle Nazioni Unite, ad oggi sarebbero circa 300mila gli sfollati provenienti dalla regione del Sud Kordofan, 200mila dal Nilo Azzurro e 100mila da Abyei. Senza contare gli 1,7 milioni di rifugiati interni del Darfur, regione occidentale del Sudan martoriata da anni di violenze interetniche, che si vanno a sommare agli altri 2,5 milioni di profughi che, secondo le stime recenti di USAid si sono mossi in questi anni all’interno del territorio della Repubblica sudanese.
Secondo i dati forniti dall’OCHA poi, i sudanesi che hanno trovato riparo in paesi limitrofi sarebbero intorno alle 370mila unità, divisi tra Ciad, Etiopia, Egitto, Kenya e Repubblica Centrafricana.
Nel campo di Jamam, nella regione dell’Alto Nilo (che confina con quella del Nilo Azzurro), i volontari raccontano che nei periodi più critici devono fronteggiare anche 1000 arrivi al giorno, con i medici impegnati in circa 900 visite mediche giornaliere per scongiurare i rischi di epidemie, molto alti in situazioni di igiene precaria come quelle che si riscontrano in questi accampamenti. Secondo uno studio di Medici senza frontiere, in questo campo di accoglienza il tasso di mortalità è quasi il doppio della “soglia di emergenza”: muoiono circa nove bambini ogni giorno (mentre per gli adulti il numero giornaliero è di 1,8). La gran parte dei decessi è causata da forme di diarrea acuta, malattia inevitabile quando le scorte d’acqua diventano contaminate.
Il campo di Jamam ospitava circa 35mila rifugiati; ma lo scorso maggio, in concomitanza con l’inizio della stagione delle piogge, ha dovuto accogliere altre 30mila persone, con la conseguenza che la quantità di risorse a disposizione (acqua, cibo, ripari) si è praticamente dimezzata. L’approvvigionamento dei campi di accoglienza è difficoltoso a causa del blocco delle vie commerciali che dal Sudan corrono verso sud, imposto dal governo di Khartoum, che ha limitato l’accesso anche agli operatori umanitari. Per questo le organizzazioni internazionali che operano in quell’area hanno dovuto utilizzare ponti aerei per far arrivare beni di prima necessità alle popolazioni stremate.
Nella zona dell’Alto Nilo, dove sono sorti molti campi profughi (come quello di Jamam), sarebbe poi in corso, secondo un rapporto dell’UNHCR, un’epidemia di epatite E, causata dal sovraffollamento di rifugiati e dalle contestuali condizioni igieniche precarie. Dallo scorso luglio sono stati registrati più di 6mila casi di contagio, tra cui 111 morti. Il campo più colpito è stato quello di Yusuf Batil, dove si sono ammalate quasi 4mila persone (il 70% del totale dei casi) su una popolazione del campo di circa 38mila individui. 77 persone decedute. Non essendo ancora disponibile un vaccino contro l’epatite E, gli operatori sanitari invitano le persone ad adottare almeno le pratiche sanitarie più basilari. Quali misure di emergenza per arginare la diffusione di questa malattia, sono in fase di costruzione, nei principali campi, servizi igienici aggiuntivi (circa 700 latrine nel campo di Yusuf Batil), è stata aumentata la quantità di sapone distribuito, è in corso la sostituzione di circa 22mila taniche d’acqua da dieci litri (se riempiti con acqua contaminata, questi contenitori diventano fonte di infezione) e si stanno scavando nuovi pozzi per l’approvvigionamento dell’acqua.
Questi interventi sanitari e sociali delle organizzazioni internazionali rivestono un’importanza fondamentale per tenere sotto controllo una situazione di precario equilibrio, data dal sovraffollamento di rifugiati nella zona dell’Alto Nilo, situata proprio lungo il confine investito dal conflitto tra i due Sudan. Solo in questa regione sono presenti circa 113mila rifugiati.
