Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento giustizia | ||||
Titolo: | I temi dell'attività parlamentare nella XVI Legislatura: Diritto e giustizia - 14 | ||||
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 1 Progressivo: 14 | ||||
Data: | 15/03/2013 | ||||
Descrittori: |
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Organi della Camera: | II-Giustizia |
La documentazione di inizio legislatura - accessibile dalla home page della Camera dei deputati - dà conto delle principali politiche pubbliche e delle attività svolte dalle Commissioni parlamentari nella XVI legislatura, suddivise in Aree tematiche, a loro volta articolate per Temi e Approfondimenti. L'accesso è disponibile per Commissione ovvero per Area tematica.
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Premessa. Le risorse finanziarie
Gli interventi dedicati al settore giustizia nella XVI legislatura sono connessi a una variabile che, ancor più che in passato, incide sulle scelte e la qualità delle politiche pubbliche: le risorse finanziarie.
Il contesto di generale contenimento della spesa pubblica, da ultimo realizzato attraverso gli strumenti della spending review, si accompagna alla possibilità di rimodulare missioni e programmi con una forte responsabilizzazione di ciascun centro di spesa. Il Ministero della Giustizia non risulta avere operato alcuna variazione in tal senso nell’ultimo anno. Come per altri Ministeri, le riduzioni di spesa sono previste per il Ministero della Giustizia anche per il 2013. Le spese per la missione Giustizia nel bilancio di assestamento 2012, pari a 7.514 mil. euro, costituisce l'1,8% della spesa statale complessiva (al netto della missione debito pubblico). Nel 2011 la spesa nello stato di previsione della Giustizia è stata pari all’1,6% (8.460 mil. euro) del totale della spesa statale. La massa spendibile per il 2013, ovvero la somma dei residui passivi e degli stanziamenti di competenza, ammonta a 7.978,5 mln di euro.
In questo quadro si colloca dunque l’insieme degli interventi legislativi realizzati nel corso della XVI legislatura, contenuti sia in leggi integralmente dedicate alla giustizia sia in manovre finanziarie volte a sostenere l’economia ovvero a contenere i costi per l’apparato pubblico oppure a ridurre gli oneri per i cittadini.
I dieci temi in cui sono distribuiti i diversi ambiti dell’area Diritto e Giustizia costituiscono ambiti organici di sviluppo delle politiche di settore.
Le principali linee di intervento che consentono di individuare filoni di politica pubblica sono desumibili in primo luogo dalle parti che accomunano le linee programmatiche dei due governi della legislatura, presentate alla Commissione Giustizia dal Ministro della Giustizia pro tempore nel 2008 e nel 2011. Pur scontando il diverso ambito temporale di riferimento, emergono infatti tratti comuni nella individuazione di tre ambiti prioritari: carceri, giustizia civile e geografia giudiziaria. La seconda e la terza sono riconducibili al tema unitario dell’organizzazione e funzionamento della giustizia.
La situazione carceraria, ripetutamente causa di autorevoli appelli al ripristino di condizioni di vita dignitose all’interno degli istituti, al 31 dicembre 2008 era la seguente: 58.127 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43.066. Di essi 36.565 erano italiani mentre 21.562 stranieri. I condannati in via definitiva erano 26.587. Le donne 2.526. Al 31 gennaio 2013 la situazione appare complessivamente aggravata: risultano infatti presenti 65.905 detenuti detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 47.040. 39.090 sono i condannati in via definitiva. Gli stranieri sono 23.473, le donne 2.818.
Per fare fronte alle condizioni difficilmente sostenibili all’interno degli istituti è stato predisposto all’inizio del 2010 un Piano organico , che comporta un impegno amministrativo per gli interventi di edilizia carceraria e l’assunzione di agenti di polizia penitenziaria e ulteriori interventi sul piano normativo volti a modificare il sistema sanzionatorio penale con misure alternative al carcere.
Nell'ambito dell'attuazione del “Piano carceri” è stata approvata dal Parlamento la legge 199/2010, che ha dato - sebbene in via transitoria ovvero fino all’attuazione completa del Piano e comunque non oltre la fine del 2013 - la possibilità di scontare presso la propria abitazione la pena detentiva non superiore a un anno, anche se residua di pena maggiore. La soglia temporale è stata poi portata a diciotto mesi dal decreto-legge 211/2011. Dall’entrata in vigore a fine gennaio 2013 sono usciti in totale dagli istituti penitenziari 9.386 detenuti. Questo elemento fa emergere ancor più la criticità del sovraffollamento degli istituti.
Anche di recente, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione della CEDU (caso Torreggiani e altri, 8 gennaio 2013 ), considerando strutturale e sistemico il problema del sovraffollamento carcerario in Italia.
Nel lungo periodo, la questione carceraria richiede una valutazione complessiva delle stesse politiche penali. Appare sempre più necessario valutare in modo selettivo il ricorso alla sanzione penale come extrema ratio per ricorrere a forme sanzionatorie alternative, ma non per questo meno incisive, negli altri casi. Il tentativo infruttuoso di procedere a una nuova Depenalizzazione dei reati minori nel corso della legislatura dimostra tuttavia come il ricorso alla sanzione penale da parte del legislatore sia molto più diffuso di quanto non si possa immaginare. Secondo una stima approssimativa, in assenza di una vera e propria banca dati ufficiale delle sanzioni penali, a partire dall’ultima depenalizzazione contenuta nel decreto legislativo n. 507 del 1999 fino al febbraio 2012 sono state introdotte nel nostro ordinamento non meno di 310 nuove fattispecie penali, di cui 171 nuove contravvenzioni e 139 nuovi delitti. Tra le nuove fattispecie risaltano per numero e specialità quelle introdotte in attuazione di normativa europea.
E, ulteriormente, occorre meditare il dato riportato dal Primo presidente della Corte di Cassazione , da questi qualificato come dato “non facilmente verificabile, ma comunque certamente indicativo del quadro di grandezza” e tratto dal rapporto del 19 settembre 2012 del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa: le fattispecie di reato ammonterebbero nel nostro Paese a 35.000. Si tratta, a ben vedere, di temi non nuovi nel nostro ordinamento. Risale infatti al 1983 la pubblicazione di una circolare governativa, indirizzata a tutti gli uffici legislativi ministeriali, con la quale si dettavano criteri per la distinzione tra fattispecie incriminatrici penali e violazioni amministrative.
Le ipotesi di ulteriori interventi legislativi per affrontare la questione carceraria sono chiamate a misurarsi con la necessaria copertura amministrativa, tanto nel caso di creazione di nuovi istituti (per cui è presumibile siano necessari più agenti) quanto nel caso di misure alternative alla detenzione (per cui sarebbero necessarie modalità di controllo efficaci).
Efficienza del sistema della giustizia civile e competitività del Paese sono elementi tra loro strettamente legati. L’Italia è uno dei Paesi, europei e non, in cui la durata del processo civile è maggiore, come testimoniato dalla comparazione operata dalla Commissione Europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) e dalla Banca Mondiale. A ciò deve aggiungersi il tasso di litigiosità (calcolato considerando il numero di nuove cause avviate ogni anno rispetto alla popolazione), che in Italia è pari a 3,5 volte quello della Germania e quasi due volte quello di Francia e Spagna (stima della Banca d’Italia). Sempre la Banca d'Italia, in un recente studio, ha evidenziato gli effetti negativi prodotti dalla maggiore durata dei procedimenti civili in Italia sulle dimensioni d’impresa nel settore manifatturiero.
Ancor più, permane l’annosa questione dell’arretrato, che non accenna a diminuire nel tempo.
A fine 2007 erano pendenti in Italia più di 5.429.000 procedimenti civili, compresi quelli davanti alla Corte di Cassazione. Nel 2010 erano pendenti circa 5.584.000 procedimenti. La durata media effettiva dei procedimenti civili per le materie definibili con sentenza – nel confronto tra 2006 e 2008 – aumenta del 15,1% davanti al giudice di pace (da 463 a 533 giorni in media), si riduce lievemente davanti al tribunale dell’1,2% (da 1.121 a 1.108 giorni) e aumenta considerevolmente davanti alla corte d’appello (da 1.056 a 1.197 giorni).
Gli interventi posti in essere potranno essere valutati nel medio e lungo periodo. Il primo, di carattere prevalentemente organizzativo ma con ricadute anche sul piano delle regole del processo, ha interessato la digitalizzazione del processo civile (c.d. processo telematico ), in cui – come regola generale – tutte le comunicazioni e notificazioni debbono essere effettuate in forma telematica. Dalla fine del 2012 la digitalizzazione ha interessato anche tutte le fasi delle procedure concorsuali. E’ stata estesa anche al processo penale per le comunicazioni a persona diversa dall’imputato. Al 31 ottobre 2012, l’82% degli avvocati risulta dotato di PEC. Dal 15 ottobre 2012 le comunicazioni telematiche sono attive in tutti i tribunali e le corti d’appello. Da novembre 2011 a ottobre 2012 sono state effettuate quasi 6 milioni di comunicazioni via posta elettronica certificata. Mentre da gennaio a ottobre 2012 sono stati depositati 126.559 atti telematici.
Tuttavia, la maggiore efficacia e tempestività del procedimento civile passa anche dalla riforma del processo, a partire dalla legge 69/2009, con cui sono state introdotte molteplici misure di alleggerimento quali l’ampliamento della competenza del giudice di pace, la semplificazione del contenuto della sentenza, le modalità della prova testimoniale, l’abbreviazione dei termini processuali, il filtro in Cassazione per l’ammissibilità del ricorso, la semplificazione del procedimento sommario di cognizione, la modifica del processo di esecuzione, la mediazione e la conciliazione. E’ inoltre da sottolineare il rilievo dell’istituzione in tutti i tribunali e corti d’appello con sede nei capoluoghi di regione del tribunale delle imprese, che ha esteso la sfera di competenza delle precedenti sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale.
Il terzo filone d'intervento nella legislatura è costituito dalla riforma della geografia giudiziaria ovverosia dalla diversa distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari. Con due distinti decreti legislativi sono stati soppressi uffici del giudice di pace e di tribunale, con l’esplicito obiettivo di ridurre la spesa e ottenere un miglioramento dell'efficienza del sistema giustizia attraverso una più razionale utilizzazione delle risorse umane disponibili. Per questo motivo, dopo un serrato confronto parlamentare sullo schema di decreto, in cui si sono confrontati l’esigenza di maggiore efficienza con quella di mantenimento di presidi di legalità sul territorio, sono stati soppressi, con efficacia dal 13 settembre 2013, 31 tribunali e relative procure della Repubblica oltre a tutte le 220 sezioni distaccate di tribunale esistenti. Sono stati inoltre soppressi 667 uffici del giudice di pace, partendo da un totale di 846 uffici esistenti (ne restano in funzione 179). Il personale di magistratura e amministrativo deve essere pertanto redistribuito tra gli uffici non soppressi.
Venendo agli altri temi, merita richiamare l’ambito della Cooperazione giudiziaria sono state ratificate alcune convenzioni che hanno comportato modifiche al diritto penale (si pensi soprattutto agli accordi internazionali in tema di lotta alla corruzione o per rafforzare la tutela dei minori vittime di reati di sfruttamento sessuale). In prossimità dello scadere della legislatura è stata inoltre approvata la legge che adegua l'ordinamento italiano alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale, che rende possibile l’esercizio della giurisdizione di tale organismo in misura complementare alla giurisdizione nazionale per crimini di guerra, conto l’umanità, il genocidio o, in prospettiva, il crimine di aggressione. Si tratta quindi di una significativa apertura dell’ordinamento nazionale a quello internazionale.
Inoltre sono stati numerosi gli interventi legislativi connessi al Diritto commerciale e delle società e all'attività di impresa quali la lotta alla contraffazione ed in generale la tutela dei diritti di proprietà industriale; le fusioni e scissioni societarie; la disciplina delle s.r.l. semplificate e a capitale ridotto, le modifiche in materia di società cooperative e di mutuo soccorso. Nel settore processuale, va segnalata l'istituzione del cd. Tribunale delle imprese e la soppressione del rito societario.
Quanto al Diritto di famiglia merita segnalare, per il significato giuridico come pure per il rilievo nell’evoluzione dei costumi, l'approvazione della legge 219/2012, volta ad eliminare dall'ordinamento le residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali, affermando il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli.
La XVI legislatura è contrassegnata poi dall’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, già oggetto di due successivi interventi integrativi e correttivi, e dalla disciplina dell'azione collettiva degli utenti nei confronti della pubblica amministrazione (d.lgs. 198/2009). Anche in questo settore è stato previsto un incremento del contributo unificato per l’accesso alla giustizia con la finalità di alleggerire il carico complessivo dei procedimenti.
Nel settore della lotta alla Criminalità organizzata , è entrato in vigore il codice delle leggi antimafia (d.Lgs 159/2011) comprensivo delle recenti novità in tema di misure di prevenzione. Specifici provvedimenti d'urgenza e la cd. legge sicurezza sono poi intervenuti in materia penale e di organizzazione degli uffici giudiziari, ad esempio per l’assegnazione di magistrati a sedi disagiate.
Il settore delle Professioni regolamentate è stato oggetto di numerosi interventi volti a favorire i principi di liberalizzazione e di concorrenza. E’ stato abrogato il sistema delle tariffe professionali regolamentate e per il resto l’intera materia è stata delegificata attraverso un regolamento che interessa tutte le professioni ordinistiche (D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137). La professione forense ha poi trovato una sua specifica regolamentazione legislativa.
Nel Settore civile , oltre agli interventi sul processo e sulla filiazione, è stato ampiamente riformato il condominio degli edifici, in molteplici aspetti tra cui la determinazione delle parti comuni dell'edificio, la riduzione dei quorum deliberativi, le attribuzioni e i poteri degli amministratori. Importanti riflessi sulle attività produttive potrà avere l'introduzione dell'istituto della composizione delle crisi da sovraindebitamento dei debitori ai quali non si applicano le ordinarie procedure concorsuali. Inciderà invece sui rapporti tra produttori e consumatori la nuova disciplina delle azioni collettive (class action), estesa anche nei confronti della p.a.
Il Settore penale ha registrato novelle legislative volte a proteggere le fasce più deboli. Di tal segno sono infatti gli interventi sullo sfruttamento sessuale dei minori o gli atti persecutori. Inoltre, i reati contro la pubblica amministrazione sono stati oggetto di un'ampia riforma con la "legge anticorruzione". Le modifiche processuali hanno riguardato principalmente la competenza della corte d’assise, l’incidente probatorio, il gratuito patrocinio, gli accertamenti tecnici coattivi. Particolare risonanza hanno avuto i dibattiti parlamentari dedicati a progetti di cui non è stato concluso l’iter quali i progetti in tema di intercettazioni, di prove nel processo penale, il processo breve, il proscioglimento per particolare tenuità del fatto. Due progetti di legge ordinaria, concernenti la sospensione dei procedimenti a carico delle alte cariche dello Stato e il legittimo impedimento delle alte cariche, hanno concluso il loro iter parlamentare (leggi nn. 124/2008 e 51/2010). Peraltro le leggi sono state oggetto di sentenze di accoglimento da parte della Corte costituzionale.
In prospettiva dovranno essere considerati anche le modalità e gli effetti della crescente attuazione dei Trattati europei, con specifico riguardo ai vari settori della giustizia, compreso il diritto penale. Si tratta infatti di un ambito nuovo del diritto europeo dopo il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
Per far fronte al grave problema del sovraffollamento carcerario, dopo la nomina nel 2008 di un Commissario straordinario, il Governo - deliberando nel 2010 un Piano straordinario basato su una articolata serie di interventi, prevalentemente di edilizia penitenziaria - ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale (prorogato da ultimo fino al 31 dicembre 2012). Prima con la legge 199/2010, poi con il decreto-legge 211/2011, sono state approvate ulteriori misure per ridurre il sovraffollamento. Nel 2012, a seguito della riduzione delle risorse disponibili, il citato Piano straordinario è stato rimodulato. Infine, con la legge 62 del 2011 è stata introdotta una disciplina finalizzata ad evitare, nella gran parte dei casi, la permanenza in carcere di detenute madri con figli minori.
Il problema del sovraffollamento carcerario è stato certamente uno dei temi che ha caratterizzato la legislatura. Secondo i dati del Ministero della giustizia, all'indomani dell'indulto del 2006 la popolazione carceraria era passata dai 61.264 detenuti del giugno ai 39.005 del 31 dicembre 2006. Negli anni seguenti, tuttavia, si è registrato un rapido ritorno alla situazione pre-indulto con un successivo ulteriore peggioramento dei dati statistici: le presenze al 31/12/2007 erano già 48.693; a fine 2008 58.127, a fine 2009 64.791, a fine 2010 67.961. Se si pensa che a tale data la capienza regolamentare dicharata era di 45.022 posti si ha la misura della gravità della situazione di sovraffollamento nelle nostre carceri. Solo nell'ultimo biennio, mentre la capienza degli istituti è migliorata (47.040 posti al 31 dicembre 2012) a seguito, soprattutto, di interventi di ristrutturazione di padiglioni esistenti, si registra - anche grazie a miglioramenti normativi - una lieve tendenza alla diminuzione delle presenze, con 66.897 detenuti al 31 dicembre 2011 e 65.701 alla stessa data del 2012. I più recenti dati statistici disponibili riferiscono, tuttavia, di una nuova lieve tendenza all'aumento: al 28 febbraio 2013, a capienza praticamente invariata (47.041 posti) erano infatti presenti nelle nostre carceri 65.906 detenuti.
Nonostante gli interventi migliorativi, va segnalata l'ulteriore condanna dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo causata dal sovraffollamento in carcere: la sentenza CEDU pubblicata l'8 gennaio 2013 (Torregiani e altri contro Italia) ha condannato il nostro Paese al pagamento di quasi 100.000 euro ciascuno a 7 detenuti per la violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU che proibisce la tortura ed ogni trattamento degradante. La Corte EDU, con tale decisione, ha ingiunto allo Stato italiano di introdurre, entro il termine di un anno dal momento in cui la sentenza della Corte sarà divenuta definitiva, "un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte". Durante questo termine, la Corte sospenderà le procedure relative a tutti gli altri ricorsi analoghi attualmente pendenti avanti a sé.
Il Governo, per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento nelle carceri, aveva attribuito temporaneamente (fino al 31 dicembre 2010) al Capo del D.A.P. (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) poteri commissariali straordinari per il rapido compimento degli investimenti necessari alla realizzazione di nuove infrastrutture penitenziarie ed all'aumento della capienza di quelle esistenti (art. 44-bis del D.L. 207 del 2008). Spettava al commissario il compito di redigere il programma degli interventi necessari, specificandone i tempi e le modalità di realizzazione ed indicando le risorse economiche a tal fine occorrenti. Con successivi D.P.C.M. si prevedeva la determinazione delle opere necessarie per l'attuazione del programma, con l'indicazione dei tempi di realizzazione di tutte le fasi dell'intervento e del relativo quadro finanziario (in caso di particolare urgenza, era consentita l’abbreviazione fino alla metà dei termini previsti dalla normativa vigente). Le opere di edilizia carceraria dovevano, poi, essere inserite nel programma delle infrastrutture strategiche (PIS) previste dalla cd. legge obiettivo, nonché, se di importo superiore a 100.000 euro, nel programma triennale previsto dall'art. 128 del decreto legislativo n. 163/2006 (cd. Codice degli appalti). Al commissario venivano riconosciuti, in caso di inutile decorso dei termini previsti dalla normativa vigente, gli speciali poteri sostitutivi previsti dall’art. 20 del D.L. 185/2008.
Il cd. Piano carceri - che avrebbe dovuto creare circa 18.000 nuovi posti detentivi entro il 2012 - anche per problemi di carenza di fondi, è stato effettivamente varato dal Governo il 13 gennaio 2010, confermando la gestione commissariale del Capo del D.A.P. Il Piano è stato articolato in quattro filoni di intervento (cd. quattro pilastri) alla cui base c’è la dichiarazione dello stato di emergenza carceraria, deliberata con D.P.C.M. 13 gennaio 2010 (poi prorogata fino al termine del 2012). I primi due pilastri erano costituiti da interventi di edilizia carceraria; sul piano normativo (terzo pilastro) si dovevano introdurre novità al sistema sanzionatorio con misure che prevedessero, da un lato, la possibilità della detenzione domiciliare per pene detentive fino ad un anno nonchè la messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, con conseguente sospensione del processo. Il quarto pilastro del Piano prevedeva l’assunzione di 2.000 nuovi agenti di Polizia Penitenziaria (le scoperture risultavano, tuttavia, circa 5.000)
Al Commissario straordinario, nell'attuazione degli interventi del primo pilastro (edilizia penitenziaria), erano riconosciuti poteri derogatori delle ordinarie competenze, una velocizzazione delle procedure e la semplificazione delle gare d'appalto per la costruzione di 47 nuovi padiglioni carcerari (la previsione iniziale di realizzazione era fine 2010) utilizzando il modello adottato per il dopo-terremoto a L'Aquila.
A partire dal 2011, il Piano prevedeva la realizzazione di altre strutture di edilizia penitenziaria straordinaria ovvero 18 nuove carceri, di cui 10 “flessibili” ( di prima accoglienza e a custodia attenuata, destinate a detenuti con pene lievi) cui se ne dovevano aggiungere altre 8 (anch'esse “flessibili") in aree strategiche . Il “braccio operativo” con cui gestire l'emergenza carceri era stato individuato nel Dipartimento della la Protezione Civile.
Secondo il Piano, gli interventi avrebbero dovuto portare complessivamente alla creazione di 21.709 nuovi posti negli istituti penitenziari (circa 4.000 in più rispetto ai 18 mila iniziali) e al raggiungimento di una capienza totale di 80.000 detenuti. Per realizzare questo progetto si disponeva di 500 milioni di euro stanziati dalla Finanziaria 2010 e di altri 100 milioni di euro provenienti dal bilancio della Giustizia.
Dopo che il decreto-legge 195/2009 aveva dettato disposizioni speciali che prevedevano ulteriori poteri in capo al Commissario per la localizzazione e realizzazione di nuove carceri, anche in deroga agli strumenti urbanistici locali (art. 17-ter), il è stata emanata l’O.P.C.M. 19 marzo 2010, n. 3861, un'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri che ha dettato nuove disposizioni urgenti di protezione civile dirette a fronteggiare la situazione di emergenza conseguente al sovraffollamento penitenziario. Il provvedimento ha, in particolare, previsto che il Capo del DAP, Commissario delegato per “l’emergenza carceri”, dovesse predisporre entro 30 giorni un apposito Piano di interventi, indicandone i tempi e le modalità di attuazione. L’ordinanza ha istituito un Comitato di indirizzo e controllo presieduto dal Ministro della giustizia, competente all'approvazione del Piano e con compiti di vigilanza sull'azione del Commissario. Le risorse per la realizzazione degli interventi (trasferite su apposita contabilità speciale intestata al Commissario) erano costituiti, oltre che dai citati 500 milioni di euro del Fondo infrastrutture stanziati dalla Finanziaria 2010, dai fondi della Cassa delle ammende e dalle ulteriori risorse finanziarie di competenza regionale, fondi comunitari, nazionali, regionali e locali, comunque assegnati o destinati per le finalità del Piano.
Con il decreto-legge n. 216 del 2011 è stata prorogata di un ulteriore anno (cioè fino al 31 dicembre 2012) la gestione commissariale per gli interventi straordinari di edilizia carceraria (art. 17) ma è stata sottratta al capo del DAP tale gestione, attribuendola - dal 1° gennaio 2012 - ad un nuovo commissario. Con l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3995 del 13 gennaio 2012, il Prefetto Angelo Sinesio è stato, quindi, nominato Commissario delegato per l'attuazione del Piano carceri e sono sono state ulteriormente definiti, in deroga a nuove specifiche disposizioni normative, i poteri del Commissario stesso. L'attività del Commissario, secondo quanto previsto dall'art. 17 del D.L. 216/2011, sarebbe dovuta cessare il 31 dicembre 2012 (v.ultra).
Mentre il Piano deliberato dal Comitato d'indirizzo e controllo nel giugno 2010 - a fronte di risorse totali pari a 675 mln di euro - prevedeva la creazione di 9.150 posti detentivi il nuovo Piano carceri approvato dal Comitato il 31 gennaio 2012, nonostante una diminuzione dei fondi disponibili (-228 mln) decisa dal CIPE, ha previsto nuovi 11.573 posti. Tale risultato sarebbe possibile grazie ad una diversa logica progettuale, a localizzazione delle strutture a costi più contenuti nonchè ad economie di scala ed ottimizzazione delle risorse umane. Con DPR 3 dicembre 2012 la gestione commissariale per l'emergenza carceraria è stata progata di un ulteriore anno (fino al 31 dicembre 2013); il decreto conferma Commissario il prefetto Sinesio, ora definito "Commissario straordinario del Governo per le infrastrutture carcerarie".
Il ministro della giustizia Severino, nel corso del suo intervento del 22 gennaio 2013 a Strasburgo all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha affermato che, sulle strutture carcerarie, l'azione del Governo "pur dovendo fare i conti con la ristrettezza delle risorse disponibili, è stata particolarmente incisiva: l’obiettivo è di consegnare entro il 31 dicembre 2014 altri 11.700 posti. Già nel 2012 sono stati consegnati 3.178 nuovi posti, ai quali se ne aggiungeranno 2.382 entro giugno di quest’anno".
Per un quadro particolareggiato degli interventi previsti dal nuovo Piano carceri si rinvia al contenuto dell'apposito sito web Piano carceri.
La legge 62/2011, intervenendo in materia di custodia cautelare ed esecuzione della pena da parte delle detenute madri, ha inteso garantire una maggior tutela del rapporto tra detenute e figli minori.
La nuova disciplina ha inteso conciliare da un lato, l'esigenza di limitare la presenza nelle carceri di bambini in tenera età, dall'altro, di garantire la sicurezza dei cittadini anche nei confronti delle madri di figli minori che abbiano commesso delitti. La legge riduce a casi eccezionali, in presenza di figli minori, la possibilità di scontare la custodia cautelare in carcere privilegiando il ricorso ad istituti a custodia attenuata. Analogamente, la legge 62/2011 amplia l'ambito di applicazione della detenzione domiciliare speciale per le madri in espiazione di pena. Ulteriori misure della legge hanno riguardato l'ampliamento, per le madri detenute, della possibilità di visita al minore infermo nonchè la previsione dell'adozione di un decreto ministeriale per l'individuazione delle caratteristiche delle cd. case-famiglia protette.
La legge 62/2011, entrata in vigore il 20 maggio 2011, non sembra aver tuttavia prodotto i miglioramenti sperati; infatti, se al 30 giugno 2011 le detenuti madri in carcere con figli minori erano 53, al 30 giugno 2012 erano aumentate a 57.
Nell'ambito dell'attuazione del terzo pilastro del “Piano carceri” è stata approvata dal Parlamento la legge n. 199 del 2010, che ha introdotto una nuova disciplina che ha dato la possibilità di scontare presso la propria abitazione, o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, la pena detentiva non superiore ad un anno, anche residua di pena maggiore (tale soglia temporale è stata aumentata a diciotto mesi dal decreto-legge 211/2011). L'istituto è destinato ad operare fino alla completa attuazione del Piano carceri, nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione, e comunque non oltre il 31 dicembre 2013. La legge 199 ha, poi, previsto l'assunzione di personale nel ruolo degli agenti e degli assistenti del Corpo di polizia penitenziaria e l'abbreviazione dei corsi di formazione iniziale degli stessi agenti. Il Ministro della giustizia è, tuttavia, autorizzato all'assunzione di detto personale di custodia nei limiti numerici consentiti dalle risorse derivanti dalla gestione dei crediti relativi alle spese di giustizia.
Sempre in attuazione del Piano carceri, il decreto legge 211/2011 ha introdotto una serie di misure volte a mitigare la tensione carceraria determinata dalla condizione di sovraffollamento. Oltre all'aumento a 18 mesi del limite della detenzione domiciliare previsto dalla legge 199/2010, il provvedimento ha, in particolare, inteso dare soluzione al problema delle cd. porte girevoli, ovvero la permanenza brevissima in carcere di arrestati in flagranza da sottoporre al rito direttissimo. Ulteriori disposizioni dettate dal decreto-legge hanno riguardato un'integrazione dei fondi per l'edilizia giudiziaria, la riparazione per l'ingiusta detenzione nonchè la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Tra i provvedimenti approvati da almeno un ramo del Parlamento, va ricordato un disegno di legge del ministro della giustizia Severino che, nell'ambito della politica di deflazione penitenziaria, introduceva nell'ordinamento pene detentive non carcerarie e la messa alla prova. Il d.d.l. S.3596 - approvato in prima lettura dalla Camera il 4 dicembre 2012 - ha visto interrotto il proprio cammino parlamentare per la fine anticipata della legislatura. La disciplina del provvedimento prevedeva, in particolare:
Per la stretta connessione con il problema del sovraffollamento carcerario si ricorda, infine, un provvedimento governativo di depenalizzazione (C. 5019-ter), anch'esso presentato dal ministro Severino, il cui iter parlamentare è, invece, solo stato solo avviato dalla Camera. Il d.d.l. (già articolo 2 del disegno di legge n. 5019, stralciato con deliberazione dell'Assemblea il 9 ottobre 2012) concedeva una delega al Governo per la trasformazione in illeciti amministrativi di una serie di reati. Alla base del disegno di legge vi era la constatazione di come la sanzione penale fosse ingiustificata se poteva essere sostituita con sanzioni amministrative aventi pari efficacia e, anzi, spesso dotate di maggiore effettività.
Il tema della detenzione è affrontato nel Programma di Stoccolma per lo spazio di libertà sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014, nel quale si sottolinea la necessità di promuovere lo scambio di migliori prassi in materia di gestione delle carceri e di sostenere l’attuazione delle regole penitenziarie europee, approvate dal Consiglio d'Europa. In questo quadro si situa il documento della Commissione europea “Rafforzare la fiducia reciproca nello spazio giudiziario europeo - Libro verde sull’applicazione della normativa UE sulla giustizia penale nel settore della detenzione”. Il Libro verde ribadisce che, sebbene le questioni sulla detenzione, sia che si riferiscano ai detenuti in attesa di giudizio, sia che riguardino le persone condannate, rientrino nella competenza degli Stati membri, le condizioni di detenzione possono avere un impatto diretto sul buon funzionamento del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie. In questo quadro, il Libro verde ha approfondito il tema dell’ interazione tra le condizioni della detenzione e gli strumenti del riconoscimento reciproco adottati a livello UE (quali ad es. il mandato d'arresto europeo e l'ordinanza cautelare europea), richiedendo in particolare agli Stati membri di fornire informazioni circa le misure alternative alla custodia cautelare e alla detenzione e circa l’opportunità di promuovere tali misure a livello UE e/o di stabilire norme minime nell’ambito dell’Unione europea che regolino la durata massima della custodia. Sul tema è intervenuto il Parlamento europeo che, in una risoluzione del 15 novembre 2011 sulle condizioni detentive nell'UE, nella quale ha invitato gli Stati membri a stanziare idonee risorse alla ristrutturazione e all'ammodernamento delle carceri, al fine di dotarle di idonee attrezzature tecniche, ampliare lo spazio disponibile e renderle funzionalmente in grado di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, garantendo comunque un elevato livello di sicurezza. Il Parlamento europeo ha inoltre invitato la Commissione e le istituzioni UE ad avanzare una proposta legislativa sui diritti delle persone private della libertà, e a sviluppare ed applicare regole minime per le condizioni carcerarie e di detenzione nonché standard uniformi per il risarcimento delle persone ingiustamente detenute o condannate.
Il tema della depenalizzazione è affrontato dal disegno di legge A.C. 5019-ter, che costituisce stralcio di un più complesso provvedimento. Il Governo aveva infatti presentato alla Camera l' A.C. 5019, recante "Delega al Governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonchè sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili", del quale la Commissione Giustizia ha avviato l'esame il 29 marzo 2012. L' Assemblea ha poi deliberato, il 9 ottobre 2012, lo stralcio delle disposizoni relative alla depenalizzazione, oggetto del contenuto dell'A.C. 5019-ter, diretto in particolare a ridurre il carico penale attraverso la trasformazione di alcuni illeciti penali in illeciti amministrativi.
Come si legge nella relazione illustrativa dell'originario ddl A.C. 5019, “il sistema giudiziario, nel suo complesso, non è in grado di accertare e di reprimere tutti i reati. La sanzione penale deve, invece, operare solo quando non vi siano altri adeguati strumenti di tutela; essa non è giustificata se può essere sostituita con sanzioni amministrative aventi pari efficacia e, anzi, spesso dotate di maggiore effettività”. Il disegno di legge prevede dunque la trasformazione in illeciti amministrativi:
I nuovi illeciti amministrativi avrebbero dovuto essere puniti con sanzioni pecuniarie comprese tra 300 e 15.000 euro e con sanzioni interdittive.
Ciclicamente il legislatore - ispirato ai principi del “diritto penale minimo”, ovvero di quel modello che riserva l’intervento repressivo dello Stato sul piano penale esclusivamente alla tutela dei valori primari, di cui l’ordinamento non può tollerare l’offesa - rivede il diritto penale con interventi volti a ridurre il numero dei reati; ciò, sia attraverso la soppressione di alcune fattispecie ritenute anacronistiche, sia con la trasformazione di alcuni illeciti penali in illeciti amministrativi.
Anche se il primo intervento di depenalizzazione si può far risalire alla legge 24 dicembre 1975, n. 706, è soprattutto con la legge 24 novembre 1981, n. 689, che si realizza la prima depenalizzazione di ampio respiro.
La legge 689/1981, oltre a depenalizzare sia alcuni delitti che alcune contravvenzioni (artt. 32-39), introduceva diverse altre misure volte ad alleggerire il carico complessivo del sistema penale, quali l’introduzione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (artt. 53-76), l’estensione della perseguibilità a querela di determinati reati (artt. 86-99) e l’introduzione di una speciale ipotesi di oblazione (articolo 162-bis, c.p.).
L’art. 32 della legge prevedeva l’irrogazione di sanzione amministrativa per tutti i reati puniti soltanto con la multa o l’ammenda (erano esclusi i reati che, nelle ipotesi aggravate, fossero punibili con pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria oltre che i delitti punibili a querela); l’art. 35 estendeva il regime della sanzione amministrativa a tutte le violazioni previste da leggi in materia di previdenza e assistenza obbligatoria punite con la sola ammenda e altrettanto prevedeva l’art. 39 per le violazioni finanziarie punite con la sola ammenda. Erano inoltre depenalizzate altre ipotesi di reato.
Erano invece escluse dalla depenalizzazione le seguenti fattispecie:
a) i reati che, pur puniti con pena pecuniaria, erano puniti, nelle ipotesi aggravate, con pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria;
b) i reati che, pur puniti con la sola pena pecuniaria, erano perseguibili a querela;
c) i reati previsti dal codice penale (salvo i casi espressamente elencati);
d) i reati in tema di armi, munizioni ed esplosivi;
e) i reati in materia di tutela igienico sanitaria degli alimenti, salvo talune eccezioni;
f) i reati in materia di inquinamento;
g) i reati in tema di impiego pacifico dell’energia nucleare;
h) i reati previsti dalla legge edilizia ed urbanistica;
i) i reati previsti dalla legge in materia di lavoro, ivi compresa la normativa antinfortunistica;
l) taluni reati in materia elettorale;
m) i reati in tema di interruzione volontaria della gravidanza.
Nonostante l’intervento del 1981, pochi anni dopo, nel 1988, la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale presieduta dal Prof. Pagliaro, già individuava tra gli obiettivi da perseguire quello della ridefinizione dell’apparato sanzionatorio penale, con la riduzione delle fattispecie incriminatici e del peso della legislazione speciale.
Anche il Consiglio superiore della magistratura, con una relazione approvata nel giugno 1992, auspicava un intervento legislativo di depenalizzazione sottolineando con forza come la sanzione penale non possa essere utilizzata indiscriminatamente per colpire ogni comportamento non in regola con le norme, ma, come essa debba, al contrario, essere riservata alle esigenze di tutela dei beni primari della collettività e, segnatamente, dei beni di rilevanza costituzionale.
In questo clima, nel corso dell’XI legislatura il legislatore ha approvato i seguenti provvedimenti di depenalizzazione:
Nel corso della XII legislatura la Commissione giustizia della Camera calendarizza proposte di legge per la depenalizzazione dei c.d. reati minori e nella XIII legislatura si giunge all’approvazione della legge 25 giugno 1999, n. 205, recante Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario.
La legge 205/1999 ha conferito al Governo tre distinte deleghe:
La legge delega ha previsto infine l’attribuzione della competenza generale sull’opposizione alle ordinanze-ingiunzioni (di norma prefettizie) emesse a seguito dell’accertamento di violazioni amministrative, al giudice di pace, ferma restando, in casi specificamente individuati, la competenza del tribunale in composizione monocratica.
Il decreto legislativo 507/1999, con un testo ampio e particolarmente articolato (ben 105 articoli), ha attuato la prima delle deleghe. Analiticamente,
Il legislatore è dunque periodicamente intervenuto per sfoltire il diritto penale speciale.
All’indomani della depenalizzazione, peraltro, lo stesso legislatore ha continuato ad introdurre nuove fattispecie penali.
Nella XV legislatura, la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, presieduta da Giuliano Pisapia, ha affermato, nella relazione del 19 novembre 2007, che una riforma del codice deve porsi l'obiettivo di un diritto penale “minimo, equo ed efficace”, in grado di invertire la tendenza “panpenalistica” che mostra, ogni giorno di più, il suo fallimento. Lâ€inserimento nel nostro ordinamento di sempre nuove fattispecie penali (soprattutto contravvenzionali) – che puniscono condotte per le quali sarebbe ben più efficace una immediata sanzione amministrativa – ha contribuito in modo rilevante a determinare l'attuale stato della nostra giustizia penale, unanimemente considerata al limite del collasso, con milioni di procedimenti penali pendenti e conseguente quotidiana violazione di quella “ragionevole durata del processo”, sancita dall'art. 111 della Costituzione e dall'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.
Basti pensare che dal decreto legislativo 507/1999 al febbraio 2012 sono state introdotte nel nostro ordinamento non meno di 310 nuove fattispecie penali. Il legislatore ha introdotto nell’ordinamento 171 nuove contravvenzioni e 139 nuovi delitti. Tra le nuove fattispecie risaltano per numero e specialità quelle introdotte in attuazione di normativa europea.
In questo contesto, il Governo Monti ha ritenuto che «la progressiva dilatazione della sanzione penale e il conseguente allontanamento della pena dalla sua natura di extrema ratio hanno determinato la perdita della sua capacità general-preventiva anche perché il sistema giudiziario, nel suo complesso, non è in grado di accertare e di reprimere tutti i reati», sostenendo che la sanzione penale debba, invece, «operare solo quando non vi siano altri adeguati strumenti di tutela; essa non è giustificata se può essere sostituita con sanzioni amministrative aventi pari efficacia e, anzi, spesso dotate di maggiore effettività in quanto applicabili anche a soggetti diversi dalle persone fisiche, non suscettibili di sospensione condizionale e con tempi di prescrizione più lunghi» e, conseguentemente proponendo una nuova depenalizzazione.
Si rammenta che, nel momento in cui si procede alla depenalizzazione di alcune fattispecie, occorre considerare la ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, quale risulta a seguito della riforma del titolo V del 2001. La Corte costituzionale ha infatti rilevato in più occasioni che la regolamentazione delle sanzioni (con l’eccezione delle sanzioni penali, che sono riservate alla legislazione statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.) spetta al soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina della materia, la cui inosservanza costituisce l'atto sanzionabile. La disciplina delle sanzioni amministrative non costituisce una materia a sé, ma rientra nell'àmbito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono (v. ad esempio sent. 384/2005, 246/2009).
L’articolo 2, comma 1, dell'A.C. 5019-ter delega il Governo ad attuare una depenalizzazione della quale detta i principi e criteri direttivi.
La lettera a) del comma 1 dell’articolo 2 delega il Governo a trasformare in illeciti amministrativi tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, individuando materie per le quali fare eccezione.
Si ricorda che ai sensi dell'art. 162 del codice penale in caso di contravvenzione punita con la sola ammenda, prima dell’apertura del dibattimento il contravventore è ammesso a pagare una somma pari al terzo del massimo della pena prevista (oltre le spese del procedimento), così estinguendo il reato per oblazione.
Limitando l’analisi ai reati contenuti nel codice penale, sono emersi 21 articoli che prevedono delitti puniti con la sola multa e 12 articoli che contengono contravvenzioni punite con la sola ammenda. Peraltro, non tutte le disposizioni individuate potevano essere fatte oggetto di depenalizzazione, perché alcune ricadono nelle materie escluse (soprattutto nel titolo relativo ai delitti contro la personalità dello Stato). Tra le fattispecie che dovevano essere depenalizzate spiccano alcune ipotesi di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), i reati di rissa (art. 588 c.p.) e minaccia (art. 612).
Estremamente ampio è invece il campo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria contenuti nella legislazione speciale.
Per quanto riguarda le materie escluse dalla depenalizzazione, il disegno di legge prevede:
1) i delitti contro la personalità dello Stato. L’espressione consente una agevole individuazione delle ipotesi escluse in quanto rinvia letteralmente al libro II (Dei delitti in particolare), Titolo I (Dei delitti contro la personalità dello Stato) del codice penale. Si tratta degli articoli da 241 a 313 del codice. Sono conseguentemente esclusi da depenalizzazione gli articoli 274, 290, 291, 292 e 299 del codice penale, nonostante alcune fattispecie siano punite con la sola pena pecuniaria.
2) i reati in materia edilizia e urbanistica. Nel 1977, nell’ambito del trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni, la materia urbanistica veniva definita come «la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente». Oggi l’esclusione di questa materia comporta l’impossibilità di depenalizzare le fattispecie penali punite con la sola pena pecuniaria, contenute nel decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
3) i reati in materia di ambiente, territorio e paesaggio. Sono dunque escluse dalla depenalizzazione le fattispecie penali contenute nel Codice del paesaggio (d. lgs. n. 42/2004 e nel Codice dell’ambiente (d. lgs. n. 152/2006. Peraltro, questo principio di delega dovrebbe escludere anche la depenalizzazione degli articoli 727-bis (Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette) e 734 (Distruzione o deturpamento di bellezze naturali) del codice penale.
4) i reati in materia di immigrazione. Il legislatore esclude dalla depenalizzazione le molteplici fattispecie penali contenute nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
5) i reati in materia di alimenti e bevande. L’esclusione di queste fattispecie dalla depenalizzazione è forse motivata dal fatto che già il decreto-legislativo n. 507 del 1999 era espressamente intervenuto operando una ampia depenalizzazione in questo settore.
Peraltro, da allora, il legislatore ha inserito fattispecie penali nel:
6) i reati in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In base al n. 6 sono dunque escluse dalla depenalizzazione tutte le fattispecie penali contenute nella legislazione a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Vengono in rilievo soprattutto le recenti numerose previsioni del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), che non potrà essere oggetto di depenalizzazione. Il disegno di legge, peraltro, consente invece la depenalizzazione delle fattispecie contenute nella legislazione sul mercato del lavoro (D. Lgs. 276 del 2003).
7) i reati in materia di sicurezza pubblica. L’espressione sicurezza pubblica rimanda immediatamente al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 (TULPS), che all’articolo 1 attribuisce all’autorità di pubblica sicurezza il compito di vigilare sul mantenimento dell'ordine pubblico, sulla sicurezza dei cittadini, sulla loro incolumità e sulla tutela della proprietà. Se appare dunque chiaro che le fattispecie penali contenute nel TULPS non potranno essere depenalizzate, più difficile è definire i confini dell’esclusione operata dal n. 7. Ad esempio, il TULPS disciplina in parte anche il possesso di armi. La materia ha però una legislazione speciale molto più ampia, che era stata espressamente esclusa dalla depenalizzazione nel 1981 (esclusione dei reati in tema di armi, munizioni ed esplosivi, v. sopra). Non appare chiaro se – con l’impiego dell’ampia espressione “sicurezza pubblica” - il disegno di legge intenda confermare l’esclusione dalla depenalizzazione per questi reati. Si evidenzia anche che recentemente il legislatore ha intitolato alla tutela della sicurezza pubblica numerose leggi (legge n. 94 del 2009) e decreti-legge (d.l. n. 92 del 2008, d.l. n. 11 del 2009, d.l. n. 16 del 2005 che, a loro volta, contenevano disposizioni nelle più variegate materie. Come evidenziato anche dalla dottrina, si osserva che se «tradizionalmente si ravvisa il nucleo costitutivo della nozione di sicurezza pubblica nella finalità di conservazione dello Stato e di mantenimento dell'ordine interno, nell'ordinamento italiano la nozione di sicurezza pubblica è sempre rimasta indefinita, ed il ricorrente accostamento alla materia dell'ordine pubblico impone tuttora di individuare caratteri distintivi che ne permettano una autonoma definizione». Sulla materia della sicurezza pubblica è inoltre intervenuta la stessa Corte costituzionale a più riprese dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione (v. ad esempio le sentt. 6/2004, 95/2005, 226/2010), circoscrivendone l’ambito anche ai fini del corretto riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.
La lettera b) del comma 1 dell’articolo 2 del disegno di legge individua alcune contravvenzioni, attualmente punite con la pena detentiva alternativa alla pena pecuniaria, e ne dispone la trasformazione in illeciti amministrativi.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 162-bis del codice penale in caso di contravvenzione punita con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, prima dell’apertura del dibattimento il contravventore non recidivo né delinquente abituale o per tendenza, può essere ammesso a pagare una somma pari alla metà del massimo dell’ammenda prevista (oltre le spese del procedimento), così estinguendo il reato per oblazione. Il giudice può respingere la domanda di oblazione avuto riguardo alla gravità del fatto.
Le contravvenzioni da depenalizzare sono le seguenti, espressamente individuate dal disegno di legge delega:
1) le seguenti contravvenzioni previste dal codice penale:
Il disegno di legge ha verosimilmente inserito questa contravvenzione nelle depenalizzazioni della lettera b) perché il dato testuale dell’art. 726 c.p. non è stato modificato e prevede ancora la pena dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da euro 10 a euro 206. In realtà, l’art. 4 del decreto legislativo n. 274 del 2000 ha attribuito questa contravvenzione alla competenza del giudice di pace e il successivo articolo 52 dello stesso provvedimento ha previsto che per i reati di competenza del giudice di pace puniti con la pena della reclusione o dell'arresto alternativa a quella della multa o dell'ammenda, si applichi la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 258 a euro 2.582 (se la pena detentiva non supera nel massimo i sei mesi).
2) la contravvenzione prevista dall’art. 11, primo comma, della legge n. 234 del 1931. La disposizione richiamata punisce con l'arresto fino a due anni o con l’ammenda da lire 40.000 a 400.000 le violazioni della legge 8 gennaio 1931, n. 234, che detta Norme per l'impianto e l'uso di apparecchi radioelettrici privati e per il rilascio delle licenze di costruzione, vendita e montaggio di materiali radioelettrici.
3) la contravvenzione prevista dall’art. 171-quater, comma 1, della legge sul diritto d’autore. L’articolo 171-quater della legge n. 633 del 1941 punisce con l'arresto sino ad un anno o con l'ammenda da euro 516 a euro 5.164 chiunque abusivamente ed a fini di lucro: a) concede in noleggio o comunque concede in uso a qualunque titolo, originali, copie o supporti lecitamente ottenuti di opere tutelate dal diritto di autore; b) esegue la fissazione su supporto audio, video o audiovideo delle prestazioni artistiche di attori, i cantanti, i musicisti, i ballerini e le altre persone che rappresentano, cantano, recitano, declamano o eseguono in qualunque modo opere dell'ingegno, siano esse tutelate o di dominio pubblico.
4) la contravvenzione prevista dall’art. 3 del decreto legislativo luogotenenziale n. 506 del 1945. Si fa qui riferimento al D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1945, n. 506, che reca Disposizioni circa la denunzia dei beni che sono stati oggetto di confische, sequestri o altri atti di disposizione adottati sotto l'impero del sedicente governo repubblicano. In particolare, l’articolo 3 punisce con l'arresto non inferiore nel minimo a sei mesi o con l'ammenda non inferiore a lire 2.000.000 chiunque omette di denunciare la detenzione di beni mobili o immobili che siano stati oggetto di confisca o sequestro disposti da qualsiasi organo amministrativo o politico sotto l'impero del sedicente governo della Repubblica sociale italiana. Ove l'omissione risulti colposa la pena è dell'arresto non inferiore a tre mesi o dell'ammenda non inferiore a lire 1.000.000.
5) la contravvenzione prevista per coloro che, legalmente richiesti dall'Ispettorato del lavoro di fornire notizie, non le forniscano o le diano scientemente errate od incomplete. Si tratta della contravvenzione prevista dall’art. 4, settimo comma della legge 22 luglio 1961, n. 628 (Modifiche all'ordinamento del Ministero del lavoro e della previdenza sociale). La violazione è punita con l'arresto fino a due mesi o con l'ammenda fino a lire un milione.
6) la contravvenzione prevista dall’articolo 15, secondo comma, della legge n. 1329 del 1965. La legge 28 novembre 1965, n. 1329, recante Provvedimenti per l'acquisto di nuove macchine utensili, punisce all’articolo 15, secondo comma, chiunque ometta di far ripristinare il contrassegno alterato, cancellato, o reso irriconoscibile da altri, apposto su macchina di cui abbia il possesso o la detenzione, ovvero ometta di comunicare al cancelliere del tribunale indicato nel contrassegno, l'alterazione, la cancellazione, o la intervenuta irriconoscibilità del contrassegno. La pena letteralmente prevista dalla disposizione è l'ammenda da lire 150.000 a lire 600.000 o l'arresto fino a tre mesi. Peraltro, avendo l’articolo 4 del d.lgs n. 274/2000 attribuito la competenza su questa contravvenzione al giudice di pace, la pena è ora dell’ammenda da euro 258 a euro 2.582, ai sensi di quanto disposto dall'articolo 52, comma 2, lettera a), dello stesso decreto legislativo. Conseguentemente, questa disposizione risulta già oggetto di depenalizzazione in base alla precedente lettera a).
7) la contravvenzione prevista per chiunque partecipi a concorsi, giuochi o scommesse clandestine. L’articolo 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive) punisce l’organizzazione di scommesse o concorsi pronostici abusivi e la partecipazione agli stessi; in particolare, il comma 3 punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l'ammenda da euro 51 a euro 516 chiunque partecipa a concorsi, giuochi, scommesse gestiti abusivamente, fuori dei casi di concorso in uno dei reati più gravi, legati all’organizzazione del gioco clandestino.
8) la disposizione prevista dall’art. 16, comma 9, della legge sull’usura. Il disegno di legge del Governo non tiene conto della recente legge 3/2012 che ha novellato l’art. 16, comma 9, della legge sull’usura (legge n. 108 del 1996) prevedendo la reclusione da 2 a 4 anni per chi - nell'esercizio di attività bancaria, di intermediazione finanziaria o di mediazione creditizia - indirizza una persona, per operazioni bancarie o finanziarie, a un soggetto non abilitato all'esercizio dell'attività bancaria o finanziaria. Si tratta di un delitto sanzionato con la sola pena detentiva che, pertanto, non può essere inserito nelle ipotesi di depenalizzazione.
9) la contravvenzione prevista dalla c.d. “Riforma Biagi” per colui che esige compensi dal lavoratore per avviarlo al lavoro. L’articolo 18, comma 4, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30) attualmente punisce con la pena alternativa dell'arresto non superiore ad un anno o dell'ammenda da € 2.500 a € 6.000 «chi esiga o comunque percepisca compensi da parte del lavoratore per avviarlo a prestazioni di lavoro oggetto di somministrazione». Peraltro, in aggiunta alla sanzione penale è disposta la cancellazione dall'albo.
10) la contravvenzione prevista per la promozione o realizzazione di forme di vendita piramidali e di giochi o catene. La legge 17 agosto 2005, n. 173 (Disciplina della vendita diretta a domicilio e tutela del consumatore dalle forme di vendita piramidali) vieta la promozione e la realizzazione di attività e di strutture di vendita nelle quali l'incentivo economico primario dei componenti la struttura si fonda sul mero reclutamento di nuovi soggetti; vieta, altresì, la promozione o l'organizzazione di tutte quelle operazioni, quali giochi, piani di sviluppo, «catene di Sant'Antonio», che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui il diritto a reclutare si trasferisce all'infinito previo il pagamento di un corrispettivo. La violazione di queste disposizioni è attualmente punita dall’articolo 7, comma 1, con l'arresto da sei mesi ad un anno o con l'ammenda da 100.000 euro a 600.000 euro.
11) le contravvenzioni previste dal Codice delle pari opportunità tra uomo e donna. Il decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, recante Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della L. 28 novembre 2005, n. 246 prevede le seguenti fattispecie penali:
Articolo |
Condotta |
Sanzione |
37, co. 5 |
Inottemperanza alla sentenza che accerta le discriminazioni |
ammenda fino a 50.000 euro o arresto fino a sei mesi; pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento |
38, co. 4 |
Inottemperanza al decreto che impone la cessazione del comportamento discriminatorio illegittimo e la rimozione degli effetti |
ammenda fino a 50.000 euro o l'arresto fino a sei mesi |
41, co. 2 |
L'inosservanza delle disposizioni sui divieti di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella retribuzione, nella progressione di carriera, e nell’accesso alle prestazioni previdenziali |
ammenda da 250 euro a 1.500 euro |
55-quinquies, co. 9 |
Inottemperanza o elusione di provvedimenti, diversi dalla condanna al risarcimento del danno, resi dal giudice nelle controversie in materia di accesso a beni e servizi e loro fornitura |
ammenda fino a 50.000 euro o arresto fino a tre anni |
Il disegno di legge prevede alla lettera b) la depenalizzazione delle contravvenzioni punite alternativamente con pena detentiva e pena pecuniaria; la precedente lettera a) disponeva la depenalizzazione della fattispecie punita con la sola ammenda. Conseguentemente a seguito dell'approvazione del disegno di legge di depenalizzazione il Codice sarebbe risultato completamente depenalizzato.
Il disegno di legge prevede – tanto per le ipotesi della lettera a) quanto per quelle della lettera b) – l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 15.000 euro.
Si ricorda che le sanzioni amministrative non vengono iscritte nel casellario giudiziario e non incidono sul godimento dei diritti politici; possono colpire anche le persone giuridiche e, quando hanno carattere pecuniario, l'obbligo del loro pagamento si trasmette agli eredi. La sanzione amministrativa tipica è quella pecuniaria, che consiste nel pagamento di una somma di denaro e costituisce il modello base di sanzione, prevista e disciplinata dalla legge fondamentale in materia (Legge 24 novembre 1981, n. 689, Modifiche al sistema penale). Tale legge definisce la sanzione amministrativa pecuniaria stabilendo che consiste “nel pagamento di una somma di denaro non inferiore a 6 euro e non superiore a 10.329 euro”, tranne che per le sanzioni proporzionali, che non hanno limite massimo; nel determinarne l'ammontare, l'autorità amministrativa deve valutare la gravità della violazione, l'attività svolta dall'autore per eliminare o attenuarne le conseguenze, le sue condizioni economiche e la sua personalità (artt. 10 e 11).
La lettera c) prevede esclusivamente che, nel sanzionare le attuali contravvenzioni punite alternativamente con pena detentiva e pecuniaria, il Governo possa eventualmente aggiungere sanzioni amministrative accessorie, prevalentemente interdittive («sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti dell’amministrazione»).
In base alla lettera d) il Governo avrebbe dovuto commisurare le sanzioni:
La lettera e) invita il Governo a individuare l’autorità competente a irrogare le sanzioni amministrative, rispettando i criteri di riparto indicati nella legge n. 689 del 1981.
Si ricorda che l'applicazione della sanzione amministrativa in base alla legge n. 689 del 1981 avviene secondo il seguente schema:
La lettera f) stabilisce che i decreti legislativi prevedano – a fronte dell’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria – la possibilità di definire il procedimento mediante il pagamento – anche rateizzato – di un importo pari alla metà della sanzione irrogata.
Si ricorda che l’articolo 16 della legge n. 689 del 1981 attualmente consente il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla somma minore tra:
- la terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa;
- il doppio del minimo della sanzione edittale oltre alle spese del procedimento, entro 60 giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione.
Quanto alla rateizzazione, l’articolo 26 della legge n. 689 prevede che l'autorità giudiziaria o amministrativa che ha applicato la sanzione pecuniaria possa disporre, su richiesta dell'interessato che si trovi in condizioni economiche disagiate, che la sanzione medesima venga pagata in rate mensili da tre a trenta; ciascuna rata non può essere inferiore a euro 15. In ogni momento il debito può essere estinto mediante un unico pagamento. Decorso inutilmente, anche per una sola rata, il termine fissato dall'autorità giudiziaria o amministrativa, l'obbligato è tenuto al pagamento del residuo ammontare della sanzione in un'unica soluzione.
La Camera dei deputati, il 4 dicembre 2012, ha approvato il disegno di legge A.C. 5019-bis, che contiene una delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento per messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Il provvedimento, trasmesso al Senato (A.S. 3596), ha interrotto l'iter per la fine della legislatura.
Il disegno di legge - frutto dello stralcio dal più ampio A.C. 5019 delle disposizioni concernenti la depenalizzazione - disciplinava, con riguardo a reati puniti con sanzione detentiva fino a quattro anni, la possibilità di applicare la pena detentiva presso l’abitazione e di estinguere il reato in caso di esito positivo della messa alla prova dell’imputato con attività lavorativa di utilità sociale. Prevedeva inoltre la sospensione del procedimento nei confronti degli imputati irreperibili.
Il disegno di legge AS 3596, d’iniziativa del Governo, approvato dalla Camera dei deputati il 4 dicembre 2012, si compone di 14 articoli.
Il Capo I comprendente il solo articolo 1, delega il Governo a disciplinare pene detentive non carcerarie, da scontare presso l’abitazione o altro luogo di cura e assistenza (il domicilio). La delega dovrà essere esercitata sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi (comma 1):
I restanti commi dell’art. 1 disciplinano il procedimento per l’esercizio della delega, il cui termine è fissato in 8 mesi (ulteriori 18 mesi per i decreti legislativi correttivi e integrativi), e prevedono che l’attuazione della riforma non debba comportare oneri finanziari.
Il Capo II (artt. da 2 a 6) introduce nell’ordinamento l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova.
Scopo della nuova disciplina – ispirata alla probation di origine anglosassone – è quello di estendere l’istituto, tipico del processo minorile, anche al processo penale per adulti in relazione a reati di minor gravità. Si tratta, come nel processo minorile, di una probation giudiziale in cui, cioè, la messa alla prova non presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna. Ciononostante, anche qui, pur in assenza di una espressa previsione, sembra evidente che presupposto per l’applicazione della misura sia il previo accertamento – pur provvisorio e sommario - della sussistenza del reato e della responsabilità dell’imputato.
L’articolo 2 modifica il codice penale per introdurre specifiche disposizioni relative alla messa alla prova, sistematicamente inserita tra le cause estintive del reato. Sono, a tal fine, aggiunti al capo I del titolo IV del libro I del codice penale tre nuovi articoli.
Il nuovo art. 168-bis áncora, anzitutto, la sospensione del processo con messa alla prova alla richiesta dell’imputato. La messa alla prova, possibile solo in caso di reati puniti con pena pecuniaria ovvero con reclusione fino a 4 anni, sola, congiunta o alternativa a pena pecuniaria, consiste sia nel lavoro di pubblica utilità che in condotte riparatorie, volte all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato (comma 1). La norma precisa che il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita in favore della collettività (durata minima 30 giorni, anche non continuativi) da svolgere presso Stato, Regione, Provincia, Comune od Onlus. Sebbene l’impegno lavorativo giornaliero (fino ad un massimo di 8 ore) non debba pregiudicare le esigenze di studio, lavoro famiglia e salute dell’imputato, possono, dal giudice, essere imposte ulteriori prescrizioni di fare o non fare (sempre modificabili nel corso della prova) relative ai rapporti col servizio sociale o sanitario, all’eliminazione delle conseguenze del danno, a misure limitative delle libertà personali (di dimora, di movimento, di frequentare determinati locali) (commi 2 e 3). Il comma 4 dell’art. 168-bis precisa che la sospensione del procedimento con messa alla prova non può essere concessa più di una volta (una seconda concessione è possibile solo per reati commessi anteriormente al primo provvedimento di sospensione).
L’art. 168-ter, analogamente al processo minorile, prevede la sospensione del corso della prescrizione del reato durante il periodo di sospensione del processo con messa alla prova; dall’inapplicabilità del primo comma dell’art. 161 deriva che la sospensione della prescrizione non si estende ai concorrenti nel reato (comma 1). Al termine della messa alla prova, se il comportamento dell’imputato è valutato positivamente, il giudice dichiara l’estinzione del reato, restando comunque applicabili le eventuali sanzioni amministrative accessorie (comma 2).
L’art. 168-quater indica come motivo di revoca della messa alla prova la grave e reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte dal giudice.
L’articolo 3 del provvedimento introduce nel Libro VI del codice di procedura penale il titolo V-bis (Della sospensione del procedimento con messa alla prova) che detta le disposizioni processuali relative all’istituto (artt. da 464-bis a 464-novies).
Il nuovo art. 464-bis conferma che la messa alla prova è richiesta dall’imputato (oralmente o in forma scritta) personalmente o a mezzo procuratore speciale.
In virtù del rinvio all’art. 583, comma 3, la sottoscrizione della richiesta dell’imputato va autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore. La richiesta può essere avanzata nei seguenti termini:
Alla richiesta di messa alla prova va allegato un programma di trattamento che l’imputato elabora con gli uffici di esecuzione penale esterna (UEPE), i cui contenuti minimi sono individuati dall’art. 464-bis nelle modalità di coinvolgimento dell’imputato nel processo di reinserimento sociale (e, se necessario, del suo nucleo familiare); nelle condotte che intendono promuovere la conciliazione con l’offeso dal reato; nelle prescrizioni che accompagnano il lavoro di pubblica utilità e gli impegni assunti dall’imputato per la riparazione e l’attenuazione del danno prodotto alla persona offesa (restituzione, risarcimenti, condotte riparatorie). Nei reati ambientali e in quelli previsti dalla normativa sulla circolazione stradale e sugli infortuni sul lavoro, tali impegni sono condizione di ammissibilità della domanda di messa alla prova. Elementi valutativi ai fini della concessione della messa alla prova possono essere acquisiti dal giudice tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti (contesto familiare e socio economico dell’imputato) e debbono essere comunicate tempestivamente al PM ed al difensore dell’imputato.
Il successivo art. 464-ter detta disposizioni relative alla richiesta di messa alla prova nel corso delle indagini preliminari. In tale fase, il pubblico ministero, informato dal GIP della richiesta dell’indagato, deve esprimere entro 5 giorni il suo consenso. Se il PM è d’accordo, deve esprimere per iscritto il consenso, formulando l’imputazione; in tal caso, il giudice decide con ordinanza sulla messa alla prova ai sensi dell’art. 464-quater (vedi ultra). Se invece il PM dissente dalla richiesta di sospensione con messa alla prova, deve enunciarne le ragioni; in tale ipotesi, l’indagato può avanzare una nuova richiesta entro il termine di apertura del dibattimento di primo grado ed il giudice, se la ritiene fondata, può provvedere disponendo la messa alla prova ai sensi dell’art. 464-quater.
L’art. 464-quater riguarda il provvedimento del giudice sulla richiesta di messa alla prova e gli effetti della pronuncia. Nella stessa udienza in cui è avanzata la richiesta da parte dell’imputato (o in apposita udienza camerale) - se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento ex art 129 c.p.p. per mancanza di una causa di punibilità - il giudice, sentite le parti e la persona offesa decide con ordinanza. La concessione della messa alla prova da parte del giudice deriva della valutazione favorevole su due elementi: l’idoneità del programma di trattamento presentato e la previsione che l’imputato non commetterà altri reati. Il programma trattamentale presentato con la domanda - già contenente prescrizioni ed obblighi per l’imputato - può essere integrato dal giudice con ulteriori obblighi e misure, su cui è, tuttavia, necessario il consenso dell’imputato. lL procedimento è sospeso per un periodo massimo di 2 anni ((reati puniti con pena detentiva, sola, congiunta o alternativa a quella peciuniaria) o 1 anno (reati puniti con sola pena pecuniaria). Avverso l’ordinanza è ammesso ricorso per cassazione da parte dell’imputato e del PM ma l’impugnazione non sospende il procedimento.
L’art. 464-quinquies precisa che l’ordinanza di sospensione del procedimento stabilisce i termini di adempimento delle prescrizioni e degli obblighi a carico dell’imputato (sempre modificabili); il giudice può anche autorizzare il pagamento rateale del risarcimento eventualmente dovuto alla persona offesa e con il suo consenso. L’ordinanza è trasmessa agli uffici di esecuzione penale esterna che prendono in carico l’imputato per la messa alla prova.
L’art. 464-sexies prevede che il giudice, a richiesta di parte, durante la sospensione del procedimento, possa svolgere attività probatoria che possa condurre al proscioglimento dell’imputato.
L’art. 464-septies stabilisce che, acquisita la relazione finale degli uffici, il giudice, all’esito positivo della prova, dichiara estinto il reato con sentenza. Se, al contrario, la prova ha esito negativo, adotta ordinanza di prosecuzione del procedimento.
L’art. 464-opties è relativo alla possibile revoca dell’ordinanza di messa alla prova, disposta d’ufficio dal giudice all’esito di apposita udienza. La revoca è ricorribile per cassazione per violazione di legge. Una volta definitiva l’ordinanza di revoca, il procedimento a carico dell’imputato riprende il suo corso.
L’art. 464-novies prevede che sia in caso di esito negativo della prova che di revoca della misura, questa non è più proponibile.
La disposizione in commento aggiunge inoltre nel codice di rito l’art. 657-bis che, in caso di prova negativa o di una sua revoca, detrae dalla pena da eseguire il periodo di messa alla prova: 3 gg. di prova sono equiparati a un giorno di reclusione-arresto ovvero a € 250 di multa-ammenda.
L’articolo 4 del provvedimento novella le disposizioni di attuazione del codice di procedura penale inserendovi l’art. 191-bis relativo alle attività di pertinenza degli uffici di esecuzione penale esterna. Agli UEPE compete la redazione del programma di trattamento a richiesta dell’imputato, la trasmissione dello stesso al giudice, la sorveglianza sulla messa alla prova, l’informazione al giudice sul suo andamento e l’indicazione su prescrizioni ulteriori da applicare, la proposta di abbreviazione o, in caso di gravi violazione, di revoca della messa alla prova.
L’articolo 5 novella l’art. 3 del TU sul casellario giudiziario (DPR 313/2002) aggiungendo tra i provvedimenti da iscrivere per estratto l’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova.
L’articolo 6 stabilisce, in relazione all’introduzione della messa alla prova, l’adeguamento (entro 90 gg.) della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna.
Il Capo III disciplina il procedimento nei confronti degli irreperibili. Si ricorda che il diritto a presenziare al procedimento penale a proprio carico è consustanziale al diritto di difesa, presupposto indefettibile del giusto processo garantito dall’art. 111 della Costituzione e che la disciplina nazionale del processo in contumacia è stata fatta oggetto di frequenti censure da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha sottolineato come l’art. 6 della Convenzione affermi il diritto dell’imputato ad essere presente al proprio processo (cfr. Sejdovic c. Italia; Somogy c. Italia; Colozza c. Italia; Cat Berro c. Italia; Kollcaku c. Italia; Pititto c. Italia).
L’articolo 7 novella le disposizioni del codice di procedura penale in tema di udienza preliminare eliminando ogni riferimento alla contumacia e prevedendo che il giudice possa procedere in assenza dall’imputato se questi (art. 420-bis c.p.p.):
Ferma la disciplina dell’impedimento a comparire (art. 420-ter c.p.p.), che non viene novellata, il disegno di legge sostituisce l’art. 420-quater, disciplinandovi la sospensione del processo per assenza dell’imputato (viene meno ogni riferimento alla contumacia). Se non ricorrono le ipotesi dell’art. 420-bis né quelle dell’art. 420-ter, a fronte dell’assenza dell’imputato il giudice rinvia l'udienza e dispone che l'avviso sia notificato all'imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria. Se questo non è possibile, e non sussistono cause di non punibilità da poter dichiarare immediatamente, il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo. La sospensione comporta la separazione del processo nei confronti dei coimputati (art. 18, co. 1, lett. b) mentre non si sospende l’eventuale processo civile per il risarcimento del danno. Durante la sospensione il giudice potrà acquisire, a richiesta di parte, le prove non rinviabili.
La novella dell’art. 420-quinquies è volta a disciplinare le nuove ricerche dell'imputato e la revoca della sospensione del processo. La disposizione prevede che trascorso un anno dall’ordinanza di sospensione del processo, e ad ogni successiva scadenza annuale, il giudice possa disporre nuove ricerche dell'imputato per la notifica dell'avviso. L’ordinanza di sospensione sarà revocata e sarà fissata una nuova udienza preliminare se le ricerche hanno avuto esito positivo ovvero se l’imputato ha dato ragioni per sostenere che abbia effettiva conoscenza del procedimento (es. ha nominato un difensore di fiducia).
L’articolo 8 novella le disposizioni del codice di procedura penale in tema di dibattimento eliminando ogni riferimento alla contumacia. L’intervento sull’art. 489 c.p.p. è volto a disciplinare l’ipotesi in cui l’imputato contro il quale si è proceduto in assenza nell'udienza preliminare intervenga in dibattimento e chieda di rendere dichiarazioni spontanee. Se l’imputato prova che l’assenza era dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo, potrà ottenere una rimessione in termini per accedere al giudizio abbreviato o al patteggiamento.
L’articolo 9 interviene invece sulla disciplina delle impugnazioni, ancora una volta per sopprimere ogni richiamo all’istituto della contumacia (artt. 585 e 603, co. 4) e per:
L’articolo 10 interviene sul codice penale prevedendo che la sospensione del processo a carico dell’irreperibile comporti una sospensione del corso della prescrizione. La durata della sospensione non può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere.
L’articolo 11 attribuisce il potere regolamentare ai Ministri della giustizia e dell’Interno affinché siano disciplinate, le modalità e i termini secondo i quali devono essere comunicati e gestiti i dati relativi all'ordinanza di sospensione del processo per assenza dell'imputato.
L’articolo 12 introduce l’art. 143-bis nelle norme di attuazione del codice di procedura penale dettando gli adempimenti conseguenti alla sospensione del processo per assenza dell’imputato. In particolare, sono indicati gli obblighi di trasmissione alla polizia giudiziaria degli atti introduttivi del giudizio in assenza dell’imputato, ai fini del loro inserimento nel CED del Ministero dell’interno.
L’articolo 13 novella il TU sul casellario giudiziario (D.P.R. 313/2002) aggiungendo, all’art. 3, tra i provvedimenti da iscrivere per estratto quelli di sospensione del processo per assenza dell’imputato e, all’art. 5, tra le iscrizioni da eliminare, lo stesso provvedimento di sospensione, ove revocato.
Con il decreto legge 211/2011 (convertito dalla legge 9/2012) il Governo ha introdotto, in particolare, misure volte a ridurre il sovraffollamento carcerario. Il provvedimento prevede:
In particolare, l’articolo 1 del DL 211/2011 modifica gli artt. 386 e 558 del codice processuale penale. A seguito della riformulazione del comma 4 dell’articolo 558 c.p.p., in materia di convalida dell’arresto e giudizio direttissimo innanzi al tribunale in composizione monocratica, sono dimezzati i tempi massimi previsti per la convalida dell’arresto, che passano da 96 a 48 ore.
Si prevede, infatti, che ove il PM ordini che l'arrestato in flagranza sia posto a sua disposizione, lo può presentare direttamente all'udienza, in stato di arresto, per la convalida e il contestuale giudizio, entro 48 ore dall'arresto. Si applicano al giudizio di convalida le disposizioni dell'art. 391, in quanto compatibili.
Rispetto al testo previgente, dal suddetto comma 4 viene espunto tanto il riferimento all'articolo 386 c.p.p. (che, a sua volta, contiene ora, per coordinamento, la norma di salvezza dell’art. 558), quanto il riferimento alla fissazione - a richiesta del PM - entro le ulteriori 48 ore, dell'udienza per la convalida dell'arresto da parte del giudice che non tenga udienza entro le 48 ore dall'arresto.
Allo stesso comma 4 dell'art. 558 sono aggiunti due commi:
Il successivo articolo 2 reca modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (Decreto legislativo 271/1989). In particolare, viene riformulato l’articolo 123, nel senso di prevedere che anche l’interrogatorio delle persone che si trovino, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione (e quindi non più soltanto l’udienza di convalida dell’arresto e del fermo) debba avvenire nel luogo dove la persona è custodita. Si prevede come eccezione a tale regola l’ipotesi che l’arrestato sia custodito presso la propria abitazione; l'ultimo comma dell'art. 123 obbliga il Procuratore capo della Repubblica a predisporre le necessarie misure organizzative per assicurare il rispetto dei tempi previsti dal novellato art. 558 (il riferimento pare essere al dimezzamento a 48 ore del termine per l’udienza di convalida dell’arresto). Soltanto in presenza di eccezionali motivi di necessità o urgenza - e quindi non di “specifici” motivi di necessità o urgenza come in precedenza previsto - l’autorità giudiziaria potrà disporre (con decreto motivato) il trasferimento dell'arrestato, del fermato o del detenuto per la comparizione davanti a sé.
Una ulteriore modifica concerne il comma 1-bis dell’art 146-bis delle disposizioni di attuazione del codice di rito in tema di partecipazione al dibattimento a distanza. La norma citata viene integrata prevedendo, ove possibile e salva diversa motivata disposizione del giudice, l’audizione a distanza di testimoni in dibattimento a qualunque titolo detenuti presso un istituto penitenziario.
Infine, la disposizione stabilisce che ove l’arrestato o fermato abbia bisogno di assistenza medica o psichiatrica, questi debba essere preso in carico dal Servizio sanitario nazionale ai sensi del D.P.C.M. 01/04/2008.
Collegato alle novelle dell'articolo 2 è anche l'articolo 2-ter del decreto-legge che integra il catalogo degli illeciti disciplinari del magistrato nell'esercizio delle funzioni, prevedendo anche l’inosservanza da parte del giudice della novellata disciplina dell’udienza di convalida dell’arresto e dell’interrogatorio di cui all’art. 123 delle disposizioni di attuazione del codice.
L'articolo 2-bis del decreto-legge modifica l’art. 67 della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario inserendo i membri del Parlamento europeo tra i soggetti che possono visitare gli istituti penitenziari senza preventiva autorizzazione. Un nuovo art. 67-bis precisa, inoltre, che la disciplina delle visite prevista dall’art. 67 si applica anche alle camere di sicurezza.
Pur in assenza di una previsione legislativa, le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria autorizzavano, in effetti, le visite agli istituti da parte dei soli rappresentanti italiani al Parlamento europeo, ai quali si applicano le modalità previste per i componenti del Parlamento italiano.
L'articolo 3 del decreto-legge ha aumentato da 12 a 18 mesi la soglia di pena detentiva, anche residua di maggior pena, per l’accesso alla detenzione presso il domicilio prevista della legge 199/2010.
L'articolo 3-bis, introdotto nel corso dell'esame parlamentare del disegno di legge di conversione del decreto (A.C. 4909) estende la disciplina della riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.) ai procedimenti definiti prima dell'entrata in vigore del nuovo c.p.p., purchè con sentenza passata in giudicato dal 1° luglio 1988. Sostanzialmente, viene consentita l’applicazione della disciplina sull’ingiusta detenzione anche per quanti siano stati definitivamente prosciolti con sentenza passata in giudicato tra il 1° luglio 1988 ed il 24 ottobre 1989, data di entrata in vigore del nuovo c.p.p. (comma 1). L’art. 3-bis stabilisce, ai fini del diritto alla riparazione (comunque non trasmissibile agli eredi) un termine di sei mesi (dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del DL 211) per la proposizione della relativa domanda; è precisato come un eventuale precedente rigetto per inammissibilità della domanda stessa per la definizione del procedimento prima dell’entrata in vigore del nuovo c.p.p. non pregiudica la nuova domanda di risarcimento.
Nell'estate del 2010, una serie di visite compiute nell'ambito di una inchiesta della Commissione parlamentare sull'efficacia e l'efficienza del servizio sanitario nazionale (cd. commissione Marino) sulla salute mentale ha portato alla luce la gravità delle condizioni di vita e di cura all'interno degli OPG; la situazione risulta puntualmente denunciata nella Relazione finale della Commissione approvata nel luglio 2011.
L’articolo 3-ter del decreto-legge 211/2011 ha previsto la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 1° febbraio 2013 anche se solo dal 31 marzo 2013, le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione a casa di cura e custodia potranno essere eseguite esclusivamente nelle strutture sanitarie appositamente individuate dalle regioni.
La norma ha affidato ad un decreto del Ministro della salute (di concerto con il Ministro della Giustizia e d’intesa con la Conferenza unificata) - ora adottato con D.M. 1° ottobre 2012 - l'individuazione degli ulteriori requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi che dovranno soddisfare le strutture destinate ad accogliere gli attuali internati negli OPG (tali requisiti integrano quelli già definiti dal D.P.R. 14 gennaio 1997 per l'esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private). Il decreto doveva essere informato ai seguenti criteri:
Confermato che le strutture residenziali sanitarie per l’esecuzione della misura di sicurezza devono essere realizzate e gestite dal Servizio sanitario delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano, il citato decreto dell'ottobre 2012 precisa che l’attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna non costituisce competenza del Servizio sanitario nazionale né dell’Amministrazione penitenziaria; dovranno essere le Regioni e le Province autonome, ove necessario, ad attivare specifici accordi con le Prefetture, che tengano conto dell’aspetto logistico delle strutture, alfine di garantire adeguati standard di sicurezza. Il decreto indica in 20 posti letto la capienza massima delle strutture, dettando disposizioni sulle caretteristiche dei locali, su numero e requisiti professionali del personale sanitario, sui requisiti tecnici delle attrezzature e sull'organizzazione del lavoro. Spetta alle Regioni l'adozione di un piano di formazione del personale delle strutture sanitarie residenziali , mirato ad acquisire e a mantenere competenze cliniche, medico legali e giuridiche (con particolare attenzione ai rapporti con la Magistratura di sorveglianza), specifiche per la gestione dei soggetti affetti da disturbo mentale autori di reato.
A completamento del processo di superamento degli OPG, il Governo è autorizzato ad esercitare poteri sostitutivi ai sensi dell’art. 120 della Costituzione, laddove le Regioni e le Province autonome non abbiano provveduto al rispetto del termine di chiusura degli OPG e dunque non sia stato completato il percorso attuativo.
L'art. 3-ter del D.L. 211 precisa che, alla data del 31 marzo 2013, le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere dimesse e prese subito in carico ai Dipartimenti di salute mentale territoriali, senza indugio. Tale affermazione - che a prima vista potrebbe sembrare superflua, perché è di tutta evidenza che in assenza di pericolosità sociale viene meno il presupposto della misura di sicurezza - in realtà tiene conto di una lunga prassi, che vede i magistrati di sorveglianza confermare la misura del ricovero in OPG, anche in assenza dei presupposti, semplicemente perché per molti internati con disturbi mentali mancano sia una famiglia che li accolga sua idonee strutture residenziali locali.
Con il D.M. 28 dicembre 2012 del Ministro della Salute è stata pubblicata la tabella di ripartizione fra le Regioni - per il biennio 2012-2013 - delle risorse disponibili per l'attuazione della chiusura degli OPG (e rideterminate in 173, 8 mln di euro) in base ai seguenti criteri:
Si segnala che il D.M. è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 febbraio 2013, quindi dopo la data prevista per la chiusura degli OPG, fissata al 1° febbraio. Va, inoltre, considerato che la concreta disponibilità dei soldi non è immediata; il decreto prevede, infatti, che le risorse siano assegnate alle Regioni con successivo decreto del Ministro della salute, di approvazione di uno specifico programma di utilizzo, proposto da ogni singola Regione (entro 60 gg. dalla data di pubblicazione del D.M.). All'erogazione delle risorse si provvede per stati di avanzamento dei lavori.
Sul territorio nazionale, attualmente, vi sono 6 ospedali psichiatrici giudiziari: Aversa (Caserta), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), chiuso dopo essere stato posto sotto sequestro nel dicembre del 2012, Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Napoli e Reggio Emilia. Tali O.P.G., a febbraio 2013, risultavano ospitare 1215 internati.
Come accennato, la data effettiva del superamento degli O.P.G. è stata stabilita dalla legge al 31 marzo 2013. Tale scadenza, è stata prorogata con decreto-legge dal Governo al 1° aprile 2014 (Consiglio dei ministri del 21 marzo 2013) in attesa della realizzazione da parte delle Regioni delle strutture sanitarie sostitutive. Nel decreto si sollecitano le Regioni a prevedere interventi che comunque supportino l’adozione da parte dei magistrati di misure alternative all’internamento, potenziando i servizi di salute mentale sul territorio. Si prevede, in caso di inadempienza, un unico commissario per tutte le Regioni per le quali si rendono necessari gli interventi sostitutivi.
Dopo la nomina del Commissario straordinario nel 2008, individuato nel capo del DAP, una serie di ritardi (causati anche dall'insufficienza dei fondi disponibili) avevano portato nel 2010 all'effettiva individuazione e programmazione degli interventi di edilizia penitenziaria. Il Piano carceri, deliberato dal Comitato d’indirizzo e Controllo il 24 giugno 2010 prevedeva la creazione di nuovi 9.150 posti detentivi (le previsioni iniziali parlavano di nuovi 18.000 posti) con risorse pari a 675 milioni di euro. Il Piano è stato poi aggiornato nel giugno 2011 con l’aggiunta di 150 posti relativi alla rifunzionalizzazione del nuovo istituto di Reggio Calabria.
Dopo il passaggio della responsabilità della gestione commissariale dal capo del DAP ad un nuovo Commissario delegato (individuato nel prefetto Angelo Sinesio) una ulteriore, e per ora definitiva, rimodulazione del Piano carceri è stata approvata dal Comitato di indirizzo e di controllo il 31 gennaio 2012. Nonostante i tagli di risorse al Piano carceri deliberati con delibera C.I.P.E. 20 gennaio 2012 (- 228 milioni di euro), un ripensamento delle esigenze da parte dell'amministrazione carceraria ha portato alla previsione di realizzare 11.573 posti detentivi, rispetto ai 9.300 posti già previsti, con un incremento pari a 2.273 posti detentivi.
Dall'originario Piano carceri vengono eliminati i nuovi Istituti previsti nelle città di Bari, Nola, Venezia, Mistretta, Sciacca, Marsala per un totale di 2.700 posti e i nuovi padiglioni nelle città di Salerno, Busto Arsizio, ed Alessandria per un totale di 600 posti; vengono, invece, inseriti lavori di completamento e di ristrutturazione per complessivi 5.573 posti detentivi.
Secondo quanto si legge nel sito Internet del nuovo Piano carceri, la creazione di un maggior numero di posti a fronte di una diminuzione di risorse è stato possibile "ripensando all'opportunità di realizzare i nuovi istituti e i nuovi padiglioni in una logica progettuale diversa, che risponda appieno all'esigenze, ma che tenga debitamente conto sia delle localizzazioni a costi contenuti, sia della possibilità, principalmente per i nuovi padiglioni, di sfruttare economie di scala in termini di utilizzo di servizi comuni già esistenti, il che consente altresì una ottimizzazione dell'impiego di risorse umane, avuto riguardo alle esigenze di pronto utilizzo delle strutture realizzande".
Sulla base delle previsioni contenute nel sito, il nuovo Piano carceri per la realizzazione di 11.573 nuovi posti, approvato dal Comitato di indirizzo e controllo in data 31 gennaio 2012, prevede i seguenti interventi:
Per ulteriori dati e notizie relative agli interventi di edlizia penitenziaria previsti dal nuovo Piano carceri si rinvia al contenuto dell'apposito sito web Piano carceri.
La legge 199/2010 si inserisce nel quadro della politica di deflazione carceraria annunciata dal Governo Berlusconi in occasione dell’adozione del Piano carceri del gennaio 2010. Il provvedimento costituisce attuazione del terzo dei quattro pilastri dello stesso Piano, quello relativo ad interventi di miglioramento normativo.
Il testo consta di 5 articoli. L’articolo 1 introduce la possibilità di scontare presso la propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza la pena detentiva non superiore a 18 mesi (l'iniziale limite di un anno è stato così aumentato dal DL 211 del 2011), anche residua di pena maggiore (comma 1). L'istituto non opera a regime ma ha natura di misura temporanea applicabile fino alla completa attuazione del Piano carceri, nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e comunque non oltre il 31 dicembre 2013.
La decisione sull’esecuzione domiciliare della pena detentiva breve è attribuita alla competenza del magistrato di sorveglianza; il rinvio al procedimento in materia di liberazione anticipata di cui all’art. 69-bis dell’ordinamento penitenziario (insieme con la riduzione del termine per decidere da 15 a 5 giorni) prefigura un iter dell’istanza particolarmente snello (comma 5).
Il comma 2 prevede precise condizioni ostative alla concessione del beneficio. L'esecuzione domiciliare non è, infatti, applicabile:
Per quanto riguarda la procedura per l’applicazione del beneficio (commi 3 e 4):
Sia la richiesta del P.M., nel primo caso, sia la relazione della direzione dell’istituto penitenziario, nel secondo caso, devono essere corredate di un verbale di accertamento dell’idoneità del domicilio e, nel caso in cui il condannato è sottoposto ad un programma di recupero o intenda sottoporsi ad esso, della documentazione prevista per l’affidamento in prova dall’articolo 94 del T.U. stupefacenti (certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da una struttura privata accreditata attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza, la procedura con la quale è stato accertato l'uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche, l'andamento del programma concordato eventualmente in corso e la sua idoneità, ai fini del recupero del condannato).
Il comma 6 prevede la trasmissione di copia del provvedimento al P.M. e all’Ufficio locale dell’esecuzione penale esterna; a quest’ultimo spetta anche il compito, oltre che di segnalare eventi rilevanti per l’esecuzione della pena, anche di trasmettere una relazione trimestrale e conclusiva.
Il comma 7 detta una disposizione specifica riferita esclusivamente al caso di condannato tossicodipendente o alcoldipendente sottoposto o che intenda sottoporsi ad un programma di recupero: in tal caso, la pena può essere eseguita presso una struttura sanitaria pubblica o una struttura privata accreditata ai sensi del T.U. stupefacenti. Con decreto interministeriale è determinato il contingente annuo dei posti disponibili, nei limiti del livello di risorse ordinario presso ciascuna regione finalizzato a tale tipologia di spesa, sulla base degli accrediti già in essere con il Servizio sanitario nazionale, e, in ogni caso, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Il comma 8, modificato dalla Commissione, prevede in relazione al nuovo istituto, l’applicazione di una serie di disposizioni dell’ordinamento penitenziario e delle corrispondenti norme contenute nel relativo regolamento di attuazione (DPR 230/2000). Tali disposizioni sono applicabili nei limiti della compatibilità e con la precisazione che alcune funzioni esercitate dal tribunale di sorveglianza sono svolte dal magistrato di sorveglianza.
L’articolo 2 dellaa legge 199/2010 inasprisce il regime sanzionatorio per la fattispecie semplice e per quelle aggravate di evasione; tale reato, in virtù del rinvio alla disciplina della detenzione domiciliare, è applicabile anche nel caso di allontanamento dall’abitazione o dal luogo presso il quale sia in atto l’esecuzione domiciliare della pena ai sensi del precedente articolo 1.
L’articolo 3 prevede una nuova circostanza aggravante comune consistente nel fatto che il soggetto ha commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione. La disposizione ha portata generale, essendo destinata a trovare applicazione, oltre che per il nuovo istituto dell’esecuzione domiciliare delle pene introdotto dall’articolo 1, anche per le altre misure alternative disciplinate dal Capo VI del Titolo I dell’ordinamento penitenziario.
L’articolo 4 novella l’articolo 2, comma 215, della legge finanziaria 2010 (legge n. 191 del 2009) rientra nell'ambito degli interventi del Piano carceri volti ad implementare gli organici della polizia penitenziaria (quarto pilastro). La norma prevede che le risorse derivanti dalla gestione dei crediti relativi alle spese di giustizia di cui al comma 213, oltre che le maggiori entrate derivante dall’attuazione del comma 212 (in materia di contributo unificato) siano destinate anche alla finalità dell’adeguamento dell’organico del Corpo di polizia penitenziaria occorrente per fronteggiare la situazione emergenziale derivante dal sovraffollamento carcerario. A tal fine, la disposizione demanda ad un DM giustizia l’introduzione di disposizioni per abbreviare i corsi di formazione iniziale degli agenti del Corpo di polizia penitenziaria.
L’articolo 5 introduce, in capo al Ministro della giustizia (entro 180 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento) obblighi di relazione alle competenti Commissioni parlamentari in merito alle necessità di adeguamento della pianta organica del Corpo di polizia penitenziaria e del personale del comparto civile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria anche in relazione all’entità della popolazione carceraria e al numero dei posti esistenti e programmati nonchè in merito al numero dei detenuti ed alla tipologia di reati per cui si applica il beneficio dell'esecuzione domiciliare della pena detentiva introdotto dalla legge.
Secondo i dati del Ministero della giustizia, alla data del 28 febbraio 2013, erano 9.742 i detenuti usciti dal carcere grazie ai benefici introdotti dalla legge sulla detenzione domiciliare. Il numero complessivo non comprende i casi in cui il beneficio sia concesso dallo stato di libertà.
Il Parlamento ha approvato la legge 21 aprile 2011, n. 62, con la quale ha inteso valorizzare il rapporto tra detenute madri e figli minori. Nel corso dell'esame parlamentare del provvedimento il dibattito si è concentrato sulla acclarata necessità di conciliare, da un lato, l'esigenza, di limitare la presenza nelle carceri di bambini in tenera età, dall'altro, di garantire la sicurezza dei cittadini anche nei confronti delle madri di figli minori, le quali abbiano commesso delitti.
Secondo i dati statistici pubblicati dal Ministero della giustizia sul proprio sito Internet (serie storica semestrale degli anni 1993-2012), erano 57 le detenute madri nelle carceri italiane al 30 giugno 2012 (ultimo dato disponibile) e 60 i bambini di età inferiore a tre anni presenti negli istituti. Alla stessa data risultavano funzionanti 16 asili nido.
Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha affrontato il problema dei bambini in carcere avviando a Milano la sperimentazione di un tipo di istituto a custodia attenuata per madri (I.C.A.M). Tale modello è stato realizzato in una sede esterna agli istituti penitenziari, dotata di sistemi di sicurezza non riconoscibili dai bambini. Il Governo ha informato che, in tempi brevi, saranno realizzati altri ICAM a Torino e Firenze.
L'operatività a regime di tale modello è presa in considerazione dalla legge n. 62/2011, che interviene sia in materia di custodia cautelare delle detenute madri sia di espiazione della pena detentiva da parte delle medesime.
Con riferimento all'applicazione della misura della custodia cautelare, l'articolo 1 della legge 62/2011, attraverso una modifica all'art. 275 c.p.p., prevede l'aumento da tre a sei anni dell’età del bambino al di sotto della quale non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare della madre in carcere (ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole), salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
In presenza di tali esigenze la legge, aggiungendo l'art. 285-bis al c.p.p., prevede la possibilità di disporre la custodia cautelare della donna incinta e della madre di prole di età non superiore ai sei anni in un I.C.A.M. Una integrazione all'art. 284 c.p.p. permette, invece che l'esecuzione degli arresti domiciliari degli stessi soggetti avvenga, ove istituita, in una casa famiglia protetta.
Le indicate disposizioni in materia cautelare si applicano, tuttavia, a far data dalla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, e comunque a decorrere dal 1° gennaio 2014, fatta salva la possibilità di utilizzare i posti già disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata.
Con riferimento all'espiazione della pena detentiva, l'articolo 3 della legge 62 interviene sull'ordinamento penitenziario novellando la disciplina sulla detenzione domiciliare e sulla detenzione domiciliare speciale prevista dall'ordinamento penitenziario (legge 354/1975).
Con una prima modifica dell'art. 47-ter (detenzione domiciliare) si permette di scontare a donna incinta o madre di prole di età inferiore ad 10 anni con lei convivente la reclusione non superiore a 4 anni (anche se costituente parte residua di maggior pena) anche in case famiglia protette.
Una ulteriore novella interessa la disciplina della detenzione domiciliare speciale per le condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni (art. 47-quinquies della legge 354/1975). La disciplina previgente stabiliva che - ove non sussistessero le condizioni per l'applicazione della detenzione domiciliare di cui all'art. 47-ter - in assenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e sussistendo la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, le detenute madri potevano essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l'espiazione di almeno 15 anni nel caso di condanna all'ergastolo.
La legge 62/2011 aggiunge la possibilità di espiare anche il terzo della pena o, per le madri ergastolane, i citati 15 anni di detenzione presso:
La nuova disciplina sulla detenzione domiciliare speciale non si applica nel caso di condanna delle detenute madri per i reati di grave allarme sociale di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975.
La legge 62 disciplina, inoltre, il diritto di visita al minore infermo (articolo 2), anche non convivente, da parte della madre detenuta o imputata ovvero del padre nelle stesse condizioni, nonché il diritto della detenuta o imputata di essere autorizzata dal giudice ad assistere il figlio durante le visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute (nuovo articolo 21-ter della legge n. 354 del 1975). Tale ultimo diritto spetta anche al padre nel caso in cui la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
Il tema dei diritti del padre è stato oggetto di particolare attenzione da parte della Commissione affari costituzionali della Camera che nel suo parere alla Commissione giustizia ha segnalato più in generale l’opportunità di valutare le disposizioni del provvedimento alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale che ha sempre riconosciuto l’importanza del contributo paterno allo sviluppo armonico della personalità dei minori.