Più ad ovest, lungo la linea del conflitto, c’è lo Stato di Unity, dove è allestito il campo di accoglienza con maggior concentrazione di rifugiati di tutto il Sud Sudan, ben 65mila anime. E l’agenzia ONU per i rifugiati sta allestendo, in questo periodo, un nuovo campo in questa stessa zona, nella località di Ajuong, un’area boscosa con abbondante spazio e buona disponibilità di acqua. Al suo completamento, sarà in grado di ospitare 20mila persone. Ma il progetto prevede la costruzione di campi per altri 100mila rifugiati. Secondo le previsioni dell’agenzia ONU, infatti, a causa del protrarsi degli scontri (soprattutto nel Kordofan Meridionale) e del favore della stagione asciutta (che consente spostamenti più agevoli) il Sud Sudan potrebbe trovarsi a dover accogliere almeno altri 60mila nuovi disperati nei prossimi mesi.
Un significativo flusso di profughi in Sud Sudan è causato anche da scontri interni allo stesso paese, molto spesso di matrice etnica. Secondo quanto riportato da alcuni quotidiani, circa un anno fa (quindi sei mesi dopo la nascita del 54° Stato africano) sarebbero scoppiate violenze interetniche nella regione di Jongli (a sud dell’Alto Nilo), che in pochi giorni avrebbero causato più di 3mila vittime (gran parte donne e bambini). All’origine di questa mattanza, ci sarebbe una lunga rivalità fra tribù della stessa zona, i Lou Nuer e i Murle, che da tempo si contendono l’accesso all’acqua e l’utilizzo dei pascoli e dei capi di bestiame in quelle zone. Da una parte e dall’altra, con cadenza regolare, partono squadroni della morte, che fanno scempio delle popolazioni rivali senza alcune pietà, uccidendo centinaia di persone, rapendo bambini e razziando bestiame. Secondo fonti locali, questi conflitti tra tribù avrebbe provocato, solo dall’indipendenza del Sud Sudan, un esercito di 63mila sfollati.
A tutto ciò deve poi aggiungersi il mezzo milione di cittadini sud sudanesi che sono rimasti in Sudan dopo la separazione dei due stati. Il fatto che i governi facciano molta fatica ad accordarsi su diritti e modalità di trattamento, potrebbe indurre una buona parte di loro a mettersi in marcia per oltrepassare il confine e giungere al proprio Stato di appartenenza, andando così ad alimentare un già massiccio flusso di profughi in cerca di pace e sicurezza.
Gli ingenti flussi migratori in questa martoriata regione africana non sono da imputare solamente agli scontri tra fazioni armate, essendo anche spesso causati da eventi naturali e condizioni ambientali avverse, cui il Sudan è particolarmente esposto. Durante la stagione delle piogge, infatti, le ripetute alluvioni che si abbattono su insediamenti e villaggi già particolarmente in difficoltà, costringono le popolazioni a spostarsi per trovare condizioni di vita più agevoli. Le piogge che sono cadute tra giugno e ottobre 2012 sul Sudan e sul Sud Sudan hanno colpito circa 500mila persone, causando migliaia di sfollati.
Per quanto riguarda il conflitto del Darfur, la situazione di violenza e di violazione dei diritti umani continua a persistere in quelle aree. Anche se, secondo il rapporto 2011-2012 di Italians for Darfur (un’associazione italiana per i diritti umani) per la prima volta da nove anni di conflitto, nei primi mesi del 2011 è stata registrata una tendenza positiva: il numero degli sfollati che ha deciso di far ritorno verso i villaggi di origine ha superato quello dei nuovi profughi. In sei mesi, circa un milione di persone ha fatto ritorno alle proprie terre, soprattutto dai campi del Sud Darfur, del Ciad e del Darfur occidentale; contestualmente sono diminuite anche le organizzazioni internazionali operanti nell’area: si è passati da 80 a poco più di 70 gruppi.
Nonostante la positiva inversione di tendenza, la situazione dell’area rimane molto critica, con circa 1,7 milioni di persone che, ad oggi, vivono nei campi profughi. Il rapporto 2013 di Italians for Darfur (pubblicato nel mese di febbraio) parla infatti di una zona dove si continua a morire prematuramente: molte persone non superano il 35° anno di vita e molti bambini muoiono prima di aver compiuto il 6° anno. L’inversione di tendenza di cui sopra (rientrati in rapporto ai nuovi rifugiati), sembra poi essersi definitivamente arrestata la scorsa estate. Gli ultimi dati presentati nella relazione, parlano di 40mila nuovi sfollati a causa degli scontri nelle aree di Golo e Guldo.
Il 29 giugno 2011, presso la Commissione esteri della Camera dei deputati il sottosegretario agli esteri Mantica ha risposto congiuntamente alle interrogazioni dell’on. Renato Farina n. 5-04848 vertente sulla situazione in Sud Sudan e n. 5-04931 sugli sviluppi della situazione nel Sud Kordofan. Il sottosegretario ha dato conto dei negoziati, condotti con la mediazione dell’Unione africana, per la pacificazione della regione del Sud Kordofan, attraversata da una grave crisi umanitaria, e della regione di Abyei sulla quale era appena stato raggiunto un accordo temporaneo.
Nel corso dell’audizione del 20 giugno 2012 davanti alle Commissioni esteri riunite di Camera e Senato, vertente sugli sviluppi della situazione in Africa, il Ministro degli affari esteri Terzi ha ricordato il ruolo dell’Italia nel tentativo di pacificazione dei due Sudan, attraverso la spinta alla ripresa dei negoziati e per l’attuazione della risoluzione 2046 dell’Onu.
Il 26 luglio 2012 il sottosegretario agli esteri, Dassù, ha risposto all’interrogazione n. 5-06935 dell'on. Renato Farina riguardante presunti episodi di violenza contro profughi ospitati nel campo di Scegarab in Sudan. Il sottosegretario ha rassicurato circa il fatto che gli episodi erano stati portati all’attenzione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che stava svolgendo un’indagine per verificare fatti e responsabilità.
Nell’ambito dell’ Indagine conoscitiva sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, la Commissione esteri della Camera ha ascoltato rappresentanti di Organizzazioni non governative operanti in Darfur nelle sedute del 10 dicembre 2008 e del 3 febbraio 2009. In entrambi i casi, gli auditi hanno riferito delle violenze e rappresaglie sulla popolazione civile al centro degli scontri fra le due parti in conflitto.
Il 29 aprile 2009 presso la Commissione esteri della Camera, governo ha risposto all’Interrogazione a risposta immediata n. 5-01350 dell’on. Maran sulla situazione in Darfur. Il sottosegretario agli esteri, Mantica, ha dato conto delle varie forme con le quali l’Italia contribuisce alla stabilizzazione dell’area e alla pacificazione del paese, ad esempio appoggiando la missione di pace delle Nazioni Unite e dell'Unione Africana in Darfur - UNAMID.
Il 25 novembre 2009 la Commissione esteri della Camera ha ascoltato Comunicazioni sulle iniziative parlamentari relative alla situazione in Darfur, a seguito della missione di alcuni parlamentari a Khartum. Nella sua relazione, l’on. Vernetti ha informato sulla situazione nel paese, dal quale tutte le maggiori ONG erano state allontanate in seguito all’emissione del mandato internazionale di arresto nei confronti del presidente al-Bashir.
La Commissione straordinaria diritti umani del Senato, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani, vigenti in Italia e nella realtà internazionale, il 14 settembre 2011 ha sentito Cecilia Strada, presidente di Emergency, sul sequestro di Francesco Azzarà, ad un mese dal suo rapimento. La presidente Strada ha illustrato le doti umane e la capacità professionale di Francesco Azzarà, in missione in Darfur come operatore logistico in un ospedale pediatrico di Emergency. (Azzarà sarà liberato nel dicembre 2011).
Il Sudan e il Sud Sudan sono fra gli stati africani nei quali si continuano a verificare episodi di violenze a danno delle comunità cristiane presenti, nelle sue varie confessioni, soprattutto nel Sud Sudan.
Il 12 gennaio 2011 è stata approvata a larghissima maggioranza dall’Assemblea della Camera la risoluzione Mazzocchi ed altri n. 6-00052. Nella risoluzione erano confluite, al termine del lungo dibattito, i contenuti di cinque mozioni riflettenti le posizioni di quasi tutto l’arco parlamentare (la risoluzione Maurizio Turco ed altri n. 6-00053 non è invece stata approvata).