L'articolo 4 della legge 62 ha affidato ad un decreto del Ministro della giustizia, da adottare, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore, d'intesa con la Conferenza Stato-Città ed Autonomie locali, la determinazione delle caratteristiche tipologiche delle case famiglia protette previste dall'articolo 284 del codice di procedura penale e dagli articoli 47-ter e 47-quinquies della legge 354/1975. L'art. 4 prevedeva che il Ministro della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, potesse stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette.
Dopo che le caratteristiche delle case famiglia protette erano state individuate con D.M. giustizia 26 luglio 2012, un successivo provvedimento, il D.M. giustizia 13 gennaio 2013 ha annullato il primo decreto in quanto adottato in carenza dell'intesa con la Conferenza Stato-Città e Autonomie locali prevista dall'art. 4 della legge 62/2011.
Nell'ambito della cooperazione internazionale, il Parlamento ha ratificato alcune convenzioni che hanno comportato modifiche al nostro diritto penale (si pensi soprattutto agli accordi internazionali in tema di lotta alla corruzione o per rafforzare la tutela dei minori vittime di reati di sfruttamento sessuale). In prossimità dello scadere della legislatura è stata inoltre approvata la legge che adegua l'ordinamento italiano alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale. Per quanto riguarda la cooperazione giudiziaria in ambito europeo, le leggi comunitarie 2008 e 2009 hanno delegato il Governo all'attuazione di alcune decisioni quadro in materia penale.
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha ratificato un'ampia serie di accordi internazionali, che hanno comportato spesso la necessità di adeguare l'ordinamento nazionale per garantire il pieno rispetto degli impegni assunti dal nostro Stato. Nel settore della cooperazione giudiziaria internazionale, tradizionalmente, l'iniziativa legislativa è assunta dal Governo, che presenta al Parlamento disegni di legge di ratifica degli accordi internazionali, completati dalle disposizioni di adeguamento interno. Nel corso della XVI legislatura si è verificato che l'iter della legge è stato spesso avviato da proposte di origine parlamentare e l'iniziativa del Governo è intervenuta solo successivamente (si pensi alla ratifica delle convenzioni anticorruzione) ovvero non è stata esercitata (si pensi all'adeguamento alle disposizioni dello Statuto della Corte penale internazionale).
Nel corso della legislatura il Parlamento ha ratificato tre Convenzioni internazionali, una delle Nazioni Unite e due del Consiglio d'Europa, volte a reprimere il fenomeno della corruzione.
Il primo intervento del Parlamento in tema di lotta alla corruzione è stato l'approvazione della legge 116/2009, di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a Merida nel 2003.
Pochi mesi dopo, il Senato avviava l'esame di un disegno di legge del Governo Berlusconi (AS. 2156) che affrontava il tema della lotta alla corruzione prevedendo un generale inasprimento delle pene per i delitti contro la pubblica amministrazione. Il complesso iter della legge "anticorruzione" influenzerà anche l'approvazione dei progetti di legge di ratifica di due convenzioni del Consiglio d'Europa, che il Parlamento deciderà di ratificare senza disposizioni di adeguamento interno, ritenendo che ogni ulteriore modifica al diritto penale sostanziale dovesse trovare sede nel progetto di legge anticorruzione, poi legge 190/2012.
Pertanto, con la legge 110/2012, il Parlamento ha ratificato la Convenzione penale di Strasburgo del 1999 sulla corruzione che impegna, in particolare, gli Stati a prevedere l'incriminazione di fatti di corruzione attiva e passiva tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel settore privato; del cosiddetto traffico di influenze; dell'autoriciclaggio. Con la legge 112/2012 ha ratificato la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo nel 1999 e diretta, in particolare, ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudiziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione.
Il Parlamento ha approvato la legge 1 ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote).
La Convenzione di Lanzarote, entrata in vigore il 1° luglio 2010, è il primo strumento internazionale con il quale si prevede che gli abusi sessuali contro i bambini siano considerati reati. Oltre alle fattispecie di reato più diffuse in questo campo (abuso sessuale, prostituzione infantile, pedopornografia, partecipazione coatta di bambini a spettacoli pornografici), la Convenzione disciplina anche i casi di grooming (adescamento attraverso internet) e di turismo sessuale. La Convenzione delinea misure preventive che comprendono lo screening, il reclutamento e l’addestramento di personale che possa lavorare con i bambini al fine di renderli consapevoli dei rischi che possono correre e di insegnare loro a proteggersi, stabilisce inoltre programmi di supporto alle vittime, incoraggia la denuncia di presunti abusi e di episodi di sfruttamento e prevede l’istituzione di centri di aiuto via telefono o via internet.
In sintesi, la legge 172/2012 prevede, oltre alla ratifica della Convenzione, disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno, tra le quali si segnalano rilevanti novelle al codice penale. In particolare, il provvedimento:
Ulteriori interventi riguardano il codice di procedura penale (con una serie di disposizioni che, in relazione ai delitti di sfruttamento sessuale dei minori, novellano le norme sulle indagini preliminari, sull'arresto obbligatorio in flagranza, sull'assunzione delle prove e sul patteggiamento).
Infine, il provvedimento modifica la disciplina delle misure di prevenzione personali (con particolare riferimento al divieto di avvicinamento a luoghi abitualmente frequentati da minori); limita la concessione di benefici penitenziari ai condannati per delitti di prostituzione minorile e pedopornografia, nonché di violenza sessuale; ammette al gratuito patrocinio, anche in deroga ai limiti di reddito, le persone offese dai suddetti delitti.
Modifiche al diritto penale sostanziale sono state apportate anche in occasione dell'approvazione della Legge 108/2010 - Ratifica Convenzione di Varsavia, che ha novellato gli articoli 600, 601 e 602 del codice penale, inserendo in un'unica previsione (art. 602-ter) tutte le aggravanti dei delitti di tratta, nonché dalla Legge 201/2010 - Protezione degli animali da compagnia, che ha novellato le previgenti disposizioni sull'uccisione di animali e il maltrattamento di animali oltre a prevedere nuove fattispecie penali per alcune condotte relative al traffico di animali da compagnia (cani e gatti). Infine, nuove fattispecie penali militari sono state introdotte nell'ordinamento dalla Legge 45/2009 - Protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.
Sul versante della procedura penale un ruolo importante nella XVI legisaltura ha giocato l'approvazione della legge 85/2009, con la quale l'Italia ha aderito al “Trattato di Prüm”, allo scopo di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale. L'adesione al Trattato ha comportato l'istituzione della banca dati del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA, con la finalità di rendere più agevole l'identificazione degli autori di delitti: ciò ha reso necessario un intervento sul codice di procedura penale per consentire i c.d. accertamenti tecnici coattivi, ovvero il prelievo del DNA a determinati soggetti.
Dando seguito alla legge 232/1999, di ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale, il Parlamento ha approvato la legge n. 237 del 2012, con la quale ha adeguato l'ordinamento interno alle previsioni dello Statuto, consentendo all'Italia di fornire, in caso di necessità, piena cooperazione alla Corte.
Si ricorda, infatti, che lo Statuto è stato adottato a Roma il 17 luglio 1998 dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite ed è entrato in vigore il 1° luglio 2002, in conformità a quanto disposto dall’articolo 126 dello Statuto stesso, che ha fissato la condizione del deposito di almeno 60 strumenti di ratifica, adesione o accettazione. L'Italia - responsabilizzata dall'esser stata scelta come sede per la conclusione dell'accordo, è stato il primo Paese europeo a ratificare lo Statuto, mediante la legge 12 luglio 1999, n. 232, ma sino ad oggi non aveva dettato le norme di adeguamento interno, in assenza delle quali era impossibile cooperare con la Corte, ad esempio consegnandole gli autori (o i presunti autori) di gravi crimini internazionali che in Italia avessero cercato rifugio.
Con il trattato di Lisbona, il terzo pilastro della politica europea, ovvero il settore Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale ha beneficiato della comunitarizzazione, ovvero è transitato pienamente nel diritto comunitario. Conseguentemente, dal 2009, il Parlamento non sarà più chiamato a recepire decisioni quadro, sostituite a seconda dei casi da regolamenti e direttive europee.Ciò non toglie che residuino per il nostro Paese una serie di precedenti decisioni-quadro, che necessitano di un intervento legislativo di adeguamento. In merito, nel corso della XVI legislatura ha provveduto la legge comunitaria 2008 (legge 88/2009), che contiene alcune deleghe al Governo per l’attuazione di decisioni quadro adottate dall’Unione europea nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.
Tali decisioni quadro in particolare riguardano: la lotta contro la criminalità organizzata; l'applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca; lo scambio di informazioni e intelligence tra le autorità degli Stati membri dell’Unione europea, ai fini dello svolgimento di indagini penali o di operazioni di intelligence criminale; l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea. Il Governo ha dato attuazione alla delega con l'emanazione del solo decreto legislativo 161/2010, in tema di reciproco riconoscimento delle sentenze penali.
Anche la legge comunitaria 2009 (legge 96/2010) contiene la delega al Governo per l’attuazione di ulteriori decisioni quadro, in particolare in materia di lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti, repressione del favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali; traffico illecito di stupefacenti; posizione della vittima nel procedimento penale. Nessuna di tali deleghe è stata esercitata.
Da ultimo si segnala, nonostante non abbia concluso l'iter parlamentare, il progetto di legge A.C. 4262, già approvato dal Senato, che prevede l’istituzione di squadre investigative comuni sovranazionali, in attuazione della decisione quadro n. 2002/465/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002. Il provvedimento - per il cui contenuto analitico si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera - disciplina la costituzione delle squadre investigative comuni, sia nel caso in cui questa avvenga su richiesta del procuratore della Repubblica italiano, che nel caso in cui la richiesta provenga dall’autorità di uno Stato estero, individuando i presupposti e le modalità di richiesta.
Con l'emanazione del decreto legislativo 7 settembre 2010, n. 161, il Governo ha attuato la delega conferitagli dal Parlamento con la legge comunitaria 2008 (legge 88/2009) per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/909/GAI relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione in Italia.
La decisione quadro si fonda sul principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali e sulla fiducia reciproca degli Stati membri nei rispettivi ordinamenti giuridici. Secondo l’articolo 3, la finalità della decisione quadro è stabilire le norme in base alle quali uno Stato membro, al fine di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, debba riconoscere una sentenza emessa in un altro Stato membro ed eseguire la pena. Peraltro, la decisione quadro si applica solo al riconoscimento delle sentenze e all’esecuzione delle pene detentive. Il riconoscimento e l’esecuzione di sanzioni pecuniarie o di decisioni di confisca in un altro Stato membro, eventualmente irrogate oltre alla pena, sono disciplinati da altri specifici strumenti applicabili tra gli Stati membri e, in particolare, dalla decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, e dalla decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio, del 6 ottobre 2006, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni di confisca.
Il decreto legislativo 161/2010 è stato emanato nell’esercizio della delega contenuta negli articoli articolo 49, comma 1, lett. c) e 52 della legge comunitaria 2008 (legge 7 luglio 2009, n. 88); in particolare è l'articolo 52 a fornire i principi e criteri direttivi specifici per l’esercizio della delega.
Con la lettera a) si prevede l’introduzione di norme che consentano al giudice italiano che ha pronunciato sentenza di condanna irrevocabile di trasmetterla (con un certificato conforme al modello allegato alla decisione quadro) all’autorità competente di altro Stato dell’Unione europea ai fini del riconoscimento e dell’esecuzione in quello Stato. Ciò in presenza, tuttavia, delle specifiche condizioni indicate dalla decisione quadro, ovvero:
La lettera b) provvede a dettare i principi e criteri direttivi di delega con riferimento all'ipotesi inversa, ovvero la condanna emessa in uno Stato UE che può essere trasmessa (unitamente al certificato conforme al modello allegato alla decisione quadro) all’autorità giudiziaria italiana al fine del riconoscimento e dell’esecuzione. Oltre alle condizioni indicate alla lett. a) per il trasferimento in Italia del condannato sono state inserite altre specifiche condizioni riprese dalle previsioni della decisione quadro.
La lettera c) riguarda l’individuazione da parte del legislatore delegato dei motivi del rifiuto di riconoscimento o di esecuzione della sentenza di condanna trasmessa da un altro Stato membro. Tali motivi sono contenuti nell’art. 9 della decisione quadro e riprendono, anche in tal caso e in larga parte, i motivi di rifiuto di esecuzione di un mandato di arresto europeo. La lettera c) lascia ferma la possibilità di dare riconoscimento ed esecuzione parziali alla sentenza trasmessa, ai sensi dell’art. 10 della decisione quadro, nonché di acconsentire a una nuova trasmissione della sentenza, in caso di incompletezza del certificato o di sua manifesta difformità rispetto alla sentenza, ai sensi dell’art. 11 della decisione quadro.
Con la lettera d) si prevede che nell’esercizio della delega relativa al procedimento di riconoscimento ed esecuzione in Italia delle sentenze emesse da autorità giudiziarie siano individuati l’autorità giudiziaria competente nonché i termini e le forme da osservare, nel rispetto dei principi del giusto processo.
La lettera e), riprendendo in maniera pressoché testuale il testo dell’art. 12, par. 2, della decisione quadro, fissa il termine di 90 giorni, decorrenti dal ricevimento della sentenza e del certificato, per la decisione definitiva sul riconoscimento e l’esecuzione della pena in Italia.
Con le lettere da f) a i), si forniscono i principi e i criteri direttivi di esercizio della delega in riferimento all’adozione di misure cautelari provvisorie e all’esecuzione dell’arresto della persona condannata di cui si chiede in Italia il riconoscimento e l’esecuzione della sentenza di condanna. Si intende, in tal modo, dare attuazione a quanto previsto dall’art. 14 della decisione quadro (sull’arresto provvisorio), secondo cui se la persona condannata si trova nello Stato di esecuzione, quest’ultimo può, su richiesta dello Stato di emissione e prima di ricevere la sentenza e il certificato o prima che sia presa la decisione di riconoscere la sentenza ed eseguire la pena, arrestare la persona condannata o adottare qualsiasi altro provvedimento per assicurare che essa resti nel suo territorio, in attesa di una decisione di riconoscimento della sentenza e di esecuzione della pena. La durata della pena non è aumentata per effetto di un periodo di detenzione scontato in virtù della presente norma.
Mentre la lettera f) stabilisce, in generale, la possibile adozione di tali misure, la lettera g) statuisce che: 1) esse possano essere adottate alle condizioni previste dalla legislazione italiana e che la loro durata non possa superare i limiti previsti; 2) il periodo di detenzione per tale motivo non possa determinare un aumento della pena inflitta dallo Stato di emissione; 3) esse perdano efficacia in caso di mancato riconoscimento della sentenza trasmessa dallo Stato di emissione e in ogni caso decorsi 60 giorni dalla loro esecuzione, salva la possibilità di prorogare il termine di trenta giorni in caso di forza maggiore.
La lettera h) prevede che la polizia giudiziaria possa procedere all’arresto provvisorio della persona condannata per la quale vi sia una richiesta di riconoscimento allo scopo di assicurare la sua permanenza nel territorio e in attesa del riconoscimento della sentenza di condanna emessa all’estero.
La lettera i) stabilisce che, in caso di arresto provvisorio, la persona arrestata sia messa immediatamente, e comunque non oltre 24 ore, a disposizione dell’autorità giudiziaria, che questa proceda al giudizio di convalida entro quarantotto ore dalla ricezione del verbale d’arresto e che, in caso di mancata convalida, la persona arrestata sia immediatamente posta in libertà.
Con la lettera l) si dà attuazione all’art. 15 della decisione quadro, prevedendo l’introduzione di una o più disposizioni relative al trasferimento e alla presa in consegna della persona condannata a seguito del riconoscimento, sia nell’ipotesi in cui questo è effettuato da un’autorità giudiziaria europea a seguito della decisione penale di condanna definitiva emessa in Italia, sia nell’ipotesi in cui è l’Italia a dover riconoscere una decisione penale di condanna definitiva emessa in un altro Stato membro.
Con la lettera m) si prevede l’introduzione di una o più disposizioni relative al procedimento di esecuzione della pena a seguito del riconoscimento di cui alla lettera b), anche con riferimento all’ipotesi di mancata o parziale esecuzione e in caso di benefici di cui la persona condannata può godere in base alla legislazione italiana, nel rispetto degli obblighi di consultazione e informazione di cui agli articoli 17, 20 e 21 della decisione quadro.
La lettera n) prevede che siano introdotte una o più disposizioni relative alle condizioni e ai presupposti per la concessione della liberazione anticipata o condizionale, dell’amnistia, della grazia o della revisione della sentenza, ai sensi degli articoli 17 e 19 della decisione quadro. Secondo l’art. 17 della decisione quadro sono le autorità dello Stato di esecuzione le sole competenti a prendere le decisioni concernenti la liberazione anticipata o condizionale. Per l’art. 19, invece, l’amnistia o la grazia possono essere concesse dallo Stato di emissione, nonché dallo Stato di esecuzione. Solo lo Stato di emissione può decidere sulle domande di revisione della sentenza che irroga la pena da eseguire in virtù della decisione quadro.
La lettera o) demanda al Governo l’introduzione di una o più disposizioni relative all’applicazione del principio di specialità, in base alle quali la persona trasferita in Italia per l’esecuzione della pena non può essere perseguita, condannata o altrimenti privata della libertà personale per un reato commesso in data anteriore al trasferimento dallo Stato (in cui è emessa la sentenza di condanna definitiva) diverso da quello per cui ha avuto luogo il trasferimento, facendo espressamente salve le ipotesi previste dall’art. 18, par. 2, della decisione quadro. Tali ipotesi ricorrono quando: a) pur avendone avuto la possibilità, la persona non ha lasciato il territorio dello Stato di esecuzione nei 45 giorni successivi alla scarcerazione definitiva oppure vi ha fatto ritorno dopo averlo lasciato; b) il reato non è punibile con una pena detentiva o una misura di sicurezza privativa della libertà personale; c) il procedimento penale non dà luogo all’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale; d) la persona condannata sia passibile di una sanzione o misura che non implichi la privazione della libertà personale; e) la persona condannata abbia acconsentito al trasferimento; f) qualora, dopo essere stata trasferita, la persona condannata abbia espressamente rinunciato a beneficiare della regola della specialità riguardo a specifici reati anteriori al suo trasferimento; g) per i casi diversi da quelli menzionati alle lettere da a) ad f), lo Stato di emissione dia il suo consenso in ossequio agli obblighi di consegna previsti dalla decisione quadro sul mandato di arresto europeo.
Con la lettera p) si prescrive l’introduzione di una o più disposizioni relative al transito sul territorio italiano della persona condannatain uno Stato membro, in vista dell’esecuzione della pena in un altro Stato membro, nel rispetto dei criteri di rapidità, sicurezza e tracciabilità del transito, con facoltà di trattenere in custodia la persona condannata per il tempo strettamente necessario al transito medesimo e nel rispetto delle previsioni di cui alle lettere f), g), h), e i).
La lettera q) prevede l’introduzione di una o più disposizioni relative al tipo e alle modalità di trasmissione delle informazioni che devono essere fornite dall’autorità giudiziaria italiana nel procedimento di trasferimento attivo e passivo.
Il comma 2 dell’art. 52 precisa, infine, che i compiti e le attività previsti dalla decisione quadro di cui al comma 1 in relazione ai rapporti con autorità straniere sono svolti da organi di autorità amministrative e giudiziarie esistenti, nei limiti delle risorse di cui le stesse già dispongono, senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato.
Il decreto legislativo 161/2010 si compone di 25 articoli, suddivisi in cinque capi.
Il Capo I (articoli da 1 a 3) contiene le disposizioni generali vale a dire, oltre alle definizioni (art. 2), individua la finalità del provvedimento nell’attuazione della decisione quadro 2008/909/GAI, ponendo il limite di ordine generale della compatibilità con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo (art. 1). Esso inoltre contiene la designazione, quali autorità competenti, del Ministero della giustizia e delle autorità giudiziarie (articolo 3).
Al Ministero della giustizia sono attribuiti in generale compiti di trasmissione e ricezione delle sentenze nonché ulteriori compiti di informazione all’autorità competente dello Stato di emissione. In relazione alle esigenze di rendere più agevole e rapido l’espletamento delle procedure di trasferimento, è tuttavia consentita la corrispondenza diretta tra autorità giudiziarie: in tal caso l’autorità giudiziaria informa immediatamente il Ministero della giustizia della trasmissione o della ricezione di una sentenza di condanna.
Il Capo II (articoli da 4 a 8) disciplina la trasmissione all’estero della sentenza di condanna pronunciata dall’autorità giudiziaria italiana per la sua esecuzione in un altro Stato dell’UE (cd. procedura attiva). La competenza a disporre la trasmissione (articolo 4), nel caso in cui debba eseguirsi una sentenza che irroga una pena detentiva, è attribuita all’ufficio del PM presso il giudice competente per l’esecuzione, ai sensi dell’art. 665 c.p.p; nel caso in cui debba eseguirsi un provvedimento che dispone una misura di sicurezza personale, all’ufficio del PM presso il giudice individuato a norma dell’art. 658 c.p.p..
La trasmissione all’estero può essere disposta in presenza delle condizioni di emissione indicate dall’articolo 5, ovvero:
La trasmissione è disposta all’atto dell’emissione dell’ordine di esecuzione (di cui agli artt. 656 e 659 c.p.p.) ovvero, se l’ordine di esecuzione è già stato eseguito, in un momento successivo.
L'articolo 6 delinea il procedimento da seguire. Legittimati all’avvio del procedimento sono l’autorità giudiziaria competente (iniziativa d’ufficio) ovvero il condannato e l’autorità competente dello Stato di esecuzione (iniziativa di parte). Ferme restando le ipotesi in cui è necessario il consenso della persona condannata, essa viene comunque sentita dall’autoritàgiudiziaria prima della trasmissione. L’autorità giudiziaria italiana, prima di procedere, deve inoltre consultare l’autorità estera di esecuzione, anche tramite il ministero della giustizia, allo scopo di:
Si prevede inoltre che il provvedimento che dispone la trasmissione all’estero della sentenza:
Sempre in base all’articolo 6, inoltre, l’autorità giudiziaria: sospende la trasmissione del provvedimento all’autorità straniera al sopravvenire di una causa di sospensione dell’esecuzione prima dell’inizio della medesima esecuzione all’estero e può revocare il provvedimento di trasmissione ove sia venuta meno una delle condizioni di emissione di cui all’art. 5. In caso, infine, di mancato riconoscimento della sentenza di condanna italiana da parte dell’autorità competente dello Stato estero di esecuzione, spetta al ministero della giustizia darne comunicazione al competente giudice italiano al fine di dare avvio o prosecuzione all’esecuzione della sentenza nel nostro Paese.
L’articolo 7 del decreto legislativo 161/2010 concerne il trasferimento verso lo Stato estero di esecuzione delle persone condannate che si trovano nel territorio italiano. La disposizione in particolare prevede che:
La disposizione prevede inoltre l’ipotesi in cui lo Stato estero di esecuzione chieda all’Italia, in virtù di una possibile eccezione al principio di specialità di cui al successivo art. 18, di poter sottoporre a procedimento penale (o a misura coercitiva personale) il condannato in virtù di un reato, diverso da quello che ha dato luogo al trasferimento, commesso nel Paese di esecuzione anteriormente al trasferimento. In tal caso:
L’articolo 8 del decreto legislativo prevede che il PM competente, in attesa del riconoscimento, possa chiedere all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione l’arresto provvisorio (o altra misura idonea) del condannato che si trovi sul territorio di detto Stato.
Il Capo III (articoli da 9 a 19) riguarda la trasmissione dall’estero (cd. procedura passiva) ovvero la richiesta al nostro Paese dell’esecuzione in Italia di una sentenza di condanna emessa all’estero.
L’articolo 9 - in adesione alle previsioni della procedura passiva di consegna nella legge sul mandato d’arresto europeo (art. 5, legge 69/2005) - individua la corte d’appello del distretto di residenza del condannato al momento della trasmissione come autorità giurisdizionale competente alla decisione sul riconoscimento ed esecuzione in Italia del provvedimento definitivo emesso in altro Stato membro. La disposizione detta ulteriori criteri di individuazione del giudice competente in presenza di condanna che riguardi più persone e prevede la competenza residuale della Corte d’appello di Roma. In caso di arresto del condannato (richiesto, in via d’urgenza dall’autorità straniera ex art. 15) è, infine, competente la corte d’appello del distretto dove è avvenuto l’arresto.
L’articolo 10 individua le condizioni necessarie al riconoscimento della sentenza di condanna da parte dell’autorità giurisdizionale italiana in conformità alle previsioni della decisione quadro 2008/909/GAI. Tali condizioni, che salvo deroghe devono sussistere congiuntamente (comma 1), sono le seguenti:
Coerentemente con la norma di delega e con l’art. 7 della decisione-quadro, l’articolo 11 esclude la necessità della doppia incriminazione per alcuni specifici reati, per i quali si richiede esclusivamente che il reato sia punito nello Stato di emissione con misura privativa della libertà personale di durata non inferiore a tre anni. La lista dei reati è individuata con riferimento all’art. 8 della legge n. 69 del 2005, sul mandato di arresto europeo, e corrisponde sostanzialmente alla lista contenuta nell’art. 7 della decisione-quadro.
L’articolo 12 disciplina il procedimento di trasmissione dall’estero, nel quale si possono identificare sostanzialmente le seguenti fasi:
Il successivo articolo 13 del decreto legislativo individua i motivi di rifiuto del riconoscimento da parte della Corte d’appello, in conformità con le previsioni dell’art. 9 della decisione quadro nonché dei criteri direttivi dettati dall’art. 52, comma 1, lett. c, della legge n. 88 del 2009. I motivi sono i seguenti: mancanza di alcuna delle condizioni previste dall’art. 10 e 11; mancanza o incompletezza del certificato allegato alla sentenza; violazione del ne bis in idem; possibilità di giudicare in Italia i fatti oggetto della sentenza ma il reato risulta prescritto; pronuncia in Italia di sentenza di non luogo a procedere; prescrizione della pena; presenza di causa di immunità; pena inflitta a persona non imputabile per età; residuo di pena da scontare inferiore a 6 mesi; sentenza pronunciata in contumacia (non volontaria); Stato di emissione che abbia rifiutato all’Italia la richiesta di sottoporre la persona condannata a processo per reato diverso commesso prima della trasmissione della sentenza di condanna; pena inflitta che comprende misure sanitarie o psichiatriche incompatibili con l’ordinamento italiano; sentenza che si riferisce a reati commessi anche in parte sul territorio italiano.
Gli articoli 14 e 15 dettano disposizioni in materia di misure provvisorie, limitative della libertà personale del condannato. In particolare, l'articolo 14 prevede la possibilità che, su richiesta dello Stato di emissione, la corte d’appello - prima del riconoscimento della sentenza – disponga, a fini cautelari e con ordinanza motivata, una misura personale coercitiva nei confronti della persona condannata che si trovi in Italia. La misura è alternativa a quella dell’arresto prevista, in caso di urgenza, dal successivo art. 15. I motivi di rifiuto del riconoscimento (di cui all’art. 13) costituiscono cause ostative all’adozione delle misure. La misura coercitiva è revocata dalla corte d’appello se:
In caso di richiesta di misura coercitiva, l’udienza cameraleche decide sul riconoscimento della sentenza deve essere fissata entro 20 gg. dall’inizio della esecuzione della misura.
L’articolo 15 prevede, nei casi di urgenza e su richiesta dell’autorità dello Stato emittente, il possibile arresto del condannato che si trovi in territorio italiano, nelle more della decisione sul riconoscimento. La disposizione subordina l’arresto alle seguenti condizioni: cittadinanza italiana; residenza, dimora o domicilio in Italia (o espulsione verso l’Italia); doppia incriminazione, salvo i casi previsti dall’art. 11. L’arrestato è posto, entro 24 ore, a disposizione del presidente della corte d’appello del distretto di esecuzione della misura e ne è data notizia al Ministro della giustizia. In virtù del rinvio al procedimento previsto per analoghi casi dalla legge sul mandato d’arresto europeo (art. 12, L. 69/2005) sono stabilite le necessarie garanzie a favore dell’arrestato.
Entro le 48 ore successive, il presidente della corte d’appello interroga il fermato e, se non deve procedere alla sua liberazione, convalida l’arresto provvedendo, se del caso, all’applicazione delle misure cautelari coercitive di cui all’art. 14. Delle misure adottate deve essere informato il Ministro della giustizia, cui compete la trasmissione delle informazioni all’autorità straniera richiedente l’arresto.
All’esecuzione della sentenza riconosciuta provvede, d’ufficio, il PG della corte d’appello deliberante e la pena è eseguita secondo la legge italiana (articolo 16). Se il condannato si trova nel territorio dello Stato di emissione, il ministero della giustizia provvede ai necessari accordi per il suo trasferimento in Italia, anche avvalendosi dei competenti servizi del ministero dell’interno. Prima del trasferimento, lo Stato di emissione che lo richiede deve essere informato dei possibili benefici (liberazione anticipata, indulto e liberazione condizionale) applicabili al detenuto in base alla legge italiana.
L’articolo 17 disciplina, conformemente all’art. 20 della decisione quadro, le conseguenze dei provvedimenti adottati dello Stato di emissione sull’esecuzione della pena (o misura di sicurezza) che ha luogo in Italia. Appena informata della decisione che pone fine all’esecuzione, l’autorità giudiziaria italiana competente cessa l’esecuzione delle misure adottate. Conformemente a quanto stabilito dall’art. 19, comma 2, della decisione quadro, viene individuata nell’autorità giudiziaria dello Stato di emissione l’autorità competente alla revisione della sentenza di condanna trasmessa in Italia.
L’articolo 18 del decreto legislativo 161/2010, modellato sull’art. 26 della legge 69/2005 sul mandato d’arresto europeo, recepisce il principio di specialità di cui all’art. 18 della decisione quadro, principio riconosciuto in ambito di cooperazione giudiziaria internazionale. Il recepimento di tale principio determina l’impossibilità che la persona trasferita nello Stato di esecuzione possa essere ivi processata (o sottoposta a misura privativa della libertà) per un reato commesso anteriormente al trasferimento e diverso da quello da cui quest’ultimo trae origine. Le eccezioni all’applicazione del principio di specialità corrispondono a quelle previste dalla decisione quadrodettate dall’art. 18, par 2, della decisione quadro e sono le seguenti:
L’articolo 19 detta disposizioni relative al transito,cioè al passaggio della persona sul territorio italiano in esecuzione di un procedimento di trasferimento dell’esecuzione in corso tra altri due Paesi membri della UE. La norma stabilisce la competenza del Ministero della giustizia sia alla ricezione della richiesta di transito (con allegato il certificato) da parte dello Stato membro che per la conseguente decisione (entro 7 gg. dalla ricezione). Durante il transito, la polizia italiana può trattenere in custodia il condannato solo per il tempo strettamente necessario al transito stesso e, comunque, per non più di 48 ore dal suo ingresso in Italia.
Il Capo IV del decreto legislativo 161/2010 (articoli 20 e 21) detta disposizioni da applicare tanto al procedimento di trasferimento all’estero che a quello di trasferimento dall'estero. In particolare, conformemente al contenuto dell’art. 21 della decisione quadro, l’articolo 20 elenca una serie di informazioni che il Ministero della giustizia – come autorità del Paese di esecuzione - deve fornire alla corrispondente autorità dello Stato di emissione “con qualsiasi mezzo che lasci una traccia scritta” (posta, fax, e-mail).
Il successivo articolo 21 stabilisce che le sole spese a carico dello Stato italiano sono: nella procedura di esecuzione passiva, le spese successive al trasferimento del condannato in Italia; nella procedura di esecuzione attiva, le spese sostenute in territorio italiano in vista del trasferimento del condannato nel Paese di esecuzione.
Il Capo V del decreto legislativo (articoli da 22 a 25) reca le Disposizioni transitorie e finali. L’articolo 22 fa salvi gli eventuali obblighi internazionali dell’Italia nei confronti di Paesi terzi in materia di trasferimento di persone condannate; l'articolo 23 riguarda le disposizioni finanziarie che precisano, in particolare, l’assenza di nuovi o maggiori oneri per l’erario a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo. L'articolo 24 estende l’applicazione della disciplina introdotta dal decreto a due fattispecie in materia di mandato d’arresto europeo, di cui alla legge 69 del 2005:
L’articolo 25 detta, infine, una specifica disciplina transitoria volta a regolare la prima fase applicativa della nuova normativa. La disciplina del decreto legislativo sostituisce a decorrere dal 5 dicembre 2011 eventuali accordi internazionali conclusi tra l’Italia e altri Stati membri dell’Unione, relativi al trasferimento di persone condannate ai fini dell’esecuzione all’estero.
La decisione quadro dell'Unione europea si prefigge l'armonizzazione delle legislazioni nazionali in merito al riconoscimento delle sentenze penali adottate da uno stato membro e relative all'esecuzione di pene detentive. Il decreto legislativo 161/2010 delinea dunque una procedura speciale da applicarsi solo nei rapporti con stati membri dell'Unione europea.
In tutti gli altri casi di necessario riconoscimento di una sentenza straniera si applicherà la disciplina generale contenuta nel codice di procedura penale, disciplina che delinea i meccanismi interni a carattere giurisdizionale attraverso cui la sentenza penale emessa all’estero può essere eseguita in Italia e predispone, altresì, i meccanismi attraverso i quali una sentenza penale italiana può trovare esecuzione all’estero.
L’art. 730 c.p.p. prevede il riconoscimento delle sentenze penali straniere per gli effetti previsti dal codice penale stabilendo che il ministro della giustizia, quando riceve una sentenza penale di condanna o di proscioglimento pronunciata all'estero nei confronti di cittadini italiani o di stranieri o di apolidi residenti nello Stato ovvero di persone sottoposte a procedimento penale nello Stato, trasmette senza ritardo al procuratore generale presso la corte di appello, nel distretto della quale ha sede l'ufficio del casellario locale del luogo di nascita della persona cui è riferito il provvedimento giudiziario straniero, o presso la Corte di appello di Roma, copia della sentenza, unitamente alla traduzione in lingua italiana, con gli atti che vi siano allegati, e con le informazioni e la documentazione del caso.
Se l’esecuzione in Italia della sentenza estera deve avvenire secondo le norme di un accordo internazionale, il Ministro della giustizia ne richiede il riconoscimento (art. 731 c.p.p.). A tale scopo trasmette al procuratore generale presso la corte di appello nel distretto della quale ha sede l'ufficio del casellario locale del luogo di nascita della persona cui è riferito il provvedimento giudiziario straniero, o presso la Corte di appello di Roma, una copia della sentenza, unitamente alla traduzione in lingua italiana, con gli atti che vi siano allegati, e con la documentazione e le informazioni disponibili. Trasmette inoltre l'eventuale domanda di esecuzione nello Stato da parte dello Stato estero ovvero l'atto con cui questo Stato acconsente all'esecuzione. Il PG promuove il riconoscimento con richiesta alla corte di appello. Ove ne ricorrano i presupposti, richiede che il riconoscimento sia deliberato anche agli effetti previsti dall'articolo 12 comma 1 numeri 1, 2 e 3 del codice penale (ipotesi di connessione).
Secondo l’ordinaria disciplina di esecuzione passiva, (artt. 730-741 c.p.p.) l’efficacia delle sentenze penali straniere è quindi sempre subordinata al riconoscimento. Il presupposto è che la sentenza non può dispiegare iure proprio i suoi effetti in Italia se non viene “nazionalizzata”; il riconoscimento ha quindi natura non dichiarativa o ricognitiva bensì costitutiva (attributiva) di efficacia nel nostro ordinamento.
In particolare, l’art. 733 c.p.p. richiede: a) che la sentenza sia divenuta irrevocabile per le leggi dello Stato in cui è stata pronunciata; b) che non contenga disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato; c) che sia stata pronunciata da un giudice indipendente e imparziale e che l'imputato sia stato citato a comparire in giudizio davanti all'autorità straniera ovvero gli è stato riconosciuto il diritto a essere interrogato in una lingua a lui comprensibile e a essere assistito da un difensore; d) considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali non abbiano influito sullo svolgimento o sull'esito del processo; e) il fatto per il quale è stata pronunciata la sentenza è previsto come reato dalla legge italiana; f) per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona non è stata pronunciata nello Stato sentenza irrevocabile; g) per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona non è in corso nello Stato procedimento penale.
Prima della decisione della corte d’appello, su richiesta del PG, possono essere adottate dalla stessa corte misure coercitive nei confronti del condannato che si trovi sul nostro territorio. (art. 736 c.p.p.). La misura coercitiva è revocata se dall'inizio della sua esecuzione sono trascorsi 6 mesi senza che la corte di appello abbia pronunciato sentenza di riconoscimento, ovvero, in caso di ricorso per cassazione contro tale sentenza, 10 mesi senza che sia intervenuta sentenza irrevocabile di riconoscimento. Copia dei provvedimenti emessi dalla corte è comunicata e notificata, dopo la loro esecuzione, al procuratore generale, alla persona interessata e al suo difensore, i quali possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge.
Nel caso di riconoscimento della sentenza penale straniera, le pene (come la confisca) sono eseguite secondo la legge italiana. All’esecuzione provvede d’ufficio il PG presso la corte d’appello che ha deliberato il riconoscimento (art. 738 c.p.p.).
Nell’inverso caso di esecuzione all’estero di sentenze penali italiane, ferma restando la valenza di accordi internazionali, il codice di rito penale prevede – sempre con valore suppletivo – l’esecuzione consensuale all’estero delle condanne italiane.
L’esecuzione riguarda sia cittadini italiani non presenti sul nostro territorio che stranieri presenti in Italia o all’estero. I predetti hanno diritto di espiare la pena in Italia ma hanno anche facoltà di domandarne o consentirne l’esecuzione in altro Stato (art. 742, 743 c.p.p.).
L’esecuzione all’estero di sentenza di condanna a pena detentiva avviene, ordinariamente, in tre ipotesi (art. 742 c.p.p.):
Ipotesi residuale, ove non ricorrano le citate condizioni, è quella di non concessione dell’estradizione da parte dello Stato estero ed il condannato si trovi nello Stato richiesto (l’ipotesi trova giustificazione nel fatto che, altrimenti, la pena irrogata non troverebbe concreta attuazione).
Le due fondamentali condizioni perché l'esecuzione all'estero della pena detentiva possa essere domandata o concessa sono (art. 742):
L’esecuzione di condanne a pena detentiva all’estero, come nel caso di procedura passiva, sono sottoposte ad una preventiva procedura giurisdizionale di cui è, al solito, protagonista la corte d’appello del distretto che ha pronunciato la sentenza.
La procedura è promossa dal ministro della giustizia (eventualmente anche su richiesta dell’autorità giudiziaria) dallo Stato estero o dalla stessa persona condannata e vede le seguenti fasi:
L’art. 744 c.p.p. ha previsto specifici limiti all’esecuzione all’estero della condanna a pena restrittiva della libertà personale. Secondo tale norma, in nessun caso il ministro della giustizia può domandare l'esecuzione all'estero di una sentenza penale di condanna a pena restrittiva della libertà personale se si ha motivo di ritenere che il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.
In tale circostanza è il ministro della giustizia, e non l’autorità giudiziaria, ad operare le valutazioni del caso essendo queste ultime basate su situazioni estranee allo svolgimento del procedimento penale straniero e bensì attinenti a situazioni ad esso estranee, per le quali i canoni di giudizio sono più di carattere politico-sociale che non giuridici.
Come nel caso opposto – se è domandata l’esecuzione all’estero di sentenza di condanna italiana a pena detentiva - sarà possibile all’autorità italiana (in tal caso, il ministro della giustizia) domandare all’autorità estera di sottoporre a custodia cautelare il condannato che si trovi sul territorio di detto Stato (art. 745 c.p.p.).
Per impedire che il condannato, per un unico titolo restrittivo della libertà personale, possa essere sottoposto più volte alla stessa pena, l’art. 746 prevede:
Il Parlamento ha approvato la legge 2 luglio 2010, n. 108, con la quale ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), conseguementemente adeguando l'ordinamento interno.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani fatta a Varsavia il 16 maggio 2005, si pone come obiettivo la prevenzione e la lotta, in ambito sia nazionale sia internazionale, contro la tratta degli esseri umani in tutte le sue forme, collegate o meno alla criminalità organizzata, ed in relazione a tutte le vittime, siano esse donne, bambini o uomini. La Convenzione non riguarda unicamente la tratta a fini di sfruttamento sessuale, ma anche il lavoro forzato e altre pratiche di traffico illecito delle persone e si ispira al principio della protezione e della promozione dei diritti delle vittime che devono essere tutelati senza alcuna discriminazione. La Convenzione, che l’Italia ha firmato nel giugno 2005, è entrata in vigore il 1° febbraio 2008, con la ratifica da parte della Repubblica di Cipro: sono state infatti soddisfatte le condizioni (recate dall’articolo 42, paragrafo 3 della Convenzione medesima) del deposito di 10 strumenti di ratifica, tra i quali almeno otto di Stati membri del Consiglio d’Europa.
La Convenzione si caratterizza per l’ampia portata degli obiettivi cui si ispira; essa, infatti, da un lato disciplina il fenomeno della tratta nel suo complesso - considerata una violazione dei diritti umani e un affronto alla dignità e all’integrità delle persone - individuando misure finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno e, dall’altro, garantisce alle vittime standards di tutela ispirati al principio del riconoscimento dei diritti fondamentali dell’individuo.
La Convenzione ha l’obiettivo di:
La Convenzione adotta una prospettiva fondata sui diritti degli esseri umani, con particolare attenzione alla protezione delle vittime, e prevede un meccanismo di controllo indipendente, al fine di garantire il rispetto della Convenzione. La Convenzione di Varsavia pone in risalto il fatto che la tratta costituisce una violazione dei diritti umani e un affronto alla dignità e all’integrità delle persone, e che, in tal senso, occorre intensificare la protezione di tutte le sue vittime. Nessun altro testo internazionale prima di questo documento, ha fissato una definizione di vittima, in quanto veniva lasciato a ciascun Stato il compito di definire chi doveva essere considerato una vittima, potendo quindi usufruire delle misure di tutela e di assistenza. Nella Convenzione del Consiglio d’Europa si definisce vittima ogni persona oggetto di tratta e viene stabilito, inoltre, un elenco di disposizioni obbligatorie di assistenza a favore delle vittime della tratta. In particolare, le vittime della tratta devono ottenere un’assistenza materiale e psicologica, e un supporto per il loro reinserimento nella società. Tra le misure previste, sono indicate le cure mediche, le consulenze legali, le informazioni e la sistemazione in un alloggio adeguato. Si prevede, inoltre, un risarcimento per un periodo di ristabilimento e di riflessione di almeno 30 giorni. Vi è anche la possibilità di rilasciare dei permessi di soggiorno alle vittime della tratta, o per ragioni umanitarie, oppure nel quadro della loro cooperazione con le autorità giudiziarie. La Convenzione prevede anche una possibile scriminante per loro coinvolgimento delle vittime della tratta in attività illegali, nella misura in cui vi siano state costrette.
Quanto al contenuto, la Convenzione si compone di 47 articoli riuniti in dieci capitoli preceduti da un Preambolo in cui sono richiamati i principali strumenti internazionali pertinenti la lotta alla tratta di esseri umani. Per u approfondimento analitico della Convenzione si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera dei deputati.
La ratifica della Convenzione di Varsavia avvia il proprio iter parlamentare al Senato con la presentazione nel marzo 2010 del disegno di legge del Governo A.S. 2043. Approvato dal Senato nell'aprile dello stesso anno, il provvedimento è definitivamente licenziato dalla Camera nel giugno 2010.
La legge si compone di soli 4 articoli: i primi due sono dedicati alla ratifica ed all'ordine di esecuzione della Convenzione e l'ultimo contiene la consueta clausola di invarianza finanziaria.
L'articolo 3 della legge 108/2010 novella invece le fattispecie penali già previste dal codice per punire la tratta di esseri umani. Si ricorda, infatti, che la repressione di tali condotte è sanzionata nel nostro ordinamento a partire dal 2003, ovvero dall'entrata in vigore della legge 228/2003 (Misure contro la tratta di persone), che ha modificato gli articoli 600, 601 e 602 del codice penale.
In ragione dell'intervento legislativo del 2003, l'ordinamento italiano non ha avuto bisogno di pesanti misure di adeguamento alla Convenzione di Varsavia e si è rivelata sufficiente una novella delle circostanze aggravanti dei già previsti delitti di tratta.
La tratta degli esseri umani è punita dal codice penale agli articoli:
Per tali fattispecie di reato, tutte punite con la reclusione da otto a venti anni, il codice dal 2003 prevedeva le medesime circostanze aggravanti (da cui derivava l’aumento della pena da un terzo alla metà) collegate alla minore età della vittima, ovvero alla finalizzazione del delitto allo sfruttamento della prostituzione o al traffico di organi.
La legge 108/2010 ha abrogato le singole aggravanti previste dagli articoli 600, 601 e 602 introducendo nel codice penale un nuovo articolo (art. 602-ter), rubricato Circostanze aggravanti. La disposizione, in relazione ai citati delitti, conferma l’aumento da un terzo alla metà della pena nelle ipotesi già previste dalle norme previgenti (persona offesa minore di 18 anni e fatti diretti allo sfruttamento della prostituzione o commessi al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi), aggiungendo un'ulteriore circostanza aggravante per l'ipotesi in cui dal fatto derivi un grave pericolo per la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa (primo comma).
L’articolo 20 della Convenzione di Varsavia impegna le parti ad attribuire rilevanza penale ai seguenti atti, in quanto commessi intenzionalmente al fine di consentire la tratta degli esseri umani:
Conseguentemente, il secondo comma dell’articolo 602-ter, introdotto dall’articolo 3 della legge, introduce una nuova circostanza aggravante applicabile ai delitti di Falsità in atti di cui al Titolo VII, Capo III, del Libro II.
Tale Capo in particolare disciplina i reati di falsità materiale e di falsità ideologica (posti in essere da parte del pubblico ufficiale o del privato) ovvero, rispettivamente, condotte che riguardano la formazione di documenti falsi e l’alterazione di documenti veri, o che attengono alla veridicità del contenuto di atti materialmente integri. Il suddetto Capo punisce anche la distruzione, soppressione e l’occultamento di documenti veri, nonché l’uso di atti falsi.
In particolare, la legge prevede un aumento delle pene da un terzo alla metà nel caso in cui tali fatti siano commessi al fine di realizzare o agevolare i delitti di Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, Tratta di persone e Acquisto e alienazione di schiavi.
Il Parlamento ha approvato la legge 116/2009, con la quale ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione (c.d. Convenzione di Merida) ed ha dettato norme di adeguamento interno.
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e aperta alla firma a Merida dal 9 all’11 dicembre dello stesso anno, è entrata in vigore a livello internazionale il 14 dicembre 2005.
La Convenzione si articola in un Preambolo e 71 articoli suddivisi in VIII titoli. In particolare, il titolo I espone l'oggetto della Convenzione, definisce i termini impiegati nel corpo del testo, ne enuncia il campo di applicazione e ricorda il principio di protezione della sovranità degli Stati parte.
Agli obblighi posti agli Stati parte per l'adozione di efficaci politiche di prevenzione della corruzione è dedicato l’intero titolo II, che prevede diverse misure miranti al tempo stesso a coinvolgere il settore pubblico e il settore privato. Esse includono meccanismi istituzionali, quali la creazione di uno specifico organo anticorruzione, codici di condotta e politiche favorevoli al buon governo, allo stato di diritto, alla trasparenza e alla responsabilità. Da notare specialmente che la Convenzione sottolinea il ruolo importante della società civile, in particolare di organizzazioni non governative e di iniziative a livello locale, e invita gli Stati parte a incoraggiare attivamente la partecipazione dell'opinione pubblica e la sensibilizzazione di essa al problema della corruzione.
Per quanto concerne le misure penali (titolo III), la Convenzione pone in capo agli Stati parte l'obbligo di conferire carattere penale a una grande diversità di infrazioni correlate ad atti di corruzione, qualora esse non siano già nel diritto interno definite come infrazioni penali. Rispetto ad alcuni atti la Convenzione rende l'incriminazione imperativa, mentre agli Stati parte è indicata la prospettiva di individuare figure supplementari di infrazione. Un elemento innovativo della Convenzione contro la corruzione è l’ampliamento del campo di applicazione: essa non prende in considerazione solamente forme elementari e "tradizionali" di corruzione, ma anche atti commessi allo scopo di facilitare la corruzione stessa, quali l'ostacolo al buon funzionamento della giustizia, o la ricettazione o il riciclaggio di proventi della corruzione. Infine, la sezione della Convenzione dedicata agli aspetti penali tratta altrettanto efficacemente della corruzione nel settore privato.
Per quanto concerne la cooperazione internazionale (titolo IV), la Convenzione ne sottolinea l'essenzialità in tutti i momenti della lotta contro la corruzione (prevenzione, indagini, perseguimento dei responsabili, sequestro e restituzione dei beni illecitamente ottenuti). In base alla Convenzione sono previste specifiche forme di cooperazione internazionale, quali l'assistenza giudiziaria nel campo della raccolta e della trasmissione di elementi di prova, dell'estradizione, del congelamento, sequestro e confisca dei proventi della corruzione. A differenza dei precedenti strumenti internazionali, la Convenzione prevede una mutua assistenza giudiziaria anche in assenza di doppia incriminazione - ossia dell’esistenza della figura di reato in entrambi gli ordinamenti nazionali -, qualora tale assistenza non implichi misure coercitive.
Uno dei principi più innovativi e fondamentali della Convenzione è quello della restituzione dei beni o somme illecitamente ottenuti (titolo V) attraverso la corruzione stessa: una sezione della Convenzione precisa le modalità di cooperazione e di mutua assistenza in vista della restituzione dei proventi della corruzione a uno Stato parte che ne faccia richiesta, come anche a singoli individui vittime della corruzione o legittimi proprietari.
Il titoli VI e VII comprendono articoli che riguardano rispettivamente l’uno l’assistenza tecnica e lo scambio di informazioni, l’altro i meccanismi applicativi della Convenzione. Le clausole finali (titolo VIII) riguardano, tra l’altro, l’attuazione della Convenzione, i meccanismi di composizione delle controversie e di denuncia della Convenzione, la cui entrata in vigore è stabilita il novantesimo giorno successivo al deposito del trentesimo strumento di ratifica. Per un esame più analitico del contenuto della Convenzione si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera del luglio 2009.
Il provvedimento avvia l'iter nel luglio del 2008 al Senato, dove sono presentati dall'opposizione due disegni di legge (solo successivamente interverrà il disegno di legge del Governo AS. 1594), che riprendevano una proposta legislativa d’iniziativa governativa approvata all'unanimità nella XV° legislatura dalla sola Camera dei deputati, e poi decaduta per l’anticipato termine della stessa legislatura. Il testo unificato approvato dal Senato il 26 giugno 2009 sarà recepito dalla Camera e definitivamente approvato il 29 luglio dello stesso anno.
I primi due articoli della legge 116/2009 autorizzano, come di consueto, la ratifica e l’esecuzione della c.d. Convenzione di Merida.
L’articolo 3 della legge – al fine di adeguare l’ordinamento interno alle previsioni dell’articolo 16 della Convenzione – novella il secondo comma, numero 2), dell’art. 322-bis del codice penale, relativo al delitto di peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri.
Il testo novellato prevede che la punibilità dei fatti di istigazione alla corruzione o di corruzione, per coloro che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell'ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali sussista non soltanto qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali ma anche al fine di ottenere o di mantenere un'attività economica o finanziaria.Si sottolinea che sul medesimo articolo del codice penale sono poi intervenute anche la legge 190/2012 e la legge 237/2012, che non hanno modificato però gli aspetti introdotti dalla legge in commento.
L'articolo 4 della legge 116/2009 – adeguando l’ordinamento italiano alle previsioni dell’articolo 26 della Convenzione - inserisce un nuovo articolo nel decreto legislativo 231/2001, in tema di responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche. Il nuovo articolo 25-decies è volto a sanzionare l’ente in relazione alla commissione del delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, di cui all’art. 377-bis, c.p. Laddove si ravvisi in relazione alla commissione del delitto una responsabilità della persona giuridica, dovrà applicarsi all’ente la sanzione pecuniaria fino a 500 quote.
L'articolo 5 – per adeguare l’ordinamento italiano alle previsioni del Titolo V della Convenzione, relativo alla restituzione dei beni - inserisce due ulteriori articoli nel libro XI del codice di procedura penale, dedicato ai rapporti con le autorità straniere. Le nuove disposizioni (articoli 740-bis e 740-ter c.p.p.) attengono, in particolare, alla devoluzione allo Stato estero interessato dei beni confiscati sul territorio italiano in esecuzione di provvedimenti di confisca adottato all’estero.
Il tema non è nuovo al nostro ordinamento. Basti ricordare che con la legge 9 agosto 1993, n. 328 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, fatta a Strasburgo l'8 novembre 1990) sono state introdotte nel codice una serie di disposizioni che permettono l’esecuzione di un provvedimento di confisca straniero attraverso il riconoscimento della sentenza che lo dispone (art. 735-bis c.p.p.); di consentire indagini e il sequestro, su richiesta di un’autorità straniera, su beni che potrebbero divenire oggetto di confisca (art. 737-bis) e di richiedere alle autorità estere lo svolgimento di indagini agli stessi fini cautelari (art. 745, comma 2-bis).
Il nuovo articolo 740-bis c.p.p. prevede che, in presenza di appositi accordi internazionali (come ad esempio la convenzione oggetto di ratifica), le cose confiscate con sentenza definitiva o con altro provvedimento irrevocabile debbano essere devolute allo Stato estero nel quale è stata pronunciata la sentenza ovvero è stato adottato il provvedimento di confisca (comma 1). Ciò in quanto (comma 2):
Il nuovo articolo 740-ter c.p.p. stabilisce – in riferimento al relativo ordine di devoluzione delle cose confiscate - che debba essere la Corte d’appello, nel provvedimento con il quale delibera il riconoscimento della sentenza straniera o del provvedimento di confisca, a ordinare contestualmente la devoluzione della cose confiscate ai sensi dell’art. 740-bis (comma 1). Copia del provvedimento dovrà essere trasmessa al Ministro della giustizia che concorderà con lo Stato estero richiedente le modalità della devoluzione (comma 2).
L’articolo 6 della legge designa quale Autorità nazionale anticorruzione, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, il soggetto al quale l’articolo 68, comma 6-bis, del D.L. 112/2008 ha trasferito le competenze dell’Alto Commissario anticorruzione (soppresso dal comma 6 dello stesso articolo 68), ovvero il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, dando a quest’ultimo la facoltà di delegare un sottosegretario di Stato. Su questa designazione è poi intervenuta la c.d. legge anticorruzione (legge 190/2012) che all'art. 1, comma 2 ha individuato quale Autorità nazionale anticorruzione la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT).
La finalità dell’individuazione di tale Autorità consiste, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, nella prevenzione della corruzione attraverso l’applicazione delle politiche previste dalla Convenzione (e, ove necessario, la supervisione ed il coordinamento di tale applicazione) nonché l’accrescimento e la diffusione delle conoscenze concernenti la prevenzione della corruzione.
L’articolo 7, infine, individua nel Ministro della giustizia l’autorità centrale richiesta dalla Convenzione (articolo 46, paragrafo 13) per ricevere le richieste di assistenza giudiziaria ed eseguirle o trasmetterle alle autorità competenti per l’esecuzione.
Il Parlamento ha approvato la legge 1 ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote). Il provvedimento detta alcune norme di adeguamento dell'ordinamento interno volte a modificare il codice penale (introducendo i nuovi reati di adescamento di minorenni, anche attraverso Internet, e di istigazione e apologia di pratiche di pedofilia e di pedopornografia), il codice di procedura penale e l’ordinamento penitenziario.
La Convenzione di Lanzarote, entrata in vigore il 1° luglio 2010, è il primo strumento internazionale con il quale si prevede che gli abusi sessuali contro i bambini siano considerati reati. Oltre alle fattispecie di reato più diffuse in questo campo (abuso sessuale, prostituzione infantile, pedopornografia, partecipazione coatta di bambini a spettacoli pornografici), la Convenzione disciplina anche i casi di grooming (adescamento attraverso internet) e di turismo sessuale.
La Convenzione delinea misure preventive che comprendono lo screening, il reclutamento e l’addestramento di personale che possa lavorare con i bambini al fine di renderli consapevoli dei rischi che possono correre e di insegnare loro a proteggersi, stabilisce inoltre programmi di supporto alle vittime, incoraggia la denuncia di presunti abusi e di episodi di sfruttamento e prevede l’istituzione di centri di aiuto via telefono o via internet. Per una descrizione più analitica dei contenuti della Convenzione si veda il dossier del Servizio studi della Camera.
La legge 172/2012 ha avuto un complesso iter di approvazione, che ha richiesto un triplice intervento di Camera e Senato.
L'iter prende avvio alla Camera nel luglio del 2009, con la calendarizzazione in Commissione giustizia del disegno di legge del Governo A.C. 2326; approvato nel gennaio 2010, il disegno di legge è ampiamente modificato dal Senato (ottobre 2010): in questa prima fase Camera e Senato hanno impostazioni differenti per quanto riguarda le modifiche da apportare al codice penale, come traspare chiaramente dall' A.C. 2326-B. Trovato un accordo sulle novelle al codice, e segnatamente sulla configurazione del nuovo reato di "Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia", le Camere continuanoa a divergere sulla competenza per le indagini sui delitti di sfruttamento sessuale dei minori e sulla durata delle pene accessorie in caso di condanna per delitti in danno di minori (come si evince dall' A.C. 2326-D, trasmesso dal Senato nel maggio 2012). Da ultimo, il 19 settembre 2012 il Senato approva definitivamente il provvedimento che diviene legge.
Nel corso di questo complesso iter, che ha coinvolto oltre alle commissioni di merito (Giustizia e Affari esteri) molte altre commissioni chiamate ad esprimere nelle varie fasi un parere sul contenuto del provvedimento, sia la Camera che il Senato hanno svolto alcune audizioni informali. Sono stati in particolare sentiti alcuni funzionari del Ministero dell'Interno - in ordine alle indagini informatiche per la prevenzione e repressione dei delitti in danno di minori - alcuni procuratori della Repubblica ed il procuratore nazionale antimafia - per stabilire quale procura, distrettuale o circondariale, fosse meglio attrezzata per le indagini - i rappresentanti delle Associazioni telefono azzurro e telefono Arcobaleno.
I primi due articoli della legge 172/2012 sono dedicati all'autorizzazione alla ratifica della Convenzione (articolo 1) e all'ordine di esecuzione (articolo 2). L'articolo 3 individua nel Ministero dell’interno l’autorità nazionale responsabile in relazione alla registrazione e conservazione dei dati nazionali sui condannati per reati sessuali rinviando alla disciplina prevista dalla L. 85/2009, di ratifica del Trattato di Prum (v. Legge 85/2009 - Istituzione della banca dati del DNA).
Il Capo II della legge detta le disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno, tra le quali spicca l'articolo 4, che prevede rilevanti novelle al codice penale.
La lettera a) dell'articolo 4 interviene sulla disciplina della prescrizione del reato (art. 157 c.p.) prevedendo che per alcune ipotesi di reato – ulteriori rispetto a quelle già previste dal codice - i termini di prescrizione siano raddoppiati. Aggiungendo un periodo nel sesto comma dell’art. 157 la legge prevede il raddoppio dei termini necessari a prescrivere il reato per le seguenti fattispecie:
La lettera b) introduce, dopo l’articolo 414 del codice penale (Istigazione a delinquere) - e dunque tra i delitti contro l’ordine pubblico di cui al Titolo V - l’articolo 414-bis contenente una nuova fattispecie di reato denominata “Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia”.
Si ricorda che nel corso dell’esame del provvedimento alla Camera, in prima lettura, si è dibattuto in ordine all’opportunità di introdurre una disposizione specifica volta a punire l’istigazione o l’apologia dei reati sopra indicati, in considerazione dell’applicabilità anche a tali reati della disciplina generale prevista dall’art. 414 c.p. (cfr., in particolare, la seduta della Commissione giustizia del 1° dicembre 2009).
La nuova fattispecie punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni, e salvo che il fatto costituisca più rave reato, chiunque, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi forma di espressione, pubblicamente istiga a commettere, in danno di minori, uno o più dei seguenti delitti (primo comma):
Si sottolinea come la pena prevista dalla nuova fattispecie (da un anno e sei mesi a cinque anni) sia più alta nel minimo rispetto a quella prevista in generale dall’articolo 414 c.p. per l’istigazione a commettere delitti e per l’apologia di reato (reclusione da uno a cinque anni).
In base al secondo comma dell'art. 414-bis, la stessa pena (reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni) si applica anche a chiunque pubblicamente faccia l’apologia dei suddetti delitti.
Infine, il terzo comma esclude che ragioni o finalità artistiche, letterarie, storiche o di costume possano essere invocate come scusante dall’autore della condotta.
La lettera c) novella la fattispecie di associazione a delinquere, prevista dall’art. 416 del codice penale, aggiungendovi un comma affinché in relazione ai seguenti delitti:
i partecipanti all’associazione a delinquere siano soggetti alla reclusione da 2 a 6 anni mentre i capi, gli organizzatori, i promotori e i costitutori dell’associazione siano soggetti alla reclusione da 4 a 8 anni. Si ricorda che tali sanzioni scatteranno al semplice costituirsi dell’associazione, anche se i suddetti delitti non siano poi effettivamente commessi; se invece i delitti sono commessi, gli autori materiali risponderanno del reato di associazione per delinquere, in concorso con il reato in oggetto.
La successiva lettera d) riscrive la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 del codice penale.
Normativa previgente | Legge 172/2012 |
Codice penale, art. 572 | |
Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli | Maltrattamenti contro familiari e conviventi |
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. | Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. |
La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di persona minore degli anni quattordici. | |
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni. | Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. |
Rispetto alla precedente formulazione, la legge apporta alla fattispecie penale le seguenti correzioni:
La lettera e) modifica l’art. 576 del codice penale, relativo alle circostanze aggravanti dell’omicidio che comportano l’applicazione della pena dell’ergastolo.
Sulla stessa disposizione prima della ratifica della Convenzione di Lanzarote era intervenuto anche il decreto-legge 11/2009 che ha previsto l’ergastolo se l’omicidio è commesso in occasione della commissione del delitto di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.) e di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.). A tali fattispecie la legge 172/2012 aggiunge le seguenti: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572); prostituzione minorile (art. 600-bis); pornografia minorile (art. 600-ter, c.p.).
La lettera f) novella l’art. 583-bis del codice, in tema di mutilazioni genitali femminili, inserendovi un ulteriore comma mediante il quale introduce le seguenti pene accessorie per l’ipotesi in cui il delitto sia commesso dal genitore o dal tutore:
Le lettere da g) a q) dell'articolo 4, comma 1, della legge 172/2012 apportano modifiche alla sezione I (Dei delitti contro la personalità individuale) del capo terzo (Dei delitti contro la libertà individuale) del libro secondo del codice penale (articoli da 600 a 604).
In particolare, la legge riscrive il delitto di prostituzione minorile previsto dall’art. 600-bis del codice penale.
Normativa previgente | Legge 172/2012 |
Codice penale, art. 600-bis Prostituzione minorile |
|
Chiunque induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero ne favorisce o sfrutta la prostituzione è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.493 a euro 154.937. | È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.000 a euro 150.000 chiunque: 1. recluta o induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto; 2. favorisce, sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne trae profitto. |
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 5.164. | Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità, anche solo promessi, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000. |
Nel caso in cui il fatto di cui al secondo comma sia commesso nei confronti di persona che non abbia compiuto gli anni sedici, si applica la pena della reclusione da due a cinque anni. | Soppresso |
Se l'autore del fatto di cui al secondo comma è persona minore di anni diciotto si applica la pena della reclusione o della multa, ridotta da un terzo a due terzi. | Soppresso |
In sintesi, la legge:
La lettera h) novella l’art. 600-ter in tema di pornografia minorile, sostituendo il primo comma e inserendone due ulteriori.
Normativa previgente | Legge 172/2012 |
Codice penale, articolo 600-ter Pornografia minorile primo comma |
|
Chiunque, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 25.822 a euro 258.228. | È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000 chiunque: 1. utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico; 2. recluta o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici ovvero dai suddetti spettacoli trae altrimenti profitto. |
Con la sostituzione del primo comma la legge, oltre a ridurre leggermente l’entità della pena pecuniaria, integra la condotta che costituisce reato. In particolare:
Con i nuovi commi la riforma:
La legge 172/2012 abroga l’art. 600-sexies c.p., relativo alle circostanze aggravanti e attenuanti dei delitti pedopornografici, optando per l’inserimento di tutte le aggravanti dei delitti pedopornografici in chiusura della sezione, nell’art. 602-ter c.p. (v. infra); per quanto riguarda invece le attenuanti, occorre ora fare riferimento all’art. 600-septies.1 (v. infra).
La lettera l) dell'articolo 4 sostituisce l’articolo 600-septies del codice penale, originariamente inerente alla confisca e alle pene accessorie in caso di condanna per delitti contro la personalità individuale (artt. 600-604 c.p.), e dunque anche per i delitti di natura sessuale in danno di minori, per dedicare questa disposizione del codice penale esclusivamente alla confisca, eliminando dunque ogni riferimento alle pene accessorie, di cui si occupa il successivo art. 600-septies.2 (v. infra). La legge dispone che la confisca si applica non solo ai delitti contro la personalità individuale, ma anche ai delitti di violenza sessuale commessi in danno di minori o aggravati dalle circostanze indicate e riguarda:
In virtù del richiamo all’art. 322-ter, terzo comma, c.p., spetterà al giudice, con la sentenza di condanna, determinare le somme di denaro o individuare i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.
La lettera m) inserisce due nuovi articoli nel codice penale, relativi rispettivamente alle circostanze attenuanti e alle pene accessorie. In particolare, l’articolo 600-septies.1 prevede una sola circostanza attenuante dei delitti contro la personalità individuale (artt. 600-604, c.p.) consentendo che la pena possa essere diminuita da un terzo fino alla metà a colui che, concorrente nel reato, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o fornisce elementi concreti alle autorità per l'individuazione o la cattura di uno o più autori del reato (tale attenuante era precedentemente prevista dall’art. 600-sexies, quinto comma).
L’articolo 600-septies.2 disciplina le pene accessorie. In particolare, se in precedenza alla condanna (o al patteggiamento della pena) per uno dei delitti contro la personalità individuale conseguiva l'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole o in strutture frequentate prevalentemente da minori, la legge prevede invece per tali delitti e per il delitto di cui all’art. 414-bis (istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia), le seguenti conseguenze:
La lettera n), con finalità di coordinamento, abroga l’art. 602-bis, c.p.
La lettera o) interviene sull’art. 602-ter del codice penale per farne il contenitore di tutte le aggravanti dei delitti contro la personalità individuale contenuti nella sezione. In particolare, l'art. 602-ter prevede un aumento di pena da un terzo alla metà nelle seguenti ipotesi:
Un più severo aumento di pena – dalla metà ai due terzi – è previsto dalla legge nei seguenti casi:
L’ultimo comma introdotto nell’art. 602-ter specifica che laddove sussistano attenuanti (diverse dall’attenuante per minore età di cui all’art. 98 o dall’attenuante di cui all’art. 114 per colui che ha avuto una minima importanza nel fatto ovvero è stato determinato da altri a commetterlo), e queste concorrano con le aggravanti previste nei commi precedenti, il giudice non potrà mai ritenere le attenuanti prevalenti o equivalenti alle circostanze aggravanti dovendo dunque calcolare eventuali diminuzioni di pena sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle aggravanti.
La lettera q) novella l’art. 604 c.p., relativo all’applicabilità delle disposizioni sui delitti di sfruttamento sessuale dei minori e sui delitti di violenza sessuale ai fatti commessi all’estero da cittadini italiani, in danno di cittadini italiani ovvero da stranieri in concorso con italiani. In particolare, la legge integra l’elenco dei delitti ivi previsti aggiungendovi la violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies) e l’adescamento di minorenne (art. 609-undecies).
Il testo dell'art. 609-sexies c.p. in vigore prima della legge 172/2012 prevedeva che il colpevole dei delitti di violenza sessuale, atti sessuale con minorenne, corruzione di minorenne e violenza sessuale di gruppo in danno di un minore degli anni quattordici non potesse invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa. L’inescusabilità dell’ignoranza dell’età della persona offesa riguardava dunque solo alcuni delitti commessi in danno di minore degli anni 14. La legge modifica questa disciplina attraverso due interventi:
Le lettere da r) a z) novellano le disposizioni del codice penale contenute nella Sezione II, Dei delitti contro la libertà personale, con particolare riferimento ai c.d. delitti a sfondo sessuale di cui agli articoli da 609-bis a 609-decies.
In particolare, la lettera r) interviene sul delitto di atti sessuali con minorenne, previsto l’art. 609-quater c.p., sostituendo il secondo comma della disposizione. La legge inserisce dunque fra i possibili autori del delitto:
La lettera s) sostituisce l’articolo 609-quinquies, relativo al delitto di corruzione di minorenne, inasprendo la pena (reclusione da uno a cinque anni) e inserendo due ulteriori commi attraverso i quali:
La lettera u) novella l’articolo 609-nonies del codice penale in tema di pene accessorie dei delitti di violenza sessuale, apportando alla normativa previgente le seguenti modifiche:
La lettera v) novella l’articolo 609-decies del codice penale, relativo alla comunicazione al tribunale per i minorenni. La legge, oltre a inserire il delitto di adescamento di minorenni di cui all’art. 609-undecies fra i delitti che comportano l’obbligo per il PM di avvisare il tribunale per i minorenni (comma primo), amplia le categorie di soggetti che possono assicurare al minore vittima del reato assistenza affettiva e psicologica nel corso del procedimento penale (comma secondo). In particolare, vengono aggiunti gruppi, fondazioni, associazioni, organizzazioni non governative purché presentino le seguenti caratteristiche: abbiano comprovata esperienza nel settore dell'assistenza e del supporto alle vittime dei reati a sfondo sessuale in danno di minori; siano iscritti in un apposito elenco; ricevano il consenso del minorenne. Peraltro, anche la presenza di questi soggetti dovrà essere ammessa dall’autorità giudiziaria.
Da ultimo, la lettera z), al fine di dare attuazione all’art. 23 della Convenzione, inserisce fra i delitti contro la libertà personale l’adescamento di minorenni (art. 609-undecies). La nuova fattispecie di adescamento – così come la fattispecie di istigazione introdotta con l’art. 414-bis – è volta ad anticipare la soglia della punibilità, sanzionando un comportamento che in realtà precede l'abuso sul minore. La fattispecie penale presenta le seguenti caratteristiche:
- tipo di reato: comune, può essere commesso da chiunque;
- elemento soggettivo: dolo specifico, è necessario che il soggetto agente abbia agito al fine di commettere uno dei seguenti delitti:
- condotta: adescare un minore di 16 anni, ovvero compiere atti idonei a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce, anche attraverso l'utilizzazione della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione;
- pena: reclusione da 1 a 3 anni.
L'articolo 5 della legge 172/2012 modifica il codice di procedura penale. In particolare, la lettera a) interviene sull’art. 51 del codice di rito, per quanto riguarda i delitti di competenza della procura distrettuale. Dopo una lunga navette e un ampio dibattito, il Parlamento ha mantenuto le precedenti competenze della procura distretturale, aggiungendo la competenza alle indagini per i delitti di istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia (art. 414-bis c.p.) e adescamento di minorenni (art. 609-undecies c.p.).
La lettera b) interviene sull’art. 282-bis del codice di rito, relativo alla misura coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare per ampliare il catalogo dei delitti che – se commessi in danno dei prossimi congiunti o dei conviventi – possono comportare la misura dell’allontanamento dalla casa familiare a prescindere dai limiti edittali di pena. In particolare, intervenendo sul comma 6 dell’art. 282-bis, vengono aggiunti i seguenti delitti: riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600, c.p.); tratta di persone (art. 601, c.p.); acquisto e alienazione di schiavi (art. 602, c.p.).
Le lettere c), d) ed f) dell’articolo 5 novellano gli articoli 351, 362 e 391-bis del codice di procedura penale, in tema di informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari rispettivamente dalla polizia giudiziaria, dal PM e dal difensore. In particolare, le novelle inseriscono nelle tre disposizioni del codice di rito un ulteriore comma volto a prevedere che nei procedimenti per delitti di sfruttamento sessuale dei minori (artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater.1 e 600-quinquies), di tratta di persone (artt. 600, 601 e 602), di violenza sessuale (artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies) e di adescamento di minori (art. 609-undecies), se la polizia giudiziaria o il pubblico ministero o il difensore devono assumere informazioni da minorenni, occorre che procedano con l’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile. Se le informazioni sono assunte dalla polizia, dovrà essere comunque il PM a nominare l’esperto.
La lettera e) novella l’art. 380 del codice di procedura penale inserendo nel catalogo dei delitti per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza di reato la fattispecie di atti sessuali con minorenne di cui all’art. 609-quater, primo e secondo comma.
Le lettere g) e h) intervengono sull’istituto dell’incidente probatorio con particolare riferimento ai suoi presupposti (art. 392, c.p.p.) e alle modalità di svolgimento (art. 398, c.p.p.). In particolare, la lettera g) interviene sull’art. 392, comma 1-bis inserendo nel catalogo dei delitti che consentono il ricorso a questo mezzo di acquisizione della prova la nuova fattispecie di adescamento di minorenni (nuovo art. 609-undecies). Analogo intervento è operato dalla lettera h) sull’art. 398, comma 5-bis.
La lettera i) novella l’art. 407 del codice di procedura penale che fissa i termini di durata massima delle indagini preliminari. La legge integra il catalogo dei delitti per i quali le indagini possono avere durata biennale con l’inserimento del secondo comma dell’art. 600-ter, relativo al commercio del materiale pornografico minorile.
Infine, la lettera l) interviene sulla disciplina del patteggiamento (art. 444 c.p.p.) per escluderne l’applicazione per tutte le ipotesi di prostituzione minorile, definite dall’art. 600-bis del codice penale.
Infine, gli articoli da 6 a 9 della legge intevengono sul tema delle misure di prevenzione personali, di benefici penitenziari e di gratuito patrocinio.
In particolare, l'articolo 6 interviene sul Codice antimafia (d.lgs. 159/2011), che racchiude ora tutta la disciplina delle misure di prevenzione personali, per introdurre (nell'art. 8) la speciale prescrizione del divieto di avvicinamento a luoghi determinati, abitualmente frequentati da minori. Il giudice potrà imporre tale prescrizione, in sede di applicazione di una misura di prevenzione personale, a colui che per il proprio comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, dedito alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
L’articolo 7 interviene in materia di concessione di benefici penitenziari ai condannati per delitti di prostituzione minorile e pedopornografia, nonché di violenza sessuale. A tal fine la legge 172, dando attuazione agli articoli 16 e 17 della Convenzione di Lanzarote, interviene in primo luogo sull’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), con le seguenti finalità:
E' conseguentemente inserito nell'ordinamento penitenziario l'art. 13-bis, che individua uno specifico trattamento psicologico per i condannati per reati di sfruttamento sessuale dei minori. La disposizione precisa che il trattamento ha finalità di recupero e di sostegno dei detenuti e che la partecipazione al trattamento è volontaria. Peraltro, l’ultimo periodo dell’art. 13-bis chiarisce che la partecipazione a questo trattamento psicologico è valutata ai fini della concessione dei benefici penitenziari, prevista dall’art. 4-bis, comma 1-quater (che, si ricorda, fa riferimento all’osservazione specifica della personalità).
L'articolo 8 interviene sull’art. 12-sexies del decreto-legge n. 306 del 1992 che disciplina, nell’ambito delle misure di prevenzione antimafia, una particolare ipotesi di confisca penale obbligatoria: la confisca dei beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato, o alla propria attività economica. La legge 172/2012 integra l’elenco dei reati per i quali è consentita questa particolare confisca inserendovi alcune ipotesi di prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma), pornografia minorile (art. 600-ter, primo e secondo comma), turismo sessuale (art. 600-quinquies) e pornografia virtuale (art. 600-quater.1, limitatamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico).
Infine, l'articolo 9 novella l’art. 76 del testo unico delle spese di giustizia (D.P.R. n. 115 del 2002), relativo alle condizioni per l’ammissione al patrocinio nel processo penale a spese dello Stato. La legge interviene sul comma 4-ter, che ammette al patrocinio, anche in deroga ai previsti limiti di reddito, la persona offesa da una serie di delitti per ampliare il catalogo dei reati a riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600), prostituzione minorile (art. 600-bis), pornografia minorile (art. 600-ter), turismo sessuale (art. 600-quinquies), tratta di persone (art. 601), acquisto e alienazione di schiavi (art. 602), corruzione di minorenne (art. 609-quinquies) e adescamento di minorenni (art. 609-undecies).
Il Parlamento ha approvato la legge 4 novembre 2010, n. 201, con la quale ha ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa del 1987, per la protezione degli animali da compagnia, dettando specifiche norme di adeguamento interno.
La Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia è stata fatta a Strasburgo il 13 novembre 1987 ed è in vigore dal 1° maggio 1992. La Convenzione si compone di un preambolo e di 23 articoli.
L’articolo 1 riporta alcune definizioni fondamentali per l’interpretazione della Convenzione, tra le quali quella di animali da compagnia, di allevamento e custodia di essi, di rifugio per animali, di animale randagio.
In base all’articolo 2 ciascuna delle Parti si impegna a provvedere all’attuazione delle disposizioni della Convenzione in esame con riferimento tanto agli animali da compagnia tenuti in alloggi domestici, in allevamenti e custodie o in rifugi, quanto se del caso agli animali randagi. E’ d’altronde previsto che ciascuna delle Parti possa adottare normative più rigorose di quelle dettate dalla Convenzione.
Gli articoli 3 e 4 riguardano i principi fondamentali per il benessere degli animali e per il loro mantenimento. E’ previsto che nessuno dovrà causare inutilmente sofferenze o angosce a un animale da compagnia, né tanto meno dare luogo al suo abbandono. Inoltre la responsabilità della salute e del benessere dell’animale è in capo al suo proprietario o comunque a chi abbia accettato di occuparsene. Cionondimeno, se l’animale si riveli incapace di adattarsi alla cattività esso non dovrà essere tenuto come animale da compagnia.
Gli articoli 5-7 riguardano la riproduzione, i limiti di età per l’acquisto di un animale da compagnia e le attività addestrative. E’ in particolare stabilito che nell’impiego di un animale da compagnia per la riproduzione si debba tener conto delle caratteristiche fisiologiche e comportamentali suscettibili di recare pericolo alla salute e al benessere della discendenza o della fattrice. Inoltre nessun animale dovrebbe essere venduto a minori di 16 anni in mancanza di un esplicito consenso di chi eserciti la potestà parentale. D’altra parte è vietata ogni forma di addestramento dannosa per la salute e il benessere dell’animale soprattutto se lo si costringa a prestazioni superiori alle sue capacità naturali, ovvero con l’utilizzazione di mezzi artificiali.
L’articolo 8 riguarda la detenzione di animali da compagnia a fini di commercio, allevamento, custodia a scopo di lucro, nonché i rifugi per scopi non commerciali. E’ dunque stabilito che chi eserciti le attività di cui al presente articolo, come anche chi intenda intraprendere una, sia tenuto a dichiararlo all’autorità competente, indicando in special modo , oltre alle specie animali oggetto dell’attività, le presone responsabili e le relative nozioni settoriali, e inoltre i locali e le attrezzature da utilizzare. L’autorità competente decide se quanto dichiarato in merito all’attività in essere o da intraprendere corrisponda ai canoni richiesti, e conseguentemente può vietare la prosecuzione o l’inizio dell’attività, ovvero raccomandare provvedimenti migliorativi.
In base all’articolo 9 è fatto divieto di utilizzare gli animali da compagnia nel campo della pubblicità, dello spettacolo, delle esposizioni o delle competizioni, qualora in tali attività ne vengano messi a rischio la salute e il benessere, ovvero le condizioni minime di corretto mantenimento. È inoltre previsto il divieto di somministrazione di sostanze o di applicazione di trattamenti agli animali da compagnia, tali da aumentarne o diminuirne il livello naturale di prestazione: il divieto è assoluto nel corso di competizioni, ed è limitato in tutti gli altri casi all’eventualità di rischi per la salute e il benessere dell’animale.
Gli articoli 10 e 11 concernono gli interventi chirurgici e l’uccisione di animali da compagnia. Per quanto riguarda il primo aspetto sono vietati gli interventi destinati a modificare il mero aspetto di un animale da compagnia, senza risvolti curativi - si elencano in particolare il taglio della coda o delle orecchie, la rescissione delle corde vocali e l’asportazione di unghie o denti. Unica eccezione ai divieti di cui in precedenza saranno gli interventi volti a impedire la riproduzione degli animali, o quelli che un veterinario giudicherà necessari per ragioni di medicina veterinaria o nell’interesse di un determinato animale.
Per quanto concerne gli interventi suscettibili di arrecare particolare dolore all’animale, essi dovranno essere effettuati esclusivamente in anestesia e da un veterinario, mentre è richiesto, per gli interventi non richiedenti anestesia, che siano praticati da una persona comunque competente.
L’uccisione di un animale da compagnia potrà essere praticata solo da un veterinario o da altra persona competente, ad eccezione di casi di urgenza nei quali si debba porre fine alle sofferenze di un animale. Principio-guida di ogni decisione è il minimo di sofferenze da arrecare all’animale, e il metodo prescelto dovrà consistere in una iniziale somministrazione anestetica profonda, seguita da un procedimento che provochi la morte in maniera assolutamente certa. Saranno comunque vietati metodi quali l’annegamento o l’asfissia, ovvero l’utilizzazione di veleni o droghe e anche l’uccisione mediante scariche elettriche, qualora non garantiscano la perdita di coscienza dell’animale prima della morte.
Gli articoli 12 e 13 riguardano le misure rivolte agli animali randagi, nei confronti dei quali sarà possibile adottare le misure necessarie a ridurne il numero qualora rappresenti un problema: tuttavia tali misure non dovranno causare se non il livello minimo di sofferenze fisiche e morali all’animale, tanto rispetto alla cattura che in ordine al mantenimento e alla soppressione del medesimo. E’ inoltre previsto un impegno (attenuato) delle Parti a considerare la possibilità di procedere all’identificazione permanente dell’animale.
E’ però previsto che si potrà fare eccezione ai principi appena elencati in materia di cattura, mantenimento e soppressione degli animali, qualora ciò si renda indispensabile nell’ambito di piani governativi di controllo delle malattie.
L’articolo 14 impegna le Parti allo sviluppo di programmi di informazione e di istruzione per diffondere nei confronti dei soggetti interessati, individuali e collettivi, le disposizioni e i principi della Convenzione in oggetto. In particolare si dovrà richiamare l’attenzione di scoraggiare l’utilizzazione degli animali da compagnia come mero premio od omaggio, come anche il loro acquisto superficiale e lo sviamento di animali selvatici al rango di animali da compagnia.
Gli articoli 15 e 16 concernono rispettivamente le consultazioni multilaterali tra le Parti della Convenzione e le procedure di emendamento della medesima. Dopo cinque anni successivi all’entrata in vigore della Convenzione e in seguito ogni cinque anni - e comunque ogni volta che ne faccia richiesta la maggioranza delle Parti - si terranno consultazioni in seno al Consiglio d’Europa sull’attuazione, la revisione o l’estensione della Convenzione. Ciascuna consultazione si concluderà con la presentazione di un rapporto al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Infine, gli articoli 17-23 sono dedicati alle consuete clausole finali della Convenzione, alla quale è aperta la firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa, il cui Segretario Generale ne è altresì il depositario. E’ però previsto che dopo l’entrata in vigore il Comitato dei Ministri potrà invitare uno Stato membro del Consiglio d’Europa ad aderire alla Convenzione.
Il provvedimento di ratifica della Convenzione avvia il proprio iter alla Camera con la calendarizzazione da parte delle Commissioni riunite Giustizia e Affari esteri del disegno di legge del Governo AC. 2836. Dopo l'approvazione da parte della Camera, il provvedimento è modificato dal Senato e dunque torna per la definitiva approvazione - il 27 ottobre 2010 - alla Camera.
Come peraltro affermato dalla stessa relazione introduttiva del disegno di legge del Governo, nel periodo trascorso tra la firma della Convenzione da parte dell’Italia e la presentazione del disegno di ratifica, la legislazione nazionale – soprattutto con la legge 281/1991 - e le norme regionali di recepimento hanno già in gran parte attuato le disposizioni della Convenzione, in molti casi anche superandone le previsioni minime. Ciò che la legislazione italiana ancora non contemplava erano misure atte a scoraggiare la violazione dei divieti posti dall’articolo 10 della Convenzione, come anche a colpire l’illecita introduzione di animali da compagnia nel territorio italiano, in violazione, tra l’altro, dell’articolo 12 della Convenzione.
A tali scopi, la legge 201/2010 non solo autorizza la ratifica della Convenzione (articolo 1) e detta l'ordine di esecuzione (articolo 2), ma contiene dettagliate norme di carattere penale e amministrativo.
Gli articoli 3 e 4 della legge contengono norme penali. In particolare, l'articolo 3 novella gli artt. 544-bis (Uccisione di animali) e 544-ter (Maltrattamento di animali) del codice penale (introdotti dalla legge 189/2004, Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate) aumentando le relative pene. Si prevede:
E' questo l'articolo del provvedimento sul quale sono state evidenti le differenti opinioni di Camera e Senato, che hanno determinato una necessaria navette. In particolare, in prima lettura la Camera dei deputati era intervenuta sul delitto di uccisione di animali eliminando il requisito della crudeltà nell’uccisione ed aveva interamente riscritto il delitto di maltrattamento di animali (eliminando il requisito della crudeltà nella condotta; aumentando la pena; prevedendo esplicitamente che il delitto di maltrattamento sussiste anche quando l’animale da compagnia è sottoposto al taglio o all’amputazione della coda o delle orecchie, alla recisione delle corde vocali, all’asportazione delle unghie o dei denti ovvero ad altri interventi chirurgici destinati a modificarne l’aspetto o finalizzati a scopi non terapeutici; escludendo la punibilità nel caso di interventi eseguiti da un veterinario per scopi terapeutici o per impedire la riproduzione dell’animale o nel caso di interventi considerati dallo stesso medico veterinario utili al benessere di un singolo animale, nei casi stabiliti da apposito regolamento). Nel corso dell'esame in Senato, il relatore del provvedimento aveva evidenziato come le modifiche agli articoli 544-bis e 544-ter dovessero trovare un contemperamento di interessi fra le diverse categorie anche produttive interessate a tali fattispecie di reato (conseguentemente nella seduta del 14 aprile 2010 l’Assemblea del Senato aveva deliberato il rinvio in Commissione del provvedimento, essendo emerse esigenze di approfondimento riferite all’articolo 3). Con l'approvazione di un emendamento del Governo il Senato ha deciso per una modifica più limitata delle fattispecie penali, relativa alla sola entità della pena e la Camera ha infine aderito a questa impostazione.
L’articolo 4 della legge 201/2010 prevede una nuova fattispecie penale, il traffico illecito di animali da compagnia. La disposizione punisce con la reclusione da 3 mesi a un anno, e con la multa da 3.000 a 15.000 euro chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, reiteratamente o tramite attività organizzate, introduce in Italia animali da compagnia (come definiti dall'allegato I, parte A del regolamento comunitario n. 998 del 2003, ovvero cani e gatti) privi di certificazioni sanitarie e di sistemi di identificazione individuale (passaporto individuale, ove richiesto) ovvero, una volta introdotti nel territorio nazionale, li trasporta, cede o riceve. La pena è aumentata se gli animali:
In caso di condanna o di patteggiamento della pena, la legge prevede la confisca dell’animale, che sarà affidato alle associazioni o enti già individuate dalla legge del 2004, nonché la sospensione da tre mesi a tre anni dell'attività di trasporto, di commercio o di allevamento degli animali se la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta è pronunciata nei confronti di chi svolge le predette attività e, in caso di recidiva, l'interdizione dall'esercizio delle attività medesime.
I successivi articoli della legge disciplinano gli illeciti amministrativi, individuano le relative sanzioni e definiscono il procedimento di applicazione delle stesse.
In particolare, l’articolo 5 prevede che laddove il traffico illecito di animali da compagnia non integri gli estremi della fattispecie penale (ad esempio perché la condotta non è reiterata né svolta con attività organizzate), l’autore della condotta è soggetto alle seguenti sanzioni amministrative pecuniarie:
L’articolo 6 disciplina le sanzioni amministrative accessorie, che variano dalla sospensione – da uno a tre mesi - dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività (per il trasportatore o il titolare dell’azienda commerciale) alla revoca della stessa secondo il seguente schema:
Soggetto |
Condotta |
Sanzione |
Trasportatore o titolare di azienda commerciale |
Commissione, nel periodo di tre anni, di tre violazioni dell’articolo 5 (Introduzione illecita di animali da compagnia) |
Sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività da uno a tre mesi |
Se due violazioni sono commesse in un intervallo inferiore ai tre mesi |
Sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività per tre mesi |
|
Commissione, nel periodo di tre anni, di cinque violazioni dell’articolo 5 (Introduzione illecita di animali da compagnia) |
Revocadell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività. In tal caso non può essere conseguita un’altra autorizzazione per l’esercizio della medesima attività prima di dodici mesi |
|
Titolare di azienda commerciale |
Commissione, nel periodo di tre anni, di tre violazioni dell’articolo 13-bis, c. 3, d.lgs. 28/1993 (in materia di scambi intracomunitari di animali, inottemperanza da parte dell'operatore registrato o convenzionato agli obblighi contratti con la registrazione o con la convenzione). |
Sospensione dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività da uno a tre mesi |
Se due violazioni sono commesse in un intervallo inferiore ai tre mesi |
Sospensionedell’autorizzazione all’esercizio dell’attività per tre mesi |
|
Commissione, nel periodo di tre anni, di cinque violazioni dell’articolo 13-bis, c. 3, d.lgs. 28/1993.
|
Revocadell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività. In tal caso non può essere conseguita un’altra autorizzazione per l’esercizio della medesima attività prima di dodici mesi |
L’articolo 7 delinea il procedimento per l’applicazione delle sanzioni amministrative, richiamando la disciplina generale contenuta nella legge 689/1981 e individuando quali autorità competenti all’irrogazione delle sanzioni il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e le regioni e province autonome per gli aspetti di propria competenza.
Il Parlamento ha approvato la legge 237/2012, che adegua il nostro ordinamento alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale, consentendo all'Italia di cooperare con tale organo.
La Corte penale internazionale è un tribunale chiamato a giudicare i responsabili di crimini particolarmente efferati, che riguardano la comunità internazionale nel suo insieme, come il genocidio, i crimini contro l'umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione.
La Corte ha un proprio Statuto, stipulato a Roma il 17 luglio del 1998, che definisce in dettaglio la giurisdizione ed il funzionamento di questo tribunale. In particolare, lo Statuto costituisce lo strumento normativo primario per disciplinare le finalità, la struttura ed il funzionamento della Corte penale internazionale; esso individua i principi posti alla base dell’attività giurisdizionale in materia e disciplina le procedure di cooperazione tra la Corte e gli Stati ai fini dello svolgimento di atti di indagine sul territorio di uno Stato nonché il ruolo degli Stati nell’esecuzione delle pene irrogate dalla Corte.
L’Italia ha ratificato lo Statuto con la legge 232 del 1999, ma non aveva sino al dicembre scorso approvato una legge che garantisse l'adeguamento del nostro ordinamento ai principi contenuti nello Statuto, rendendo di fatto problematica la cooperazione con la Corte penale internazionale.
Sin dall'inizio dell'attuale legislatura il Parlamento si è attivato per dare attuazione ai principi contenuti nello Statuto della Corte penale internazionale, al fine di garantire una piena cooperazione del nostro Paese con le attività di questo organismo internazionale.
In proposito, con due atti di indirizzo, il Parlamento ha impegnato il Governo alla presentazione di iniziative legislative volte all’adeguamento del nostro ordinamento allo Statuto (risoluzione 7-00087, a prima firma Bernardini, approvata dalla Commissione giustizia il 4 febbraio 2009; risoluzione 7-00141, a prima firma Pianetta, approvata dalla Commissione esteri il 29 aprile 2009); il Governo ha successivamente informato il Parlamento dell'imminente presentazione di un disegno di legge (in realtà mai presentato).
Nel frattempo, peraltro, la Commissione giustizia della Camera ha avviato e concluso l'esame in sede referente di alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare, proponendo all'Assemblea un testo unificato che è stato approvato l'8 giugno 2011. A seguito di modifiche intervenute nel corso dell'esame del provvedimento in Senato, è stato necessario un ulteriore passaggio parlamentare. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente l'AC 1439-B lo scorso 4 dicembre 2012 e la legge n. 237 del 2012 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l'8 gennaio 2013.
In sintesi, la legge attribuisce al Ministro della giustizia e alla Corte d’appello di Roma il ruolo, rispettivamente, di autorità amministrativa e di autorità giudiziaria competenti per la cooperazione con la Corte penale internazionale. Il provvedimento disciplina altresì le modalità di esecuzione della cooperazione e, in particolare, la procedura di consegna alla Corte penale internazionale di persone che si trovino sul territorio italiano, a seguito di mandato d’arresto internazionale ovvero di una sentenza della Corte internazionale di condanna a pena detentiva, intervenendo anche in materia di esecuzione delle pene pecuniarie e sulla procedura applicabile nel caso in cui l’Italia sia individuata dalla Corte internazionale come Stato di espiazione di una pena detentiva.
Il Capo I della legge 237/2012 (articoli da 1 a 10) contiene le disposizioni generali, individuando le autorità competenti e le modalità di cooperazione con la Corte penale internazionale.