La risoluzione 6-50052 impegna il governo, tra l’altro, a far valere nelle relazioni diplomatiche ed economiche, la necessità di un effettivo impegno degli Stati per tolleranza e libertà religiosa, e a tener conto del rispetto dei diritti umani nei paesi con cui ci sono scambi economici, in coerenza e in applicazione degli articoli 8 e 19 della nostra Costituzione.
In analogia con quanto avvenuto alla Camera, lo stesso giorno (12 gennaio 2011) l’Assemblea del Senato, dopo avere discusso il testo di cinque mozioni, ha approvato l’ordine del giorno G1 (testo 2) che ripercorre i contenuti della risoluzione approvata alla Camera. Anche al Senato la posizione dei radicali si è distinta da quella delle altre forze politiche.
Il 31 gennaio 2012, presso la Commissione Esteri della Camera, il sottosegretario agli esteri, De Mistura, ha risposto all'interrogazione n. 5-05980 presentata dall’on. Renato Farina in ordine al rapimento di due sacerdoti in Sudan allo scopo di ottenere un riscatto, liberati il giorno precedente. Tali episodi, non infrequenti nella regione sudanese, sono da attribuirsi all’instabilità e alla povertà dell’area. De Mistura ha poi ricordato che l’Italia era tra i pochi finanziatori dell’African Union High Level Implementation Panel on Sudan nato per facilitare i processi di riconciliazione nazionale sudanesi e che L'Italia è anche co-Presidente dell’Igad Partners Forum, organismo che riunisce i principali Paesi donatori dell'IGAD (InterGovernmental Authority on Development), di cui sono membri sia il Sudan che il Sud Sudan.
Nel corso della XVI legislatura, la Commissione esteri ha portato a compimento l’esame del disegno di autorizzazione alla ratifica dell'Accordo tra il Governo italiano e quello sudanese sulla promozione e reciproca protezione degli investimenti, fatto a Khartoum il 19 novembre 2005 (AC 2252). Durante l’esame in Aula, tuttavia, il 7 luglio 2010, è stato deciso il rinvio del progetto in Commissione per meglio valutare come fosse possibile contemperare le preoccupazioni per i diritti umani con la necessità di regolare giuridicamente con i governi pro tempore la presenza delle imprese italiane sul territorio.
L'attività di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali di cui all'art. 80 della Costituzione - che necessitano appunto dell'approvazione parlamentare con legge - costituisce la parte preponderante del lavoro legislativo della Commissione Affari esteri della Camera e dell'omologo Organo del Senato.
Nel corso della XVI Legislatura l’attività in ordine all’autorizzazione alla ratifica di accordi internazionali, tanto alla Camera quanto al Senato, si è concretizzata nell’esame in sede referente, per la successiva approvazione da parte dell’Assemblea, di un elevato numero di progetti di legge di iniziativa governativa o parlamentare, che sono poi divenuti 141 leggi di autorizzazione alla ratifica (o adesione) di ciascuno degli accordi esaminati.
La tabella in allegato riporta la serie storica delle leggi di ratifica.
Tra le leggi approvate si distinguono 77 leggi relative ad accordi bilaterali – per uno solo dei quali, ovvero l’Accordo tra Italia e San Marino del 24 agosto 2011 sul riconoscimento reciproco dei titoli di studio universitari, non risulta ancora pubblicata la relativa legge -, oltre a 32 leggi concernenti accordi multilaterali. Completano il quadro 32 leggi riguardanti accordi conclusi nell’ambito dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Le Camere hanno inoltre iniziato – senza portarlo a termine - l’esame di alcuni disegni di legge di autorizzazione alla ratifica corrispondenti ad altri 32 accordi.
I Trattati multilaterali vertono generalmente su materie di rilevante interesse: la maggior parte riguardano la tutela dei diritti umani (5), le problematiche dell’ambiente (8), le organizzazioni internazionali (6), la tutela dei beni culturali (2), la cooperazione contro la criminalità e il terrorismo (4), il diritto umanitario di guerra (3).
I più importanti fra i Trattati multilaterali sono stati:
I Trattati in ambito UE rappresentano una categoria a sé stante, e sono relativi sia all’evoluzione delle questioni istituzionali dell’Unione, sia al suo allargamento, oltre che allo sviluppo delle relazioni esterne.
Fra i Trattati e gli accordi conclusi nell’ambito dell’Unione europea e ratificati nella XVI legislatura va anzitutto menzionato il primo, ovvero il Trattato di Lisbona, l’ultimo intervento di grande rilevanza sul corpus dei Trattati istitutivi della Comunità e poi dell’Unione europea.
Gli altri trattati sono prevalentemente accordi di cooperazione, di associazione o di partenariato con Paesi terzi (19), nonché accordi di allargamento o ad essi collegati (3), accordi concernenti la cooperazione doganale intracomunitaria (3), accordi collegati all’unione economica e monetaria (3) – a quest’ultimo proposito si ricordano i Trattati sul fiscal compact e sul MES (Meccanismo europeo di stabilità). Con riferimento ai trattati sulle relazioni esterne o sull’allargamento si ricordano in particolare il Trattato di adesione della Croazia alla UE, nonché i tre accordi di stabilizzazione e associazione con il Montenegro, la Bosnia-Erzegovina e la Serbia.
Gli accordi bilaterali hanno riguardato i rapporti dell’Italia con altri Stati, ovvero con Organizzazioni internazionali: in allegato si riporta di seguito una ripartizione per area geografica degli Stati interessati.
L’istituzione di un meccanismo permanente di stabilità (European stability mechanism, ESM) dell’area euro, consentita da una apposita modifica all’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) è stata inclusa tra i pilastri del nuovo sistema di governance economica europea.
L’ESM è destinato prima ad affiancare a poi a sostituire gli strumenti transitoriodi stabilizzazione finanziaria (European financial stabilisation mechanism, EFSM, e European financial stability facility, EFSF) istituiti originariamente per 3 anni (fino al 31 dicembre 2012), e poi prorogati fino al 30 giugno 2013.
L’EFSF è stato istituito dal Consiglio ECOFIN del 9 maggio 2010 in seguito alla crisi finanziaria della Grecia e alla luce delle condizioni critiche di Irlanda, Portogallo e di altri Paesi dell’area euro.
L’EFSF consente di mobilizzare risorse di ammontare complessivo massimo pari a 500 miliardi di euro, mediante:
Il meccanismo di stabilizzazione finanziaria è stato attivato per la prima volta nel maggio 2010, nell’ambito di un programma di aiuti alla Grecia di 110 miliardi di euro complessivi (80 dell’UE e 30 del FMI); successivamente, il 28 novembre 2010 è stata deliberata la concessione di un prestito all’Irlanda di 85 miliardi (23 a carico del FMI), e il 16 maggio 2011, un prestito al Portogallo di 78 miliardi (26 a carico del FMI).
Da ultimo, il 28 febbraio 2012 è stato concesso un secondo prestito alla Grecia di 130 miliardi di euro (28 a carico del FMI).
Ciascuno Stato membro dell’Eurozona contribuisce all’EFSF in base alla quota di sottoscrizione del capitale della BCE, modificata secondo una chiave di conversione fissata dall’accordo istitutivo dell’EFSF. I dati relativi sono riportati nella seguente tabella:
Paese |
Quota capitale BCE |
Chiave di conversione |
Chiave di conversione emendata |
Belgio |
2,42% |
3,47% |
3,72% |
Germania |
18,9% |
27,06% |
29,07% |
Estonia |
0,17% |
0,26% |
0,27% |
Irlanda |
1,11% |
1,59% |
0 % |
Grecia |
1,96% |
2,81% |
0 % |
Spagna |
8,30% |
11,87% |
11,90% |
Francia |
14,22% |
20,31% |
21,83% |
Italia |
12,49% |
17,86% |
19,18% |
Cipro |
0,13% |
0,2% |
0,21% |
Lussemburgo |
0,17% |
0,25% |
0,27% |
Malta |
0,06% |
0,09% |
0,1% |
Paesi Bassi |
3,98% |
5,7% |
6,12% |
Austria |
1,94% |
2,78% |
2,99% |
Portogallo |
1,75% |
2,5% |
0 % |
Slovenia |
0,32% |
0,47% |
0,51% |
Slovacchia |
0,69% |
0,99% |
1,06% |
Finlandia |
1,25% |
1,79% |
1,92% |
Nella versione emendata Grecia, Irlanda e Portogallo hanno una chiave di conversione pari a 0 poiché, essendo beneficiari dei programmi di sostegno finanziario dell’EFSF, hanno chiesto – e ottenuto dagli altri partner – di sospendere il proprio impegno nell’EFSF.