In particolare, l'articolo 1 afferma che la cooperazione dello Stato italiano con la Corte penale internazionale avviene sulla base delle disposizioni contenute nello Statuto della Corte stessa, nel limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
L'articolo 2 attribuisce al Ministro della giustizia il ruolo di autorità centrale per la cooperazione con la Corte penale internazionale mentre il successivo articolo 3 stabilisce che in materia di consegna, cooperazione ed esecuzione di pene si osservano le norme contenute nel codice di procedura penale (rapporti giurisdizionali con autorità straniere).
L'articolo 4 disciplina le modalità di esecuzione della cooperazione giudiziaria con la Corte penale internazionale individuando nella corte d’appello di Roma l’autorità giudiziaria competente.
La trasmissione di atti e documenti è disciplinata dall'articolo 5 che consente al Ministro della giustizia di non procedervi quando ritenga che tali attività possano compromettere la sicurezza nazionale. Non si applica invece l’obbligo del segreto sugli atti d’indagine previsto dall’art. 329 c.p.p.
L'articolo 6 disciplina il caso in cui, in esecuzione di una richiesta di assistenza della Corte penale internazionale, sia necessario citare in Italia una persona che si trova all’estero. La disposizione stabilisce che colui che entra nel nostro territorio non potrà essere sottoposto a qualsivoglia restrizione della libertà personale per fatti antecedenti la notifica della citazione.
L'articolo 7 stabilisce l’applicabilità delle disposizioni sul patrocinio a spese dello Stato anche alle procedure di esecuzione di richieste della Corte penale internazionale.
L’articolo 8 disciplina l’ipotesi di richieste da parte dell’autorità giudiziaria italiana alla Corte internazionale: la richiesta è formulata per il tramite del procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, che si rivolgerà a sua volta al Ministro della giustizia; se il ministro non ottempera entro 30 giorni, il PG presso la corte d’appello può trasmettere direttamente la richiesta alla Corte internazionale.
L'articolo 9 prevede che il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, e il procuratore generale militare presso la corte militare d'appello, assistano - se richiesti - alle consultazioni con la Corte penale internazionale previste dallo Statuto.
L’articolo 10,pur senza risolvere il problema della c.d. doppia incriminazione, ovvero l’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento un catalogo di delitti speculare a quello per il quale ha giurisdizione le Corte penale internazionale, novella il codice penale. La disposizione:
Si tratta, in particolare, delle seguenti novelle al codice penale:
Il Capo II della legge 237/2012 (articoli da 11 a 14) disciplina la consegna alla Corte penale internazionale di persone che si trovino sul territorio italiano.
In base all’articolo 11, se la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto ovvero una sentenza di condanna a pena detentiva a carico di una persona che si trovi sul territorio italiano, il procuratore generale presso la Corte di appello di Roma chiede alla stessa Corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere. L’interessato dalla misura potrà richiedere, in base allo statuto della Corte, la libertà provvisoria.
L’articolo 12 disciplina la possibile revoca della misura. La custodia cautelare è revocata se:
L’articolo 13 riguarda la procedura per la consegna prevedendo una decisione emessa in camera di consiglio dalla corte d’appello di Roma. Il giudice italiano può negare la consegna solo nelle seguenti ipotesi:
Nel caso in cui venga eccepito il difetto di giurisdizione della Corte penale internazionale, la Corte d’appello di Roma dovrà sospendere – salva la manifesta infondatezza – con ordinanza il procedimento, in attesa di una pronuncia della medesima Corte penale.
Sia nell’ipotesi di consenso dell’interessato sia in quella di favorevole pronuncia della corte d’appello di Roma, spetta al Ministro della giustizia – con proprio decreto - provvedere entro 20 giorni alla consegna, prendendo accordi con la Corte penale internazionale sul tempo, il luogo e le concrete modalità.
L’articolo 14 stabilisce che la misura della custodia cautelare in carcere può essere disposta provvisoriamente, anche prima che pervenga dalla Corte internazionale la richiesta di consegna. In tal caso, la custodia sarà revocata se entro 30 giorni la Corte penale internazionale non richiede la consegna.
Il Capo III della legge 237/2012 (articoli da 15 a 24) disciplina l’esecuzione dei provvedimenti della Corte penale internazionale.
In primo luogo la legge attribuisce la competenza a conoscere dell’esecuzione del provvedimento della Corte penale internazionale, ai sensi dell’art. 665, comma 1, c.p.p., alla Corte d’appello di Roma, che è dunque giudice dell'esecuzione dei provvedimenti della Corte (articolo 15).
Nel caso in cui l’Italia - a seguito di sentenza definitiva - sia individuata dalla Corte internazionale come Stato di espiazione di una pena detentiva, in base all’articolo 16 il Ministro della Giustizia deve chiedere alla Corte d’appello il riconoscimento della sentenza della Corte penale internazionale.
L’articolo 17 dispone che l’esecuzione della pena avverrà in base all’ordinamento penitenziario italiano (L. n. 354 del 1975) e in conformità allo statuto e al regolamento di procedura e prova della Corte penale internazionale. Il Ministro della giustizia potrà disporre che il trattamento penitenziario del detenuto avvenga secondo il regime carcerario speciale di cui all’art. 41-bisdell’ordinamento penitenziario.
Spetta alla Corte penale internazionale il controllo sull’esecuzione carceraria (articolo 18) e il Ministro della giustizia dovrà trasmettere immediatamente alla Corte ogni richiesta del detenuto di accesso a qualsivoglia beneficio penitenziario o misura alternativa alla detenzione; se la Corte internazionale ritiene di non consentire l’accesso ad una misura prevista dal nostro ordinamento, il Ministro può chiedere alla Corte di disporre il trasferimento del condannato in altro Stato.
L’articolo 19 disciplina gli ulteriori obblighi di tempestiva informazione alla Corte penale internazionale a carico del Ministro della Giustizia e riferiti alla situazione del condannato (morte, evasione,avvenuta espiazione della pena, nuovi procedimenti penali) mentre l'articolo 20 stabilisce che il luogo di espiazione della pena possa consistere in una sezione speciale di un istituto penitenziario ovvero in un carcere militare.
L’articolo 21 della legge dispone in ordine all’esecuzione delle pene pecuniarie: su richiesta del procuratore generale, la Corte d’appello di Roma può provvedere all’esecuzione della confisca dei profitti e dei beni disposta dalla Corte penale internazionale; i beni confiscati vengono messi a disposizione della Corte internazionale per il tramite del Ministero della giustizia, che agirà in base a modalità da individuare con decreto. La disposizione disciplina, altresì, l’esecuzione degli ordini di riparazione a favore delle vittime.
Nel caso di difficoltà nell’esecuzione di provvedimenti sopra indicati, l'articolo 22 disciplina la procedura di consultazione con la Corte penale internazionale, la cui finalità è anche la conservazione dei mezzi di prova.
L'articolo 23 reca una serie di disposizioni in materia di giurisdizione, prevedendo l’applicazione delle disposizioni vigenti in materia di riparto tra la giurisdizione ordinaria e quella penale militare. Per i fatti rientranti nella giurisdizione penale militare, le funzioni attribuite al Ministro della giustizia devono essere esercitate d’intesa con il Ministro della difesa, restando salva la competenza esclusiva del Ministero della difesa per quanto attiene all’ordinamento penitenziario militare.
Il Parlamento ha approvato la legge 45/2009 con la quale ha ratificato il II Protocollo relativo alla Convenzione dell'Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, fatto a L'Aja il 26 marzo 1999, dettando norme di adeguamento dell'ordinamento interno.
La diffusa consapevolezza che le azioni di combattimento nel corso di conflitti armati producano spesso la distruzione di patrimoni culturali unici al mondo ha fatto sì che la Comunità internazionale, non a caso a partire dal Secondo Dopoguerra, sulla scorta delle immani devastazioni che il recente conflitto mondiale aveva apportato, adottasse la Convenzione dell'Aja del 1954 specificamente dedicata alla protezione del patrimonio culturale nel caso di conflitti armati, contestualmente ad un primo Protocollo sulla protezione del patrimonio culturale in tempo di occupazione.
Nel 1977 vennero inoltre adottati due Protocolli alle quattro Convenzioni di Ginevra, le quali, come è noto, costituiscono la base del diritto internazionale umanitario di guerra.
Il primo dei due Protocolli, relativo alla protezione delle vittime di conflitti armati internazionali, all'articolo 53 ha incluso il patrimonio culturale tra gli elementi meritevoli di protezione, ricomprendendo nel concetto di patrimonio culturale anche i luoghi di culto. In particolare, l'articolo 53, dopo aver salvaguardato espressamente le previsioni della Convenzione dell'Aja del 1954, proibisce il compimento di qualsiasi atto di ostilità diretto contro monumenti storici, opere d'arte o luoghi di culto, che costituiscano patrimonio culturale o spirituale dei popoli. E’ altresì vietato l'uso di tali oggetti come base di azioni militari, come anche il coinvolgimento di essi nel corso di azioni di rappresaglia. Analoghe previsioni sono contenute, stavolta all'articolo 16, nel secondo dei Protocolli del 1977, dedicato alla protezione delle vittime di conflitti armati non internazionali.
Tutti gli atti internazionali richiamati risultano ratificati dall’Italia.
L’insufficienza dei risultati conseguiti nell’applicazione della Convenzione dell’Aja del 1954 conduceva all’adozione, nel marzo 1999, del Secondo Protocollo alla Convenzione dell’Aja del 1954. Il Protocollo introduce un ulteriore regime di protezione dei beni culturali nel corso di conflitti armati, aggiuntivo alla protezione generale ed alla protezione speciale già contemplate dalla Convenzione, ossia il regime della protezione rafforzata: esso riguarda beni del più alto valore universale sottratti al regime di protezione speciale di cui alla Convenzione del 1954 per il fatto di trovarsi in città storiche o vicino ad installazioni militarmente sensibili come autostrade, stazioni, ecc.
I beni culturali soggetti a protezione rafforzata vanno iscritti in un elenco ad hoc che il Comitato intergovernativo - istituito anch'esso dal Protocollo aggiuntivo - sottopone ad accurato monitoraggio. Inoltre, il Protocollo delimita la nozione di necessità militare imperativa e la nozione di obiettivo militare: ciò allo scopo di limitare al massimo le giustificazioni per attacchi contro i beni culturali soggetti a protezione rafforzata. I comandi militari vengono resi responsabili in ogni caso delle decisioni adottate, e viene introdotta la responsabilità individuale in caso di danneggiamento o distruzione ingiustificati dei beni culturali, prevedendo apposite sanzioni. Il contenuto del Protocollo è più ampiamente descritto nel dossier del Servizio studi della Camera del dicembre 2008.
Il provvedimento ha avviato l'iter al Senato, a seguito della presentazione del disegno di legge del Governo AS. 1073; approvato nel novembre 2008, il testo (AC. 1929) è passato all'esame della Camera che l'ha approvato con modificazioni il 24 febbraio 2009. Il provvedimento è stato definitivamente approvato dal Senato il 1° aprile 2009.
I 17 articoli della legge 45/2009 sono dedicati solo in minima parte alla ratifica del protocollo (articoli 1 e 2) essendo principalmente rivolti a all'adattamento dell'ordinamento nazionale al combinato disposto della Convenzione del 1954 e del Protocollo addizionale.
In particolare, l'articolo 3, dedicato alle definizioni, qualifica illecito ogni violazione del diritto nazionale del territorio occupato o del diritto internazionale. Il successivo articolo 4 individua le norme da applicare allo scopo della predisposizione delle misure preventive di tutela dei beni culturali quali previste dall'articolo 5 del Protocollo. Viene pertanto stabilita l’applicazione delle norme vigenti in materia di obbligo di catalogazione dei beni culturali; delle disposizioni legislative e regolamentari inerenti alla sicurezza e alla prevenzione antincendio; delle disposizioni organizzative di natura regolamentare del Ministero per i beni e le attività culturali, nelle quali vengono individuate le strutture competenti per la protezione del patrimonio culturale nazionale, cui dovranno far capo anche le attività di salvaguardia dei beni culturali in caso di conflitto armato; più in generale, di tutte le norme legislative, regolamentari ed amministrative volte all'individuazione degli enti e strutture competenti in materia di sicurezza e tutela del patrimonio culturale.
In base all'articolo 5, il Ministero per i beni e le attività culturali individua i beni pubblici o privati cui riconoscere i requisiti dettati dall'articolo 10 del Protocollo, i quali andranno inseriti nell’elenco indicato al successivo articolo 11, paragrafo 1. In tal modo i beni culturali verranno a godere di una tutela rafforzata sulla base della loro estrema importanza per l'intera umanità. Il Ministero per i beni e le attività culturali si consulta con il Ministero della Difesa onde escludere, nell'attribuzione a un bene culturale della protezione rafforzata, che esso sia usato per scopi militari o come scudo a postazioni militari, e accertare che vi sia stata altresì la prevista dichiarazione che il bene culturale in oggetto non verrà mai utilizzato a tale scopo.
Gli articoli da 6 a 15 della legge 45/2009 introducono una disciplina penale speciale in relazione alle diverse fattispecie di reati militari in danno di beni culturali previste dal Protocollo oggetto di ratifica, colmando una lacuna dell'ordinamento italiano che sino ad allora non prevedeva una normativa specifica relativa alla protezione dei beni culturali in caso di conflitti armati.
Analiticamente, l’articolo 6 individua nei conflitti armati e nelle missioni internazionali l’ambito di applicazione della nuova disciplina penale, precisandone l’estensione in relazione sia all’autore che al luogo del commesso reato.
In accordo alle previsioni del capitolo 4 del Protocollo, gli articoli da 7 a 12 individuano le fattispecie di reato in danno dei beni culturali protetti, stabilendo le relative sanzioni.
L’articolo 7 della legge 45/2009 punisce con la reclusione da 4 a 12 anni l’attacco ad un bene culturale protetto (art. 15, comma 1, lett. d) del Protocollo), mentre - in virtù del maggior grado di protezione accordato ai sensi degli artt. 10 e 11 del Protocollo – per lo stesso illecito è prevista la reclusione da 5 a 15 anni se il bene culturale è sottoposto a protezione rafforzata (art. 15, comma 1, lett. a) del Protocollo). Quando all’attacco consegue la distruzione del bene culturale scatta un’aggravante (comune), con conseguente aumento fino a un terzo della pena.
L’articolo 8 punisce con la reclusione da 1 a 5 anni l’illecito utilizzo di un bene culturale protetto (o della zona ad esso circostante) a sostegno di un’azione militare(art. 15, comma 1, lett. b) del Protocollo). Ricorre un’aggravante speciale (reclusione da 2 a 7 anni) se il bene culturale utilizzato è sottoposto a protezione rafforzata mentre è applicata anche qui un’aggravante comune se al reato consegue la distruzione del bene.
La sussistenza di una cd. necessità militare imperativa è causa di esclusione della punibilità dei reati di attacco e distruzione di beni culturali di cui agli articoli 7 ed 8 (articolo 13 delle legge). Tale disposizione integra l'articolo 4, paragrafo 2, della Convenzione, esplicitando i presupposti per invocare la sussistenza di tale scriminante e fissandone comunque espresse limitazioni.
La devastazione e il saccheggio di beni culturali protetti dalla Convenzione o dal Protocollo sono puniti, ai sensi dell’articolo 9, con la reclusione da 8 a 15 anni mentre l’articolo 10 punisce con la reclusione da 2 a 8 anni il danneggiamento e la distruzione di un bene culturale protetto (art. 15, comma 1, lett. e) del Protocollo).
L’articolo 11 punisce con la reclusione da 2 a 8 anni l’esportazione, la rimozione o il trasferimento illecito della proprietà di beni culturali protetti quando ciò avvenga nel corso di un conflitto armato o di missioni internazionali (reclusione da 4 a 10 anni se il bene era soggetto a protezione rafforzata). Se dal fatto consegue la distruzione del bene, la pena è aumentata.
In linea con il contenuto dell’art. 21, lettera a), del Protocollo, l’articolo 12 della legge punisce con la reclusione da 1 a 3 anni l’alterazione o modificazione arbitraria dell’uso dei beni culturali protettinel corso di un conflitto armato o di missioni internazionali. Anche in tal caso, dalla distruzione del bene conseguente al reato discende un aumento di pena fino ad un terzo.
L'articolo 14 della legge 45/2009 – in ragione dell’ambito applicativo della legge definito dall’art. 6 nonché dell’affinità dei reati sopraindicati con quelli previsti dal codice penale militare di guerra – definisce come reati militari gli illeciti di cui agli artt. da 7 a 12. Viene precisata, in relazione ad essi, l’applicazione dell’art. 27 c.p.m.p. ovvero la sostituzione della reclusione militare alla reclusione ordinaria per eguale durata, quando la condanna non importa la degradazione.
I successivi commi dell’art. 14 sono relativi al riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici militari. Per i reati militari commessi all’estero la competenza appartiene:
Con l'approvazione della legge 85/2009 l’Italia ha aderito al Trattato di Prum, firmato da Belgio, Germania, Spagna, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Austria il 27 maggio 2005, e volto a rafforzare la cooperazione di polizia in materia di lotta al terrorismo, alla criminalità transfrontaliera ed all’immigrazione clandestina. Il Capitolo 2 del Trattato, in particolare, disciplina l’impegno fra le Parti contraenti a creare schedari nazionali di analisi del DNA e a scambiare le informazioni contenute in tali schedari, l’impegno a scambiare le informazioni sui dati dattiloscopici (le impronte digitali), nonché l’accesso ai dati inseriti negli archivi informatizzati dei registri di immatricolazione dei veicoli.
La legge ha istituito la banca dati del DNA e il laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA, con la finalità di rendere più agevole l'identificazione degli autori di delitti.
L'iter per l'approvazione della legge 85/2009 ha preso avvio al Senato, con l'esame di una serie di disegni di legge di iniziativa parlamentare e governativa (AS. 905). Il Senato ha approvato un testo unificato dei disegni di legge nel dicembre 2008, trasferendo il provvedimento (AC. 2042) alla Camera dei deputati. Quest'ultima ha ulteriormente modificato il provvedimento nel maggio 2009 imponendo un ulteriore passaggio parlamentare. Il disegno di legge AS. 586-B è stato dunque definitivamente approvato dal Senato il 24 giugno 2009 (per una descrizione analitica del provvedimento si rinvia dunque al dossier del Servizio studi del Senato).
Il Capo I della legge 85/2009 autorizza l'adesione del nostro Paese al Trattato e vi dà esecuzione (articoli 1 e 2), senza peraltro individuare le autorità di riferimento per le attività previste: spetterà a decreti dei Ministri dell'interno e della giustizia individuare tali soggetti (articolo 3). L'articolo 4 pone a carico dello Stato italiano l'obbligo di risarcimento per i danni eventualmente causati da agenti di altro Stato aderente al Trattato nel nostro territorio.
Il Capo II della legge prevede l’istituzione della banca dati nazionale del DNA (presso il Ministero dell'interno – Dipartimento della pubblica sicurezza) e del Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA (presso il Ministero della giustizia - Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria).
Il Capo III disciplina lo scambio di informazioni e altre forme di cooperazione previste dal Trattato mentre il Capo IV apporta modifiche al codice di procedura penale per consentire lo svolgimento nel corso di un procedimento penale di accertamenti tecnici coattivi (ovvero prelievi ed altri accertamenti medici) idonei a incidere sulla libertà personale.
Infine, il Capo V reca disposizioni finali, tra le quali rileva in particolare per il Governo un obbligo di relazione periodica al Parlamento.
Il Capo II della legge, con la finalità di facilitare l'identificazione degli autori di delitti, in particolare permettendo la comparazione dei profili del DNA di persone già implicate in procedimenti penali con gli analoghi profili ottenuti dalle tracce biologiche rinvenute sulla scena di un reato, istituisce la banca dati del DNA e il laboratorio centrale per la banca dati del DNA (articolo 5).
La creazione delle due strutture presso amministrazioni diverse consente di mantenere elevato il livello delle garanzie, evitando promiscuità che si potrebbero rivelare pregiudizievoli per la genuinità dei dati raccolti e analizzati. Vengono in particolare tenuti distinti il luogo di raccolta e confronto dei profili del DNA (banca dati nazionale del DNA) dal luogo di estrazione dei predetti profili e di conservazione dei relativi campioni biologici (laboratorio centrale presso l'Amministrazione penitenziaria), nonché dal luogo di estrazione dei profili provenienti da reperti (laboratori delle forze di polizia o altrimenti specializzati, come i R.I.S. di Parma).
La banca dati nazionale provvede (articolo 7), nei casi tipizzati, alla raccolta dei profili del DNA:
Alla banca dati nazionale è assegnato, inoltre, il compito di raffronto del DNA a fini di identificazione.
Le funzioni del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA sono invece le seguenti (articolo 8):
Le forze di polizia dovranno custodire, per la successiva consultazione e gli immediati raffronti, solo i dati relativi ai profili del DNA, mentre al Ministero della giustizia viene riservata l'estrazione del profilo del DNA, che provvederà successivamente a trasmettere per via informatica alla banca dati nazionale.
Il laboratorio centrale svolgerà le sue funzioni solo con riferimento alle sostanze biologiche prelevate dai soggetti appartenenti alle categorie indicate dall'articolo 9 della legge (soggetti in custodia cautelare; quelli arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo; i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile per un delitto non colposo; i soggetti nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile per un delitto non colposo; i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva). Il prelievo sarà possibile esclusivamente qualora nei confronti dei citati soggetti si proceda per delitti non colposi per i quali è consentito l'arresto facoltativo in flagranza (salvo per alcune fattispecie di reato specificamente indicate).
L'articolo 18 della legge delega il Governo ad emanare, entro un anno, uno o più decreti legislativi per provvedere alla integrazione dell’ordinamento del personale del Corpo di polizia penitenziaria mediante l’istituzione di ruoli tecnici nei quali inquadrare il personale da impiegare nelle attività del laboratorio centrale.
Il Governo ha esercitato la delega con il decreto legislativo 162 del 2010.
L'articolo 12 della legge disciplina il trattamento dei dati, l'accesso e la tracciabilità dei campioni e, in particolare, stabilisce che i profili ed i relativi campioni non contengono le informazioni che consentono la diretta identificazione del soggetto cui sono riferiti.
L’accesso alle banche dati si configura di secondo livello: la polizia giudiziaria e la stessa autorità giudiziaria dovranno prima richiedere di effettuare il confronto e, solo se esso è positivo, potranno essere autorizzate a conoscere il nominativo del soggetto cui appartiene il profilo. Inoltre, si introduce la necessità di identificare sempre e comunque l'operatore che ha consultato la banca dati, nonché di registrare ogni attività concernente i profili e i campioni.
Sono, infine, specificamente disciplinati i casi di cancellazione del profilo del DNA e di distruzione del relativo campione biologico (articolo 13) e posti limiti temporali massimi per la conservazione nella banca dati nazionale del profilo del DNA (quarant’anni) e del campione biologico (venti anni).
La legge 85/2009 punisce con la reclusione da uno a tre anni il pubblico ufficiale che usa i dati in modo improprio e affida al Garante per la protezione dei dati personali il controllo sulla banca dati nazionale del DNA (articolo 15).
Il Capo III della legge 85/2009 disciplina:
Il Capo IV della legge novella il codice di procedura penale, e le relative norme di attuazione, al fine di consentire accertamenti tecnici idonei ad incidere sulla libertà personale.
In particolare, gli articoli da 24 a 29 disciplinano lo svolgimento di accertamenti tecnici coattivi, colmando il vuoto normativo creatosi a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 1996, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità del secondo comma dell’art. 224 c.p.p., per la parte in cui consentiva al giudice, nell'ambito delle operazioni peritali, di disporre misure volte ad incidere sulla libertà personale dell'indagato o dell'imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei casi e nei modi dalla legge.
L'articolo 24, attraverso l’introduzione dell’art. 224-bisc.p.p., disciplina la perizia che comporta l’esecuzione di atti idonei a incidere sulla libertà personale. La perizia può essere disposta anche coattivamente con ordinanza motivata del giudice nei confronti dell’indagato o dell’imputato di un reato. La disposizione individua i presupposti dell’accertamento, i tipi di prelievo da effettuare ai fini della determinazione del profilo del DNA o dell’esecuzione di accertamenti medici, nonché le garanzie per lo svolgimento della perizia.
L'articolo 25 disciplina il caso in cui il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, intenda procedere coattivamente a un prelievo del tipo di quelli indicati all’art. 224-bis, prevedendo l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari o, in caso di urgenza, la successiva convalida da parte del GIP del decreto motivato del PM che dispone l’accertamento.
Gli articoli 26 e 27 novellano, con finalità di coordinamento, gli articoli 133 e 354 del codice di procedura penale mentre l'articolo 28 modifica l'art. 392, comma 2 c.p.p. in tema di incidente probatorio così da consentire l’uso di tale strumento di anticipazione nella raccolta della prova anche per l'espletamento di una perizia ai sensi dell’art. 224-bis c.p.p.
L'articolo 29, invece, interviene sulle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p. introducendovi tre nuovi articoli, relativi al prelievo di campioni biologici e accertamenti medici su minori e su persone incapaci o interdette, alla redazione del verbale delle operazioni, nonché alla distruzione dei campioni biologici.
L’articolo 16 della legge demanda a un regolamento di delegificazione, ancora non emanato, la disciplina attuativa della legge.
Attraverso tale atto - che doveva essere emanato entro quattro mesi dall'entrata in vigore della legge - dovevavo essere regolamentati: il funzionamento e l’organizzazione della banca dati e del laboratorio centrale; le modalità di trattamento, di accesso e di comunicazione dei dati; le tecniche e le modalità di analisi e conservazione dei campioni biologici; i tempi di conservazione dei profili del DNA e dei campioni biologici; le attribuzioni dei responsabili della banca dati e del laboratorio centrale; le competenze tecnico-professionali del personale addetto alla banca dati e al laboratorio centrale; le modalità ed i termini di esercizio dei poteri conferiti al Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie; le modalità di cancellazione dei profili del DNA e di distruzione dei relativi campioni biologici.
L'articolo 19 della legge pone inoltre a carico del Governo l'obbligo di inviare periodicamente al Parlamento una relazione sull'attività della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la medesima banca dati. Fino al 2011 a tale obbligo ha adempiuto il Ministro della Giustizia (doc. CCXXXV, nn. 1 e 2); nel 2012 ha invece provveduto il Ministro dell'Interno (doc. CCXXXV-bis, n. 1).
Un ulteriore obbligo di comunicazione periodica è posto a carico del Ministro dell’interno dall'articolo 30; il ministro dovrà informare annualmente il cd. Comitato parlamentare Schengen (Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell’accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione) sullo stato di attuazione del Trattato di Prüm.
In merito all'attuazione della legge si segnala, peraltro, che la Commissione europea, nella relazione sull'attuazione della decisione 2008/615/GAI sul potenziamento della cooperazione, soprattutto nella lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera («decisione di Prüm») (COM(2012)732), presentata il 7 dicembre 2012, lamenta il ritardo di alcuni Stati membri, tra cui l'Italia, nella realizzazione degli adeguamenti tecnici necessari allo scambio automatizzato di dati relativi al DNA e alle impronte digitali.
Il Parlamento ha ratificato due convenzioni del Consiglio d'Europa dedicate alla lotta alla corruzione, che si sono affiancate nella legislatura alla ratifica della Convenzione ONU di Merida (v.Legge 116/2009 - Ratifica Convenzione di Merida) e all'approvazione della Legge 190/2012 - Misure anticorruzione nella p.a..
Con la legge 110/2012, il Parlamento ha ratificato la Convenzione penale di Strasburgo del 1999 sulla corruzione che impegna, in particolare, gli Stati a prevedere l'incriminazione di fatti di corruzione attiva e passiva tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel settore privato; del cosiddetto traffico di influenze; dell'autoriciclaggio (per l'analisi del contenuto della Convenzione si veda il dossier del Servizio studi della Camera del marzo 2012).
Dal provvedimento di ratifica, che ha avviato l'iter al Senato con la presentazione di un disegno di legge di iniziativa parlamentare (AS. 850), sono state espunte le disposizioni di diretto adeguamento dell'ordinamento interno, confluite nella legge anticorruzione. Conseguentemente, la legge 110 del 2012 si limita a ratificare la Convenzione (articolo 1), a consentirne la piena ed intera esecuzione (articolo 2) ed a designare come autorità centrale il Ministro della giustizia (articolo 3).
Con la legge 112/2012 il Parlamento ha ratificato la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo nel 1999 e diretta, in particolare, ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudiziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione (per il contenuto analitico della Convenzione si rinvia al dossier del Servizio studi della Camera dell'ottobre 2010).
La legge, che ha avviato l'iter al Senato con la calendarizzazione di un disegno di legge di iniziativa parlamentare (AS 849), si limita a ratificare la Convenzione (articolo 1) e a darvi piena ed intera esecuzione (articolo 2).
Nel settore della lotta alla criminalità organizzata, la XVI legislatura si è caratterizzata soprattutto per l'adozione del cd. Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (D.Lgs 159/2011), emanato sulla base della delega prevista dalla legge 136/2010 (Piano straordinario contro le mafie). Ulteriori interventi hanno riguardato specificamente le misure di prevenzione (decreto-legge 4/2010, istitutivo dell'Agenzia nazionale per la gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati, la cui disciplina è ora confluita nel citato Codice antimafia) ed il divieto di svolgimento di propaganda elettorale per le persone sottoposte a misure di prevenzione (legge 175/2010). Specifici provvedimenti d'urgenza e la cd. legge sicurezza sono poi intervenuti in materia penale e di organizzazione degli uffici giudiziari. Mentre il DL 225/2010 ha ricondotto ad un unico Fondo il Fondo antiracket ed il Fondo di rotazione per le vittime dei reati mafiosi, la legge 3/2012 ha introdotto modifiche alla disciplina in materia di usura ed estorsione ed ha ampliato le condizioni per l'accesso ai benefici del citato Fondo.
Una sistemazione organica della normativa di contrasto alla mafia si è resa necessaria sia in relazione alla sua oggettiva estensione – relativa ad una pluralità di ambiti, sostanziale, processuale, penitenziario e amministrativo – sia alla sua frammentazione e stratificazione nel corso degli anni. L’occasione per pervenire ad un'effettiva opera di riordino è stata fornita dalla doppia delega concessa al Governo dalla legge 136/2010. La prima delega atteneva all'emanazione, entro un anno, di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Per la normativa di contrasto alla criminalità organizzata era disposta la sola attività di ricognizione, armonizzazione e coordinamento della normativa vigente mentre per le misure di prevenzione si prevedevano numerosi e specifici principi e criteri di delaga. La seconda delega prevedeva entro un anno l'aggiornamento e la semplificazione della normativa in materia di documentazione antimafia, anche qui sulla base di una definita serie di criteri direttivi. Il Governo ha deciso di esercitare entrambe le deleghe attraverso un unico decreto legislativo, il D.Lgs. 159/2011.
La nuova disciplina, successivamente corretta ed integrata dal D.Lgs. 218/2012, si articola in 120 articoli suddivisi in 4 libri.
Va segnalato come il Codice sia, tuttavia, privo di una riscrittura ed armonizzazione delle norme di diritto sostanziale e processuale che regolano il contrasto alla mafia. L’assenza di una specifica delega che autorizzasse il Governo a riscrivere il testo delle disposizioni in materia nonchè le difficoltà di procedere nei termini di delega ad una effettiva armonizzazione della complessa normativa ha consigliato di accantonare ed eliminare l’originario impianto normativo del libro I. In particolare, tale scelta, come si legge nel parere della Commissione Giustizia della Camera del 2 agosto 2011, è stata dettata dalla necessità di evitare di “alterare eccessivamente la vigente sistematica codicistica e di creare problemi e difficoltà nell’interpretazione delle norme”, estromettendo dal nuovo impianto “tutte quelle disposizioni ritenute compiutamente e inscindibilmente integrate nel tessuto normativo preesistente”.
Il libro I concerne il riordino della disciplina delle misure di prevenzione personali e patrimoniali. Si provvede, da un lato, a riassumere, con modalità meramente compilative, la disciplina che regolamentava, attraverso un serie di disposizioni contenute in normative diverse, la complessa materia delle misure di prevenzione personali e patrimoniali; dall'altro, sono introdotte modifiche e aggiornamenti delle normative più datate, attuando anche complesse riscritture (è il caso dei diritti dei terzi nelle procedure di prevenzione). Il libro I contiene, tuttavia, una disciplina di carattere generale delle misure di prevenzione, non limitata alle sole misure di contrasto alla mafia. E' confermata la distinzione tra misure di prevenzione personali (titolo I) e patrimoniali (titolo II), con distinti procedimenti applicativi ed è dettata la disciplina dell’amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati (titolo III). Per ovviare alle rilevanti difficoltà applicative, importanti novità hanno interessato la citata tutela dei terzi ed i rapporti con le procedure concorsuali (titolo IV). Infine, il Libro I del decreto (titolo V) regola gli effetti delle misure di prevenzione, stabilisce le sanzioni per le violazioni alle prescrizioni imposte con le misure di prevenzione, disciplina la riabilitazione e detta disposizioni finali (titolo V).
Il libro II del decreto legislativo detta, invece, il riordino della disciplina della documentazione antimafia, distinta in comunicazioni e informazioni antimafia; ulteriori disposizioni riguardano, rispettivamente, la Banca dati unica nazionale della documentazione antimafia nonchè le norme sullo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose.
Il Libro III contiene la disciplina relativa alle attività investigative nella lotta contro la criminalità organizzata: una prima parte concerne le magistrature specializzate nella lotta alla criminalità organizzata ovvero la D.N.A. (Direzione Nazionale Antimafia) e la D.D.A. (Direzione distrettuale antimafia) nonchè, nell'ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza, la disciplina della D.I.A. (Direzione investigativa antimafia) ed il Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata, istituito presso il Ministero dell'interno con funzioni di alta direzione e coordinamento; la seconda parte del libro III contiene la disciplina dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, istituita dal D.L. 4/2010.
Il Libro IV, infine, prevede le necessarie norme di coordinamento, una disciplina transitoria nonchè una serie di abrogazioni volte a rendere più chiara la normativa ed evitare inutili duplicazioni.
La legge 136/2010 reca un complesso di misure di contrasto della criminalità organizzata; tra queste le due norme di delega rispettivamente per l’adozione del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione e per la modifica e l’integrazione della disciplina della documentazione antimafia, la certificazione necessaria per la stipula di contratti pubblici o per ottenere concessioni o erogazioni pubbliche. Il Governo ha esercitato entrambe le deleghe con l’emanazione del decreto legislativo 159/2011, composto da 120 articoli divisi in quattro libri.
Tra i contenuti della legge 136 si segnalano:
La legge 175/2010 interviene sul nodo cruciale dei rapporti tra politica e organizzazioni criminali. La sua disciplina pone a carico delle persone definitivamente sottoposte alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, il divieto di svolgere attività di propaganda elettorale in favore o in pregiudizio di candidati partecipanti a qualsiasi tipo di competizione elettorale. Il divieto opera per il periodo intercorrente tra il termine stabilito per la presentazione delle liste e dei candidati e la chiusura delle operazioni di voto. La violazione del divieto è sanzionata con la reclusione da uno a cinque anni, pena applicabile anche al candidato che, avendo diretta conoscenza della condizione di sottoposto in via definitiva alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ne richieda l’attività di propaganda e se ne avvalga concretamente. Alla condanna consegue l'interdizione dai pubblici uffici e l'ineleggibilità per la durata della pena detentiva.
Il D.L. 4/2010 ha istituito l’Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata – la cui disciplina è ora confluita nel Codice antimafia (D.Lgs 159/2011, artt. 110 e ss.) - con la finalità di una più efficace gestione di tali beni e di una più rapida destinazione dei beni confiscati.
L’introduzione del Codice antimafia, entrato in vigore il 13 ottobre 2011, non ha apportato sostanziali modifiche all’azione dell’Agenzia, specificando unicamente il compito di amministrazione e destinazione dei beni sottratti alla criminalità organizzata da restituire alla collettività, attraverso procedure che riducano i tempi di destinazione dei beni e permettano, nelle more del procedimento amministrativo, una gestione virtuosa dei beni stessi (mobili e immobili) e dei compendi aziendali. L'Agenzia relaziona annualmente il Parlamento sui risultati conseguiti dalla gestione; l'ultima Relazione presentata riguarda il periodo 1° gennaio-31 dicembre 2011.
Per una descrizione più dettagliata dei compiti e della struttura dell'Agenzia, si rinvia al commento del Codice antimafia che, come accennato, contiene ora anche la normativa sull'Agenzia. Ulteriori notizie sull'Agenzia nazionale e sulla sua attività sono disponibili sul relativo sito Internet.
Per quanto riguarda il profilo processuale della lotta alla criminalità organizzata, nella XVI legislatura si segnalano:
Nel primo biennio di legislatura, misure di contrasto alle organizzazioni criminali sono state introdotte, in particolare, da due provvedimenti in materia di sicurezza pubblica.
Il D.L. 92/2008 inasprisce le sanzioni per il reato di associazione mafiosa e ne prevede l'applicazione anche alle associazioni straniere; il D.L. 4/2010 ne estende ulteriormente l'applicazione alla 'ndrangheta. Lo stesso DL 92, oltre ad ampliare l'ambito applicativo della legge 575/1965 sulle misure di prevenzione:
La legge 94/2009 ha poi introdotto:
Nell'ambito degli interventi a difesa dell'economia legale, i D.L. 39/2009 (art. 16, comma 5) e D.L. 195/2009) (art. 17-quater, comma 4) hanno previsto misure antinfiltrazione mafiosa rispettivamente, negli interventi per l'emergenza e la ricostruzione nelle aree colpite dal terremoto in Abruzzo e nell'attuazione del "Piano carceri". Le norme citate, in particolare, hanno previsto la creazione di "white list", ovvero liste di imprese (elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecuzione dei lavori) considerate, sulla base di severi controlli, non soggette ad infiltrazioni mafiose (la cui istituzione e gestione è affidata alle prefetture) ed a cui possono rivolgersi gli esecutori degli appalti. L'esigenza delle white list nasce dalla constatazione che le infiltrazioni della criminalità trovano terreno fertile prevalentemente nel settore dei subappalti, con particolare riferimento ad attività lavorative spesso controllate direttamente dalle organizzazioni criminali sul territorio. Analoghe disposizioni sulle withe list sono previste dall'art. 3-quinquies, comma 5, del D.L.135/2009 (Expo 2015), dall'art. 4, comma 13, del D.L. 70/2011 (Semestre Europeo, che per primo ha generalizzato l'istituzione di white list presso le prefetture) e dall'art. 5-bis del D.L. 74/2012, sul terremoto in Emilia). Nuove disposizioni in materia sono, più recentemente contenute nella cd. legge anticorruzione (art. 1, commi da 52 a 57, L. 190/2012) che, pur mantenendo l'impianto preesistente, contiene due rilevanti novità di valenza generale: la prima riguarda un elenco delle attività definite come maggiormente esposte al rischio di infiltrazione mafiosa (una sorta di black list, riferita alla tipologia di attività d'impresa) tra cui, ciclo del calcestruzzo, noli a caldo a freddo, ciclo delle cave, trasporti a discarica, cottimi, guardianie dei cantieri (si tratta, sostanzialmente, di quelle già elencate nel citato decreto-legge 74/2012 per i lavori connessi all'emergenza terremoto in Emilia); la seconda è inerente agli effetti giuridici derivanti dall'iscrizione alla white list della propria prefettura, che equivale all'assolvimento degli obblighi di "informazione antimafia" per l'esercizio della relativa attività d'impresa (informazione di necessaria acquisizione per appalti pubblici di valore superiore alla soglia comunitaria). Si segnala, per completezza, che l'art. 91, comma 7, del D.Lgs 159/2011 (Codice antimafia) affida ad un regolamento, da adottare con decreto del Ministro dell'interno, l'individuazione delle diverse tipologie di attività d'impresa suscettibili di infiltrazione mafiosa (la citata black list) per le quali, in relazione allo specifico settore d'impiego e alle situazioni ambientali, è sempre obbligatoria l'acquisizione del'informazione antimafia, indipendentemente dal valore del contratto, subcontratto, concessione, ecc.
Il D.L. 225/2010 ha ricondotto ad un Fondo unico il Fondo di solidarietà alle vittime delle richieste estorsive e dell’usura (istituito con D.P.R. 455/1999) ed il Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso (istituito con legge n. 512/99). Il Fondo unificato è surrogato nei diritti delle vittime negli stessi termini e alle stesse condizioni già previsti per i predetti fondi e subentra in tutti i rapporti giuridici già instaurati al 27 febbraio 2011 (data di entrata in vigore della legge 10/2011, di conversione del decreto 225).
La legge 3/2012 ha introdotto modifiche alla leggi in materia di usura (L. 108/1996) ed estorsione (L. 44/1999) incidendo sugli aspetti relativi al diritto alle elargizioni di cui agli unificati Fondi antiracket ed antiusura. Ulteriori novità sono introdotte nel codice penale. La nuova disciplina prevede, in particolare, che anche l’imprenditore, vittima di usura o estorsione, dichiarato fallito, abbia il diritto di ottenere il mutuo antiusura e le elargizioni previste dalla disciplina antiracket; ciò, sempre che non sia indagato, imputato o abbia riportato condanne definitive per bancarotta fraudolenta, delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica, l’amministrazione della giustizia, il patrimonio, l’economia pubblica, l’industria e il commercio. La nuova normativa, inoltre, consente alla vittima di usura di ottenere il mutuo già nella fase delle indagini preliminari, a condizione che il Pubblico Ministero esprima parere favorevole. In precedenza, invece, bisognava attendere l’inizio del processo penale. Modifiche sono introdotte in materia di sospensione disposta a favore delle vittime di estorsione di alcuni termini sostanziali e processuali. Sono, infine aumentate le sanzioni per il reato di estorsione ed aggiunti i reati di usura e riciclaggio tra quelli alla cui condanna definitiva consegue la possibile risoluzione dei contratti di appalti pubblici.
Anche nella XVI legislatura, il Parlamento ha istituito:
La Camera ha approvato nel corso della legislatura un provvedimento che prevedeva, nei confronti dei condannati per alcuni reati di terrorismo e criminalità organizzata, la revoca delle prestazioni di natura assistenziale di cui il condannato era titolare, nonché la revoca dei trattamenti previdenziali aventi origine da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite connesse ai reati indicati. L'iter del disegno di legge A.S. 2418 si è, tuttavia, interrotto al Senato.
Secondo le priorità stabilite nel programma di Stoccolma per lo spazio di libertà sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014, l’azione dell’Unione europea nella lotta alla criminalità organizzata si svolge su due piani: da un lato, la valutazione dell’efficacia della normativa UE vigente e la proposta di nuovi interventi legislativi, come stabilito nella Strategia di sicurezza interna dell’Unione europea, presentata dalla Commissione nel novembre 2010, dall’altro, il potenziamento della cooperazione operativa tra le autorità di contrasto nazionali e con le agenzie UE (in particolare, Europol , Eurojust, Olaf) nell’ambito del Ciclo programmatico dell'UE per contrastare la criminalità organizzata e le forme gravi di criminalità adottato dal Consiglio giustizia e affari interni dell’8-9 novembre 2010. Tra le iniziative più recenti, volte essenzialmente a colpire gli aspetti economici del fenomeno merita segnalare la una proposta di direttiva (COM(2012)85) in materia di congelamento e confisca dei proventi della criminalità in Europa.
La proposta comprende norme comuni per: facilitare la confisca di beni che derivano chiaramente dalle attività criminali di un condannato (concetto di confisca estesa); semplificare le procedure per confiscare i beni trasferiti ad altre persone che avrebbero dovuto rendersi conto della loro origine illecita (confisca nei confronti di terzi); consentire la confisca di beni nei casi in cui non si possa ottenere una condanna penale a motivo della morte, della malattia permanente o della fuga dell'indagato (confisca limitata non basata sulla condanna); garantire che i pubblici ministeri possano sottoporre a congelamento temporaneo i beni che rischiano altrimenti di scomparire (congelamento precauzionale); far sì che le autorità nazionali gestiscano i beni congelati o confiscati in modo da evitarne la svalutazione (gestione dei beni).
Si segnala inoltre la proposta di direttiva, presentata dalla Commissione europea il 5 febbraio scorso, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, destinata a sostituire la vigente direttiva 2005/60/CE (cd. terza direttiva antiriciclaggio).
Tra le nuove disposizioni, si segnala l’estensione degli obblighi di verifica della clientela e segnalazione di operazione sospette a tutti i soggetti che offrono merci o prestano servizi contro pagamento in contanti di importo pari o superiore a 7 500 euro, rispetto all’attuale soglia di 15 000 euro. La proposta stabilisce inoltre l’applicazione della normativa antiriciclaggio ai “prestatori di servizi di gioco d’azzardo” e non più solo alle case da gioco.
Si segnala infine che nel marzo 2012 il Parlamento europeo ha istituito una commissione parlamentare speciale sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio di denaro. La commissione, che ha iniziato i suoi lavori nel mese di aprile 2012 con mandato annuale rinnovabile per un altro anno, ha il compito di investigare l'infiltrazione della criminalità organizzata nell'economia legale, nella pubblica amministrazione e nella finanza, e individuare misure per contrastarla
Il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 si compone di 120 articoli, divisi in quattro libri relativi, rispettivamente, al riordino della disciplina delle misure di prevenzione (libro I) e della documentazione antimafia (libro II), alla disciplina relativa alle attività investigative nella lotta contro la criminalità organizzata (libro III) ed alla normativa di coordinamento, transitoria ed alle necessarie abrogazioni (libro IV). In attuazione della delega prevista dalla legge 136/2010, il Governo ha emanato un decreto correttivo del Codice (D.Lgs 218/2012).
Il Libro I (artt. 1-81) concerne il riordino della disciplina delle misure di prevenzione (personali e patrimoniali). In particolare, il Titolo I (artt. 1-15) tratta delle misure di prevenzione personali distinguendo:
Il Titolo II (artt. 16-34) disciplina le misure di prevenzione patrimoniali, che possono essere applicate agli stessi soggetti cui possono essere applicate le misure di prevenzione personali dall’autorità giudiziaria, nonché alle persone fisiche e giuridiche segnalate dal Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite o da altro organismo internazionale competente per disporre il congelamento di fondi o di risorse economiche.
Le misure patrimoniali (sequestro e confisca) possono essere proposte dal procuratore della repubblica del distretto, dal questore o dal direttore della Dia competente per territorio. A seguito di indagini patrimoniali, indipendentemente quindi dall'applicazione di una misura di prevenzione personale, possono essere predisposti:
Il procedimento applicativo prevede l'intervento in tribunale dei terzi proprietari o comproprietari dei beni sequestrati. Eseguito il sequestro, l'ufficiale giudiziario immette nel pssesso dei beni l'amministratore giudiziario nominato dal tribunale.
Il Codice ha portato da un anno ad un anno e mezzo il termine massimo intercorrente tra il sequestro e la confisca; il termine decorre dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell'amministratore giudiziario (per indagini complesse o patrimoni rilevanti, tale termine può essere prorogato dal tribunale per periodi di sei mesi e per non più di due volte). La legge di stabilità 2013, novellando il Codice, ha previsto che il termine di un anno e mezzo sia perentorio ed il suo decorso senza che il Tribunale abbia depositato il decreto che pronuncia la confisca comporta la perdita di efficacia del sequestro.
I provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati, la confisca della cauzione o l'esecuzione sui beni costituiti in garanzia diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce. In caso di appello (per il quale si applica la medesima disciplina prevista per le impugnazioni dei provvedimenti che predispongono misure di prevenzione personale), il provvedimento di confisca perde efficacia se la Corte d'appello non si pronuncia entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso.
Il Codice antimafia prevede che possa essere richiesta la revocazione della decisione definitiva sulla confisca di prevenzione, nelle forme previste dall'articolo 630 del c.p.p., in ogni caso solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l'applicazione della misura. L'azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall'esercizio dell'azione penale. Il sequestro e la confisca di prevenzione possono essere disposti anche in relazione a beni già sottoposti a sequestro in un procedimento penale. In tal caso la custodia giudiziale dei beni sequestrati nel processo penale viene affidata all'amministratore giudiziario.
Oltre all'introduzione di una specifica disciplina in materia di tutela dei diritti dei terzi di buona fede (titolari di diritti sui beni sequestrati) e dei terzi creditori, tra le novità introdotte dal Codice si segnalano:
Il Libro I detta inoltre la disciplina dell’amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati. Il Titolo III (artt. da 35 a 51) stabilisce che, con il provvedimento con il quale è disposto il sequestro preventivo, il tribunale nomina il giudice delegato alla procedura e un amministratore giudiziario. Fino al decreto di confisca di primo grado, l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata coadiuva l'amministratore giudiziario sotto la direzione del giudice delegato: sulla base degli indirizzi dettati dall'Agenzia, il giudice delegato impartisce le direttive generali della gestione dei beni sequestrati. Sarà la stessa Agenzia, poi, ad occuparsi della fase amministrativa inerente la gestione e destinazione dei beni (v. ultra).
La legge di stabilità 2013 ha introdotto in tale parte del Codice alcune rilevanti novità; oltre al già previsto, possibile affidamento dei beni mobili sequestrati in custodia giudiziale, da parte dell'Agenzia, ad organi di polizia, ad altri organi dello Stato, ad enti territoriali ed enti pubblici non economici per finalità di giustizia, di protezione civile o di tutela ambientale, viene stabilita - se il sequestro non deve essere revocato - la possibilità di vendita dei beni mobili sequestrati se gli stessi non possono essere amministrati senza pericolo di deterioramento o di rilevanti diseconomie; se i beni sono privi di valore, improduttivi, oggettivamente inutilizzabili e non alienabili, il tribunale può procedere alla loro distruzione o demolizione. Le somme derivanti dalla vendita dei citati beni sequestrati affluiscono, al netto delle spese sostenute, al Fondo unico giustizia per essere versati all'apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato e riassegnati, nella misura del 50% secondo le destinazioni previste dall'art. 2, comma 7, del DL 143/2008 (Min. interni, Min. giustizia e Bilancio dello stato) e per il restante 50% allo stato di previsione della spesa del Ministero dell'interno per le esigenze dell'Agenzia che li destina prioritariamente alle finalità sociali e produttive. Se il tribunale non provvede alla confisca dei beni sequestrati, dispone la restituzione all'avente diritto dei proventi versati al Fondo unico giustizia in relazione alla vendita dei medesimi beni, oltre agli interessi maturati sui medesimi proventi computati secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale 127/2009. Il D.lgs. 218/2012, correttivo del Codice antimafia , ha stabilito che spetta all'Avvocato generale dello Stato decidere sull'eventuale assunzione da parte dell'Avvocatura della rappresentanza in giudizio dell'amministratore giudiziario nelle controversie sui beni sequestrati. Lo stesso correttivo chiarisce, invece, la natura obbligatoria del patrocinio legale assicurato dall'Avvocatura dello Stato all’Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati.
A seguito della confisca definitiva di prevenzione, i beni sono acquisiti al patrimonio dello Stato liberi da oneri e pesi. La destinazione dei beni immobili e dei beni aziendali è effettuata con delibera del Consiglio direttivo dell'Agenzia. La somma ricavata dalla vendita affluiscono al Fondo unico giustizia per essere riassegnati nella misura del 50% al Ministero dell'Interno per la tutela della sicurezza pubblica e del soccorso pubblico e, nella restante misura del 50%, al Ministero della Giustizia, per assicurare il funzionamento e il potenziamento degli uffici giudiziari e degli altri servizi istituzionali, in coerenza con gli obiettivi di stabilità della finanza pubblica.
Per ovviare alle rilevanti difficoltà applicative, importanti novità hanno interessato la tutela dei terzi e i rapporti con le procedure concorsuali (titolo IV).
In base al Titolo IV (articoli da 52 a 65), la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro. I crediti per titolo anteriore al sequestro, verificati a seguito della richiesta del creditore dopo la composizione dello stato passivo, sono soddisfatti dallo Stato nel limite del 70 per cento del valore dei beni sequestrati o confiscati.
A seguito del sequestro non possono essere iniziate o proseguite azioni esecutive. Se al momento dell'esecuzione del sequestro un contratto relativo al bene o all'azienda sequestrata è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti, l'esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando l'amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, dichiara di subentrare nel contratto, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di risolvere il contratto.
L'amministratore giudiziario presenta al giudice delegato l'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei crediti e delle rispettive scadenze e l'elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali o personali sui beni, con l'indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto. All'udienza il giudice delegato, assunte anche d'ufficio le opportune informazioni, verifica le domande di ammissione al credito, indicando distintamente i crediti che ritiene di ammettere, con indicazione delle eventuali cause di prelazione, e quelli che ritiene di non ammettere, in tutto o in parte, esponendo sommariamente i motivi della esclusione. Conclusa l'udienza di verifica, l'amministratore giudiziario effettua la liquidazione dei beni mobili, delle aziende o rami d'azienda e degli immobili ove le somme apprese, riscosse o comunque ricevute non siano sufficienti a soddisfare i creditori utilmente collocati al passivo.
Nei sessanta giorni successivi alla formazione dello stato passivo l'amministratore giudiziario redige un progetto di pagamento dei crediti, contenente l'elenco dei crediti utilmente collocati al passivo, con le relative cause di prelazione, nonché l'indicazione degli importi da corrispondere a ciascun creditore.
Quanto ai rapporti tra questa procedura e l’eventuale fallimento dell'imprenditore i cui beni aziendali siano sottoposti a sequestro o a confisca, il Codice dispone, salva l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento assunta dal debitore o da uno o più creditori, possa essere il pubblico ministero, anche su segnalazione dell'amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti, a chiedere al tribunale competente che venga dichiarato il fallimento dell'imprenditore. Ove sui beni compresi nel fallimento sia disposto sequestro, il giudice delegato al fallimento dispone, con decreto non reclamabile, la separazione di tali beni dalla massa attiva fallimentare e la loro consegna all'amministratore giudiziario. Analoga procedura di separazione consegue quando il fallimento sia successivo al sequestro: in tal caso, il giudice delegato, prima dell'emanazione del decreto deve, tuttavia, sentire il curatore ed il comitato dei creditori.
Infine, il Libro I del decreto regola gli effetti delle misure di prevenzione, stabilisce le sanzioni per le violazioni alle prescrizioni imposte con le misure di prevenzione, disciplina la riabilitazione e detta disposizioni finali (titolo V).
Il Titolo V (articoli da 66 a 81) stabilisce che l'applicazione delle misure di prevenzione di cui al libro I importa alcuni effetti, tra cui l'impossibilità di ottenere licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni di contributi, finanziamenti ecc., nonché la decadenza del diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni già in possesso (articolo 67).
Il Codice disciplina inoltre la procedura per la riabilitazione (articolo 70) disponendo che, trascorsi tre anni dalla cessazione della misura di prevenzione personale, l'interessato possa presentare apposita richiesta. La riabilitazione viene concessa se il soggetto ha dato prova costante ed effettiva di buona condotta.
Il Libro II del decreto legislativo (artt. 82-101) è dedicato, invece, al riordino della disciplina della documentazione antimafia, distinta in comunicazioni e informazioni antimafia; ulteriori disposizioni riguardano, rispettivamente, la Banca dati nazionale della documentazione antimafia nonché le norme sullo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose.
In particolare, presso il ministero dell'Interno è istituita la banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, contenente tutte le comunicazioni e le informazioni antimafia. Le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, gli enti e le aziende vigilate dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i concessionari di opere pubbliche, devono acquisire la documentazione antimafia prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici (articolo 83).
Sono sottoposti alla verifica antimafia tutti gli operatori economici (articolo 85) nonché l'ente locale, sciolto ai sensi dell'articolo 143 Testo unico egli enti locali (articolo 100).
La documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e dall'informazione antimafia. La prima, rilasciata dal prefetto, consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'art. 67. Fuori dai casi in cui è richiesta l'informativa antimafia e nei casi urgenti, i contratti e i subcontratti sono stipulati previa acquisizione di apposita autocertificazione.
L'informazione antimafia, rilasciata dal prefetto e richiesta prima di stipulare, approvare, autorizzare i contratti e subcontratti, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nell'articolo 67, il cui valore sia superiore a determinate soglie (articolo 91), consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67, nonché nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate.
Il citato decreto legislativo 218/2012, correttivo del Codice antimafia , ha introdotto alcune novità nella disciplina della documentazione antimafia dettata dal Codice. In particolare, la novella amplia le categorie di soggetti nei cui confronti devono essere espletate le prescritte verifiche ai fini del rilascio della documentazione antimafia; precisa i termini di validità della documentazione antimafia; esclude dai soggetti che possono richiedere la comunicazione antimafia i privati (tanto persone fisiche, quanto imprese, associazioni o consorzi); affida al prefetto le verifiche per il rilascio sia della comunicazione che dell'informazione antimafia quando la consultazione della Banca dati riguardi soggetti non censiti; aggiunge un ulteriore indizio dal quale il prefetto può desumere un tentativo di infiltrazione mafiosa, attraverso il riferimento alla reiterazione di violazioni agli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari derivanti da appalti pubblici; aggiunge una norma che prescrive la comunicazione dell’informazione antimafia interdittiva a tutti i soggetti istituzionali interessati; precisa che, fino all’attivazione della Banca dati nazionale (e comunque non oltre 12 mesi dalla pubblicazione del primo dei regolamenti attuativi), i soggetti pubblici acquisiscono d'ufficio tramite le prefetture la documentazione antimafia.
Il Libro III (art. 102-114) contiene la disciplina relativa alle attività investigative nella lotta contro la criminalità organizzata: una prima parte concerne le magistrature specializzate nella lotta alla criminalità organizzata ovvero la D.N.A. (Direzione Nazionale Antimafia) e la D.D.A. (Direzione distrettuale antimafia); la seconda parte contiene la disciplina dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie.
Il Titolo I (articoli da 102 a 109) prevede i seguenti organi: Direzione distrettuale antimafia, Direzione nazionale antimafia, Direzione investigativa antimafia e Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata.
La Direzione distrettuale antimafia (D.D.A.) è l'organo delle procure della Repubblica presso i tribunali dei capoluoghi di distretto di corte d'appello a cui viene assegnata la competenza sui procedimenti relativi ai reati di stampo mafioso.
La Direzione nazionale antimafia (D.N.A.) è l’organo di coordinamento a livello nazionale delle 26 Direzioni distrettuali antimafia, cui è preposto per quattro anni un Procuratore nazionale antimafia. La D.N.A. è a sua volta incardinata nella Procura generale presso la Corte Suprema di Cassazione
La Direzione investigativa antimafia è istituita nell'ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza, con il compito di assicurare lo svolgimento delle attività di investigazione preventiva attinenti alla criminalità organizzata, nonché di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione di tipo mafioso o comunque ricollegabili all'associazione medesima. Il D.lgs 218/2012, correttivo del Codice antimafia, ha prevede che la Direzione possa avvalersi, oltre che di personale dei ruoli della Polizia di Stato, dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, anche di personale appartenente al Corpo forestale dello Stato.
Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata. E’ istituito presso il ministero dell'Interno ed è presieduto dal ministro dell'Interno. Il Consiglio provvede a definire e adeguare gli indirizzi per le linee di prevenzione anticrimine e per le attività investigative; individuare le risorse, i mezzi e le attrezzature occorrenti al funzionamento dei servizi e a fissarne i criteri per razionalizzarne l'impiego; verificare periodicamente i risultati conseguiti in relazione agli obiettivi strategici delineati proponendo l'adozione dei provvedimenti atti a rimuovere carenze e disfunzioni e ad accertare responsabilità e inadempienze; concorrere a determinare le direttive per lo svolgimento delle attività di coordinamento e di controllo da parte dei prefetti dei capoluoghi di regione, nell'ambito dei poteri delegati agli stessi.
Obblighi semestrali di relazione al Parlamento sull’attività della D.I.A. unitamente ad un rapporto annuale sulla lotta alla criminalità organizzata sono stabiliti in capo al Ministro dell’interno.
Il Titolo II (articoli da 110 a 114) del Libro III disciplina l’Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (soggetto di diritto pubblico, sottoposta alla vigilanza del ministro dell'Interno), dotata di autonomia organizzativa e contabile, con sede principale in Reggio Calabria.
All'Agenzia sono attribuiti i seguenti compiti:
In particolare, l'estensione della competenza dell'Agenzia alle ipotesi di confisca penale obbligatoria di cui all'art. 12-sexies del DL 306/1992 in relazione alle condanne per il numeroso catalogo di reati ivi previsti è opera della legge di stabilità 2013.
L’Agenzia è stata istituita dal D.L. 4/2010 (L. 50/2010) per occuparsi del processo di gestione dei beni sequestrati e confiscati attraverso le sue due fasi: la fase giudiziaria e la fase amministrativa.
Durante la fase giudiziaria – che va dal provvedimento di sequestro alla confisca definitiva – l’Agenzia si configura come un organo di consulenza e di consiglio per il supporto dell’attività dell’Autorità Giudiziaria nella risoluzione delle criticità riscontrate dal giudice e dall’amministratore giudiziario durante procedimento. Svolgerà, inoltre, il ruolo di amministratore dei beni, a conclusione dell’udienza preliminare (se si tratta di processo penale) o a conclusione del provvedimento di confisca di primo grado (se si tratta di processo di prevenzione).
Durante la fase amministrativa – che inizia col provvedimento di confisca definitivo – l’Agenzia si occupa della gestione operativa dei beni confiscati, provvedendo alla loro destinazione entro 90 giorni dalla confisca definitiva (raddoppiabili in caso di operazioni complesse). In entrambe le fasi, l’Agenzia si occupa del monitoraggio, attraverso l’acquisizione di documenti e dati, in ordine all’uso dei beni dopo la destinazione.
Quanto all’organizzazione interna, da ultimo integrata dalla legge di stabilità 2013 (art. 1, comma 189), l’Agenzia è formata da tre distinti organi; il Direttore, con funzioni di rappresentanza legale, di attuazione delle linee guida, di presentazione del bilancio preventivo e del conto consuntivo dell’Agenzia; il Consiglio direttivo (presieduto dal direttore e composto da due magistrati e due esperti di gestioni aziendali e patrimoniali) ovvero l’organo deliberativo col compito di emanare le linee guida in materia di amministrazione, assegnazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati nonché il Collegio dei revisori, l’organo di controllo contabile dell’Agenzia (composto da tre revisori contabili e due supplenti). Il personale dell'Agenzia è determinato in 30 unità complessive; altre unità di personale, fino ad un massimo di 100, possono essere attinte dai ruoli della Pubblica amministrazione in posizione di fuori ruolo, comando o distacco.
Oltre a questi tre organi, l’Agenzia si avvale dei Nuclei di supporto (vedi la circolare dell'Agenzia dell'agosto 2011) presso le singole Prefetture. Tali nuclei, già previsti dal DL 4/2010, affiancano il Prefetto nel monitoraggio dei beni destinati, al fine di individuare eventuali situazioni di degrado, di abbandono, di utilizzo distorto o comunque inadeguato dei beni medesimi o fenomeni quali il loro perdurante utilizzo, diretto o indiretto, da parte degli stessi soggetti criminali ai quali erano stati confiscati; dall’altro di facilitare l’azione dell’Agenzia nazionale nel ripristino delle condizioni dell’effettivo utilizzo dei medesimi beni per finalità istituzionali e sociali.
Sulla disciplina in oggetto è intervenuto anche il decreto-legge 187/2010 (convertito dalla legge 217/2010) prevedendo in particolare l’utilizzo dei beni confiscati da parte della medesima Agenzia per finalità economiche e la destinazione dei relativi proventi al potenziamento della stessa, nonché la possibilità che con delibera dell’Agenzia siano estromessi singoli beni immobili da aziende confiscate non in liquidazione e successivamente trasferiti agli enti territoriali che ne facciano richiesta e che utilizzano tali beni a fini istituzionali.
In attuazione della disciplina sull'Agenzia sono stati adottati tre regolamenti:
Ulteriori notizie sull'Agenzia nazionale e sulla sua attività sono disponibili sul relativo sito Internet.
Il Libro IV, infine, prevede le necessarie norme di coordinamento, una disciplina transitoria nonché una serie di abrogazioni volte a rendere più chiara la normativa ed evitare inutili duplicazioni.
Il libro prescrive alcune disposizioni di coordinamento con la legge 1423/1956, la legge 575/1965, la legge 410/1991 e la legge 629/1982 (articolo 115).
È previsto un regime transitorio, secondo il quale le disposizioni contenute nel libro I non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione, continuandosi ad applicare le norme previgenti.
Analogo regime transitorio è stabilito per l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, per la quale sono previste disposizioni finanziarie per l'istituzione e il funzionamento (articolo 118).
L'entrata in vigore delle disposizioni del libro II, capi I, II, III e IV sulla documentazione antimafia era prevista decorsi 24 mesi dalla data di pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale" del regolamento ovvero, quando più di uno, dell'ultimo dei regolamenti di cui all'articolo 99, comma 1 del Codice sul funzionamento della banca dati presso il ministero dell'Interno. Il decreto legislativo 218/2012 ha anticipato l'entrata in vigore di tale parte del Codice decorsi 2 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta del primo decreto legislativo correttivo (vale a dire, dopo due mesi dalla pubblicazione dello stesso D.Lgs 218/2012).
Il D.L. 225/2010 (cd. proroga termini) ha disposto (art. 2, comma 6-sexies), a decorrere dal 31 marzo 2011, l'unificazione nel nuovo Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura dei preesistenti:
Il nuovo Fondo di rotazione è surrogato nei diritti delle vittime negli stessi termini e alle stesse condizioni già previsti per i predetti fondi e subentra in tutti i rapporti giuridici già instaurati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge 225 (27 febbraio 2011). Il Fondo unificato è alimentato con le risorse previste dalle normative vigenti per i Fondi unificati, ovvero mediante:
La Consap (la società pubblica che ha per oggetto principale l'esercizio in regime di concessione di servizi assicurativi pubblici, nonché l'espletamento di altre attività e funzioni di interesse pubblico) gestisce il Fondo per conto del Ministero dell'Interno sulla base di un’apposita concessione. Nonostante l'unificazione dei due Fondi, permangono peraltro, quali organi del Fondo “unificato”, i due distinti Comitati di solidarietà (quello per le vittime dei reati mafiosi e quello per le vittime di estorsione ed usura) che hanno sede presso il Ministero dell'Interno, presieduti da un Commissario di nomina governativa, con funzioni deliberanti.
Le finalità del Fondo unificato sono le seguenti:
Il Comitato di Solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso, presieduto dal “Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso”, delibera, alle condizioni previste dalla legge, i benefici economici alle vittime suindicate pari al danno quantificato in sede penale nel giudizio contro l'autore del reato nonché alle spese ed onorari di costituzione e difesa posti a carico degli imputati. La delibera del Comitato viene quindi trasmessa a Consap che provvede alla gestione del Fondo stesso ed alla materiale erogazione del beneficio deliberato. A tal fine, CONSAP: a) chiede ai beneficiari l'indicazione delle coordinate bancarie sulle quali effettuare l'accredito del beneficio concesso; b) ricevuta l'indicazione, ordina l'accredito delle somme dovute.
Il Comitato di Solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura, presieduto dal “Commissario Straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura”, delibera, alle condizioni previste dalla legge, la concessione degli indennizzi e dei mutui. A seguito della delibera del Comitato viene emanato il decreto dell'anzidetto Commissario Straordinario del Governo, che viene quindi trasmesso a Consap che provvede a darne esecuzione con le seguenti modalità:
- per i beneficiari vittime di estorsione:
- per i beneficiari vittime di usura:
La legge 225/2010 ha demandato, infine, ad un regolamento di attuazione - da adottare entro 3 mesi – il coordinamento delle discipline degli attuali regolamenti attuativi dei Fondi ora unificati dettate rispettivamente dal DPR n. 455 del 1999 (Regolamento del Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura) e dal DPR 284 del 2001 (Regolamento del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso), quest'ultimo recentemente novellato dal DPR 139/2011. Il regolamento di attuazione, approvato dal Consiglio dei ministri il 30 aprile 2012 (ma tuttora non emanato) oltre ad armonizzare in un'unica fonte normativa le diverse disciplina, è volto a migliorare le procedure per l’assegnazione delle somme in favore delle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura. Le decisioni sulla concessione dei benefici in favore delle vittime, il coordinamento delle iniziative di solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso e il coordinamento delle iniziative antiracket e usura restano affidati ai due distinti Comitati di solidarietà.
La creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne la prevenzione e la lotta alla criminalità costituisce uno degli obiettivi fondamentali dell’UE come definiti all’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea. In seguito al superamento della struttura a pilastri operato dal Trattato di Lisbona, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, prima essenzialmente affidata al metodo intergovernativo, risulta attualmente pienamente integrata nel sistema dell’Unione. Ad essa sono dedicati gli articoli 82-89 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. In particolare, l’articolo 87 prevede che il Parlamento europeo e il Consiglio possano stabilire, secondo la procedura legislativa ordinaria, norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale, quali la criminalità organizzata, il terrorismo, la tratta degli esseri umani, lo sfruttamento sessuale di donne e minori, il traffico illecito di stupefacenti e di armi, il riciclaggio di denaro, la corruzione, la contraffazione di mezzi di pagamento e la criminalità informatica.
In questo quadro e secondo le priorità stabilite nel programma di Stoccolma per lo spazio di libertà sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014, l’azione dell’Unione europea si svolge su due piani:
Allo scopo di garantire coerenza e complementarità fra la dimensione interna ed esterna della politica di sicurezza, l’Unione europea considera prioritario rafforzare le relazioni con i paesi terzi, in particolare gli Stati Uniti, nella lotta contro le forme gravi di criminalità organizzata e il terrorismo.
Il 22 novembre 2010 la Commissione europea ha presentato la comunicazione “La strategia di sicurezza interna dell'UE in azione: cinque tappe verso un'Europa più sicura”(COM(2010)673), come previsto nel programma di Stoccolma per lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014 e secondo le linee guida deliberate dal Consiglio europeo del 25-26 marzo 2010. La strategia individua i cinque obiettivi prioritari dell’Unione europea: smantellare le reti criminali internazionali; prevenire il terrorismo e contrastare la radicalizzazione e il reclutamento; aumentare i livelli di sicurezza per i cittadini e le imprese nel ciberspazio; rafforzare la sicurezza attraverso la gestione delle frontiere, aumentare la resilienza alle calamità naturali e provocate dall'uomo.
Per quanto riguarda la lotta alle reti criminali internazionali, la strategia individua le 3 aree di azione:
La prima relazione annuale sull'attuazione della Strategia di sicurezza interna dell'UE, presentata dalla Commissione europea nel novembre 2011 (COM(2011)790) dà conto di quanto finora intrapreso in relazione alle differenti azioni.
Per quanto riguarda il miglioramento nelle scambio di informazioni, nel febbraio 2011 la Commissione ha presentato una proposta di direttiva sulla raccolta dei dati del codice di prenotazione dei passeggeri presenti sui voli in entrata o in uscita dal territorio dell'Unione europea (dati PNR).
Tale proposta, che intende consentire alle competenti autorità degli Stati membri di analizzare i dati per prevenire, individuare e perseguire i reati di terrorismo e altri reati gravi, è attualmente oggetto di discussione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio. Essa rientra in una politica PNR più vasta, che comprende la conclusione di accordi PNR con paesi terzi. Tali accordi consentono l'utilizzo di dati PNR provenienti dall'Unione europea da parte delle autorità di contrasto dei paesi in questione, per gli stessi scopi. Gli accordi vigenti con Canada e Stati Uniti sono attualmente in fase di rinegoziazione, mentre un nuovo accordo con l'Australia è stato firmato nel settembre 2011.
Ulteriori interventi hanno riguardato il potenziamento delle Squadre investigative comuni (SIC) attraverso il finanziamenti, del valore di 2,1 milioni di euro, al progetto SIC di Eurojust "Sostenere un utilizzo più ampio delle squadre investigative comuni". Nel primo anno, l'attuale progetto di Eurojust ha già offerto sostegno a 33 SIC incaricate di indagare su reati di vario genere, quali il traffico di stupefacenti, la tratta di esseri umani, l'immigrazione illegale, il traffico di autoveicoli rubati, la criminalità informatica e quella finanziaria.
Per quanto riguarda gli strumenti di collaborazione pratica nella lotta alla criminalità transnazionale, si segnala la recente comunicazione “Rafforzare la cooperazione in materia di applicazione della legge nell’UE: il modello europeo di scambio di informazioni (EIXM) (COM (2012) 735) nella quale la Commissione fornisce raccomandazioni agli Stati membri per una piena e organica valorizzazione degli strumenti UE esistenti in particolare, la decisione quadro 2006/960/JHA, sullo lo scambio di informazioni e intelligence tra le autorità degli Stati membri incaricate dell’applicazione della legge e la decisione 2008/615/GAI (cd. decisione Prüm) che prevede lo scambio automatizzato di dati relativi a profili DNA, impronte digitali e immatricolazione di veicoli ai fini di indagine penale organizzata e alle altre gravi forme di criminalità con implicazioni transfrontaliere). La comunicazione si sofferma inoltre sul ruolo delle unità nazionali Europol e sullo scambio di informazioni nell’ambito del Sistema informativo Schengen, in vista della prossima introduzione di una piattaforma informatica tecnologicamente più avanzata (cd. SIS II).
Nel giugno 2011 la Commissione ha adottato un pacchetto contro la corruzione che istituisce a livello di Unione europea un meccanismo di relazioni per la valutazione periodica degli sforzi degli Stati membri contro la corruzione ("relazione dell'Unione sulla lotta contro la corruzione"). Tale relazione valuterà risultati, carenze e punti vulnerabili degli Stati membri, allo scopo di potenziare la volontà politica di varare approcci di totale intransigenza nei confronti della corruzione, incoraggiare l'apprendimento tra pari e lo scambio delle migliori prassi. La Commissione pubblicherà la relazione a scadenza biennale, a partire dal 2013.
Nel quadro del pacchetto contro la corruzione, una relazione della Commissione sulle modalità di partecipazione dell'Unione europea al Gruppo di Stati del Consiglio d'Europa contro la corruzione (GRECO) analizza varie possibilità per rafforzare la cooperazione tra l'Unione europea e il GRECO, In base a tali considerazioni, la Commissione chiederà al Consiglio l'autorizzazione ad aprire negoziati per l'adesione al GRECO.
Particolare rilevanza riveste inoltre la recente presentazione di una proposta di direttiva relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, mediante il diritto penale (COM(2012)363) nonché le proposte legislative per l’ammodernamento delle norme in materia di appalti pubblici (COM(2011)895 e 896), e di aggiudicazione dei contratti di concessione (COM(2011)897) attualmente all’esame delle istituzioni UE.
Il 12 marzo 2012 la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva COM(2012)85 in materia di congelamento e confisca dei proventi della criminalità in Europa.
La proposta comprende norme comuni per: facilitare la confisca di beni che derivano chiaramente dalle attività criminali di un condannato (concetto di confisca estesa); semplificare le procedure per confiscare i beni trasferiti ad altre persone che avrebbero dovuto rendersi conto della loro origine illecita (confisca nei confronti di terzi); consentire la confisca di beni nei casi in cui non si possa ottenere una condanna penale a motivo della morte, della malattia permanente o della fuga dell'indagato (confisca limitata non basata sulla condanna); garantire che i pubblici ministeri possano sottoporre a congelamento temporaneo i beni che rischiano altrimenti di scomparire (congelamento precauzionale); far sì che le autorità nazionali gestiscano i beni congelati o confiscati in modo da evitarne la svalutazione (gestione dei beni).
Il 5 febbraio 2013, la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva (COM(2013)45 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, destinata a sostituire la vigente direttiva 2005/60/CE (cd. terza direttiva antiriciclaggio). Tra le modifiche previste, si segnala l’estensione degli obblighi di verifica della clientela, conservazione dei dati e segnalazione di operazione sospette, a tutti i soggetti che offrono merci o prestano servizi contro pagamento in contanti di importo pari o superiore a 7 500 euro, con un notevole abbassamento rispetto all’attuale soglia di 15000 euro. La proposta stabilisce inoltre l’applicazione della normativa antiriciclaggio anche ai “prestatori di servizi di gioco d’azzardo” e non più solo alle case da gioco.
Nella stessa data la Commissione ha presentato una proposta di regolamento (COM(2013)44) riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi, che impone nuove regole in materia di transazioni effettuate tramite carte elettroniche e telefonia mobile e in materia d identificazione dei beneficiari.
Fondamentale importanza nell’ambito della lotta alle reti criminali rivestono inoltre ulteriori iniziative legislative UE in materia di contrasto allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e alla tratta degli esseri umani. In tale ambito si ricorda la presentazione della proposta di regolamento volta ad istituire il Sistema europeo di sorveglianza delle frontiere – Eurosur (COM2012)873) nonché la creazione in seno alla Commissione della figura del coordinatore anti- tratta.
Per quanto riguarda la cyber criminalità, si segnalano, in particolare, la proposta di direttiva sugli attacchi ai sistemi informatici (COM(2010)517), la proposta di direttiva in materia di sicurezza delle reti e dell’informazione COM(2013)48, presentata dalla Commissione europea nell’ambito di una più articolata Strategia sulla sicurezza informatica (JOIN(2013)1) nonché l’istituzione presso Europol, nel gennaio 2013, di un Centro per lo scambio di intelligence e analisi.
Si ricorda che nel corso della XIV Legislatura, la proposta di direttiva sugli attacchi ai sistemi informatici (COM(2010)517) è stata esaminata dalla XIV Commissione Politiche dell’Unione europea che ha adottato un documento di conformità al principio di sussidiarietà il 30 novembre 2010.
Il Consiglio Giustizia e affari interni dell’8-9 novembre 2010 ha concordato un ciclo programmatico dell'UE per contrastare la criminalità organizzata e le forme gravi di criminalità internazionale al fine di rafforzare la cooperazione tra le autorità di contrasto degli Stati membri (il cd. ciclo programmatico Harmony), le agenzie UE (Europol, Eurojust, OLAF) e individuato gli obiettivi delle azioni operative contro le minacce criminali più pressanti. Il ciclo, che entrerà nella sua fase pienamente operativa nel periodo 2013-2017, si baserà sui seguenti elementi:
In attesa della piena applicazione dello schema descritto, a partire dal 2013, è attualmente in corso una fase sperimentale 2011-2013 del ciclo, sulla base della relazione OCTA, presentata da Europol nel 2011. Le osservazioni contenute nell’OCTA hanno permesso di individuare 8 progetti EMPACT in cui elaborare piani operativi di coordinamento delle azioni delle autorità di contrasto nazionali e delle agenzie UE. Gli 8 progetti si prefiggono in particolare di:
Come già ricordato, il Trattato di Lisbona ha rafforzato il ruolo del sancito del Parlamento europeo attribuendogli la qualità di colegislatore anche per quanto riguarda la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e prevedendo il suo pieno coinvolgimento nel processo di valutazione delle politiche UE in materia di giustizia e affari interni.
Il 25 ottobre il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione di iniziativa sulla criminalità organizzata nell'Unione europea (2010/2309(INI)), nella quale sottolinea la necessità di migliorare il funzionamento delle strutture europee impegnate a vario titolo nel contrasto alla criminalità organizzata, rafforzando al contempo le relazioni con le altre istituzioni internazionali nonché di sviluppare il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali e migliorare la cooperazione giudiziaria e di polizia nell'UE e con i paesi terzi. Per quanto riguarda il rafforzamento del quadro legislativo UE, il Parlamento europeo, tra le altre cose, chiede alla Commissione – tenendo presente l'impatto estremamente limitato esercitato sui sistemi legislativi degli Stati membri dalla decisione quadro 2008/841/GAI sul crimine organizzato, la quale non avrebbe apportato significativi miglioramenti né alle legislazioni nazionali né alla cooperazione operativa volta a contrastare la criminalità organizzata – di presentare entro la fine del 2013 una proposta di direttiva che contenga una definizione di criminalità organizzata più concreta e che individui meglio le caratteristiche essenziali del fenomeno, in particolare focalizzando l'attenzione sulla nozione chiave di organizzazione e altresì tenendo conto dei nuovi tipi di criminalità organizzata. In tale quadro, il Parlamento europeo chiede che venga esaminata con maggior rigore la questione della criminalizzazione di qualsiasi forma di sostegno alle organizzazioni criminali.
Allo scopo svolgere appieno il suo rinnovato ruolo, il 14 marzo 2012 il Parlamento europeo ha istituito una commissione parlamentare speciale sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio di denaro. La commissione, che ha iniziato i suoi lavori nel mese di aprile con mandato annuale rinnovabile per un altro anno, ha il compito di investigare l'infiltrazione della criminalità organizzata nell'economia legale, nella pubblica amministrazione e nella finanza, e individuare misure per combatterla. I suoi membri avranno la possibilità di fare visite in loco, organizzare audizioni con le istituzioni europee e nazionali provenienti da tutto il mondo e invitare i rappresentanti delle imprese, della società civile e le organizzazioni delle vittime ma anche i funzionari, compresi i giudici, coinvolti nella lotta quotidiana contro la criminalità, la corruzione e il riciclaggio di denaro. Il 17 aprile la Commissione speciale ha eletto proprio presidente Sonia Alfano (ALDE, IT) nonché vicepresidenti Rosario Crocetta (S&D, IT), Rui Tavares (Verdi/ALE, PT), Timothy Kirkhope (ECR, UK) e Søren Bo Sondergaard GUE/NGL, DK). La Commissione ha altresì nominato Salvatore Iacolino (PPE, T) in qualità di relatore.
Per quanto riguarda le risorse finanziarie messe a disposizione delle iniziative in materia di contrasto alla criminalità, nell’ambito del programma quadro “Sicurezza e tutela delle libertà” per il periodo 2007-2013, l’Unione europea ha adottato il programma specifico “Prevenzione e lotta contro la criminalità” (decisione 2007/125/GAI), con dotazione pari a 605,6 milioni di euro. Il programma si articola in tre temi: a) attività repressiva; b) prevenzione della criminalità e criminologia; c) protezione dei testimoni e delle vittime. Esso intende contribuire ai seguenti obiettivi specifici:
Il programma non riguarda la cooperazione giudiziaria. Può, tuttavia, finanziare azioni finalizzate alla cooperazione tra autorità giudiziarie e autorità di contrasto. Per quanto riguarda il nuovo Quadro finanziario per il settore Affari interni per il periodo 2014-2020, è attualmente in corso da parte delle istituzioni UE l’esame delle proposta di regolamento COM(2011)753 che istituisce, quale parte del Fondo per la Sicurezza interna, lo strumento per il sostegno finanziario alla cooperazione di polizia, alla prevenzione e alla repressione della criminalità nonché alla gestione delle crisi, con dotazione complessiva proposta pari a 1.128 milioni di euro.
La legge 136/2010 si inserisce in una politica più ampia di interventi contro la criminalità organizzata in attuazione della quale è stata istituita l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (decreto-legge 4/2010) ed adottato il primo Codice antimafia e delle misure di prevenzione (D.Lgs 159/2011).
L’articolo 1 della legge 136 ha delegato il Governo all’emanazione di un codice della legislazione antimafia e delle misure di prevenzione. Il codice è diretto a realizzare un’esaustiva ricognizione delle norme antimafia di natura penale, processuale e amministrativa, la loro armonizzazione, nonché il coordinamento anche con la nuova disciplina dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati. I principi e criteri direttivi della delega sono riferiti specificamente alla complessa disciplina delle misure di prevenzione.
Per la loro rilevanza o innovatività, si richiamano i seguenti principi e criteri direttivi:
L’articolo 2 ha delegato il Governo alla modifica ed l’integrazione della disciplina delle certificazioni antimafia che mira:
L’articolo 3 della legge 136 introduce norme volte a garantire la tracciabilità dei flussi finanziari nelle procedure relative a lavori, servizi e forniture pubbliche, applicabili anche ai concessionari di finanziamenti pubblici comunitari ed europei per la gestione dei relativi flussi finanziari. Si prevede in particolare che i contraenti debbano utilizzare – salvo eccezioni specificamente indicate – conti correnti dedicati alle pubbliche commesse, ove appoggiare i relativi movimenti finanziari, e di effettuare i pagamenti con modalità tracciabili (bonifico bancario o postale). Il mancato utilizzo del bonifico bancario o postale costituisce causa di risoluzione del contratto. La tracciabilità dei flussi finanziari è altresì tutelata mediante l’obbligo di indicare il Codice identificativo di gara (CIG) e, se obbligatorio, il Codice unico di progetto – CUP, assegnato a ciascun investimento pubblico sottostante alle commesse pubbliche, al momento del pagamento relativo a ciascuna transazione effettuata in seno ai relativi interventi.
Gli articoli 4 e 5 della legge sono volti, rispettivamente, a rendere facilmente individuabile la proprietà degli automezzi adibiti al trasporto dei materiali per l’attività dei cantieri ed a favorire l’identificazione degli addetti ai cantieri.
L’articolo 6 prevede sanzioni amministrative pecuniarie per la violazione degli obblighi in materia di tracciabilità dei flussi finanziari.
L’articolo 9 della legge 136 inasprisce il regime sanzionatorio per il reato di Turbata libertà degli incanti attraverso una novella all’articolo 353, primo comma, c.p..
L’articolo 10 introduce il reato di Turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, che ricorre nella condotta di chi, con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della P.A.; la pena prevista è la reclusione da 6 mesi a 5 anni e la multa da 103 a 1.032 euro.
L’articolo 11, novellando l’articolo 51, comma 3-bis, c.p.p, integra con il reato di Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 del d.lgs. 152/2006) la lista dei procedimenti per i reati di grave allarme sociale rispetto ai quali le funzioni di P.M. sono attribuite all'ufficio del P.M. presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente e la cui trattazione rientra nelle funzioni della Direzione distrettuale antimafia.
L’articolo 13 prevede l’istituzione, in ambito regionale, della Stazione unica appaltante (Sua) al fine di garantire trasparenza, regolarità ed economicità nella gestione degli appalti pubblici di lavori e servizi e prevenire, in tal modo, le infiltrazioni di natura malavitosa.
L’articolo 7 della legge 136 novella alcune disposizioni della legge 646/1982 (articoli 25, 30 e 31) in materia di accertamenti fiscali nei confronti di soggetti sottoposti a misure di prevenzione o condannati per taluni reati. Le novelle in particolare ampliano la platea dei soggetti sottoposti alle verifiche e tenuti all’obbligo di comunicare le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore superiori ad una determinata soglia e intervengono in senso estensivo sull’ambito e sulle finalità degli accertamenti, prevedendo che essi riguardino la verifica, oltre che della posizione fiscale, anche della posizione economica e patrimoniale del soggetto e abbiano la finalità dell’accertamento di illeciti valutari e societari e comunque in materia economica e finanziaria.
L’articolo 8 interviene in materia di “operazioni sottocopertura”, con la finalità, da un lato, di ampliarne l’ambito operativo, dall’altro di delineare una disciplina unitaria e superare le normative di settore in materia, che vengono conseguentemente abrogate o modificate. La disciplina quadro in materia, delineata dall’articolo 9 della legge 146/2006 (che prevede la non punibilità degli ufficiali di polizia giudiziaria in relazione alla commissione di illeciti penali nel corso di tali operazioni), viene in particolare estesa alle indagini per i reati di estorsione (art. 629 c.p.), usura (art. 644 c.p.), sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anche nelle ipotesi non aggravate, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, reati in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope di cui al TU stupefacenti (in tale ultimo caso si prevede un coinvolgimento della Direzione centrale per i servizi antidroga che può anche direttamente disporre le operazioni sottocopertura). Tra le novità più significative si richiamano l’estensione della causa di non punibilità alle interposte persone (delle quali possono avvalersi gli ufficiali di polizia giudiziaria) e l’ampliamento della fattispecie di reato di rivelazione o divulgazione indebita dei nomi del personale di polizia giudiziaria impegnati in operazioni sottocopertura (che può trovare applicazione anche al di fuori dei ristretti limiti temporali attualmente previsti relativi allo svolgimento delle suddette operazioni di polizia). Il medesimo articolo 6 novella il codice di procedura penale (art. 497) e le relative disposizioni di attuazione (artt. 115 e 147-bis) con la finalità di garantire l’anonimato dei soggetti impegnati in attività sottocopertura; si prevede, in particolare, che tali soggetti, chiamati a testimoniare nei relativi processi penali, indichino le stesse generalità di copertura e si estende ai medesimi l’applicazione dell’esame dibattimentale a distanza, previsto per i collaboratori di giustizia.
L'articolo 11, attraverso la novella dell’art. 147-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p., prevede l’esame dibattimentale a distanza per i collaboratori di giustizia ammessi al programma provvisorio di protezione o a speciali misure di protezione.
L’articolo 14 modifica il decreto-legge 8/1991, in particolare in materia di collaboratori di giustizia e di testimoni di giustizia. Il comma 1 interviene sui ricorsi giurisdizionali avverso i provvedimenti della Commissione centrale di modifica o revoca delle speciali misure di protezione dei collaboratori di giustizia. La novella conferma la sospensione dell’esecuzione del provvedimento nel termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale, ma ne limita l’operatività al periodo di pendenza della decisione relativa all’eventuale richiesta di sospensione ai sensi degli articoli 21 della legge TAR e 36 del R.D. 642/1907, piuttosto che, come nel testo previgente, nel periodo di pendenza del ricorso. Il comma 2 interviene in materia di elargizioni a titolo di mancato guadagno a favore dei testimoni di giustizia, prevedendo l’estensione dell’applicazione dell’articolo 13 della legge 44/1999 (che reca modalità e termini per la presentazione della domanda per la concessione dell’elargizione a favore delle vittime di richieste estorsive) e la surroga del Dipartimento della pubblica sicurezza nei diritti verso i responsabili dei danni.
L’articolo 15 della legge 136/2010 interviene sulla composizione del Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata, in particolare inserendo nel medesimo organismo il direttore della DIA.
La legge 175/2010 introduce il divieto per il sorvegliato speciale - ai sensi della legge 575/1965 (ora Codice antimafia, D.Lgs 159/2011, v. ultra) - di svolgere le attività di propaganda elettorale.
Il legislatore non ha fino ad oggi espressamente definito il concetto di propaganda elettorale. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, per propaganda elettorale si intende la "specifica attività che si svolge nell'ambito del procedimento preparatorio della scelta e che è volta ad influire sulla volontà degli elettori nel periodo che precede le elezioni. Essa si connota [...] per la sua inerenza, diretta o indiretta alla competizione elettorale, sia quando ha, come scopo immediato o mediato, quello di acquistare voti o sottrarne agli avversari, sia quando ha come scopo, anche mediato, di convincere l'elettore a non votare, oppure a presentare scheda bianca, a rendere il voto nullo o ad esprimerlo in modo inefficace" (Corte di cassazione, sentenze n. 477/1998, e n. 11835/1989). Pure in assenza di una definizione generale di propaganda elettorale, già attualmente esistono fattispecie penali che fondano sulla definizione di tali attività – fornita dalla giurisprudenza – condotte penalmente rilevanti (cfr. ad es. art. 99 del D.P.R. 361/1957). Alcune leggi speciali disciplinano invece specifiche attività attraverso le quali si può svolgere la propaganda elettorale.
La ratio dell'introduzione di limitazioni allo svolgimento della propaganda elettorale da parte del sorvegliato speciale è stata così esposta dal relatore del provvedimento nel corso della seduta della Camera dei deputati del 24 febbraio 2010: "L'esigenza di introdurre nell'ordinamento questo divieto nasce da una considerazione tanto semplice quanto nei fatti da molti confutata. La considerazione è la seguente: è del tutto incongruente che la legge privi dell'elettorato attivo e passivo le persone sottoposte a sorveglianza speciale di polizia in forza di apposito decreto del tribunale (tali, per esempio, gli indiziati di appartenere alla mafia o ad altre organizzazioni similari), ma le lasci del tutto libere di svolgere propaganda elettorale e quindi di esercitare una loro influenza sul terreno politico, circostanza questa che offre alle stesse persone ampi spazi di pressione, soprattutto nei piccoli centri del Mezzogiorno d'Italia, sugli orientamenti dell'elettorato. Poiché si tratta di persone riconosciute socialmente pericolose, è fin troppo evidente come, in ipotesi del genere - si pensi, soprattutto in certe zone, ai fiancheggiatori di gruppi mafiosi -, possano risultarne favoriti i perversi intrecci di interesse tra le medesime e gli uomini politici ad esse legati. È questo per l'appunto ciò che la proposta in esame vorrebbe evitare. Al delinquente sottoposto a sorveglianza speciale non interessa tanto di essere persona dentro le istituzioni elettive come comune, provincia, regione o Parlamento. Ha invece interesse che vi sia chi lo possa aiutare o agevolare nella realizzazione di interessi specifici e particolari e, più precisamente, nella realizzazione del malaffare. Introducendo il divieto di propaganda elettorale per il sorvegliato speciale e sanzionando nel contempo anche la condotta del candidato che si rivolge per la propaganda al sorvegliato speciale, si recide alle origini e in maniera concreta l'intreccio delinquenza, politica e malaffare, bonificando le istituzioni. Con il testo in esame si mira a fare in modo che il delinquente non possa procedere alla raccolta dei voti, perdendo così il suo potere contrattuale nei confronti del politico. Questi, a sua volta, non sarà più in alcun modo condizionato dal delinquente. Infatti, è nella fase elettorale che si stringono rapporti sulla base dei quali esponenti della criminalità organizzata offrono voti ai candidati in cambio di favori futuri che spesso attengono al campo degli affari pubblici e, in particolare, agli appalti. A questo proposito vorrei sottolineare che non ritengo sufficiente la normativa vigente per scongiurare tali rischi. L'articolo 416-ter del codice penale, infatti, punisce il cosiddetto voto di scambio solo nel caso in cui sia comprovato lo scambio di denaro tra il candidato e l'elettore. Proprio in ragione della difficoltà di provare tale scambio la predetta disposizione ha trovato finora una scarsa applicazione, mentre nella realtà si registra una stretta collusione tra politica e criminalità organizzata proprio nella fase elettorale. È quindi necessario adottare norme che impediscano ai candidati di affidarsi, per la loro campagna elettorale, ai pregiudicati che hanno il controllo del territorio e che ostentano la loro disponibilità in fase elettorale, perché sicuri della non punibilità " (cfr. resoconto stenografico della seduta della Camera del 24 febbraio 2010).