Con una dichiarazione approvata il 9 dicembre 2011, i Capi di Stato e di Governo dell’area euro hanno disposto il potenziamento dell’EFSF mediante:
- il ricorso a certificati di protezione parziale che forniscono una protezione dal 20 al 30 per cento del valore capitale di una nuova obbligazione emessa dagli Stati membri beneficiari;
- la costituzione fondi di coinvestimento - con combinazione di finanziamenti pubblici e privati - per acquistare obbligazioni degli Stati membri beneficiari sui mercati primari e/o secondari;
- l’attribuzione alla BCE della funzione di agente per l’EFSF nelle sue operazioni di mercato (non avendo, a causa dell’opposizione della Germania, l’EFSF licenza bancaria).
La medesima dichiarazione ha inoltre precisato che l’EFSF resterà attivo, anche dopo l’entrata in vigore dell’ESM, fino a metà 2013, per finanziare i programmi avviati (a beneficio di Grecia, Irlanda e Portogallo).
Come già accennato, l’istituzione dell’ESM è consentita da una apposita modifica all’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE), approvata dal Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011. La modifica - ratificata da 26 Paesi membri su 27 (la Repubblica ceca ha terminato l’iter di approvazione parlamentare, ma deve ancora completare il processo di ratifica) - prevede l’aggiunta all’art. 136 del seguente paragrafo: “Gli Stati membri la cui moneta è l'euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell'ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità."
L’Italia ha ratificato la modifica dell’art. 136 con la legge 23 luglio 2012, n. 115.
La base giuridica così introdotta autorizza gli Stati membri ad istituire un meccanismo di stabilità su base interamente intergovernativa. Non è previsto, infatti, alcun potere di proposta e/o di consultazione per la Commissione europea e per il Parlamento europeo. Inoltre, non è previsto alcun intervento diretto del bilancio dell’UE, risolvendosi l’assistenza finanziaria in contributi degli Stati membri interessati sotto forma di prestiti e garanzie.
In base al trattato istitutivo, firmato il 2 febbraio 2012 ed entrato in vigore in data 8 ottobre 2012, a seguito della ratifica dei 17 Stati membri dell’Eurozona, l’ESM è costituito quale organizzazione intergovernativa nel quadro del diritto pubblico internazionale con sede in Lussemburgo
Il meccanismo ha le seguenti caratteristiche:
Il trattato istitutivo dell’ESM è stato ratificato da tutti e 17 Paesi membri (Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna), ed è entrato in funzione in data 8 ottobre 2012.
L’Italia lo ha ratificato con la legge 23 luglio 2012, n. 116.
Paese |
In miliardi di euro |
Rapporto quota/Pil (dati Eurostat riferiti al 2010) |
Germania |
190,024 |
7,6% |
Francia |
142,701 |
7,3% |
Italia |
125,395 |
8% |
Spagna |
83,325 |
7,8% |
Paesi Bassi |
40,019 |
6,7% |
Belgio |
24,339 |
6,8% |
Grecia |
19,716 |
8,5% |
Austria |
19,483 |
6,8% |
Portogallo |
17,564 |
10,1% |
Finlandia |
12,581 |
6,9% |
Irlanda |
11,145 |
7,1% |
Slovacchia |
5,768 |
8,7% |
Slovenia |
2,993 |
8,1% |
Lussemburgo |
1,752 |
4,1% |
Cipro |
1,373 |
8% |
Estonia |
1,302 |
8,6% |
Malta |
0,511 |
8,5% |
Totale |
700,000 |
|
Per quanto attiene agli oneri derivanti dalla ratifica del Trattato istitutivo del MES, l'articolo 3 della legge di autorizzazione alla ratifica non provvede ad esplicitare tali oneri, anche se la relazione tecnica che accompagnava il disegno di legge richiamava le disposizioni del Trattato per le quali la partecipazione al capitale versato del MES comporterà il pagamento iniziale per l'Italia di cinque rate annuali, ciascuna delle quali è quantificabile in circa 2,866 miliardi di euro - mentre gli importi ulteriori, a chiamata, restano al momento solo eventuali. Il medesimo articolo dispone altresì che per il versamento delle quote suddette, a decorrere dal 2012, vengano autorizzate emissioni di titoli di Stato a medio-lungo termine, il cui ricavo netto in tutto o in parte dovrà finanziare la contribuzione italiana al MES. Le caratteristiche di tali emissioni di titoli di Stato - definite come aggiuntive rispetto a quelle previste dai documenti di finanza pubblica per il triennio 2012-2014 - saranno stabilite con appositi decreti del Ministro dell'economia e delle finanze. Viene altresì specificato che tali importi non sono computati nel limite massimo di emissione di titoli di Stato stabilito dalla legge di approvazione del bilancio, né nel livello massimo del ricorso al mercato stabilito dalla legge di stabilità.