L'art. 10 della legge 575/1965 prevede una serie di sanzioni accessorie nei confronti del soggetto al quale sia stata applicata, con provvedimento definitivo, una misura di prevenzione.
L'art. 1 della legge 175/2010 aggiunge al citato art. 10 due nuovi commi.
L'art. 2 della legge 175/2010 disciplina gli effetti della condanna alla pena della reclusione per il delitto previsto dal nuovo comma 5-bis.2 dall’art. 10 della legge 575/1965. Ai sensi del comma 1, tale condanna - anche se conseguente all’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p. (c.d. patteggiamento) - comporta l’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena detentiva. Nel caso in cui il condannato sia un membro del Parlamento, la Camera di appartenenza adotta le conseguenti determinazioni secondo le norme del proprio regolamento.
Il comma 2 stabilisce, al primo periodo, che dall’interdizione dai pubblici uffici consegue l’ineleggibilità del condannato per la stessa durata della pena detentiva.
La disposizione in questione ribadisce quanto previsto dall'art. 28 c.p., ai sensi del quale l'interdizione temporanea dai pubblici uffici priva il condannato, durante l'interdizione, del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale e di ogni altro diritto politico. Si ricorda inoltre che l'art. 2 del D.P.R. 20 marzo 1967, n. 223 stabilisce che non sono elettori (e dunque non possono essere eletti) coloro che sono sottoposti all'interdizione temporanea dai pubblici uffici, per tutto il tempo della sua durata. Per quanto riguarda le elezioni regionali e amministrative, l'art. 19 della legge 55/1990 e l'art. 58 del decreto legislativo 267/2000, prevedono la non candidabilità per coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo.
Infine, il secondo periodo del comma 2 dell'art. 2 stabilisce che la sospensione condizionale della pena non ha effetto "ai fini dell’interdizione dai pubblici uffici".
A tal proposito, si ricorda che l'art. 166 c.p. prevede che la sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie. Successivamente, con legge 15/1992 è stato modificato il comma 2 dell'art. 2 del D.P.R. 223/1967, per prevedere che, al contrario, la sospensione condizionale della pena non ha effetto "ai fini della privazione del diritto di elettorato". La disposizione in esame riproduce dunque la formulazione del suddetto art. 2, comma 2, del D.P.R. 223/1967, ampliandone però l'oggetto, in quanto essa si riferisce a tutti gli uffici pubblici e non solo al diritto di elettorato (che rappresenta solo uno degli uffici pubblici oggetto dell'interdizione di cui all'art. 28 c.p.).
Con l'entrata in vigore del Codice antimafia e delle misure di prevenzione (D.Lgs 159/2011), le disposizioni della legge 175/2010 sono confluite nel corpus del Codice. Il divieto di propaganda elettorale è ora sancito dall'art. 67, comma 7, del Codice, mentre le sanzioni previste per il reato sono contenute nell'art. 76, comma 8. Gli effetti della condanna per il divieto di propaganda elettorale sono, invece, oggetto dell'art. 76, comma 9, del Codice antimafia.
Il Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, nella sua relazione del 2009, segnalava l’ampia diffusione di tali fenomeni prevalentemente nelle regioni con forte radicamento delle organizzazioni criminali mafiose. Al tempo stesso, però, sottolineava la difficoltà di definirne le reali dimensioni, a causa dell’elevato grado di sommersione che caratterizza tali fenomeni. La relazione si soffermava inoltre sull’importanza di un’efficace attività preventiva, nonché di una più tempestiva erogazione dei benefici a favore delle vittime. In tale direzione, il Capo I della legge 3/2012 "Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento" introduce una serie di modifiche alla legge 108/1996 (cd. legge sull’usura) e alla legge 44/1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura) volte essenzialmente ad agevolare e rendere più celeri le procedure per l'accesso ai benefici economici previsti dalla legge in favore delle vittime dell'usura e del racket. Ulteriori disposizioni prevedono un incremento delle sanzioni previste per il reato di estorsione nonchè una novella al Codice degli appalti pubblici in funzione antiusura e antiriciclaggio.
L’art. 1, comma 1 della legge 3/2012 detta nuove disposizioni sul Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura.
Il Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura è stato unificato al Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive dall’art. 18-bis della legge 44/1999. Come accennato (vedi Fondo di rotazione), il Fondo unificato antiracket ed usura è stato, dal D.L. 225/2010, a sua volta accorpato al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso. La nuova denominazione del Fondo unificato è “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura”.
All’art. 14 della legge 108/1996 sull’usura sono aggiunti due nuovi commi che prevedono rispettivamente:
Una nuova formulazione del comma 3 dell’art. 14 è volta ad anticipare i tempi di erogazione del mutuo.
Il previgente art. 14, comma 3, stabiliva che il mutuo non potesse essere concesso prima del decreto che dispone il giudizio nel procedimento penale per il delitto di usura. Tuttavia, prima di tale momento, poteva essere concessa, previo parere favorevole del PM, un'anticipazione non superiore al 50 per cento dell'importo erogabile a titolo di mutuo quando ricorressero situazioni di urgenza specificamente documentate; l'anticipazione poteva essere erogata trascorsi 6 mesi dalla presentazione della denuncia ovvero dalla iscrizione dell'indagato per il delitto di usura nel registro delle notizie di reato, se il procedimento penale era ancora in corso.
Il nuovo comma 3 prevede la possibilità che il mutuo sia concesso anche nel corso delle indagini preliminari, previo parere favorevole del pubblico ministero, sulla base di elementi concreti acquisiti durante le stesse indagini.
Integrando il comma 5 dell’art. 14, si prevede - sempre con finalità acceleratorie - che la domanda di mutuo possa essere presentata al Fondo entro sei mesi dalla presentazione della denuncia per il delitto di usura oltre che - come attualmente stabilito - dalla data in cui la vittima dell’usura ha notizia dell'inizio delle indagini.
Il nuovo comma 7 dell’art. 14 incide sull’ambito soggettivo di concessione del beneficio.
Il comma 7 prevedeva che i mutui non potessero essere concessi a favore di soggetti condannati per usura o sottoposti a misure di prevenzione personale. Nei confronti di indagati o imputati per usura ovvero proposti per dette misure, la concessione del mutuo veniva sospesa fino all'esito dei relativi procedimenti. La medesima disposizione precisava, inoltre, che la concessione dei mutui è subordinata anche al verificarsi delle condizioni di cui all'articolo 1, comma 2, lettere c) e d) del decreto-legge 419/1991 (ovvero che la vittima non avesse concorso nel fatto delittuoso, ovvero in reati con questo connessi e che la medesima, al tempo dell'evento e successivamente, non risultasse sottoposta a misura di prevenzione, o al relativo procedimento di applicazione, ai sensi delle leggi 1423/1956 e 575/1965 (ora D.Lgs 159/2011, Codice antimafia) né risulti destinataria di provvedimenti che dispongono divieti, sospensioni o decadenze ai sensi della citata normativa antimafia, salvi gli effetti della riabilitazione.
La nuova norma restringe sostanzialmente tale ambito aggiungendo ulteriori ipotesi interdittive: i mutui non potranno, così, essere concessi né in caso di condanna per il “tentativo” del delitto di usura né ai condannati per una serie di reati consumati o tentati di particolare allarme sociale individuati dagli artt. 380 (delitti per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza) e 407, comma 2, lett. a) c.p.p. (associazione mafiosa, strage, terrorismo, omicidio, sequestro di persona a scopo di estorsione, ecc.). Analogo impedimento è introdotto per i soggetti sottoposti a misure di prevenzione patrimoniali e nei confronti di chi (ai sensi dell’art. 34 del citato D.Lgs 159/2011) – per finalità antimafia - è stato temporaneamente sospeso dall'amministrazione dei beni. Non viene invece riprodotta la norma del comma 7 che richiedeva inoltre il verificarsi delle condizioni di cui all'articolo 1, comma 2, lettere c) e d) del decreto-legge 419/1991 (su cui cfr. sopra).
Una nuova formulazione è dettata anche per il comma 9 dell’art. 14 che, prevedeva la revoca, da parte del Fondo, dei provvedimenti di erogazione del mutuo e della provvisionale ed il recupero delle somme già erogate se il procedimento penale per usura (in relazione al quale i benefici economici sono stati concessi) si fosse concluso con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere, di proscioglimento o di assoluzione. Ferma restando tale ipotesi, il testo novellato esclude esplicitamente la revoca nel caso di archiviazione del procedimento penale per prescrizione del reato, per amnistia o morte dell’imputato ovvero nel caso in cui il giudice debba emettere sentenza, in qualsiasi fase o grado del processo, ai sensi dell’art. 129 , comma 1, c.p.p., sempre che sussistano elementi documentati, univoci e concordanti in ordine al danno subito dalla vittima dell’usura.
L’art. 1, comma 2 della legge 3/2012 novella l’art. 15, comma 8, della legge 108/1996 modificando la composizione della Commissione che gestisce il “Fondo per la prevenzione del fenomeno dell’usura” e provvede all’erogazione delle contributi.
Tale Commissione, ai sensi del regolamento di attuazione emanato con DPR n. 315/1997, era costituita da sei componenti con qualifica dirigenziale: due in rappresentanza del Ministero dell’economia, di cui uno con funzioni di presidente, due del Ministero dello sviluppo economico e due del Dipartimento per gli affari sociali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il nuovo comma 8 dell’art. 15 prevede una Commissione di otto componenti. Per quanto riguarda la composizione, conferma i due membri dei Ministeri dell’economia e i due componenti dello sviluppo economico, aggiungendo due rappresentanti del Ministero dell’interno (di cui uno è il Commissario straordinario antiracket) e due rappresentanti del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali. La norma - confermando la gratuità dell’incarico dei commissari - stabilisce, inoltre, la qualifica minima (dirigenti di seconda fascia) dei funzionari membri della commissione e detta i criteri di validità delle riunioni e delle deliberazioni dell’organo, attualmente oggetto del citato regolamento di attuazione (DPR n. 315/1997, art. 11).
Il comma 3 dell’articolo 1 trasforma in delitto il reato contravvenzionale di cui all’art. 16, comma 9, della legge n. 108/1996, ovvero il fatto di chi - nell'esercizio di attività bancaria, di intermediazione finanziaria o di mediazione creditizia - indirizza una persona, per operazioni bancarie o finanziarie, a un soggetto non abilitato. Alla pena precedente, consistente nell’arresto fino a due anni o nell'ammenda da 2.065 a 10.329 euro, è sostituita la reclusione da due a quattro anni.
Infine, il comma 4 dell’art. 1 aggiunge all’art. 17 della legge n. 108, un comma 6-ter in materia di riabilitazione del debitore protestato. Detta norma prevede la possibilità di presentare un’unica domanda di riabilitazione anche per più protesti, ove compresi nell’arco temporale di tre anni, purché il protestato abbia adempiuto alla relativa obbligazione e non abbia subìto ulteriore protesto trascorso un anno dal precedente.
L’articolo 2 della legge 3/2012 apporta modifiche alla richiamata legge 44/1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura). Come accennato, detto Fondo è ora confluito nel Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura.
La riformulazione dell’articolo 3 della legge 44 è volta anzitutto a precisare il concetto di evento lesivo (che costituisce presupposto per l'elargizione a favore dei soggetti vittime di estorsioni), confermando che esso ricorre in presenza di un danno a beni mobili o immobili, o di lesioni personali o di mancato guadagno inerente all’attività esercitata. Due commi aggiuntivi (1-bis e 1-ter) introducono disposizioni identiche a quelle dell’art. 14, commi 2-bis e 2-ter, L. 108/1996 (v. ante) in relazione sia alla possibilità di accesso all’elargizione del Fondo antiracket anche per l’imprenditore dichiarato fallito, sia alla non imputabilità dell’elargizione alla massa fallimentare.
Un nuovo art. 18-ter affida agli enti locali specifici funzioni di sostegno alle attività economiche in funzione antiestorsiva prevedendo il possibile esonero da tributi o canoni locali in favore di imprenditori che subiscono eventi lesivi volti a costringerli al pagamento del “pizzo”.
Una ulteriore modifica concerne l’art. 19 relativo al Comitato di solidarietà per le vittime dell'estorsione e dell'usura presso il Ministero dell’interno.
Tale Comitato ha compiti consultivi, propositivi e di verifica della rispondenza della gestione del Fondo alle finalità previste dalla legge. In particolare spetta al Comitato deliberare la concessione dell'elargizione, poi concretamente disposta con decreto del Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura (trasmesso alla Consap, che provvede a darne esecuzione).
La composizione del Comitato prevedeva oltre, al Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura (che lo presiede) altri nove membri: un rappresentante del Ministero dello sviluppo economico ed uno del Ministero dell’economia; tre membri designati dal CNEL ogni due anni, assicurando la rotazione tra le diverse categorie; tre membri delle associazioni od organizzazioni antiracket iscritte nell'elenco tenuto dal Prefetto (art. 13, comma 2) nominati ogni due anni dal Ministro dell'interno (assicurando la rotazione tra le diverse associazioni od organizzazioni), su indicazione delle medesime; un rappresentante della Concessionaria di servizi assicurativi pubblici Spa (CONSAP), senza diritto di voto. Il Commissario ed i rappresentanti dei Ministeri restano in carica per quattro anni e l'incarico è rinnovabile una sola volta.
La novella incide sulle modalità di nomina dei tre rappresentanti delle associazioni antiracket, prevedendone in particolare la designazione da parte delle associazioni più rappresentative a livello nazionale (iscritte nell’elenco tenuto dal prefetto ex art. 13 (condizioni e requisiti per l'iscrizione nell'elenco e modalità per la relativa tenuta sono disciplinati dal DM 220/2007).
Modifiche sono, poi, introdotte all’art. 20 della legge n. 44/1999:
L’articolo 3 della legge 3/2012 interviene sull'articolo 1, comma 881, della legge finanziaria 2007 (L. 27 dicembre 2006, n. 296), in materia di confidi.
Il citato comma 881 ha previsto che i consorzi di garanzia collettiva fidi (cd. “confidi”), provvedono ad imputare al fondo consortile o al capitale sociale le risorse proprie costituite da fondi rischi o da altri fondi o riserve patrimoniali derivanti da contributi dello Stato, degli enti locali o territoriali o di altri enti pubblici. Tali risorse sono attribuite unitariamente al patrimonio a fini di vigilanza dei relativi confidi, senza vincoli di destinazione.
La disposizione integra la formulazione della norma prevedendo che i vincoli di destinazione, soppressi dalla citata disposizione con riferimento ai confidi in genere, permangano in relazione ai soggetti beneficiari del Fondo per la prevenzione del fenomeno dell'usura.
Gli articoli 4 e 5 della legge intervengono sul codice penale.
L’articolo 4 novella l’art. 629 c.p. aumentando l’entità della multa per il delitto di estorsione aggiungendo, inoltre, una nuova circostanza aggravante speciale.
Il previgente art. 629c.p. puniva con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da 516 a 2.065 euro chiunque, mediante violenza o minaccia, avesse costretto taluno a fare o ad ammettere qualche cosa, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno (primo comma). La pena era, invece, la reclusione da sei a venti anni e la multa da 1.032 a 3.098 euro se concorreva taluna delle seguenti circostanze: violenza o minaccia commessa con armi o da persona travisata, o da più persone riunite; violenza consistente nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire; violenza o minaccia posta in essere da persona che fa parte di associazione mafiosa (secondo comma).
L’estorsione è punita dal nuovo art. 629 c.p. – oltre che con la reclusione da 5 a 10 anni con la multa da 1.000 a 4.000 euro; la fattispecie aggravata del secondo comma con la multa da 5.000 a 15.000 euro.
L’articolo 5 della legge 3/2012 novella, infine, l’art. 135 del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs 163/2006) stabilendo che - oltre per le altre fattispecie previste - anche la condanna irrevocabile dell'appaltatore per usura e riciclaggio comporta che il responsabile del procedimento debba proporre alla stazione appaltante la risoluzione del contratto.
Nel corso della XVI legislatura sono stati numerosi gli interventi connessi all'attività di impresa. In particolare, si ricordano le misure in tema di lotta alla contraffazione ed in generale di tutela dei diritti di proprietà industriale; quelle sulle fusioni e scissioni societarie; la disciplina delle s.r.l. semplificate e a capitale ridotto, le modifiche in materia di società cooperative e di mutuo soccorso. Nel settore processuale, va segnalata l'istituzione del cd. Tribunale delle imprese e la soppressione del rito societario. Altri interventi hanno riguardato modifiche alla disciplina del concordato preventivo.
Finalità di lotta alla contraffazione e di tutela del made in Italy hanno ispirato gli interventi connessi all’attività di impresa contenuti nella legge 99/2009 (cd. collegato energia). La legge rafforza la tutela della proprieta' industriale, in particolare nel settore penale, introducendo nuovi reati nel codice penale e modificando la disciplina dei beni sequestrati e confiscati nel corso di attività anticontraffazione. Ulteriori misure in materia sono state introdotte dal D.L. 135/2009, il cui articolo 16 ha dettato una serie di disposizioni a difesa del made in italy e dei prodotti interamente italiani.
Sul piano amministrativo, è stato istituito dall'art. 19 della legge 99/2009 il Consiglio nazionale anticontraffazione presso il Ministero dello sviluppo economico, con il compito di coordinare e indirizzare l’insieme delle azioni di contrasto della contraffazione a livello nazionale, è stata rafforzata la tutela del made in Italy e prevista la confisca dei locali ove vengono prodotti, depositati, o venduti i materiali contraffatti.
Nel luglio del 2010 è stata istituita dalla Camera dei deputati la Commissione parlamentare monocamerale di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale. Nella seduta del 22 gennaio 2013 è stata approvata la Relazione finale della Commissione.
In ambito societario, l’obiettivo di semplificazione dell’attività d’impresa ha informato specifici interventi in materia di informatizzazione della documentazione contabile e di registrazione per via telematica del trasferimento delle partecipazioni societarie (D.L. 185/2008).
Con il D.Lgs. 123/2012 è stata, poi, data attuazione della direttiva 2009/109/CE, relativa agli obblighi in materia di relazioni e di documentazione in caso di fusioni e scissioni societarie.
Il provvedimento modifica il Libro V, Titolo V, Capo X del codice civile, semplificando la disciplina delle fusioni e delle scissioni delle società e riducendo gli obblighi gravanti su queste ultime. La nuova normativa prevede che, in alternativa al deposito presso il registro delle imprese, la pubblicazione sul web (sito della società o altro sito appositamente destinato) e l'invio di copia per posta elettronica dei progetti di fusione e scissione (e di altri documenti da rendere disponibili ai soggetti interessati) soddisfi gli adempimenti di pubblicità legale. Il decreto, oltre a prevedere una ipotesi di rinuncia alla relazione dell'organo amministrativo sui motivi della fusione, stabilisce che tale organo debba segnalare ai soci in assemblea (e all'organo amministrativo delle altre societa' partecipanti alla fusione) le modifiche rilevanti degli elementi dell'attivo e del passivo eventualmente intervenute tra la data in cui il progetto di fusione e' depositato presso la sede della societa' (ovvero pubblicato nel sito Internet di questa) e la data della decisione sulla fusione.
Ulteriori norme di attuazione della disciplina comunitaria in materia di societa' quotate riguardano gli obblighi di informazione societaria, i diritti degli azionisti delle società quotate, la costituzione delle società per azioni, la revisione legale dei conti, la disciplina delle società di rilevante interesse nazionale, la parità di accesso agli organi societari.
In merito a questo ultimo aspetto, con la legge 120/2011 è stata introdotta una disposizione in base alla quale gli statuti delle società quotate dovranno prevedere che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato su di un criterio che assicuri l'equilibrio fra i generi, intendendosi tale equilibrio raggiunto quando il genere meno rappresentato all'interno dell'organo amministrativo ottenga almeno un terzo degli amministratori eletti. Tale criterio di riparto dovrà applicarsi per tre mandati consecutivi e varrà anche per le società soggette a controllo di pubbliche amministrazioni. Le disposizioni della legge verranno applicate a decorrere dal primo rinnovo degli organi di amministrazione e degli organi di controllo delle società quotate in mercati regolamentati successivo ad un anno dalla data di entrata in vigore della legge, riservando al genere meno rappresentato, per il primo mandato in applicazione della legge, una quota pari almeno a un quinto degli amministratori e dei sindaci eletti.
Tra gli interventi volti a dare impulso all'economia, si segnala l'istituzione di due nuove forme di società a responsabilità limitata: la società a responsabilità limitata semplificata (D.L. 1/2012) e la società a responsabilità limitata a capitale ridotto (D.L. 83/2012). Gli specifici contenuti dei due decreti legge sono illustrati nell'apposita scheda.
In materia di societa' cooperative, oltre alle norme volte a limitare le agevolazioni fiscali previste in favore delle predette tipologie societarie - mediante la destinazione di una quota degli utili ad un fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti, l'aumento della quota di utili da destinare a riserve indivisibili e della ritenuta fiscale operata sugli interessi corrisposti ai soci, nonché l'incremento della tassazione degli utili netti - è stata modificata la disciplina delle società di mutuo soccorso (SMS), per adeguarne la normativa rispetto alla formulazione del 1886 e per ampliare il loro campo di attività. Viene aggiunta, tra l’altro, la possibilità di svolgere “mutualità mediata”, vale a dire la possibilità di aderire in qualità di socio ad un’altra SMS.
Con riguardo all’aspetto processuale, in un quadro più generale di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione regolati dalla legislazione speciale, la legge 69/2009 ha disposto la soppressione del rito societario disciplinato dal D.Lgs 5/2003.
Di particolare rilievo l'intervento del cd. decreto liberalizzazioni (D.L. 1/2012) che ha istituito speciali Tribunali delle imprese in tutti i tribunali e corti d’appello con sede nei capoluoghi di regione. La nuova disciplina amplia notevolmente l'ambito di competenza delle vecchie sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale.
L'art. 33 del D.L. 83/2012 (c.d. decreto crescita) - con la finalità di garantire la continuità aziendale in caso di crisi dell'impresa - ha novellato la legge fallimentare (R.D. 267/1942) per introdurre nel nostro ordinamento la facoltà di depositare un ricorso contenente la mera domanda di concordato preventivo, senza la necessità di produrre contestualmente tutta la documentazione finora richiesta. La nuova normativa, illustrata in misura più approfondita nel dossier del Servizio studi, prevede che il debitore possa così accedere immediatamente alle protezioni previste dalla legge fallimentare con l'obiettivo di promuovere l’emersione anticipata della crisi. Sarà inoltre possibile ottenere, sin dalle primissime fasi della procedura, l’erogazione di nuova finanza interinale e pagare le forniture strumentali alla continuazione dell’attività aziendale in un contesto di stabilità. In questo modo il debitore potrà proseguire nell’attività d’impresa durante la fase preliminare di preparazione della proposta di concordato e, successivamente, durante tutta la procedura sino all’omologa del concordato stesso.
Pur essendosi interrotto l'esame parlamentare, va segnalata l'approvazione presso la Commissione giustizia della Camera di un progetto di riforma del falso in bilancio. In particolare, il provvedimento restituiva natura di delitto al reato di false comunicazioni sociali, attualmente di natura contravvenzionale, di cui all'art. 2621 del codice civile.
Un disegno di legge del Governo (A.C. 1741), infine, prevedeva una delega per una complessa revisione della disciplina penale fallimentare.
Pur non strettamente attinente al diritto commerciale e societario, merita qui segnalazione il problema dei ritardi nei pagamenti alle imprese da parte delle pubbliche amministrazioni, problema tra quelli maggiormente oggetto di attenzione, anche per le note, negative ricadute sulle imprese stesse e l'occupazione. Sulla questione è intervenuto il decreto legislativo 192/2012 che ha fissato in 30 giorni il termine ordinario per i pagamenti nelle transazioni commerciali tra imprese, e tra Pubbliche Amministrazioni e imprese; soltanto in casi eccezionali è previsto un termine raddoppiato di 60 giorni. Il decreto, che recepisce la direttiva 2011/7/UE, stabilisce anche un aumento di un punto (dal 7 all'8%) degli interessi di mora. La nuova disciplina introdotta dal decreto legislativo si applicherà, tuttavia, ai soli contratti conclusi a partire dal 1° gennaio 2013. Per un approfondimento dell'argomento vedi lo specifico tema.
Nel dicembre 2012 è stato adottato il Regolamento (UE) n. 1215/2912 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, che sarà applicato a partire dal 10 gennaio 2015. La più importante modifica rispetto alla normativa previgente è costituita dalla abolizione delle procedure di exequatur. Ai sensi del nuovo regolamento, una decisione esecutiva emessa in uno Stato membro sarà immediatamente esecutiva negli altri Stati membri senza ulteriori adempimenti. Il riconoscimento potrà tuttavia essere negato qualora esso sia manifestamente contrario all’ordine pubblico nello Stato membro richiesto oppure la decisione sia stata resa in contumacia o sia incompatibile con una decisione emessa tra le medesime parti nello Stato membro richiesto.
Nel settore del diritto commerciale è tuttora all’esame delle istituzioni europee la proposta di regolamento relativa a un diritto comune europeo della vendita (COM(2011)635). Obiettivo generale della proposta è migliorare il funzionamento del mercato interno facilitando l'espansione degli scambi transfrontalieri per le imprese e gli acquisti transfrontalieri per i consumatori. La Commissione propone un corpus uniforme di norme di diritto dei contratti, comprensivo di norme a tutela del consumatore – il diritto comune europeo della vendita – da considerarsi alla stregua di un secondo regime di diritto dei contratti nell'ambito dell'ordinamento nazionale di ciascuno Stato membro.
Per quanto riguarda gli aspetti relativi al diritto fallimentare, il 12 dicembre 2012 la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento (COM(2012)744) che modifica l’attuale normativa UE in materia di procedure d’insolvenza a carattere transfrontaliero. La proposta ha lo scopo di:
Relativamente ai profili contabili, prosegue l’esame della proposta di direttiva (COM(2011)684) del 25 ottobre 2011 relativa ai bilanci annuali e ai bilanci consolidati che prospetta una revisione delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE in materia (cosiddette “direttive contabili”). Lo scopo della revisione è quello di: semplificare gli obblighi relativi alla redazione dei bilanci annuali e consolidati, riducendone gli oneri amministrativi, specialmente per le PMI; aumentare la chiarezza e la comparabilità dei bilanci, con particolare riferimento alle imprese che svolgono attività transfrontaliere; tutelare le esigenze essenziali degli utilizzatori al fine di conservare le informazioni contabili ad essi necessarie; migliorare la trasparenza dei pagamenti allo Stato da parte di imprese delle industrie estrattive e di imprese utilizzatrici di aree forestali primarie.
Con riguardo il governo societario, è attualmente all’esame delle istituzione UE una proposta di direttiva riguardante il miglioramento dell’equilibrio di genere negli organi direttivi delle società, stabilendo un obiettivo minimo del 40% di persone del sesso sotto-rappresentato tra i membri senza incarichi esecutivi dei consigli delle società europee quotate, da raggiungere entro il 2020 o, per le imprese pubbliche quotate, entro il 2018.
Il Governo Berlusconi ha presentato alla Camera il disegno di legge A.C. 1741, che delegava il Governo - oltre che a riformare le procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi - a modificare la disciplina dei reati fallimentari contenuta nella legge fallimentare (RD 267/1942). Il provvedimento ha interrotto il proprio iter in sede referente.
Le tre diverse ipotesi del delitto di bancarotta fraudolenta sono attualmente disciplinate da un’unica disposizione: l'art. 216 della legge fallimentare.
Commette questo delitto l'imprenditore dichiarato fallito che, prima dell'intervento della sentenza di fallimento, ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni, ovvero - allo scopo di recare pregiudizio ai creditori - ha esposto o riconosciuto passività inesistenti (c.d. bancarotta patrimoniale). Si configura la bancarotta anche se le predette condotte sono commesse dopo la sentenza e durante la procedura fallimentare (c.d. bancarotta post-fallimentare). Commette altresì il delitto di bancarotta fraudolente l'imprenditore dichiarato fallito che sottrae, distrugge o falsifica i libri e le scritture contabili allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare un danno ai creditori (c.d. bancarotta documentale), ovvero esegue pagamenti o simula titoli di prelazione per favorire taluno dei creditori (c.d. bancarotta preferenziale).
Si tratta di un reato proprio, che può essere commesso solo dall'imprenditore commerciale, cui vengono equiparati l'imprenditore occulto e colui che esercita l'attività commerciale per il perseguimento di un fine illecito. Con il fallito può concorrere nel reato anche un terzo, se la sua attività si è inserita nel processo criminoso con efficacia causale sull'evento.
L'elemento soggettivo, secondo alcuni, consiste nella volontà del soggetto agente di trarre profitto, per sé o per altri, dei fatti commessi con pregiudizio ai creditori (dolo specifico). Altri autori invece ritengono che sia sufficiente il dolo generico, ossia la sola volontà di compiere i vari atti a prescindere dallo scopo.
La pena è la reclusione da 3 a 10 anni in caso di bancarotta patrimoniale e documentale; la reclusione da 1 a 5 anni in caso di bancarotta preferenziale. Inoltre, la specifica condanna per bancarotta fraudolenta comporta per 10 anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e, sempre per 10 anni, l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
Ai sensi dall'art. 217 della legge fallimentare, commette il delitto di bancarotta semplice l'imprenditore, dichiarato fallito, che effettua spese personali (o per la famiglia) eccessive rispetto alla sua condizione economica, che consuma parte del suo patrimonio in operazioni imprudenti, che compie gravi atti per ritardare il fallimento, che aggrava il proprio dissesto, omettendo la richiesta di fallimento (c.d. bancarotta patrimoniale) e, infine, che non soddisfa le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare.
Commette il medesimo delitto l'imprenditore, poi dichiarato fallito, che nei 3 anni precedenti alla dichiarazione di fallimento non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritte dalla legge, o li ha tenuti in maniera incompleta (c.d. bancarotta documentale).
Anche in questi casi si tratta di reati propri, che possono essere commessi solo dall'imprenditore commerciale, mentre l'elemento soggettivo può essere anche solo la colpa, ritenendosi quindi sufficiente ai fini della punibilità che il fallito abbia agito con imprudenza, imperizia o negligenza. Il dolo è richiesto solo in relazione all'inadempimento delle obbligazioni assunte in un precedente concordato.
La pena è fissata nella reclusione da 6 mesi a 2 anni, cui si aggiunge l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per massimo 2 anni.
L'art. 217-bis della legge fallimentare esclude che ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo, di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, di un piano ovvero di un accordo di composizione della crisi omologato (v. Legge 3/2012 - Composizione delle crisi da sovraindebitamento, nonché ai pagamenti e alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice non si applicano né la bancarotta preferenziale né la bancarotta semplice.
Per punire il reato di bancarotta (fraudolenta o semplice) è necessaria la dichiarazione di fallimento e quindi occorre che il soggetto che commette il reato sia imprenditore soggetto al fallimento. Ai sensi dell’art. 223 della legge fallimentare, le pene stabilite dall’art. 216 (reclusione da 3 a 10 anni per la bancarotta patrimoniale e documentale; reclusione da 1 a 5 anni per la bancarotta preferenziale; pena accessoria dell’inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per 10 anni) si applicano anche agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci ed ai liquidatori di società dichiarate fallite, se:
Inoltre, ai sensi dell’art. 217 della legge fallimentare, le pene previste per il delitto di bancarotta fraudolenta possono essere comminate anche all’institore dell’imprenditore dichiarato fallito che abbia commesso i fatti di cui all’art. 116 della stessa legge.
Ai sensi dell’art. 224 della legge fallimentare, le pene stabilite nell’art. 217 per il delitto di bancarotta semplice (reclusione da 6 mesi a 2 anni e inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale con incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per massimo 2 anni) si applicano anche agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci ed ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali abbiano:
L'articolo 232 della legge fallimentare prevede al primo comma il reato di domanda di ammissione di crediti simulati. Commette questo reato chiunque, fuori dei casi di concorso in bancarotta, anche per interposta persona, presenta domanda di ammissione al passivo del fallimento per un credito fraudolentemente simulato.
Si tratta di un reato comune (chiunque) la cui condotta non si esaurisce nella presentazione della domanda di ammissione al passivo, ma comprende anche la fraudolenta simulazione, che deve accompagnare o precedere l'istanza di insinuazione. La fattispecie rientra nella categoria dei reati di pericolo e, più precisamente, di pericolo presunto: per la sussistenza del reato pertanto non è necessario che la condotta abbia cagionato un danno effettivo al fallimento e alle aspettative dei creditori ammessi al concorso, ma è sufficiente che il pericolo di tale danno derivi presuntivamente dalla presentazione del credito fraudolentemente simulato, senza che ne rilevi l'ammissione o meno al passivo. L'elemento soggettivo viene individuato nel dolo generico.
La pena è la reclusione da 1 a 5 anni e la multa da 51 a 516 euro; il reato è attenuato e la pena dimezzata se la domanda è ritirata prima della verifica dello stato passivo (secondo comma).
Il reato di ricettazione fallimentare è previsto dal terzo comma dell'art. 232 L.F. Commette tale reato chiunque:
Anche in questo caso – al pari della domanda di ammissione di crediti simulati - si tratta di reato comune (chiunque), di reato di pericolo presunto ed è richiesto il dolo generico. La pena della reclusione da 1 a 5 anni è aumentata se l'acquirente è un imprenditore commerciale (quarto comma).
Ai sensi dell’art. 219 della legge fallimentare, i reati di bancarotta fraudolenta (art. 216), bancarotta semplice (art. 217) e ricorso abusivo al credito (art. 218) sono aggravati se:
Gli stessi reati sono attenuati - e le pene ridotte fino al terzo - se i fatti commessi hanno cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità. L’art. 221 prevede invece, in generale, che se al fallimento si applica il procedimento sommario, le pene previste per i reati commessi dal fallito sono ridotte fino al terzo.
Attualmente, ferma la possibile applicazione delle pene accessorie previste dal codice penale, la legge fallimentare prevede le seguenti specifiche ipotesi:
In particolare, il disegno di legge del Governo A.C. 1741 delegava il Governo a:
Il disegno di legge delega individuava inoltre una serie di principi e criteri direttivi che il Governo avrebbe dovuto rispettare nel riformare le sanzioni e nell'introdurre specifiche aggravanti ed attenuanti. Per quanto riguarda, in particolare, le pene accessorie, il Governo avrebbe dovuto prevedere che alla condanna per bancarotta fraudolenta, anche impropria, bancarotta semplice e bancarotta semplice impropria conseguisse l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Il provvedimento dettava ulteriori principi e criteri direttivi, tra i quali si segnalano:
Il provvedimento è stato esaminato in sede referente dalle Commissioni riunite Giustizia ed Attività produttive che hanno deliberato lo svolgimento di un'indagine conoscitiva. Il disegno di legge ha interrotto il proprio iter in sede referente.
Il tema del c.d. falso in bilancio o, più correttamente, delle fattispecie penali riconducibili alle false comunicazioni sociali contenute nel libro del codice civile dedicato alle società, è stato affrontato dal Parlamento anche nella XVI legislatura. In particolare, alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare presentate alla Camera sono state esaminate dalla Commissione giustizia, che ha approvato un testo unificato (A.C. 1777-A) il cui iter si è interrrotto prima dell'approvazione in Assemblea.
La disciplina degli illeciti societari contenuta nel codice civile (Titolo XI del Libro V del codice civile, recante Disposizioni penali in materia di società e di consorzi) è stata modificata due volte negli ultimi dieci anni; gli articoli relativi alle false comunicazioni sociali sono stati infatti prima integralmente riscritti dal decreto legislativo 61/2002 (attuativo della delega contenuta nella legge 366/2001), quindi novellati dalla cd. legge sul risparmio (legge 262/2005).
La disciplina sanzionatoria è attualmente imperniata sull'articolo 2621 del codice civile (rubricato “false comunicazioni sociali”), volto a salvaguardare la fiducia che deve poter essere riposta nella veridicità dei bilanci o delle comunicazioni dell'impresa organizzata in forma societaria.
La fattispecie, meno grave rispetto a quella prevista dal successivo art. 2622 c.c., punisce con l'arresto fino a due anni gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili ed i liquidatori che nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali espongono fatti non veri ovvero omettono informazioni la cui comunicazione sia imposta dalla legge. Si tratta di un reato di natura contravvenzionale («â€¦sono puniti con l'arresto fino a due anni»), di un reato di pericolo («â€¦in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari…»), punito solo se commesso con dolo intenzionale («â€¦con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto»).
La disposizione prevede poi alcuni casi di non punibilità del fatto:
In questi casi, peraltro, ai responsabili delle false comunicazioni sociali si applica comunque una sanzione amministrativa pecuniaria da 10 a 100 quote, oltre alla sanzione accessoria dell'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da 6 mesi a 3 anni.
L'articolo 2622 del codice civile (rubricato “false comunicazioni sociali in danno ai soci e ai creditori”), mira a tutelare il patrimonio e dunque - pur riproponendo le condotte previste dall'articolo precedente e le corrispondenti ipotesi di non punibilità - sanziona con la reclusione da sei mesi a tre anni i responsabili delle false comunicazioni sociali, se la falsità provoca un danno patrimoniale per i soci, i creditori, o la società stessa. La fattispecie ha natura delittuosa ("reclusione") ed è costruita come reato di danno («â€¦cagionano un danno patrimoniale ai soci o ai creditori…»).
La norma, peraltro, diversifica la pena e la procedibilità del reato per le seguenti tre ipotesi:
A chiusura del Capo dedicato alle falsità, l'art. 2625 c.c. prevede la fattispecie di impedito controllo, che contempla due distinti illeciti, uno di natura amministrativa, l'altro di natura penale.
L'illecito amministrativo è strutturato attraverso la condotta dell'impedire o, comunque, ostacolare l'esercizio delle funzioni di controllo attribuite dalla legge ai soci o agli organi sociali ed è sanzionato con la pena pecuniaria fino a 10.329 euro. L’illecito penale, di natura delittuosa («reclusione fino ad un anno»), scatta quando la condotta cagiona un danno ai soci. La pena è raddoppiata quando la fattispecie riguarda società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante, ai sensi dell’articolo 116 del Testo unico in materia di intermediazione finanziaria.
L'indebita restituzione dei conferimenti (art. 2626) è una fattispecie generale di salvaguardia dell'integrità del capitale che punisce la restituzione, anche simulata, dei conferimenti o la liberazione dei soci dall'obbligo di eseguirli, al di fuori, naturalmente, delle ipotesi di legittima riduzione del capitale sociale.
L'illegale ripartizione degli utili e delle riserve (art. 2627) è norma posta a tutela dell'integrità del capitale e delle riserve obbligatorie per legge attraverso una previsione contravvenzionale che appare strutturalmente dolosa. La norma prevede la clausola "Salvo che il fatto non costituisca più grave reato", in quanto l'illegale ripartizione di utili o riserve da parte degli amministratori può integrare un reato più grave (ad esempio, il delitto di appropriazione indebita, punita dall'art. 646 c.p. con la reclusione fino a tre anni e la multa).
L’art. 2628 c.c., relativo alle illecite operazione sulle azioni o quote sociali o della società controllante, punisce con la reclusione fino ad un anno gli amministratori che, fuori dei casi consentiti, acquistano azioni o quote cagionando una lesione all'integrità del capitale.
L’art. 2629 (operazioni in pregiudizio dei creditori) mira a tutelare l'integrità del patrimonio sociale e prevede una causa di estinzione del reato, consistente nel risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio. Il delitto procedibile a querela.
L’art. 2629-bis (introdotto dalla legge sul risparmio) contempla il delitto di omessa comunicazione del conflitto di interessi. Soggetti attivi del reato possono essere l’amministratore o il componente del consiglio di gestione di:
La condotta consiste nella violazione degli obblighi previsti dall’articolo 2391, primo comma, del codice civile, e dunque essenzialmente dell’obbligo di comunicare agli altri amministratori e al collegio sindacale ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, l’amministratore o il componente del consiglio di gestione abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata; nonché dell’obbligo, per l’amministratore delegato, di astenersi dal compiere l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale. L’evento è dato dalla produzione di danni alla società o a terzi. La sanzione è fissata nella reclusione da uno a tre anni.
L'omessa esecuzione di denunce, comunicazioni o depositi (art. 2630) costituisce illecito amministrativo. Su questa disposizione è intervenuta la legge 180/2011 che ha dimezzato la sanzione amministrativa originariamente prevista per le omissioni (portando oggi la sanzione amministrativa pecuniaria da 103 a 1.032 euro) e stabilito l'ulteriore riduzione di un terzo della sanzione qualora i medesimi adempimenti vengano effettuati nel termine di 30 giorni dalla scadenza. Se si tratta di omesso deposito dei bilanci, la sanzione amministrativa pecuniaria è invece aumentata di un terzo. L'intervento dichiarato del legislatore è stato di «rendere più equo il sistema delle sanzioni cui sono sottoposte le imprese relativamente alle denunce, alle comunicazioni e ai depositi da effettuarsi presso il registro delle imprese tenuto dalle camere di commercio».
L’art. 2631 (omessa convocazione dell'assemblea), finalizzato alla tutela dei diritti delle minoranze nonché alla tutela del diritto all'informazione sull'integrità patrimoniale della società, sostituisce l'abrogato art. 2630, comma 2, n. 2) c.c. (la disposizione è stata trasformata in illecito amministrativo, ritenendo tale configurazione un sufficiente presidio per la tutela del generale regolare funzionamento delle società).
L’art. 2632 (formazione fittizia del capitale) costituisce la prima delle fattispecie di reato posta a tutela dell'effettività ed integrità del capitale sociale. Si tratta di una fattispecie delittuosa, procedibile d'ufficio, costruita come reato d'evento a condotta vincolata, punita con la reclusione fino ad un anno. Nel testo risultante dalle modifiche successivamente apportate dall’art. 111-quinquies disp. att. c.c. (inserito dall’art. 9 del d.lgs. n. 6 del 2003), l'evento costitutivo del delitto – la formazione o l'aumento di capitale – deve essere cagionato, per essere penalmente rilevante, da una delle tre condotte descritte dal legislatore, ossia: l’attribuzione di azioni o quote in misura complessivamente superiore all'ammontare del capitale sociale; la sottoscrizione reciproca di azioni o quote; la sopravvalutazione rilevante dei conferimenti dei beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società nel caso di trasformazione.
L'indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633) (punita con la reclusione da sei mesi a tre anni) mira a tutelare i creditori in sede di liquidazione e va a sostituire l'abrogato art. 2625 c.c. Come per l'ipotesi precedente è stata introdotta la procedibilità a querela e la causa di estinzione del reato consistente nel risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio.
La fattispecie di infedeltà patrimoniale (art. 2634), punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, riguarda la condotta degli amministratori, direttori generali e liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale. Anche in tal caso, si prevede la procedibilità a querela della persona offesa.
La c.d. legge anticorruzione (legge 190/2012) ha sostituito l'art. 2635 del codice civile, ora rubricato "corruzione tra privati". La disposizione punisce con la reclusione da uno a tre anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sè o per altri, compiendo od omettendo atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionano nocumento alla società. Le pene sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati ma il delitto è sempre procedibile a querela.
L'illecita influenza sull'assemblea (art. 2636) si perfeziona con la formazione irregolare di una maggioranza. La condotta deve esprimersi nel compimento di atti simulati o fraudolenti (e risulta così precisata rispetto all'abrogato art. 2630 1° comma n. 3 c.c., che utilizzava il concetto più generico di “mezzi illeciti”, sia pure specificando alcune forme tipiche di espedienti). Soggetto attivo non è più il solo amministratore ma chiunque. Il fatto è collegato all'esigenza che la condotta abbia determinato una maggioranza che altrimenti non si sarebbe formata, escludendo il rilievo dell'influenza non decisiva.
L’articolo 2637 accorpa le diverse fattispecie di aggiotaggio che viene configurato come reato comune e mira a tutelare l'economia pubblica ed in particolare il regolare funzionamento del mercato. Esso punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato, ovvero ad incidere in modo significativo sull'affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari.
Con riferimento all’ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638), si è costruita una fattispecie a carattere generale alla quale poter ricondurre le diverse figure previste al di fuori del codice, sulla quale è successivamente intervenuta la cd. legge sul risparmio. I due commi prevedono fattispecie delittuose diverse per modalità di condotta e momento offensivo: la prima centrata sul falso commesso al fine di ostacolare le funzioni di vigilanza; la seconda sulla realizzazione intenzionale dell'evento di ostacolo attraverso qualsiasi condotta (attiva o omissiva). Si è ritenuto di prevedere la stessa pena (reclusione da due a quattro anni) per ambedue le ipotesi, attesa la sostanziale equivalenza fra la più grave condotta di falso, nella prima, e le condotte meno gravi, nella seconda, che però determinano l'ostacolo alle funzioni di vigilanza. La legge sul risparmio ha previsto il raddoppio della pena quando tali fattispecie riguardino società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante, ai sensi dell’articolo 116 del testo unico sull’intermediazione finanziaria 58/1998.
Infine, il codice civile tratta della figura dell'amministratore di fatto all'art. 2639, relativo all’estensione delle qualifiche soggettive. L'equiparazione, ai fini della responsabilità, collegata all'esercizio di fatto delle funzioni è circoscritto alla presenza degli elementi della continuità e della significatività rispetto ai poteri tipici della funzione. Il secondo comma, coerentemente all'abrogazione delle norme relative ai delitti commessi dagli amministratori giudiziali e dai commissari governativi, si ricollega ad una esigenza di razionalizzazione dell'intera materia, prevedendo espressamente ed in via generale che le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applichino anche ai soggetti che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi; ferma restando, ovviamente, la possibilità di applicare la disciplina dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione in tutti gli altri casi.
L'articolo 2640 prevede una circostanza attenuante dell'offesa di particolare tenuità applicabile a tutte le fattispecie di reato mentre l'art. 2641 introduce, anche per i reati societari, l'istituto della confisca obbligatoria in caso di condanna o di pena patteggiata ex art. 444.
La Commissione giustizia della Camera ha iniziato il 1° luglio 2009 l’esame di una proposta di legge (A.C. 1895, Di Pietro-Palomba) volta a modificare ampiamente il titolo XI del libro quinto del codice civile in tema di disciplina sanzionatoria delle false comunicazioni sociali e di altri illeciti societari. Solo il 1° febbraio 2012 è stata abbinata la proposta A.C. 1777 (Di Pietro), di contenuto più circoscritto, in quanto volta esclusivamente a novellare la disciplina delle false comunicazioni sociali.
Nell’ambito dell’esame delle proposte, la Commissione ha svolto un’attività conoscitiva che ha comportato l’audizione informale di rappresentanti dell´Associazione nazionale magistrati, di magistrati (Paolo De Angelis, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Cagliari; Francesco Greco, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Milano; Renato Rordorf, Consigliere della Corte di Cassazione) e di esperti di diritto penale (Prof. Alberto Alessandri e Prof. Filippo Sgubbi).
Il 26 aprile 2012, dopo che i provvedimenti in esame sono stati inseriti nel calendario dei lavori dell'Assemblea in quota opposizione, su richiesta del gruppo IdV, la Commissione ha adottato l’A.C. 1777 come testo base. La Commissione Giustizia ha concluso l’esame del testo, accogliendo alcuni emendamenti, nella seduta del 23 maggio 2012.
Il provvedimento approvato dalla Commissione in sede referente è volto a modificare la disciplina delle false comunicazioni sociali contenuta nel codice civile (artt. 2621 e 2622) nonché a novellare la disciplina della responsabilità dei revisori dei conti, disciplinata dal d.lgs 39/2010.
In particolare, il provvedimento intende sanzionare con l'articolo 2621 c.c. le false comunicazioni sociali commesse nell'ambito di società non quotate, destinando il successivo articolo 2622 alle condotte di falsità commesse in società quotate o con azionariato diffuso. In sintesi, per quanto riguarda l'articolo 2621 c.c., l'AC 1777-A novella il primo comma, intervenendo esclusivamente sulla pena e prevedendo che le false comunicazioni sociali ai soci o al pubblico siano punite con la reclusione fino a tre anni. Le false comunicazioni sociali, attualmente concepite come reato di pericolo sanzionato in via contravvenzionale (arresto fino a due anni), tornano dunque ad essere un delitto.
Per quanto riguarda l'articolo 2622 c.c., il provvedimento:
Quanto alle circostanze aggravanti e attenuanti, il testo - dopo aver eliminato dall'art. 2622 c.c. l'aggravante per il "grave nocumento ai risparmiatori" - inserisce nel codice civile due nuovi articoli:
Il provvedimento approvato dalla Commissione giustizia interviene inoltre, per esigenze sistematiche, sull'articolo 27 del decreto legislativo n. 39/2010, dedicato alla falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale. La fattispecie penale viene novellata per adeguarla ai principi espressi dalla disciplina delle false comunicazioni sociali contenuta nel codice civile. in particolare, la sanzione dell'arresto fino a un anno è sostituita da quella della reclusione fino a quattro anni.
Il provvedimento, che l'Assemblea ha discusso nella seduta del 28 maggio 2012, non ha concluso l'iter.
Un primo gruppo di norme ha inteso rimodulare il regime fiscale delle società cooperative, limitando le agevolazioni fiscali previste in favore delle predette tipologie societarie (D.L. n. 112 del 2008). In particolare, le cooperative a mutualità prevalente sono state vincolate a destinare almeno il 5% degli utili realizzati ad un fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti; è stata progressivamente aumentata la quota di utili che le cooperative di consumo e i consorzi devono destinare a riserve indivisibili; è stata altresì aumentata dal 12,5 al 20 per cento l’aliquota della ritenuta fiscale operata sugli interessi corrisposti ai soci.
Successivamente, il decreto-legge n. 138 del 2011 ha innalzato la tassazione degli utili netti annuali delle società cooperative: l’incremento è stato dal 55 al 65 per cento per le cooperative di consumo e dal 30 al 40 per cento per le altre cooperative a mutualità prevalente diverse da quelle agricole e della piccola pesca. Inoltre è stata introdotta una percentuale di tassazione pari al 10 per cento della quota di utili netti annuali destinati a riserva minima obbligatoria.
Il decreto-legge n. 16 del 2012 ha poi escluso - per il 2012 - le banche di credito cooperativo dalla predetta tassazione.
La disciplina delle società di mutuo soccorso (SMS), contenuta nella legge n. 3818 del 1886, è stata modificata dall’articolo 23 del decreto-legge n.179 del 2012, per adeguarne la normativa rispetto alla formulazione del 1886 e per ampliare il loro campo di attività. Viene, aggiunta, tra l’altro, la possibilità di svolgere “mutualità mediata”, vale a dire la possibilità di aderire in qualità di socio ad un’altra SMS.
Più in dettaglio, si prevede l’iscrizione delle società di mutuo soccorso al Registro delle imprese secondo criteri e modalità che verranno stabilite con decreto del Ministro dello sviluppo economico, al fine di superare l’opposizione di alcune CCIAA che considera tali società enti non commerciali. L'iscrizione avviene nella sezione "imprese sociali", con l’ulteriore automatica iscrizione presso l’Albo delle società cooperative, analogamente a quanto previsto dal comma 2, dell’articolo 10, della legge n. 99 del 2009 per le imprese cooperative.
Mediante sostituzione dell’articolo 1 della legge 15 aprile 1886, n. 3818, si riconduce anzitutto l'assenza di finalità di lucro al perseguimento della finalità di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà che qui va inteso in senso orizzontale, ai sensi dell'articolo 118 ultimo comma Cost.. Si ampliano le attività che le società di mutuo soccorso possono svolgere in esclusivo favore dei soci e dei loro familiari conviventi. Le predette società possono altresì promuovere attività di carattere educativo e culturale ai fini della prevenzione sanitaria e della diffusione dei valori mutualistici.
Si introduce inoltre la “mutualità mediata”, in virtù della quale anche una di tali società può - oltre ad avere soci sostenitori, anche persone giuridiche - divenire socia ordinaria di altre società di mutuo soccorso; ciò a condizione che lo statuto lo preveda espressamente e che i membri persone fisiche di tali enti giuridici siano destinatari di una delle attività istituzionali delle medesime società di mutuo soccorso; la possibilità di aderire in qualità di socio è prevista anche per i Fondi sanitari integrativi in rappresentanza dei lavoratori iscritti.
La norma è volta, tra l’altro a recepire il dettato del Regolamento 2003/1435/CE del 22 luglio 2003 relativo allo statuto della Società cooperativa europea (SCE).
La norma inoltre ammette la categoria dei soci sostenitori, i quali possono essere anche persone giuridiche. I soci sostenitori possono designare fino ad un terzo degli amministratori, che vanno comunque scelti tra i soci ordinari.
E’ poi prevista la devoluzione patrimoniale della società in liquidazione o trasformata: ne beneficiano altre S.M.S. ovvero i fondi mutualistici ovvero il corrispondente capitolo di bilancio dello Stato.
Viene confermato l’attuale sistema di vigilanza posto in capo al Ministero dello sviluppo economico ed alle associazioni nazionali di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo, aggiungendo in capo a queste (nei confronti delle SMS aderenti) la possibilità di essere delegatarie dei poteri di revisione del MiSE. Resta in capo al MiSE il potere di disporre la perdita della qualifica di società di mutuo soccorso e la cancellazione dal Registro delle Imprese e dall'Albo delle società cooperative.
Si reca un'interpretazione autentica in tema di vigilanza sugli enti cooperativi e loro consorzi, nel senso di limitarne gli effetti alle sole pubbliche amministrazioni ai fini della legittimazione a beneficiare delle agevolazioni fiscali, previdenziali e di altra natura, nonché per l'adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori.
Tra gli interventi del Governo volti a dare impulso all'economia italiana si segnala l'istituzione di due nuove forme di società a responsabilità limitata: la società a responsabilità limitata semplificata (D.L. n.1 del 24 gennaio 2012) e la società a responsabilità limitata a capitale ridotto (D.L. n.83 del 22 giugno 2012).
La società a responsabilità limitata semplificata, introdotta dall'articolo 3 del decreto-legge n. 1 del 2012, mediante il nuovo articolo 2463-bis del codice civile, può essere costituita con contratto o atto unilaterale da persone fisiche, che non abbiano compiuto i trentacinque anni di età alla data della costituzione.
La disposizione tende a favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro - prevedendo il requisito dell’età fino ai trentacinque anni in coerenza con l’articolo 27 del decreto legge n. 98 del 2011 (circa il regime fiscale di vantaggio per l'imprenditoria giovanile) - mediante la loro partecipazione a strutture associative prive dei rigorosi limiti previsti fino ad ora per le società di capitali, che di fatto impedirebbero l’accesso a tale tipo di strutture da parte degli imprenditori più giovani e meno abbienti.
Assonime (l'Associazione fra le Società italiane per Azioni), con la circolare n. 29/2012, specifica che il requisito dell’età costituisce un elemento che deve sussistere al momento della costituzione della società, oppure al momento dell’ingresso di nuovi soci (poiché è questo il momento dell’avvio per il soggetto che subentra), ma non deve necessariamente permanere nel corso dell’intera vita sociale. Pertanto, si deve ritenere che: il superamento del requisito anagrafico non determina effetti sulla partecipazione del singolo socio o sull’organizzazione della società; i presupposti che giustificano l’esclusione del socio, la trasformazione o lo scioglimento della s.r.l.s. siano solo quelli indicati in generale per le s.r.l. dagli articoli 2473 bis e 2484 del codice civile.
L’atto costitutivo della società
L'atto costitutivo della società semplificata deve essere redatto per atto pubblico secondo un modello standard, successivamente definito con Dm Giustizia 138 del 23 giugno 2012 e deve indicare: 1) il cognome, il nome, la data, il luogo di nascita, il domicilio, la cittadinanza di ciascun socio; 2) la denominazione sociale contenente l'indicazione di società semplificata a responsabilità limitata e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie; 3) l'ammontare del capitale sociale, pari almeno ad 1 euro e inferiore all'importo di 10.000 euro previsto per la società a responsabilità limitata ordinaria, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve farsi in denaro e essere versato all'organo amministrativo; 4) alcuni requisiti previsti dalla disciplina per la società a responsabilità limitata, vale a dire l'attività che costituisce l'oggetto sociale, la quota di partecipazione di ciascun socio, le norme relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti l'amministrazione, la rappresentanza, le persone cui è affidata l'amministrazione e l’eventuale soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti; 5) il luogo e la data di sottoscrizione; 6) gli amministratori, i quali devono essere scelti tra i soci. Assonime sostiene inoltre che la Srl semplificata, per la parte non regolata dal modello, può inserire clausole statutarie ulteriori, a condizione di non porsi in contrasto con le previsioni del modello e le finalità specifiche della s.r.l.s.
La denominazione di società a responsabilità limitata semplificata, l'ammontare del capitale sottoscritto e versato, la sede della società e l'ufficio del registro delle imprese presso cui questa è iscritta devono essere indicati negli atti, nella corrispondenza della società e nello spazio elettronico destinato alla comunicazione collegato con la rete telematica ad accesso pubblico E’ inoltre previsto il divieto di cessione delle quote a soci non aventi i requisiti di età, determinandosi, in tali casi la nullità dell’atto. Per quanto non espressamente previsto dall’articolo in commento, si rinvia alla disciplina della società a responsabilità limitata ordinaria (di cui al capo VII del titolo V del libro V del codice civile).
Le misure agevolative
Tra le misure agevolative, si ricorda, infine, l’esenzione – per l’atto costitutivo e l'iscrizione nel registro delle imprese - da diritti di bollo e di segreteria nonché da onorari notarili.
La vigilanza
Al Consiglio nazionale del notariato sono attribuiti compiti di vigilanza sulla corretta e la tempestiva applicazione delle disposizioni da parte dei singoli notai. Il Consiglio pubblica ogni anno i relativi dati sul proprio sito istituzionale.
La società a responsabilità limitata a capitale ridotto è disciplinata dall’articolo 44 del decreto-legge n. 83 del 2012, le cui norme sono volte a ridurre i costi per l’avvio di un’impresa. E’ consentito, infatti, anche a coloro che hanno già compiuto 35 anni, di costituire società a responsabilità limitata, partendo da un capitale sociale limitato pari almeno ad 1 euro e inferiore all'importo di 10.000 euro. L’obiettivo è quello di ridurre i costi per l’avvio di un’impresa, anche per questa fascia d’età, consentendo di costituire, con contratto o atto unilaterale redatto nella forma di atto pubblico, società a responsabilità limitata.
A tal proposito Assonime ha ribadito, con riguardo al requisito dell’età, la tesi sostenuta del Ministero dello Sviluppo economico secondo cui la s.r.l. a capitale ridotto può esser costituita sia da persone fisiche di età inferiore, sia da persone fisiche di età superiore ai 35 anni. Pertanto, secondo tale interpretazione, la s.r.l. a capitale ridotto può essere validamente costituita da tutte le persone fisiche che abbiano compiuto i 18 anni di età.
L’atto costitutivo della società
Diversamente dalla costituzione di S.r.l. semplificate, per le quali il legislatore ha stabilito non solo l’esenzione da diritti di bollo e di segreteria, ma, soprattutto, la gratuità della prestazione notarile, per le S.r.l. a capitale ridotto non sono previste agevolazioni economiche. Anche lo standard di atto costitutivo previsto –adottato con Dm Giustizia 138 del 23 giugno 2012 - per le S.r.l. degli under 35 non si applicherà alle S.r.l. degli over 35.
Il contenuto dell’atto (mutuato, salva la disposizione sugli amministratori, sulla formulazione dell’art. 2463-bis c.c.) dovrà essere il seguente: 1) cognome, nome, data, luogo di nascita, domicilio, cittadinanza di ciascun socio; 2) denominazione sociale contenente l'indicazione di società a responsabilità limitata a capitale ridotto e comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie; 3) ammontare del capitale sociale, pari almeno ad 1 euro e inferiore all'importo di 10.000 euro previsto per la società a responsabilità limitata ordinaria, sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve farsi in denaro e essere versato all'organo amministrativo; 4) alcuni requisiti previsti dalla disciplina per la società a responsabilità limitata, vale a dire l'attività che costituisce l'oggetto sociale, la quota di partecipazione di ciascun socio, le norme relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti l'amministrazione, la rappresentanza, le persone cui è affidata l'amministrazione e l’eventuale soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti; 5) luogo e data di sottoscrizione; 6) indicazione degli amministratori, che possono (diversamente dalla S.r.l. semplificata) anche essere scelti tra persone diverse dai soci.
Per quanto riguarda le regole sul capitale sociale, Assonime rammenta che il conferimento, sia per la srl semplificata che per quella a capitale ridotto, deve essere fatto in denaro e deve essere versato all’organo amministrativo al momento della costituzione. Tale obbligo non sembra però valere in sede di aumento di capitale sociale oltre il tetto massimo del capitale consentito (ovvero quando il capitale sia maggiore di 10.000 euro); ciò in quanto, l’aumento comporta sia il mutamento del modello societario e il conseguente passaggio al regime della srl ordinaria
Il D.L. 83/2012 dispone che la denominazione “società a responsabilità limitata a capitale ridotto”, l'ammontare del capitale sottoscritto e versato, la sede della società e l'ufficio del registro delle imprese presso cui questa è iscritta, devono essere indicati negli atti, nella corrispondenza della società e nello spazio elettronico destinato alla comunicazione collegato con la rete telematica ad accesso pubblico. Per quanto non espressamente previsto dal decreto si rinvia alla disciplina della società a responsabilità limitata ordinaria (artt. 2462-2483 del codice civile), in quanto compatibile.
Accesso al credito agevolato
Al fine di favorire la nascita e lo sviluppo di nuove imprese giovanili, prevede inoltre che il Ministro dell'economia e delle finanze promuova un accordo con l’Associazione bancaria italiana - ABI per fornire credito a condizioni agevolate ai giovani di età inferiore a 35 anni, che intraprendono attività imprenditoriale attraverso la costituzione di una società a responsabilità limitata a capitale ridotto.
L'articolo 2 del decreto-legge 1/2012 (cd. decreto liberalizzazioni) prevede l'istituzione del "Tribunale delle imprese", ampliando in misura significativa la sfera di competenza delle precedenti sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale (istituite dal d. lgs. 168/2003 presso alcuni tribunali e corti d'appello). Le sezioni specializzate in materia d'impresa, se non già previste, sono istituite - con specifiche eccezioni - presso tutti i tribunali e corti d'appello con sede nel capoluogo di ogni regione.
L'articolo 2 del decreto-legge 1/2012 (decreto liberalizzazioni, convertito con modificazioni dalla legge 27/2012) ha profondamente riformato la disciplina relativa alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale, che il decreto legislativo 168/2003 aveva istituito presso i tribunali e le corti d'appello di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia.
In particolare, l'articolo 2, oltre a modificarne la denominazione in “sezioni specializzate in materia di impresa” istituisce nuove sezioni specializzate in tutti i tribunali e corti d’appello con sede nei capoluoghi di regione che finora ne erano sprovvisti (si tratta delle sedi di Ancona, Cagliari, Campobasso, Catanzaro, L’Aquila, Perugia, Potenza e Trento) nonché, in quanto sede di Corte d’appello, presso il tribunale e la Corte d’appello di Brescia. La competenza per il territorio della Valle d’Aosta è attribuita al tribunale e alla Corte d’appello di Torino.
I giudici che compongono le sezioni specializzate sono scelti tra i magistrati dotati di specifiche competenze, senza che l’istituzione delle nuove sezioni comporti la necessità di incrementi di organico.
Quanto alle controversie attribuite alla competenza del tribunale delle imprese, la riforma ha ampliato la competenza per materia delle sezioni specializzate. In particolare, il decreto-legge conferma la competenza sulle controversie in materia di proprietà industriale di cui all'articolo 134 del D.Lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) aggiungendo:
In materia societaria, è attribuita al tribunale delle imprese la competenza su specifiche controversie relative:
Più analiticamente, per quanto concerne la tipologia di controversie e procedimenti societari attratti alla competenza delle sezioni specializzate, la riforma indica le cause relative a rapporti societari, compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore, il direttore generale ovvero il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché contro il soggetto incaricato della revisione contabile per i danni derivanti da propri inadempimenti o da fatti illeciti commessi nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati, le opposizioni alla delibera dell’assemblea di riduzione del capitale sociale delle spa e delle srl (articoli 2445, terzo comma e 2482, secondo comma, c.c.), le opposizioni all’iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione di destinazione di un patrimonio della società ad uno specifico affare (art. 2447-quater, secondo comma, c.c.), le opposizioni alla revoca dello stato di liquidazione della società (art. 2487-ter, secondo comma, c.c.), le opposizioni alle fusioni di società da parte dei creditori e dei possessori di obbligazioni delle società partecipanti (artt. 2503 e 2503-bis, c.c.), le opposizioni alla scissione delle società (art. 2506-ter c.c.). Come norma di chiusura, la disposizione attribuisce ai tribunali dell’impresa la competenza anche sulle cause che presentano ragioni di connessione con quelle sopraelencate.
Quanto alla competenza per territorio, il decreto-legge riformula l'articolo 4 del D.lgs. 168/2003 stabilendo che le controversie di cui all’articolo 3 che, secondo gli ordinari criteri di ripartizione della competenza territoriale e nel rispetto delle normative speciali che le disciplinano, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nel territorio della regione (i tribunali circondariali) sono assegnate alla sezione specializzata avente sede nel capoluogo della regione individuato ai sensi dell’articolo 1. Alle sezioni istituite presso tribunali e corti d’appello non capoluoghi regionali sono attribuite le controversie che dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nei rispettivi distretti di corti d’appello.
L'articolo 2 del decreto-legge liberalizzazioni raddoppia, per i processi di competenza delle sezioni specializzate, il contributo unificato previsto dal TU spese di giustizia.
Parte del maggior gettito derivante dall’aumento (600.000 euro) - per ciascuno degli anni 2012 e 2013 - è destinato agli oneri derivanti dall’istituzione delle nuove sezioni specializzate in materia di impresa. dal 2014 l'intero maggior gettito del contributo unificato sarà versato all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnato al fondo istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, per la realizzazione di interventi urgenti in materia di giustizia civile, amministrative e tributaria (ai sensi dell'articolo 37, co.10, del D.L. 98/2011).
Una disposizione transitoria stabilisce che le disposizioni sul tribunale delle imprese si applicano ai giudizi instaurati dopo il 180° giorno dall'entrata in vigore della legge di conversione del DL n. 1/2012, ovvero ai giudizi instaurati dopo il 24 settembre 2012.
La legge 99/2009 (c.d. collegato energia) mira, tra l'altro, a rafforzare la tutela penalistica della proprietà industriale e a contrastare più efficacemente la contraffazione; misure anche di natura penale di tutela del made in Italy sono contenute nel decreto-legge 135/2009, di attuazione di obblighi comunitari; ad inizio legislatura, nell'ambito di un decreto-legge di più ampio contenuto in materia di sicurezza (D.L. 92/2008), è stata apportata una modifica al codice di procedura penale volta a prevedere la distruzione delle merci contraffatte sequestrate. Il D.Lgs 231/2010 ha dettato una specifica disciplina transitoria volta alla tutela dei diritti di proprietà industriale su opere "di pubblico dominio" non registrate ai sensi della legge 633/1942 sul diritto d'autore.
La legge 99/2009 (c.d. collegato in materia di energia) mira, tra l’altro, a rafforzare la tutela penale della proprietà industriale riformulando alcuni articoli del codice penale, inserendovi nuove fattispecie di reato e apportando modifiche alla disciplina della confisca.
In particolare, il provvedimento (art. 15):
Con il decreto-legge 135/2009 si è intervenuti sulla disciplina del Made in Italy:
Ad inizio legislatura, il Parlamento ha convertito il decreto-legge 92/2008 in tema di sicurezza pubblica. Il provvedimento è, tra l’altro, intervenuto sul codice di procedura penale prevedendo la distruzione delle merci prodotte in violazione delle norme a tutela della proprietà industriale e sequestrate dall’autorità giudiziaria, anche al fine di risolvere le difficoltà di carattere economico e pratico che la custodia e la conservazione di ingenti quantitativi di merce può porre.
Attraverso la modifica dell’art. 260 c.p.p. si è in particolare stabilito che l'autorità giudiziaria deve procedere alla distruzione delle cose di cui sono vietati la fabbricazione, il possesso, la detenzione o la commercializzazione, in presenza delle seguenti condizioni:
L'autorità giudiziaria dispone il prelievo di uno o più campioni e ordina la distruzione della merce residua. Nei casi di sequestro nei procedimenti a carico di ignoti, la polizia giudiziaria, a tre mesi dal sequestro ( fatta salva la facoltà di conservazione di campioni da utilizzare a fini giudiziari), può procedere alla distruzione delle merci contraffatte sequestrate, previa comunicazione all'autorità giudiziaria.
Appare opportuno segnalare, in quanto occasione di un intervento del Legislatore, la complessa questione inerente la disciplina transitoria della tutela del diritto d’autore nel campo del design industriale.
Sulla materia in questione, si è infatti pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza 27 gennaio 2011 (nella nota causa "Flos") in risposta al rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale di Milano concernente la compatibilità dell’art. 239 Codice della proprietà industriale (D.Lgs 30/2005) con la direttiva 98/71 e, dunque la compatibilità della normativa italiana sulla protezione del design industriale ai sensi della legge sul diritto d’autore (in attuazione della citata direttiva) con il diritto europeo.
Si tratta del caso sollevato da Flos – nota multinazionale dell’illuminazione - contro la ditta Semeraro che aveva importato dalla Cina un modello di lampade (chiamate “Fluida”) che Flos ha definito imitazioni delle proprie lampade “Arco”. La Flos non aveva, a suo tempo, fatto registrare lampada di propria produzione. Secondo la legge vigente in Italia all’epoca dei fatti, dato che la lampada in questione era ormai caduta in pubblico dominio, non poteva più essere tutelata, e di conseguenza la ditta Semeraro era praticamente legittimata a copiare liberamente il modello Flos senza incorrere nella violazione di alcun diritto. Il Tribunale di Milano, investito originariamente della causa, sospese il giudizio per porre all’attenzione della Corte di Giustizia UE alcune questioni relative alla compatibilità della normativa italiana con quella comunitaria. Venivano così in rilievo principalmente due ipotesi: da un lato quella dei disegni e modelli che prima della data di entrata in vigore della normativa nazionale di trasposizione della direttiva (19 aprile 2001) erano già di pubblico dominio in mancanza di una registrazione come disegni e modelli e, dall’altro, quella in cui, prima di tale data, essi siano divenuti di pubblico dominio in quanto la protezione derivante da una registrazione ha cessato di produrre i suoi effetti. Nella sentenza della Corte di giustizia UE, la prima questione viene risolta nel senso che la normativa comunitaria non consente agli Stati membri di escludere dall’ambito di applicazione della tutela del diritto d’autore quelle opere di design che, in possesso dei requisiti previsti e registrati in uno Stato membro o con effetti in uno Stato membro, siano divenute di pubblico dominio anteriormente alla data di entrata in vigore della normativa di recepimento della direttiva. Sulla seconda questione, invece, si è stabilito che per venire incontro anche agli interessi di quei terzi che in buona fede avevano fabbricato e commercializzato prodotti realizzati ispirandosi alle opere di design di pubblico dominio, la protezione per questi dovesse essere concessa per un periodo transitorio ispirato ai principi di proporzionalità e ragionevolezza. La Corte di Giustizia ha stabilito che è contrario alla normativa comunitaria un regime transitorio che di fatto escluda la protezione di diritto d’autore per opere che abbiano i requisiti per godere di tale tutela.
Tale decisione, tuttavia, ha perso in parte la sua attualità poiché in pendenza del procedimento la legge italiana è stata nuovamente modificata con una novella dell’art. 239 del D.Lgs 30/2005 (Codice della proprietà industriale) in linea con il contenuto della sentenza comunitaria. Il D.Lgs 131/2010 ha riformulato l'art. 239 del suddetto Codice stabilendo che la tutela ai sensi della legge sul diritto d'autore comprende anche le opere del disegno industriale che, anteriormente alla data del 19 aprile 2001, erano, oppure erano divenute, di pubblico dominio. Tuttavia i terzi che avevano fabbricato o commercializzato, nei dodici mesi anteriori al 19 aprile 2001, prodotti realizzati in conformità con le opere del disegno industriale allora in pubblico dominio non rispondono della violazione del diritto d'autore compiuta proseguendo questa attività anche dopo tale data, limitatamente ai prodotti da essi fabbricati o acquistati prima del 19 aprile 2001 e a quelli da essi fabbricati nei 5 anni successivi a tale data (il DL 216/2011 ha esteso tale periodo a 13 anni) e purché detta attività si sia mantenuta nei limiti anche quantitativi del preuso.
La XVI legislatura si è caratterizzata per l'approvazione della legge 219/2012, volta ad eliminare dall'ordinamento le residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali, affermando il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli. Non hanno invece concluso l'iter parlamentare le proposte di legge in tema di riduzione dei tempi di scioglimento del matrimonio e di attribuzione del cognome ai coniugi ed ai figli.
Con la legge 10 dicembre 2012 n. 219, il Parlamento ha modificato le disposizioni del codice civile relative alla filiazione, superando ogni distinzione tra figli legittimi e figli naturali. La riforma (per la cui analisi si rinvia a Legge 219/2012 - Riforma della filiazione) prevede:
Il Parlamento nel corso della XVI legislatura ha affrontato altri temi legati al diritto di famiglia, tra i quali si segnalano proposte di legge in tema di divorzio, riconoscimento delle c.d. unioni civili, affidamento dei figli, creazione di tribunali specializzati in materia di famiglia, modalità di attribuzione del cognome ai coniugi ed ai figli. Nessuno di questi provvedimenti, dei quali si dà di seguito sinteticamente conto, è stato approvato.
Il c.d. divorzio breve. In particolare, la Commissione Giustizia della Camera ha approvato il 29 marzo 2012 un testo unificato di numerose proposte di legge (A.C. 749, A.C. 1556, A.C. 2325 e A.C. 3248) che, intervenendo sulla legge sul divorzio (n. 898/1970), mirava a ridurre da tre anni ad un anno la durata della separazione necessaria per poter presentare domanda di divorzio; il termine era raddoppiato (due anni) in presenza di figli minori. Inoltre, con una modifica dell'art. 191 del codice civile, il provvedimento anticipava lo scioglimento della comunione dei beni tra marito e moglie (che attualmente consegue al passaggio in giudicato della sentenza di separazione) al momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati (ulteriori elementi di documentazione sul quadro normativo vigente e sul contenuto del testo unificato possono essere rinvenuti nei dossier del Servizio Studi). Il provvedimento, pur inserito nel calendario dei lavori dell'Assemblea, non è stato approvato dalla Camera dei deputati.
Il riconoscimento delle unioni di fatto. Anche in questa legislatura l'esigenza di una disciplina organica della convivenza e di un riconoscimento esplicito della famiglia di fatto si è posta all'attenzione della Camera dei deputati che ha esaminato in Commissione Giustizia una ampia serie di proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 1065, A.C. 1631, A.C. 1637, A.C. 1756, A.C. 1858, A.C. 1862, A.C. 1932, A.C. 3841), il cui contenuto è analizzato nel dossier del Servizio studi, che contiene anche una ricostruzione di diritto comparato. La Commissione non ne ha concluso l'esame.
Il cognome dei coniugi e dei figli. Nel corso della legislatura la Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha avviato anche l'esame di proposte di legge di iniziativa parlamentare volte a modificare la disciplina di attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli (A.C. 36 e abbinate). Le proposte prevedevano in taluni casi l’assunzione del cognome di entrambi i genitori (secondo criteri differenti), in altri del cognome dell’uno o dell’altro genitore. Nonostante l’elaborazione di un testo di sintesi, la Commissione non ha concluso l’esame delle proposte. Nello stesso periodo peraltro, la Commissione è stata chiamata ad esprimere un parere su uno schema di regolamento del Governo volto a modificare il regolamento sullo stato civile (D.P.R. 396/2000) in tema di procedure per ottenere il cambiamento del nome o del cognome. L’emanazione del D.P.R. 54/2012 (come più ampiamente descritto dalla scheda di approfondimento), ha prodotto una semplificazione delle procedure, attribuendo ogni competenza alle prefetture ed evitando il coinvolgimento del Ministero dell’Interno.
L'adozione da parte delle famiglie affidatarie. Nell'ultimo anno di legislatura la Commissione giustizia ha esaminato alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 3459, A.C. 3854, A.C. 4077, A.C. 4279 e A.C. 4326) volte a valorizzare il rapporto che, grazie all’istituto dell’affidamento, si instaura tra il minore e la famiglia affidataria che lo accoglie in un momento di estremo bisogno, sostanzialmente prevedendo una corsia preferenziale per l’adozione a favore della famiglia affidataria, laddove risulti impossibile ricostituire il rapporto del minore con la famiglia d’origine. Nonostante l'approvazione di un testo base il 15 dicembre 2012, l'anticipata chiusura della legislatura non ha consentito la prosecuzione dei lavori.
I provvedimenti che hanno interrotto l'iter al Senato. Tra i provvedimenti che non hanno concluso l'iter in Commissione giustizia al Senato si ricordano alcuni disegni di legge volti a modificare la disciplina sull'affidamento condiviso (AS. 957 e abbinati) e una delega al Governo per l'istituzione presso i tribunali e le Corti d'appello delle sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia (AS. 3323).
Con riguardo agli aspetti del diritto di famiglia con implicazioni transnazionali, merita segnalare che l’Italia ha aderito, insieme ad altri 14 Stati membri UE (Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna e Ungheria) ad una cooperazione rafforzata, nel settore del diritto applicabile in materia di divorzio e di separazione legale (decisione del Consiglio 2010/405/CE ).
Ai sensi dell’articolo 331 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la cooperazione rafforzata è lo strumento che consente a un gruppo di almeno nove Stati membri di attuare misure qualora non sia raggiunto un accordo da parte di tutti i 27 Stati membri. Gli altri paesi dell’UE conservano il diritto di aderire quando lo desiderino.
Dal 21 giugno 2012 si applica pertanto all’Italia il regolamento attuativo della cooperazione (regolamento (UE) n. 1259/2010, cd. regolamento ROMA III) che contiene norme dettagliate sulla scelta del diritto applicabile ai divorzi internazionali. La maggiore innovazione riguarda la facoltà che il regolamento riconosce alle coppie internazionali di convenire in anticipo la legge applicabile al loro caso. I coniugi, in particolare, potranno scegliere tra:
Il regolamento stabilisce altresì criteri comuni a disposizione delle autorità giurisdizionali per determinare la legge nazionale applicabile in mancanza di accordo delle parti.
Si segnala inoltre che è attualmente all’esame delle istituzioni dell’Unione europea un pacchetto legislativo comprendente due proposte di regolamento rispettivamente relative alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di regime patrimoniale tra coniugi (COM(2011)126) e di effetti patrimoniali delle unioni registrate (COM(2011)127). Il pacchetto di proposte persegue i seguenti comuni obiettivi:
Nel corso della XVI legislatura la Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha avviato l'esame di proposte di legge presentate da deputati sia di maggioranza sia d’opposizione volte a modificare la disciplina di attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli (A.C. 36 e abbinate).
Nello stesso periodo il Governo - previa acquisizione dei pareri delle competenti commissioni parlamentari - ha emanato il D.P.R. 54/2012, di modifica del regolamento sullo stato civile (D.P.R. 396/2000) in tema di procedure per ottenere il cambiamento del nome o del cognome.
Il diritto al nome trova riconoscimento a livello costituzionale nell'art. 22 della Costituzione, secondo cui «nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome», da leggersi in combinazione con l'art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce in via generale i diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali è pacificamente annoverato il diritto all'identità personale. Il nome, secondo la Corte costituzionale, “assume la caratteristica del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione (...) accanto alla tradizionale funzione del cognome quale segno identificativo della discendenza familiare” (sent. n. 13/1994).
L'art. 6 del codice civile specifica che ogni persona ha diritto al nome – definito come l'insieme di prenome e cognome - che le è per legge attribuito e che non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità indicati dalla legge. Ai sensi dell'art. 7 c.c., la persona alla quale si contesti il diritto all'uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall'uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento del danno. L'art. 8 c.c. stabilisce poi che le azioni previste dall'art. 7 c.c. possono essere promosse anche da chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un interesse fondato su ragioni familiari degne di essere protette. Le medesime azioni possono infine essere esperite a tutela dello pseudonimo, usato da una persona in modo che abbia acquisito l'importanza del nome (art. 9 c.c.).
Le disposizioni normative che, ai sensi dell'art. 6 c.c., disciplinano l'attribuzione del cognome (in via diretta o come conseguenza dell'attribuzione di un particolare status familiae) sono contenute nel codice civile, in alcune leggi speciali e nel D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127).
Ai sensi dell’art. 143-bis c.c. (introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975), la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze.
A tal proposito, la Corte di cassazione (sent. 17 luglio 2004, n. 13298) ha osservato che: "la normativa codicistica vigente prima della riforma del diritto di famiglia, nel regolare soltanto, nell'ambito della famiglia legittima, il cognome della moglie, disponeva all'art. 144 c.c., in piena coerenza con il riconoscimento al marito - nella stessa norma sancito - della qualità di capo della famiglia, che la moglie ne assumesse il cognome, così chiaramente ponendo il cognome dell'uomo quale elemento identificativo del nucleo familiare. La legge di riforma n. 151 del 1975 ha sostituito tale disposizione con l'art. 143-bis c.c., ai sensi del quale la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito. Nonostante l'apparente incisività della nuova formulazione, essa deve considerarsi di modesto spessore (...) tenuto conto da un lato che anche nel vigore della precedente normativa la giurisprudenza di questa Suprema Corte aveva ravvisato il diritto della moglie a conservare il proprio cognome, aggiungendo ad esso quello del marito (...), considerato d'altro lato che anche la disposizione novellata evidenzia, sia pure in termini attenuati rispetto al passato, l'opzione del legislatore verso il cognome del marito come identificativo della nuova famiglia costituita, in quanto unico cognome comune, così rimarcando una posizione di evidente disparità tra i coniugi".
L’art. 156-bis c.c. stabilisce che il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito, quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall’uso possa derivarle grave pregiudizio.
Ai sensi dell’art. 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), una volta pronunciato con sentenza lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio. Tuttavia il tribunale, con la sentenza suddetta, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela. Tale decisione può essere modificata con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti.
Per esclusive ragioni descrittive si fa di seguito riferimento alle categorie dei figli legittimi e naturali. La legge 219/2012 ha infatti affermato il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli.
L’art. 262 c.c. prevede che il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio naturale assume il cognome del padre. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l'assunzione del cognome del padre.
La Corte costituzionale, con sentenza 18-23 luglio 1996, n. 297, in relazione ad un ricorso diretto ad ottenere l'accertamento del diritto di un figlio naturale di anteporre al cognome, derivatogli dall'(unico) riconoscimento della madre naturale intervenuto oltre quaranta anni dopo il parto, il precedente cognome attribuito dall'ufficiale di stato civile, ha dichiarato l'illegittimità del presente articolo, nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale.
Con sentenza n. 12641 del 26 maggio 2006, la Corte di cassazione ha chiarito che, in caso di riconoscimento del figlio da parte del padre - successivamente a quello già compiuto dalla madre, della quale il figlio ha assunto il cognome - l'acquisto del cognome paterno non è automatico, e anzi deve escludersi ove nel frattempo il figlio abbia acquistato una sua precisa individualità col cognome materno e come tale sia conosciuto.
Ai sensi dell'art. 280 c.c., la legittimazione, che può avvenire o per susseguente matrimonio dei genitori del figlio naturale o per provvedimento del giudice, attribuisce a colui che è nato fuori del matrimonio la qualità di figlio legittimo. L’attribuzione del cognome al figlio legittimato è disciplinata dall’art. 33 del citato D.P.R. 396/2000, secondo cui il figlio legittimato ha il cognome del padre, ma egli, se maggiore di età alla data della legittimazione, può scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne viene a conoscenza, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a sua scelta, quello del genitore che lo ha legittimato. Uguale facoltà di scelta è concessa al figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché al figlio naturale di ignoti riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entrambi. Le dichiarazioni precedenti sono rese all'ufficiale dello stato civile del comune di nascita dal figlio personalmente o con comunicazione scritta. Esse vengono annotate nell'atto di nascita del figlio medesimo.
Si richiama anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 6098/2001, secondo la quale se il minore figlio naturale riconosciuto prima dalla madre (della quale ha assunto il cognome) e poi dal padre (del quale ha assunto il cognome) viene legittimato per provvedimento del giudice, l’attribuzione del cognome paterno non avviene in via automatica; in tale fattispecie, si applica per analogia il sopra richiamato art. 262, sicché il giudice, nel decidere sulla richiesta del padre di attribuzione al figlio del proprio cognome, dovrà valutare esclusivamente l’interesse del minore, avuto riguardo al diritto dello stesso all’identità personale fino a quel momento goduta nell’ambiente in cui è vissuto, nonché ad ogni altro elemento di valutazione presente e rilevante nella fattispecie.
Non esiste nell'ordinamento italiano una specifica disposizione diretta ad attribuire ai figli legittimi il cognome paterno. Ciononostante, al figlio legittimo viene automaticamente attribuito il cognome del padre ed è costantemente negata ai genitori la possibilità di optare per il cognome materno o il doppio cognome. Il fondamento giuridico di tale circostanza è individuato da una parte della dottrina e della giurisprudenza nella lettura sistematica delle disposizioni in tema di filiazione legittima e naturale. Secondo una tesi minoritaria, invece, opererebbe nel campo una fonte consuetudinaria (i termini del dibattito sono esposti in Cass. 13298/2004).
Di tale questione è stata investita già nel corso degli anni '80 la Corte costituzionale, la quale ha dichiarato in due occasioni, con le ordinanze nn. 176 e 586 del 1988, manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale (nella prima pronuncia) degli artt. 71, 72 e 73 del r.d. n. 1238 del 1939 (successivamente abrogato ad opera del D.P.R. 396/2000), nonché (nella seconda pronuncia) dell’art. 73 del suddetto r.d. 1238/1939 e degli artt. 6, 143-bis, 236, 237, comma 2, e 262, comma 2, c.c., nella parte in cui non prevedono la facoltà dei genitori di determinare il cognome del proprio figlio legittimo mediante l’imposizione di entrambi i loro cognomi, né il diritto di quest'ultimo di assumere anche il cognome materno. In tali pronunce la Corte costituzionale ha rilevato che l’interesse alla conservazione dell’unità familiare tutelato dall’art. 29, secondo comma, Cost. sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia, così da essere non già imposto dai genitori ai figli, ma esteso ope legis; allo stesso tempo la Corte ha riconosciuto come del tutto compatibile con il quadro costituzionale, ed anzi maggiormente aderente all’evoluzione della coscienza sociale, una sostituzione della regola vigente con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi ed idoneo a conciliare i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., ritenendo tuttavia tale innovazione normativa, anche per la pluralità delle soluzioni adottabili, di esclusiva competenza del legislatore.
In considerazione del lungo periodo trascorso dalle suddette pronunce della Corte costituzionale, del maturarsi di una diversa sensibilità nella collettività e di diversi valori di riferimento, connessi alle profonde trasformazioni sociali frattanto intervenute, nonché degli impegni imposti da convenzioni internazionali e delle sollecitazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 13298/2004, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 143-bis, 236, 237, comma 2, 262, 299, comma 3, c.c., nonché 33 e 34 del D.P.R. 396/2000, nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre, anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi. La Corte costituzionale, con sentenza 6 febbraio 2006, n. 61, ha dichiarato l'inammissibilità di tale questione di legittimità costituzionale. Il giudice delle leggi ha sottolineato che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento, con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna e con i vincoli e gli stimoli provenienti dalle fonti di diritto internazionale. Tuttavia, la Corte ha concluso che l’intervento che si invocava con la ordinanza di rimessione richiedeva una operazione manipolativa esorbitante dai propri poteri, posto che lasciava aperta tutta una serie di opzioni, che vanno da quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente alla volontà dei coniugi – con la conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello stato civile dovrebbe attenersi in caso di mancato accordo – ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare ad una regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi.
Per quanto riguarda il figlio adottivo, ai sensi dell’art. 27 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), per effetto dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. La Corte costituzionale (ordinanza n. 586 del 1988) ha chiarito che "analogamente ai figli legittimi, l'adottato assume il cognome determinato dalla legge come segno distintivo dei membri della famiglia legittima costituita dai genitori adottivi col matrimonio, cioè, secondo l'ordinamento vigente, il cognome del marito".
Se l'adozione è disposta nei confronti della moglie separata, ai sensi dell'art. 25, comma 5, della medesima legge (secondo cui, se nel corso dell'affidamento preadottivo interviene separazione tra i coniugi affidatari, l'adozione può essere disposta nei confronti di uno solo o di entrambi, nell'esclusivo interesse del minore, qualora il coniuge o i coniugi ne facciano richiesta), l'adottato assume il cognome della famiglia di lei.
Per quanto riguarda invece l'adozione di persone maggiori di età, ai sensi dell’art. 299 c.c. l'adottato assume il cognome dell'adottante e lo antepone al proprio. In particolare, se l'adozione è compiuta da coniugi l'adottato assume il cognome del marito. Se l'adozione è compiuta da una donna maritata, l'adottato, che non sia figlio del marito, assume il cognome della famiglia di lei. La Corte costituzionale, con sentenza 7-11 maggio 2001, n. 120, ha affermato che la precedenza del cognome dell’adottante non appare irrazionale, così come non può costituire violazione del diritto all’identità personale il fatto che il cognome adottivo preceda o segua quello originario. La lesione di tale identità è ravvisabile nella soppressione del segno distintivo, non certo nella sua collocazione dopo il cognome dell’adottante.
Il primo periodo del secondo comma dell'art. 299 c.c. stabilisce tuttavia che l'adottato che sia figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori assume solo il cognome dell'adottante. La ratio di tale previsione risiede nella volontà di far scomparire il cognome imposto dall'ufficiale di stato civile, ritenuto rivelatore di origine illegittima e dunque generatore di stigma sociale. La Corte costituzionale, con la suddetta sentenza 120/2001, ha dichiarato l'illegittimità del presente comma, nella parte in cui non prevede che, qualora sia figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori, l'adottato possa aggiungere al cognome dell'adottante anche quello originariamente attribuitogli. Secondo la Corte tale scelta “risulta in contrasto con l’invocato art. 2 della Costituzione, dovendosi ormai ritenere principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello per cui il diritto al nome – inteso come primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale – costituisce uno dei diritti inviolabili protetti dalla menzionata norma” ed è, inoltre, “priva di razionale giustificazione, sicché risulta violato l’art. 3 della Costituzione", alla luce della riforma dell’adozione di cui alla menzionata legge n. 184 del 1983., con la quale si é compiuta una netta distinzione fra l’adozione di minori e quella di maggiorenni, regolata dal codice civile, posto che “se la ratio della prima é, almeno in linea di massima, quella di fornire al minore una famiglia che sia idonea a consentire nel modo migliore il suo sviluppo (..) l’obiettivo della seconda evidentemente non é il medesimo, poiché tale adozione (art. 300 cod. civ.) non crea alcun vincolo di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante, tanto che il primo conserva tutti i propri precedenti rapporti, specie quelli con la famiglia di origine”.
Per quanto riguarda l'attribuzione del cognome, a livello internazionale si deve richiamare la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con legge 14 marzo 1985 n. 132). L’articolo 16 della Convenzione ha impegnato gli Stati aderenti a prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari, ed in particolare ad assicurare, in condizioni di parità con gli uomini, gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome (lett. g).
Si segnala, inoltre, che con le raccomandazioni n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998 (e ancor prima con la risoluzione 37/1978), il Consiglio d'Europa ha affermato che il mantenimento di previsioni discriminatorie tra donne e uomini riguardo alla scelta del nome di famiglia non è compatibile con il principio di eguaglianza sostenuto dal Consiglio stesso, ha raccomandato agli Stati inadempienti di realizzare la piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei loro figli, di assicurare la piena eguaglianza in occasione del matrimonio in relazione alla scelta del cognome comune ai due partners, di eliminare ogni discriminazione nel sistema legale per il conferimento del cognome tra figli nati nel e fuori del matrimonio.
Nella giurisprudenza europea, si richiama Corte di giustizia UE 2 ottobre 2003 (caso C-148/02, Carlos Garcia Avello c. Belgio), che ha affermato che costituisce discriminazione in base alla nazionalità (e dunque violazione degli artt. 12 e 17 del Trattato) il rifiuto da parte dell'autorità amministrativa di uno Stato membro di consentire che un minore avente doppia nazionalità possa essere registrato allo stato civile col cognome cui avrebbe diritto secondo le leggi applicabili nell'altro Stato membro (nel caso di specie, i minori in questione - aventi nazionalità belga e spagnola - erano stati registrati dall'ufficiale di stato civile belga con il doppio cognome del padre, in ottemperanza alla legge belga che attribuisce ai figli lo stesso cognome del padre, invece che col primo cognome del padre seguito dal cognome della madre, come previsto dalle leggi e dalle consuetudini spagnole. Conseguentemente, detti minori risultavano chiamarsi Garcia Avello in Belgio e Garcia Weber in Spagna, con conseguenti problemi di carattere pratico, oltre che personale).
In applicazione di tale sentenza, il Tribunale di Bologna, con decreto del 9 giugno 2004, ha affermato che "la doppia cittadinanza del minore legittima i suoi genitori a pretendere che vengano riconosciuti nell'ordinamento italiano il diritto e la tradizione spagnoli per cui il cognome dei figli si determina attribuendo congiuntamente il primo cognome paterno e materno: solo così sono garantiti al minore il diritto ad avere riconosciuta nell'ambito dell'Unione una sola identità personale e familiare e ad esercitare tutti i diritti fondamentali attribuiti da ciascuna delle normative nazionali, spagnola ed italiana, cui egli è legato da vincoli di pari grado e intensità".
Anche alcune recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome (16 febbraio 2005, affaire Unal Tekeli c. Turquie; 24 ottobre 1994, affaire Stjerna c. Finlande; 24 gennaio 1994, affaire Burghartz c. Suisse).
Quanto al diritto comparato, il dossier del Servizio Biblioteca della Camera dei deputati offre una panoramica della disciplina applicabile in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.
Le proposte di legge esaminate dalla Commissione giustizia della Camera individuavano regole diverse per l’attribuzione del cognome ai figli, prevedendo in taluni casi l’assunzione del cognome di entrambi i genitori (secondo criteri differenti), in altri del cognome dell’uno o dell’altro genitore.
Il relatore del provvedimento in Commissione ha elaborato un testo di sintesi, del quale la Commissione non ha concluso l'esame. In base a quel testo i figli assumono il cognome di entrambi i genitori. Al figlio legittimo è attribuito il doppio cognome secondo l’ordine concordemente deciso con dichiarazione resa allo stato civile (in mancanza di accordo, vale l’ordine alfabetico); il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto e, nel caso di riconoscimento contemporaneo, si applica la disciplina prevista per il figlio legittimo. In relazione ai coniugi, il testo stabilisce il diritto di ogni coniuge alla conservazione del proprio cognome, da cui deriva che la moglie non dovrebbe più aggiungere al proprio il cognome del marito.
Le procedure per modificare il nome o il cognome sono definite dal titolo X del DPR n. 396 del 2000 che nel corso della legislatura è stato sul punto modificato dal D.P.R. 54/2012.
Originariamente, infatti, gli articoli 84 e seguenti del Regolamento sullo stato civile delineavano un procedimento in tre fasi che coinvolgeva le competenze del Ministero dell’Interno. In particolare, il Titolo X prevedeva: 1) presentazione dell’istanza di modifica del nome o del cognome al prefetto territorialmente competente, che ne cura l’istruttoria. Il prefetto valuta se la questione sia di sua esclusiva competenza (come nel caso di richiesta di cambiamento del cognome che appaia ridicolo o riveli l’origine naturale) trasmettendo, in caso negativo, gli atti al Ministero dell’Interno (competente a decidere sulla richiesta di cambiamento nei casi in cui si renda necessario ponderare l’interesse pubblico con quello privato); 2) acquisizione della documentazione da parte del Ministero che può chiedere integrazioni ovvero inoltrare alla prefettura una relazione ed un decreto provvisorio del quale dovrà essere assicurata pubblicità; 3) decorso il termine per la pubblicità il Ministero dell’interno adotta il decreto finale e lo invia alla prefettura per la registrazione presso gli uffici dello stato civile.
Nel corso degli anni, a seguito della costante crescita delle domande di modifica del cognome, soprattutto legate a richieste di aggiunta del cognome materno al cognome paterno, ha determinato un notevole allungamento nei tempi della decisione. Ciò ha indotto il Governo - previa acquisizione dei pareri delle competenti commissioni parlamentari - a semplificare la procedura attribuendo ogni competenza alle prefetture ed evitando il coinvolgimento diretto del Ministero dell’Interno.
Il Ministero dell’interno, emanando la circolare n. 14 del 21/05/2012, ha non soltanto chiarito la portata innovativa del DPR 54/2012, ma ha anche enunciato i principi fondamentali che le prefetture devono seguire per rispondere alle domande, così da garantire un’uniforme applicazione della normativa in tutto il Paese. La circolare interpretativa del Ministero delinea il seguente procedimento:
Il Prefetto può assumere le seguenti decisioni:
- se ritiene che la domanda non sia meritevole di accoglimento, ne informa per iscritto l'interessato, indicando con precisione i motivi, invitandolo a proporre controdeduzioni. Ricevute le controdeduzioni dell'interessato, o decorso inutilmente il termine assegnato, il Prefetto provvederà ad emettere formale provvedimento di diniego, dettagliatamente motivato ovvero a proseguire nell'iter per l'accoglimento della domanda;
- se il Prefetto ritiene la domanda meritevole di accoglimento, emette un decreto con il quale il richiedente viene autorizzato a fare affiggere per 30 giorni un avviso contenente il sunto della domanda nel comune di residenza attuale e nel comune di nascita; con il decreto di autorizzazione della pubblicazione il Prefetto può anche prescrivere che il richiedente provveda a notificare a determinate persone il sunto della domanda. Questa dovrà avvenire quando, dalle motivazioni della domanda ovvero dall'istruttoria effettuata, emerga l'esistenza di terzi che possano avere un interesse contrario all'accoglimento della medesima. Sarà cura dell'istante fornire prova dell'avvenuta esecuzione delle affissioni e della loro durata nonché, se richieste, della esecuzione delle notifiche.
Se la domanda è stata notificata a terzi, questi potranno presentare (con atto notificato al prefetto) opposizione entro 30 giorni. Trascorso il termine per la proposizione delle opposizioni il Prefetto, dopo aver accertato la regolarità delle affissioni, la regolarità delle notifiche se richieste, nonché il contenuto delle eventuali opposizioni, provvederà ad emettere, a mezzo decreto, il provvedimento finale di concessione o diniego.
Quanto ai criteri che le prefetture dovranno applicare nell'assumere la decisione, la circolare ministeriale ricorda che per costante giurisprudenza l'ordinamento dello stato civile prevede un «ampio riconoscimento della facoltà di cambiare il proprio cognome, a fronte del quale la sfera di discrezionalità riservata alla Pubblica Amministrazione deve intendersi circoscritta alla individuazione di puntuali ragioni di pubblico interesse che giustifichino il sacrificio dell'interesse privato del soggetto al cambiamento del proprio cognome, ritenuto anch'esso meritevole di tutela dall'ordinamento» (Consiglio di Stato 26 aprile 2006, n. 2320) e che pertanto «Il provvedimento ministeriale negativo debba essere specificamente e congruamente motivato» (Consiglio di Stato 26 giugno 2002, n. 3533).
Per quanto riguarda le ipotesi più ricorrenti, di richiesta di aggiunta di cognome materno a quello paterno o di sostituzione del cognome materno a quello paterno, la Circolare in particolare afferma che:
L'emanazione del D.P.R. 54/2012 non ha dunque determinato il venire meno dell'esigenza di un intervento del legislatore in quanto la novella al regolamento sullo stato civile ha esclusivamente interessato un aspetto procedurale del mutamento di cognome. Anche a seguito del DPR resta infatti ferma la disciplina che rimette ad una valutazione amministrativa discrezionale la decisione sulla domanda di mutamento del cognome (anche in caso di richiesta di aggiunta del cognome materno).
Il Parlamento ha approvato la legge 10 dicembre 2012, n. 219, che elimina dall'ordinamento le residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali, affermando il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli. In particolare, la legge:
Le principali modifiche al codice civile sono apportate dall'articolo 1 della legge 219/2012 che:
Sempre allo scopo di eliminare ogni discriminazione tra i figli, l'articolo 2 della legge 219/2012 conferisce una delega al Governo per la modifica delle disposizioni in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità. Il termine di esercizio della delega è stabilito in 12 mesi dall'entrata in vigore dalla legge (comma 1), e dunque entro il 1° gennaio 2014. I numerosi princìpi e criteri direttivi dettati dal comma 1 per l’esercizio della delega (lettere da a) a p)) prevedono:
L'articolo 3 della legge 219/2012 novella l’art. 38 delle Disposizioni di attuazione del codice civile sottraendo una serie di procedimenti alla competenza del tribunale dei minorenni. Per effetto del confermato secondo comma dell'art. 38, che vuole attribuiti al tribunale ordinario «i provvedimenti per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria», la sottrazione di competenze al tribunale per i minorenni comporta l'espansione delle competenze del tribunale ordinario.
Il primo comma del nuovo art. 38 sottrae al tribunale dei minorenni la competenza per i seguenti provvedimenti:
La disposizione conferma la competenza del tribunale per i minorenni per i provvedimenti in caso di condotta del genitore pregiudizievole ai figli (ex art. 333 c.c.), purché non sia in corso tra le parti un giudizio di separazione o divorzio o relativo all’esercizio della potestà genitoriale ex art. 316 c.c. In tali casi, infatti «per tutta la durata del processo la competenza […] spetta al giudice ordinario».
Il secondo comma del nuovo art. 38 attribuisce ogni restante provvedimento relativo a minori alla competenza del tribunale ordinario specificando che nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano le disposizioni sui procedimenti in camera di consiglio (ex art. 737 c.p.c.), in quanto compatibili.
Il terzo comma afferma:
Normativa previgente |
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Disposizioni di attuazione del Codice civile |
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Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 171, 194, secondo comma 250, 252, 262, 264, 316, 317-bis, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché nel caso di minori dall'articolo 269, primo comma, del codice civile. |
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all'articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. |
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. |
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. |
In ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio sentito il pubblico ministero.
Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni. |
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni |
Come detto, l'articolo 1, comma 3, della legge 219/2012, novella l'art. 251 del codice civile in tema di riconoscimento dei figli incestuosi.
La nuova previsione codicistica, rubricata Autorizzazione al riconoscimento, stabilisce ora che «Il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all'interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.
Il riconoscimento di una persona minore di età è autorizzato dal tribunale per i minorenni».
Su questa disposizione - introdotta nel corso dell'esame del provvedimento in Senato, e confermata nella seconda lettura alla Camera - si è sviluppato un acceso dibattito, per comprendere il quale pare utile descrivere il quadro giuridico in vigore fino all'approvazione della legge.
Il codice civile definisce “figli incestuosi” come i figli nati da persone tra le quali esiste un vincolo di parentela, anche soltanto naturale, in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado.
Prima della novella dell'art. 251 c.c., i figli incestuosi non potevano essere riconosciuti per atto volontario del genitore, benché potessero essere dichiarati giudizialmente figli naturali riconosciuti.
Ciò a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 494 del 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 278, primo comma, nella parte in cui escludeva che potessero essere compiute indagini sulla paternità o sulla maternità - finalizzate ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale ai sensi dell'art. 269 c.c. - nei casi in cui, a norma dell'art. 251, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato. La Corte ha dunque affermato che il figlio incestuoso può agire per la dichiarazione di maternità o paternità naturale (art. 269, 1° co., c.c.), anche in casi in cui il riconoscimento non è ammesso; peraltro, la Corte costituzionale ha precisato che non vale l'inverso: che, cioè, il riconoscimento sia effettuabile in tutte le ipotesi in cui vi possa essere la dichiarazione giudiziale, mantenendo i limiti al riconoscimento imposti dall'art. 251 c.c.
L'ordinamento ha posto pesanti limitazioni alla riconoscibilità dei figli incestuosi. La ragione può essere rinvenuta sia nella protezione dell'interesse del figlio - da un riconoscimento che, per un verso potrebbe indicarne, inequivocabilmente, le origini incestuose, e, per altro verso, costituirebbe il rapporto giuridico parentale con soggetti che, avendo dato luogo ad un'unione tanto riprovevole, hanno, per ciò solo, denunziato inidoneità alla delicata funzione genitoriale - sia nel comminare una sanzione ai responsabili dell'incesto.
Una funzione, almeno parzialmente, sanzionatoria sembrerebbe confermata, sebbene non esplicitamente, dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 494 del 2002, con la quale la Consulta, dopo avere dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 278, e, dunque, l'illegittimità della limitazione alla dichiarabilità giudiziale della paternità e della maternità naturale degli incestuosi, non si è spinta ad affermare anche l’illegittimità della non riconoscibilità di tali soggetti: in altri termini, per la Corte i figli incestuosi non possono essere riconosciuti per atto volontario del genitore, benché possano essere dichiarati giudizialmente figli naturali riconosciuti.
La sentenza della Corte costituzionale è stata accolta con favore dalla dottrina che ha peraltro rilevato come la distinzione individuata dal Giudice delle leggi, tra la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, quale atto emesso nell'interesse del figlio, e il riconoscimento, che, viceversa, risponderebbe ad un interesse del genitore, sarebbe scorretta, poiché il riconoscimento, benché atto del genitore, ugualmente realizzerebbe un interesse del figlio all'accertamento formale del suo stato, e si è, pertanto, auspicato un definitivo intervento della Consulta, che dichiari l'illegittimità costituzionale anche dell'articolo 251.
Cfr. in merito C.M. Bianca, La Corte costituzionale ha rimosso il divieto di indagini sulla paternità e maternità di cui all'art. 278, comma 1, c.c. (ma i figli irriconoscibili rimangono), in Giurisprudenza costituzionale, 2002, fasc. 6, pagg. 4068-4074; G. Di Lorenzo, La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale dei figli nati da rapporto incestuoso, in Giurisprudenza costituzionale, 2003, fasc. 1, pagg. 446-457; G. Ferrando, La condizione dei figli incestuosi: la Corte costituzionale compie il primo passo, in Familia, 2003, fasc. 3, pagg. 848-856, pt. 2; Id., I diritti negati dei figli incestuosi, in Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, Milano, 2006, 222; Ambanelli, La filiazione non riconoscibile, in Tratt. Bonilini, Cattaneo, III, Filiazione e adozione, 2a ed., Torino, 2007, p. 236.
Per il combinato disposto degli articoli 251 e 278 del codice civile, il riconoscimento del figlio incestuoso è autorizzabile solo nelle ipotesi tassativamente elencate dall'articolo 251 del codice civile.
In base all’art. 35 delle disposizioni di attuazione del codice civile, il riconoscimento è autorizzato dal tribunale per i minorenni se il figlio da riconoscere è minore.
Il figlio incestuoso può agire per ottenere il mantenimento, l'educazione e l'istruzione, o, se maggiorenne, gli alimenti (art. 279), e, in caso di morte del genitore, partecipa alla sua successione (artt. 580 e 594).
Il nuovo art. 251 c.c. amplia la possibilità di riconoscimento dei figli incestuosi. La norma, ora rubricata “Autorizzazione al riconoscimento”, elimina, per i genitori, il requisito della inconsapevolezza - al momento del concepimento - del legame parentale tra loro esistente nonché la necessità della dichiarazione di nullità del matrimonio da cui deriva l’affinità. La riforma ribalta la situazione precedente, consentendo il riconoscimento in generale purché questo soddisfi l’interesse del minore, la cui valutazione è sempre affidata al giudice.
La disposizione precisa che se il riconoscimento riguarda un minore l’autorizzazione compete al tribunale dei minorenni (come peraltro già affermato dall’art. 35 delle disposizioni di attuazione del codice civile).
Nel settore della giustizia amministrativa la XVI legislatura si è caratterizzata per l'emanazione del Codice del processo amministrativo (D.lgs. 104/2010) e per le successive modifiche al Codice apportate da due decreti legislativi integrativi e correttivi (D.lgs. 195/2011 e D.lgs. 160/2012). Merita di essere segnalata, inoltre, la disciplina dell'azione collettiva degli utenti nei confronti della pubblica amministrazione (D.lgs. 198/2009) e, più in generale, la previsione di un rilevante aumento del contributo unificato anche nei processi amministrativi.
Il Codice del processo amministrativo, approvato dal decreto legislativo 104/2010, è entrato in vigore il 16 settembre 2010 e rappresenta l'attuazione data dal Governo alla delega contenuta nell'art. 44 della legge 69/2009. In particolare, la legge n. 69 delegava il Governo al riassetto della disciplina del processo amministrativo con le finalità di:
Sullo schema di decreto legislativo (A.G. 212), la Commissione giustizia della Camera aveva espresso un parere nella seduta del 16 giugno; anche la Commissione affari costituzionali aveva esaminato il Codice, deliberando specifici rilievi nella medesima data.
Il Codice ha, da un lato, una finalità di semplificazione normativa, attraverso l’inserimento in un unico testo di disposizioni, anche risalenti, sparse in una pluralità di fonti; dall’altro una funzione di sistemazione complessiva della materia anche mediante interventi di natura innovativa. Esso fa propri i principi generali del codice di procedura civile e, nei casi in cui il processo amministrativo presenta peculiarità specifiche, detta regole autonome.
Il Codice reca significative novità, in primo luogo, in materia di giurisdizione, operando un ampliamento delle materie di giurisdizione esclusiva (nelle quali il giudice amministrativo conosce anche di diritti soggettivi) e, viceversa, un ridimensionamento delle materie attribuite alla giurisdizione di merito (nell’ambito della quale il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione, eventualmente nominando un commissario ad acta). In materia di competenza, il provvedimento amplia i casi di competenza inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma e attribuisce invece al TAR Lombardia, sede di Milano, le controversie relative ai poteri esercitati dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas.
Il codice disciplina espressamente le azioni esercitabili innanzi al giudice amministrativo. Accanto all'azione di condanna, all’azione di annullamento e all’azione avverso il silenzio, in recepimento di una condizione contenuta nel parere della Commissione giustizia, esso introduce l'azione volta all'accertamento della nullità, da proporre entro il termine di decadenza di centottanta giorni. Con riferimento all’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno, disciplinata nell'ambito dell'azione di condanna, il Codice si colloca in una posizione intermedia nel contrasto tra giurisprudenza amministrativa e ordinaria in ordine alla sussistenza della cd. pregiudiziale amministrativa (ovvero il necessario previo annullamento della determinazione amministrativa per potere invocare il risarcimento del danno), prevedendo la proponibilità di tale azione anche in via autonoma, ma solo entro limiti determinati (anche temporali) ed esclusivamente nei casi di giurisdizione esclusiva.
Nella disciplina del processo amministrativo di primo grado, oltre ad una riduzione dei termini processuali, il codice reca una sistemazione organica e innovativa della disciplina della tutela cautelare. In particolare, la richiesta di fissazione dell’udienza di merito diventa condizione di procedibilità dell’azione cautelare e viene introdotta la tutela cautelare ante-causam, attivabile già prima della proposizione del ricorso principale, nei casi di eccezionale gravità ed urgenza tali da non consentire la dilazione fino alla data della camera di consiglio.
In materia di impugnazioni, il codice interviene sui termini per impugnare, estende taluni istituti previsti per l’appello nell’ambito del processo civile al processo amministrativo (recependo anche indicazioni della giurisprudenza) e introduce, in attuazione di una sentenza della Corte costituzionale, il rimedio dell’opposizione di terzo.
Il codice procede poi al riordino dei riti speciali, mediante l’eliminazione di quelli ritenuti superflui o comunque desueti e riportando nell’ambito del Codice i riti speciali mantenuti (in particolare in materia di accesso ai documenti amministrativi, avverso il silenzio della PA e procedimento ingiuntivo).
In materia di contenzioso elettorale per le elezioni amministrative, regionali ed europee, viene per la prima volta disciplinata la tutela giurisdizionale anticipata, ossia la possibilità di ricorrere immediatamente, senza attendere l’esito delle elezioni, avverso i provvedimenti del procedimento elettorale preparatorio. Tale tutela è limitata agli atti di esclusione di liste o candidati nelle elezioni amministrative e regionali. Contro tutti gli altri atti del procedimento elettorale successivi all’emanazione dei comizi elettorali è ammesso ricorso solo unitamente all’impugnazione dell’atto di proclamazione degli eletti.
Si modifica inoltre l’ambito di applicazione del rito abbreviato di cui al vigente articolo 23-bis della legge TAR mentre nelle controversie relative agli appalti pubblici viene sostanzialmente inglobata nel Codice la disciplina contenuta nel decreto di recepimento della cd. direttiva ricorsi (D.Lgs. 53/2010), con alcune modifiche che incidono sui termini processuali.
Nell’ambito delle Norme transitorie, il legislatore delegato inserisce una specifica disposizione diretta all’eliminazione dell’arretrato, riferita ai ricorsi pendenti da oltre cinque anni, per i quali non sia stata ancora fissata l’udienza di discussione: si prevede la perenzione dei ricorsi in mancanza di presentazione di una nuova istanza di fissazione dell’udienza entro 180 giorni dall’entrata in vigore del codice. In materia di processo amministrativo telematico, infine, le Norme di attuazione rinviano ad un apposito decreto per la definizione delle relative regole tecnico-operative.
Il Codice del processo amministrativo è entrato in vigore il 16 settembre 2010.
Alla fine di agosto 2011 il Governo ha presentato alle Camere uno schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al codice del processo amministrativo (A.G. 399). Su tale provvedimento, che intendeva apportare limitate modifiche al codice alla luce delle questioni emerse nella prima prassi applicativa, la Commissione giustizia ha reso un parere favorevole con condizioni e osservazioni nella seduta del 9 novembre 2011. Il Governo ha dunque emanato il decreto legislativo 195/2011.
Il 30 luglio 2012, un secondo schema di decreto correttivo del codice del processo amministrativo (AG 499) è stato presentato alle Camere per il parere. Su tale provvedimento, che interviene in particolare sul contenzioso elettorale adeguandosi alle indicazioni della Corte costituzionale, la Commissione Giustizia ha reso un parere con condizioni nella seduta del 12 settembre 2012. Il Governo ha dunque emanato il decreto legislativo 160/2012.
In attuazione della delega contenuta nella legge 15/2009 (cd. legge Brunetta), il decreto legislativo 198/2009 ha introdotto nell'ordinamento un nuovo mezzo di tutela giurisdizionale attivabile innanzi al giudice amministrativo nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati, o che violano le norme preposte al loro operato; si tratta della tutela collettiva nei confronti della P.A., da non confondersi con la Azione di classe dei consumatori.
La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) ha aumentato l’importo del contributo unificato per l’accesso alla giustizia amministrativa. In particolare, come più ampiamente descritto nel dossier del Servizio studi di commento della legge, l’articolo 1, commi 25-29:
La legge 69/2009 ha delegato il Governo al riassetto della disciplina del processo amministrativo; in attuazione della delega è stato emanato il decreto legislativo 104/2010 che contiene, in allegato, il Codice del processo amministrativo, entrato in vigore il 16 settembre 2010. Disposizioni correttive sono state poi introdotte dal decreto legislativo 195/2011 e dal decreto legislativo 160/2012.
L’articolo 44 della legge 69/2009 reca una delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo. Il termine per l’esercizio della delega era fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge (scadeva quindi il 4 luglio 2010).
Finalità della delega è l’adeguamento della disciplina del processo davanti ai Tribunali amministrativi regionali (TAR) e al Consiglio di Stato alla giurisprudenza costituzionale e delle giurisdizioni superiori (e il coordinamento con la disciplina del processo civile), nonché la concentrazione delle cautele (comma 1). L’art. 44 prevede inoltre l’adeguamento della legislazione delegata ai principi direttivi generali (art. 20, comma 3) della “legge Bassanini 1” (L. 59/1997) in quanto applicabili e individua i seguenti principi e criteri direttivi specifici:
Il comma 3 prevede l’abrogazione espressa delle disposizioni riordinate o incompatibili, e richiede un opportuno coordinamento con le disposizioni non abrogate; in ogni caso, viene fatta salva l’applicazione dell’articolo 15 delle preleggi (abrogazione tacita per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore).
Il comma 4 dell’art. 44 disciplina la procedura di adozione dei decreti delegati. La disposizione prevede l’ adozione dei decreti legislativi, su proposta del Presidente del Consiglio e con il parere del Consiglio di Stato e delle commissioni parlamentari competenti (entrambi da rendere entro quarantacinque giorni dalla richiesta, decorsi i quali i decreti possono essere comunque emanati). Il medesimo comma consente al Governo di delegare al Consiglio di Stato la stesura dell’articolato ai sensi dell’articolo 14, n. 2, del TU sul Consiglio di stato (R.D. 26 giugno 1924 n. 1054). A tal fine, il Consiglio di Stato può utilizzare magistrati di tribunale amministrativo regionale, esperti esterni e rappresentanti del libero foro e dell’Avvocatura generale dello Stato e non è richiesto il parere del Consiglio di stato. La norma precisa la totale gratuità dell’attività di tali soggetti.
Il medesimo comma 4 reca inoltre la delega per l’emanazione dei decreti correttivi (entro 2 anni dall’entrata in vigore della legislazione delegata), richiamando a tal fine procedure, principi e criteri direttivi previsti per l’emanazione dei decreti originari.
Per la redazione dello schema di decreto legislativo il Governo si è avvalso della facoltà di delegare al Consiglio di Stato la stesura dell’articolato ai sensi del sopra richiamato articolo 14, n. 2, del TU sul Consiglio di stato.
E' stata a tal fine istituita dal Consiglio di Stato una commissione speciale a composizione mista, che ha registrato la presenza di consiglieri di Stato, magistrati di TAR, magistrati della Cassazione, un rappresentante dell’Avvocatura dello Stato ed esponenti del mondo accademico e forense. La Commissione ha acquisito i pareri del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, delle associazioni rappresentative dei magistrati amministrativi, del Consiglio nazionale forense, dell’Organismo unitario dell’avvocatura, dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, dell’Associazione degli studiosi del processo amministrativo e della Società italiana degli avvocati amministrativisti.
Sullo schema di decreto legislativo (A.G. 212), la Commissione giustizia della Camera aveva espresso il parere nella seduta del 16 giugno; anche la Commissione affari costituzionali aveva esaminato il Codice, deliberando specifici rilievi nella medesima data.
Acquisito sullo schema il parere delle competenti commissioni parlamentari il Governo ha emanato il decreto legislativo 104/2010 che consta di due soli articoli (l'articolo 1 approva il Codice e l'articolo 2 fissa la sua entrata in vigore al 16 settembre 2010), cui è allegato il Codice del processo amministrativo.
Alla fine di agosto 2011 il Governo ha presentato alle Camere uno schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al codice del processo amministrativo (A.G. 399). Su tale provvedimento, che intendeva apportare limitate modifiche al codice alla luce delle questioni emerse nella prima prassi applicativa, la Commissione giustizia ha reso un parere favorevole con condizioni e osservazioni nella seduta del 9 novembre 2011. Il Governo ha dunque emanato il decreto-legislativo 195/2011.
Il 30 luglio 2012, un secondo schema di decreto correttivo del Codice del processo amministrativo (AG 499) è stato presentato alle Camere per il parere. Il provvedimento introduce disposizioni correttive ed integrative di natura tecnica volte a rendere più funzionali alcuni istituti processuali e ad adeguarli alle indicazioni della Corte costituzionale. Sullo schema la Commissione giustizia, nella seduta del 12 settembre 2012, ha reso un parere favorevole con condizioni. Il Governo ha dunque emanato il decreto legislativo 160/2012.
Il Codice del processo amministrativo, anche a seguito dell'entrata in vigore dei due decreti legislativi integrativi e correttivi, consta oggi di cinque libri.
Il libro I del Codice contiene le disposizioni generali, suddivise nei seguenti cinque titoli:
In particolare, per quanto riguarda i principi generali (articoli 1-3), si segnalano:
Per quanto riguarda gli organi della giurisdizioni amministrativa (artt. 4-6), il codice disciplina la composizione dei collegi giudicanti dei TAR e del Consiglio di Stato, con norme che sostanzialmente riprendono la disciplina previgente (artt. 10 della legge TAR n. 1034 del 1971 e dagli articoli 1 e 5 della legge n. 186 del 1982) e rinviano allo statuto speciale e alle relative norme di attuazione per la disciplina del TAR Trentino-Alto Adige e per la disciplina dell’appello avverso le pronunce del TAR Sicilia innanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
Il TAR del Trentino, che ha anche un’autonoma sezione per la provincia di Bolzano, è disciplinato dagli articoli 78 ss. dello statuto speciale (l. cost. n. 5 del 1948). Il D.P.R. n. 426 del 1984 reca la relativa disciplina attuativa. Il d.lgs. n. 373 del 2002 reca la disciplina dell’organizzazione e del funzionamento del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Siciliana.
Per quanto concerne la giurisdizione del giudice amministrativo il Codice (artt. 7-12) enuclea il contenuto dei tre diversi tipi di giurisdizione:
Con riferimento alla disciplina delle questioni di giurisdizione, si segnalano le seguenti importanti novità:
La proponibilità della domanda di regolamento preventivo di giurisdizione e la previsione della compromettibilità delle controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva riprendono la normativa previgente (rispettivamente, art. 30 l. TAR e art. 6, l. 205 del 2000).
In materia di competenza, il Codice del processo amministrativo (artt. 13-16) amplia i casi di competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma (inserendo nell'art. 134 del Codice anche le controversie in materia di rimozione di amministratori locali e di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose) e attribuisce invece al TAR Lombardia, sede di Milano, le controversie relative ai poteri esercitati dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas). Più in generale, ai fini della determinazione della competenza per territorio, il Codice conferma il criterio della sede dell’organo o dell’ente che ha emanato l’atto e rafforza quello dell’efficacia territoriale dell’atto (criterio ritenuto prioritario secondo l’orientamento prevalente); nel caso quindi di atti aventi efficacia limitata alla circoscrizione di un TAR è competente quest’ultimo rispetto al TAR della circoscrizione in cui ha sede l’amministrazione. Per contrastare il fenomeno delle cd “migrazioni cautelari” del ricorrente alla ricerca della sede del Tar che si prevede possa accogliere una sospensiva cautelare, il d.lgs. 160/2012 ha chiarito come la competenza territoriale da cui deriva l’interesse ad agire in giudizio attrae a sé anche quella sui relativi provvedimenti endoprocessuali, come quelli cautelari. Viene confermato, quindi, che sulla sospensiva può pronunciarsi solo il giudice adito per il ricorso principale, ove si ritenga competente.
Con riferimento alla disciplina delle questioni di competenza, sulle quali è intervenuto il secondo correttivo del Codice del processo amministrativo, si segnala:
In relazione agli organi della giurisdizione amministrativa, il codice fa rinvio al codice di procedura civile per la disciplina delle cause di astensione e ricusazione del giudice e detta una disciplina specifica della domanda di ricusazione (artt. 17 e 18); quanto invece agli ausiliari del giudice, il Codice detta una specifica disciplina dei verificatori e dei consulenti tecnici del giudice (art. 19) e inserisce nella categoria degli ausiliari anche il commissario ad acta, nominato dal giudice (nell’ambito della giurisdizione di merito, e in particolare del giudizio di ottemperanza) allorché il giudice medesimo deve sostituirsi all’amministrazione (art. 21).
Tale espressa qualificazione è volta a superare un contrasto giurisprudenziale in merito alla natura di tale figura: secondo la tesi maggioritaria, il commissario è un organo ausiliario del giudice; secondo altra tesi, è invece qualificabile come organo straordinario dell’amministrazione. La diversa qualificazione della figura incide in concreto sul regime di impugnazione dei relativi atti: secondo la prima interpretazione, essi sono impugnabili con reclamo al giudice dell’ottemperanza; secondo la seconda interpretazione, invece, seguendo la stessa sorte dei provvedimenti emanati dall’amministrazione, sono impugnabili secondo la procedura ordinaria. Per la prima tesi, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30 agosto 2001, n. 4583; per la seconda tesi, Cons. di Stato, Sez. VI, 24 marzo 1988, n. 353.
Con riferimento alle parti e ai difensori il Codice (artt. 22-26):
Il Titolo III del Libro I disciplina il contraddittorio (artt. 27-28) riprendendo la disciplina previgente con l’esplicitazione che, nelle more dell’integrazione, il giudice può pronunciare provvedimenti cautelari interinali. In materia di intervento di terzi nel processo, si segnala l’introduzione di una forma di intervento per ordine del giudice, azionabile anche su istanza di parte quando il giudice ritenga opportuno che il processo si svolga anche nei confronti di un terzo.
Quanto alle azioni esercitabili innanzi al giudice amministrativo(artt. 29-32), accanto all'azione di condanna, all’azione di annullamento e all’azione avverso il silenzio, in recepimento di una condizione contenuta nel parere della Commissione giustizia, il Codice introduce l'azione volta all'accertamento della nullità, da proporre entro il termine di decadenza di centottanta giorni. Con riferimento all’azione diretta ad ottenere il risarcimento del danno, disciplinata nell'ambito dell'azione di condanna, il Codice si colloca in una posizione intermedia nel contrasto tra giurisprudenza amministrativa e ordinaria in ordine alla sussistenza della cd. pregiudiziale amministrativa (ovvero il necessario previo annullamento della determinazione amministrativa per potere invocare il risarcimento del danno), prevedendo la proponibilità di tale azione anche in via autonoma, ma solo entro limiti determinati (anche temporali) ed esclusivamente nei casi di giurisdizione esclusiva.
Con riferimento alle pronunce giurisdizionali (artt. 33-37), il Codice del processo amministrativo conferma l’esecutività delle sentenze di primo grado. Tra le novità recate dal codice, in particolare con riferimento alle sentenze di merito, si segnalano:
Il Codice reca un’espressa e generale disciplina dell’istituto della rimessione in termini per errore scusabile, per la cui applicazione richiede la presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o gravi impedimenti di fatto.
Gli artt. 38 e 39 del Codice operano il rinvio interno al Libro II, per la disciplina del processo amministrativo; tale disciplina, se non espressamente derogata, si applica anche alle impugnazioni e ai riti speciali; il rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali, con l’ulteriore precisazione dell’applicabilità alle notificazioni del codice di procedura civile e delle leggi speciali concernenti la notificazione degli atti giudiziari in materia civile.
Il Libro II del Codice disciplina il processo amministrativo di primo grado ed è articolato nei seguenti 9 titoli:
Per quanto riguarda l'atto introduttivo del giudizio e la costituzione delle parti, il Codice (artt. 40-51) disciplina il ricorso al TAR prevedendone un contenuto minimo (tra i nuovi elementi necessari del ricorso si segnalano l’indicazione dei mezzi di prova nonché i provvedimenti che si chiedono al giudice; rispetto alla disciplina previgente, invece, l’indicazione dell’atto impugnato è eventuale in quanto il ricorrente potrebbe chiedere il solo risarcimento del danno). Quali ulteriori elementi di novità, si segnalano:
Quanto alla disciplina dei termini (artt. 52-54), il Codice anzitutto ne sancisce la perentorietà. In particolare, si precisa la possibile abbreviazione dei termini processuali fino alla metà in caso di urgenza; si ammettono forme di notifica anche per via telematica o fax e direttamente dal difensore; per i termini computati a ritroso, diversamente da quanto previsto dal codice di rito civile, si anticipa la scadenza del termine stesso al giorno antecedente non festivo, anziché al giorno seguente. Nell’ottica della concentrazione e riduzione dei tempi, si stabilisce il carattere eccezionale dell’autorizzazione collegiale al deposito di memorie e documenti oltre il termine.
La norma di delega (art. 44, comma 2, lett. f) prevede il riordino della tutela cautelare, anche generalizzando quella ante causam, prevedendo in particolare che:
In attuazione della norma di delega, la disciplina dettata Titolo II del Libro II (artt. 55-62) ha natura sostanzialmente innovativa rispetto alla normativa previgente. L’intervento apportato dal Codice reca in primo luogo una sistemazione organica della materia e poi:
Con riferimento specifico alla tutela cautelare collegiale:
In relazione alla tutela cautelare monocratica, volta all’adozione di misure cautelari provvisorie:
Nel caso sia di tutela cautelare collegiale sia monocratica è confermata la possibilità di subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare collegiale alla prestazione di cauzione, anche fideiussoria; con previsione riferita esclusivamente alle misure cautelari collegiali, si prevede che il provvedimento che dispone la garanzia dovrà anche indicarne specificamente l’oggetto, le modalità della prestazione nonché il termine di adempimento.
Per quanto poi riguarda la nuova disciplina della tutela cautelare ante causam, essa sostanzialmente riprende la disciplina della tutela monocratica, salvo il presupposto “rafforzato” della gravità ed urgenza che qui diventa eccezionale anziché estrema (e che non consente, quindi, nemmeno la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie con decreto presidenziale). La decisione sull’istanza cautelare, da parte del presidente o di un magistrato da lui delegato, è adottata a seguito di un escussione delle parti solo eventuale, omessa ogni formalità. Il decreto pronunciato ante causam che rigetta l’istanza cautelare non è impugnabile, fatta salva la possibile riproposizione di analoga tutela dopo l’avvio del giudizio di merito; il decreto di accoglimento, anch’esso non appellabile, è sempre modificabile e revocabile fin quando conserva efficacia.
Tra le ulteriori novità in materia di procedimento cautelare, si segnalano le seguenti:
Il titolo III del Libro II (artt. 63-69) conferma la competenza presidenziale all’istruttoria e, di converso, non istituzionalizza - come da più parti richiesto - la figura del giudice istruttore. Tra le novità più significative della nuova disciplina si richiamano:
Il titolo IV (artt. 70-76) è articolato in tre capi relativi, rispettivamente alla riunione dei ricorsi, alla discussione ed alla deliberazione del collegio. Tra le novità di tale parte del Codice si segnalano:
Il titolo V (artt. 77-80) riguardale le possibili vicende anomale del processo amministrativo e si caratterizza per:
Il titolo VI (artt. 81-85) concerne le cause di perenzione e di rinuncia. Le principali novità del Codice mirano alla limitazione del periodo di stasi dei giudizi amministrativi. Si prevede, in particolare:
Il titolo VII del libro II consta del solo art. 86, che disciplina il procedimento di correzione dell'omissione o dell'errore materiale del giudice in camera di consiglio sia in caso di accordo che di dissenso delle parti; la precedente disciplina, in caso di dissenso, richiedeva invece che la correzione fosse disposta con ordinanza del collegio assunta con procedimento ordinario.
Il titolo VIII è composto da un solo art. 87, relativo alle udienze pubbliche e ai procedimenti camerali. La disposizione conferma che le udienze – salvo quelle camerali - sono, di regola, pubbliche e, conformemente a quanto stabilito dal codice di rito civile per l’udienza di discussione della causa (art. 128), si prevede che la mancata osservanza della pubblicità costituisca causa di nullità. Il primo decreto correttivo (d.lgs. 195/2011)ha aggiunto che – fermo il regime pubblico delle udienze – il presidente del collegio può disporre che le stesse si svolgano a porte chiuse in presenza di ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume, in coerenza con quanto previsto nel processo civile.
Anche per le udienze in camera di consiglio è introdotta una disciplina modellata su quella del processo civile ma meno formale e con dimezzamento dei termini processuali, salvo specifiche eccezioni (resta fermo l’art. 116, comma 1, che prevede un termine di 30 giorni per la proposizione del ricorso, nonché del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti nel rito in materia di accesso ai documenti amministrativi; la disposizione prevede poi l’esclusione dal dimezzamento dei termini per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti “di primo grado” e non anche quelli di appello).
Non costituisce motivo di nullità della decisione la trattazione in pubblica udienza di un giudizio da svolgere, ai sensi della stessa norma, con rito camerale.
Il Libro II del Codice si conclude col titolo IX, relativo alla sentenza (artt. 88-90) che integra le disposizioni del titolo IV sulle pronunce giurisdizionali. Nella disciplina del contenuto della sentenza si segnalano i seguenti elementi di novità:
La disciplina della pubblicazione e comunicazione della sentenza appare sostanzialmente identica a quella previgente mentre novità sono contenute nella disposizione sulla pubblicità della sentenza come contributo alla riparazione del danno. Tale disposizione in particolare prevede che quando la pubblicazione, per estratto, su giornali, radio, TV e rete Internet, può contribuire a “risarcire” il danno, compreso quello subito per aver, la parte soccombente, agito in giudizio con malafede o colpa grave (art. 96 c.p.c.), il giudice, su istanza di parte, ordina la pubblicazione della sentenza sui media a cura e spese del soccombente. La mancata pubblicazione nei termini ordinati dal giudice permette alla parte danneggiata di provvedervi in prima persona, salvo il suo diritto di ripetizione nei confronti dell’obbligato.
Il Libro III reca disposizioni generali applicabili alle impugnazioni e la disciplina degli specifici mezzi di impugnazione (appello, revocazione, opposizione di terzo, ricorso per cassazione per i motivi inerenti alla giurisdizione): salvo espresse deroghe, anche alle impugnazioni si applicano la disciplina del processo amministrativo di primo grado e le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali.
Il libro III si suddivide in cinque titoli, relativi a:
Per quanto riguarda la disciplina generale (artt. 91-99), si segnalano le disposizioni del Codice in materia di:
Per quanto riguarda le altre disposizioni generali, in materia di intervento nel giudizio di impugnazione viene sostanzialmente confermata la disciplina recata dall’articolo 37 reg. proc. Cons. Stato (art. 97) e in materia di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata e di misure cautelari il codice rinvia alla disciplina prevista per il procedimento di appello contro le ordinanze cautelari (art. 98).
Il Codice (artt. 100- 105) attribuisce la legittimazione ad appellare, oltre che alle parti fra le quali sia stata pronunciata la sentenza di primo grado, anche all’interventore in primo grado, ma nei limiti in cui sia portatore di una posizione autonoma. Tale limitazione recepisce i principi espressi dal Consiglio di Stato (Adunanza plenaria, 8 maggio 1996, n. 2), che chiarisce che sono legittimati ad appellare anche i soggetti “portatori di un interesse legittimo, di una situazione di vantaggio in ordine ad un bene della vita dipendente dal potere amministrativo cui quel bene è soggetto, ma dotato di autonomia”.
Il legislatore introduce anche nel processo amministrativo l’istituto della riserva facoltativa d’appello contro le sentenze non definitive (previsto dall’art. 340 c.p.c.); l’atto con il quale si esprime la riserva deve essere notificato entro il termine per l’appello e depositato nei successivi 30 giorni presso la segreteria del TAR.
Il ricorso deve anche contenere le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata; il codice precisa che si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado che non siano state espressamente riproposte. Il Codice conferma inoltre l’operatività del divieto dello ius novorum anche nel processo amministrativo, da cui discende la non proponibilità di nuove domande o nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio. In linea con la giurisprudenza, non viene considerata nuova domanda ed è pertanto proponibile in appello la richiesta di interessi ed accessori maturati dopo la sentenza impugnata (oltre che il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza). Un temperamento al divieto di ius novorum in appello è rappresentato dalla proponibilità di motivi aggiunti nel caso in cui la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti impugnati.
In merito poi al regime probatorio, il codice riprende la giurisprudenza più recente che ammette nuove prove nei limiti in cui il collegio le ritenga indispensabili ai fini della decisione della controversia o la parte dimostri di non avere potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (da ultimo, Cons. Stato, 14 aprile 2006, n. 2107).
Con riferimento, infine, alla definizione del giudizio d’appello, il Codice individua tassativamente i casi in cui la controversia viene rimessa al primo giudice (e non, quindi, definita direttamente in appello): mancata integrazione del contraddittorio, lesione del diritto di difesa di una delle parti, nullità della sentenza, nonché le ipotesi in cui viene riformata la sentenza che ha declinato la giurisdizione o pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio. Il codice aggiunge la previsione del procedimento camerale per la definizione dei giudizi di appello contro le sentenze dei TAR che abbiano declinato la competenza o la giurisdizione.
Gli artt. 106 e 107 del Codice del processo amministrativo rinviano agli articoli 395 (relativo alla revocazione delle sentenze pronunciate in unico grado o in appello) e 396 c.p.c. (relativo alla revocazione delle sentenze per le quali sia scaduto il termine per l’appello) pur affermando che contro le sentenze dei TAR la revocazione è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l'appello.
L’introduzione della disciplina di tale mezzo di impugnazione nel Codice del processo amministrativo (artt. 108 e 109) dà attuazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 177 del 1995, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 28 e 36 legge TAR, nella parte in cui non consentivano l’esperimento di tale rimedio (di cui all’art. 404 c.p.c.) avverso le decisioni del Consiglio di Stato e avverso le pronunce di primo grado passate in giudicato. Il codice, recependo l’orientamento giurisprudenziale successivo a tale sentenza, in simmetria con quanto avviene nel processo civile, ammette l’esperimento di tale mezzo di impugnazione anche rispetto a sentenze esecutive, ma non passate in giudicato.
Le parti legittimate a proporre l’opposizione sono i terzi quando la sentenza pregiudichi i loro diritti o interessi legittimi; così come previsto nel processo civile dall’art. 404, secondo comma, c.p.c., l’opposizione da parte dei creditori o degli aventi causa di una delle parti viene limitata al caso in cui la sentenza sia effetto di dolo o collusione a loro danno.
Il giudice innanzi al quale proporre l’opposizione è individuato nel medesimo giudice che ha pronunciato la sentenza. In tal modo è superato un contrasto giurisprudenziale sul punto: nel senso che il rimedio va esperito innanzi al medesimo giudice che ha pronunciato la sentenza lesiva, Cons. Stato, sez. IV, 12 giugno 2003, n. 3312; nel senso, invece, che l’opposizione contro le sentenze dei TAR esecutive va proposta innanzi al Consiglio di Stato, Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2004, n. 1245.
In base agli artt. 110 e 111 del Codice, il ricorso per cassazione è proponibile contro le sentenze del Consiglio di Stato solo per motivi inerenti alla giurisdizione. Rispetto alla disciplina previgente si segnala l’introduzione della previsione secondo la quale l’adozione di misure cautelari (ivi compresa la sospensione della sentenza impugnata) spetta al Consiglio di Stato. I decreti legislativi integrativi e correttivi:
Il Libro IV del Codice del processo amministrativo (artt. 112-132) procede al riordino dei riti speciali, mediante l’eliminazione di quelli ritenuti superflui o comunque desueti e riportando nell’ambito del Codice i riti speciali mantenuti (in particolare in materia di accesso ai documenti amministrativi, avverso il silenzio della PA e il procedimento ingiuntivo). Il libro si riparte in sei titoli, dedicati a:
Il titolo I (artt. 112-115) riordina le disposizioni vigenti in tema di giudizio di ottemperanza coordinandole con le più recenti e consolidate pronunce giurisprudenziali.
Con riferimento ai criteri di delega (ex art. 44 della L. n.69/2009) per il loro rilievo sulla materia in oggetto si segnalano i seguenti:
Si ricorda che la materia dei ricorsi diretti ad ottenere l’esecuzione, da parte della pubblica amministrazione, delle sentenze dei giudici ordinari ed amministrativi, costituisce l’ipotesi più importante di giurisdizione di merito attribuita al giudice amministrativo TAR – Consiglio di Stato. Il giudizio di ottemperanza permette di dare esecuzione ad una sentenza nel processo amministrativo, qualora la pubblica amministrazione non abbia adempiuto spontaneamente. I presupposti fondamentali sono:
Rispetto alla disciplina previgente il Codice (con i suoi decreti correttivi) apporta le seguenti novità:
Il Titolo II, composto dal solo art. 116, disciplina il rito dell’accesso ai documenti amministrativi. Il provvedimento conferma che contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi il ricorso è proposto entro trenta giorni mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato; in pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa, il predetto ricorso può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale, previa notificazione all'amministrazione e agli eventuali controinteressati. L’istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale ovvero con la sentenza che definisce il giudizio.
Il giudice deciderà, poi, con sentenza in forma semplificata e, sussistendone i presupposti, ordinerà l'esibizione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove occorra, le relative modalità.
Il Titolo III del libro IV, composto del solo art. 117, è dedicato al rito avverso il silenzio della pubblica amministrazione, anch’esso codificato senza innovazioni particolari, salvo un coordinamento in caso di concorso di azioni diverse con quella relativa alla mera inerzia. Si segnalano in particolare le seguenti previsioni:
Il Titolo IV consta del solo articolo 118, che si limita a riprodurre l’art. 8 della legge 205/2000, che ha introdotto il rito per decreto ingiuntivo, come disegnato dal codice di procedura civile, nelle materie di giurisdizione esclusiva, se le controversie abbiano ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale.
Nel Titolo V, che disciplina i riti abbreviati (artt. 119-125), confluiscono tanto il rito abbreviato comune a determinate materie, originariamente disciplinato dall'art. 23-bis, L. TAR, con alcune innovazioni volte a razionalizzare le materie cui esso si applica e il meccanismo di pubblicazione del dispositivo, quanto il rito abbreviato in materia di pubblici appalti. Tra le novità recate dal provvedimento in ordine alle controversie cui è applicabile il rito abbreviato, si segnalano:
Il rito abbreviato continua a caratterizzarsi per il dimezzamento dei termini. Tra le ulteriori novità recate dal Codice, si segnala come la pubblicazione anticipata del dispositivo, prima indefettibile, sia stata prevista solo nel caso in cui almeno una delle parti ne faccia richiesta: secondo quanto affermato nella relazione illustrativa, tale soluzione risponde al principio di economia processuale, atteso che non sempre si riscontra un’effettiva esigenza della pubblicazione del dispositivo anticipata rispetto alla sentenza, e peraltro il dispositivo, stante la sua esecutività, finisce con l’essere causa di una duplicazione dei giudizi di appello in ragione dell’impugnazione volta ad ottenerne la sospensione dell’esecutività.
Per quanto riguarda il contenzioso sugli appalti pubblici, nell’ambito del codice (artt. 120 ss.) viene inserita la disciplina processuale dettata dal decreto di recepimento della cd. direttiva ricorsi (D.Lgs. 53/2010), con una serie di adattamenti volti ad assicurare una sostanziale uniformità rispetto alla restante disciplina codicistica.
Il decreto legislativo 53/2010, “Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici” ha novellato il cd. Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006) in materia di disciplina dei ricorsi giurisdizionali in materia di aggiudicazione degli appalti. Il provvedimento, in primo luogo, mira ad un rafforzamento degli strumenti di definizione delle liti alternativi al processo, attraverso in particolare misure volte ad agevolare il ricorso all’accordo bonario e la conferma dell’arbitrato quale sistema preferenziale di risoluzione delle controversie negli appalti pubblici. Con riferimento invece agli strumenti di tutela giurisdizionale, il decreto legislativo prevede esclusivamente il ricorso al TAR (eliminando quindi la possibilità di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica) e introduce uno specifico rito per le controversie relative alle procedure di affidamento, caratterizzato in particolare dalla riduzione dei termini processuali. Il provvedimento reca inoltre le seguenti ulteriori importanti novità:
Le nuove disposizioni processuali trovano applicazione anche per le controversie in materia di infrastrutture strategiche, salvo alcune regole specifiche per la caducazione del contratto nel caso di sospensione o annullamento dell’affidamento. Per la trattazione dei ricorsi relativi a tali infrastrutture, in precedenza, l'art. 20, comma 8, del decreto-legge 185/2008 aveva previsto per uno speciale processo di primo grado, caratterizzato da tempi più stretti rispetto all’ordinario; tale disposizione viene abrogata e l'applicazione della relativa disciplina fatta salva entro ristretti limiti temporali.
Nell’ambito della disciplina recata dal Codice si segnalano:
Per quanto concerne le controversie relative alle infrastrutture strategiche, merita di essere segnalata la disposizione che, in caso di annullamento dell’affidamento per violazioni considerate non gravi, esclude la caducazione del contratto e prevede solo il risarcimento del danno per equivalente.
Il titolo VI (artt. 126-132) disciplina il contenzioso in materia elettorale riferendo la giurisdizione amministrativa esclusivamente alle operazioni elettorali relative al rinnovo degli organi elettivi dei comuni, delle province, delle regioni e all’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia.
Viene così data attuazione al criterio di delega che prevede la razionalizzazione e l’unificazione delle norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale, prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi (art. 44, comma 2, lett. d), prima parte L 69/2009). Non è stata invece data attuazione al criterio di delega che prevede l’introduzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni (art. 44, comma 2, lett. d), seconda parte, L 69/2009). Come risulta dalla relazione illustrativa, il Governo non ha ritenuto di esercitare la delega sul punto, nonostante un tentativo operato in questo senso da parte della commissione redigente presso il Consiglio di Stato. I tempi serrati della fase preparatoria delle elezioni politiche – insuperabili per il vincolo posto dall’articolo 61 Cost., che impone di espletare le elezioni politiche entro 70 giorni dal decreto presidenziale di scioglimento delle Camere – hanno sconsigliato il Governo di intraprendere la via della soppressione del procedimento amministrativo di competenza dell’Ufficio centrale elettorale nazionale presso la Corte di cassazione, ipotizzata dalla commissione redigente. Rimane peraltro in tal modo aperto il problema della tutela giurisdizionale relativamente agli atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni politiche (quali, ad esempio, ammissione ed esclusione di liste, candidati, contrassegni…). Si registra infatti sul punto un contrasto interpretativo sulla normativa vigente tra la Giunta delle elezioni della Camera e la Corte di cassazione, che determina di fatto un’assenza di tutela giurisdizionale.
La giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione esclude infatti la giurisdizione del giudice ordinario, come di ogni altro giudice, sul procedimento elettorale preparatorio per le elezioni politiche, ritenendo gli uffici elettorali circoscrizionali e l’ufficio elettorale centrale «organi straordinari, temporanei e decentrati, di quelle stesse Camere legislative alla cui formazione concorrono, svolgendo una funzione contingente e strumentale, destinata ad essere controllata o assorbita da quella delle stesse Camere, una volta queste costituite» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 31 luglio 1967, n. 2036; conformi, ex plurimis, sezioni unite civili, sentenze 9 giugno 1997, n. 5135; 22 marzo 1999, n. 172; 6 aprile 2006, n. 8118 e n. 8119; 8 aprile 2008, n. 9151, n. 9152 e n. 9153).
La Giunta delle elezioni della Camera nega invece la propria competenza sui ricorsi relativi agli atti del procedimento elettorale preparatorio, dichiarando gli stessi inammissibili, sulla base della considerazione che la verifica dei titoli di ammissione degli eletti esclude, per definizione, che nella stessa possa ritenersi compreso anche il controllo sulle posizioni giuridiche soggettive di coloro i quali (singoli o intere liste) non hanno affatto partecipato alla competizione elettorale (sedute del 13 dicembre 2006 e del 22 luglio 2008).
La Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato dal febbraio 2008 si è attestata sulle stesse posizioni delle Giunta delle elezioni della Camera (in precedenza si registrava invece un orientamento favorevole a comprendere nella verifica dei poteri il controllo sulla regolarità delle operazioni preparatorie).
Della questione è stata anche investita la Corte costituzionale, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle relative questioni di legittimità costituzionale (ordinanze nn. 512/2000 e 117/2006). Sul punto è intervenuta la sentenza n. 259 del 2009, che ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata previsione nella normativa vigente dell'impugnabilità davanti al giudice amministrativo delle decisioni emesse dall'Ufficio elettorale centrale nazionale relative alla definitiva esclusione del candidato o della lista dal procedimento elettorale. Secondo la Corte, l'attuale situazione di incertezza sul giudice competente deriva infatti divergenza interpretativa delle disposizioni vigenti, che può e deve essere risolta con gli strumenti giurisdizionali, comuni e costituzionali, esistenti, quali il regolamento di giurisdizione o il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Inoltre le questioni attinenti le candidature, che vengono ammesse o respinte dagli uffici competenti nel procedimento elettorale preparatorio, riguardano un diritto soggettivo, il diritto di elettorato passivo, tutelato per di più da una norma costituzionale. La cognizione delle relative controversie può dunque essere attribuita al giudice amministrativo solo a titolo di giurisdizione esclusiva, il che può avvenire, in virtù della previsione dell’art. 103, primo comma, Cost., unicamente sulla base di una previsione legislativa. La Corte richiama al riguardo proprio la delega di cui all’art. 44 della legge 69/2009.
L’assenza di tutela giurisdizionale deve essere valutata alla luce del diritto ad agire in giudizio e del diritto alla tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione riconosciuti dagli articoli 24 e 113 della Costituzione, nonché dell’articolo 6 CEDU, come rilevato dalla Giunta delle elezioni della Camera nella seduta del 22 luglio 2008.
Il Codice del processo amministrativo stabilisce:
In particolare, il Codice disciplina la tutela giurisdizionale anticipata (art. 129) – ossia la possibilità di ricorrere immediatamente, senza attendere l’esito delle elezioni, avverso i provvedimenti del procedimento elettorale preparatorio – originariamente limitandola agli atti di esclusione di liste o candidati nelle elezioni amministrative (comunali e provinciali) e regionali. Viene così data soluzione alla questione dell’impugnabilità immediata dei provvedimenti di ammissione e di esclusione di liste e candidati. Sul punto è intervenuto il secondo correttivo del Codice (d.lgs 160/2012) che ha dovuto «adeguare la disciplina ai principi espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 236 del 2010».
L’art. 129 del Codice, infatti, originariamente, limitava la possibilità di impugnazione immediata agli atti di esclusione delle liste e dei candidati con esclusivo riferimento alle elezioni regionali provinciali e comunali e con legittimazione attiva limitata ai soli delegati delle liste e dei gruppi di candidati esclusi. In tutti gli altri casi, ogni provvedimento amministrativo, anche preparatorio, per le citate elezioni è impugnabile solo a conclusione del procedimento elettorale, unitamente all’atto di proclamazione degli eletti. Con la sentenza 7 luglio 2010, n. 236, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 83-undecies del DPR n. 570/1960 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali). Tale disposizione, ora non più in vigore – rifacendosi ad una nota decisione dell’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (24 settembre 2005, n. 10) – escludeva l’autonoma impugnabilità degli atti endoprocedimentali concernenti le operazioni elettorali. L’art. 83-undecies, infatti, stabiliva che contro le operazioni per l'elezione dei consiglieri comunali, successive alla emanazione del decreto di convocazione dei comizi, qualsiasi cittadino elettore del Comune, o chiunque altro vi abbia diretto interesse, potesse proporre impugnativa davanti alla sezione per il contenzioso elettorale, con ricorso da depositare nella segreteria entro 30 giorni dalla proclamazione degli eletti. La sentenza della Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies nella parte in cui è esclusa la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Secondo la Consulta, infatti, «la posticipazione dell’impugnabilità degli atti di esclusione di liste o candidati ad un momento successivo allo svolgimento delle elezioni preclude la possibilità di una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva delle situazioni soggettive immediatamente lese dai predetti atti, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 Cost».
A seguito del decreto correttivo, il Codice permette al ricorrente di impugnare subito tutti gli atti “immediatamente lesivi” del diritto a partecipare al procedimento elettorale preparatorio (non solo dunque gli atti concernenti l’esclusione di liste o candidati) senza attendere la proclamazione degli eletti. La tutela è estesa alla partecipazione alle elezioni per il Parlamento Europeo. L’impugnazione (è eliminato il riferimento alla legittimazione attiva dei soli delegati delle liste e dei gruppi di candidati esclusi) avviene sempre con ricorso al Tar competente nel termine di 3 giorni dalla pubblicazione o comunicazione degli atti impugnati. Gli altri provvedimenti amministrativi (quelli evidentemente ritenuti “non immediatamente lesivi” del diritto all’elettorato passivo) sono, invece, impugnati alla conclusione del procedimento unitamente all'atto di proclamazione degli eletti. La segreteria del TAR è tenuta a pubblicare sul sito Internet della giustizia amministrativa il ricorso depositato presso la stessa segreteria nonché l’eventuale ricorso in appello avverso la sentenza di primo grado.
Quanto, invece, al contenzioso ordinario relativo alle operazioni elettorali di comuni, province, regioni e Parlamento europeo, il Codice prevede che contro tutti gli atti del procedimento elettorale successivi alla convocazione dei comizi elettorali è ammesso ricorso solo alla conclusione del procedimento elettorale, unitamente all’impugnazione dell’atto di proclamazione degli eletti. Il giudice competente è il TAR nella cui circoscrizione si trova l’ente territoriale per le elezioni amministrative e regionali e il TAR del Lazio per le elezioni europee. Viene poi disciplinata la procedura da seguire davanti al giudice amministrativo e il processo di appello.
Il Libro V (artt. 133-137), oltre che l’individuazione delle materie di giurisdizione esclusiva, di giurisdizione estesa al merito e delle controversie attribuite alla competenza esclusiva del TAR Lazio, contiene:
Le materie di giurisdizione esclusiva sono indicate nell’articolo 133 del Codice che, oltre a recepire le ipotesi di giurisdizione esclusiva già previste dal legisaltore, ha introdotto le seguenti novità:
I decreti correttivi hanno aggiunto ulteriori ipotesi di giurisdizione esclusiva. Si pensi a:
Altri provvedimenti legislativi hanno inoltre attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti adottati dall'Agenzia nazionale di regolamentazione del settore postale, dall'Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua, nonché le controversie relative all'esercizio dei poteri speciali inerenti alle attività di rilevanza strategica nei settori della difesa e della sicurezza nazionale e nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni e le controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato. L'elencazione dell'art. 133 non ha peraltro carattere esaustivo, facendo salve le ulteriori previsioni di legge. Tra queste si segnala la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per i ricorsi per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici.
L’articolo 134 del codice attribuisce al giudice amministrativo la cognizione estesa al merito, oltre che in relazione al giudizio di ottemperanza, nelle seguenti materie:
L’art. 135, nell'elencare le ipotesi di competenza inderogabile del TAR Lazio sede di Roma, si segnala in particolare per l'innovatiba attribuzione al TAR Roma delle seguenti controversie:
L’Allegato 2 reca le norme di attuazione, che rispettivamente riguardano: i registri e l’orario di segreteria; i fascicoli di parte e d’ufficio; l’ordine di fissazione dei ricorsi e le udienze; il processo telematico; le spese di giustizia.
Con riferimento, in particolare al processo telematico, l'art. 13 rimette ad un D.P.C.M. (sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e il DigitPA) la definizione delle regole tecnico-operative per la sperimentazione, la graduale applicazione e l’aggiornamento del processo amministrativo telematico (nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente).
In materia di spese di giustizia, si prevede l’istituzione presso gli organi della giustizia amministrativa di una commissione per l’ammissione al gratuito patrocinio e si destina il gettito delle sanzioni pecuniarie previste dal Codice al Ministero dell’economia e delle finanze per le spese riguardanti il funzionamento del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali, ivi comprese quelle occorrenti per incentivare progetti speciali per lo smaltimento dell’arretrato e per il miglior funzionamento del processo amministrativo.
L’Allegato 3, recante norme transitorie, prevede:
L’Allegato 4, infine, reca infine le norme di coordinamento e le abrogazioni in attuazione della norma di delega che richiedeva che i decreti legislativi abrogassero espressamente tutte le disposizioni riordinate o con essi incompatibili, fatta salva l’applicazione dell’articolo 15 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile, e dettasserono le opportune disposizioni di coordinamento in relazione alle disposizioni non abrogate.
In attuazione di tale criterio gli articoli 1, 2 e 3 recano specifiche norme di coordinamento (rispettivamente con la disciplina in materia di elezioni europee, di elezioni amministrative e con ulteriori disposizioni vigenti) e l’articolo 4 provvede all’abrogazione puntuale di disposizioni superate o incorporate nel codice.
In attuazione della delega contenuta nella legge 15/2009 (cd. legge Brunetta), il decreto legislativo n. 198 del 2009 ha introdotto nel nostro ordinamento la c.d. class action amministrativa, ovvero un nuovo mezzo di tutela giurisdizionale attivabile innanzi al giudice amministrativo nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati, o che violano le norme preposte al loro operato.
L’esercizio della class action amministrativa è finalizzato esclusivamente al ripristino del corretto svolgimento della funzione o alla corretta erogazione del servizio. In ogni caso, è escluso il risarcimento del danno, che potrà quindi ottenersi soltanto attraverso l’esercizio dei rimedi ordinari.
L’azione può essere esercitata innanzi al giudice amministrativo da parte dei titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per una pluralità di utenti e consumatori nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di pubblici servizi, qualora tali interessi siano stati lesi in conseguenza di comportamenti attivi od omissivi posti in essere da tali soggetti.
Tali comportamenti consistono:
Legittimati all’esercizio dell’azione sono i singoli titolari degli interessi lesi, nonché le associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati, appartenenti alla pluralità di utenti e consumatori; sono esclusi dall’ambito dei soggetti nei cui confronti può essere esercitata l’azione le autorità amministrative indipendenti, la Presidenza del Consiglio, gli organi giurisdizionali, le assemblee legislative e gli altri organi costituzionali.
Il ricorso può essere proposto solo dopo una preventiva diffida all’amministrazione o al concessionario finalizzata al ripristino, nel termine di 90 giorni, delle situazioni violate. In luogo della diffida, l’interessato potrà promuovere la tutela in sede non contenziosa sulla base delle procedure conciliative previste dalle Carte dei servizi ai sensi dell’art. 30 della legge n. 69 del 2009.
Nel corso del giudizio, il giudice amministrativo deve tenere conto della situazione in cui versa la PA o il concessionario, per quanto riguarda le risorse strumentali, finanziarie e umane concretamente a disposizione di tali soggetti.
In caso di accoglimento del ricorso, il giudice ordina alla pubblica amministrazione o al concessionario di porre rimedio “entro un congruo termine” alla violazione. L’attività conseguente alla sentenza dovrà in ogni caso avvenire senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie e umane già assegnate in via ordinaria.
Ulteriore effetto dell’accoglimento della domanda sarà l’accertamento da parte dell’amministrazione dei soggetti che hanno concorso a porre in essere le violazioni e l’adozione dei conseguenti provvedimenti.
Il decreto legislativo contiene inoltre norme di raccordo del nuovo istituto processuale con altri rimedi giurisdizionali previsti dal codice del consumo (L'azione di classe dei consumatori, di cui all’articolo 140-bis del Codice del consumo, ed azioni esercitate dalle associazioni dei consumatori a norma degli articoli 139 e 140 del medesimo codice), nonché con eventuali procedimenti instaurati da organismi con funzione di regolazione e controllo istituiti con legge dello Stato. Si prevede in particolare che nel caso di preventiva instaurazione di tali giudizi o procedimenti, la class action non è proponibile; se, viceversa, il procedimento innanzi all'organismo di regolazione ovvero il giudizio ai sensi degli artt. 139 e 140 (ma non dell'art. 140-bis) del Codice del consumo viene instaurato dopo la proposizione del ricorso per l'efficienza delle amministrazioni, quest'ultimo viene sospeso fino alla definizione dei procedimenti preventivamente instaurati. La sovrapposizione rispetto a giudizi instaurati con la class action ordinaria riguarda essenzialmente i ricorsi nei confronti dei concessionari di pubblici servizi.
Accogliendo le osservazioni formulate dalla Commissione giustizia in sede di esame dello schema di decreto legislativo, il Governo ha stabilito che la nuova disciplina sarà applicabile soltanto dopo che saranno stati definiti gli obblighi contenuti nelle carte dei servizi e gli standard qualitativi ed economici. Conseguentemente, tanto per le amministrazioni ed i concessionari di servizi pubblici, quanto per le regioni e gli enti locali, l'esperibilità della class action amministrativa è subordinata all'emanazione di appositi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Sullo schema di decreto legislativo (AG n. 142):
Sulla c.d. legge Brunetta (A.C. 2031):
Gli interventi posti in essere per rendere più efficace l'organizzazione e il funzionamento della giustizia hanno interessato principalmente la geografia giudiziaria, con la soppressione di uffici di tribunale e di uffici del giudice di pace, l'istituzione del Fondo unico giustizia e la digitalizzazione del processo.
Le modifiche concernenti l'organizzazione e il funzionamento della giustizia sono caratterizzate dall'obiettivo comune dell'efficienza del sistema. Tale obiettivo è stato espressamente perseguito attraverso la riforma della geografia giudiziaria, che ha previsto la soppressione di uffici di tribunale e di uffici del giudice di pace, nonchè attraverso l'istituzione del Fondo unico giustizia e la digitalizzazione del processo.
Tuttavia, la maggiore efficienza può costituire una conseguenza anche di ulteriori modifiche normative approvate, concernenti altri temi. Si considerino ad esempio le modifiche di carattere processuale (v. paragrafo sul processo nel tema dedicato al settore civile) e quelle relative al contributo unificato.
Su quest'ultimo punto, in particolare, l’art. 37 del decreto-legge 98/2011 ha modificato la disciplina del contributo unificato prevista dal T.U. spese di giustizia, aumentandone la misura e introducendo nuove ipotesi per le quali esso è dovuto, attraverso l’abrogazione di alcune esenzioni. Le maggiori risorse sono destinate ad alimentare un fondo per la realizzazione di interventi urgenti in materia di giustizia civile, amministrativa e tributaria.
Con i due decreti legislativi nn. 155 e 156 del 2012 , il Governo ha rivisto la geografia giudiziaria - a fini di riduzione della spesa e di miglioramento dell'efficienza del sistema giustizia - in attuazione alla delega conferitagli dalla legge n. 148 del 2011. Il primo decreto procede alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e detta la nuova organizzazione degli uffici giudiziari di primo grado e delle relative procure della Repubblica. A tal fine sopprime 31 tribunali. Il secondo decreto opera analoga riorganizzazione in relazione agli uffici del giudice di pace, riducendone significativamente il numero.
In particolare, il decreto legislativo 155/2012, rispetto a una situazione iniziale di 165 uffici di primo grado (più il tribunale di Giugliano, mai effettivamente entrato in attività) e 220 sezioni distaccate di tribunale, prevede la soppressione di 31 tribunali, 31 procure e di tutte le 220 sezioni distaccate di tribunale. L'effettiva decorrenza dell'efficacia della riforma è fissata al 13 settembre 2013, accompagnata da una disciplina transitoria. Ulteriori elementi relativi al decreto n. 155 sono contenuti nell'approfondimento dedicato.
Il decreto legislativo 156/2012 riorganizza sul territorio gli uffici dei giudici di pace. Il provvedimento sopprime un significativo numero di uffici, in particolare di quelli situati in sede diversa da quella del circondario di tribunale; di tali uffici, è stato operato un limitatissimo recupero in relazione agli specifici parametri previsti dalla legge delega. Sono stati soppressi ben 667 uffici del giudice di pace, partendo da un totale di 846 uffici esistenti. Restano in attività 179 uffici (133 presso sedi circondariali; 46 presso altre sedi). Il decreto n. 156 stabilisce, come previsto dalla delega, la possibilità per i comuni di recuperare l’ufficio giudiziario onorario oggetto di soppressione, accollandosi i relativi oneri finanziari. Ulteriori elementi relativi al decreto n. 156 sono contenuti nell'approfondimento dedicato.
Anche negli ultimi anni è stato perseguito l’obiettivo della razionalizzazione del processo al fine della riduzione dei suoi tempi. Pertanto, il tema della digitalizzazione della giustizia è affrontato dal legislatore a più riprese.
Il quadro normativo sviluppatosi a partire dal 2001 è stato complessivamente rivisto dal decreto-legge n. 193/2009.
Nel 2011, il Governo ha adottato un Piano straordinario per la digitalizzazione della giustizia.
In particolare, l’art. 4 del decreto-legge 193/2012 ha disposto che nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano mediante posta elettronica certificata (PEC). Per la prima volta, dunque, la disciplina del processo telematico è stata estesa anche al settore penale. Il provvedimento ha inoltre stabilito che negli uffici giudiziari indicati nei singoli decreti ministeriali attuativi, siano effettuate per via telematica ad un indirizzo di posta elettronica certificata una serie di notificazioni e comunicazioni nei procedimenti civili e penali e nelle procedure concorsuali.
Sulla materia il legislatore è tornato ripetutamente nel 2009, nel 2011 e nel 2012, ampliando le tipologie di atti e procedimenti interessati dalla digitalizzazione.
Dai dati resi disponibili dal Ministero della Giustizia, al 31 ottobre 2012, l’82% degli avvocati risulta dotato di PEC. Dal 15 ottobre 2012 le comunicazioni telematiche sono attive in tutti i tribunali e le corti d’appello. Da novembre 2011 a ottobre 2012 sono state effettuate quasi 6 milioni di comunicazioni via posta elettronica certificata. Da gennaio a ottobre 2012 sono stati depositati 126.559 atti telematici. Ulteriori elementi sulla digiltalizzazione del processo sono contenuti nell’approfondimento dedicato.
Con due successivi decreti-legge (D.L. 112/2008 e D.L. 143/2008) è stato istituito e disciplinato il Fondo unico giustizia (FUG), con l'obiettivo di centralizzare e rendere più efficiente la gestione delle somme recuperate dallo Stato, soprattutto a seguito di sequestri e confische antimafia. Al FUG affluiscono le seguenti risorse (ed i relativi interessi):
La gestione delle risorse del Fondo è affidata a Equitalia Giustizia, una società per azioni interamente posseduta da Equitalia spa (ex Riscossione s.p.a.).
La legge ha previsto che spetti ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri determinare ogni anno, entro il 30 aprile, la destinazione delle risorse del Fondo unico giustizia. Secondo quanto riportato dalla Corte dei Conti, al 31 dicembre 2009 risultavano confluiti nel Fondo unico giustizia oltre 1.592 milioni di euro, di cui 613,4 disponibili per la riassegnazione. A metà 2010 risultavano essere affluite al Fondo risorse pari a 2.049,3 milioni di euro. Al 15 dicembre 2011, secondo quanto riferito dal Governo, risultavano disponibili nel Fondo circa 1.800 milioni di euro. La stessa Corte dei conti sottolinea, tuttavia, l’incertezza circa la disponibilità delle risorse finanziarie che si rendono disponibili in corso d’anno. Ulteriori elementi relativi al FUG sono contenuti nell'approfondimento dedicato.
Ulteriori interventi legislativi hanno interessato l'organizzazione e il funzionamento della giustizia, a partire dai seguenti profili:
In parte, almeno, è destinata a produrre effetti sul funzionamento della giustizia anche la nuova disciplina del "fuori ruolo" dei magistrati contenuta nell'articolo 1, commi da 66 a 74 della legge 190/2012 (legge "anticorruzione").
Alcuni dei progetti di legge il cui esame è stato avviato ma non concluso interessano l'organizzazione e il funzionamento della giustizia.
Tra di essi è da ricordare il disegno di legge costituzionale n. 4275, presentato dal Governo Berlusconi nell'aprile 2011 e diretto a riformare il Titolo IV (Magistratura) della Parte seconda della Costituzione.
Ampia eco ha avuto inoltre la disposizione contenuta nel disegno di legge comunitaria per il 2011, volta ad ampliare le ipotesi di responsabilita' civile dei magistrati. Il disegno di legge è stato approvato dalla Camera dei deputati e non ha concluso il suo iter al Senato AS. 3129.
Tra i provvedimenti che non hanno concluso l'iter in Commissione Giustizia al Senato si ricorda:
Il decreto legislativo 155/2012 dà attuazione alla delega prevista dall’art. 1 della legge 14 settembre 2011, n. 148 (di conversione del decreto-legge 138/2011), volta a riorganizzare la complessiva distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari (commi da 2 a 5 dell’art. 1).
In particolare, il comma 2 delega il Governo a emanare, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge (e dunque entro il 17 settembre 2012), uno o più decreti legislativi per «riorganizzare la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari al fine di realizzare risparmi di spesa e incremento dì efficienza», con l'osservanza di una serie dii principi e criteri direttivi, indicati nelle lettere da a) a q) del medesimo comma:
- ridurre gli uffici giudiziari di primo grado mantenendo comunque sedi di tribunale nei circondari di comuni capoluogo di provincia alla data del 30 giugno 2011 (il principio di delega fa dunque salvi i tribunali ordinari attualmente esistenti nei comuni capoluogo di provincia) (lett. a)
- ridefinire la geografia giudiziaria, ovvero l’assetto territoriale degli uffici giudiziari, eventualmente anche trasferendo territori dall’attuale circondario a circondari limitrofi, anche al fine di razionalizzare il servizio giustizia nelle grandi aree metropolitane. Nel compiere questa attività il Governo deve tenere conto di «criteri oggettivi e omogenei» che comprendano i seguenti parametri: estensione del territorio; numero degli abitanti; carichi di lavoro; indice delle sopravvenienze; specificità territoriale del bacino di utenza, anche con riguardo alla situazione infrastrutturale; presenza di criminalità organizzata (lett. b);
- ridefinire l'assetto territoriale degli uffici requirenti (lett. c). Tale operazione deve rispettare i seguenti principi:
- assumere come prioritaria linea di intervento il riequilibrio delle attuali competenze territoriali, demografiche e funzionali tra uffici limitrofi della stessa area provinciale caratterizzati da rilevante differenza di dimensioni (lett. e)
- garantire che, all'esito degli interventi di riorganizzazione, ciascun distretto di corte d'appello, incluse le sue sezioni distaccate, comprenda non meno di tre degli attuali tribunali con relative procure della Repubblica (lett. f).
Le lettere g), h) e i) disciplinano la destinazione del personale di magistratura e amministrativo in servizio presso uffici giudiziari di primo grado soggetti alla riorganizzazione territoriale.
In particolare, la lettera g) stabilisce che i magistrati e il personale amministrativo dei tribunali e delle procure soppresse transitino automaticamente negli organici degli uffici cui sono trasferite le funzioni, anche in eventuale sovrannumero riassorbibile con le successive vacanze.
La lettera h) prevede che la suddetta assegnazione dei magistrati e del personale ai nuovi organici non dovrà essere interpretata come assegnazione ad altro ufficio giudiziario o destinazione ad altra sede, né dovrà costituire trasferimento ad altri effetti.
Infine la lettera i) dispone che, con successivi decreti del ministro della giustizia, saranno disposte le conseguenti modificazioni delle piante organiche.
Le lettere da l) a p) dettano principi e criteri direttivi per la riorganizzazione territoriale degli uffici del giudice di pace, realizzata con il decreto legislativo n. 156 del 2012.
La lettera q) stabilisce infine che dall'attuazione delle disposizioni di cui al comma 2 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Il comma 4 delinea il procedimento per l’esercizio della delega che vede il coinvolgimento delle commissioni parlamentari che debbono esprimere il proprio parere entro 30 giorni.
Il comma 5 stabilisce infine che il Governo, con la procedura indicata nel comma precedente, possa - entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi emanati nell'esercizio della delega - adottare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi medesimi, nel rispetto dei principi e criteri direttivi già fissati.
Il comma 5-bis, introdotto dalla legge n. 14 /2012, in considerazione degli effetti prodotti dal terremoto del 2009, differisce di tre anni il termine per l’esercizio della delega limitatamente alle sedi di tribunale dell’Aquila e di Chieti.
Il Consiglio dei Ministri ha approvato in via preliminare, il 6 luglio 2012, lo schema di decreto legislativo recante “Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, in attuazione dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148.
L’originario schema di decreto trasmesso alle Camere (AG. 494) aveva previsto la soppressione di 37 dei 165 tribunali (e relative procure) esistenti, di tutte le 220 sezioni distaccate di tribunale nonché della sola procura della Repubblica del tribunale di Giugliano in Campania (166° tribunale, previsto ma mai operativo).
Ampio rilievo è stato dato nel dibattito al metodo seguito dal Governo ai fini della soppressione dei tribunali. Il metodo è stato il seguente.
A) Il gruppo di studio
Sono state in primo luogo valutate le conclusioni cui è pervenuto il gruppo di studio incaricato dal Ministro della giustizia. Il gruppo di lavoro ha utilizzato solamente, tra i criteri individuati dalla delega, i parametri considerati incontrovertibili: numero degli abitanti e delle sopravvenienze (cd. indice di litigiosità), nonché dei carichi di lavoro rispetto all'organico disponibile (cd. indice di produttività). E’ stata considerata l’attività nel quinquennio 2006-2010 e valutati il totale dei provvedimenti iscritti e di quelli definiti nei procedimenti civili e penali. E’ stata inoltre considerata la dotazione organica normativamente assegnata all'ufficio e non già quella realmente presente. I valori medi risultano i seguenti:
I dati medi degli uffici giudiziari di primo grado siti in capoluogo provinciale, relativi ad abitanti, sopravvenienze, organico e produttività, sono quindi stati utilizzati a confronto con i dati degli altri tribunali. E’ stata pregiudizialmente esclusa, invece, la considerazione della cd. pendenza.
Non è stata ipotizzata la soppressione dei tribunali che soddisfano almeno uno dei parametri medi individuati.
Sarebbero, in conclusione, risultati 45 i tribunali non provinciali al di sotto dei criteri desumibili dalla legge delega. Di questi, 8 risultavano “intangibili” per consentire il mantenimento di almeno tre degli «attuali tribunali» (Gela, Larino, Barcellona P.d.G., Patti, Spoleto, Melfi, Vallo di Lucania e Rovereto). Sono quindi residuati 37 uffici giudiziari di primo grado aventi sede fuori dei capoluoghi provinciali per i quali è senz' altro stimabile in base a criteri oggettivi e omogenei l'operazione di riduzione e ridefinizione dell'assetto territoriale.
B) Il riassetto del giudice di pace
Si è inoltre tenuto conto del primo schema di decreto sul riassetto degli uffici del giudice di pace, in cui era stato fissato un limite minimo di popolazione per la sopravvivenza dell'ufficio del Giudice di pace non circondariale. Il limite minimo di 100.000 abitanti, ivi adottato come parametro di riferimento, porta a concludere che «nessun tribunale sotto tale limite può essere tendenzialmente mantenuto in vita, ove astrattamente sopprimibile, neppure in quei casi ove emergano profili di difficoltà infrastrutturali anche di non trascurabile rilievo».
C) Le valutazioni dell'amministrazione giudiziaria
Le conclusioni del gruppo di studio sono state poi ulteriormente approfondite dall’amministrazione giudiziaria, al fine di garantire, compatibilmente con i limiti della delega, la maggiore omogeneità possibile per numero di abitanti, estensione territoriale, carichi di lavoro e indice delle sopravvenienze. Sono state effettuate verifiche relative a tutti i parametri indicati dalla legge delega: situazione infrastrutturale, tasso d'impatto della criminalità organizzata nei singoli territori interessati dall'intervento (con acquisizione di relazioni delle competenti Direzioni Distrettuali Antimafia), necessità di razionalizzare il servizio giustizia nelle grandi aree metropolitane. I dati sono stati incrociati con la dimensione minima del bacino di utenza, fissata in 200.000 abitanti, la misura doppia rispetto a quella già utilizzata per gli uffici dei giudici di pace.
Ferma la necessità di procedere sulla base di parametri di valutazione oggettivi, sono state poi valutate le indicazioni provenienti dalla commissioni parlamentari e dal Consiglio Superiore della Magistratura.
E’ stato inoltre aggiunto il parametro dell'estensione del territorio. A tal fine è stata presa come riferimento la media dei 103 tribunali provinciali, intangibili per legge, depurati dal dato relativo ai 5 circondari provinciali metropolitani di Roma, Milano, Napoli, Torino e Palermo. La media sarebbe pari a 2.169 Km quadrati. E' stato perseguito l’intento di garantire che ciascun tribunale potesse acquisire una dimensione media quanto più vicina possibile al modello ideale di ufficio giudiziario individuato attraverso il ricorso a standard oggettivi, in grado di assicurare anche l'indispensabile specializzazione dei magistrati.
Come già ricordato, viene prevista anche la completa soppressione delle sezioni distaccate di tribunale; sulla base delle conclusioni del gruppo di studio, è stata considerata compatibile con la delega la soppressione anche delle sezioni distaccate dei tribunali considerati intangibili.
Specifici criteri sono stati seguiti per le grandi aree metropolitane.
La Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha espresso, il 1° agosto 2012, un parere favorevole, con numerose condizioni. Il testo definitivo del decreto legislativo ha, in particolare, accolto le seguenti condizioni del parere:
Il decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155, attua la delega per la revisione della geografia giudiziaria mediante la riorganizzazione degli uffici di tribunale e delle relative procure della Repubblica. In particolare, le nuove disposizioni prevedono la soppressione di:
Con riferimento alle sezioni distaccate, nonostante le richieste di mantenimento in vita di alcune di esse, il Governo ha ribadito la totale soppressione in quanto – come affermato nella relazione allo schema di decreto - “modello organizzativo che, dopo oltre un decennio di operatività, si è dimostrato foriero d’inconvenienti sotto il profilo dell’efficienza del servizio e del buon andamento dell’amministrazione, come dimostrano i numerosi provvedimenti d’accentramento adottati dai presidenti di tribunale ex art. 48-ter O.G..”
Il decreto fissa in dodici mesi il termine, decorso il quale diventano effettivi i“tagli” degli uffici giudiziari ordinari, nonchè le disposizioni relative alle ricadute (di natura organizzativa) di soppressioni e accorpamenti degli uffici nei confronti di magistrati, personale amministrativo e personale di polizia giudiziaria. Nel frattempo, e cioè fino al 13 settembre 2013, le udienze già fissate davanti ad uno degli uffici destinati alla soppressione continuano ad essere tenute presso i medesimi tribunali o sezioni distaccate di tribunale. Le udienze che, invece, cadono in una data successiva alla scadenza del periodo di dodici mesi e quindi dopo il 13 settembre 2013 saranno tenute dinanzi all’ufficio che ha accorpato quelli soppressi.
Il decreto intende garantire la continuità dei processi penali pendenti ed evitare rinnovazioni degli atti per diversa composizione dell’organo giudicante.
La scelta è stata di rimettere ai capi degli uffici giudiziari che hanno accorpato quelli soppressi di assicurarne la prosecuzione, dopo l’apertura del dibattimento, dinanzi agli stessi giudici che ne erano assegnatari nei tribunali o sezioni distaccate non più esistenti.
Stessa regola è stata dettata per i procedimenti civili: i capi degli uffici, se possibile, curano che il processo trasferito nella nuova sede sia trattato dal medesimo magistrato già designato per l’affare. Il termine di un anno servirà a consentire una graduale adeguamento organizzativo e strutturale degli uffici destinati ad accorpare i tribunali e le sezioni distaccate soppressi.
Il decreto sopprime 31 tribunali, mantenendo in servizio – rispetto allo schema iniziale - 6 tribunali (Caltagirone e Sciacca in Sicilia; Castrovillari, Lamezia Terme e Paola in Calabria; Cassino nel Lazio).
Risulta parzialmente accolto sul punto il parere della Commissione Giustizia della Camera che, in tali aree, riteneva necessario il mantenimento dei suddetti uffici giudiziari oltre a quello di Lucera (invece soppresso); del tribunale di Rossano, accorpato a Castrovillari, si chiedeva l’autonomo mantenimento. Confermato, invece, nonostante il parere contrario della Commissione, il transito del Comune di Niscemi dal circondario del tribunale di Caltagirone a quello di Gela. In conformità del parere della Commissione, sono accorpati al circondario di Caltagirone i comuni di Ramacca, Castel di Judica e Raddusa.
In riferimento al tribunale di Napoli Nord - rispetto all’originaria versione del decreto - risulta accolto quanto previsto nel parere della Commissione Giustizia della Camera sia in ordine all’istituzione di una procura circondariale, che all’allargamento del territorio del circondario di tribunale, al cui interno comprendere anche il comune di Aversa.
Per quanto riguarda la soppressione di tutte le 220 sezione distaccate di tribunale, mentre il CSM nel suo parere aveva manifestato il suo favore ritenendo che “il servizio giustizia ivi erogato sia decisamente insufficiente, specie avuto riguardo ai tempi della risposta giudiziaria, troppo spesso fonte di risarcimento per irragionevole durata”, la Commissione Giustizia della Camera aveva ipotizzato il mantenimento in vita per un massimo di 5 anni delle sole sezioni distaccate, anche previo accorpamento che - per carico di lavoro, riferito alle sopravvenienze, bacino di utenza, estensione del territorio, caratteristiche della collocazione geografica – fossero risultate oggettivamente necessarie per evitare, nella prima fase di attuazione della riforma, disagi organizzativi per la popolazione e disfunzioni del servizio giustizia.
L’articolo 2, comma 1, novella l’ordinamento giudiziario (R.D. 12/1941) al fine di:
Il comma 2 dell’articolo 2 del decreto legislativo 155 rinomina il tribunale di Giugliano in Campania, che diviene il tribunale di Napoli nord, cheamplia notevolmente il territorio del suo circondario, inglobando numerosi comuni del circondario del tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
L’articolo 3 sostituisce la tabella “A” allegata all’ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) relativa alle sedi e alle giurisdizioni degli Uffici di sorveglianza per adulti.
Dato che ad ogni Ufficio di sorveglianza corrisponde una giurisdizione comprendente più uffici di tribunale, il contenuto della tabella è coordinato con le soppressioni dei 31 tribunali.
L’articolo 4 sostituisce - all’esito della riforma - la tabella “N” allegata al DPR 757/1951, che stabilisce il numero delle corti di assise di appello, delle corti di assise, le loro rispettive sedi e tribunali compresi nelle circoscrizioni di corte d’assise nonché il numero dei giudici popolari.
Rinvia inoltre, per la costituzione delle sezioni di Corte d'assise e di Corte d'assise d'appello, nonché per la variazione del numero dei giudici popolari da comprendere nelle liste generali dei giudici popolari per le citate Corti, all’applicazione le disposizioni di cui agli articoli 2-bis e 6-bis della legge n. 287/1951 (Riordinamento dei giudizi di assise).
Rimane stabilito, quindi, che con DPR, previa proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e sentito il C.S.M., possono essere costituite nel medesimo circolo più sezioni delle Corti d'assise e nel medesimo distretto più sezioni delle Corti d'assise d'appello. Con identiche modalità si può provvedere alla soppressione delle sezioni non più necessarie (art. 2-bis). Con analogo DPR possono, poi, essere apportate le necessarie variazioni al numero dei giudici popolari da comprendere nelle citate liste generali.
L’articolo 5 del d.lgs. 155/2012 interessa il personale di magistratura e amministrativo da trasferire a seguito della revisione della geografia giudiziaria.
I commi da 1 a 5 dell’articolo 4 disciplinano le nuove assegnazioni dei magistrati ordinari e onorari degli uffici soppressi nonché la determinazione delle nuove piante organiche; i commi da 6 a 8 dettano analoga disciplina per il personale amministrativo.
Il comma 1 stabilisce che i magistrati assegnati agli uffici giudiziari soppressi entrano a far parte dell’organico degli uffici cui sono trasferite le funzioni, anche in soprannumero. I magistrati che esercitano le funzioni, anche in via non esclusiva, presso le sezioni distaccate soppresse si intendono assegnati alla sede principale del tribunale.
Il CSM nel suo parere del 26 luglio 2012 affermava come risultasse di dubbia interpretazione il termine “assegnazione” riferito ai magistrati in servizio presso (o anche presso) le sezioni distaccate di tribunale. Questi ultimi – tutti formalmente assegnati alla sede centrale di tribunale - svolgono infatti funzioni presso le sezioni a seguito di decisione tabellare. In carenza di un dato normativo certo, per il CSM non sarebbe stato possibile “comprendere a quale sede distaccata soppressa (intesa come ufficio giudiziario) sia “assegnato” il magistrato e quindi a quale tribunale costui debba essere trasferito”.
Una disposizione speciale è dettata per i c.d. giudici del lavoro (“magistrati addetti esclusivamente alla trattazione delle controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie”), per i quali è prevista l’assegnazione alla sezione di tribunale che si occupa di tali controversie.
Il comma 2 specifica – come da delega - che l’assegnazione dei magistrati ai nuovi uffici non va interpretata né come “assegnazione ad altro ufficio giudiziario o destinazione ad altra sede” né come “trasferimento”. Esclude quindi: l’applicazione: del limite temporale per la destinazione del magistrato ad altra sede; delle regole per la destinazione dei magistrati in caso di soppressione dell’ufficio giudiziario; dell’indennità di prima destinazione e di missione (Peraltro, se con l’assegnazione al nuovo ufficio un magistrato deve mutare la propria residenza, il decreto 155 riconosce l’applicazione delle disposizioni della legge n. 836/1973, sull’indennità di missione e sul trasferimento dei dipendenti statali (il cui trattamento economico è stato aggiornato dalla legge n. 417/1978).
Il comma 3 dell’articolo 4 stabilisce che i magistrati trasferiti d'ufficio a norma dell'articolo 1 della legge 4 maggio 1998, n. 133, alle sedi disagiate soppresse possono chiedere di essere riassegnati alla sede di provenienza, con le precedenti funzioni, anche in soprannumero da riassorbire con le successive vacanze e in deroga al termine previsto dall'articolo.
Il comma 5 dispone in ordine ai magistrati onorari presso gli uffici soppressi (i giudici ordinari di tribunale - GOT presso i tribunali ed i vice procuratori onorari - VPO nelle Procure), prevedendo che anch’essi siano assegnati agli uffici giudiziari cui sono trasferite le funzioni.
L’articolo 6 detta una disciplina specifica per le nuove assegnazioni dei magistrati titolari di funzioni dirigenziali, vale a dire i presidenti di tribunale, i presidenti di sezione del tribunale, i procuratori della Repubblica ed i procuratori aggiunti.
In relazione all’assegnazione a nuovo incarico a seguito di soppressione di un ufficio giudiziario, la regola generale prevista dalla legge sulle guarentigie della magistratura prevede che “in caso di soppressione di un ufficio giudiziario, i magistrati che ne fanno parte, se non possono essere assegnati ad altro ufficio giudiziario nella stessa sede, sono destinati a posti vacanti del loro grado ad altra sede” (R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 2, terzo comma).
In particolare, i commi 1 e 2 stabiliscono che entro 180 giorni dall’entrata in vigore della riforma, i magistrati titolari delle funzioni dirigenziali (direttive e semidirettive) negli uffici giudiziari soppressi(presidente di tribunale, presidente di sezione, procuratore della repubblica e procuratore aggiunto) possano:
Peraltro, il comma 5 disciplina la fase transitoria, vale a dire il periodo che va dall’effettiva efficacia delle disposizioni sulla soppressione dei tribunali (ovvero 12 mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo) al momento dell’assunzione delle funzioni da parte dei dirigenti nei nuovi uffici giudiziari. Infatti, i magistrati dirigenti, in attesa di essere destinati ai nuovi incarichi o funzioni, possono esercitare le funzioni semidirettive di presidente di sezione o di procuratore aggiunto presso gli uffici cui sono state trasferite le funzioni degli uffici soppressi; i magistrati già titolari dei soppressi uffici direttivi di presidente di tribunale e di procuratore della Repubblica collaborano con i dirigenti di tali uffici per la risoluzione, in particolare, dei problemi di organizzazione.
Il comma 3 aggiunge che, decorsa la data di efficacia del decreto legislativo, i magistrati che non si siano avvalsi delle facoltà previste dai commi 1 e 2 sono destinati d’ufficio ad esercitare le funzioni di giudice di tribunale o di sostituto procuratore della Repubblica negli uffici accorpanti.
Diversamente da quanto disposto dall’art. 5, comma 2, le nuove destinazioni dei magistrati con funzioni dirigenziali sono considerate come trasferimenti a domanda a tutti gli effetti (comma 4).
Infine, i commi 6 e 7 dell'articolo 4 riguardano il personale amministrativo, prevedendo:
I commi 4 e 8 del decreto legislativo demandano al Ministro della giustizia, il compito di determinare con decreto le nuove piante organiche degli uffici giudiziari, sia in riferimento ai magistrati, sentito il CSM (comma 4) che al personale amministrativo (comma 8).