Il Vertice dei Capi di Stato e di Governo della zona euro, svoltosi nella notte tra il 28 e il 29 giugno 2012, ha approvato una dichiarazione relativa a misure per assicurare la stabilità finanziaria della zona euro, con riferimento sia al debito sovrano sia alle banche.
Con riguardo al primo aspetto, la dichiarazione prevede l'utilizzo dell’EFSF/ESM al fine di stabilizzare i mercati del debito sovrano per gli Stati membri che rispettino le raccomandazioni specifiche ad essi rivolte e gli altri impegni previsti nell'ambito del semestre europeo, del Patto di stabilità e crescita e della procedura per gli squilibri macroeconomici eccessivi.
Le condizioni per accedere al sostegno dei due meccanismi saranno stabilite in un apposito memorandum d'intesa.
La Banca centrale europea (BCE) fungerà da agente per conto dei due fondi per condurre operazioni di mercato riconducibili agli obiettivi di stabilizzazione sopra indicati.
Per dare seguito alle decisioni del Consiglio, nel corso della riunione dell’Eurogruppo del 9 luglio, l’EFSF e la Banca centrale hanno firmato un “accordo tecnico" che prevede che la BCE sia l'agente dell'EFSF/ESM per l'acquisto dei bond sul mercato secondario.
Con riferimento alle banche, la dichiarazione stabilisce che l'ESM, una volta istituito il meccanismo di vigilanza unico del sistema creditizio, abbia facoltà di ricapitalizzare direttamente gli istituti bancari (attualmente l'ESM può erogare un sostegno diretto soltanto agli Stati membri), nel rispetto di appropriate condizionalità, tra cui l'osservanza delle regole sugli aiuti di Stato, specifiche per ciascuna banca, per ciascun settore o per l'intera economia dello Stato interessato. Tali condizionalità saranno stabilite da un apposito memorandum d'intesa.
Il trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria” (cd. Fiscal Compact) è stato firmato in occasione del Consiglio europeo dell’1-2 marzo 2012 da tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione di Regno Unito e Repubblica ceca.
Il trattato incorpora ed integra in una cornice unitaria alcune delle regole di finanza pubblica e delle procedure per il coordinamento delle politiche economiche in gran parte già introdotte o in via di introduzione in via legislativa nel quadro della nuova governance economica europea.
Tra i punti principali del trattato si segnalano:
Il 17 aprile 2012 è stata approvata la legge costituzionale n.1/12 volta a introdurre nella Costituzione, nel rispetto dei vincoli sul pareggio di bilancio derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea. La legge modifica gli artt. 81, 97, 117 e 119 della Costituzione, incidendo sulla disciplina di bilancio dell'intero aggregato delle pubbliche amministrazioni, compresi pertanto gli enti territoriali (regioni, province, comuni e città metropolitane).
il Trattato è entrato in vigore il 1° gennaio 2013, poiché – come previsto dall’art. 14 del medesimo Trattato – è stato ratificato da dodici Paesi dell’Eurozona (Austria, Cipro, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Grecia, Italia, Irlanda, Finlandia, Portogallo, Slovenia; il 17 gennaio si è aggiunta anche la Slovacchia); il Trattato è stato altresì già ratificato da quattro Paesi non aderenti alla zona euro (Lettonia, Lituania, Romania e Danimarca). L’Italia lo ha ratificato con la legge n. 114 del 23 luglio 2012.