Alla data del 18 gennaio 2013, i decreti non risultano essere stati ancora emanati.
L’articolo 7 provvede alla riassegnazione del personale di polizia giudiziaria in servizio presso le 31 procure della Repubblica soppresse.
Analogamente a quanto disposto per magistrati e personale amministrativo, il decreto legislativo dispone l’assegnazione o applicazione del personale di polizia presso le sezioni di polizia giudiziaria delle procure istituite presso i tribunali cui sono trasferite le funzioni degli organi giudiziari soppressi.
L’articolo 8 disciplina la sorte degli edifici giudiziari nelle sedi soppresse dalla riforma. Il comma 1 stabilisce che il Ministro della giustizia può decidere di continuare a disporre per un massimo di 5 anni degli immobili di proprietà dello Stato o dei comuni già sede dei tribunali e delle sezioni distaccate soppresse, senza che lo Stato debba corrispondere ai comuni alcun rimborso spese per gestione e manutenzione, come ulteriormente specificato dal comma 4. Tali edifici verranno utilizzati a servizio del tribunale che ha accorpato gli uffici soppressi. La decisione del ministro sarà assunta previo parere (non vincolante) del presidente del Tribunale, del consiglio giudiziario, del consiglio dell’ordine degli avvocati e delle amministrazioni locali interessate (comma 2). Infine, il comma 3 stabilisce che per il personale che presta servizio presso gli immobili già sede dei tribunali e delle sezioni distaccate, si considera sede di servizio il comune nel quale l’immobile stesso è ubicato.
L’articolo 9 reca le disposizioni transitorie. Pur non espressamente prevista dai principi e criteri direttivi di delega, la disciplina transitoria può essere ricondotta all’art. 1, comma 3, della legge delega, in base al quale la riforma realizza il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti. In base al comma 1, le udienze fissate dinanzi a uno degli uffici destinati alla soppressione per una data compresa tra l’entrata in vigore del decreto legislativo 155/2012 e la data di sua efficacia (12 mesi dopo) sono tenute presso i medesimi uffici. Le udienze fissate per una data successiva sono tenute dinanzi all’ufficio competente sulla base della nuova geografia giudiziaria stabilita dal decreto legislativo. Fino al decorso dei 12 mesi successivi all’entrata in vigore del decreto, il processo si considera pendente davanti all’ufficio giudiziario destinato alla soppressione (comma 2).
I capi degli uffici giudiziari debbono assicurare – compatibilmente con l’organico del personale effettivamente in servizio e con la migliore organizzazione del lavoro – che i procedimenti penali per i quali sia già stata dichiarata l’apertura del dibattimento proseguano dinanzi agli stessi giudici (comma 3). Il comma 4 prevede che i capi degli uffici giudiziari curano che, ove possibile, alla trattazione dei procedimenti civili provvedano il magistrato o uno dei magistrati originariamente designati.
L’articolo 10 reca la clausola di invarianza finanziaria; l’articolo 11 disciplina l’efficacia, fissata al 13 settembre 2013.
Il provvedimento entra in vigore il giorno successivo a quello di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (comma 1).
Le disposizioni sulla riduzione degli uffici, le nuove tabelle, i magistrati e il personale amministrativo presso gli uffici soppressi e il personale di polizia giudiziaria acquistano, tuttavia, efficacia decorsi 12 mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo (13 settembre 2012) (comma 2).
Il comma 3 disciplina l’efficacia delle modifiche relative alle circoscrizioni giudiziariede L’Aquila e Chieti. La scelta adottata dal decreto legislativo è stata invece quella di rivedere fin d’ora le circoscrizioni giudiziarie anche con riguardo ai predetti tribunali, esercitando, quindi, subito la delega ma differendo l’efficacia delle nuove disposizioni. Infatti, in base al comma 3, le modifiche delle circoscrizioni giudiziarie de L’Aquila e Chieti e delle relative sedi distaccate sono efficaci decorsi tre anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo e nei confronti dei magistrati titolari di funzioni dirigenziali presso gli uffici giudiziari de L’Aquila e Chieti, le disposizioni dell’art. 6 si applicano decorsi due anni dall’entrata in vigore del decreto.
Il decreto legislativo n. 156/2012 sopprime 667 uffici del giudice di pace, su un totale di 846 uffici. Resteranno in funzione 178 uffici, di cui 134 presso sedi circondariali e 44 presso sedi non più facenti capo ad un circondario di tribunale.
Il personale degli uffici soppressi è riassegnato ad altro ufficio. La disciplina transitoria si occupa delle udienze già fissate presso gli uffici soppressi.
Il decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156, nell’ambito della delega concernente la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, ha disposto la nuova organizzazione sul territorio degli uffici di pace.
La delega prevista dall’articolo 1 della legge 14 settembre 2011, n. 148, volta a riorganizzare la complessiva distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari (commi da 2 a 5) – persegue il fine di «riorganizzare la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari al fine di realizzare risparmi di spesa e incremento dì efficienza» e detta specifici principi e i criteri direttivi per la riorganizzazione territoriale degli uffici del giudice di pace, poi realizzata con il decreto legislativo n. 156 del 2012:
Dall'attuazione della delega non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Il decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156, attua la delega per la revisione della geografia giudiziaria mediante la riorganizzazione sul territorio degli uffici dei giudici di pace.
Il provvedimento riduce il numero degli uffici, in particolare mediante la soppressione di quelli situati in sede diversa da quella del circondario di tribunale; di tali uffici è stato operato un limito recupero in relazione agli specifici parametri previsti dalla legge delega.
Dei 674 uffici non circondariali di cui l’originario schema di decreto trasmesso per il parere alle Camere prevedeva la soppressione sono 7 gli uffici del giudice di pace non soppressi, in base al testo finale del decreto legislativo n. 156/2012: sono, infatti, stati mantenuti i giudici di pace in sette isole: Ischia, Capri, Lipari, Elba (a Portoferraio), La Maddalena, Procida, Pantelleria.
Lo schema, fin dall’inizio, prevedeva che - pur non facenti capo ad un circondario di tribunale - rimanessero in attività gli uffici di Imola (BO), Rho (MI), Grumello del Monte (BG), Pontedera (PI), Conegliano (TV), Sant’Anastasia (NA) e Caserta.
In base alla tabella A allegata al decreto, 667 uffici del giudice di pace (su un totale di 846 uffici, tra circondariali e non) sono stati, quindi, soppressi.
A regime restano in funzione 178 uffici:
In relazione al personale degli uffici soppressi si prevede la riassegnazione dei giudici di pace ad altri uffici con DPR; ad un decreto del Ministro della giustizia è, invece, demandato il compito di riassegnare il personale amministrativo nel rispetto dei limiti dettati dalla legge delega (il 50% presso uffici di tribunale o procura limitrofi; il rimanente 50% presso gli uffici del giudice di pace accorpanti).
Nonostante non sia prevista dalla delega, il decreto detta una specifica disciplina transitoria che prevede l’efficacia della riforma solo dopo l’emanazione del decreto correttivo delle tabelle (all’esito, cioè, delle citate richieste dei comuni di mantenimento dell’ufficio sul proprio territorio). Analoga disciplina transitoria è prevista per la tenuta delle udienze fissate dagli uffici soppressi nei sei mesi successivi all’emanazione del citato decreto correttivo.
Il Consiglio dei Ministri ha approvato in via preliminare, il 16 dicembre 2011, lo schema di decreto legislativo recante “Nuova distribuzione sul territorio degli uffici del giudice di pace, in attuazione dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148”, che è stato trasmesso alle Camere il 15 marzo 2012.
Come indicato nella relazione illustrativa dello schema, si è proceduto per tipologia di ufficio, partendo dalle strutture collocate alla base del sistema giudiziario: gli uffici del giudice di pace. «L’attuale assetto territoriale di tale tipologia di uffici, istituiti con legge 21 novembre 1991, n. 374, risulta, infatti, caratterizzato da un’elevata articolazione delle sedi giudiziarie e determina nel complesso un’eccessiva frammentazione delle risorse umane e strumentali allo stato disponibili per l’Amministrazione della giustizia, ancor più evidente se rapportata agli effettivi carichi di lavoro ed alle esigenze operative degli altri uffici giudiziari».
Nell’ottica della revisione e ottimizzazione della spesa nonchè di un recupero complessivo di risorse ed efficienza del sistema giustizia, nella valutazione del numero e della dislocazione degli uffici del giudice di pace sul territorio si è ritenuto di partire, in conformità alla delega, dagli uffici del giudice di pace dislocati in sede diversa da quella circondariale.
Attraverso l'accorpamento alle sedi circondariali di 674 uffici, il Governo stimava un recupero di 1.944 giudici di pace, e di 2.104 unità di personale amministrativo (184 area III, 1.350 area II, 570 area I). I risparmi di spesa erano valutati in euro 25.652.621 annui, al netto delle spese connesse alla movimentazione delle attrezzature.
Il criterio adottato dal Governo ai fini del mantenimento dell’ufficio è stato quello del bacino di utenza di 100.000 abitanti (la normativa previgente in materia di organizzazione territoriale di presidi del Giudice di pace aveva individuato una soglia di 50.000 abitanti).
Al termine dell’iter in sede consultiva sullo schema di decreto, la Commissione Giustizia ha espresso il 31 luglio 2012 un parere favorevole con condizioni.
Le condizioni del parere riguardavano:
1) l’attuazione congiunta della delega relative agli uffici di pace e di quella relativa agli uffici giudiziari di primo grado onde poter verificare la permanenza diffusa nei territori di un presidio di giustizia di prossimità;
2) la valutazione dei procedimenti penali, civili e amministrativi attraverso parametri oggettivi tenuto conto delle unità dei giudici di pace effettivamente in servizio e non solo di quelli in organico, ai fini dei carichi di lavoro,
3) l’eliminazione del parametro (non previsto dalla delega) relativo ad un numero minimo di 100.000 abitanti per ciascun circondario;
4) l’integrale attuazione della delega sulla base dei criteri di cui alla lettera b), alcuni dei quali non presi in considerazione, tenendo conto delle peculiarità e dell'estensione del territorio e delle infrastrutture, con particolare riferimento alle zone montane, alla insularità ed ai più consistenti nuclei abitati storicamente beneficiari di un presidio giudiziario di prossimità o di cui si evidenzia l'opportunità alla luce della situazione socio-economica nonché delle esigenze proprie delle zone soggette alla pressione della criminalità organizzata;
5) la garanzia del mantenimento delle sedi del giudice di pace presso le sezioni distaccate di tribunale che sarebbero state soppresse nell’esercizio della delega relativa agli uffici giudiziari di primo grado.
Il testo definitivo dell’articolato del decreto legislativo n. 156/2012 ha riproposto l’identica formulazione di quello dello schema presentato alle Camere per il parere (A.G. 455).
Risultano modificate soltanto le tabelle allegate, in relazione al mantenimento dei 7 uffici del giudici di pace nelle isole minori, di cui era inizialmente prevista la soppressione.
L’articolo 1 prevede la soppressione degli uffici indicati nell’allegata tabella A e stabilisce che le competenze territoriali degli uffici soppressi sono attribuite ai corrispondenti uffici indicati alla tabella B, ugualmente allegata allo schema di decreto.
La preventiva analisi del Governo per l’attuazione della delega si è incentrata, da un lato, sulla capacità di smaltimento effettivo a livello nazionale dei giudici di pace in servizio; dall’altro, sull’individuazione dei carichi di lavoro di ogni singolo ufficio, ottenuta dividendo il numero delle iscrizioni per la dotazione organica prevista per l’ufficio.
L'analisi si è articolata su un processo in quattro fasi, che ha tenuto conto dei dati statistici relativi agli anni solari 2005-2009:
La nuova tabella A prevede la soppressione di 667 uffici del giudice di pace dislocati in sedi non circondariali.
Rispetto all’originario schema di decreto che sopprimeva mediante accorpamento 674 uffici, il decreto legislativo n. 156/2012 mantiene in funzione 7 uffici del giudice di pace in aree insulari:
L’articolo 2 individua le sedi degli uffici del giudice di pace e la relativa competenza territoriale e attribuisce al Governo il potere di istituire sedi distaccate oltre che di accorpare uffici esistenti.
A tal fine, prevede al comma 1 che gli uffici del giudice di pace hanno sede nei comuni indicati alla tabella A allegata, con competenza territoriale sul circondario ivi indicato.
Viene poi fatto rinvio ad un decreto del Presidente della Repubblica, adottato su proposta del Ministro della Giustizia, sentiti il consiglio giudiziario e i comuni interessati, per l’istituzione di sedi distaccate.
Con le stesse modalità si prevede poi, analogamente a quanto già previsto, che possano essere costituiti in un unico ufficio due o più uffici contigui.
La nuova Tabella A indica i comuni in cui hanno sede gli uffici del giudice di pace e i comuni su cui tali uffici hanno competenza territoriale.
L’articolo 3 del decreto riguarda la pubblicazione delle tabelle (degli uffici del giudici di pace soppressi, di quelli mantenuti in servizio e del loro ambito territoriale) nonchè le richieste degli enti locali interessati alla conservazione degli uffici.
Il procedimento delineato dal Governo è il seguente:
Le tabelle con l’elenco degli uffici del giudice di Pace soppressi sono state pubblicate il 28 febbraio 2013 sul Bollettino ufficiale del Ministero della giustizia e sul sito Internet dello stesso dicastero. Da tale data decorre, quindi, il termine di 60 giorni per le domande di conservazione degli uffici da parte degli enti locali interessati; come si evince dalle istruzioni del Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria pubblicate sul sito del ministero della giustizia, le domande dovranno, quindi, pervenire entro il 29 aprile 2013.
L’articolo 4 disciplina la riassegnazione dei magistrati onorari e del personale amministrativo.
Il comma 1 stabilisce che con DPR si provveda alla riassegnazione dei magistrati onorari in servizio presso gli uffici soppressi del giudice di pace.
Il comma 2 prevede che con decreto del Ministro della giustizia il personale amministrativo in servizio presso gli uffici soppressi del giudice di pace deve essere riassegnato in misura non inferiore al 50% alla sede di tribunale o di procura limitrofa e, nella restante parte, all’ufficio del giudice di pace presso il quale sono trasferite le relative competenze.
Alla data del 18 gennaio 2013 risulta trasmessa dal Ministero della giustizia al C.S.M. una bozza del D.P.R che riassegna ai nuovi uffici accorpanti i giudici di pace attualmente in servizio presso gli uffici oggetto di soppressione.
L’articolo 5 del decreto reca la disciplina transitoria della riforma.
Il comma 1 prevede che le disposizioni sulla soppressione degli uffici, l’estensione delle competenze degli uffici superstiti e la riassegnazione dei magistrati onorari e del personale amministrativo acquistano efficacia successivamente all’emanazione del decreto con cui il Ministro della giustizia modifica le tabelle a seguito della richiesta degli enti locali ovvero, qualora non vi abbia provveduto, trascorso il termine di 12 mesi per l’adozione del decreto medesimo.
Una disciplina transitoria è dettata anche in relazione alle udienze da tenersi davanti al giudice di pace in servizio presso uffici soppressi dal decreto.
L’articolo 6 reca la clausola di invarianza finanziaria.
L’articolo 7 reca la clausola di immediata entrata in vigore del decreto.
L’avvio del processo civile telematico è segnato da una serie di interventi normativi, il primo dei quali risale al D.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123 (Regolamento recante disciplina sull'uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti), in attuazione di una disposizione della cd. Legge Bassanini volta a riconoscere in via generale valore legale agli atti e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici (art. 15, comma 2, L. 59/97).
Le disposizioni contenute nel Regolamento erano volte a dare vita a un sistema informatizzato dell'attività giudiziaria alternativo a quello cartaceo.
Successivamente, una serie di decreti ministeriali ha previsto regole procedurali, tecnico-operative e modelli informatici per l’avvio del processo civile telematico.
In materia di informatizzazione dei servizi della giustizia e di processo telematico sono poi intervenuti in particolare:
Anche nella XVI legislatura è stato perseguito l’obiettivo della razionalizzazione del processo al fine della riduzione dei suoi tempi. Pertanto, il tema della digitalizzazione della giustizia è stato spesso affrontato dal legislatore.
Il D.L. n. 112 del 2008 (L. 133 del 2008), recante la cd. manovra di finanza pubblica per il 2009, ha poi previsto che:
Il quadro normativo sviluppatosi a partire dal 2001 è stato complessivamente rivisto dal decreto-legge n. 193/2009. In particolare, l’art. 4 del provvedimento ha disposto che nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano mediante posta elettronica certificata (PEC), ai sensi del Codice dell’amministrazione digitale – CAD (DL 82/2005) e del regolamento sull'utilizzo della posta elettronica certificata (DPR n. 68/2005). Per la prima volta, dunque, la disciplina del processo telematico è stata estesa anche al settore penale.
Il provvedimento ha inoltre stabilito che negli uffici giudiziari indicati nei singoli decreti ministeriali attuativi, le seguenti notificazioni e comunicazioni devono essere effettuate per via telematica ad un indirizzo di posta elettronica certificata:
Inoltre, l’art. 4 del DL. 193/2009 reca numerose altre disposizioni in materia di digitalizzazione della giustizia, tra le quali si segnalano:
Sulla digitalizzazione del processo è intervenuta anche la legge n. 69/2009 che ha richiesto la trasmissione della procura alle liti per via informatica e con sottoscrizione digitale (art. 83, terzo comma, c.p.c.).
Con regolamento adottato con DM 21 febbraio 2011 n. 44, sono state stabilite le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione.
Il D.L. 138 del 2011 ha previsto poi che, nel processo civile, in ogni citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto, il difensore debba indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax e che con le indicate modalità debbono essere effettuate tutte le comunicazioni alle parti.
La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011)è tornata a novellare numerose disposizioni del codice di procedura civile e delle disposizioni di attuazione, per dare piena operatività all’utilizzo della posta elettronica certificata. In particolare, articolo 25 della legge, entrato in vigore lo scorso 31 gennaio 2012, ha previsto:
Il 14 marzo 2011 è stato presentato dal Governo il Piano straordinario per la digitalizzazione della giustizia da attuare entro 18 mesi.
Il Piano straordinario s'inquadra nell'ambito del Piano e-Gov 2012 che individua nella digitalizzazione della Giustizia un obiettivo prioritario. Le risorse stanziate (saranno rilasciate per stadi di avanzamento) ammontano a 50 milioni di euro messe a disposizione dal Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, tramite il Dipartimento per la digitalizzazione e l’innovazione tecnologica.
Il Protocollo d’intesa siglato il 26 novembre 2008 tra il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione e il Ministro della Giustizia aveva già dato avvio a un programma d’interventi per l’innovazione digitale della giustizia.
Il DL 179/2012 ha integrato la disciplina processuale delle comunicazioni e notificazioni per via telematica. In particolare, l’art. 16 contiene disposizioni in materia di comunicazioni e notificazioni per via telematica nel processo civile e penale. Le modifiche introdotte sono connesse al processo di attuazione della revisione della geografia giudiziaria (vedi i D.Lgs 154 e 155/2012) e intendono assicurare che la riduzione del numero delle sedi giudiziarie non faccia venir meno il principio di prossimità del servizio giustizia ai cittadini e alle imprese.
Nello specifico, i primi tre commi dell’art. 16 intervengono, rispettivamente, sugli articoli 136 e 149-bis del codice di procedura civile, nonché sull'articolo 45 delle disposizioni per l’attuazione del codice medesimo, apportando agli stessi alcune specifiche modifiche di coordinamento tra cui:
Nei procedimenti civili tutte le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria dovranno essere effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di PEC risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procederà, nel processo penale, per le notificazioni a persona diversa dall’imputato (comma 4).
La relazione di notificazione sarà redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alle cancellerie.
E’ poi disciplinato l’obbligo di effettuare solo per estratto la notificazione o comunicazione contenente dati sensibili, con contestuale messa a disposizione, sul sito internet individuato dall'amministrazione, dell’atto integrale cui il destinatario accede mediante la carta d’identità elettronica e la carta nazionale dei servizi, ovvero gli strumenti previsti dall’art. 64 del Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs n. 82/2005) (comma 5).
Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di PEC, e che invece non hanno provveduto, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario (comma 6).
In quei procedimenti civili nei quali la parte sta in giudizio personalmente (giudizi davanti al giudice di pace, di valore massimo di 1.100 euro, art. 82 c.p.c.) la parte il cui indirizzo di PEC non risulta da pubblici elenchi può indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata al quale vuole ricevere le comunicazioni e notificazioni relative al procedimento (comma 7).
Quando non è possibile procedere alla comunicazione o alla notificazione per via telematica per causa non imputabile al destinatario, nei procedimenti civili e penali le comunicazioni-notificazioni sono effettuate con le altre modalità previste dalla legge (c.p.c. e c.p.p.) (comma 8).
Il comma 9 detta un’articolata disciplina transitoria per l’acquisto di efficacia della nuova disciplina generale sulle comunicazioni e notificazioni via PEC.
Infatti, le disposizioni acquistano efficacia:
Il comma 10 stabilisce quindi che, con uno o più decreti, il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione, individuando:
Per favorire le comunicazioni e notificazioni per via telematica alle pubbliche amministrazioni, queste debbono comunicare al Ministero della giustizia, entro 180 gg., l’indirizzo di PEC conforme alla disciplina del relativo regolamento (DPR 68/2005) presso cui ricevere le comunicazioni e le notificazioni. L’elenco formato dal Ministero della giustizia con gli indirizzi dei posta elettronica certificata delle amministrazioni pubbliche è consultabile solo dagli uffici giudiziari e dagli UNEP (uffici notificazioni, esecuzioni e protesti) del Ministero della giustizia. (comma 12)
L’importo del diritto di copia è aumentato di 10 volte nei casi in cui la comunicazione o la notificazione al destinatario non si è resa possibile per causa a lui imputabile (comma 10).
Sono previste autorizzazioni di spesa per l'adeguamento dei sistemi informativi hardware e software presso gli uffici giudiziari (euro 1.320.000 per l’anno 2012 e di euro 1.500.000 a decorrere dall’anno 2013).
L’art. 17 del dl 179 – da ultimo modificato dalla legge di stabilità per il 2013 - modifica in molteplici punti la legge fallimentare e le disposizioni sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, finalizzate all'estensione dell'uso della posta elettronica certificata (PEC) nelle diverse fasi delle procedure concorsuali. E’ inoltre stabilita una disciplina transitoria in ordine all’applicabilità delle novelle.
Le modifiche introdotte dall’art. 17 sull’utilizzo della PEC nelle procedure concorsuali risultano tra l’altro collegate all'estensione dell'obbligo di dotarsi di posta elettronica certificata da parte di alcune tipologie di imprese e all'istituzione dell'Indice degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti.
Le modifiche relative alla legge fallimentare interessano in primo luogo il Titolo II, dedicato al fallimento, modificando le disposizioni sulla dichiarazione di fallimento, le comunicazioni poste a carico del curatore,gli obblighi di informazione a carico del curatore fallimentare, le comunicazioni del curatore ai creditori e ai titolari di diritti reali, la domanda di ammissione al passivo di un credito, di restituzione o rivendicazione di beni mobili e immobili, la domanda di ammissione al passivo, il progetto di stato passivo depositato dal curatore, la comunicazione dell’esito del procedimento di accertamento del passivo, la decisione del giudice di effettuare la comunicazione a mezzo PEC – in luogo delle previgenti modalità - a tutti i creditori del progetto di ripartizione delle somme disponibili, il rendiconto del curatore, l'esame della proposta di concordato ed il giudizio di omologazione dello stesso, il procedimento di esdebitazione,
E’ poi modificato il Titolo III della legge fallimentare, sul concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, per quanto riguarda gli obblighi di comunicazione del commissario giudiziale, l’inventario e la relazione del commissario giudiziale e la relativa comunicazione ai creditori, la relazione e i rapporti periodici del commissario.
E’ poi modificato in senso analogo il Titolo V della legge fallimentare, sulla liquidazione coatta amministrativa.
Il comma 2 dell'articolo 17 reca le modifiche al decreto legislativo n. 270 del 1999 (Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza), nella stessa direzione delle novelle alla legge fallimentare.
Sono previste disposizioni per la fase transitoria e i procedimenti in corso.
In fine, la legge di stabilità per il 2013 (legge 228/2012) è ulteriormente intervenuta sul decreto-legge 179/2012 stabilendo che:
E’ inoltre precisato quali siano i pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni, oltre al citato elenco degli indirizzi PEC delle pubbliche amministrazioni gestito dal Ministero della giustizia.
Si tratta dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente-ANPR (in cui sono inseriti i domicili digitali che i cittadini, volontariamente, comunicano alla PA), gli elenchi presso gli uffici del registro delle imprese (con gli indirizzi PEC delle società), quelli presso gli ordini e collegi professionali (con gli indirizzi PEC dei professionisti iscritti) e il registro generale degli indirizzi elettronici anch’esso gestito dal Ministero della giustizia.
Viene inoltre novellata la legge n. 53 del 1994 (Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati). Una prima modifica all’art. 2, con finalità di coordinamento, precisa che le modalità di notificazione indicate fanno riferimento alle notificazioni di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale effettuate a mezzo del servizio postale. E’ poi, inserito nella legge 53 un art. 3-bis secondo cui la notificazione telematica si effettua tramite PEC esclusivamente all’indirizzo risultante da pubblici elenchi. Ulteriori disposizioni dell’art. 3-bis riguardano le modalità di notificazione via PEC da parte degli avvocati di atti non consistenti in documenti informatici: il legale ne estrae una copia informatica di cui attesta la conformità all’originale e l’atto così formato viene allegato al messaggio di PEC; anche in tal caso, il momento di perfezionamento della notifica è quello coincidente con la generazione della ricevuta di avvenuta consegna del messaggio.
L’art. 3-bis stabilisce l’obbligo degli avvocati di redigere relazione di notificazione su documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale ed allegato al messaggio inviato via PEC. La stessa norma indica espressamente i contenuti obbligatori della relazione, compresi quelli riferiti alle notificazioni da effettuare a procedimento in corso.
E’ poi disciplinata l’eventualità in cui l’avvocato non possa procedere al deposito dell’atto per via telematica.
Nell’ambito del processo amministrativo, il nuovo codice del processo amministrativo, approvato dal D.Lgs. n. 104/2010, prevede l’obbligo per i difensori di indicare nel ricorso o nel primo atto difensivo il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio recapito di fax al fine di ricevere le comunicazioni relative al processo e di fornire copia in via informatica di tutti gli atti di parte depositati e, ove possibile, dei documenti prodotti e di ogni altro atto di causa (art. 136).
Alla digitalizzazione del processo è dedicato un paragrafo della relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2012, presentata dal primo Presidente della Corte di Cassazione il 25 gennaio 2013.
La relazione, dopo avere evidenziato che l’evoluzione del processo telematico da un lato procede a rilento e in modo non lineare, mentre dall’altro presenta già adesso articolazioni importanti e foriere di positivi sviluppi, esprime apprezzamento per il completamento della copertura di tutti gli uffici del territorio nazionale con i registri informatici di cancelleria civile, presupposto fondamentale per la realizzazione del processo telematico, e per la diffusione presso alcuni importanti uffici di servizi di grande impatto, quali i decreti ingiuntivi telematici e le comunicazioni telematiche di cancelleria.
Sempre la relazione auspica che il Ministero accompagni l’introduzione dell’obbligatorietà del processo civile telematico con investimenti mirati e idonei ad assicurare formazione, sviluppo dei sistemi, fornitura delle dotazioni necessarie e non ultimo una seria assistenza informatica, che allo stato ancora oggi appare non sufficientemente adeguata a sostenere una continuità dei servizi. Viene poi evidenziato il legame tra la digitalizzaizone e l'organizzazione delle strutture degli uffici, la normazione, l’interpretazione e, più in generale, con un ripensamento dell’impianto degli istituti processuali vigente per giungere ad una rielaborazione degli stessi che meglio si adatti alla gestione informatizzata del processo.
Dai dati resi disponibili dal Minsitero della Giustizia, ad ottobre 2012, l’82% degli avvocati risulta dotato di PEC su scala nazionale (da un minimo del 40% negli ordini di Lamezia Terme e di Torre Annunziata a un massimo del 99% negli ordini di Biella, Gorizia, Montepulciano, Sciacca, Tivoli, Vercelli).
Dal 15 ottobre 2012 le comunicazioni telematiche sono attive in tutti i tribunali e le corti d’appello.
Da novembre 2011 a ottobre 2012 sono state effettuate quasi 6 milioni di comunicazioni via posta elettronica certificata (nel mese di ottobre 2012 è stata superata per la prima volta la soglia di un milione di comunicazioni, con un massimo di 153.923 nel distretto di Torino e un minimo di 3.715 nel distrtto di Reggio Calabria).
Il risparmio stimato è di oltre 20 milioni di euro (nel mese di ottobre 2012 il risparmio ha superato 3,5 millioni di euro).
Sempre al 31 ottobre 2012, i depositi telematici risultavano attivi in 67 uffici giudiziari, per un totale di 172 servizi, suddivisi tra decreti ingiuntivi, esecuzioni, fallimenti, e atti istruttori. Da gennaio a ottobre 2012 sono stati depositati 126.559 atti.
Per ulteriori approfondimenti si rinvia alle pagine dedicate del sito Internet del Ministero della Giustizia.
Con due successivi decreti-legge (112/2008 e 143/2008), è stato istituito e disciplinato il Fondo unico giustizia (FUG), con l'obiettivo di centralizzare e rendere più efficiente la gestione delle somme recuperate dallo Stato, soprattutto a seguito di sequestri e confische antimafia.
Al Fondo unico giustizia affluiscono le seguenti risorse (e i relativi interessi):
Restano comunque fuori dal fondo altre somme riconducibili all’attività giudiziaria o di repressione degli illeciti, quali i crediti relativi alle spese di giustizia (es. recupero delle spese nei casi di ammissione al patrocinio a spese dello Stato; recupero delle spese processuali penali), le pene pecuniarie (multe e ammende), le spese di mantenimento dei detenuti, la cui riscossione è disciplinata dal Testo unico delle spese di giustizia (D.P.R. 115/2002).
In base a quanto disposto dal decreto-legge “milleproroghe” (decreto-legge 207/2008, convertito dalla legge 14/2009), le risorse affluite nel Fondo unico giustizia non sono soggette ad esecuzione forzata, non possono cioè essere pignorate ad alcun titolo.
Secondo quanto riportato dalla Corte dei Conti nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2009, al 31 dicembre 2009 risultavano confluiti nel Fondo unico giustizia oltre 1.592 milioni di euro, di cui 613,4 disponibili per la riassegnazione. A metà risultavano essere affluite al Fondo risorse pari a 2.049,3 milioni di euro.
La stessa Corte dei conti, nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato per il 2011, sottolinea peraltro la criticità relativa al capitolo 1537 del bilancio del Ministero della Giustizia, alimentato dalla quota del Fondo unico giustizia destinata al Ministero, connessa con l’incerta disponibilità delle risorse finanziarie che si rendono disponibili in corso d’anno.
Da ultimo, il comma 189 dell’art. 1 della legge 228/2012 (legge di stabilità per il 2013), nel novellare il Codice delle leggi antimafia (D.Lgs. n. 159 del 2011), ha introdotto nell’art. 40 la possibilità di vendita anticipata dei beni mobili sequestrati (quindi prima della confisca) ove la loro amministrazione sia causa di rilevanti diseconomie o vi sia pericolo di un loro deterioramento. La procedura di vendita parte dalla relativa richiesta al tribunale da parte dell’amministrazione giudiziaria o dell’Agenzia; se non decide per la distruzione dei beni mobili, il tribunale ne dispone la vendita. Ebbene, il ricavato viene fatto affluire per il 50% al Fondo unico giustizia e per l’altro 50% all’Agenzia; in caso di mancata confisca dei beni, i proventi versati al Fondo sono destinati all’avente diritto, comprensivi degli interessi maturati.
La gestione delle risorse del Fondo è affidata a Equitalia Giustizia, una società per azioni interamente posseduta da Equitalia spa (ex Riscossione s.p.a.) alla quale la legge finanziaria 2008 (legge 244/2007) aveva già attribuito il recupero dei crediti di giustizia e delle pene pecuniarie conseguenti ai provvedimenti passati in giudicato a partire dal 1° gennaio 2008.
Le modalità concrete di gestione del Fondo – che non devono comportare oneri a carico della finanza pubblica - e la remunerazione massima spettante alla società di gestione sono state disciplinate con il D.M. 127/2009 del Ministro dell’economia e delle finanze (integrato, poi, dal D.M. 119/2010) che ha, in particolare, disposto che l’aggio spettante a Equitalia Giustizia non può superare il 5% dell’utile annuo della gestione finanziaria del Fondo. Con il D.M. 15 settembre 2010 del ministro dell'economia e delle finanze, limitatamente agli anni 2009 e 2010, l'aggio spettante ad Equitalia Giustizia per la gestione del fondo è quello massimo previsto, ovvero il 5% dell'utile citato. Identica percentuale è stata, da ultimo, confermata con il il D.M. 20 aprile 2012 del Ministro dell’economia e delle finanze.
In relazione alla distribuzione delle risorse, il decreto 127/2009 prevede che il D.P.C.M. con cui - ex art. 2, D.L. 143/2008, è decisa la ripartizione percentuale delle quote del Fondo spettanti ai ministeri della giustizia e dell'interno - sia da adottare entro il 30 aprile di ogni anno; una volta emanato il D.P.C.M., la conseguente, immediata riassegnazione dei soldi è effettuata con decreto del ministero dell'economia e delle finanze. Le quote annuali delle risorse finanziarie provenienti dal Fondo unico giustizia sono attribuite ai Ministeri dell'interno, della giustizia (e all'entrata del bilancio dello Stato) in non più di due soluzioni, di cui la prima entro 30 giorni dalla definizione del citato D.P.C.M. e la seconda entro il 30 giugno di ogni anno. Le risorse che si rendono disponibili tra il 1° luglio e il 31 dicembre di ciascun anno sono assegnate nella prima ripartizione dell'esercizio finanziario successivo.
La legge ha. quindi, previsto che spetti ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri determinare ogni anno, entro il 30 aprile, la destinazione delle risorse del Fondo unico giustizia - fino ad una percentuale non superiore al 30 % delle sole risorse oggetto di sequestro penale o amministrativo - disponibili per massa, in base a criteri statistici e con modalità rotativa, nel modo seguente:
Le citate quote minime delle risorse da assegnare ai due ministeri possono essere modificate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri in caso di urgenti necessità degli stessi ministeri, derivanti da circostanze gravi ed eccezionali.
In attesa dell'emanazione del primo decreto, il Governo ha provveduto – nell’ambito delle iniziative volte a fronteggiare i reati a sfondo sessuale (vedi Reati a sfondo sessuale ) - a riassegnare 100 milioni di euro per il 2009 al Ministero dell’Interno, per le esigenze urgenti di tutela della sicurezza pubblica e del soccorso pubblico e 3 milioni di euro al Fondo nazionale contro la violenza sessuale, a sostegno dei progetti di assistenza alle vittime. Successivamente, il D.P.C.M. 29 aprile 2010, sulla base delle entrate affluite nell'esercizio 2009 (1.592 milioni di euro), ha determinato in 158 milioni la quota del Fondo unico giustizia da distribuire ai soli Ministeri della giustizia e dell'interno (quindi 79 mln per ogni ministero). A seguito della richiesta di chiarimenti da parte della Corte dei Conti (cui era stato inviato per il visto) il D.P.C.M. è stato sbloccato solo il 30 novembre 2010 recando la seguente, diversa ripartizione delle risorse disponibili (ovvero gli iniziali 158 mln) : il 49% ciascuno ai Ministeri della giustizia e dell'interno e il restante 2% all'entrata dello Stato.
Secondo quanto riferito dal ministro della giustizia Severino nel corso dell'audizione in Commissione Antimafia del 22 febbraio 2012, le risorse del Fondo unico giustizia, alla data del 15 dicembre 2011, al netto dei versamenti dello Stato e delle restituzioni, erano pari a "circa 1,8 miliardi di euro, che sono composti per oltre 700 milioni di euro da risorse liquide (conti correnti e libretti di deposito) e per i restanti 1,1 miliardi di euro da risorse non liquide (polizze assicurative, titoli, eccetera)". In riferimento alle risorse derivanti da sequestro penale e amministrativo, sulla base di una prima valutazione statistica (ovvero per il rischio di distribuire somme poi oggetto di dissequestro), proseguiva il ministro " la percentuale massima di prelievo di tali fondi è stata individuata nel 25 % delle risorse liquide sequestrate disponibili".
In relazione alle più recenti distribuzioni delle risorse del Fondo unico giustizia, con D.P.C.M. 30 novembre 2010 e D.P.C.M. 22 luglio 2011 le quote delle risorse intestate Fondo (rispettivamente, alla data del 31 dicembre 2009 e 31 dicembre 2010) sono state destinate alla riassegnazione nelle stesse percentuali: 49% al Ministero della giustizia, 49 % al Ministero dell'interno e 2 % al bilancio dello Stato. Identiche percentuali sono state stabilte dal più recente D.P.C.M. 30 ottobre 2012 (per la quota delle risorse del Fondo al 31 dicembre 2011).
In prima assegnazione, al Ministero della giustizia è stata attribuita la somma di 104.9 milioni di euro ed in seconda assegnazione l'importo di 112.5 milioni di euro; le risorse affluiscono al cap. 1537 (Fondi da ripartire) del Ministero della giustizia.
Sulla base delle relazione tecnica fornita da Equitalia Giustizia il 1° ottobre 2012, con D.M. 30 ottobre 2012, il ministro dell'Economia e delle Finanze ha ridotto al 10% la percentuale delle risorse del Fondo unico giustizia oggetto di sequestro penale e amministrativo da destinare alla riassegnazione. Il decreto conferma, poi, quanto già stabilito dall'art. 2, comma 7-quater, del D.L. 143/2008, ovvero che tale percentuale possa, sempre con D.M. Economia e Finanze, essere elevata al 50% in funzione del consolidamento dei dati statistici relativi alle risorse disponibili.
Nel corso della legislatura il Parlamento ha in più occasioni affrontato il tema delle funzioni attribuibili ai magistrati ordinari al termine del tirocinio.
Originariamente, infatti, l’art. 13 del d.lgs. 160/2006 precludeva ai magistrati di prima nomina, anteriormente al conseguimento della prima valutazione di professionalità, la possibilità di essere destinati a svolgere talune funzioni:le funzioni requirenti, giudicanti monocratiche penali, di giudice per le indagini preliminari o di giudice per l’udienza preliminare. Il Ministro della giustizia Alfano, nell’audizione presso la Commissione giustizia della Camera del 9 dicembre 2009, evidenziava come tale scelta avesse di fatto posto fine alla prassi secondo la quale nelle sedi vacanti per difetto di aspiranti venivano mandati, come pubblico ministero o giudice per le indagini preliminari, i giovani vincitori di concorso.
Tale preclusione ha nei fatti aggravato la c.d. scopertura delle sedi disagiate. Per fare fronte alle esigenze di copertura di tali sedi - che si concentrano specialmente nel Sud d’Italia, in regioni ad alta densità di criminalità organizzata – il Governo è allora intervenuto con il decreto-legge 193/2009 (convertito dalla legge 26/2010).
Il decreto-legge, pur mantenendo la sopra richiamata preclusione, consentiva una deroga in presenza di specifiche condizioni oggettive di scopertura delle sedi e con riferimento ai magistrati nominati con un decreto ministeriale del 2009. A questi ultimi, al termine del tirocinio,con provvedimento motivato il Consiglio superiore della magistratura, ove alla data di assegnazione delle sedi ai magistrati nominati con il decreto ministeriale sussista una scopertura superiore al 30 per cento dei posti, può attribuire le funzioni requirenti al termine del tirocinio, anche antecedentemente al conseguimento della prima valutazione di professionalità, in deroga a quanto è previsto dalla normativa vigente.
Fino al conseguimento della prima valutazione di professionalità, l'esercizio dell'azione penale in relazione ad alcuni reati (quelli per i quali è prevista l'udienza preliminare) da parte dei magistrati requirenti autorizzati in deroga al divieto deve svolgersi previo assenso del procuratore della Repubblica ovvero del procuratore aggiunto o di altro magistrato appositamente delegato. Tuttavia il procuratore della Repubblica può disporre, con apposita direttiva di carattere generale, che tale assenso scritto non sia necessario se si procede nelle forme del giudizio direttissimo mediante presentazione diretta dell'imputato davanti al giudice del dibattimento per la convalida dell'arresto e il contestuale giudizio
Sul tema è infine intervenuta la legge 187/2011 che, stavolta con disposizione di portata generale, ha modificato l'art. 13 del d.lgs 160/2006 per consentire ai magistrati ordinari al termine del tirocinio (e dunque in fase di prima nomina) di svolgere pienamente le funzioni requirenti. A tali magistrati restano dunque precluse le sole funzioni giudicanti monocratiche penali (salvo per i casi di citazione diretta a giudizio a norma dell'art. 550 c.p.p.) e di giudice delle indagini preliminari. L'accesso a tali funzioni sarà infatti possibile solo dopo il conseguimento della prima verifica di professionalità.
L’art. 1, comma 395, della legge 228/2012 (legge di stabilità 2013) dispone la proroga al 31 dicembre 2013 dei termini di talune disposizioni in materia di magistratura onoraria.
In particolare, il primo periodo modifica l'articolo 245, comma 1, del decreto legislativo sul giudice unico (n. 51/1998) – che a sua volta ha novellato l’ordinamento giudiziario - prorogando l'applicabilità delle disposizioni che consentono ai magistrati onorari di essere addetti al tribunale ordinario (GOT) e alla procura della Repubblica presso il tribunale ordinario (VPO).
Sulla base del testo novellato tale disciplina potrà continuare ad applicarsi fino all’attuazione del complessivo riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria e comunque non oltre il 31 dicembre 2013.
Il termine originario del 2 giugno 2004, fissato dall’articolo 245 del decreto legislativo n. 51 del 1998, e prorogato da vari provvedimenti d’urgenza, era stato da ultimo differito al 31 dicembre 2012 dall'articolo 15 del decreto-legge n. 212 del 2011.
Il secondo periodo interviene più specificamente sui giudici onorari il cui mandato era in scadenza al 31 dicembre 2012. La proroga nelle funzioni opera fino a tutto il 31 dicembre 2013. Analiticamente, la disposizione:
Anche in questo caso la proroga opera dal 1° gennaio 2013 fino alla riforma organica della magistratura onoraria e comunque non oltre il 31 dicembre 2013.
Il tema della responsabilità civile dei magistrati è stato trattato in più occasioni nel corso della XVI legislatura. Peraltro l'iter delle proposte avanzate non si è concluso. Particolare rilievo ha assunto un emendamento approvato dalla Camera dei deputati nel corso dell'esame del disegno di legge comunitaria per il 2011 e volto ad amplare le ipotesi di responsabilità dei magistrati.
La responsabilità civile dei magistrati è oggi disciplinata dalla legge 117/1988, che ha dato alla materia una nuova regolamentazione all’indomani del referendum del novembre 1987, che ha comportato l’abrogazione della previgente. fortemente limitativa dei casi di responsabilità civile del giudice.
L’articolo 1 della legge n. 117/1998 ne delinea il campo d’applicazione, stabilendo che le disposizioni sulla responsabilità civile dei magistrati si applicano «a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria». Tali disposizioni si applicano anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.
Sotto il profilo sostanziale, l’articolo 2 della legge n. 117 afferma il principio della risarcibilità del danno ingiusto. Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza, il danno ingiusto risarcibile, secondo la nozione recepita dall'art. 2043 cod. civ., è quello che produce la lesione di un interesse giuridicamente rilevante, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo (Cass., III sez., ord. 10 agosto 2002, n. 12144; Sez. III, sent. 19 luglio 2002, n. 10549).
Il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni ovvero conseguente “a diniego di giustizia”.
Ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge 117/1988, i giudici di pace e i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa grave di cui all'articolo 2, comma 3, lettere b) e c).
L’art. 2, comma 3, della legge 117, prevede che costituiscano colpa grave:
La giurisprudenza della Cassazione civile ha affermato che «In tema di risarcimento del danno per responsabilità civile del magistrato, l'ipotesi di colpa grave di cui all'art. 2, comma 3, l.n. 117/88 sussiste quando il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (cfr. Sez. III, sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008). Per quanto riguarda il concetto di negligenza inescusabile, la Suprema Corte ha sostenuto che questo esige un "quid pluris" rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile", e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato (cfr. Sez. I, sent. n. 6950 del 26 luglio 1994 e Sez. III, Sent. n. 15227 del 5 luglio 2007). La legge chiarisce, comunque, che non possono dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2), ferme restando le ipotesi di possibile responsabilità disciplinare del magistrato in presenza di un’abnorme o macroscopica violazione di legge ovvero di uso distorto della funzione giudiziaria. La tutela delle parti, in tali ipotesi, è di natura esclusivamente endoprocessuale, attraverso il ricorso al sistema delle impugnazioni del provvedimento giurisdizionale che si assume viziato.
In base all’articolo 3 della legge, costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, i termini previsti dalla legge. In particolare, il termine ordinario è di 30 giorni dalla data di deposito in cancelleria dell’istanza; se tuttavia l'omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell'imputato, il termine è di 5 giorni (improrogabili, a decorrere dal deposito dell'istanza) o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.
Chi ha subìto il danno ingiusto non può agire direttamente in giudizio contro il magistrato, ma deve agire contro lo Stato (art. 2, comma 1). Lo Stato, a determinate condizioni, può esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato (art. 7).
Sotto il profilo processuale (artt. 4 e 5), l'azione di risarcimento del danno contro lo Stato:
Nel giudizio di risarcimento è ammessa la facoltà d’intervento del magistrato (art. 6) il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio; questi non può essere assunto come teste né nel giudizio preliminare di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato.
Se è accertata nel giudizio la responsabilità del magistrato, lo Stato, entro un anno dal risarcimento, esercita nei suoi confronti l'azione di rivalsa (artt. 7 e 8). In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa e nel giudizio disciplinare. L'azione di rivalsa, promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri, va proposta davanti allo stesso tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'articolo 11 c.p.p. e dell'articolo 1 delle norme di attuazione del codice di procedura penale.
La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.
Le citate disposizioni sulla misura della rivalsa dello Stato si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa è calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta.
L’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato ordinario per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento spetta al procuratore generale presso la Corte di cassazione; l’azione va proposta entro due mesi dalla comunicazione del tribunale distrettuale che dichiara ammissibile la domanda di risarcimento. Gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d'ufficio, nel giudizio di rivalsa (articolo 9).
La legge 117/1988 prevede invece l’applicazione delle norme ordinarie nel caso in cui il danno sia conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni (articolo 13). In tal caso l'azione civile per il risarcimento del danno ed il suo esercizio anche nei confronti dello Stato come responsabile civile sono regolati dalle norme ordinarie; il danneggiato quindi potrà agire direttamente nei confronti del magistrato e dello Stato, quale responsabile civile, e l'azione di regresso dello Stato che sia tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato sarà disciplinata dalle norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti.
Come ha chiarito la giurisprudenza, la responsabilità ex art. 13 della legge n. 117 si pone su di un piano diverso da quello delle ipotesi di responsabilità contemplate dagli artt. 2 e segg. della legge stessa e si riferisce a fattispecie che presentino - rispetto all'ipotesi di dolo di cui all'art. 2 - un ulteriore connotato, rappresentato dalla costituzione di parte civile nel processo penale eventualmente instaurato a carico del magistrato, ovvero da una sentenza penale di condanna del medesimo, passata in giudicato (Cass., sez. I,. 19 agosto 1995, n. 8952; Cass., Sez. III, 16 novembre 2006, n. 24387).
La legge n. 117 del 1988 è stata considerata da alcuni commentatori in contrasto con lo spirito del referendum abrogativo del 1987 perché eccessivamente favorevole al magistrato. In merito, tanto nel 1995 quanto nel 1999, sono state presentate ulteriori richieste di referendum abrogativo; in entrambi i casi è stata la Corte costituzionale a giudicare i quesiti inammissibili.
Nella sentenza 13 giugno 2006, emessa nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo), la Corte di giustizia ha affermato che «Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale».
La Corte ha osservato che «Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler». Alla luce della sentenza da ultimo indicata, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, nonché della manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia nella materia (sentenza Köbler, cit., punti 53-56).
La medesima Corte di giustizia si è trovata poi a dover decidere di una procedura di infrazione (causa C-379/10) promossa dalla Commissione europea al fine di ottenere una modifica della norma italiana sulla responsabilità civile del magistrato nel senso indicato dalla sentenza del 2006.
Il 24 novembre 2011 la Corte di giustizia dell'Unione europea, decidendo con sentenza nella causa C-379/10 Commissione c. Italia, ha rilevato che la disciplina italiana sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, laddove esclude qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e laddove limita tale responsabilità ai casi di dolo o di colpa grave, è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell'Unione.
La Corte rammenta che uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni arrecati ai singoli per violazione del diritto dell'Unione da parte dei propri organi in presenza di tre condizioni:
La responsabilità dello Stato per i danni causati dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado è disciplinata dalle stesse condizioni. In tal senso, una «violazione sufficientemente caratterizzata della norma di diritto» si realizza quando il giudice nazionale ha violato il diritto vigente in maniera manifesta. Il diritto nazionale può precisare la natura o il grado di una violazione che implichi la responsabilità dello Stato ma non può, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi.
Anzitutto, il disegno di legge costituzionale A.C. 4275 presentato dal Governo Berlusconi e volto ad una riforma complessiva del Titolo IV della Parte II della Costituzione, “La Magistratura”, prevedeva (articolo 14) l’introduzione in Costituzione di una nuova sezione e un nuovo articolo, relativi alla responsabilità dei magistrati.
Sezione II-bis, Responsabilità dei magistrati
L’articolo 113- bis prevede, al primo comma, che i magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato. La disposizione prevede innanzitutto una responsabilità diretta dei magistrati per gli atti compiuti in violazione dei diritti, senza quindi che il cittadino dovesse rivolgersi allo Stato.Secondo la relazione illustrativa, l’art. 113-bis afferma per la prima volta, nella Costituzione, il principio della responsabilità professionale del magistrato, destinato a completare il nuovo assetto della magistratura in cui l'autonomia e l'indipendenza devono trovare un necessario bilanciamento nella efficienza e responsabilità. Con riferimento al primo comma, la relazione illustrativa sottolinea che «si prevede un'unica disciplina comune per tutti gli impiegati civili dello Stato: il magistrato dovrà, infatti, rispondere degli atti compiuti in violazione dei diritti, che cagionino un danno ingiusto al pari degli altri funzionari dello Stato».
L’articolo 113-bis, secondo comma, introduce il principio della responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale e rimette la disciplina alla legge.
Si ricorda in proposito che l’art. 24, comma quarto, Cost. prevede che la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Il terzo comma prevede infine, ribadendo quanto già previsto dall’art. 28 Cost. per i funzionari ed i dipendenti dello Stato, che la responsabilità civile dei magistrati si estende allo Stato.
Il disegno di legge del Governo ha interrotto il proprio iter in sede referente davanti alle Commissioni I e II della Camera dei deputati.
In secondo luogo, occorre ricordare che la Commissione giustizia della Camera dei deputati ha avviato l’esame di una serie di proposte di legge in materia di responsabilità civile dei magistrati (C. 1956 Brigandì, C. 252 Bernardini, C. 1429 Lussana, C. 2089 Mantini, C. 3285 Versace, C. 3300 Laboccetta e C. 3592 Santelli), ed ha svolto sul tema una serie di audizioni.
L’iter si è interrotto in sede referente.
Infine, si ricorda che il disegno di legge comunitaria 2010, nel testo approvato dalla Commissione Politiche dell’Unione europea (A.C. 4059-A), conteneva una specifica disposizione (articolo 18), incidente sui presupposti della responsabilità civile dei magistrati, con finalità di adeguamento dell’ordinamento alla procedura di infrazione comunitaria (2009/2230), sulla quale la Corte di giustizia non si era ancora pronunciata.
Dopo il rinvio del disegno di legge in Commissione, disposto il 6 aprile 2011 dall'Assemblea, il provvedimento è tornato all'esame dell'Aula il 26 luglio, dove l'approvazione di un emendamento della Commissione che ha disposto la soppressione dell'art. 18 sulla responsabilità civile dei magistrati.
La volontà di introdurre una disposizione di modifica della legge 117/1988 si manifesta pochi mesi dopo in sede di esame del disegno di legge comunitaria 2011 quando, il 2 febbraio 2012, l’Assemblea della Camera di deputati approva un articolo aggiuntivo al disegno di legge (emendamento Pini 30.052), con il parere contrario del Governo (v. A.S. 3129, art. 25). Sul testo si esprimerà con un parere critico anche il Consiglio superiore della magistratura (14 marzo 2012).
La prima novella all'articolo 2 della legge n. 117 del 1988, recata dal comma 1, lettera a), dell'articolo 25 sostituisce il comma 1 dell’articolo 2 della legge 117/1988.
Rispetto al testo vigente la prima novità è rappresentata dall'introduzione della possibilità - per chi abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni nelle ipotesi considerate nel medesimo articolo 2, ovvero per diniego di giustizia - di agire non solo contro lo Stato, ma anche contro il soggetto riconosciuto colpevole, per ottenere il risarcimento dei danni.
Un'ulteriore innovazione è poi l'introduzione dell'ipotesi della "violazione manifesta del diritto", aggiuntiva rispetto ai già previsti titoli di imputazione della responsabilità (dolo o colpa grave), un'innovazione connessa a quanto statuito dalla Corte di giustizia nelle sentenze 30 settembre 2003, emessa nella causa C-224/01 (Kobler), e 13 giugno 2006, emessa nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo SpA).
L'ultima innovazione è infine rappresentata dall'aggiunta di un ultimo periodo al comma in questione, con il quale viene esplicitamente specificato che costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto.
La seconda novella all'articolo 2 della legge n. 117, recata dal comma 1, lettera b), dell'articolo 25, sostituisce il comma 2 del richiamato articolo ed è volta a sopprimere la disposizione che attualmente esclude la configurabilità della responsabilità in presenza di attività di interpretazione di norme di diritto. Il suddetto comma 2 viene infatti riformulato prevedendo che, salvi i casi previsti dai commi 3 e 3-bis del medesimo articolo 2, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non possa dar luogo a responsabilità la sola attività di valutazione del fatto e delle prove.
La terza e ultima novella all'articolo 2, recata dal comma 1, lettera c), dell'articolo 25, aggiunge a tale disposizione il comma 3-bis, con il fine - anche in questo caso - di adeguare l'ordinamento nazionale a quanto statuito dalla Corte di giustizia nella sentenze sopra richiamate. Il comma 3-bis stabilisce infatti che, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto ai sensi del comma 1, deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato, con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea.
L’esame del disegno di legge comunitaria 2011 al Senato non si è concluso (A.S. 3129).
Le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia hanno avviato, il 3 maggio 2011, l’esame del disegno di legge costituzionale A.C. 4275, presentato dal Governo Berlusconi, che propone una complessiva riforma del titolo IV della parte II della Costituzione, relativo alla magistratura. Le Commissioni hanno svolto sui temi della proposta riforma costituzionale un'ampia indagine conoscitiva.
Uno dei princìpi ispiratori della riforma è l’affermazione di una netta distinzione, nell’ambito della categoria dei magistrati, tra giudici e pubblici ministeri (art. 4, cpv., primo comma).
Corollario di tale distinzione è la separazione delle carriere (art. 4, cpv., secondo comma) e una disciplina differenziata della posizione di autonomia e indipendenza del pubblico ministero, in parte già desumibile dall’ordinamento costituzionale vigente.
Il riconoscimento quale ordine autonomo e indipendente da ogni potere, che nel testo vigente riguarda tutti i magistrati, viene riferito unicamente ai giudici (art. 2); allo stesso modo, l’esercizio della giurisdizione è limitato ai giudici (art. 3).
Per l’ufficio del pubblico ministero, è previsto che esso sia organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza (art. 4, cpv., terzo comma).
La possibilità per la legge di prevedere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari viene estesa ai pubblici ministeri e non più limitata alle funzioni attribuite a giudici singoli (art. 8). E’ inoltre oggetto di modifica il principio dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, con l’attribuzione alla legge della determinazione dei criteri per tale esercizio (art. 13).
Le attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura (CSM) sono ripartite tra 3 diversi organi:
Nei due Consigli superiori il rapporto tra il numero dei membri “togati” (eletti dai giudici) ed il numero membri “laici” (eletti dal Parlamento) è di parità, in luogo dell’attuale rapporto di 2/3 di membri togati e 1/3 di membri laici. Inoltre, i membri togati sono eletti previo sorteggio degli eleggibili.
Ai due Consigli superiori sono attribuite le funzioni relative alla carriera, rispettivamente, dei giudici e dei pubblici ministeri. I Consigli non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste dalla Costituzione.
Alla Corte di disciplina spettano i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. Essa si compone di una sezione per i giudici, i cui componenti sono eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà da tutti i giudici, e di una sezione per i pubblici ministeri, i cui componenti sono eletti per metà dal Parlamento in seduta comune e per metà da tutti i pubblici ministeri. Anche in tal caso, l’elezione dei membri togati avviene previo sorteggio degli eleggibili.
Viene poi introdotta una deroga al principio di inamovibilità dei magistrati, con la previsione che i Consigli superiori possano destinare i magistrati ad altre sedi, in caso di eccezionali esigenze, individuate dalla legge, attinenti all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 9).
Quanto alla polizia giudiziaria, viene meno il riferimento al potere della magistratura di disporre «direttamente» della polizia giudiziaria ed la disciplina del rapporto tra magistratura e polizia giudiziaria è rimessa alla legge (art. 10).
Sono poi ampliate le attribuzioni del Ministro della giustizia, con la costituzionalizzazione della funzione ispettiva e della relazione annuale al Parlamento (art. 11).
All’articolo 111 Cost., che sancisce i princìpi del giusto processo, è aggiunto un nuovo comma sull’appellabilità delle sentenze di condanna (art. 12). La legge può disporre eccezioni alla loro appellabilità, in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione. Le sentenze di proscioglimento sono appellabili solo nei casi previsti dalla legge.
L'azione penale deve essere esercitata secondo i criteri stabiliti dalla legge (art. 13).
Una nuova disposizione costituzionale riguarda la responsabilità dei magistrati. È sancita la responsabilità diretta dei magistrati per atti compiuti in violazione dei diritti, al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato ed è introdotto il principio della responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale (art. 14).
I princìpi contenuti nella legge costituzionale non si applicano ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore (art. 15).
Il decreto-legge 193/2009 ha affrontato il problema della scopertura delle c.d. sedi disagiate, non solo intervenendo sulle funzioni attribuibili ai magistrati di prima nomina, ma anche attraverso alcune novelle alla legge 133/1998 e una norma transitoria applicabile fino al 31 dicembre 2014.
Sotto il primo profilo, il provvedimento aumenta il numero di magistrati destinabili alle sedi disagiate (da 100 a 150) e il numero massimo di sedi disagiate individuate annualmente dal CSM (da 60 a 80), mantenendo invece la nozione di “sede disagiata” introdotta dal precedente decreto-legge 143/2008; secondo tale definizione, è “sede disagiata” l’ufficio giudiziario nel quale non sono stati coperti i posti messi a concorso nell'ultima pubblicazione e la quota di posti vacanti non sia inferiore al 20% dell’organico.
Viene abrogata la disciplina delle sedi a copertura immediata (contenuta nella legge 133/1998) e viene pertanto eliminato l'obbligo per il C.S.M., introdotto dal decreto-legge n. 143/2008, di individuare - tra le sedi disagiate - 10 sedi a copertura immediata, scelte tra quelle rimaste vacanti per difetto di aspiranti dopo due successive pubblicazioni. Sono inoltre previste in via transitoria le modalità di copertura delle sedi disagiate rimaste vacanti per difetto di aspiranti:
Non possono essere trasferiti d'ufficio i magistrati in servizio presso sedi disagiate, quelli assegnati o trasferiti presso la sede ove prestano servizio ai sensi della legge 10 marzo 1987 n. 100 (avvicinamento al coniuge militare trasferito d'autorità) o della legge 5 febbraio 1992 n. 104 (tutela dell'handicap) e, infine, i magistrati che sono genitori di prole di età inferiore a tre anni.
Possono essere trasferiti d'ufficio i magistrati che prestano servizio nel distretto nel quale sono compresi i posti da coprire, ovvero, se ciò non è possibile, nei distretti limitrofi, o nei distretti delle regioni limitrofe.
Ai magistrati trasferiti d’ufficio nelle sedi disagiate ai sensi della disciplina in esame si applicano i benefici economico-giuridici già previsti dalla legge 133/1998.
Più recentemente, in materia è intervenuto anche l'art. 37 del D.L. 98/2011, che ha previsto eccezionalmente, ove le sedi disagiate registrino una scopertura superiore al 30%, che il Consiglio superiore della magistratura con provvedimento motivato possa assegnare i magistrati ordinari nominati con D.M. giustizia 5 agosto 2010 (quelli dell’ultimo concorso, che terminano il prescritto tirocinio) ad una sede provvisoria nella quale potranno svolgere funzioni requirenti e funzioni giudicanti monocratiche penali.
Nel corso della legislatura il settore delle professioni è stato oggetto di numerosi interventi volti a favorire i principi di liberalizzazione e di concorrenza. Con la legge di stabilità 2012 (legge n. 183/2011) è stata prevista la delegificazione degli ordinamenti professionali; dopo che il il cd. decreto "liberalizzazioni" (D.L. n. 1/2012) ha abrogato il sistema delle tariffe professionali regolamentate, la delegificazione è stata attuata con il D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137. Di particolare rilievo, poi, la riforma della professione forense attuata con la legge 247/2012. Modifiche hanno, inoltre, interessato la disciplina del notariato e, in attuazione di obblighi comunitari, quella dei servizi.
All'inizio della legislatura la Camera aveva avviato l’esame di una serie di proposte di legge, tutte d’iniziativa parlamentare (A.C. 3 e abb.), volte ad una complessiva riforma dell’ordinamento sia delle “professioni regolamentate” sia delle “professioni non regolamentate”. Le prime sono essenzialmente le professioni strutturate in ordini professionali e caratterizzate dalla presenza di preminenti interessi pubblici; le seconde, organizzate in strutture associative, sono invece le professioni alle quali non viene riconosciuto lo stesso rilievo di quelle regolamentate, ma che sono comunque assoggettate, attraverso un apposito registro tenuto dal Ministro della Giustizia, alla vigilanza governativa.
In una prima fase dell'iter, i due aspetti sono stati trattati congiuntamente; successivamente, le Commissioni competenti (Giustizia e Attività produttive) hanno deciso di separare i procedimenti legislativi relativi alla riforma delle professioni regolamentate e di quelle non regolamentate. Entrambi i percorsi parlamentari hanno avuto uno sbocco normativo: dopo l'emanazione del D.L. 138/2011 e della legge 183/2011 (legge di stabilità 2012), entrambi contenenti norme sulla materia in oggetto, con il D.P.R. 137/2012 è stato adottato un regolamento di delegificazione che reca una disciplina complessiva degli ordinamenti delle professioni regolamentate; con la legge 4/2013 è stata, invece, approvata una disciplina generale sulle professioni non regolamentate (vedi i contenuti).
Prima dell'adozione del regolamento di delegificazione è intervenuto il decreto-legge 1/2012 (cd. decreto liberalizzazioni), il cui articolo 9 ha previsto l'abrogazione delle tafiffe delle professioni regolamentate, introducendo una nuova disciplina del compenso professionale che supera quella di cui al DL 138/2011, come novellata dalla legge di stabilità 2012 (L. 183/2011). Ulteriori disposizioni del DL 1/2012 riguardano il tirocinio e la società tra professionisti. In particolare, si è previsto:
Il decreto-liberalizzazioni modifica, inoltre, la disciplina della società tra professionisti (già delineata dall'art. 10 del D.L. 183/2011). L'art. 9-bis prevede:
Per una più dettagliata descrizione dei contenuti del decreto liberalizzazioni si rinvia all'apposita scheda inerente genesi e contenuto della delegificazione.
All'esito di un articolato processo di riforma, il Governo ha, quindi, emanato il D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 ovvero il regolamento di delegificazione in materia di professioni regolamentate. Il regolamento, che riguarda tutte le professioni ordinistiche - fatte salve le specificità di quelle sanitarie - ha introdotto una dettagliata disciplina che, ispirandosi ai principi di cui all'art. 3, comma 5, del D.L. 138/2011 (ad esclusione della disciplina sul compenso professionale, contenuta nell'art. 9 del D.L. 1/2012):
Le disposizioni del regolamento in materia disciplinare non si applicano alle professioni sanitarie (come già previsto dal decreto-legge 138), alla professione notarile nonchè alle funzioni disciplinari svolte dai consigli nazionali di professioni istituite prima dell’entrata in vigore della Costituzione. In relazione a tali professioni, infatti, gli organi disciplinari di ultima istanza sono stati definiti dalla Corte costituzionale come aventi “natura giurisdizionale” e risultano pertanto garantiti nella loro struttura e nelle loro funzioni da una riserva assoluta di legge. Le nuove norme disciplinari sono, quindi, riferite aisoli procedimenti disciplinari rimessi alla competenza di consigli che decidono in via amministrativa (come, ad esempio, nel caso dei commercialisti ed esperti contabili).
A seguito dell'entrata in vigore del regolamento, a decorrere dal 13 agosto 2012 sono abrogate tutte le norme incompatibili con i principi contenuti nel D.L. 138/2011. Successivamente, il Governo - entro il 31 dicembre 2012 - avrebbe dovuto raccogliere in un testo unico (non ancora adottato) le disposizioni aventi forza di legge che non risultassero esplicitamente abrogate.
Sull'originario schema di regolamento di delegificazione era stato trasmesso l'11 luglio 2012 alle Camere il parere del Consiglio di Stato, che aveva rilevato criticità su numerosi profili del testo.
Sullo stesso testo, la Commissione Giustizia aveva espresso il 26 luglio 2012 un parere favorevole con condizioni. In relazione all'esito del parere parlamentare vedi il relativo dossier del Servizio studi.
La legge 247/2012, a quasi 80 anni dalla legge professionale del 1933, ha dettato una nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense che mira ad innovare un quadro normativo che, negli anni, non è stato mai oggetto di un sistematico intervento riformatore.
Pur senza pretese di esaustività, i principali profili di novità contenuti nella legge di riforma dell'avvocatura sono i seguenti:
Per un approfondimento dei contenuti della riforma della professione forense si rinvia all'apposita scheda sulla legge 247.
Oltre alle specifiche disposizioni sulla professione notarile contenute nel DPR 137/2012 di delegificazione degli ordinamenti professionali, si segnalano gli ulteriori interventi:
Con il decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, che attua la Direttiva 2006/43/CE sulla revisione legali dei conti annuali e dei conti consolidati, è stata unificata la disciplina sui revisori contabili procedendo all'abrogazione delle precedenti normative e coordinando le disposizioni attualmente contenute nel Codice civile, nel Testo unico intermediazione finanziaria, nel Testo unico bancario e nel Codice delle assicurazioni private. Il decreto, oltre ad alcuni aspetti della disciplina della governance societaria, modifica parte della normativa della professione di revisore contabile, in particolare, prevedendo:
Il decreto è entrato in vigore il 7 aprile 2010, anche se la piena operatività è stata demandata all’adozione di specifici regolamenti del Ministero dell'economia e della Consob. Tra i principali decreti attuativi del Ministero dell'Economia si segnalano:
Il D.M. 146 nulla dice in merito alla durata del tirocinio, che rimane triennale, sia in quanto previsto dalla direttiva 2006/43/CE (attuata col citato D.Lgs 39/2010) che per l'inapplicabilità ai revisori contabili (in quanto attività non rientrante tra le professioni regolamentate) della disciplina del DPR 137/2012, regolamento di delegificazione degli ordinamenti professionali, che stabilisce una durata massima di 18 mesi del tirocinio professionale.
Ad una richiesta di parificazione a 18 mesi della durata del tirocinio dei revisori con quello dei dottori commercialisti da parte delle Commissioni parlamentari, in sede di parere sullo schema di regolamento, il Governo ha dato risposta negativa. La stessa relazione al DPR 137 chiariva che i revisori sono materia "estranea alla delegificazione: essa non è relativa a una professione regolamentata ma a un servizio professionale (erogabile da più tipologie di professionisti)". Nel D.M. 146/2012 non vi è, quindi, alcuna norma di raccordo tra i due tirocini, la cui durata era finora coincidente, a patto che il commercialista presso cui si faceva la pratica fosse anche revisore.
Per una più completa verifica della disciplina di attuazione del decreto legislativo 39/2010 sulla revisione legale dei conti si rinvia all’apposita scheda di approfondimento.
Con il decreto legislativo 59/2010 si è data attuazione alla direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, nota anche come direttiva "servizi" o direttiva Bolkenstein. In particolare, la direttiva si è proposta quattro obiettivi principali: facilitare la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione di servizi nell'Unione Europea (compresi i servizi professionali); rafforzare i diritti dei destinatari dei servizi; promuovere la qualità dell'offerta e, infine, stabilire una cooperazione amministrativa effettiva tra gli Stati membri (cfr. L'attuazione della direttiva servizi).
Tra i progetti di legge in tema di professioni il cui iter si è interrotto per la fine della legislatura merita segnalazione una proposta di modifica della legge n. 69/1963, in materia di ordinamento della professione di giornalista (A.C. 2363). Il provvedimento, approvato dalla sola Camera, non ha proseguito il suo iter al Senato A.S. 2885. Tra gli aspetti innovativi del provvedimento si segnalano : l’introduzione di un numero massimo dei membri del Consiglio dell'Ordine (fissato in 90 membri contro gli attuali 150 e, dati gli automatismi attualmente vigenti, in continua crescita); la previsione che i giornalisti professionisti debbano avere almeno una laurea triennale; l'obbligo per gli aspiranti pubblicisti di superamento di un esame di cultura generale che attesti, tra l’altro, la conoscenza dei principi di deontologia professionale.
In attuazione delle previsioni del decreto-legge n. 138 del 2011, il Governo ha emanato il D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 14 agosto 2012, n. 189) ovvero il regolamento di delegificazione in materia di professioni regolamentate, volto a dare attuazione ai principi dettati dall'articolo 3, comma 5, dello stesso decreto-legge.
Il regolamento riguarda tutte le professioni ordinistiche, fatte salve le specificità di quelle sanitarie.
Le disposizioni del regolamento in materia disciplinare non si applicano, oltre che alle citate professioni sanitarie, alla professione notarile nonché alle funzioni disciplinari svolte dai consigli nazionali di professioni istituite prima dell’entrata in vigore della Costituzione. In relazione a tali professioni, infatti, gli organi disciplinari di ultima istanza sono stati definiti dalla Corte costituzionale come aventi “natura giurisdizionale” e risultano pertanto garantiti nella loro struttura e nelle loro funzioni da una riserva assoluta di legge. Le nuove norme disciplinari sono, quindi, riferite ai soli procedimenti disciplinari rimessi alla competenza di consigli che decidono in via amministrativa (come, ad esempio, nel caso dei commercialisti ed esperti contabili). Il Regolamento di delegificazione, composto di 14 articoli, si apre con il Capo I, che reca disposizioni generali sugli ordini professionali (artt. da 1 a 8). I Capi II e III sono, invece, dedicati a disposizioni inerenti, rispettivamente, gli avvocati ed i notai (artt. 9 e 10). Il Capo IV contiene le disposizioni transitorie e finali (artt. 11-14).
L’articolo 1 del D.P.R. definisce le professioni regolamentate, in modo non molto dissimile da quanto fatto dal decreto legislativo 206/2007 (di attuazione della direttiva qualifiche), sul riconoscimento delle qualifiche professionali.
Il regolamento definisce dunque la professione regolamentata come l'attività o l'insieme delle attività, riservate o meno, il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in ordini o collegi, quando l'iscrizione è subordinata al possesso di qualifiche professionali o all'accertamento delle specifiche professionalità.
Il tratto saliente è dunque quello della necessità di una formazione specifica per esercitare un insieme di attività.
Si osserva inoltre che il regolamento prevede una riserva di attività esclusivamente prevista dalla legge; l’attività professionale, dunque, o è riservata dalla legge o non può essere riservata.
L’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) presentata alle Camere unitamente all'allora schema di regolamento di delegificazione conteneva un elenco delle professioni che il Ministero della giustizia considera interessate dalla riforma. Si tratta della professione di agente di cambio, di avvocato, di attuarlo, di biologo, di consulente del lavoro, perito agrario e perito agrario laureato, di agrotecnico e agrotecnico laureato, di architetto, di dottore agronomo e forestale, di ingegnere, di geologo, di chimico, di tecnologo alimentare, di notaio, di giornalista, di commercialista ed esperto contabile e di assistente sociale.
L’articolo 2 del DPR 137, che dà attuazione al principio contenuto nella lettera a) della norma di autorizzazione alla delegificazione, ribadisce che l'accesso alle professioni regolamentate è libero, fatto salvo l'esame di Stato previsto dall’art. 33 della Costituzione, e che libero è l’esercizio della professione.
In particolare, si vieta ogni limitazione all’iscrizione negli albi professionali, consentendo esclusivamente le limitazioni fondate:
Parimenti vietate le limitazioni:
L'art. 2 precisa che l’esercizio della professione è fondato su «autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnico» (la disposizione riproduce quanto già affermato nella disposizione legislativa di autorizzazione alla delegificazione).
All’interno degli albi è possibile formare sezioni speciali, riservate a coloro che abbiano ulteriori requisiti professionali e che possano dunque esercitare la professione in diversi ambiti, solo in presenza di una apposita disposizione di legge.
Sempre in relazione al concreto esercizio della professione, il comma 3 esclude il c.d. numero chiuso, consentendo limitazioni del numero di persone autorizzate ad esercitare una professione, in tutto il territorio nazionale ovvero in parte di esso, soltanto in presenza di ragioni di pubblico interesse.
Tra le ragioni di pubblico interesse, che giustificano una limitazione all’esercizio delle professioni, il regolamento individua la tutela della salute, peraltro già richiamata anche dal decreto-legge che autorizza la delegificazione.
Si ricorda che, per quanto riguarda il personale sanitario, attualmente il legislatore limita, sulla base di esigenze del sistema sanitario nazionale, l’accesso ai corsi universitari di specializzazione, ma non il concreto esercizio della professione da parte di coloro che si siano già iscritti agli ordini. Si può allora ipotizzare che la deroga valga a confermare le limitazioni all’apertura di nuove farmacie, consentendola soltanto in presenza di particolari requisiti di popolazione. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale ha affermato che (sentenza n. 295 del 2009) che l’organizzazione del servizio farmaceutico va ascritta alla materia “tutela della salute”.
Una deroga espressa al principio della libertà nell'esercizio della professione viene dettata per la professione notarile (ultimo periodo del comma 3).
Si ricorda che la legge notarile (legge n. 89 del 1913) dispone, all’art. 4, che «il numero e la residenza dei notai per ciascun distretto è determinato con decreto del Ministro della giustizia emanato, uditi i Consigli notarili e le Corti d'appello, tenendo conto della popolazione, della quantità degli affari, della estensione del territorio e dei mezzi di comunicazione, e procurando che di regola ad ogni posto notarile corrispondano una popolazione di almeno 7.000 abitanti ed un reddito annuo, determinato sulla media degli ultimi tre anni, di almeno 50.000 euro di onorari professionali repertoriali».
Inoltre, si ricorda anche che il decreto-legge n. 1 del 2012 (c.d. decreto liberalizzazioni) ha previsto, all’art. 12, un incremento di 500 unità nell’organico dei notai ed ha rafforzato la concorrenza consentendo l’esercizio della professione nell’intero distretto di Corte d’appello nel quale è situata la sede notarile.
Infine, il comma 4 riprende quanto già disposto dalla disposizione legislativa di autorizzazione vietando, nell’accesso e nell’esercizio della professione, ogni discriminazione.
L’articolo 3 del regolamento prescrive che ciascuna professione sia organizzata in albi a livello territoriale e nazionale.
A livello territoriale, l’albo è pubblico e deve essere tenuto dal consiglio o dal collegio territoriale. Ciascun albo deve contenere l’anagrafe di tutti gli iscritti con l’annotazione degli eventuali provvedimenti disciplinari subiti. Nel concetto di anagrafe dovrà presumibilmente essere ricompresa l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata del professionista. Si ricorda, infatti, che il decreto-legge n. 185 del 2008 (art. 16, comma 7) ha introdotto l’obbligo per i professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato di comunicare ai rispettivi ordini o collegi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata. Gli ordini e i collegi sono tenuti a pubblicare in un elenco riservato, consultabile in via telematica esclusivamente dalle pubbliche amministrazioni, i dati identificativi degli iscritti con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata. L’omessa pubblicazione dell’elenco riservato o il rifiuto reiterato di comunicare alle pubbliche amministrazioni i dati e gli indirizzi PEC degli iscritti costituiscono motivo di scioglimento o commissariamento del collegio o ordine inadempiente (comma 7-bis).
L’albo unico nazionale è la somma degli albi territoriali ed è tenuto dal consiglio nazionale competente. Spetterà ai consigli territoriali aggiornare in tempo reale e per via telematica l’albo unico nazionale. Diversamente dall’albo territoriale, per il nazionale non è prevista espressamente la pubblicità.
La scarna disciplina dell'art. 3 è integrata da quella, ricordata, sulla possibilità di istituire - con legge - sezioni speciali degli albi riservate a coloro che abbiano ulteriori requisiti professionali.
L’articolo 4 del regolamento attua il principio contenuto nella lettera g) dell’art. 3, comma 5 del decreto-legge 138/2011, di autorizzazione alla delegificazione, in tema di pubblicità informativa.
Si ricorda che l'art. 2 del c.d. decreto Bersani (decreto-legge 223 del 2006), ha abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, il divieto anche parziale di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni, secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio. La stessa disposizione ha affidato agli ordini professionali il compito di vigilare sul rispetto dei criteri individuati per il messaggio pubblicitario.
Il regolamento riprende integralmente il contenuto della norma di autorizzazione, che già si caratterizzava per l’innovativa previsione di un’informazione pubblicitaria sui compensi delle prestazioni. Rispetto alla lettera g), l’articolo 4 del regolamento specifica alcune caratteristiche dell’informazione pubblicitaria che deve:
Il regolamento non chiarisce quale sia la sorte della pubblicità comparativa; è però la relazione illustrativa dell'orginario schema di regolamento ad affermare che «nel concetto di pubblicità informativa, previsto dalla norma di delega, deve comprendersi, logicamente, la pubblicità comparativa in termini assoluti e non quella comparativa in senso stretto, tradotta con raffronti relativi ad altri specifici professionisti».
L'art. 4 del DPR aggiunge che la violazione delle disposizioni sulla pubblicità costituisce illecito disciplinare. Conseguentemente, è da ritenere che competa all’organo disciplinare – come già affermato dal decreto-legge n. 223/2006 - il compito di verificare il rispetto dei requisiti imposti al messaggio pubblicitario.
Le modifiche apportate dal Governo in sede di emanazione del regolamento trovano ragione nel parere del Consiglio di Stato che:
Il Consiglio di Stato rilevava che «La disposizione non contiene significativi elementi ulteriori rispetto alla lettera g) e, in ragione di ciò, occorre utilizzare sempre lo stesso termine "pubblicità informativa", indicato dalla nonna primaria, in sostituzione al comma 2 del termine "informazioni pubblicitarie"».
«Appare opportuno completare il comma aggiungendo “, oltre a integrare una violazione delle disposizioni di cui ai decreti legislativi 6 settembre 2005, n. 206 e 2 agosto 2007, n. 145" (pratiche commerciali scorrette e pubblicità ingannevole). La violazione degli obblighi in materia di pubblicità informativa può, infatti, integrare anche una violazione della disciplina del Codice del consumo se effettuata in pregiudizio dei consumatori, o del D.lgs. n. 145/2007 in materia di pubblicità ingannevole se in danno di altri professionisti».
Nell'emanazione del DPR, il Governo non ha tenuto conto di quanto affermato dal Consiglio di Stato in ordine all’esigenza di eliminare il riferimento alla pubblicità “funzionale all’oggetto”. Sottolineava il C.d.S. come «anche l'inciso “funzionali all’oggetto" contenuto nel comma 2, non appare chiaro: e proprio per non inserire, come detto nella relazione, "riferimenti ambigui alla dignità e al decoro professionale", che in passato hanno dato luogo a problemi interpretativi e applicativi, occorre eliminare l'inciso, attenendosi al contenuto della citata lett, g), anche per evitare che un parametro non oggettivo possa poi essere valutato sotto il profilo disciplinare in base al comma successivo».
L’articolo 5, attuando la lettera e) dell’art. 3, comma 5, del decreto-legge 138, afferma l’obbligo per il professionista di stipulare un’assicurazione per i danni derivanti dall’esercizio dell’attività professionale.
La disposizione riproduce il contenuto della norma di autorizzazione specificando:
Si ricorda che attualmente l’obbligo di copertura assicurativa grava sui notai in forza del decreto legislativo 4 maggio 2006, n. 182 (Norme in materia di assicurazione per la responsabilità civile derivante dall'esercizio dell'attività notarile ed istituzione di un Fondo di garanzia in attuazione dell'articolo 7, comma 1, della L. 28 novembre 2005, n. 246) che, attraverso gli articoli 19 e 20 ha previsto che:
Peraltro, l’art. 9-bis del decreto-legge n. 1 del 2012 ha precisato che anche la società tra professionisti deve prevedere nello statuto la stipula di una polizza di assicurazione per la copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità civile per i danni causati ai clienti dai singoli soci professionisti nell'esercizio dell'attività professionale.
L’articolo 6 disciplina il tirocinio professionale, dando attuazione al principio di cui alla lettera c) dell’art. 3, comma 5, del decreto legge 138/2011.
Dopo l’entrata in vigore del decreto-legge n. 138 è peraltro intervenuto anche il decreto-legge liberalizzazioni 1/2012 che, all’art. 9, commi 4 e 6, disciplina più ampiamente il tirocinio per tutte le professioni regolamentate, eccetto quelle sanitarie.
Il DL 1/2012 stabilisce:
Fermi questi principi, affermati direttamente dal legislatore, il regolamento di delegificazione deve limitarsi a disciplinare l’effettivo svolgimento dell’attività formativa del tirocinante e l’adeguamento costante in funzione della garanzia di adeguatezza del servizio professionale da prestare.
L’articolo 6 del D.P.R. disciplina il tirocinio in via generale, mentre il successivo articolo 10 si occupa in particolare del tirocinio degli avvocati (v. infra). La disposizione:
L’articolo 7 del D.P.R. 137 dà attuazione al principio contenuto nella lettera b) del provvedimento di autorizzazione alla delegificazione, in tema di formazione continua dei professionisti.
In particolare, il regolamento:
L’articolo 8 del regolamento attua il principio di delegificazione contenuto nella lettera f) dell’art. 3, comma 5, del DL 138/2011, in tema di procedimento disciplinare.
Come già sottolineato, la disposizione sul procedimento disciplinare non solo non si applica alle professioni sanitarie (come già previsto dal decreto-legge) né alla professione notarile ma non può applicarsi neanche alle funzioni disciplinari svolte dai consigli nazionali di professioni istituite prima dell’entrata in vigore della Costituzione. In relazione a tali professioni, infatti, gli organi disciplinari di ultima istanza sono stati definiti dalla Corte costituzionale come aventi “natura giurisdizionale” e risultano pertanto garantiti nella loro struttura e nelle loro funzioni da una riserva assoluta di legge.
Il regolamento è pertanto destinato a disciplinare esclusivamente la composizione degli organi che decidono del procedimento disciplinare rimesso alla competenza di consigli che decidono in via amministrativa.
Analiticamente, l’articolo 8 del regolamento istituisce, presso i consigli dell'ordine o collegi territoriali, consigli di disciplina territoriali cui sono affidati i compiti di istruzione e decisione delle questioni disciplinari riguardanti gli iscritti all'albo.
L'art. 8 individua il numero di componenti dei consigli di disciplina territoriali, applicando i seguenti principi:
Per l’individuazione dei componenti dei consigli di disciplina – che resteranno in carica per il medesimo periodo dei consigli dell’ordine territoriali il principio cardine è quello dell'incompatibilità tra la carica di consigliere dell'ordine o collegio territoriale e la carica di consigliere del corrispondente consiglio di disciplina territoriale.
I membri dei consigli di disciplina territoriali sono designati dal presidente del tribunale nel cui circondario hanno sede, tra i soggetti indicati in un elenco di nominativi proposti dai corrispondenti consigli dell'ordine o collegio. Si precisa che detto elenco è composto da un numero di nominativi pari al doppio del numero dei consiglieri che il presidente del tribunale è chiamato a designare. Peraltro, dalla formulazione dei commi 2 e 4 si ricava, sia pure indirettamente, che possono esser componenti dei consigli di disciplina territoriali anche soggetti non iscritti all'albo. Le stesse modalità dovranno essere seguite per la sostituzione dei componenti dei consigli di disciplina che siano cessati dalle funzioni.
I criteri in base ai quali verrà effettuata la proposta dei consigli dell'ordine o collegio e la designazione da parte del presidente del tribunale, verranno individuati con regolamento da adottare entro novanta giorni dall'entrata in vigore del DPR, dai consigli nazionali dell'ordine o collegio, previo parere vincolante del ministro vigilante.
L'art. 8 stabilisce i criteri per la designazione del presidente del consiglio di disciplina territoriale (il più anziano per età o iscrizione all’albo, se di soli iscritti si tratta) e del segretario (il più giovane per età o iscrizione all’albo, se di soli iscritti si tratta).
Quanto ai consigli di disciplina nazionali, la norma li istituisce presso i consigli nazionali dell'ordine o collegio, per decidere - in via amministrativa (v. sopra) - sulle questioni disciplinari assegnate alla competenza dei medesimi consigli nazionali, anche secondo le norme antecedenti all'entrata in vigore del DPR.
Anche in questo caso occorre applicare il principio di incompatibilità tra l’esercizio di funzioni amministrative e quello di funzioni disciplinari e pertanto i consigli nazionali dell'ordine o collegio dovranno adottare i regolamenti attuativi, entro novanta giorni dall'entrata in vigore del DPR, previo parere favorevole del ministro vigilante. In attesa della completa operatività della riforma, le funzioni disciplinari restano regolate dalle disposizioni vigenti, così come restano ferme le altre disposizioni in materia di procedimento disciplinare delle professioni regolamentate, e i riferimenti ai consigli dell'ordine o collegio si intendono riferiti, in quanto applicabili, ai consigli di disciplina: dunque continuano a valere le precedenti norme di procedura e le sanzioni previste dai rispettivi ordinamenti professionali vigenti.
Infine, spetta al ministro vigilante sulla singola professione regolamentata procedere, secondo i principi generali, al commissariamento dei consigli di disciplina territoriali e nazionali per gravi e ripetuti atti di violazione di legge, ovvero nel caso in cui non siano in condizioni di funzionare regolarmente.
L'art. 8 del DPR 137 esclude, infine, che la riforma introdotta dal regolamento di delegificazione trovi applicazione nei confronti delle professioni sanitarie e della professione notarile.
L’esclusione della professione notarile era così motivata dalla relazione illustrativa dell’originario schema di regolamento: «per la professione di notaio, va considerata la peculiarità del sistema disciplinare vigente, che garantisce di per sé la separazione con la funzione amministrativa (oltre che ampia terzietà), in cui consiste l’essenza della di riforma sul punto: come può riscontrarsi, infatti, tutta la disciplina degli artt. 148 e seguenti della legge notarile (16 febbraio 1913 n. 89), quale modificata dal decreto legislativo 1° agosto 2006 n. 149, è conforme ai principi di delega».
Il regolamento di delegificazione detta una disciplina specifica relativa agli avvocati, limitandosi peraltro a disciplinare due profili specifici della professione forense (ora oggetto di complessiva riforma a opera della legge 247/2012, che ha rilegificato l'intera materia e, per la quale, vedi il relativo approfondimento) :il domicilio professionale (art. 9) e il tirocinio (art. 10).
L’articolo 9 del D.P.R. 137 disciplina il domicilio dell’avvocato.
L’art. 10 della legge professionale (R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore) affermava che l’avvocato deve risiedere nel capoluogo del circondario del Tribunale al quale è assegnato, a meno che il Presidente del Tribunale, sentito il parere del Consiglio dell'ordine, non lo autorizzi a risiedere in un'altra località del circondario, purché egli abbia nel capoluogo un proprio ufficio, anche presso un altro avvocato.
Il regolamento stabilisce che l’avvocato deve avere un domicilio professionale nell’ambito del circondario di competenza territoriale dell’ordine presso cui è iscritto, salva la facoltà di avere ulteriori sedi di attività in altri luoghi del territorio nazionale. Viene dunque esclusa l’esigenza di risiedere nel capoluogo del circondario del tribunale. L'obbligo del domicilio nel proprio circondario di tribunale è confermato dall'art. 7 delle citata riforma forense (L. 247/2012), fatta salva la possibilità di aprire uffici in altri circondari previa comunicazione sia all'ordine di iscrizione che a quello del luogo dove è stato aperto l'ufficio.
L’articolo 10 del D.P.R. 137 del 2012 detta disposizioni specifiche sul tirocinio degli aspiranti avvocati, che si affiancano a quanto già disposto dall’articolo 6 (v. ante). In particolare, sono richiamate espressamente le disposizioni dei commi 3 e 4 dell’articolo 6, che dunque devono essere applicati anche alla professione forense.
Si tratta delle disposizioni che stabiliscono che il professionista affidatario debba avere almeno 5 anni di anzianità e non possa svolgere la funzione contemporaneamente per più di 3 praticanti (deroghe sono consentite solo sulla base di un regolamento del consiglio nazionale e previa verifica delle attività svolte dal professionista e delle caratteristiche della sua organizzazione professionale) e che consentono lo svolgimento dei primi 6 mesi di tirocinio in concomitanza con l’ultimo anno del corso di studio per il conseguimento della laurea necessaria.
L'art. 10 del regolamento prevede che il tirocinio forense possa essere svolto presso (comma 1):
Si ricorda che l’attuale disciplina del tirocinio è data anche dalle disposizioni previste dall’art. 37 del decreto-legge n. 98 del 2011, in parte riprodotto nello schema di regolamento. Il comma 4 dell’art. 37, infatti, stabilisce che «In relazione alle concrete esigenze organizzative dell'ufficio, i capi degli uffici giudiziari possono stipulare apposite convenzioni, senza oneri a carico della finanza pubblica, con le facoltà universitarie di giurisprudenza, con le scuole di specializzazione per le professioni legali […], e con i consigli dell'ordine degli avvocati per consentire ai più meritevoli, su richiesta dell'interessato e previo parere favorevole del Consiglio giudiziario […], lo svolgimento presso gli uffici giudiziari del primo anno del corso di dottorato di ricerca, del corso di specializzazione per le professioni legali o della pratica forense per l'ammissione all'esame di avvocato». Il comma 5 precisa che «Coloro che sono ammessi alla formazione professionale negli uffici giudiziari assistono e coadiuvano i magistrati che ne fanno richiesta nel compimento delle loro ordinarie attività, anche con compiti di studio, e ad essi si applica l'articolo 15 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. Lo svolgimento delle attività previste dal presente comma sostituisce ogni altra attività del corso del dottorato di ricerca, del corso di specializzazione per le professioni legali o della pratica forense per l'ammissione all'esame di avvocato. Al termine del periodo di formazione il magistrato designato dal capo dell'ufficio giudiziario redige una relazione sull'attività e sulla formazione professionale acquisita, che viene trasmessa agli enti di cui al comma 4. Ai soggetti previsti dal presente comma non compete alcuna forma di compenso, di indennità, di rimborso spese o di trattamento previdenziale da parte della pubblica amministrazione. Il rapporto non costituisce ad alcun titolo pubblico impiego. È in ogni caso consentita la partecipazione alle convenzioni previste dal comma 4 di terzi finanziatori».
Il tirocinio può inoltre essere in parte svolto attraverso la frequenza alla scuola di specializzazione delle professioni legali; il possesso del diploma di specializzazione viene infatti ritenuto equivalente a 12 mesi di tirocinio (comma 3).
Si ricorda che le scuole di specializzazione per le professioni legali provvedono alla formazione comune dei laureati in giurisprudenza attraverso l'approfondimento teorico, integrato da esperienze pratiche, finalizzato all'assunzione dell'impiego di magistrato ordinario o all'esercizio delle professioni di avvocato o notaio.Le attività pratiche, attraverso accordi o convenzioni, sono condotte presso sedi giudiziarie, studi professionali e scuole del notariato, con lo specifico apporto di magistrati, avvocati e notai. Il numero dei laureati da ammettere alla scuola é determinato con decreto del ministro dell'istruzione, università e ricerca, di concerto con il ministro della giustizia. L'accesso alla scuola avviene mediante concorso per titoli ed esame.
Il DM Giustizia 475/2001 (Regolamento concernente la valutazione del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali ai fini della pratica forense e notarile) prima della novella introdotta dalla legge 247/2012 (di riforma dell'avvocatura) stabiliva che «Il diploma di specializzazione, conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali […] è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alle professioni di avvocato e notaio per il periodo di un anno». L'attuale testo del DM si riferisce solo alla professione notarile. Identica disposizione è contenuta nel successivo art. 11 del DPR 137 (v.ultra).
Il regolamento intende comunque assicurare che dei 18 mesi di tirocinio almeno 6 siano svolti presso un avvocato, l’avvocatura o un ufficio legale (comma 2), escludendo l’ipotesi di cumulo, ad esempio, dei 12 mesi derivanti dal diploma con i 6 mesi svolti presso un ufficio giudiziario.
Pare pertanto che risulti escluso il tirocinio all’estero (previsto in via generale dall’art. 6, comma 4, del regolamento), sia perchè il professionista estero non sarà iscritto all’ordine professionale italiano sia perché non pare possibile riferire anche a enti non italiani l’autorizzazione del ministro della giustizia.
Infine, quanto ai possibili trasferimenti del praticante avvocato, l'art. 10 dispone che il praticante può, per giustificato motivo, trasferire la propria iscrizione presso l'ordine del luogo ove intende proseguire il tirocinio, previa autorizzazione del consiglio dell’ordine, che dovrà altresì attestare la durata del tirocinio già svolto. In queste ipotesi, il comma 6 individua la sede presso la quale l’aspirante avvocato può sostenere l’esame di stato nella sede di Corte d’appello nel cui distretto è stato svolto il più lungo periodo di tirocinio (in caso di equivalenza, prevale la prima sede di tirocinio).
Per completezza, si ricorda che la legge 247/2012 di riforma della professione forense, recentemente approvata dal Parlamento, in ordine al tirocinio:
L’articolo 11 del regolamento di delegificazione detta una disposizione specifica sull’accesso alla professione notarile.
Si ricorda che l’ordinamento del notariato e degli archivi notarili è contenuto nella legge 16 febbraio 1913, n. 89, il cui articolo 5 viene espressamente richiamato dal regolamento. Alcune modifiche alla disciplina del notariato sono state introdotte dall'art. 12 del DL 1/2012. La legge 233/2010 ha, invece, previsto un aumento dei poteri del ministro della giustizia in relazione all'aumento dei posti notarili banditi in via concorsuale (entrambi gli interventi sono illustrati nel tema sulle professioni regolamentate).
In particolare, per quanto riguarda l’accesso alla professione, l’articolo 5 dispone che per ottenere la nomina a notaio sia necessario possedere i seguenti requisiti:
- cittadinanza italiana o di un altro Stato membro dell'Unione europea;
- età superiore a 21;
- moralità e condotta incensurate;
- non aver subìto condanna per un reato non colposo punito con pena non inferiore nel minimo a 6 mesi (ancorché sia stata inflitta una pena di durata minore);
- laurea in giurisprudenza o titolo riconosciuto equipollente ovvero possesso del decreto di riconoscimento professionale emanato in applicazione del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 115;
- pratica per 18 mesi, di cui almeno per un anno continuativamente dopo la laurea, presso un notaio del distretto con l'approvazione del Consiglio notarile ovvero possesso del decreto di riconoscimento professionale emanato in applicazione del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 115;
- superamento, a compimento della pratica notarile, di un esame;
- tirocinio obbligatorio di 120 giorni dopo il superamento dell’esame, presso uno o più notai.
Il comma 1 dell’art. 11 del regolamento non innova quanto già previsto dall’art. 5 della legge professionale. La disposizione richiama infatti tutti i requisiti dell’art. 5, conferma che possono divenire notai tanto i cittadini italiani quanto i cittadini UE e ribadisce che per questi ultimi il titolo di studio e la pratica possono essere sostituiti dal riconoscimento del titolo professionale estero, residuando comunque il necessario superamento dell’esame di stato.
Peraltro, il richiamo all’art. 5 della legge professionale non consentirà l’effetto abrogativo della disposizione e si avrà pertanto la contestuale vigenza dell’art. 5 della legge e dell’art. 12, comma 1, del regolamento.
Il comma 2 dispone in ordine alla pratica professionale, per equiparare il possesso del diploma di specializzazione conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali (v. sopra) a 12 mesi di pratica notarile. Come per gli avvocati, saranno comunque sempre necessari almeno 6 mesi di tirocinio presso un notaio.
Come accennato il DM Giustizia 475/2001 (Regolamento concernente la valutazione del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali ai fini della pratica forense e notarile) già stabilisce che il citato diploma di specializzazione, sia valutato un anno ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alle professioni di notaio.
L’articolo 12 del D.P.R. reca la clausola di efficacia delle nuove disposizioni e disciplina gli effetti abrogativi.
In particolare, si prevede che le disposizioni del regolamento si applichino dal giorno successivo alla data di sua entrata in vigore. Sono, poi, abrogate di tutte le disposizioni regolamentari e legislative incompatibili, fermo quanto previsto dall'articolo 3, comma 5-bis, del DL 138/2011 e fatto salvo quanto previsto da disposizioni attuative di direttive di settore emanate dall'Unione europea.
Si rammenta che il citato comma 5-bis ha preveisto che le norme vigenti sugli ordinamenti professionali in contrasto con i princìpi di cui al comma 5, lettere da a) a g), fossero abrogate con effetto dalla data di entrata in vigore del regolamento governativo (appunto, il DPR 137/2012) e, in ogni caso, dalla data del 13 agosto 2012.
L'art. 12 del regolamento esplicita quindi che l’effetto abrogativo interessa disposizioni sia legislative sia regolamentari.
L’articolo 13 reca la clausola di invarianza finanziaria e impone ai soggetti pubblici interessati di operare nell'ambito delle risorse disponibili agli scopi a legislazione vigente.
L’articolo 14 prevede l’entrata in vigore del regolamento il giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, vale a dire il 15 agosto 2012.
L’immediata entrata in vigore risultava funzionale al rispetto del termine del 13 agosto 2012, a decorrere dal quale si sarebbero prodotti comunque gli effetti abrogativi nei confronti delle norme vigenti sugli ordinamenti professionali in contrasto con i principi sulle liberalizzazioni delle professioni (lettere da a) a g) del comma 5 dell’art. 3 del dl 138/2011).
La direttiva “servizi” 2006/123/CE è una delle misure più rilevanti per la crescita economica e occupazionale e lo sviluppo della competitività dell’Unione europea; attraverso il superamento degli ostacoli di natura giuridica che si frappongono alla libertà di stabilimento dei prestatori e alla libera circolazione dei servizi negli Stati membri, essa contribuisce al processo di liberalizzazione e semplificazione del mercato dei servizi, in linea con le previsioni della Strategia di Lisbona.
L’attuazione della direttiva è avvenuta in due fasi prima con il decreto legislativo 59/2010, sul cui schema (A.G. n. 171) le Commissioni giustizia e attività produttive della Camera avevano espresso il parere nella seduta dell’11 marzo 2010, e successivamente con il decreto legislativo 147/2012, esaminato (A.G. n. 468) dalla Commissione attività produttive della Camera che ha espresso il parere nella seduta del 25 luglio 2012.
Il D.lgs. n. 59/2010 ha consentito di raggiungere alcuni obiettivi in termini di aumento della concorrenza:
Nel caso di altre attività (intermediazione commerciale e di affari, di agente e rappresentante dì commercio e di mediatore marittimo), il D.lgs. n. 59/2010 ha eliminato ruoli ed elenchi quale presupposto per il loro avvio regolando, attraverso quattro decreti ministeriali, anche le modalità del passaggio al Registro delle imprese (REA) dei soggetti imprenditoriali e delle persone fisiche già iscritte ai ruoli e all’elenco soppressi.
Il provvedimento si applica alle attività economiche di carattere imprenditoriale o professionale svolte senza vincolo di subordinazione e dirette allo scambio di beni o fornitura di prestazioni anche di carattere intellettuale. Alcuni servizi sono espressamente esclusi; tra questi, le attività connesse con l’esercizio di pubblici poteri, i servizi di interesse economico generale assicurati alla collettività in regime di esclusiva, taluni servizi di natura sociale, i servizi sanitari e farmaceutici forniti a scopo terapeutico e i servizi finanziari.
Per prestatore del servizio si intende qualsiasi persona fisica avente la cittadinanza di uno Stato membro o qualsiasi soggetto costituito conformemente al diritto di uno Stato membro o da esso disciplinato, a prescindere dalla sua forma giuridica, stabilito in uno Stato membro, che offre o fornisce un servizio.
Il decreto legislativo detta una disciplina differenziata rispettivamente per l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi in regime di stabilimento e per lo svolgimento di prestazioni transfrontaliere occasionali e temporanee. Elemento chiave per l’applicazione dell’uno o dell’altro regime, secondo quanto precisato anche dalla giurisprudenza comunitaria, è lo stabilimento o meno dell'operatore nello Stato membro in cui il servizio è prestato; il carattere temporaneo delle attività è inoltre valutato non solo in funzione della durata della prestazione, ma anche della sua regolarità, periodicità o continuità.
Con riferimento alle prestazioni in regime di stabilimento, il provvedimento conferma il principio secondo il quale l’esercizio dell’attività di servizi è espressione della libertà economica del prestatore e non può essere soggetto a limitazioni ingiustificate o discriminatorie.
Sulla base di tale principio, l’esercizio in Italia del servizio può essere subordinato a specifici requisiti o a particolari regimi autorizzatori solo se sussistono motivi di interesse generale e nel rispetto dei principi di non discriminazione e proporzionalità; di norma, l’attività può essere esercitata a seguito di una dichiarazione di inizio attività e già dalla data di presentazione della medesima (cd. D.I.A. ad efficacia immediata).
Per quanto riguarda, invece, le prestazioni temporanee e occasionali di servizi, il decreto esonera i relativi prestatori dal possesso dei requisiti previsti dalla legislazione di settore. Deroghe a tale regola generale sono previste (oltre che in specifici settori) solo in presenza di motivi imperativi di interesse generale che riguardino ordine pubblico, sicurezza, sanità pubblica o tutela dell’ambiente.
Il provvedimento reca anche alcune misure di semplificazione amministrativa; in particolare consente ai prestatori l’espletamento in via telematica delle procedure necessarie per lo svolgimento delle attività di servizi attraverso lo sportello unico per le attività produttive e prevede che le domande di accesso all’attività di servizi possano essere anche presentate contestualmente alla comunicazione unica attraverso il registro delle imprese (che provvede a trasmetterle immediatamente allo sportello unico).
A tutela dei destinatari del servizio, il decreto legislativo vieta discriminazioni fondate sulla nazionalità o residenza dei medesimi.
A tutela della qualità del servizio, prevede, tra l’altro, specifici obblighi informativi in capo al prestatore e conferma la libertà di ricorrere alla pubblicità in materia di professioni regolamentate, nel rispetto delle regole di deontologia professionale.
Il regime delle prestazioni temporanee e occasionali si applica anche alle professioni regolamentate (v. anche La riforma delle professioni), nel rispetto tuttavia delle disposizioni di attuazione della “direttiva qualifiche” 2005/36/CE; in virtù della clausola di specialità, contenuta anche nella direttiva “servizi”, infatti, nel caso di contrasto tra le disposizioni della direttiva "servizi" e le disposizioni di altri atti comunitari che disciplinano aspetti specifici di attività di servizi o professioni specifiche, queste ultime prevalgono sulla direttiva "servizi".
Il decreto legislativo interviene, anche attraverso l’adeguamento dei singoli ordinamenti professionali, sul procedimento e sui requisiti per l’iscrizione in albi, registri o elenchi. In particolare, in attuazione del principio di non discriminazione, i cittadini UE sono equiparati ai cittadini italiani e il domicilio professionale è equiparato alla residenza in Italia; inoltre, nel rispetto della legislazione nazionale, è espressamente consentito l’esercizio in forma associata delle professioni regolamentate in regime di stabilimento.
Il provvedimento reca alcune misure di semplificazione per l’esercizio di specifiche attività commerciali (tra le quali, le attività di somministrazione di alimenti e bevande, di vendite per corrispondenza, per televisione e a domicilio, di commercio al dettaglio su aree pubbliche, di agente e rappresentante di commercio). In recepimento di un’osservazione contenuta nel sopra richiamato parere delle Commissioni parlamentari, non è stata riprodotta una disposizione, contenuta nell’originario schema trasmesso alle Camere, che prevedeva la liberalizzazione del sistema di diffusione della stampa quotidiana e periodica (attraverso in particolare la sostituzione del regime autorizzatorio per l’apertura di punti vendita con la dichiarazione di inizio di attività presentata agli sportelli unici). Il medesimo parere conteneva anche una condizione, questa non recepita nel decreto legislativo, con la quale si chiedeva che non fosse soppresso il ruolo degli agenti di affari in mediazione, alla luce delle esigenze di tutela dei consumatori e di sicurezza della circolazione dei beni immobili.
A due anni dall’entrata in vigore del decreto 59/2010 di attuazione della Direttiva servizi, è stato adottato il nuovo decreto legislativo 147/2012 che apporta alcune modifiche ed integrazioni per garantire la puntuale applicazione della direttiva servizi. L’obiettivo prioritario della Direttiva risponde alla necessità di armonizzare i regimi normativi di accesso e di esercizio delle attività e di eliminare gli ostacoli alla prestazione di servizi nel mercato interno, che impediscono ai prestatori di espandersi oltre i confini nazionali e di sfruttare appieno il mercato unico, per favorire, in via prioritaria, la crescita economica e lo sviluppo della competitività.Si tratta di misure che danno un ulteriore spinta alla liberalizzazione e semplificazione per l’esercizio delle attività imprenditoriali, commerciali e artigianali. Tra le novità più rilevanti c’è l’introduzione della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) che sostituisce sia la dichiarazione di inizio attività (DIA), immediata e differita, sia le autorizzazioni di attività non soggette a programmazione, ma solo a verifica dei requisiti. Le attività per cui è sufficiente la SCIA sono le seguenti: somministrazione di alimenti e bevande (l l’autorizzazione rimane necessaria solo per le zone in cui l’apertura degli esercizi è oggetto di programmazione); esercizi di vicinato (quelli aventi una superficie di vendita non superiore a 150 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 250 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti) spacci interni; vendita di prodotti al dettaglio per mezzo di apparecchi automatici; vendita per corrispondenza, per mezzo della televisione od altri sistemi di comunicazione; attività di facchinaggio; intermediazione commerciale e di affari; attività di rappresentante di commercio, mediatore marittimo, spedizioniere, acconciatore, estetista, e di tinto lavanderia, ovviando, in tale ambito, al vuoto legislativo relativo all’esercizio di attività di lavanderia self-service (articoli da 1 a 6 e da 10 a 17).
Dopo numerosi tentativi di riforma avviati nelle precedenti legislature, ad ottant'anni dalla legge professionale forense del 1933, con la legge 247/2012 è stata approvata una organica normativa che ridisegna la professione di avvocato. In controtendenza con l’orientamento degli ultimi anni del Legislatore che appariva orientato a regolare le professioni ordinistiche tramite una legge quadro, i 67 articoli del provvedimento disciplinano i molteplici aspetti dell'attività forense. La legge si compone di "Disposizioni generali" (Titolo I, artt. 1-14), norme su "Albi, elenchi e registri" (Titolo II, artt. 15-23), disposizioni relative a "Organi e funzioni degli ordini forensi" (Titolo III, artt. 24-39), e sull'accesso alla professione (Titolo IV, artt. 40-49), norme in materia di procedimento disciplinare (artt. 50-63); gli artt. 64 e ss. prevedono una delega al Governo per l'adozione di un testo unico sulla professione forense nonchè le norme transitorie e finali.
La normativa introdotta dalla legge 247 "supera" quella contenuta nel DPR 137/2012, il regolamento di delegificazione degli ordinamenti professionali, che risulta quindi inapplicabile alla professione forense. La disciplina di quest'ultima risulta, dunque, rilegificata.
Va, inoltre, rilevato come l'attuazione di gran parte della riforma sia demandata a numerosi regolamenti del Ministro della giustizia da adottare entro 2 anni, previo parere del Consiglio nazionale forense (e, per le sole materie di interesse di questa, della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense).
Il Titolo I (articoli 1-14) reca disposizioni generali.
Gli articoli 1 e 2 delineano in termini generali la disciplina dell'ordinamento forense e della professione di avvocato.
In base all'art. 1, all'ordinamento forense, stante la specificità delle funzione difensiva, è affidata la regolamentazione dell'organizzazione ed esercizio della professione; la garanzia dell'indipendenza ed autonomia degli avvocati; la tutela ed affidamento del cliente. Spetta poi allo stesso ordinamento favorire l'accesso alla professione delle giovani generazioni di avvocato sulla base di criteri meritocratici. Come accennato, l'art. 1 demanda l'attuazione della legge a regolamenti del Ministro della giustizia da adottare, previo parere del Consiglio Nazionale Forense (CNF), entro due anni (disposizioni integrative o correttive dovranno essere adottate entro quattro anni dalla data di entrata in vigore dell'ultimo dei regolamenti di attuazione).
L’articolo 2 individua il contenuto della professione, inserendo tra le attività riservate in esclusiva agli avvocati - oltre alla rappresentanza e difesa in giudizio - le attività di consulenza legale e assistenza legale stragiudiziale; tale assistenza stragiudiziale è ascritta alla competenza degli avvocati "ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato".
L'articolo 3 elenca i doveri dell'avvocato ed i principi cui deve ispirarsi la sua attività; esso inoltre determina in termini generali il contenuto del codice deontologico che dovrà essere emanato dal Consiglio nazionale forense ai sensi di quanto previsto dai successivi articoli 35 e 65, rimettendo ad un decreto ministeriale le modalità di pubblicazione e di accesso al medesimo. L’articolo 6 impone all’avvocato e ai suoi collaboratori l’osservanza del segreto professionale. la norma impone l'obbligo di riservatezza "nell'interesse della parte assistita".
La dottrina prevalente sostiene, tuttavia, che il segreto professionale non è stabilito nell’interesse dei professionisti nè dei clienti, ma nell’interesse pubblico perchè la riservatezza dei rapporti consente l’esplicazione di un’attività potenzialmente diretta ad evitare o rimuovere un gran numero di situazioni illegali. Non a caso il codice deontologico europeo considera l’obbligo del segreto al servizio non solo del cliente ma dell’intera amministrazione della giustizia.
L’articolo 4 interviene in materia di esercizio della professione forense in forma associata. Esso, tra l'altro, ammette le associazioni multidisciplinari tra professionisti cui, oltre agli avvocati, possono partecipare altri professionisti appartenenti a categorie da individuaare con regolamento del ministro della giustizia. Le associazioni tra avvocati sono iscritte ad uno speciale elenco presso il consiglio dell'ordine; l'avvocato non può partecipare a più di un'associazione.
L'articolo 5 reca una delega al Governo per la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma societaria (attualmente disciplinato dal D.Lgs 96/2001), mediante l'emanazione di un decreto legislativo entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge. Tra i numerosi principi e criteri direttivi della delega si ricordano, tra gli altri, la previsione secondo la quale l'esercizio della professione forense in forma societaria deve essere consentito esclusivamente a società di persone, di capitali o cooperative, i cui soci siano avvocati iscritti all’albo; quella secondo cui la responsabilità della società e dei soci non escludono quella del professionista responsabile della prestazione; la previsione di responsabilità disciplinare della società; la previsione dell'iscrizione della società tra avvocati in apposita sezione speciale dell'albo territoriale; la non assoggettabilità delle società al fallimento e alle altre procedure concorsuali (l'attività forense in forma societaria non è considerata attività d'impresa) ad esclusione delle procedura di cui alla legge 3/2012, di composizione delle crisi da sovraindebitamento. Uno dei principi di delega prevede, in ogni caso, che alla società tra avvocati si applichino, in quanto compatibili, le disposizioni del citato D.Lgs. 96/2001.
Nonostante l'art. 5 precisi che la delega debba tenere conto delle previsioni dell'art. 10 della legge 183/2011 (L. stabilità 2012), la disciplina dello stesso art. 5 sottrae le società tra avvocati all'applicazione della normativa generale sulle società tra professionisti dettata dal citato art. 10. Detta norma (come novellata dall'articolo 9-bis del decreto-legge n. 1 del 2012, cosiddetto "decreto liberalizzazioni") prevede la costituzione di società per l'esercizio di attività professionali regolamentate, secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile. E’ dunque consentito alla società tra professionisti di assumere anche la forma di società di capitali e di società cooperative.
Per quanto riguarda la definizione dei principi e criteri direttivi di delega di cui al medesimo articolo 5 della legge 247, si rileva che il rinvio all'articolo 10 della legge n. 183 citata debba, quindi, presumibilmente intendersi come residuale, considerato che alcuni dei predetti principi e criteri direttivi sono incompatibili con i contenuti del medesimo articolo 10. Ciò vale in particolare per la disciplina della compagine sociale. La lettera a) del comma 2 dell'articolo 5 della legge 247, anche ammettendo che le società tra avvocati possano assumere la forma di società di capitali, prevede infatti che i soci non possano che essere avvocati iscritti all'albo (sono, quindi esclusi i soci di solo capitale). L'articolo 10, comma 4, lettera b), della legge n. 183, ammette invece, seppur in misura minoritaria, la partecipazione di soci non professionisti per prestazioni tecniche e finalità di investimento.
L’articolo 7 dispone in ordine al domicilio professionale dell’avvocato (determinante per individuare l’albo professionale al quale lo stesso dovrà iscriversi) e prevede la pubblicazione da parte degli ordini professionali dell’elenco degli indirizzi di posta elettronica comunicati dagli avvocati iscritti. L'iscrizione all'albo consegue ad attestazione scritta in cui l'avvocato, oltre al domicilio, dichiara anche gli eventuali rapporti matrimoniali, di parentela, affinità o convivenza con magistrati (analoga disposizione, per i magistrati, è contenuta nell'art. 18 del RD 12/1941, ai fini dell'incompatibilità di sede). La norma contiene una previsione relativa alla permanenza dell'obbligo del versamento del contributo annuale per l’iscrizione all’albo da parte degli avvocati italiani che risiedono e esercitano all'estero.
Sul domicilio professionale dell'avvocato si ricorda lo scarno contenuto dell'art. 9 del DPR 137/2012, regolamento di delegificazione delle professioni regolamentate (ora superato dalla nuova e più ampia normativa), che prevede l'obbligo per il legale di avere il domicilio nel circondario di competenza territoriale dell'ordine cui è iscritto, fatta salva la possibilità di avere ulteriori sedi in altre località del territorio nazionale.
L’articolo 8 modifica la formula del giuramento ("impegno solenne") da parte dell’avvocato, prevedendo altresì che esso sia prestato innanzi al Consiglio dell’ordine, piuttosto che agli organi giudiziari.
L’articolo 9 introduce le specializzazioni, demandando la definizione della relativa disciplina ad un regolamento del Ministro della giustizia, nel rispetto di quanto previsto dalla stessa disposizione. L’avvocato potrà indicare il titolo di specialista in vari rami del diritto all’esito positivo di percorsi formativi (di almeno 2 anni) o per comprovata esperienza nel settore di specializzazione. L’attribuzione del titolo di specialista sulla base della valutazione della partecipazione ai percorsi formativi e dei titoli ai fini della valutazione della comprovata esperienza professionale, spetta in via esclusiva al CNF.
L'articolo 10 interviene in materia di pubblicità professionale, dettando alcuni principi di ordine generale. Si consente all'avvocato la pubblicità informativa sull'attività, sull'organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli posseduti. Le informazioni trasmesse al pubblico debbono, tuttavia, essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive. L'inosservanza delle disposizioni in materia di pubblicità costituisce illecito disciplinare.
L’articolo 11 introduce per gli avvocati l’obbligo di formazione continua ovvero di costante aggiornamento professionale secondo regole che dovranno essere stabilite dal CNF. Sono esentati da tali obblighi alcune categorie di avvocati ovvero gli avvocati sospesi dall'esercizio professionale per il periodo del loro mandato (in quanto parlamentari, membri di governo, della Corte costituzionale, presidenti di giunta regionale, ecc.); gli avvocati dopo venticinque anni di iscrizione all'albo o ultresessantenni; i componenti di organi con funzioni legislative e i componenti del Parlamento europeo; i docenti e i ricercatori confermati delle università in materie giuridiche.
L'art. 11 prevede il superamento dell'attuale sistema dei crediti formativi stabilendo la predisposizione, a cura del CNF, dei criteri e delle modalità dell'aggiornamento stesso.
L'articolo 12 introduce anche per gli avvocati l'obbligo di assicurazione per la responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione. Analogo obbligo sussiste per la stipula, anche per il tramite delle associazioni e degli enti previdenziali forensi, di apposita polizza a copertura degli infortuni derivanti a sé e ai propri collaboratori, anche al di fuori dei locali dello studio legale. Gli estremi delle polizze vanno comunicati al consiglio dell'ordine; le condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze sono stabiliti e aggiornati ogni 5 anni dal Ministro della giustizia, sentito il CNF.
L'articolo 13 interviene sulla materia del compenso del professionista (definizione utilizzata in luogo di "tariffe professionali" ) e del conferimento dell'incarico. Abrogato il tradizionale sistema tariffario (v. da ultimo l'art. 9 del DL 1/2012 che contiene ulteriori disposizioni sul compenso professionale), l’articolo 13 della legge 247 trasforma l’obbligo di pattuire preventivamente il compenso in una norma generale che stabilisce che "di regola", il compenso è pattuito per iscritto; prevede le possibili modalità di pattuizione, inserendo quella a percentuale sul valore dell’affare; ma proibisce, ripristinando il divieto del patto di quota lite, il compenso legato al risultato. Si conferma poi l’obbligo di una chiara informazione sui costi prevedibili ma rendendo obbligatorio il preventivo (in cui distinguere oneri, spese e compenso) solo a richiesta del cliente; però in ogni diversa ipotesi (e quindi nel tradizionale caso in cui il cliente versi un acconto firmando il mandato, senza altra pattuizione) il compenso sarà determinato in base ai parametri da determinare con decreto del Ministro della giustizia, su proposta del CNF, con un sostanziale ritorno al regime tariffario (si tratta, per chiarezza, di un nuovo D.M., relativo ai soli parametri tariffari degli avvocati, che dovrebbe superare l'attuale D.M. 140/2012 (artt. 2-14) che, evidentemente, rimarrà applicabile in attesa dell'adozione del nuovo decreto) L'art. 13 prevede poi, in caso di disaccordo avvocato-cliente, una sorta di tentativo obbligatorio di conciliazione nonchè un parere di congruità del compenso da parte del Consiglio dell’Ordine. La solidarietà tra le parti in caso di transazione si estende a tutte le ipotesi in cui la lite sia conciliata con accordi presi in qualsiasi forma, a differenza del più restrittivo testo previgente (art. 68 R.d. L. 27 novembre 1933 n. 1578). Infine, si prevede che, oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfetarie; il limite massimo del rimborso forfetario è determinato con il DM giustizia che determina i parametri tariffari.
L’articolo 14 interviene in tema di mandato professionale e di sostituzioni e collaborazioni, sancendo in particolare la natura personale dell’incarico e della responsabilità dell’avvocato, anche nel caso di sostituzione o di società o associazione professionale.
Il Titolo II (articoli 15-23) reca la disciplina della documentazione istituita ed aggiornata presso ogni consiglio dell'ordine territoriale
L’articolo 15 indica gli albi, elenchi e registri che devono essere istituiti da parte dei Consigli dell'ordine, rinviando ad un regolamento del Ministro della giustizia le modalità applicative per la tenuta e l’aggiornamento dei medesimi; sulla base di tali albi ed elenchi il CNF annualmente redige l’elenco nazionale degli avvocati. Tra i nuovi elenchi da tenere, in relazione alle novità della riforma, si segnalano - tra gli altri - quello degli avvocati specialisti, degli avvocati sospesi dalla professione e che hanno subito provvedimento disciplinare importante la radiazione, l'elenco delle associazioni e delle società comprendenti avvocati tra i soci. Tutti gli albi elenchi e registri sono pubblici e vanno pubblicati sul sito Internet dell'ordine.
L’articolo 17 disciplina l’iscrizione all’albo degli avvocati e al registro dei praticanti, dettando procedure specifiche per il caso di avvocati provenienti da altri Stati membri dell’UE o di avvocati extra-comunitari. La disposizione disciplina anche la procedura per l’eventuale cancellazione e reiscrizione. Rispetto alla disciplina previgente, si segnala l'ampliamento delle condizioni d'incompatibilità (v. art. 18), l'inserimento dell'ulteriore requisito del non aver subito condanne, oltre che per i gravi reati di cui all'art. 51, comma 3-bis c.p.p. (strage, associazione mafiosa, ecc.), anche per specifici delitti contro l'amministrazione della giustizia (artt. 374-bis e 377-bis c.p.), particolarmente riprovevoli ove commessi da avvocati. Tra gli aumentati motivi di cancellazione dall'albo (a cura del consiglio dell'ordine territoriale) si segnala, per rilievo, l'accertamento della mancanza dell'effettivo, continuativo, abituale e prevalente svolgimento della professione (cfr. art. 21). L'art. 17 norma prevede il raddoppio (da 30 a 60 giorni) del termine entro cui presentare ricorso contro la cancellazione dall'albo. La cancellazione dal registro dei praticanti, oltre che nei casi previsti per quella dall'albo, è deliberata dopo il rilascio del certificato di compiuta pratica (massimo entro 6 anni dall'inizio) nonchè per l'interruzione senza giustificato motivo, del tirocinio per più di sei mesi.
L'articolo 16 dispone una delega al Governo per il riordino della disciplina della difesa d’ufficio. In particolare, devono essere previsti criteri e modalità di accesso ad una lista unica dei difensori d'ufficio, con indicazione dei requisiti che assicurino la stabilità e la competenza della difesa d'ufficio. Sullo schema di decreto sono previsti i pareri delle Camere.
L’articolo 18 disciplina il regime delle incompatibilità con l’esercizio della professione di avvocato, confermando, in particolare, relativamente ai lavoratori dipendenti, il divieto di iscrizione all’albo anche nel caso di attività part-time. E' confermata l'incompatibilità con l'attività di notaio, mentre è consentita l'iscrizione all’albo dei commercialisti, nel registro dei pubblicisti, nel registro dei revisori contabili o nell'albo dei consulenti del lavoro. L’articolo 19, in deroga a tale disciplina, prevede la compatibilità della professione forense con l’insegnamento di materie giuridiche nelle scuole secondarie e nelle università - con i limiti stabiliti dall’ordinamento universitario per i docenti e i ricercatori a tempo pieno - e con l'insegnamento o la ricerca nelle istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione pubblici.
L’articolo 20 disciplina la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale su richiesta dell’avvocato o per lo svolgimento di alcune funzioni pubbliche e per la durata della carica. Si tratta delle seguenti cariche: Presidente della Repubblica, Presidente del Senato della Repubblica, Presidente della Camera dei deputati; Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro, Viceministro o Sottosegretario di Stato; presidente di giunta regionale e presidente delle province autonome di Trento e di Bolzano; membro della Corte costituzionale o del Consiglio superiore della magistratura; presidente di provincia con più di un milione di abitanti e sindaco di comune con più di 500.000 abitanti. L'art. 20 ha poi previsto che l’avvocato iscritto all’albo possa sempre chiedere la sospensione dall’esercizio professionale.
L’articolo 21 costituisce una delle disposizioni maggiormente innovative della legge di riforma. L’iscrizione e la permanenza nell’albo non saranno più consentite a tutti gli abilitati, ma soltanto a chi dimostri di esercitare la professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. Le modalità di accertamento della sussistenza dei citati requisiti sono demandare ad un regolamento ministeriale, che non potrà far alcun riferimento al reddito professionale
Le verifiche sulla sussistenza dei requisiti è affidata (ogni 3 anni) al consiglio dell'ordine anche mediante richiesta di informazioni alla Cassa forense (il comma 8 dell'art. 21 prevede, infatti, la contestualità tra iscrizione nell’albo e alla cassa di previdenza). Il CNF interviene in proprio in caso di mancanza di verifiche od omissioni nelle stesse da parte dei consigli territoriali. La mancanza dei citati requisiti, senza giustificati motivi, comporta la cancellazione dell'avvocato dall'albo (la procedura prevede, tuttavia, un contraddittorio con l'interessato). Specifiche deroghe a tale disciplina sono previste per le donne avvocato in maternità (e nei primi 2 anni di vita del bambino o di adozione) nonchè in caso di gravi malattie dell'avvocato o, ancora, in caso che questi debbano assistere continuativamente prossimi congiunti affetti da gravi patologie. Sono poi determinati, con regolamento, dalla Cassa forense nuovi minimi contributivi, ovviamente inferiori a quelli attuali, e che si applicheranno a chi non raggiunge gli attuali parametri reddituali.
L’articolo 22 rende meno severi i requisiti di accesso al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori, prevedendo l’iscrizione al relativo albo a seguito del superamento l'apposito esame da parte di avvocati con almeno 5 anni di anzianità d'iscrizione all'albo territoriale. (la disciplina previgente prevedeva l'esercizio per 12 anni della professione di avvocato davanti alle Corti di appello e ai Tribunali). L'art. 22 prevede, inoltre, che l'iscrizione può essere richiesta anche da chi, avendo maturato una anzianità di iscrizione all'albo di 8 anni, successivamente abbia lodevolmente e proficuamente frequentato la Scuola superiore dell'avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal CNF. E' dettata, poi, una norma transitoria secondo la quale possono chiedere l’iscrizione coloro che maturino i requisiti secondo la previgente normativa entro tre anni dalla data di entrata in vigore della nuova legge.
L’articolo 23 prevede l'iscrizione obbligatoria in un elenco speciale per gli avvocati degli uffici legali specificatamente istituiti presso gli enti pubblici; a tali soggetti deve essere assicurata la piena autonomia e indipendenza da ogni altro ufficio nella trattazione degli affari legali dell’ente e un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta.
Il Titolo III della legge 247 (articoli 24-39) disciplina gli organi e le funzioni degli ordini forensi.
L'articolo 24 disciplina l'ordine forense, costituito dall'insieme degli iscritti negli albi degli avvocati, prevedendo la sua articolazione nel CNF e negli ordini circondariali, definiti "enti pubblici non economici".
L’articolo 25 dispone in ordine agli ordini circondariali, ai quali è attribuita in via esclusiva la rappresentanza istituzionale dell'Avvocatura a livello locale; gli ordini degli avvocati hanno sede presso ciascun tribunale. E' previsto, presso ogni consiglio dell'ordine, la costituzione di un collegio dei revisori e di un comitato pari opportunità.
L’articolo 26 individua gli organi degli ordini circondariali: a) l'assemblea degli iscritti; b) il consiglio; c) il presidente (che rappresenta l'ordine); d) il segretario; e) il tesoriere; f) il collegio dei revisori.
In base all’articolo 27, gli avvocati iscritti all’albo circondariale ed agli elenchi speciali costituiscono l’assemblea degli iscritti, organo al quale spettano, oltre che funzioni consultive, anche l’elezione dei componenti del consiglio e l’approvazione dei bilanci. La disciplina dell'assemblea è demandata ad apposito regolamento (con DM giustizia), previo parere del CNF.
L’articolo 28 interviene in materia di consigli dell’ordine, individuandone il numero di componenti, fissandone in 4 anni la durata in carica, rinviando ad un regolamento attuativo la disciplina di dettaglio delle modalità di elezione e stabilendone l’articolazione interna. Rispetto alla disciplina previgente le modifiche di maggiori rilievo sono quelle tese a favorire la parità di rappresentanza di genere e, in materia di rieleggibilità dei componenti, il limite del doppio mandato; la ricandidatura è possibile quando sia trascorso un numero di anni uguale agli anni nei quali si è svolto il precedente mandato)
L’articolo 29 interviene in materia di funzioni dei consigli dell’ordine. Le novità più rilevanti riguardano l’attribuzione ai medesimi di compiti ulteriori, legati in particolare agli obblighi di formazione continua degli avvocati e ai requisiti dell’esercizio dell’attività professionale (controllo, ex art. 21, della continuità, effettività, abitualità e prevalenza dell'esercizio professionale).
L'articolo 30 prevede che ciascun consiglio dell'ordine istituisca lo sportello per il cittadino, il cui accesso è gratuito ed è regolato con regolamento del CNF, volto a fornire informazioni e orientamento ai cittadini per la fruizione delle prestazioni professionali degli avvocati e per l’accesso alla giustizia.
L’articolo 31 disciplina il collegio dei revisori, composto da avvocati iscritti al registro dei revisori contabili ( nominati dal presidente del Tribunale) con compiti di controllo della regolarità della gestione patrimoniale del consiglio dell'ordine. I revisori, che durano in carica 4 anni e possono essere confermati per non più di due volte consecutive; riferiscono annualmente in sede di approvazione del bilancio. L’articolo 32 prevede che i consigli dell’ordine con almeno 9 componenti possano anche funzionare per commissioni (composte da almeno 3 membri). L’articolo 33 prevede lo scioglimento del consiglio (con DM giustizia, su proposta del CNF e previa diffida): se non è in grado di funzionare regolarmente; se non adempie agli obblighi prescritti dalla legge; se ricorrono altri gravi motivi di rilevante interesse pubblico. In caso di scioglimento, le funzioni del consiglio sono esercitate da un commissario straordinario, nominato dal CNF e scelto tra gli avvocati con oltre 20 anni di anzianità, il quale, improrogabilmente entro 120 giorni dalla data di scioglimento, convoca l'assemblea per le elezioni in sostituzione.
L’articolo 34 interviene in materia di Consiglio nazionale forense, aumentandone la durata a 4 anni, incidendo sul numero dei componenti e disciplinandone le modalità di elezione. Il numero dei componenti è individuato in base al numero degli iscritti negli albi forensi, eletti tra gli avvocati ammessi al patrocinio avanti le magistrature superiori. In particolare, si prevede che ogni distretto di corte d'appello nomini uno o due componenti (secondo che gli iscritti agli albi sia inferiore ovvero pari o superiore a 10.000 unità), che il numero dei voti esprimibili dai consigli dell'ordine aumenta in proporzione al numero degli iscritti (un voto ogni 100 fino a 200 iscritti; un voto per i successivi 300 fino a 800, e così via). A regime, è vietata una terza elezione consecutiva all'appartenente allo stesso ordine circondariale. Anche in tal caso, è previsto l'equilibrio della rappresentanza tra i generi.
L’articolo 35 elenca le funzioni di rappresentanza e di vertice dell’avvocatura, di natura normativa, consultive, di proposta e giurisdizionali attribuite al Consiglio nazionale forense. Oltre all'attribuzione, in esclusiva, dei poteri normativi deontologici, tra le numerose funzioni attribuite al CNF si segnalano quelle inerente la funzione normativa regolamentare in materie attinenti la professione; il giudizio sui ricorsi in materia disciplinare, di tenuta degli albi e di reclami elettorali; la tenuta dell’Albo degli Avvocati abilitati al patrocinio innanzi le magistrature superiori; la funzione consultiva sui progetti di legge e di regolamento, che riguardano la professione forense e l’amministrazione della giustizia; l'istituzione e disciplina dell’osservatorio permanente sull’esercizio della giurisdizione (novità della riforma) che elabora proposte dirette a favorire una più efficiente amministrazione delle funzioni giurisdizionali; la regolamentazione delle associazioni specialistiche più rappresentative; il parere sullo scioglimento dei Consigli degli Ordini; la designazione degli avvocati quali componenti le Commissioni di esame di abilitazione; l'approvazione dei programmi delle scuole forensi; la proposta al ministero della giustizia dei parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi professionali.
L’articolo 36 disciplina l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del CNF, delineando sommariamente il procedimento e rinviando alle disposizioni contenute nel regolamento attuativo della legge professionale (Regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37).
L’articolo 37 detta ulteriori disposizioni in materia di competenza giurisdizionale del CNF, affida il controllo contabile e di gestione al collegio dei revisori e prevede lo svolgimento dell’attività non giurisdizionale del CNF anche attraverso l’istituzione di commissioni di lavoro.
L’articolo 38 prevede l’eleggibilità al CNF degli avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, che non abbiano subito, nei cinque anni precedenti, una sanzione disciplinare più grave dell’avvertimento, e disciplina infine le cause di incompatibilità (con consigliere dell'ordine territoriale, membro del consiglio distrettuale di disciplina e con la carica di membro del consiglio d'amministrazione e del comitato dei delegati della Cassa forense).
L'articolo 39 disciplina un nuovo organo, il Congresso Nazionale Forense, massima assise dell'avvocatura italiana, al quale spetta la formulazione di proposte in tema di giustizia, diritti fondamentali dei cittadini e professione forense. La sua convocazione, spetta, ogni 3 anni, al CNF.
Il Titolo IV reca norme sull'accesso alla professione forense, disciplinando il tirocinio professionale e l’esame di Stato (artt. 40-49). Come buona parte della riforma, la nuova disciplina su tirocinio ed esame non è immediatamente applicabile, entrando in vigore a due anni dall'entrata in vigore dalla legge (cioè dal 2 febbraio 2015). Nulla cambia dunque per i primi due anni, salva l'abbreviazione del periodo di tirocinio da 24 a 18 mesi.
Norme sul tirocinio forense sono dettate dall'art. 10 del regolamento di delegificazionedegli ordinamenti professionali (D.P.R. 137/2012). La norma ha stabilito che, dei 18 mesi di tirocinio, non più di 12 possano essere svolti presso l'Avvocatura dello Stato o presso l'ufficio legale di un ente pubblico o di ente privato autorizzato dal ministro della giustizia o presso un ufficio giudiziario. Almeno 6 mesi di pratica debbono essere svolti presso un avvocato iscritto all'ordine o presso l'Avvocatura dello Stato o presso l'ufficio legale di un ente pubblico o di un ente privato autorizzato dal ministro della giustizia.
L'articolo 40, con la finalità di rafforzare i rapporti di collaborazione tra consigli dell'ordine e facoltà di giurisprudenza, prevede la stipula di convenzioni con le facoltà stesse da parte dei consigli circondariali e del CNF.
L'articolo 41 disciplina i contenuti e le modalità di svolgimento del tirocinio. Tra i profili di maggiore novità si segnalano le norme sull'incompatibilità con la previsione che il tirocinio possa essere svolto contestualmente ad attività di lavoro subordinato non solo privato ma anche pubblico, purché con modalità e orari idonei a consentirne l’effettivo e puntuale svolgimento e in assenza di specifiche ragioni di conflitto di interesse. Il tirocinio va svolto in forma continuativa per diciotto mesi e la sua interruzione per oltre sei mesi, senza alcun giustificato motivo, anche di carattere personale, comporta la cancellazione dal registro dei praticanti, salva la facoltà di chiedere nuovamente l'iscrizione (previa verifica dei nuovi requisiti). Il tirocinio forense può essere svolto: a) presso un avvocato, con anzianità di iscrizione all'albo non inferiore a cinque anni; b) presso l'Avvocatura dello Stato o presso l'ufficio legale di un ente pubblico o presso un ufficio giudiziario per non più di dodici mesi (manca, rispetto al DPR 137 , il riferimento al possibile tirocinio presso un ente privato autorizzato); c) per non più di sei mesi, in altro Paese dell'Unione europea presso professionisti legali, con titolo equivalente a quello di avvocato, abilitati all'esercizio della professione; d) per non più di sei mesi, in concomitanza con il corso di studio per il conseguimento della laurea, dagli studenti regolarmente iscritti all'ultimo anno del corso di studio per il conseguimento del diploma di laurea in giurisprudenza (nel caso di accordi tra università e ordini forensi, v. art. 40).
In ogni caso il tirocinio deve essere svolto per almeno sei mesi presso un avvocato iscritto all'ordine o presso l'Avvocatura dello Stato (il DPR 137 aggiungeva l'ufficio legale di un ente pubblico o di un ente privato autorizzato dal ministro della giustizia). Il tirocinio può essere svolto anche presso due avvocati contemporaneamente, previa richiesta del praticante e previa autorizzazione del competente consiglio dell'ordine. Il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali è valutato un anno ai fini del compimento del tirocinio. Ogni avvocato non può assumere la funzione per più di tre praticanti contemporaneamente, salva l'autorizzazione rilasciata dal competente consiglio dell'ordine.
L'art. 41 precisa che il tirocinio non determina di diritto l'instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale.Nei soli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio. Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l'Avvocatura dello Stato, decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un'indennità o un compenso per l'attività svolta per conto dello studio, commisurati all'effettivo apporto professionale dato nell'esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell'utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato. Gli enti pubblici e l'Avvocatura dello Stato riconoscono al praticante avvocato un rimborso per l'attività svolta, ove previsto dai rispettivi ordinamenti e comunque nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. Confermate le attuali norme sulla sostituzione dell'avvocato da parte del praticante nella trattazione degli afari civili e penali, l'art. 41 demanda ad un decreto del ministro della giustizia , sentito il CNF, l'adozione di un regolamento che disciplini le modalità di svolgimento del tirocinio e le relative procedure di controllo da parte del competente consiglio dell'ordine; le ipotesi che giustificano l'interruzione del tirocinio; i requisiti di validità dello svolgimento del tirocinio, in altro Paese dell'Unione europea. Il trasferimento dell'iscrizione del praticante ad altro ordine locale necessita di giustificato motivo e deve essere autorizzato dal consiglio dell'ordine di prima iscrizione, che rilascia attestato per il periodo di pratica compiuto.
L’articolo 42 estende ai praticanti i doveri e le norme deontologiche previste per gli avvocati e la competenza disciplinare del Consiglio dell’ordine. L’articolo 43 dispone che il tirocinio debba essere accompagnato da un approfondimento teorico concluso con profitto da realizzare attraverso la frequenza obbligatoria di diciotto mesi di appositi corsi di formazione (di almeno 160 ore di corso), che spetta al Ministro della giustizia regolamentare, sentito il CNF. L’articolo 44 demanda ad un regolamento del Ministero della giustizia la disciplina delle modalità di svolgimento del praticantato presso gli uffici giudiziari. L’articolo 45 disciplina la conclusione del tirocinio, attestata dal certificato di compiuta pratica, e stabilisce che il praticante è ammesso a sostenere l'esame di Stato nella sede di corte di appello nel cui distretto ha svolto il maggior periodo di tirocinio.
L'articolo 46 delinea la nuova articolazione dell’esame di Stato. Tra le novità più significative si segnalano: le le prove scritte rimangono tre, ossia la redazione di un parere motivato in materia regolata dal codice civile il primo e in materia regolata dal codice penale il secondo, ma da scegliere tra due questioni; inoltre la terza prova scritta consiste nella redazione di un atto giudiziario che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, su un quesito proposto tra il diritto privato, il diritto penale ed il diritto amministrativo, in materia pure scelta dal candidato.
La novità principale consiste nel fatto che le prove scritte dovranno essere svolte con il solo ausilio dei testi di legge senza codici commentati. La disposizione introduce anche una nuova fattispecie di reato a carico di chiunque faccia pervenire ai candidati all’interno della sede d’esame testi relativi al tema proposto (reclusione fino a tre anni); gli stessi candidati destinatari dei testi sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza; e va tenuto conto che nel caso di condanna disciplinare irrogata durante il periodo di pratica (Sezioni Unite, Cassazione 9 Aprile 2008 n. 9166 ) la pena va scontata anche una volta superato l'esame ed ottenuta l'iscrizione all'albo degli avvocati.
Per la prova orale (la disciplina previgente indicava 5 materie a scelta tra 12, di cui almeno una processuale), oltre alle materie obbligatorie (ordinamento e deontologia forensi, diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale) aumentano le materie tra cui scegliere le ulteriori due da portare all'orale (diritto costituzionale, diritto amministrativo, diritto del lavoro, diritto commerciale, diritto comunitario ed internazionale privato, diritto tributario, diritto ecclesiastico, ordinamento giudiziario e penitenziario). Novità rilevante appare l'obbligo, per la commissione d'esame, di motivazione del voto assegnato alle prove scritte (osservazioni scritte, positive e negative, su specifici punti degli elaborati). Ad un regolamento del ministro della giustizia, sentito il CNF, è demandata la disciplina dello svolgimento dell'esame di Stato e della valutazione delle prove, sulla base di specifici parametri.
L'articolo 47 disciplina la Commissione d'esame. E' prevista una commissione centrale, nominata, con decreto dal ministro della giustizia, composta da 5 membri effettivi e 5 supplenti, dei quali tre effettivi e tre supplenti sono avvocati designati dal Cnf tra gli iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, uno dei quali la presiede; un membro effettivo e un supplente sono magistrati in pensione; un effettivo e un supplente sono professori universitari o ricercatori confermati in materie giuridiche. Lo stesso DM nomina una sottocommissione, in identica composizione, per ogni distretto di corte d'appello. Onde evitare ogni commistione, gli avvocati componenti della commissione non possono essere eletti quali componenti del consiglio dell’ordine, di un consiglio distrettuale di disciplina, del consiglio di amministrazione o del comitato dei delegati della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense e del Cnf nelle elezioni immediatamente successive alla data di cessazione dell’incarico ricoperto. L'art. 47 prevede il potere ispettivo - anche su richiesta del CNF - del Ministro della giustizia sulla regolarità dello svolgimento delle prove, il quale può annullare gli esami in cui siano state compiute irregolarità. Conclusi positivamente gli esami di abilitazione, la Commissione rilascia il certificato per l'iscrizione all'albo degli avvocati. Come accennato, sia la disciplina del tirocinio che quella dell'esame non entrano immediatamente in vigore. L'articolo 48 stabilisce che, fino al secondo anno successivo alla data di entrata in vigore della legge 247/2012, l’accesso all’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato resti disciplinato dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della stessa, fatta salva la riduzione a diciotto mesi del periodo di tirocinio. L’articolo 49 prevede un’applicazione graduale della nuova disciplina sull’esame di Stato, stabilendo che per i primi due anni dalla data di entrata in vigore della nuova legge l’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato si effettua, sia per quanto riguarda le prove scritte e le prove orali, sia per quanto riguarda le modalità di esame, secondo le norme previgenti. Nulla cambia dunque per i primi due anni, salva l'abbreviazione del periodo di tirocinio.
Il Titolo V (artt. 50-63) reca disposizioni sul procedimento disciplinare.
Si ricorda che l'art. 8 del regolamento di delegificazione (D.P.R. 137/2012) reca norme sul procedimento disciplinare delle professioni regolamentate (diverse da quelle sanitarie). Il regolamento ha previsto che presso i consigli dell'ordine o collegio territoriali sono istituiti consigli di disciplina territoriali cui sono affidati i compiti di istruzione e decisione delle questioni disciplinari riguardanti gli iscritti all'albo. I consigli di disciplina territoriali sono composti da un numero di consiglieri pari a quello dei consiglieri che, secondo i vigenti ordinamenti professionali, svolgono funzioni disciplinari nei consigli dell'ordine o collegio territoriali presso cui sono istituiti. I collegi di disciplina, nei consigli di disciplina territoriali con più di tre componenti, sono comunque composti da tre consiglieri e sono presieduti dal componente con maggiore anzianità d'iscrizione all'albo o, quando vi siano componenti non iscritti all'albo, dal componente con maggiore anzianità anagrafica. Accanto a quelli territoriali, presso i consigli nazionali degli irdini o collegi sono istituiti consigli di disciplina nazionali cui sono affidati i compiti di istruzione e decisione delle questioni disciplinari assegnate alla competenza dei medesimi consigli nazionali. I consiglieri dei consigli nazionali dell'ordine o collegio che esercitano funzioni disciplinari non possono esercitare funzioni amministrative. Per la ripartizione delle funzioni disciplinari ed amministrative tra i consiglieri, i consigli nazionali dell'ordine o collegio adottano regolamenti attuativi, entro novanta giorni dall'entrata in vigore del regolamento, previo parere favorevole del ministro vigilante. L'art. 8 prevede il possibile commissariamento dei consigli di disciplina nazionale in caso di gravi e ripetute violazioni di legge ovvero quando non siano in grado di funzionare regolarmente. In deroga alla disciplina del regolamento, rimangono ferme le disposizioni in materia disciplinare relative alla professione notarile.
L'articolo 50 reca una delle principali novità della nuova disciplina ovvero la sottrazione della competenza in materia di procedimento disciplinare al consiglio dell'ordine che ha la custodia dell'albo in cui il professionista è iscritto, per conferirla ai consigli distrettuali di disciplina. Mentre il DPR conserva, dunque, il potere disciplinare in primo grado a livello di consiglio dell'ordine, la legge di riforma forense lo accentra a livello di distretto di corte d'appello. Tali consigli distrettuali, eletti con rispetto della rappresentanza di genere, svolgono il loro compito operando in sezioni composta da 5 titolari e 3 supplenti. la disciplina procedurale è affidata, anche in tal caso, ad un futuro regolamento del CNF; rimane fermo tuttavia che solo una primissima fase disciplinare rimane presso l'ordine forense locale: quest'ultimo, ricevuta notizia di un illecito disciplinare avvisa l'interessato invitandolo a presentare le sue deduzioni entro 20 gg.; esaurita tale fase, gli atti vanno trasmessi al consiglio distrettuale, competente per tutta l'ulteriore procedura.
L'articolo 51 detta norme sul procedimento disciplinare e sulla notizia del fatto, e sottopone le infrazioni ai doveri e alle regole di condotta dettati dalla legge o dalla deontologia al giudizio dei suddetti consigli distrettuali di disciplina. La notizia dei fatti suscettibili di valutazione disciplinare infatti è comunque acquisita e l’autorità giudiziaria è tenuta a darne immediata notizia al consiglio dell’ordine competente, quando nei confronti di un iscritto è esercitata l’azione penale, ovvero quando è disposta l’applicazione di misure cautelari o di sicurezza, ovvero quando sono effettuati perquisizioni o sequestri o sono emesse sentenze che definiscono il grado di giudizio.
L’articolo 52 dispone sul contenuto della decisione che conclude il procedimento disciplinare e individua le possibili sanzioni disciplinari: per crescente gravità, avvertimento, censura, sospensione, radiazione. Ulteriore misura, sia pur privo di natura disciplinare, è il richiamo verbale.
L'articolo 53 elenca le sanzioni e collega la loro applicazione alle diverse fattispecie di infrazione: l'avvertimento può essere deliberato per fatti non gravi, per i quali l'ncolpato va informato della sua condotta non conforme alle norme deontologiche e di legge, con invito ad astenersi dal compiere altre infrazioni; la censura consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell'infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell'incolpato e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un'altra infrazione; la sospensione consiste nell'esclusione temporanea (da 2 a 5 anni) dall'esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura; la radiazione consiste nell'esclusione definitiva dall'albo, elenco o registro e impedisce l'iscrizione a qualsiasi altro albo, elenco o registro. La radiazione è inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell'incolpato nell'albo.
L'articolo 54 disciplina il rapporto fra procedimento disciplinare e processo penale, sancendone in generale l’autonomia quando hanno ad oggetto gli stessi fatti, anche se il successivo articolo prevede ipotesi di riapertura del procedimento disciplinare in relazione agli esiti del processo penale. In questa sede si dispone che se, agli effetti della decisione, è indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale, il procedimento disciplinare può essere a tale scopo sospeso per un periodo che non può superare complessivamente i due anni.
L'articolo 55 prevede ipotesi di riapertura del procedimento disciplinare in conseguenza agli esiti del processo penale alla conclusione del quale l’autorità giudiziaria abbia emesso sentenza di assoluzione ovvero di condanna. Per la riapertura, che avviene a richiesta dell'interessato o d'ufficio, è competente il consiglio distrettuale di disciplina che ha emesso la decisione; il giudizio è emesso da una sezione disciplinare diversa da quella che ha deciso il primo procedimento. L'articolo 56 reca norme sulla prescrizione dell’azione disciplinare (6 anni dal fatto) e le cause della sua eventuale interruzione (comunicazione all'iscritto della notizia dell'illecito; notizia della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della entenza pronunciata dal CNF sul ricorso). L'articolo 57 vieta la cancellazione dall'albo durante lo svolgimento del procedimento, dal giorno dell’invio degli atti al consiglio distrettuale di disciplina. L'articolo 58 reca disposizioni relative alla notizia di illecito disciplinare e alla fase istruttoria pre-procedimentale, che può durare al massimo sei mesi e - esaurita una fase di contraddittorio scritto con l'incolpato - concludersi con l’archiviazione, nel caso di manifesta infondatezza della notizia, o con l’apertura del procedimento susseguente all'approvazione del capo di incolpazione. Ricevuti gli atti relativi all'illecito disciplinare il presidente del consiglio distrettuale di disciplina provvede a iscrivere in un apposito registro riservato il ricevimento stesso.
Il procedimento disciplinare è regolato dall'articolo 59, che disciplina il dibattimento e la decisione di accertamento della responsabilità disciplinare. Sono qui indicati i principi cui deve essere improntato il procedimento (obblighi di comunicazioni all'incolpato, diritto di accesso ai documenti del fascicolo, termini per le notifiche, presentazione di testimoni, diritto di difesa e di presentazione e interrogazione di testimoni, termini per il deposito della motivazione).
L'articolo 60 individua i casi e disciplina il procedimento per la possibile sospensione cautelare del professionista o del praticante dall’esercizio della professione; la sospensione ad opera del consiglio distrettuale, previa audizione dell'interessato, in ogni caso non può avere durata superiore a un anno e perde efficacia qualora, nel termine di sei mesi dalla sua irrogazione il consiglio distrettuale di disciplina non deliberi la sanzione; la sospensione è ricorribile al CNF entro 20 giorni. L’articolo 61 disciplina, nel caso di affermazione di responsabilità (entro 30 gg. dal deposito della sentenza), l’impugnazione, da parte dell’incolpato, delle decisioni disciplinari del consiglio distrettuale innanzi ad apposita sezione disciplinare del CNF; per ogni decisione, può ricorrere il consiglio dell’ordine presso cui l’incolpato è iscritto, il procuratore della Repubblica e il procuratore generale del distretto della corte d’appello ove ha sede il consiglio distrettuale di disciplina che ha emesso la decisione. L'articolo 62 disciplina l’esecutorietà delle decisioni emesse in sede disciplinare dal consiglio distrettuale, attribuendo la competenza per l’esecuzione della sentenza al consiglio dell’ordine nel quale è iscritto il professionista incolpato. In caso di radiazione, il professionista può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine. L'articolo 63 attribuisce al CNF poteri ispettivi per il controllo del regolare funzionamento dei Consigli distrettuali di disciplina. Analoghi poteri ispettivi possono essere esercitati per quanto riguarda i procedimenti in corso presso i consigli dell’ordine di appartenenza per la previsione transitoria (per l'esame di Stato) di cui all’articolo 49.
l Titolo VI (artt. 64-67) contiene una disposizione di delega al governo e le disposizioni transitorie e finali.
L'articolo 64 delega il Governo all’emanazione di uno o più decreti legislativi contenenti un testo unico di riordino delle disposizioni vigenti in materia di professione forense, secondo alcuni criteri e principi direttivi (accertare la vigenza attuale delle singole norme, indicare quelle abrogate, anche implicitamente, per incompatibilità con successive disposizioni, e quelle che, pur non inserite nel testo unico, restano in vigore; allegare al testo unico l’elenco delle disposizioni, benché non richiamate, che sono comunque abrogate; procedere al coordinamento del testo delle disposizioni vigenti apportando, nei limiti di tale coordinamento, le modificazioni necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della disciplina, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo).
L’articolo 65 disciplina la fase transitoria in attesa della piena operatività della riforma, che si realizzerà successivamente all’entrata in vigore dei regolamenti attuativi. La medesima disposizione disciplina anche la proroga del CNF e dei consigli circondariali in carica e l’emanazione del codice deontologico nel termine di un anno dall’entrata in vigore della legge.
L'articolo 66 interviene in materia di previdenza forense, stabilendo che la disciplina vigente in materia di prescrizione dei contributi previdenziali non si applichi alle contribuzioni dovute alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.
L'articolo 67 contiene, infine, la clausola di invarianza finanziaria.
A partire dall’estate 2011, con i provvedimenti d’urgenza legati alla crisi economico-finanziaria, il Governo ha affrontato il tema delle professioni in un’ottica di liberalizzazione e valorizzazione della concorrenza. Già nel gennaio del 2009, infatti, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato aveva concluso una indagine conoscitiva su diversi ordini professionali, rilevando una certa resistenza da parte dei medesimi all’attuazione dei principi concorrenziali in materia di servizi professionali contenuti nella “riforma Bersani” (decreto-legge 223/2006, convertito dalla legge 248/2006). L’Autorità antitrust in particolare si soffermava sul mancato adeguamento dei codici deontologici a tali principi, sulla questione dell’abolizione dei minimi tariffari, sui temi dell’accesso alle professioni e della formazione dei professionisti, sulla costituzione di società multidisciplinari.
Dopo che con l'articolo 29 del decreto legge n. 98/2011 il Governo aveva provato a delineare un primo percorso di riforma (in particolare attraverso l’istituzione di un’AltaCommissione per la formulazione di proposte in materia di liberalizzazione dei servizi e successiva elaborazione da parte del Governo di progetti da sottoporre alle categorie interessate) è con il decreto-legge n. 138 del 2011 che il legislatore detta una disciplina che, ispirandosi esplicitamente ai principi di libera concorrenza, delinea il perimetro di una riforma delle professioni regolamentate.
Il decreto-legge 138/2011, all’articolo 3, comma 5, ha introdotto disposizioni volte a favorire la liberalizzazione del settore delle professioni che, ispirandosi esplicitamente ai principi di libera concorrenza, delineano il perimetro di un percorso di riforma.
In generale si prevede, fermo restando l'esame di Stato per l'accesso alle professioni regolamentate, che gli ordinamenti professionali debbano garantire che l'esercizio dell'attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l'effettiva possibilità di scelta degli utenti nell'ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti. Gli stessi ordinamenti professionali sono chiamati ad autoriformarsi («su base volontaria»), procedendo alla riduzione e all’accorpamento tra professioni che svolgono attività similari.
L'art. 3, comma 5, più in particolare, dettava una serie di principi cui avrebbe dovuto essere ispirata la riforma degli ordinamenti professionali (da attuare entro 12 mesi dall’entrata in vigore del decreto-legge) ovvero:
a) libertà di accesso alla professione e, conseguentemente, possibilità per la legge di istituire "numeri chiusi" (ovvero limitazioni territoriali del numero di persone abilitate ad esercitare una certa professione) solo in presenza di ragioni di interesse pubblico (tra le quali in particolare quelle connesse alla tutela della salute); divieto di discriminare in base alla nazionalità o – in caso di esercizio della professione in forma societaria – alla sede della società;
b) obbligo per il professionista di seguire percorsi di formazione continua permanente, disciplinati da appositi regolamenti dei consigli nazionali, pena l’incorrere in illeciti disciplinari;
c) adeguamento del tirocinio all'esigenza di garantire lo svolgimento effettivo dell'attività formativa ed il suo costante adeguamento alle esigenze di miglior esercizio della professione;
d) la pattuizione del compenso del professionista per iscritto al momento del conferimento dell'incarico;
e) obbligo, per il professionista, di stipulare idonea assicurazione a tutela del cliente, per i rischi professionali e di comunicare a quest’ultimo gli estremi della polizza e il relativo massimale;
f) previsione di organismi disciplinari a livello territoriale ed a livello nazionale separati dagli organi con funzioni amministrative. Divieto di ricoprire contemporaneamente cariche nei consigli disciplinari e nei consigli dell’ordine (incompatibilità). Previsione di una deroga per le professioni sanitarie;
g) libertà di pubblicità informativa sulla specializzazione professionale, struttura dello studio e compensi richiesti per le prestazioni.
Il testo originario del decreto legge n. 138/2011 (anche a seguito della conversione) non faceva riferimento ad una delegificazione. La disposizione si limitava a stabilire un obbligo di riforma degli ordinamenti professionali, da realizzare nel rispetto di una serie di principi ed entro un termine ordinatorio di 12 mesi. Peraltro, essendo la regolamentazione degli ordini professionali contenuta prevalentemente in atti normativi aventi rango legislativo, l’articolo 3, comma 5, del decreto-legge non era destinato a produrre alcun effetto immediato. Pertanto, la disposizione presentava un carattere programmatico, volto a orientare il futuro legislatore.
Sul quadro normativo delineato dal D.L. 138/2011 si è inserito l'art. 10 della legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) che, novellando l’art. 3 del decreto-legge 138, disponeva che i principi ivi contenuti dovessero orientare il governo nell'opera di delegificazione degli ordinamenti professionali.
Il termine ultimo per il completamento della delegificazione - poi realizzata con il DPR 7 agosto 2012, n. 137 - era stabilito al 13 agosto 2012 e, dall’entrata in vigore del regolamento governativo di delegificazione - e, in ogni caso (vale a dire anche in assenza del regolamento) dal 13 agosto 2012 – sarebbe intervenuta l'abrogazione delle «norme vigenti sugli ordinamenti professionali» in contrasto con i suddetti principi (art. 3, comma 5-bis).
La legge di stabilità 2012 aveva previsto che entro il 31 dicembre 2012 il Governo dovesse altresì provvedere a raccogliere in un testo unico compilativo le disposizioni aventi forza di legge che non risultassero abrogate per effetto dell’entrata in vigore del regolamento di delegificazione, ovvero per lo spirare del termine del 13 agosto 2012 (art. 3, comma 5-ter). Il testo unico non è stato ancora emanato. L'art. 10 consentiva, inoltre, la costituzione di societa' tra professionisti del sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile (sono ammesse, quindi, anche le società di capitali).
Il tema della compatibilità con il sistema costituzionale dell’istituto della “delegificazione” in una materia (le professioni) ampiamente disciplinata dal legislatore e di competenza legislativa concorrente in base all’art. 117, terzo comma, della Costituzione è stato affrontato dalla dottrina e considerato dalle categorie professionali. Di tale dibattito mostra di essere consapevole il Governo che, nella relazione illustrativa dell'allora schema di regolamento di delegificazione, affrontava alcune delle principali questioni.
In particolare, le perplessità dei commentatori si sono incentrate sui seguenti aspetti:
L’articolo 117, terzo comma, della Costituzione inserisce le professioni tra le materie di legislazione concorrente. La Corte costituzionale ha riconosciuto che sui profili ordinamentali, che non hanno uno specifico collegamento con la realtà regionale (da cui la Corte fa derivare la natura concorrente), si giustifica una uniforme regolamentazione sul piano nazionale. Ciò però vale a legittimare una disciplina legislativa statale e non necessariamente un regolamento statale, in quanto l’articolo 117, sesto comma, della Costituzione, stabilisce che «La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materia di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia». La Corte costituzionale, nella sentenza n. 52 del 2010 (e ancor prima nella sentenza n. 200 del 2009) ha affermato che il sesto comma dell’art. 117 della Costituzione attribuisce allo Stato la potestà regolamentare – senza alcuna limitazione connessa alla tipologia dei regolamenti – nelle materie che la stessa Costituzione attribuisce alla esclusiva potestà legislativa statale. Dunque, il fatto che si tratti di un regolamento di delegificazione non dovrebbe avere alcun rilievo particolare. Su questo punto la relazione illustrativa dell'allora schema di regolamento afferma che la disposizione che autorizza la delegificazione va letta nel contesto dell’intero provvedimento d’urgenza che la contiene, volto ad incentivare lo sviluppo economico del Paese attraverso l’affermazione di principi di liberalizzazione e di piena tutela della concorrenza. Vista in quest’ottica, la delegificazione degli ordinamenti professionali andrebbe ascritta alla materia tutela della concorrenza, attribuita dalla Costituzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato: «La materia della professioni viene dunque presa in esame, nel più ampio quadro delle attività che costituiscono esplicazione dell’autonomia economica privata, quale settore, la cui liberalizzazione mira indirettamente alla tutela della concorrenza, espressamente rimessa alla legislazione esclusiva dello Stato dalla lettera e) del secondo comma dell’articolo 117 Cost.».
La Costituzione pone una riserva assoluta di legge per la disciplina delle giurisdizioni. L’art. 108 della Costituzione stabilisce che «le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge» e aggiunge che «la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia». L’art. 111 aggiunge che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». In tale ambito, pertanto, la fonte secondaria può intervenire solo se si tratta di un regolamento di stretta esecuzione; tale natura non è propria dei regolamenti di delegificazione. Il problema rileva ai fini della delegificazione degli ordinamenti professionali per quanto concerne la riforma degli organi nazionali competenti a conoscere del procedimento disciplinare (lettera f) del comma 5). Si ricorda, infatti, che per molte professioni (l’esempio classico è quello della professione forense, ma vale anche per gli architetti, i chimici, i geometri, gli ingegneri e i periti industriali), regolate da leggi anteriori alla Costituzione, la funzione disciplinare è esercitata in ultima istanza da organi di categoria (es. il Consiglio nazionale forense) riconosciuti dalla Corte costituzionale come organi aventi natura giurisdizionale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 284 del 1986,ha riconosciuto la natura giurisdizionale delle attribuzioni del Consiglio nazionale dei geometri quando decide sui ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi dei collegi provinciali in materia disciplinare e di iscrizione nell'albo. Più in generale, in quella sentenza la Corte ha affermato che «tale natura giuridica é comune, per generale consenso, a tutti gli analoghi Consigli nazionali previsti dalle normative che, anteriormente all'entrata in vigore della Costituzione, hanno ordinato in enti autonomi alcune professioni, ossia quelle indicate negli artt. 1 e 18 d.l. lgt. 23 novembre 1944 n. 382 e successive modificazioni. Essa viene desunta principalmente dal fatto che avverso le decisioni dei Consigli, inerenti alle attribuzioni suddette (materia disciplinare e iscrizione all'albo), é direttamente previsto il ricorso per cassazione, il quale nel nostro sistema é diretto al controllo su provvedimenti di natura giurisdizionale (in questo senso é anche la giurisprudenza di questa Corte: cfr. le sentt. nn. 110/1967; 114/1970; 27/1972 e 175/1980). Invece, per gli ordinamenti professionali posteriori alla Costituzione, il legislatore ordinario non ha potuto adottare la medesima disciplina, a causa del divieto, posto dall'art. 102 della Carta fondamentale, di istituire nuove giurisdizioni, non solo straordinarie, ma anche speciali: sicché ha previsto l'impugnazione dei relativi provvedimenti con le forme dell'ordinario processo civile (tribunale, corte di appello, cassazione), pure se talvolta con qualche deviazione dal modello tradizionale». Nella relazione illustrativa dello schema di regolamento di delegificazione il Governo si era mostrato pienamente consapevole di questo limite della norma di autorizzazione alla delegificazione che, imponendo la separazione tra funzione disciplinare e funzione di amministrazione degli ordini professionali, si rivolge in modo del tutto indifferenziato ad ogni consiglio locale e nazionale di ciascuna professione considerata, escludendo le sole professioni sanitarie.La relazione ribadiva, infatti, che – in tema di giurisdizione - siamo in presenza di una riserva assoluta di legge, «con la conseguenza che non può ritenersi che la previsione di legge abbia abilitato il Governo a regolamentare anche le funzioni giurisdizionali dei Consigli dell’ordine nazionali, dovendosi concludere che il regolamento sia sprovvisto, a riguardo, di ogni potestà d’intervento. Corollario di tale assunto è che la lettera f) dell’articolo 3, comma 5, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, può riferirsi in effetti ai soli procedimenti disciplinari rimessi alla competenza di consigli che decidono in via amministrativa (come nel caso dei commercialisti ed esperti contabili)».
La legge 183/2011 ha, poi, dettato (art. 10, commi 3-10) specifiche disposizioni sulle società tra professionisti (poi integrate dal D.L. 1/2012, v. ultra). L'art. 10 esplicitamente prevedendo che società tra professionisti potessero essere costituite sulla base dei modelli societari previsti dai titoli V e VI del libro V del codice civile (così ammettendo anche le società di capitali), ha stabilito:
La legge rimetteva ad un regolamento ministeriale, da approvare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge di stabilità (e dunque entro il 1° luglio 2012, ma non ancora adottato), la disciplina relativa all’esecuzione dell’incarico conferito alla società da parte di soci in possesso dei requisiti, alla scelta del professionista da parte dell’utente, all’incompatibilità e al rispetto del regime disciplinare dell’ordine (e dunque presumibilmente la definizione di modalità di iscrizione delle società tra professionisti agli ordini professionali). Infine, l’articolo 10 faceva salvi i diversi modelli societari e associativi vigenti abrogando proprio la legge n. 1815 del 1939 sulle associazioni professionali.
Prima dell'adozione del regolamento di delegificazione, il Governo era intervenuto nel settore delle professioni con il decreto-legge 1/2012 (cd. decreto liberalizzazioni) che agli articoli 9 e 9-bis ha introdotto disposizioni in materia di tariffe, di tirocinio e di società tra professionisti.
L'articolo 9, comma 1, del DL abroga le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. Le professioni interessate, in quanto aventi un ordine o un collegio e un albo professionale, sono le seguenti: agenti di cambio (il Testo Unico finanziario D.Lgs. 58/1998 ha disposto lo scioglimento degli ordini professionali degli agenti di cambio, ad esclusione di quelli di Roma e Milano, e la cessazione dal ruolo al compimento del settantesimo anno di età); agronomi e dottori forestali; agrotecnici e agrotecnici laureati; architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori; assistenti sociali; attuari; avvocati; biologi; chimici; consulenti del lavoro; dottori commercialisti ed esperti contabili; farmacisti; geologi; geometri e geometri laureati; giornalisti; infermieri; ingegneri; medici chirurghi e odontoiatri; medici veterinari; notai; ostetriche; periti agrari e periti agrari laureati; periti industriali e periti industriali laureati; psicologi; revisori contabili; spedizionieri doganali; tecnici sanitari di radiologia medica; tecnologi alimentari.
Si ricorda che il tema delle tariffe era stato affrontato dall’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, c.d. decreto Bersani, che aveva disposto l'abrogazione delle disposizioni che prevedono l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Ha inoltre soppresso il divieto del patto di quota-lite (il patto concluso dagli avvocati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali) ed ha fatto salve le tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti. Ha in fine confermato che iI giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale. Il medesimo art. 2 del decreto-legge n. 223 – con riferimento al complessivo tema delle professioni - ha inoltre abrogato: il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni; il divieto di fornire all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l'oggetto sociale relativo all'attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità. Il decreto-legge ha inoltre disposto l’adeguamento delle disposizioni deontologiche e pattizie e dei codici di autodisciplina, le cui norme sono altrimenti nulle. Sulle tariffe è poi intervenuto il citato decreto-legge n. 138 del 2011 (poi modificato sul punto dall’art. 10, comma 12, della legge n. 183 del 2011), che aveva previsto che il compenso spettante al professionista dovesse essere obbligatoriamente pattuito per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale. Il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico. In caso di mancata determinazione consensuale del compenso, quando il committente è un ente pubblico, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, ovvero nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse dei terzi si doveva far ricorso alle tariffe professionali stabilite con decreto dal Ministro della Giustizia. L’art. 10, comma 12, della legge n. 183 del 2011 ha espunto dal testo del decreto-legge 138 il richiamo alle tariffe professionali quale elemento di riferimento per la determinazione del compenso spettante al professionista pattuito per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale. Ha inoltre espunto la disposizione che ammetteva la pattuizione dei compensi anche in deroga alle tariffe. Il tema delle tariffe è stato affrontato a più riprese anche dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. In particolare è stato affrontato di recente dalla sentenza del 29 marzo 2011 (causa C-565/08), in ordine alle disposizioni che impongono agli avvocati l’obbligo di rispettare tariffe massime. Secondo la Commissione, la Repubblica italiana sarebbe venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE. Secondo la Corte di giustizia, “la Commissione non è riuscita a dimostrare che la normativa in discussione è concepita in modo da pregiudicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano dei servizi di cui trattasi. Va rilevato, al riguardo, che la normativa italiana sugli onorari è caratterizzata da una flessibilità che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita dagli avvocati. Così, è possibile aumentare gli onorari fino al doppio delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause di particolare importanza, complessità o difficoltà, o fino al quadruplo di dette tariffe per quelle che rivestono una straordinaria importanza, o anche oltre in caso di sproporzione manifesta, alla luce delle circostanze nel caso di specie, tra le prestazioni dell’avvocato e le tariffe massime previste. In diverse situazioni, inoltre, è consentito agli avvocati concludere un accordo speciale con il loro cliente al fine di fissare l’importo degli onorari”. In precedenza, i limiti alle tariffe per i compensi degli avvocati erano già stati esaminati dalla Corte di giustizia. Nella causa C-35/99 (Arduino), la Corte aveva dichiarato il 19 febbraio 2002 che le norme del Trattato CE non ostavano a che uno Stato membro adottasse una misura legislativa o regolamentare che approvasse, in base ad un progetto stabilito da un ordinamento professionale di avvocati, una tariffa che fissa minimi e massimi per gli onorari dei membri della professione. A conclusioni analoghe era giunta anche la sentenza della Corte di Giustizia sulle cause riunite C-94/04 (Cipolla) e C-202/04 (Capoparte e Macrino). Invece, con riguardo ad una tariffa italiana obbligatoria per tutti gli spedizionieri doganali, la Corte aveva considerato la normativa italiana che imponeva ad un’organizzazione professionale l’adozione di detta tariffa in contrasto con il diritto comunitario, poiché si trattava di una decisione di associazione di imprese e non di una misura statale (causa C-35/96).
Il comma 2 dell'art. 9 prevede che, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante (v. il D.M. 140/2012). Il D.L. demanda ad un decreto del Ministro della giustizia il compito di stabilire parametri per oneri e contribuzioni alle casse professionali e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe (in attuazione, vedi il D.M. 265/2012). Il decreto deve salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche di lungo periodo, delle casse previdenziali professionali.
Il comma 3 reca una norma transitoria relativa alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 1, che continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino all’entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge.
Il comma 4 stabilisce che il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attività professionale. In ogni caso, la misura del compenso è previamente resa nota al cliente con un preventivo di massima, deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio.
Il comma 5 prevede l’abrogazione delle disposizioni vigenti che rinviano alle tariffe a loro volta abrogate per la determinazione del compenso del professionista.
Il comma 7 reca alcune abrogazioni di coordinamento relative al comma 5 dell'articolo 3 del decreto-legge 138 del 2011, in particolare, inserimendo un richiamo espresso alla riduzione e all’accorpamento, su base volontaria, fra professioni che svolgono attività similari.
L'art. 9, comma 6, del D.L. 1/2012 prevede che la durata del tirocinio previsto per l'accesso alle professioni regolamentate non potrà essere superiore a diciotto mesi e per i primi sei mesi potrà essere svolto, in presenza di un'apposita convenzione quadro, in concomitanza con il corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica. Analoghe convenzioni possono essere stipulate per lo svolgimento del tirocinio presso pubbliche amministrazioni, all'esito del corso di laurea. Per le professioni sanitarie resta, invece, confermata la normativa vigente.
La legge 27/2012, di conversione del decreto-legge 1/2012, ha novellato la disciplina sulla società tra professionisti introdotta dalla legge 183/2011, prevedendo (articolo 9-bis):
Come sopraricordato, la disciplina delle associazioni professionali era contenuta nella legge n. 1815 del 1939, abrogata dalla citata legge di stabilità (articolo 10, comma 11).
E' stata pubblicata sulla G.U. del 26 gennaio 2013 la legge 4/2013 che reca la disciplina le professioni non regolamentate. Il provvedimento è stato approvato in via definitiva dalla Commissione Attività Produttive della Camera in sede legislativa, nella seduta del 19 dicembre 2012.
Accanto alle professioni “ordinistiche” (o “protette”) si sono sviluppate, anche nel nostro Paese e con intensità crescente nel corso degli ultimi anni, numerose professioni che non hanno ottenuto il riconoscimento legislativo e che nella quasi totalità dei casi hanno dato vita ad autonome associazioni professionali rappresentative di tipo privatistico. Si tratta delle cosiddette professioni non regolamentate o “non protette”, diffuse in particolare nel settore dei servizi, che non necessitano di alcuna iscrizione ad un ordine o ad collegio professionale per poter essere esercitate.
Numerose tipologie di professioni non regolamentate si ritrovano in settori come le arti, le scienze, i servizi alle imprese e la cura alla persona: gli amministratori di condomini, gli animatori, i fisioterapisti, i musicoterapeuti, i bibliotecari, gli statistici, gli esperti in medicine integrate, i pubblicitari, i consulenti fiscali, ecc.
Ad inizio legislatura la Camera ha avviato l’esame di una serie di proposte di legge, tutte d’iniziativa parlamentare (A.C. 3 e abb.), volte ad una complessiva riforma dell’ordinamento sia delle “professioni regolamentate” sia delle “professioni non regolamentate”.
In una prima fase dell'iter, i due aspetti sono stati trattati congiuntamente; successivamente, le Commissioni competenti (giustizia e attività produttive) hanno deciso di separare i procedimenti legislativi relativi alla riforma delle professioni regolamentate (cfr. Professioni regolamentate) e di quelle non regolamentate (seduta del 23 giugno 2010).
La Commissione X della Camera dei Deputati ha elaborato, sulla base delle proposte di legge A.C.1934 e abb., un testo unificato recante una disciplina delle professioni non organizzate in ordini o collegi. Tale testo, uscito dalla Camera dei Deputati, è stato poi modificato dal Senato della Repubblica (che ha escluso dall'ambito di applicazione le professioni sanitarie), e poi definitivamente approvato dalla X Commissione della Camera in sede legislativa nella seduta del 19 dicembre 2012.
La scelta della forma societaria in cui esercitare la propria professione è lasciata al professionista, riconoscendo l’esercizio di questa sia in forma individuale, che associata o societaria o nella forma di lavoro dipendente.
I professionisti possono costituire associazioni professionali, con il fine di valorizzare le competenze degli associati, garantire il rispetto di regole deontologiche, favorendo la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza. Tali associazioni hanno natura privatistica, sono fondate su base volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva. Esse promuovono la formazione permanente dei propri iscritti, adottano un codice di condotta, vigilano sulla condotta professionale degli associati, definiscono le sanzioni disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni del medesimo codice e promuovono forme di garanzia a tutela dell'utente, tra cui l'attivazione di uno sportello di riferimento per il cittadino consumatore.
Le associazioni possono costituire forme aggregative, che rappresentano le associazioni aderenti e agiscono in piena indipendenza ed imparzialità. Le forme aggregative hanno funzioni di promozione e qualificazione delle attività professionali che rappresentano, nonché di divulgazione delle informazioni e delle conoscenze ad esse connesse e di rappresentanza delle istanze comuni nelle sedi politiche e istituzionali. Su mandato delle singole associazioni, esse possono controllare l’operato delle medesime associazioni, ai fini della verifica del rispetto e della congruità degli standard professionali e qualitativi dell’esercizio dell’attività e dei codici di condotta definiti dalle stesse associazioni.
Le associazioni professionali possono rilasciare ai propri iscritti delle attestazioni su molteplici aspetti (regolare iscrizione del professionista, requisiti e standard qualitativi, possesso della polizza assicurativa, ...) previe le necessarie verifiche, sotto la responsabilità del proprio rappresentante legale, al fine di tutelare i consumatori e di garantire la trasparenza del mercato dei servizi professionali. Tali attestazioni non rappresentano tuttavia requisito necessario per l'esercizio dell'attività professionale. Per i settori di competenza, le medesime associazioni possono promuovere la costituzione di organismi di certificazione della conformità a norme tecniche UNI, accreditati dall'organismo unico nazionale di accreditamento (ACCREDIA), che possono rilasciare, su richiesta del singolo professionista anche non iscritto ad alcuna associazione, il certificato di conformità alla norma tecnica UNI definita per la singola professione.
Il provvedimento non comporta nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Nel settore civile la XVI legislatura si è caratterizzata per una serie di interventi volti a semplificare, informatizzare e accelerare il processo civile. Agli interventi sul processo si sono accompagnate importanti riforme del codice civile riguardanti la filiazione ed il condominio, nonché l'introduzione dell'istituto della composizione delle crisi da sovraindebitamento.
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha approvato due riforme del codice civile: la riforma dell'istituto della filiazione e la riforma del condominio.
Con l'approvazione della legge 219/2012, volta ad eliminare dall'ordinamento le residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali, il Parlamento ha affermato il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli. La legge, per la quale si veda più specificamente il tema 04A|Diritto di famiglia, consta di sei articoli attraverso i quali:
La legge 220/2012 novella il codice civile e le sue disposizioni di attuazione riformando complessivamente la disciplina del condominio degli edifici. In particolare, i profili di novità introdotti dalla riforma sono i seguenti:
La legge n. 220 del 2012 non è immediatamente vigente; la sua entrata in vigore è differita dalla stessa legge al 17 giugno 2013. Per un approfondimento dei contenuti della riforma, v.Legge 220/2012 - Riforma del condominio.
Nell'ambito del diritto fallimentare si segnala che il decreto-legge 83/2012 (c.d. decreto crescita) ha novellato (art. 33) la legge fallimentare R.D. 267/1942 per introdurre nel nostro ordinamento la facoltà di depositare un ricorso contenente la mera domanda di concordato preventivo, senza la necessità di produrre contestualmente tutta la documentazione finora richiesta. Come più dettagliatamente illustrato nel dossier del Servizio studi sulla legge di conversione, il debitore potrà così accedere immediatamente alle protezioni previste dalla legge fallimentare. L'obiettivo e' quello di promuovere l’emersione anticipata della crisi. Sarà inoltre possibile ottenere, sin dalle primissime fasi della procedura, l’erogazione di nuova finanza interinale e pagare le forniture strumentali alla continuazione dell’attività aziendale in un contesto di stabilità. In questo modo il debitore potrà proseguire nell’attività d’impresa durante la fase preliminare di preparazione della proposta di concordato e, successivamente, durante tutta la procedura sino all’omologa del concordato stesso.
Il Parlamento ha inoltre approvato la legge 3/2012 che introduce una nuova tipologia di concordato per comporre le crisi di liquidità di debitori ai quali non si applicano le ordinarie procedure concorsuali. Su quest'ultimo aspetto (per il quale v. Legge 3/2012 - Composizione delle crisi da sovraindebitamento) è poi intervenuto il DL 179/2012 che con l'articolo 18 ha ampiamente modificato la procedura e ne ha esteso l'applicazione al sovraindebitamento del consumatore. La composizione delle crisi da sovraindebitamento serve dunque a far fronte a “una situazione di perdurante squilibrio economico fra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte" che determina la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. Più in dettaglio, la legge contempla lo strumento dell’accordo con i creditori, su proposta del debitore, sulla base di un piano di ristrutturazione dei debiti che assicuri il regolare pagamento dei creditori estranei. Rispetto a questi ultimi, il piano può anche prevedere una moratoria dei pagamenti sempre che il piano risulti idoneo ad assicurare il pagamento alla scadenza del nuovo termine e l'esecuzione del piano venga affidata ad un liquidatore nominato dal giudice. Viene definito il procedimento finalizzato all’omologazione da parte del giudice dell’accordo, che presuppone l’accettazione da parte dei creditori che rappresentino almeno il 60 per cento dei crediti, e prevede il coinvolgimento degli “organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento”.
Nella XVI legislatura il tema dell'eccessiva durata dei processi civili (verificabile da ultimo attraverso i dati forniti dal ministero della giustizia) ha subito occupato l'agenda del Parlamento; i principali interventi sulla giustizia civile hanno infatti preso le mosse dalla legge 69/2009 che, oltre a prevedere una parziale riforma del codice di rito, ha delegato il Governo a operare la semplificazione e riduzione dei riti di cognizione ed a disciplinare la mediazione delle controversie civili.
Gli interventi sul codice di procedura civile attuati dal c.d. collegato sviluppo hanno la finalità di semplificazione e di riduzione dei tempi dei giudizi civili, di contenimento e razionalizzazione delle spese di giustizia, nonché di disincentivare lo stesso ricorso alla giustizia civile, ipotizzando modelli extragiudiziali non vincolanti di composizione delle liti. Le principali linee di intervento cui si è ispirata la riforma del processo civile sono le seguenti:
In attuazione della delega contenuta nell'art. 54 della legge 69/2009, il Governo ha emanato il decreto legislativo 150/2011 con il quale ha operato una riduzione e semplificazione dei numerosi procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria, riconducendoli ad uno dei tre modelli base previsti dal codice processuale civile: rito ordinario, rito sommario, rito del lavoro.
Il Parlamento ha approvato la legge 218/2011 in tema di termini di costituzione in giudizio in caso di opposizione a decreto ingiuntivo. Il provvedimento interviene per correggere un'interpretazione data dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 19246 del 2010) alla disposizione sull'abbreviazione dei termini di comparizione in caso di opposizione a decreto ingiuntivo. La nuova disciplina, in particolare, sopprime la previsione della riduzione a metà dei termini di comparizione, che ha dato origine alle divergenti interpretazioni giurisprudenziali, e - relativamente ai procedimenti in corso - conferma il precedente orientamento giurisprudenziale.
E' intervenuto sulla procedura civile anche l'articolo 2 del decreto-legge 1/2012 (cd. decreto liberalizzazioni) che ha istituito in tutti i tribunali e corti d’appello con sede nei capoluoghi di regione il Tribunale delle imprese, ampliando in misura significativa la sfera di competenza delle precedenti sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale. Il Tribunale delle imprese è competente sulle controversie in materia di proprietà industriale, relative alle azioni di nullità e di risarcimento del danno, per ottenere provvedimenti d’urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni sulla concorrenza, nonché per le controversie in materia societaria (rapporti societari nelle spa e nelle società in accomandita per azioni ovvero alle società da queste controllate o che le controllano; società a responsabilità limitata; società per azioni e società cooperative europee (SE e SCE); patti parasociali) e su tutte le cause che presentano ragioni di connessione con quelle sopraelencate.
La legge 69/2009 conteneva anche una delega al Governo in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali. Il Governo ha esercitato la delega con l'emanazione del decreto legislativo 28/2010, prevedendo in particolare che per talune controversie il tentativo di mediazione fosse obbligatorio, ovvero rappresentasse una condizione di procedibilità dell'azione. Come più ampiamente descritto in sede di approfondimento, sul punto è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 272 del 2012 che ha dichiarato questo aspetto della disciplina incostituzionale.
Nella XVI legislatura, con due distinti interventi normativi (art. 49 della legge 99/2009 e art. 6 del decreto-legge 1/2012), è stato riformato l'istituto dell'azione di classe. Come più ampiamente in Azione di classe dei consumatori, l’istituto ha la finalità di tutelare i diritti individuali omogenei e gli interessi collettivi di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione omogenea; può trattarsi di danni derivanti dalla violazione di diritti contrattuali o di diritti comunque spettanti al consumatore finale di un prodotto o di un servizio (a prescindere da un rapporto contrattuale), da comportamenti anticoncorrenziali o da pratiche commerciali scorrette. L'istituto ha destinatari e finalità diverse rispetto alla c.d. class action amministrativa.
La Commissione giustizia ha avviato l'esame in sede referente di un progetto di legge approvato dal Senato (A.C. 3070) di modifica dell'art. 2947 del codice civile, in materia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito. Come più ampiamente descritto nel Dossier del Servizio studi, la proposta stabilisce che la prescrizione del diritto al risarcimento per l’imputato assolto in via definitiva non decorre più dal momento in cui è stata posta in essere la denuncia-querela bensì dalla data in cui diventa irrevocabile la sentenza di assoluzione.
L'azione di classe a tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti (c.d. class action) è disciplinata nel Codice del consumo (decreto legislativo 206/2005) dall'articolo 140-bis, introdotto nel corso della XV legislatura. Tale disciplina è stata modificata nella XVI legislatura prima dal c.d. collegato energia (legge 99/2009) e da ultimo dal c.d. decreto liberalizzazioni (decreto-legge 1/2012).
L’azione collettiva risarcitoria è stata introdotta nel “Codice del consumo” (art. 140-bis del decreto legislativo 206/2005) dalla legge finanziaria 2008 (legge 244/2007, art. 2, comma 446) in esito ad un complesso iter parlamentare che aveva visto in XV legisaltura particolarmente attiva la Commissione giustizia della Camera dei deputati.
Nella disciplina originaria, la c.d. class action consisteva in un’azione giudiziale di gruppo, attivabile da associazioni rappresentative di consumatori ed utenti nei confronti delle imprese per specifici illeciti contrattuali ed extracontrattuali. Essa era volta ad ottenere dal giudice una pronuncia di accertamento della lesione degli interessi di una determinata categoria di persone ed il loro diritto ad un risarcimento. Il procedimento era scandito in due fasi:
Tale nuovo istituto non è mai entrato in vigore. Sono infatti dapprima intervenuti una serie di differimenti dell'entrata in vigore...
Una prima proroga al 1° gennaio 2009 è stata disposta dalla “manovra finanziaria estiva” (legge 133/2008), sulla base della necessità di individuare e mettere a punto strumenti normativi adatti ad estendere la tutela risarcitoria offerta dall’azione collettiva anche nei confronti della pubblica amministrazione. Tale termine è stato successivamente differito al 1° luglio 2009 dal “decreto-legge milleproroghe” (decreto-legge 207/2008); un’ulteriore proroga al 1° gennaio 2010 è stata disposta dal decreto-legge 78/2009.
...e successivamente è stata approvata la riforma.
L’articolo 49 della legge 99/2009 (cd. collegato in materia di energia) ha complessivamente riformato la disciplina dell'azione di classe, sulla quale è successivamente intervenuto anche l'articolo 6 del decreto-legge 1/2012 sulle liberalizzazioni.
A seguito degli interventi normativi della XVI legislatura, l'azione di classe è oggi così configurata:
La tutela degli interessi collettivi - prevista dal modello originario dell'azione collettiva risarcitoria - era stata eliminata nel 2009 per essere poi reinserita nell'azione di classe dal decreto liberalizzazioni. Peraltro la tutela degli interessi collettivi è già ampiamente riconosciuta dall’art. 2 del Codice del consumo in base al quale sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, sono favorite le iniziative rivolte a perseguire tali finalità, anche attraverso la disciplina dei rapporti tra le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni. La Corte di cassazione ha affermato che gli interessi tutelati dal Codice del consumo, anche in forma collettiva, non essendo subordinabili all’interesse generale, non possano che qualificarsi come diritti soggettivi(Cassazione, Sez. Unite, Ordinanza n. 7036 del 28 marzo 2006).
L'adesione all'azione di classe non richiede una assistenza legale e può essere effettuata anche tramite posta elettronica certificata e fax; l'atto di adesione, da depositare in cancelleria, deve contenere l’elezione di domicilio, l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto fatto valere e la relativa documentazione probatoria.
Il procedimento è scandito in due fasi: la prima volta alla pronuncia sull’ammissibilità dell’azione di classe; la seconda finalizzata invece alla decisione nel merito. In caso di accoglimento della domanda, il procedimento si conclude con la sentenza di condanna alla liquidazione, in via equitativa, delle somme dovute a coloro che hanno aderito all’azione ovvero con la definizione di un criterio omogeneo di calcolo per la suddetta liquidazione.
Analiticamente, la domanda si propone con atto di citazione al tribunale del capoluogo della regione in cui ha sede l’impresa. La competenza è attribuita al tribunale in composizione collegiale con il possibile intervento anche anche PM, ma solo per il giudizio di ammissibilità dell'azione (art. 140-bis, commi 4 e 5).
Si apre a questo punto la prima fase del procedimento, dedicata alla pronuncia sull'ammissibilità dell'azione di classe. Il tribunale si pronuncia sull'ammissibilità con ordinanza all'esito della prima udienza (a meno che non sia necessario disporre una sospensione del giudizio per attendere la pronuncia di un'autorità indipendente o del giudice amministrativo). La domanda è dichiarata inammissibile quando (comma 6):
L’ordinanza che decide sull'ammissibilità è reclamabile entro 30 giorni in corte d’appello. La corte d’appello decide a sua volta entro 45 giorni dal deposito del ricorso con ordinanza in camera di consiglio (comma 7).
Se ammette l'azione il tribunale deve (art. 140-bis, commi 9-11):
Si apre dunque il procedimento nel merito, che può concludersi con una sentenza con la quale il tribunale:
Si segnala, infine, che è stato infine oggetto di esame parlamentare il libro verde sui mezzi di ricorso collettivo dei consumatori presentato dalla Commissione europea. Il documento ha inteso valutare la situazione attuale in materia di mezzi di ricorso (in particolare, nei casi in cui numerosi consumatori possono essere vittime della stessa infrazione alla legge) proponendo le possibili soluzioni per colmare qualsiasi lacuna della normativa che, in tali situazioni,i osti al diritto ad un indennizzo adeguato (cfr. il parere espresso dalla Commissione Politiche dell’Unione europea nella seduta del 27 luglio 2009). Sulla base dei risultati della consultazione sul libro verde, la Commissione europea presenterà un nuovo documento orientativo.
Si ricorda inoltre che il 2 febbraio 2012 il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione “Verso un approccio europeo coerente in materia di ricorsi collettivi” nella quale chiede alla Commissione di rafforzare gli strumenti legislativi esistenti per consentire alle vittime di violazioni del diritto dell'Unione di essere risarcite per il danno subito. La risoluzione chiede, tra l’altro, che qualsiasi futura proposta UE in materia di ricorso collettivo costituisca un quadro orizzontale con principî comuni che tenga altresì in debita considerazione le tradizioni e gli orientamenti giuridici dei singoli Stati membri e assicuri il coordinamento tra esse. Sottolinea altresì che le azioni giudiziarie collettive, evitando controversie parallele su questioni simili, possono apportare benefici dal punto di vista di una riduzione dei costi e di un aumento della certezza giuridica per i ricorrenti, i convenuti e il sistema giudiziario.
Il Governo ha emanato il decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, che riduce e semplifica i riti civili di cognizione in attuazione della delega contenuta nell'articolo 54 della legge 69/2009.
L'art. 54 del cd. “collegato competitività” (L. 18 giugno 2009, n. 69) ha conferito una delega di 24 mesi al Governo per la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nella giurisdizione ordinaria e sono regolati dalla legislazione speciale. I principi e criteri di delega indicati dall’art. 54 sono i seguenti:
a) restano fermi i criteri di competenza ed i criteri di composizione dell’organo giudicante;
b) i procedimenti civili oggetto delle delega sono ricondotti ad uno dei modelli processuali del codice di procedura civile e in particolare:
c) la riconduzione ad uno dei tre riti indicati non comporta l’abrogazione delle disposizioni previste dalla legislazione speciale che attribuiscono al giudice poteri officiosi, ovvero di quelle finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile;
d) restano in ogni caso ferme le disposizioni processuali in materia di procedure concorsuali, di famiglia e minori, nonché quelle contenute nel regio decreto 1669/1933, nel regio decreto 1736/1933, nello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970), nel Codice della proprietà industriale (D.Lgs 30 del 2005) e nel Codice del consumo (D.Lgs n. 206 del 2005).
Il decreto legislativo 150/2011, composto da 36 articoli, mira a realizzare, pur in considerazione delle delimitazioni previste dalla delega, una prima e rilevante riduzione e semplificazione dei numerosi procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria, riconducendoli ad uno dei tre modelli base previsti dal codice processuale civile: rito ordinario, rito sommario, rito del lavoro. Il provvedimento accorpa e riassume in unico testo tutte le disposizioni che disciplinano i procedimenti giudiziari previsti dalle leggi speciali - dando così luogo ad un testo complementare al codice di procedura civile, in sostanziale prosecuzione del libro IV.
Il provvedimento, in relazione al possibile mutamento del rito, prevede che spetti al giudice rettificare con un'ordinanza l'errore commesso quando una controversia viene promossa in una forma diversa da quella disciplinata dal decreto, stabilendo anche l'eventuale passaggio a un altro giudice in caso di difetto di competenza.
Quanto al regime transitorio, si stabilisce che i nuovi modelli di procedura civile saranno applicati ai procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo.
Sul testo dello schema di decreto legislativo la Commissione giustizia, nella seduta del 27 luglio 2011, aveva espresso un articolato parere favorevole, con condizioni ed osservazioni.
Il Capo II del decreto legislativo dispone che mediante il rito del lavoro siano disciplinate le controversie in materia di opposizione alle procedure di recupero degli aiuti di Stato (articolo 9); le opposizioni alle sanzioni amministrative (articoli 6, 7, 8); le cause sui provvedimenti del Garante della privacy (articolo 10); le controversie di natura agraria (articolo 11) e in materia di registro dei protesti (articoli 12 e 13).
Analiticamente, l'articolo 2 reca le disposizioni comuniai procedimenti disciplinati dal rito del lavoro stabilendo che in tali procedimenti:
Per rito del lavoro, l’articolo 1 del decreto intende «il procedimento regolato dalle norme della sezione II del capo I del titolo IV del libro secondo del codice di procedura civile», ovvero gli art. 413-440 c.p.c. Attraverso l’articolo 2, il rito è depurato da tutta una serie di previsioni che non vengono richiamate o perché presuppongono la natura di lavoro della controversia (come la rivalutazione dei crediti del lavoratore), o perché, pur non essendo, a rigore, norme di favore per il lavoratore, dato che possono operare a vantaggio o a svantaggio di tutte le parti, rappresentano una costante storica delle liti lavoristiche (come la regola che consente di assumere la prova al di fuori dai limiti del codice civile), o, infine, perché si occupano di vicende disciplinate autonomamente dal decreto (come la disposizione sul mutamento di rito).
In base al Capo III sono ricondotte al rito sommario di cognizione le cause sugli onorari forensi (articolo 14); le opposizioni ai decreti di pagamento delle spese di giustizia (articolo 15); le controversie in materia di immigrazione (articolo 16, 17, 18 e 20); le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale (articolo 19); le opposizioni alle decisioni di convalida dei trattamenti sanitari obbligatori (articolo 21) e le cause che hanno per oggetto la materia elettorale (articolo 22, 23, 24); le liti sul risarcimento danni per le intercettazioni telefoniche (articolo 25); sulle misure disciplinari a carico dei notai (articolo 26) e dei giornalisti (articolo 27), quelle (numerose) in materia di discriminazione (articolo 28); le opposizioni alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità (articolo 29) nonché le liti in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione (articolo 30).
L’articolo 3 del decreto legislativo corregge il rito sommario di cognizione ai fini della sua applicazione ai procedimenti speciali. In particolare, il comma 1 esclude che ai procedimenti speciali si applichino le seguenti disposizioni:
La controversia dovrà essere decisa in unico grado. La previsione che la decisione avviene in unico grado è stabilita di volta in volta nelle disposizioni relative alla singola tipologia di controversia assoggettata al rito sommario. In alcuni casi il decreto non si è preoccupato di precisare che la decisione non è appellabile ovvero che può essere impugnata con ricorso per cassazione, ma in mancanza di qualsiasi speciale previsione espressa deve comunque ritenersi che la medesima sia pronunciata in unico grado allorché la competenza sia attribuita alla Corte d'appello. L'articolo 3 precisa infatti che «quando è competente la corte di appello in primo grado il procedimento è regolato dagli articoli 702-bis e 702-ter del codice di procedura civile».
Nei casi in cui è ammesso l'appello avverso l'ordinanza conclusiva del giudizio di primo grado (analiticamente nelle controversie di cui agli articoli 16, 17, 19, 20, 21, 22, 25, 27 e 28), trova applicazione l'articolo 702-quater, che, come già chiarito, consente l'assunzione di nuovi mezzi di prova e la produzione di nuovi documenti ogni qualvolta il collegio li ritenga rilevanti ai fini della decisione.
Infine, nell'area del rito ordinario di cognizione saranno collocate le opposizioni alle procedure coattive per la riscossione delle entrate di Stato e degli altri enti pubblici (articolo 32), e quelle alle stime effettuate nell'ambito di procedimenti di espropriazione; le controversie in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri ed in materia di liquidazione di usi civici (articolo 33); i procedimenti in materia di rettificazione del sesso (articolo 31).
Gli interventi sul processo civile contenuti nella legge 69/2009 perseguono la duplice finalità, da un lato, di semplificare e ridurre i tempi dei giudizi civili; dall’altro, di disincentivare lo stesso ricorso alla giustizia civile, attraverso la previsione di modelli extragiudiziali di composizione delle liti. Con riferimento a tale ultimo aspetto, l'articolo 60 delegava il Governo a disciplinare la mediazione e la conciliazione delle controversie civili e commerciali. Il Governo ha provveduto con il decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28. L'impatto innovativo della disciplina della mediazione delineata dal Governo - che è entrata in vigore per alcune categorie di controversie il 20 marzo 2011 nonchè, a regime, il 20 marzo 2012 - risulta affievolito a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 2012.
Per “mediazione”, ai sensi dell'articolo 1 del decreto legislativo, si intende l’attività svolta da un terzo imparziale chiamato ad assistere le parti al fine di raggiungere un accordo amichevole per la composizione della controversia, al di fuori delle procedure giudiziarie; per “conciliazione” si intende l’esito positivo del procedimento di mediazione (se la mediazione è il "mezzo", la conciliazione è il "fine").
L’attività di mediazione è affidata ad appositi organismi di conciliazione, iscritti in un registro tenuto dal Ministero della Giustizia (disciplinato dal D.M. 180/2010); essa non preclude l’azione ordinaria.
L’oggetto della mediazione viene circoscritto alle controversie civili e commerciali che abbiano ad oggetto diritti disponibili delle parti (articolo 2).
Secondo il dettato del decreto, il tentativo di mediazione rivestiva carattere obbligatorio, e quindi condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria, anche se solo in relazione ad alcune specifiche categorie di controversie (articolo 5, comma 1, sul quale v. ultra, Corte costituzionale, sentenza n. 272/2012).
Nella scelta di tali controversie, il Governo si era attenuto ai seguenti criteri:
Nel corso del dibattito parlamentare alla Camera il tema della mediazione obbligatoria era stato particolarmente approfondito e si era posta la questione della conformità di tale disciplina alla norma di delega (e, in particolare, al criterio di delega secondo il quale la mediazione non deve precludere l’accesso alla giustizia); sul punto, il relatore, nell’escludere l’eccesso di delega, ha in particolare richiamato il considerando n. 14 della direttiva 2008/52/CE, che fa salva la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario. Il parere del Senato conteneva un’osservazione, non recepita, nel senso di escludere l’obbligatorietà del procedimento di mediazione.
L'art. 5, comma 1, del DLgs 28/2010 e quindi la strutturazione del tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle citate controversie - è stato, tuttavia, dichiarato incostituzionale dalla Corte (sentenza 24 ottobre-6 dicembre 2012, n. 272) per eccesso di delega.
Per quanto riguarda la normativa nazionale, sottolinea la Corte, la legge delega nasce con un evidente richiamo al previgente modello della conciliazione societaria su base facoltativa. Tale circostanza avvalora l’ipotesi che il legislatore delegante aveva in mente anche per la mediazione civile un analogo carattere facoltativo e nulla contrasta con tale interpretazione. Inoltre - si legge nella sentenza - l'art. 60 della legge delega n. 60/2009, nel prevedere per gli avvocati l’obbligo di informare i propri clienti in merito alla mediazione, parla di “… informare l’assistito della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione …” e non dell’obbligo.
In definitiva, a seguito dell'intervento della Consulta, la mediazione è sempre facoltativa e può essere attivata anche su invito che il giudice può formulare in qualsiasi momento del procedimento, tenendo conto della natura della causa, dello stato dell’istruzione e del comportamento delle parti.
Per alcuni procedimenti specificamente indicati (tra i quali i procedimenti per ingiunzione, la convalida di sfratto, i procedimenti possessori) la mediazione già non costituiva condizione di procedibilità dell’azione (era esclusa la possibilità per il giudice di invitare le parti a procedervi); infatti, secondo il Governo, tali procedimenti «sono posti a presidio di interessi per i quali un preventivo tentativo obbligatorio di mediazione appare inutile o controproducente, a fronte di una tutela giurisdizionale che è invece in grado, talvolta in forme sommarie e che non richiedono un preventivo contraddittorio, di assicurare una celere soddisfazione degli interessi medesimi» (cfr. la relazione illustrativa dello schema di decreto trasmesso alle Camere).
Le disposizioni in materia di mediazione sono entrate in vigore il 20 marzo 2011, con l’esclusione di quelle riferite alle controversie in materia di condominio e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, la cui vigenza è stata differita al 20 marzo 2012. Attualmente, quindi, il D.Lgs 28/2010 trova integrale applicazione in tutti i settori per i quali è stata prevista la mediazione.
Al fine di facilitare il ricorso alla mediazione, si prevede a carico dell’avvocato uno speciale obbligo di informazione nei confronti del cliente, già all'atto del conferimento dell'incarico, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione (articolo 4).
Con disposizione assai contestata dal Consiglio nazionale forense in un documento inviato alle Camere, lo schema di decreto trasmesso alle alle Commissioni parlamentari) prevedeva la nullità del contratto tra l’avvocato e l’assistito. Sul punto, la Commissione Giustizia, nel parere reso nella seduta del 20 gennaio aveva chiesto la soppressione della disposizione, ritenendo sufficiente la previsione di un illecito disciplinare a carico dell'avvocato. Il testo del decreto legislativo n. 28 del 2010 sostituisce alla sanzione della nullità quella dell'annullabilità del contratto tra avvocato e cliente.
Il decreto legislativo opta per una regolamentazione “leggera” del procedimento di mediazione. Tale scelta si traduce nel rinvio al regolamento dell’organismo scelto dalle parti per la disciplina di dettaglio, nell’assenza di formalità per gli atti del procedimento e nella possibilità che esso si svolga secondo modalità telematiche (articolo 3).
La domanda di mediazione viene presentata mediante deposito di un’istanza presso un qualsiasi organismo di conciliazione, senza indicare criteri di competenza territoriale.
Sul punto la Commissione giustizia aveva chiesto al Governo di prevedere che la competenza territoriale dell'organismo di conciliazione fosse determinata in ragione della presenza della sede dello stesso nell'ambito del distretto della Corte d'appello comprendente la circoscrizione del tribunale competente per la causa di merito.
Ricevuta la domanda, spetta al responsabile dell'organismo di conciliazione designare un mediatore nonché eventuali mediatori ausiliari per le controversie che richiedono specifiche competenze tecniche ovvero, eventualmente, esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali.
Il mediatore fissa il primo incontro tra le parti non oltre 15 giorni dal deposito della domanda.
La durata massima del procedimento è fissata in 4 mesi, calcolati dalla data di deposito della domanda di mediazione (articolo 6).
Il decreto legislativo individua specifici obblighi del mediatore, tra i quali il divieto di assumere obblighi e diritti connessi agli affari oggetto della mediazione nonché di percepire compensi direttamente dalle parti; la disciplina dei requisiti professionali del mediatore non è contenuta direttamente nel decreto legislativo, ma nel DM attuativo n. 180/2010.
Il procedimento di mediazione è protetto da norme che assicurano alle parti la tutela della riservatezza rispetto alle dichiarazioni e alle informazioni emerse. Tali informazioni non saranno utilizzabili in sede processuale, salvo esplicito consenso delle parti, e il mediatore sarà tenuto al segreto professionale su di esse. Quando il mediatore svolge sessioni separate con le singole parti, non potrà rivelare alcuna informazione, acquisita durante tali sessioni, all’altra parte.
La finalità della previsione, propria delle esperienze comparate a livello internazionale, è finalizzata a consentire alle parti di svelare ogni dato utile al compromesso, senza timore che poi possa essere oggetto di un uso contro la parte medesima; le parti si sentiranno così libere di manifestare i loro reali interessi davanti a un soggetto terzo dotato di adeguata preparazione per comporre la controversia e tenuto all’assoluto riserbo.
I possibili risultati della mediazione sono i seguenti:
Nel caso di fallimento della mediazione per mancata accettazione della proposta, si prevede una disciplina speciale delle spese del successivo giudizio civile: in particolare, a carico della parte vincitrice che non abbia accettato una proposta di mediazione integralmente corrispondente al successivo provvedimento giudiziario, sono previste l’imputazione delle spese processuali e la condanna a versare allo Stato, a titolo di sanzione processuale, una somma parametrata sul contributo unificato (articolo 13 del decreto legislativo 28/2010).
Recependo integralmente un’osservazione contenuta nei pareri parlamentari, il decreto legislativo prevede che dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice possa desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.
Il verbale contenente l’accordo tra le parti è omologato con decreto del presidente del Tribunale e costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca.
Il decreto legislativo 28/2010, rinviando ad un regolamento di attuazione per la disciplina di dettaglio, ha schematicamente regolato la figura istituzionale degli organismi di mediazione, ovvero degli enti pubblici o privati presso i quali può svolgersi il procedimento di mediazione. Esso prevede l’istituzione di un Registro degli organismi di mediazione,tenuto e vigilato dal Ministero della giustizia.
Con la domanda di iscrizione al registro, gli organismi debbono in particolare depositare il regolamento di procedura ed il codice etico. Al regolamento dovranno allegarsi le tabelle delle indennità degli enti privati, mentre quelle degli enti pubblici sono stabilite con decreto. Nei casi di parti cui spetta, nel processo, il gratuito patrocinio, l’organismo fornirà la prestazione gratuitamente.
La disciplina della formazione del registro, delle modalità di iscrizione, della sua articolazione in sezioni, dei requisiti di professionalità ed efficienza degli enti di mediazione come dei mediatori-persone fisiche, è ora contenuta nel citato D.M. n. 180 del 2010 (poi novellato dal DM 145/2011), che ha determinato anche l’ammontare minimo e massimo delle indennità in favore degli organismi di mediazione pubblici, nonché i criteri per l’approvazione delle tabelle delle indennità proposte dagli organismi di mediazione privati.
I consigli degli ordini forensi possono costituire organismi, da iscrivere a semplice domanda, che facciano uso del proprio personale e dei locali messi a disposizione dal presidente del tribunale.
Nel Registro possono essere iscritti anche gli organismi di mediazione istituiti, per materie di loro competenza, presso i consigli degli ordini professionali e presso le Camere di commercio; l’iscrizione avviene a semplice domanda, ma previa autorizzazione del Ministero della giustizia, subordinata alla verifica di alcuni requisiti minimi, che consentono all’organismo il materiale svolgimento dell’attività. La facoltà di istituire organismi di mediazione anche presso i consigli di ordini professionali diversi da quelli forensi risponde essenzialmente all’esigenza di sviluppare organismi in grado di dare rapida soluzione alle controversie in determinate materie tecniche (ad es. in materia ingegneristica, informatica, contabile o simili).
Il medesimo DM 180 del 2010 ha istituito presso il Ministero della giustizia l’Elenco dei formatori per la mediazione, dettandone stringenti requisiti di organizzazione, professionalità ed onorabilità. Sia detto Elenco che il Registro degli organismi di mediazione sono tenuti e vigilati dal Ministero della giustizia attraverso un responsabile che ne cura l’aggiornamento e verifica la sussistenza e permanenza dei requisiti di iscrizione.
Al fine di incentivare il ricorso alla mediazione, il decreto legislativo prevede l’esenzione dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o altro diritto di analoga natura degli atti relativi al procedimento di mediazione, nonché l’esenzione del verbale d’accordo dall’imposta di registro (entro il limite di valore di 50.000 euro); inoltre, ai soggetti che si avvalgono della mediazione stragiudiziale è riconosciuto un credito d’imposta commisurato all’indennità versata all’organismo di conciliazione fino ad un massimo di 500 euro e ridotto della metà in caso di insuccesso della mediazione.
La Commissione giustizia del Senato ha avviato, a partire dal gennaio 2011, l’esame di un disegno di legge (AS. 2329, poi congiunto con l’AS. 2534) di modifica del decreto legislativo n. 28 del 2010.
Nel corso della XVI legislatura il legislatore ha tentato varie strade per ridurre il numero delle controversie civili, alleggerendo il carico degli uffici giudiziari e conseguentemente recuperando velocità al processo. Va in questa direzione la disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali, pensata dal Governo come condizione di procedibilità dell'azione civile relativamente ad alcune controversie, prima dell'intervento della Corte costituzionale. Ma vanno in questa direzione anche l'introduzione prima del "filtro in Cassazione", ad opera della legge di stabilità 2012, e poi - soppresso quell'intervento - del "filtro in appello", ad opera del decreto-legge 83/2012.
Come affermato dal Primo presidente della Corte di Cassazione, nella relazione di inaugurazione dell'anno giudiziario 2013, «non può esservi dubbio che un sistema di giustizia sarà sempre più efficiente quanto più diffusa e crescente sarà la consapevolezza che il “fattore tempo” è una condizione imprescindibile del “rendere giustizia”, in particolare in un sistema economico integrato nel quale le scelte imprenditoriali includono nell’analisi degli investimenti anche (e non in uno spazio residuale) l’efficacia e la rapidità della risposta giudiziale». Lo stesso Presidente ha evidenziato come nel 2012 si sia registrato un decremento del 4,5% della pendenza complessiva dei procedimenti dai 5.640.130 del 30 giugno 2011 ai 5.388.544 del 30 giugno 2012. Ciò è sia l’effetto della significativa diminuzione delle sopravvenienze, pari al 3,7%, che della sostanziale tenuta del numero delle definizioni (con una diminuzione dell’appena lo 0,1%). E ciò nonostante «il sistema sconti ancora il pesante carico del cd. “arretrato”, che finora si è dimostrato una montagna insensibile alla pur costante e generosa attività di erosione posta in essere nei diversi programmi di gestione dai dirigenti, nel difficile quadro di rilevante riduzione del personale, sia per quanto riguarda i magistrati, sia per quanto riguarda il personale amministrativo, che senza dubbio influisce negativamente (e in modo considerevole) sulle potenzialità delle strutture organizzative».
Le tabelle che seguono forniscono alcune serie statistiche sulla durata dei procedimenti civili nel triennio 2008-2010 forniti dal Ministero della giustizia, Direzione generale di statistica (la prima serie storica è stata elaborata dalla Corte di cassazione. Si vedano anche le più recenti elaborazioni statistiche della stessa Corte).
CORTE D’APPELLO |
|||||||||
Durata media effettiva (in giorni) dei procedimenti definiti con sentenza |
|||||||||
Ufficio | 2008 | 2009 | 2010 | 2010 vs 2008 (%) | |||||
Corte di appello | 1.197 | 1.276 | 1.301 | +8,7 | |||||
Tribunale ordinario | 1.108 | 1.118 | 1.111 | +0,3 | |||||
Giudice di pace | 533 | 544 | 582 | +9,25 | |||||
TRENTO |
517 |
558 |
602 |
+16,3 |
|||||
TORINO |
745 |
738 |
759 |
+1,9 |
|||||
SALERNO |
860 |
858 |
916 |
+6,5 |
|||||
CALTANISSETTA |
993 |
958 |
992 |
0,0 |
|||||
CAGLIARI |
927 |
966 |
994 |
+7,3 |
|||||
CAMPOBASSO |
924 |
862 |
1.002 |
+8,4 |
|||||
TRIESTE |
1.018 |
1.022 |
1.009 |
-0,9 |
|||||
BRESCIA |
1.027 |
1.054 |
1.012 |
-1,4 |
|||||
LECCE |
959 |
988 |
1.027 |
7,1 |
|||||
PERUGIA |
1.040 |
1.001 |
1.030 |
-1,0 |
|||||
POTENZA |
1.039 |
1.013 |
1.035 |
-0,3 |
|||||
BARI |
978 |
1.066 |
1.040 |
+6,4 |
|||||
L’AQUILA |
1.000 |
N.D. |
1.156 |
+15,7 |
|||||
PALERMO |
1.087 |
1.142 |
1.166 |
+7,2 |
|||||
MILANO |
1.079 |
1.140 |
1.167 |
+8,1 |
|||||
GENOVA |
1.106 |
1.091 |
1.189 |
+7,5 |
|||||
FIRENZE |
1.129 |
1.104 |
1.200 |
+6,2 |
|||||
Nazionale |
1.197 |
1.276 |
1.301 |
8,7 |
|||||
CATANZARO |
1.241 |
1.354 |
1.430 |
+15,3 |
|||||
ROMA |
1.504 |
1.509 |
1.445 |
-4,0 |
|||||
NAPOLI |
1.313 |
1.388 |
1.457 |
+10,9 |
|||||
MESSINA |
1.410 |
1.460 |
1.494 |
+6,0 |
|||||
CATANIA |
1.356 |
1.475 |
1.537 |
+13,4 |
|||||
VENEZIA |
1.440 |
1.545 |
1.590 |
+10,5 |
|||||
ANCONA |
1.280 |
1.490 |
1.594 |
+24,5 |
|||||
BOLOGNA |
1.555 |
1.663 |
1.803 |
+16,0 |
|||||
REGGIO CALABRIA |
2.056 |
2.218 |
2.270 |
+10,4 |
TRIBUNALE ORDINARIO |
||||
Durata media effettiva dei procedimenti definiti con sentenza (in giorni) |
||||
Distretto |
2008 |
2009 |
2010 |
2010 vs 2008 (%) |
VENEZIA |
1.143 |
1.134 |
690 |
-39,6 |
TORINO |
720 |
698 |
718 |
-0,2 |
TRENTO |
815 |
792 |
799 |
-1,9 |
MILANO |
863 |
940 |
843 |
-2,4 |
BRESCIA |
999 |
884 |
925 |
-7,4 |
GENOVA |
1.035 |
1.032 |
966 |
-6,7 |
ROMA |
1.013 |
1.002 |
972 |
-4 |
TRIESTE |
970 |
937 |
986 |
+1,7 |
REGGIO CALABRIA |
1.095 |
988 |
1.029 |
-6 |
PALERMO |
1.117 |
1.067 |
1.030 |
-7,8 |
FIRENZE |
1.054 |
1.043 |
1.048 |
-0,5 |
BOLOGNA |
1.112 |
1.231 |
1.065 |
-4,2 |
NAZIONALE |
1.107 |
1.118 |
1.111 |
+0,3 |
NAPOLI |
1.092 |
1.105 |
1.135 |
+3,9 |
ANCONA |
1.115 |
1.190 |
1.160 |
+4 |
CALTANISSETTA |
1.156 |
1.006 |
1.162 |
+0,5 |
CATANZARO |
1.226 |
1.177 |
1.186 |
-3,3 |
SALERNO |
1.244 |
1.212 |
1.191 |
-4,2 |
L’AQUILA |
1.121 |
1.108 |
1.209 |
+7,9 |
CATANIA |
1.184 |
1.185 |
1.224 |
+3,3 |
PERUGIA |
1.195 |
1.332 |
1.261 |
+5,5 |
CAMPOBASSO |
1.097 |
1.204 |
1.313 |
+19,7 |
CAGLIARI |
1.311 |
1.349 |
1.384 |
+5,5 |
BARI |
1.346 |
1.475 |
1.411 |
+4,8 |
POTENZA |
1.415 |
1.441 |
1.436 |
+1,5 |
MESSINA |
1.419 |
1.465 |
1.514 |
+4,5 |
LECCE |
1.272 |
1.248 |
1.550 |
+21,9 |
CORTE DI CASSAZIONE |
||||||||||||
Serie storica della durata media (in mesi) dei procedimenti civili definiti con provvedimento, per sezione |
||||||||||||
anno |
2000 |
2001 |
2002 |
2003 |
2004 |
2005 |
2006 |
2007 |
2008 |
2009 |
2010 |
2011 |
S.U. |
24,1 |
19,6 |
24,7 |
23,5 |
23,6 |
32,3 |
25,0 |
22,3 |
24,4 |
22,2 |
19,4 |
16,2 |
1^ |
21,9 |
22,6, |
25,3 |
27,4 |
29,1 |
30,3 |
35,2 |
40,6 |
40,8 |
38,9 |
35,5 |
43,6 |
2^ |
28,4 |
27,2 |
29,9 |
33,4 |
35,7 |
32,0 |
39,8 |
45,1 |
47,7 |
53,9 |
56,7 |
63,5 |
3^ |
28,0 |
27,6 |
32,1 |
32,1 |
34,6 |
33,9 |
38,9 |
43,8 |
44,4 |
46,6 |
50,0 |
39,0 |
Lav. |
31,2 |
27,2 |
28,2 |
28,9 |
24,4 |
26,3 |
28,9 |
30,7 |
33,9 |
35,1 |
39,4 |
41,3 |
Trib. |
25,8 |
29,4 |
30,4 |
42,7 |
32,7 |
43,1 |
59,5 |
63,9 |
60,6 |
56,9 |
50,7 |
53,7 |
Totale |
27,7 |
26,4 |
28,9 |
32,2 |
30,6 |
33,0 |
39,8 |
46,3 |
45,8 |
44,3 |
43,7 |
45,9 |
L’articolo 54 del decreto-legge 83/2012 (convertito dalla legge 134/2012) interviene sulla disciplina delle impugnazioni, sia di merito che di legittimità. In particolare, la disposizione (comma 1, lett. a) introduce nel codice di procedura civile gli articoli 348-bis e 348-ter, attraverso i quali disciplina il filtro di inammissibilità dell’appello.
Ai sensi dell'art. 348-bis, tale filtro opera sulla base di una prognosi rimessa alla discrezionalità dello stesso giudice del gravame, basata sulla ragionevole fondatezza dell’impugnazione (l’impugnazione è inammissibile “quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”) (primo comma). Dall’introduzione di tale filtro derivano le ulteriori novelle al codice di procedura civile. Lo schema che viene introdotto nel processo civile si basa, quindi, su una selezione preventiva delle impugnazioni meritevoli di trattazione (la citata relazione rileva che il 68% degli appelli si concludono con la conferma della sentenza di primo grado): quando il giudice rilevi l’infondatezza di merito dell’impugnazione, dichiara l’inammissibilità dell’impugnazione con ordinanza, spogliandosi del gravame. In tal caso, la decisione di primo grado sarà ricorribile per cassazione.
Nel caso contrario (di ammissione dell’appello) il giudice procede alla trattazione, senza adottare alcun provvedimento.
Il filtro di inammissibilità non può essere applicato se il gravame concerne (secondo comma).
Il nuovo articolo 348-terdel codice di procedura civile detta disposizioni sulla pronuncia d’inammissibilità dell’appello. L’ordinanza d’inammissibilità è adottata dal giudice in sede di prima udienza di trattazione (art. 350 c.p.c.) ed è “succintamente motivata” anche con il rinvio ad elementi di fatto riportati negli atti di causa ed a precedenti conformi; l’ordinanza pronuncia anche sulla condanna alle spese ex art. 91 (primo comma). Una modifica introdotta nel corso dell'esame parlamentare ha esplicitamente stabilito che l'ordinanza è adottata "sentite le parti". L’inammissibilità può essere dichiarata solo quando la prognosi di infondatezza del gravame sussista sia per l’appello principale che per quello incidentale; in caso contrario, il giudice dovrà trattare tutte le impugnazioni proposte contro la decisione di primo grado (secondo comma). Come accennato, se l’appello è dichiarato inammissibile ai sensi del nuovo articolo 348-bis, la sentenza di primo grado è ricorribile per cassazione; il termine di venti giorni per il ricorso decorre dalla comunicazione o notifica dell’ordinanza che ha pronunciato l’inammissibilità dell’appello (terzo comma).
Il ricorso per cassazione - quando l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348-bis è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste alla base della sentenza di primo grado appellata – viene, tuttavia, limitato ai soli motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione delle norme sulla competenza (quando non è prescritto il regolamento di competenza), alla violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, alla nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, primo comma, nn. 1-4, c.p.c.) (quarto comma). Fuori delle ipotesi di cause in cui è obbligatorio l’intervento del PM (art. 348- bis, secondo comma, lett. a) la limitazione nei motivi del ricorso per cassazione (art. 348-ter, quarto comma) si applica anche al ricorso per cassazione a seguito della cd. doppia conforme (sentenza di appello che conferma la sentenza di primo grado) (quinto comma).
Il comma 2 dell'articolo 54 prevede una disciplina transitoria che stabilisce l’applicabilità della riforma del filtro di inammissibilità (nonché delle ulteriori nuove disposizioni relative alla forma dell'appello, v. infra) ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello della data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge (ovvero dal 12 settembre 2012).
La disciplina del filtro in appello non si applica al processo tributario (di cui al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546) mentre trova applicazione nelle cause di lavoro e per quelle inerenti la disciplina delle locazioni, rispetto alle quali il legislatore ha itrodotto alcune norme di coordinamento. In particolare:
L'articolo 54 del decreto-legge 83/2012 novella anche altre disposizioni sull'appello contenute nel codice di procedura civile. In particolare:
La disposizione, in particolare sostituisce il primo comma del citato articolo 434 il quale, nella nuova formulazione, stabilisce che il ricorso in appello deve contenere le indicazioni prescritte dall'articolo 414, che l'appello deve essere motivato e che la motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità l'indicazione delle parti del provvedimento che si intendono appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, nonché l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
La riforma del 2012 ha modificato anche l'articolo 702-quater del codice di procedura civile, relativo alla disciplina dell'appello nel procedimento sommario di cognizione. La disposizione è volta a prevedere che, in tale sede, nuovi mezzi di prova e nuovi documenti possano essere ammessi quando il collegio li ritenga non solo rilevanti - come precedentemente previsto - ma indispensabili ai fini della decisione. Rimane ferma inoltre la disposizione relativa alla possibilità di disporre nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando la parte dimostri di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile.
L'articolo 47 della legge 69/2009 ha introdotto il c.d. "filtro in Cassazione", ossia di un esame preliminare di ammissibilità dei ricorsi in Cassazione, affidato dal primo presidente ad un’apposita sezione, di regola composta da magistrati appartenenti a tutte le sezioni della Corte di cassazione.
L'obiettivo del legislatore è tutelare la funzione nomofilattica, perseguita sempre più a fatica dalla Corte di Cassazione, costretta ad inseguire, come dimostrano i dati statistici, in affanno rispetto all'arretrato, una mole di ricorsi tale da privare di significato l'espressione Suprema Corte.
In particolare, la riforma del 2009 ha inserito nel codice di procedura l'articolo 360-bis, rubricato Inammissibilità del ricorso, in base al quale il ricorso è inammissibile:
L'introduzione dell'art. 360-bis implica la modifica anche di altre disposizioni del codice di rito. In particolare:
Lo stesso articolo 47 della legge 69/2009 ha abrogato l'art. 366-bis c.p.c., introdotto con il d.Lgs. 40/2006, ovvero la disposizione che obbligava il ricorrente a concludere ciascun motivo del ricorso «con la formulazione di un quesito di diritto che consenta alla Corte di enunciare un corrispondente principio di diritto».
Sul ricorso in Cassazione è intervenuto anche l'articolo 54 del decreto-legge 83/2012, che più ampiamente ha disciplinato il c.d. filtro in appello.
In particolare, la riforma è intervenuta sull'articolo 360 del codice di procedura civile, modificando la disciplina dei motivi di ricorso al fine di evitare, secondo la relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto-legge (A.C. 5312), una “strumentalizzazione ad opera delle parti che sta rendendo insostenibile il carico della Suprema Corte di cassazione, come più volte rilevato dal Primo Presidente”.
Il legislatore ha sostituito il n. 5) del primo comma del citato articolo 360 che, nella nuova formulazione, fa esclusivo riferimento a “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Sono così eliminati dai motivi del ricorso in cassazione quelli inerenti la motivazione della sentenza pronunciata in appello (o in unico grado) ovvero la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (primo comma n. 5 nel testo vigente anteriormente all'entrata in vigore del decreto-legge). Con tale modifica si ritorna quindi, sul punto, al testo originario del codice di procedura civile, anteriore alla novella introdotta dalla legge 581/1950.
La disciplina transitoria stabilisce l’applicabilità dei nuovi motivi di ricorso in cassazione alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello della data di entrata in vigore della legge di conversione, e dunque dal 12 settembre 2012.
Inoltre, con una integrazione all’articolo 383 del codice di procedura civile, relativo alle ipotesi di cassazione con rinvio, il legislatore stabilisce che, nelle ipotesi di cui al terzo e quarto comma del nuovo articolo 348-ter (ricorso diretto in cassazione della sentenza di primo grado), se la Corte accoglie il ricorso per motivi diversi da quelli di giurisdizione e di competenza (art. 382), rinvia la causa al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello (dichiarato inammissibile ex art. 348-bis); viene precisata l’applicabilità della disciplina sul giudizio di rinvio prevista del codice di rito (artt. da 392 a 394).
Il Parlamento ha approvato la legge 29 dicembre 2011, n. 218, che interviene sul procedimento d'ingiunzione modificando l'articolo 645 del codice di procedura civile relativo all'opposizione al decreto ingiuntivo. A seguito dell'entrata in vigore della legge, in caso di opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario; anche per i termini di comparizione delle parti si applicano le disposizioni generali, non operando più l'automatico dimezzamento originariamente previsto dal codice di rito.
L'iter della legge prende avvio al Senato, con la calendarizzazione nel novembre 2010 di due disegni di legge che si propongono di risolvere un problema interpretativo del codice di procedura civile sorto a seguito di una sentenza con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno modificato un orientamento giurisprudenziale fino a quel momento consolidato in tema di termini di costituzione in giudizio in caso di opposizione a decreto ingiuntivo.
Per comprendere la questione merita richiamare gli articoli del codice di procedura civile che disciplinano nel procedimento ordinario i termini di comparizione ed i termini di costituzione in giudizio.
L’art. 163-bis c.p.c. definisce i termini di comparizione: tra il giorno della notificazione della citazione al convenuto e quello dell'udienza di comparizione debbono intercorrere termini liberi non minori di 90 giorni (se il luogo della notificazione si trova in Italia, altrimenti di 150 giorni ) (primo comma). Nelle cause che richiedono pronta spedizione il presidente può, su istanza dell'attore e con decreto motivato in calce dell'atto originale e delle copie della citazione,abbreviare fino alla metà i termini indicati dal primo comma (secondo comma). Se il termine assegnato dall'attore ecceda il minimo indicato dal primo comma, il convenuto, costituendosi prima della scadenza del termine minimo, può chiedere al presidente del tribunale che, sempre osservata la misura di quest'ultimo termine, l'udienza per la comparizione delle parti sia fissata con congruo anticipo su quella indicata dall'attore. Il presidente provvede con decreto, che deve essere comunicato dal cancelliere all'attore, almeno 5 giorni liberi prima dell'udienza fissata dal presidente (terzo comma).
L’art. 165 c.p.c disciplina i termini di costituzione dell'attore, fissandoli in 10 giorni dalla notificazione della citazione al convenuto ovvero in 5 giorni in caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma del richiamato articolo 163-bis.
L’art. 166 c.p.c. individua i termini di costituzione del convenuto, fissandoli in almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione o almeno 10 giorni prima nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma dell'art. 163-bis ovvero almeno 20 giorni prima dell'udienza in caso di differimento della stessa da parte del giudice a norma dell'art. 168-bis, quinto comma, c.p.c.
Nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, prima della novella del 2011, l'articolo 645 del codice di procedura civile prevedeva che il giudizio si svolgesse secondo le norme del procedimento ordinario, ma con termini di comparizione delle parti ridotti a metà.
Rispetto a questo quadro normativo, l'orientamento a lungo consolidato della Corte di cassazione è stato nel senso che, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, quando l’opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine della sua costituzione è automaticamente ridotto a 5 giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine ordinario (principio affermato a cominciare da Cass. n. 3053/1955 e poi costantemente seguito; da ultimo, v. Cass. n. 3355/1987, 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006). Più recenti sentenze della Corte hanno ulteriormente precisato che l’abbreviazione a 5 gg. del termine di costituzione per l’attore opponente deriva automaticamente dal minor termine di comparizione concesso al convenuto opposto e risulta irrilevante che la concessione di quel termine sia dipesa da una scelta consapevole dell'opponente ovvero da un errore di calcolo del medesimo (Cass. sentt. nn. 3752/2001, 14017/2002, 17915/2004, 11436/2009).
Ciò fino alla sentenza delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione 9 settembre 2010, n. 19246, che ha concluso nel senso che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti della metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini di comparizione siano ridotti alla metà. Secondo le Sezioni Unite, infatti, la regola del necessario collegamento tra termini di comparizione e termini di costituzione, fissata dall’art. 165, primo comma, c.p.c., costituisce espressione di un principio generale di razionalità e coerenza, con la conseguenza che l’espresso richiamo nell’art. 645 c.p.c. di tale principio sarebbe risultata del tutto superflua. In sostanza, secondo la Cassazione, l’opposizione a decreto ingiuntivo è sempre caratterizzata dall’abbreviazione dei termini di comparizione ed all’opponente non compete alcuna facoltà di scelta tra termine abbreviato e termine ordinario. Di conseguenza, il termine per la costituzione in giudizio dell’opponente è sempre di 5 giorni, a nulla rilevando il termine di comparizione di volta in volta assegnato in concreto. Ne consegue che le costituzioni in giudizio dell'opponente successive al quinto giorno dalla notificazione dell'opposizione devono considerarsi tardive, con conseguente improcedibilità dell'opposizione ed esecutività del decreto ingiuntivo a norma dell’art. 647 c.p.c.
L’art. 647 c.p.c. prevede che, se non è stata fatta opposizione nel termine stabilito, oppure l'opponente non si è costituito, il giudice che ha pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente, lo dichiara esecutivo. Quando il decreto è stato dichiarato esecutivo, l'opposizione non può essere più proposta né proseguita (salvo il caso in cui l’intimato provi di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto per irregolarità della notifica o caso fortuito o forza maggiore).
In assenza di un intervento del legislatore, il nuovo orientamento sancito dalle Sezioni Unite rischiava di travolgere i procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo in corso, a causa della possibile dichiarazione di improcedibilità nei casi in cui la costituzione in giudizio dell’opponente non fosse avvenuta nel termine dimezzato di 5 giorni.
La legge 218/2011 si compone di due soli articoli.
L'articolo 1 modifica l'art. 645 del codice di procedura civile, in tema di procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, sopprimendo la previsione della riduzione a metà dei termini di comparizione, che ha dato origine alle divergenti interpretazioni giurisprudenziali.
L’articolo 2 reca una norma transitoria di tipo interpretativo, da applicare ai procedimenti in corso al 20 gennaio 2012, che conferma l’orientamento consolidato della Cassazione precedente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 19246/2010. L’articolo prevede infatti che per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge, l’art. 165, primo comma, c.p.c. si interpreta nel senso che la riduzione del termine di costituzione dell’attore ivi prevista si applica, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, solo se l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario previsto dall’art. 163-bis, primo comma.
La legge 11 dicembre 2012, n. 220, si compone di 32 articoli che, novellando principalmente il capo del codice civile dedicato al condominio negli edifici (artt. 1117 e ss.), rappresentano l'approdo di un percorso di riforma che ha impegnato il Parlamento per più legislature. I principali profili di novità introdotti dalla riforma sono i seguenti:
La legge n. 220 del 2012 non è immediatamente vigente; la sua entrata in vigore è differita al 17 giugno 2013.
L’articolo 1 della legge 220/2012 sostituisce l’articolo 1117 del codice civile, fornendo una definizione più articolata di «parti comuni» dell’edificio, «oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico». Ad integrazione della formulazione originaria del codice, sono ora esplicitamente inseriti nelle parti comuni: i pilastri e le travi portanti; le facciate degli edifici; i parcheggi; i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune; gli impianti centralizzati per la ricezione radio TV e per l’accesso ad ogni genere di flusso informativo, anche satellitare o via cavo.
Il testo propone, inoltre, le nuove diciture di "impianti idrici e fognari" e di "sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e il condizionamento dell'aria" che definiscono impianti che ricadono tra le parti comuni. Il provvedimento specifica che in caso di impianti unitari, si dovrà far rientrare l'impianto tra le parti comuni fino al punto di utenza, salve le normative di settore in materia di reti pubbliche.
L'articolo 2 della legge di riforma inserisce nel codice civile l'articolo 1117-bis, che estende l'applicabilità della disciplina sul condominio a tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici, ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici, abbiano parti comuni ai sensi dell'articolo 1117.
L'articolo 2 inserisce nel codice civile anche l'art. 1117-ter, in base al quale la modifica della destinazione d'uso delle parti comuni richiede un numero di voti che rappresenti i 4/5 dei partecipanti al condominio e i 4/5 del valore dell'edificio. Per l'assunzione delle deliberazioni in questione, la norma detta nuove modalità di convocazione dell'assemblea (raccomandata o mezzi telematici), disciplina i termini (affissione dell'avviso negli spazi comuni per almeno 30 giorni), nonché gli elementi che essa deve contenere a pena di nullità (indicazione delle parti comuni da modificare e della nuova destinazione d'uso). L'art. 1117-ter vieta inoltre le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico.
Il successivo articolo 1117-quater detta disposizioni per la tutela contro le attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni. In tali casi, l'amministratore o i singoli condomini possono diffidare l'esecutore di tali attività e chiedere la convocazione dell'assemblea che delibera in merito alla cessazione delle attività, anche mediante azioni giudiziarie, con la maggioranza prevista dal codice all'art. 1136, secondo comma (validità delle deliberazioni a maggioranza degli intervenuti e con voti che rappresentino la metà del valore dell'edificio).
L’articolo 3 della legge 220/2012 sostituisce l’articolo 1118 c.c., in materia di diritto del condomino sulle parti comuni. La modifica conferma che tale diritto è proporzionale al valore dell'unità immobiliare che appartiene al condomino e che questi non può rinunciare al suo diritto sulle parti comuni né sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la loro conservazione. L’ultimo comma della norma precisa che il singolo condomino può distaccarsi dall'impanto centralizzato di riscaldamento o condizionamento se dal fatto non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. Se il distacco è possibile, il rinunziante è tenuto a concorrere esclusivamente al pagamento delle spese di manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma [1]
L’articolo 4 modifica l’articolo 1119 c.c. in materia di indivisibilità del condominio, specificando che la divisione delle parti comuni può essere operata solo con il consenso di tutti i condomini.
L'articolo 5 incide sulla materia delle innovazioni novellando l'articolo 1120 c.c. I condomini possono approvare alcune tipologie di innovazioni con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (ai sensi del secondo comma dell'articolo 1136 c.c.). Tali innovazioni, nel rispetto delle normative di settore, possono avere ad oggetto, tra l'altro:
La novella introduce, inoltre, un nuovo e più stringente iter di convocazione dell’assemblea da parte dell’amministratore. In caso di proposta di innovazione, l'amministratore è tenuto a convocare l'assemblea entro 30 giorni dalla richiesta anche di un solo condomino; tale richiesta dovrà contenere la specificazione delle innovazioni proposte e delle modalità di esecuzione dei lavori. Rimane immodificato l'ultimo comma dell'articolo 1120 c.c. ai sensi del quale non possono essere realizzate innovazioni che pregiudichino la stabilità, la sicurezza, il decoro degli edifici o che pregiudichino l'uso di parti comuni anche da parte di un solo condomino.
L'articolo 6 sostituisce l’articolo 1122 del codice civile - rubricandolo "Opere su parti di proprietà o uso individuale" - escludendo che il condomino possa eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico dell'edificio. L'amministratore deve in ogni caso essere avvisato prima dell'avvio dei lavori ai fini della relativa comunicazione in assemblea.
L'articolo 7 inserisce due nuovi articoli dopo l'articolo 1122 c.c. Il nuovo articolo 1122-bis reca disposizioni su impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva (ad esempio le parabole) e di produzione di energia da fonti rinnovabili. Per quanto riguarda installazioni di impianti autonomi per la ricezione radiotelevisiva e di altri flussi informativi, la disposizione riconosce il diritto individuale del condomino alla ricezione radio-TV con impianti individuali satellitari o via cavo, ne conferma la libera realizzazione – senza previo voto dell’assemblea – precisando l’obbligo di arrecare il minor pregiudizio possibile alle parti comuni, agli immobili di proprietà di altri condomini nonché preservando il decoro dell'edificio. Sostanzialmente l’intervento dell’assemblea condominiale è richiesto (con approvazione a maggioranza degli intervenuti e 2/3 dei millesimi, ai sensi del quinto comma dell'art. 1136) soltanto quando siano necessarie modifiche alle parti comuni; in tal caso possono essere ordinate modifiche al progetto iniziale e richiesta garanzia per eventuali danni.
L'articolo 26 della legge 220/2012 introduce nelle disposizioni di attuazione l’art. 155-bis, che detta una disciplina transitoria per l’adeguamento degli impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva esistenti al momento dell’entrata in vigore della riforma: ai fini dell'adeguamento dei suddetti impianti delibera l'assemblea con le maggioranze prescritte dai primi tre commi dell'articolo 1136 (vedi infra).
Quanto agli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, la riforma ne consente l'installazione per servire singole unità immobiliari "sul lastrico solare" e "su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell’interessato", anche da parte di singoli condomini. In tali casi l'assemblea deve provvedere, a richiesta degli interessati, a ripartire l’uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, non pregiudicando le forme di utilizzo in atto o previste dal regolamento di condominio. La norma prevede inoltre che, per la progettazione e l’esecuzione dell’impianto, i condomini debbono lasciare libero accesso alle loro proprietà individuali.
Il nuovo articolo 1122-ter prevede la facoltà dell'assemblea di decidere l'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni [2] con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 (deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio).
L'articolo 8 novella l’articolo 1124 c.c., rubricato”Manutenzione e sostituzione delle scale e degli ascensori”. La modifica sancisce la piena equiparazione - già riconosciuta dalla giurisprudenza - tra scale ed ascensori. La novella non sembra incidere sul caso dell’installazione ex novo dell'ascensore nell'edificio condominiale, le cui spese sono ripartite secondo il criterio dell'art. 1123 c.c. (relativo alle innovazioni) in misura proporzionale ai millesimi posseduti (tra le altre, v. Cass. Sez. II, sentenza n. 165 del 10 gennaio 1996). Trattandosi di innovazione gravosa, tuttavia, i condomini che non intendono usufruire dell’ascensore sono esonerati da ogni contributo alla spesa (art. 1121, comma 1).
La legge 220/2012 novella gli articoli 68 e 69 delle disposizioni di attuazione del codice civile, in tema di tabelle millesimali. La prima modifica, operata dall'articolo 22, riguarda l'art. 68 e ha esclusive finalità di coordinamento con la modifica all'art. 1118 del codice civile (v. sopra). La seconda, introdotta dall'articolo 23, interviene sull'art. 69 delle disposizioni di attuazione del codice civile relativo alla revisione delle tabelle millesimali. In particolare, la riforma:
Nella normativa vigente, secondo l’orientamento tradizionale, l’approvazione o la revisione delle tabelle millesimali non poteva essere deliberata a maggioranza dall’assemblea condominiale. Come accade per il regolamento contrattuale, si riteneva invece necessario il consenso di tutti i condomini; in assenza di tale consenso unanime, alla formazione delle tabelle provvedeva il giudice su istanza degli interessati, in contraddittorio con tutti i condomini. Tra gli argomenti a sostegno della tesi dell’unanimità, si affermava che:
- la materia non rientrava tra le competenze della assemblea;
- l’approvazione delle tabelle si risolverebbe in un atto negoziale di accertamento, cioè una manifestazione di volontà volta ad accertare il contenuto di diritti reali spettanti a ciascun condomino.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione è, tuttavia, tornata a pronunciarsi – a Sezioni Unite – in materia di approvazione e modifica delle tabelle millesimali allegate
al regolamento di condominio rendendo più facile l’intervento dell’assemblea condominiale (Cass. civ., S.U., sentenza 9 agosto 2010, n. 18477). Per la Cassazione, infatti, “le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’articolo 1136 c.c., comma 2” (voto a maggioranza degli intervenuti e che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio)”.
Gli articoli 9 e 10 della legge 220/2012 intervengono sulla disciplina relativa all'amministratore di condominio. In particolare, l’articolo 9 novella l’articolo 1129 c.c. - rubricato “Nomina, revoca e obblighi dell’amministratore” apportandovi le seguenti novità:
La riforma, inoltre, esclude che l'amministratore revocato dall'autorità giudiziaria possa essere nuovamente nominato dall'assemblea e pone a carico dell'amministratore l'obbligo, all'atto di accettazione della nomina o del suo rinnovo, di specificare analiticamente gli importi a lui dovuti a titolo di compenso.
L’articolo 10 integra la formulazione dell’articolo 1130 c.c., in materia di attribuzioni dell’amministratore articolando gli obblighi già previsti dal codice e introducendone di nuovi con finalità di controllo dell’operato dell’amministratore. Come novità, si segnalano la ”esplicita” previsione delle seguenti attribuzioni dell’amministratore:
L'articolo 12 introduce una modifica di carattere meramente formale all'articolo 1131, in materia di rappresentanza del condominio da parte dell’amministratore.
L’articolo 19 interviene sull’art. 64 delle disposizioni di attuazione del codice civile, in tema di revoca dell’amministratore, per coordinarne il testo con le modifiche apportate agli artt. 1129 e 1131 del codice civile. In particolare, la disposizione specifica che il tribunale non deve limitarsi a sentire l’amministratore, ma deve farlo in contraddittorio con il ricorrente. Si prevede inoltre la possibilità di proporre reclamo alla corte d'appello contro il provvedimento del tribunale nel termine di 10 giorni dalla notificazione o dalla comunicazione.
L'articolo 25 della legge 220 del 2012 inserisce nelle disposizioni di attuazione del codice civile gli articoli da 71-bis a 71-quater. L’articolo 71-bis enumera i requisiti per lo svolgimento dell'incarico di amministratore di condominio. In particolare:
I requisiti di cui alle lettere f) e g) non sono richiesti qualora l'amministratore sia nominato tra i condomini. La perdita di uno dei requisiti di cui alle lettere da a) a e) implica la cessazione dall'incarico. In tal caso l'assemblea può essere convocata da ciascun condomino senza formalità.
Coloro che hanno svolto l'attività di amministratore di condominio per almeno un anno nell’arco dei tre anni precedenti alla data di entrata in vigore della legge di riforma, sono esonerati dai requisiti di cui alle lettere f) e g), salvo l'obbligo di formazione periodica. Possono svolgere l'incarico di amministratore anche società. In tal caso, i requisiti devono essere posseduti "dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condomini a favore dei quali la società presta i servizi".
L'articolo 71-ter prevede che l'amministratore attivi un sito internet del condominio su richiesta dell'assemblea, che delibera con un maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (secondo comma dell'art. 1136 c.c.). Le spese di attivazione e gestione sono a carico dei condomini. Il sito consente l'accesso ai documenti previsti dalla delibera assembleare.
L’articolo 71-quater introduce una disciplina specifica della mediazione in relazione alle controversie in materia di condominio. Esso richiama l'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, che prevede, tra l'altro, che chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa ad una controversia in materia di condominio è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione. Al fine dell’applicazione di tale disciplina, esso definisce le controversie in materia come quelle derivanti dalla violazione o errata applicazione del capo II del titolo VII del libro III del Codice civile (articoli da 1117 a 1139) e degli articoli da 61 a 72 delle disposizioni di attuazione.
Il nuovo articolo 71-quater quindi disciplina alcuni specifici aspetti della mediazione in materia di condominio: la domanda di mediazione deve essere presentata presso un organismo ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale è situato il condominio, a pena di inammissibilità; al procedimento è legittimato a partecipare l'amministratore; l'assemblea decide in merito a maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (art. 1136, secondo comma). Nei casi in cui i termini di comparizioni inanzi al mediatore non siano compatibili con i tempi necessari all'assunzione della delibera, su istanza del condominio è accordata proroga della prima comparizione; la proposta di mediazione deve essere approvata con maggioranza di cui all'articolo 1136, secondo comma (vedi sopra), altrimenti essa deve ritenersi non accettata; il mediatore è tenuto a fissare il termine per la proposta di conciliazione tenendo conto delle necessità dell'amministratore di munirsi della prescritta delibera.
Si ricorda che sul carattere obbligatorio della mediazione è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, dichiarando incostituzionale l'art. 5, comma 1, del decreto legislativo 28/2010. Al momento dell'approvazione definitiva del provvedimento in Senato tale sentenza era già stata depositata, ma una modifica del testo avrebbe reso necessario un ulteriore passaggio alla Camera dei deputati, incompatibile con il previsto scioglimento delle Camere. La procedura delineata dall'art. 71-quater potrà comunque essere seguita in caso di mediazione facoltativa.
L’articolo 11 aggiunge al codice civile l'art. 1130-bis, relativo al rendiconto condominiale annuale, con la finalità di assicurare maggiore trasparenza nella gestione contabile dell’amministratore [4].
Il rendiconto deve contenere una serie di specifiche voci contabili indispensabili alla ricostruzione e al controllo della gestione dell’amministratore da parte di ogni condomino. In particolare, si prevedono come elementi imprescindibili del rendiconto: il registro di contabilità; il riepilogo finanziario; una sintetica nota di accompagnamento, esplicativa della gestione annuale. L’assemblea condominiale può, in qualsiasi momento o per più annualità specificamente identificate, nominare un revisore che verifichi la contabilità del condominio. La deliberazione è assunta con la maggioranza prevista per la nomina dell'amministratore e la relativa spesa è ripartita fra tutti i condomini sulla base dei millesimi di proprietà. L'assemblea può anche nominare, oltre all'amministratore, un consiglio di condominio composto da almeno tre condomini negli edifici di almeno dodici unità immobiliari. Il consiglio ha funzioni consultive e di controllo.
L'articolo 13, comma 1, modifica l'articolo 1134 c.c. - rubricato “gestione di iniziativa individuale”. Esso conferma, nella sostanza, il contenuto della norma previgente relativa all’esclusione del diritto al rimborso per le spese fatte dal condomino; nella nuova formulazione prevede, tuttavia, anziché il riferimento al “condomino che ha fatto spese per le cose comuni” quello, più ampio, al “condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni”. Il comma 2 del medesimo articolo 13 apporta modifiche all'articolo 1135 c.c. in materia di attribuzioni dell’assemblea:
L’articolo 18 della legge 220/2012 interviene sull’art. 63 delle disposizioni di attuazione del codice civile, in tema di riscossione dei contributi dai singoli condomini.
La riforma:
In base alle disposizioni vigenti, infatti, la natura delle obbligazioni dei condomini verso i terzi è oggetto di ampio dibattito in dottrina e in giurisprudenza. Secondo l'orientamento prevalente, il principio della ripartizione delle spese pro quota tra i condomini ha valore solo interno, mentre verso i terzi la loro responsabilità è necessariamente solidale, in applicazione del principio generale sancito dall'art. 1294 del codice. La tesi minoritaria della parzialità fa leva sull'art. 1123 del codice (v. sopra), intendendola come norma speciale rispetto all'art. 1294 e, quindi, operante non solo nei rapporti interni fra i condomini, ma anche nei confronti dei terzi. La giurisprudenza ha ritenuto, nella maggior parte dei casi, che i singoli condomini, in base all'art. 1294 citato, sono solidalmente responsabili nei confronti dei terzi, salvo il diritto di chi ha pagato di esercitare verso i condomini condebitori il diritto di regresso e di dividere il debito nei rapporti interni. La riforma dà una limitata proiezione esterna alla ripartizione pro quota delle spese, affermando che i creditori del condominio devono escutere in prima battuta i condomini morosi, ma non elimina comunque il principio di solidarietà, consentendo laddove l’azione sia infruttuosa, la possibilità di rivolgersi anche ai condomini in regola con i pagamenti.
L’articolo 30 della legge 220/2012 definisce i contributi per le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria nonché per le innovazioni come crediti prededucibili in caso di
procedura concorsuale. Da tale specifica qualificazione deriva che, in caso di fallimento del condomino e di conseguente liquidazione dell’attivo, per tali specifici crediti si avrà diritto di essere soddisfatti prima degli altri creditori.
Infine, l’articolo 31 della legge novella l’articolo 23 del codice di procedura civile in tema di individuazione del giudice competente a conoscere delle controversie tra condomini e condominio. La legge codifica un principio già emerso in giurisprudenza e ampiamente condiviso, facendo chiarezza anche di limitate opinioni difformi.
L'articolo 14 introduce novità in materia di deliberazioni dell’assemblea, intervenendo sull'art. 1136 c.c. per prevedere nuove regole di costituzione e validità delle deliberazioni, abbassando i quorum costitutivi e deliberativi.
In particolare, esso prevede la validità della costituzione dell’assemblea in prima convocazione, fermo restando i 2/3 dei millesimi, ove sia presente la maggioranza dei condomini - ovvero degli aventi diritto (laddove precedentemente servivano i 2/3 dei condomini). L'assemblea in seconda convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di un terzo dei partecipanti al condominio e un terzo dei millesimi. Inoltre, le deliberazioni dell’assemblea in seconda convocazione sono valide se ottengono un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti (anziché un terzodei partecipanti al condominio); rimane ferma la necessità che i voti favorevoli alla delibera costituiscano un terzo dei millesimi.
Non viene modificato il secondo comma dell'articolo 1136, che stabilisce generalmente la validità delle deliberazioni approvate con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Tale maggioranza è sempre richiesta, ai sensi del quarto comma del nuovo articolo 1136, per deliberazioni concernenti:
Le deliberazioni relative ad innovazioni incidenti sulle cose comuni (art. 1120, primo comma e art. 1122-bis, terzo comma, quest'ultimo relativo all’installazione
di impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili) sono adottate con maggioranza qualificata: maggioranza degli intervenuti e 2/3 dei millesimi.
Infine viene confermata la norma secondo la quale l'assemblea, per deliberare regolarmente, deve aver regolarmente convocato tutti gli aventi diritto.
L’articolo 15 sostituisce l’articolo 1137 c.c., in materia di impugnazione delle deliberazioni dell’assembleari. Coerentemente con la giurisprudenza, il nuovo articolo 1137 attribuisce la legittimazione ad impugnare le delibere assembleari, oltre che al condomino dissenziente e all’assente, anche all’astenuto. La disposizione chiarisce inoltre che il ricorso è volto all’annullamento della delibera assembleare. La disposizione inoltre precisa che l'istanza per ottenere la sospensione proposta prima dell'inizio della causa di merito non sospende né interrompe il termine per la proposizione dell'impugnazione della deliberazione.
L'articolo 17 reca novella all’art. 2659, primo comma. Si stabilisce – per la nota di trascrizione - che chi domanda la trascrizione di un atto tra vivi deve presentare al conservatore dei registri immobiliari, insieme con la copia del titolo, una nota in doppio originale, nella quale devono essere indicati, per i condominii, anche l’eventuale loro dominazione, ubicazione e codice fiscale.
L’articolo 20 novella l’art. 66 delle disposizioni di attuazione del codice civile, in ordine alle modalità di convocazione dell’assemblea di condominio. La riforma introduce le seguenti novità:
L'articolo 21 della legge 220/2012 sostituisce l’articolo 67 delle disposizioni di attuazione del codice civile, relativo alle modalità di partecipazione all’assemblea condominiale. In particolare, la disposizione:
La riforma disciplina inoltre l’assemblea per la gestione delle parti comuni a più edifici o a più condomini: in questi casi - se in totale i condomini interessati sono più di 60 – occorre che il singolo condominio designi il proprio rappresentante all’assemblea convocata per la gestione delle parti comuni e per la nomina dell’amministratore. In mancanza, all’individuazione del rappresentante provvederà l’autorità giudiziaria. Il rappresentante del condominio – che agisce in base all’istituto del mandato (art. 1703 e ss. del codice civile) - riferirà all’amministratore di ciascun condominio gli esiti dell’assemblea. Infine, la disposizione disciplina anche la partecipazione all'assemblea ed il riparto delle spese tra proprietario dell'immobile e usufruttuario.
Gli articoli 27, 28, e 29 della legge hanno finalità di coordinamento della normativa vigente con le modifiche apportate dalla riforma in ordine alle maggioranze richieste per le deliberazioni condominiali “di interesse sociale”. In particolare, in tutti gli articoli, il riferimento all’articolo 1136 del codice civile è sostanzialmente sostituito con quello all’articolo 1120, secondo comma del codice civile (come modificato dall'art. 5 della legge, v. sopra). Così facendo, il legislatore richiede in tutti i casi considerati una maggioranza relativa – ovvero degli intervenuti all’assemblea condominiale – purché rappresentativa di almeno un terzo del valore dell’edificio. Analiticamente, tale novella è apportata dall’articolo 27 all’art. 2 della legge 9 gennaio 1989, n. 13, in tema di eliminazione delle barriere architettoniche. L’articolo 28 novella invece l’articolo 26 della legge 9 gennaio 1991, n. 10 in tema di risparmio energetico. L’articolo 29 opera analogo intervento sull’articolo 2-bis, comma 13, del decreto-legge 23 gennaio 2001, n. 51, in tema di installazione di impianti televisivi.
L’articolo 16 della legge 220 del 2012 coordina il contenuto dell'articolo 1138 c.c. (sull’approvazione del regolamento di condominio) con le nuove disposizioni dell’articolo 1130 (sulle attribuzioni dell’amministratore). Sulla base di quanto previsto dall’art. 1130, comma 1, si prevede l’allegazione del regolamento di condominio nel registro dei verbali delle assemblee tenuto dall’amministratore.
Il regolamento di condominio non potrà contenere norme che proibiscano di detenere animali domestici [5].
L’articolo 24 interviene sull’art. 70 delle disposizioni di attuazione, in tema di sanzioni pecuniarie per la violazione del regolamento di condominio. In particolare la disposizione aggiorna la sanzione prevista, portandola da 0,052 euro (pari a 100 lire) a 200 euro. La novella prevede inoltre una sanzione più elevata in caso di recidiva (fino a 800 euro).
Il Parlamento ha approvato la legge 27 gennaio 2012, n. 3, con la quale ha disciplinato una nuova tipologia di concordato per comporre le crisi di liquidità del singolo debitore, al quale non si possono applicare le ordinarie procedure concorsuali. Su tale disciplina è poi intervenuto il decreto-legge 179 del 2012 che ha modificato alcuni aspetti della procedura e ne ha esteso l'applicazione al sovraindebitamento del consumatore.
L’iter legislativo che ha condotto all’approvazione della legge n. 3 del 2012 è iniziato al Senato nel settembre 2008 con l’esame in Commissione giustizia dell’AS 307, presentato dal Senatore Centaro. Approvato da quel ramo del Parlamento nell’aprile 2009, il provvedimento è giunto all’esame della Camera (AC. 2364) dove la Commissione giustizia l’ha approvato in sede legislativa il 26 ottobre 2011, apportando però modificazioni che hanno determinato la necessità di un ulteriore esame al Senato (AS 307-B).
Nelle more della definitiva approvazione del testo, il Governo Monti ha ritenuto di dover accelerare l’introduzione dell’innovativo procedimento per la risoluzione delle crisi da sovraindebitamento, emanando il decreto-legge n. 212 del 2011, il cui testo riproduceva sostanzialmente le disposizioni già approvate dalla Camera.
Il testo originario del decreto-legge 212/2011 aveva un contenuto duplice:
La consapevolezza dello stato ormai avanzato dell’iter dell’AS 307-B ha indotto il Senato – chiamato ad esaminare il disegno di legge di conversione del decreto-legge in prima lettura – ad anteporre alla conversione l’approvazione del disegno di legge di iniziativa parlamentare. Ed ecco che è stata velocemente approvata e pubblicata nella G.U. del 30 gennaio 2012 la legge n. 3 del 2012, destinata ad entrare in vigore il 29 febbraio 2012.
Con la legge pubblicata, ma non ancora entrata in vigore (a causa di una voluta lunga vacatio legis), la Commissione Giustizia del Senato ed il Governo hanno ritenuto di poter utilizzare l’iter di conversione del decreto-legge per correggere alcuni aspetti della legge 3/2012. Ciò spiega le ampie modifiche che il Senato aveva apportato al testo originario del decreto-legge, giunte all’esame della Camera con l’A.C. 4933.
Il capo I del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 212, nel testo approvato dal Senato, disciplinava il sovraindebitamento del solo consumatore.
Il sovraindebitamento viene definito come la situazione di predurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. Questi può proporre, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi, un piano per la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, che indichi le scadenze e le modalità di pagamento dei creditori. La proposta di piano è depositata presso il tribunale. Ad essa sono allegati l'inventario dei beni del debitore e una relazione particolareggiata dell'apposito organismo di composizione della crisi. Il piano viene omologato dal tribunale, che può nominare un liquidatore, e per tre anni i creditori con causa o titolo anteriori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali. Ad iniziativa dei medesimi creditori non possono essere disposti sequestri conservativi, né acquistati diritti di prelazione sul patrimonio del debitore che ha presentato la proposta di piano. Durante il periodo di tre anni le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano. In alternativa al piano, il consumatore, quando versi in una situazione di sovraindebitamento ed abbia già fatto ricorso, nei precedenti 5 anni, alla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, può chiedere la liquidazione di tutti suoi beni e dei crediti fondati su prova scritta. Spetta al giudice valutare a dichiarare aperta la procedura di liquidazione e nominare un liquidatore. I creditori presentano quindi domanda di partecipazione alla liquidazione, con cui è congelata per 3 anni ogni azione sul patrimonio del debitore – che è sottoposto a inventario - da parte dei creditori aventi titolo o causa anteriore. Al termine dei due procedimenti si ha l’esdebitazione, che libera il consumatore sovraindebitato dai debiti residui nei confronti dei creditori per titolo e causa anteriore all’apertura della procedura che l’ha interessato. Sono previste sanzioni di carattere penale a carico del consumatore, dei componenti dell’organismo di composizione, del liquidatore nominato dal giudice e del gestore della liquidazione.
Il testo del disegno di legge di conversione trasmesso dal Senato introduceva poi un nuovo Capo I-bis, volto a modificare la legge n. 3 del 2012, con riguardo alle crisi da sovraindebitamento in generale, la cui disciplina veniva adeguata alle innovazioni introdotte con specifico riguardo al consumatore, di cui era riprodotta buona parte dei contenuti. La Commissione giustizia della Camera, chiamata ad esaminare le complesse novelle alla legge sul sovraindebitamento nei tempi ristretti della conversione di un decreto legge ha preferito eliminare dal decreto-legge tutti gli interventi sulla materia (come si evince dal resoconto della Commissione del 7 febbraio 2012), invitando il Governo a provvedere eventualmente presentando un apposito disegno di legge.
Il decreto-legge 212/2011 è stato così convertito dalla legge 10/2012, che ne ha anche modificato il titolo in "Disposizioni urgenti per l'efficienza della giustizia civile". Ciò che residua infatti, dopo il procedimento di conversione, sono solo 5 articoli del decreto-legge (dall’articolo 13 al 17). Il testo approvato interviene solo su alcuni ambiti specifici quali: l’innalzamento del valore soglia, portato da 516,46 a 1.100 euro, entro cui le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause davanti al giudice di pace; la fissazione nelle cause davanti al giudice di pace di un limite per le spese di giudizio, pari al valore della domanda; la disciplina dell’inventario nel procedimento di apertura delle successioni; l’abrogazione della disposizione recata dalla legge di stabilità per il 2012, relativa alle misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente davanti alla Corte di cassazione e alle corti di appello; la proroga al 31 dicembre 2012 di alcuni termini relativi agli incarichi della magistratura onoraria; modifiche alla disciplina dei collegi sindacali nelle società di capitali.
E' dunque entrato in vigore il testo della legge 3/2012, senza modifiche mentre contestualmente il Governo presentava alla Camera il disegno di legge A.C. 5117.
La legge n. 3 del 2012 che reca disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento. Come si evince dal titolo, la legge interviene su due fronti: da un lato, modifica la disciplina vigente sull’usura e l’estorsione, al fine di superare i problemi emersi nell'applicazione delle leggi n. 108 del 1996 e n. 44 del 1999 (v. Contrasto dell'usura); dall’altro, in una più generale prospettiva preventiva, introduce una nuova tipologia di concordato per comporre le crisi di liquidità di debitori, ai quali non si applicano le ordinarie procedure concorsuali.
L'istituto della composizione delle crisi da sovraindebitamento nasce per far fronte a “una situazione di perdurante squilibrio economico fra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte" che determina la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. La crisi da sovraindebitamento può colpire tanto le famiglie quanto i lavoratori autonomi e gli imprenditori, purchè questi ultimi non siano soggetti alle procedure fallimentari (da ultimo, il DL 179/2012 ha esteso la procedura anche ai consumatori). Si tratta, in sostanza, della mancanza, protratta nel tempo, di risorse economiche per far fronte agli impegni assunti, una situazione analoga a quella che può determinare il fallimento dell'imprenditore commerciale.
Il provvedimento delinea una sorta di procedura concorsuale, modellata sull’istituto del concordato fallimentare, applicabile a soggetti diversi dagli imprenditori commerciali, allo scopo, indicato nella relazione illustrativa, “di evitare inutili collassi economici con la frequente impossibilità di soddisfacimento dei creditori ma, soprattutto, con il ricorso al mercato dell’usura e, quindi, al crimine organizzato”.
Più in dettaglio, la legge contempla lo strumento dell’accordo con i creditori, su proposta del debitore, sulla base di un piano di ristrutturazione dei debiti che assicuri il regolare pagamento dei creditori estranei. Rispetto a questi ultimi, il piano può anche prevedere una moratoria dei pagamenti (con esclusione dei crediti impignorabili) sempre che il piano risulti idoneo ad assicurare il pagamento alla scadenza del nuovo termine e l'esecuzione del piano venga affidata ad un liquidatore nominato dal giudice.
Viene definito il procedimento finalizzato all’omologazione da parte del giudice dell’accordo, che presuppone l’accettazione da parte dei creditori che rappresentino almeno il 70 per cento dei crediti (ora, a seguito del DL 179/2012, il 60 per cento) e prevede il coinvolgimento degli “organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento”.
Questi ultimi, costituiti ad hoc da enti pubblici e iscritti in apposito registro, svolgono in generale attività di assistenza al debitore finalizzate al superamento della crisi di liquidità, di soluzione delle eventuali difficoltà insorte nell’esecuzione dell’accordo e di vigilanza sull’esatto adempimento dello stesso.
In particolare, il disegno di legge introduce un ulteriore procedimento per la composizione delle crisi da sovraindebitamento del consumatore, definito come il «debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni prevalentemente per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta». Egli potrà - con l'ausilio degli organismi di composizione della crisi - proporre al giudice un piano di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti. L'omologazione del piano da parte del giudice sarà fondata su un giudizio di meritevolezza della condotta del debitore (basato sulla ragionevolezza della prospettiva di adempimento delle obbligazioni) e sulla sua mancanza di colpa nella determinazione del sovraindebitamento. In caso di contestazioni da parte dei creditori, il giudice procederà all'omologazione soltanto se riterrà che il singolo credito possa essere meglio soddisfatto dal piano rispetto a quanto non sarebbe in caso di liquidazione del patrimonio del debitore.
Quanto al procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento del debitore, attualmente disciplinato dalla legge n. 3/2012, il disegno di legge riduce al 60% (in luogo dell'attuale 70%) la soglia prevista per il raggiungimento dell'accordo tra debitore non consumatore e creditori.
Inoltre, il disegno di legge detta una serie di disposizioni comuni ad entrambi i procedimenti incidendo sul contenuto del piano (sia esso prospettato dal debitore in prospettiva di un accordo, sia invece formulato dal consumatore), prevedendo la possibilità di un pagamento anche non integrale dei creditori privilegiati (con l'esclusione di determinati crediti tributari e previdenziali, dei quali è possibile la sola dilazione di pagamento). Per quanto riguarda invece la posizione dei creditori rimasti estranei all'accordo proposto dal debitore, il disegno di legge ritiene che siano sufficientemente tutelati dalla valutazione - dell'organismo di composizione della crisi e poi del tribunale - sulla convenienza dell'accordo di ristrutturazione rispetto alla liquidazione dei beni del debitore.
La proposta del Governo introduce poi la possibilità di una procedura alternativa, di liquidazione di tutti i beni del debitore, anche se consumatore e subordina al verificarsi di determinate condizioni e a uno specifico giudizio del tribunale l'effetto di esdebitazione per i crediti non soddisfatti.
L'articolo 18 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito dalla legge 221/2012, ha riformato il Capo II della legge 3/2012, sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento, nel senso già auspicato dal Governo con il disegno di legge A.C. 5117. Le novelle si applicano ai procedimenti instaurati a partire dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione (ovvero a partire dal 18 gennaio 2013).
In estrema sintesi, la disposizione introduce un ulteriore procedimento per la composizione delle crisi da sovraindebitamento del consumatore, definito come il «debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta». Egli potrà - con l'ausilio degli organismi di composizione della crisi - proporre al giudice un piano di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti.
L'omologazione del piano da parte del giudice sarà fondata su un giudizio di meritevolezza della condotta del debitore (basato sulla ragionevolezza della prospettiva di adempimento delle obbligazioni) e sulla sua mancanza di colpa nella determinazione del sovraindebitamento. In caso di contestazioni da parte dei creditori, il giudice procederà all'omologazione soltanto se riterrà che il singolo credito possa essere meglio soddisfatto dal piano rispetto a quanto non sarebbe in caso di liquidazione del patrimonio del debitore.
Quanto al procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento del debitore, attualmente disciplinato dalla legge n. 3/2012, il decreto-legge riduce al 60% (in luogo del precedente 70%) la soglia prevista per il raggiungimento dell'accordo tra debitore non consumatore e creditori.
Inoltre, il decreto-legge detta una serie di disposizioni comuni ad entrambi i procedimenti incidendo sul contenuto del piano (sia esso prospettato dal debitore in prospettiva di un accordo, sia invece formulato dal consumatore), prevedendo la possibilità di un pagamento anche non integrale dei creditori privilegiati (con l'esclusione di determinati crediti tributari e previdenziali, dei quali è possibile la sola dilazione di pagamento).
Per quanto riguarda invece la posizione dei creditori rimasti estranei all'accordo proposto dal debitore, il provvedimento ritiene che siano sufficientemente tutelati dalla valutazione - dell'organismo di composizione della crisi e poi del tribunale - sulla convenienza dell'accordo di ristrutturazione rispetto alla liquidazione dei beni del debitore.
L’articolo 18 introduce poi la possibilità di una procedura alternativa, di liquidazione di tutti i beni del debitore, anche se consumatore, e subordina al verificarsi di determinate condizioni e a uno specifico giudizio del tribunale l'effetto di esdebitazione per i crediti non soddisfatti.
Per il quadro normativo vigente in tema di composizione delle crisi da sovraindebitamento si veda DL 179/2012, art. 18 - Le modifiche alla composizione delle crisi da sovraindebitamento.
L’articolo 18 del DL 179/2012, convertito dalla legge 221/2012, riforma complessivamente il Capo II della legge 27 gennaio 2012, n. 3, sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento, nel senso già auspicato dal Governo con il disegno di legge AC 5117; le novelle si applicano ai procedimenti instaurati a partire dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione (ovvero a partire dal 18 gennaio 2013).
Il comma 1 dell’articolo 18 novella in più punti il capo II della legge n. 3 del 2012. In particolare, le lettere a), b), c), h), n), o), s) e t) intervengono sulla struttura del testo normativo, con la relativa scansione in capi, sezioni e paragrafi, dando al capo II la seguente fisionomia:
Capo II, Procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio
Le lettere d), e), f) e g) dell'articolo 18, comma 1, novellano le disposizioni generali del capo relativo al sovraindebitamento.
A seguito delle modifiche:
Quanto ai presupposti di ammissibilità della procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento, l’articolo 7 della legge 3/2012 stabilisce che l’accordo (o il piano) è proposto dal debitore (o dal consumatore) con l'ausilio di organismi di composizione della crisi (v. infra) e deve assicurare il regolare pagamento dei titolari di crediti impignorabili, ai sensi dell'articolo 545 c.p.c. e delle altre disposizioni contenute in leggi speciali. L’accordo (o il piano):
La proposta di accordo (o il piano) è inammissibile quando il debitore (o il consumatore):
Con il nuovo comma 2-bis dell’art. 7 della legge è introdotta una deroga per l’imprenditore agricolo che – nonostante la fallibilità – potrà ugualmente accedere anche alla composizione delle crisi da sovraindebitamento.
L’imprenditore agricolo, ai sensi dell’art. 2135 del codice civile, è «colui che esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento di animali e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura».
L’imprenditore agricolo non è soggetto a fallimento in quanto questa procedura, come disposto dall’art. 1 della legge fallimentare, è riservata agli imprenditori commerciali. Tale esenzione dal fallimento è stata tuttavia limitata dalla progressiva dilatazione della nozione di imprenditore agricolo a seguito della modifica dell’art. 2135 c.c. (soprattutto ad opera del d. lgs n. 228/2001), che ha finito per eliminare, o comunque attenuare fortemente, il confine, mai del tutto certo, tra le categorie dell’imprenditore agricolo e dell’imprenditore commerciale. A tale nuova situazione si è adeguata la giurisprudenza (v. da ultimo, Cass. 10/12/2010, n. 24995), che in presenza di specifici parametri ha ritenuto fallibile l’impresa agricola.
In questo quadro, è intervenuto più recentemente l’art. 23, comma 43, del D.L. n. 98 del 2011, prevedendo - in attesa di una revisione complessiva della disciplina dell'imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia – un possibile accesso degli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza alle procedure di cui agli articoli 182-bis e 182-ter della Legge fallimentare.
Il decreto-legge consente dunque all’imprenditore agricolo – che già può accedere alle procedure di fallimento, nonché all’accordo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 182-bis della legge fallimentare) e alla transazione fiscale (ex art. 182-ter della legge fallimentare) – di utilizzare anche la procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento.
Il contenuto dell’accordo o del piano del consumatore sono definiti dall’articolo 8 della legge, anch’esso modificato dal decreto-legge.
L’accordo (o il piano) dovrà essere formulato in modo da consentire la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti mediante «qualsiasi forma», eventualmente anche attraverso la cessione di crediti futuri. Se i beni e i redditi del debitore non sono tali da garantire tale risultato, egli potrà ricorrere ad uno o più garanti, che dovranno sottoscrivere a loro volta la proposta di accordo e consentire il conferimento, anche parziale, di redditi o beni sufficienti per l'attuabilità dell'accordo medesimo. Nella proposta di accordo il debitore potrà impegnarsi a non indebitarsi ulteriormente mediante credito al consumo, utilizzo di carte di credito, sottoscrizione di strumenti creditizi e finanziari. La disposizione prevede inoltre la possibilità di un moratoria di un anno dall'omologazione dell'accordo o piano per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, «salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione».
Il testo previgente del comma 4 prevedeva la possibilità di una moratoria fino ad un anno per il pagamento dei creditori estranei qualora il piano fosse risultato idoneo ad assicurare il pagamento entro il nuovo termine e la moratoria suddetta non riguardasse il pagamento dei titolari di crediti impignorabili.
L’articolo 9 della legge 3/2012 disciplina il deposito della proposta presso il tribunale del luogo in cui ha la residenza, o la sede, il debitore ovvero presso il tribunale del luogo dove ha la residenza il consumatore. In particolare tanto la proposta di accordo quanto la proposta di piano dovranno altresì essere presentati entro tre giorni dal deposito in tribunale – a cura dell’organismo di composizione della crisi – all’agente della riscossione (Equitalia s.p.a.) ed agli uffici fiscali (Agenzia delle entrate), nonché ai competenti enti locali. La disposizione precisa che la proposta dovrà contenere la ricostruzione della posizione fiscale del debitore e l’indicazione di eventuali contenziosi pendenti (comma 1). Alla proposta dovranno essere allegati (comma 2):
Se il debitore svolge un’attività d’impresa, dovrà depositare anche le scritture contabili degli ultimi tre esercizi (comma 3). Il consumatore dovrà invece allegare una relazione particolareggiata dell'organismo di composizione della crisi, contenente: l'indicazione delle cause dell'indebitamento e del grado di diligenza impiegato dal consumatore nell'assumere le obbligazioni; l'esposizione delle ragioni dell'incapacità del debitore di adempiere le obbligazioni assunte; il resoconto sulla solvibilità del consumatore negli ultimi 5 anni; l'indicazione della eventuale esistenza di atti del debitore impugnati dai creditori; il giudizio sulla completezza e attendibilità della documentazione depositata dal consumatore, nonché sulla probabile convenienza (per i creditori) del piano rispetto all’alternativa liquidatoria.
L’articolo 9 prevede che il giudice possa concedere al massimo ulteriori 15 giorni per apportare modifiche e integrazioni alla documentazione (comma 3-ter) e stabilisce la sospensione degli interessi legali al momento del deposito della proposta del debitore o del piano del consumatore, a meno che i crediti non siano garantiti da ipoteca, pegno o privilegio, salvo quanto previsto dagli articoli 2749, 2788 e 2855, commi secondo e terzo, del codice civile.
L'articolo 2749 c.c. stabilisce l'estensione del privilegio alle spese ordinarie per l'intervento nel processo di esecuzione e agli interessi dovuti per l'anno in corso - e per l'anno precedente - alla data del pignoramento. L'articolo 2788 c.c. detta le norme in materia di prelazione per il credito degli interessi, stabilendo che questa ha luogo anche per gli interessi dell'anno in corso alla data del pignoramento o, in mancanza di questo, alla data della notificazione del precetto nonché per gli interessi successivamente maturati, nei limiti della misura legale, fino alla data della vendita. Infine, l'articolo 2855 c.c. reca disposizioni in materia di estensione degli effetti dell'iscrizione.
La lettera h) inserisce il paragrafo 2 all’interno della sezione dedicata alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. Tale paragrafo viene rubricato Accordo di composizione della crisi e attiene alla procedura dedicata al debitore (non consumatore). A seguito dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla lettere i), l) ed m) dell’art. 18 del decreto-legge, la disciplina dell’accordo risulta la seguente.
L’articolo 10 stabilisce che il giudice - previa verifica dei presupposti di ammissibilità e dell'adempimento delle formalità connesse al deposito - fissa con decreto l'udienza e comunica ai creditori la proposta di accordo unitamente al decreto.
La comunicazione deve avvenire almeno 30 giorni prima del termine previsto per il consenso alla proposta stabilito dall'articolo 11, comma 1. Tale termine è di dieci giorni prima dell'udienza; tra il giorno del deposito della documentazione e l'udienza non devono trascorrere più di 60 giorni.
Il decreto del giudice stabilisce idonee forme di pubblicità della proposta e del decreto stesso. In particolare,
Inoltre il giudice, mediante il decreto, dovrà stabilire che fino al momento dell'omologazione non è possibili iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, disposti sequestri conservativi, acquistati diritti di prelazione sul patrimonio del debitore. Tale sospensione non opera nei confronti di titolari di crediti impignorabili. L'accertamento di iniziative o atti in frode ai creditori implica, da parte del giudice, la revoca e l'eventuale cancellazione della trascrizione del decreto che fissa l'udienza. Gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione non autorizzati dal giudice sono inefficaci. Sino al momento dell'omologazione del provvedimento le prescrizioni rimarranno sospese e le decadenze non si verificheranno.
L’articolo 11 della legge 3/2012 fissa nel 60% la percentuale di creditori favorevoli necessaria per l'omologazione dell'accordo (nel testo previgente occorreva il 70%).
L'abbassamento della percentuale deve essere comunque messo in relazione al criterio - anche questo inserito dal decreto-legge - secondo il quale non vengono computati ai fini della percentuale stessa quei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca nei confronti dei quali la proposta prevede l'integrale pagamento. Essi non possono pronunciarsi sulla proposta a meno che non rinuncino al diritto di prelazione. Inoltre non possono pronunciarsi sulla proposta, né sono computati ai fini della determinazione della maggioranza, il coniuge del debitore, parenti e affini fino al quarto grado, i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno al momento della proposta.
Ulteriori modifiche riguardano l'inserimento di un termine temporale specifico entro cui i creditori devono fare pervenire all'organismo di composizione della crisi il proprio consenso, qui determinato in dieci giorni prima dell'udienza fissata dal giudice. In mancanza di tale comunicazione si ritiene che i creditori abbiano prestato il proprio consenso alla proposta (silenzio-assenso).
Una volta raggiunto l’accordo, questo perde efficacia nei seguenti casi:
Il giudice provvede d'ufficio; il suo decreto è reclamabile ai sensi dell'articolo 739 del codice di procedura civile (ovvero con procedimento in camera di consiglio) innanzi al tribunale. Del collegio non può far parte il giudice che ha pronunciato il decreto.
L’articolo 12 stabilisce che, ove l'accordo sia stato raggiunto, l’organismo di composizione della crisi trasmette ai creditori una relazione sui consensi espressi e sul raggiungimento delle percentuali fissate dall'articolo 11, nonché il testo dell'accordo. Entro dieci giorni al ricevimento della relazione i creditori possono contestare l'accordo; decorso tale termine, l'organismo di composizione invia al giudice la stessa relazione, allegando l'attestazione definitiva sulla fattibilità del piano e le contestazioni ricevute.
Se la prescritta maggioranza è raggiunta - e se le modalità dell’accordo sono ritenute idonee a soddisfare i crediti impignorabili - il giudice procede all'omologazione dell'accordo e ne dispone la pubblicazione. Se il creditore escluso o che non ha aderito, nonché qualsiasi altro interessato, contesta la convenienza dell'accordo, si può procedere all'omologazione qualora il giudice ritenga che il relativo credito possa essere soddisfatto in misura non inferiore all'alternativa liquidatoria prevista dalla sezione seconda. L’omologazione deve intervenire entro sei mesi dalla presentazione della proposta.
L'accordo omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblicità di cui all'articolo 10 (v. sopra). I creditori con causa o titolo posteriore possono aggredire solo i beni del debitore che non costituiscono oggetto del piano. Tali effetti vengono meno in caso di risoluzione o mancato pagamento di crediti impignorabili e, secondo la modifica, di mancato pagamento di tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, di ritenute operate e non versate. L'accertamento del mancato pagamento è richiesta al tribunale che si pronuncia in camera di consiglio.
La sentenza di fallimento a carico del debitore risolve l'accordo; il decreto-legge ha aggiunto che atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione dell'accordo non sono soggetti ad azione revocatoria ai sensi dell'articolo 67 della legge fallimentare. A seguito della sentenza di fallimento, i crediti derivanti da finanziamenti effettuati in esecuzione o in funzione dell’accordo omologato sono prededucibili.
La lettera n) inserisce un apposito paragrafo dedicato al "piano del consumatore", costituito dai due nuovi articoli 12-bis e 12-ter che disciplinano, rispettivamente, il procedimento e gli effetti dell'omologazione del piano del consumatore.
Il procedimento per l'omologazione del piano del consumatore è disciplinato dall'articolo 12-bis della legge 3/2012, in base al quale il giudice, ove il piano del consumatore rispetti i requisiti previsti dagli articoli da 7 a 9, fissa con decreto l'udienza, dopo aver verificato l'assenza di atti in frode ai creditori, disponendo la comunicazione a tutti i creditori della proposta e del decreto almeno 30 giorni prima dell'udienza stessa (non devono trascorrere più di 60 giorni tra il deposito della documentazione ai sensi dell'articolo 9 e il giorno dell'udienza: tale disposizione riprende, quindi, quella prevista per la proposta di accordo di composizione della crisi adattandola al caso del piano del consumatore). Qualora l'esistenza di procedimenti di esecuzione forzata possa pregiudicare la fattibilità del piano, il giudice con lo stesso decreto può disporre la loro sospensione fino al momento dell'omologazione.
Il giudice omologa il piano del consumatore sulla base di criteri già previsti dall'articolo 10; inoltre il giudice deve verificare:
I commi 4-7 del nuovo articolo per lo più adattano al caso del piano del consumatore quanto previsto ai precedenti articoli in tema di contestazione della convenienza del piano, omologazione in caso di contestazione, applicabilità degli articolo 737 c.p.c., termini temporali per l'omologazione (entro sei mesi dalla proposta), equiparabilità dell'omologazione al pignoramento.
Quanto agli effetti dell'omologazione, l'articolo 12-ter prevede, tra l'altro, la non esecutività di azioni esecutive individuali da parte di creditori con causa o titolo anteriori, l'obbligatorietà del piano per i creditori anteriori al momento della pubblicità del piano, le cause di cessazione degli effetti del piano, la richiesta al tribunale dell'accertamento del mancato pagamento. Si segnala che ai sensi del comma 3, l'omologazione del piano non pregiudica i diritti dei creditori nei confronti dei coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso, disposizione questa corrispondente a quella contenuta nel comma 3 dell'articolo 11.
La lettera o) inserisce nel capo II della legge il paragrafo 4, composto dagli articoli da 13 a 14-bis, che disciplina in modo unitario l’esecuzione e la cessazione degli effetti tanto dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento del debitore, quanto del piano del consumatore. A seguito dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalle lettere p), q) ed r), la disciplina del paragrafo è la seguente.
L’articolo 13 disciplina l’esecuzione dell’accordo o del piano del consumatore, sostanzialmente estendendo quanto già previsto per l’accordo del debitore anche al piano.
Nell’ipotesi in cui sia necessario procedere alla cessione di beni già sottoposti a pignoramento - ovvero se l'accordo o il piano del consumatore lo prevedono - l’organismo di composizione della crisi deve procedere alla nomina di un liquidatore. Spetta all'organo di composizione della crisi risolvere le difficoltà che eventualmente si verifichino nel corso dell'esecuzione dell'accordo e vigilare sull'adempimento di quanto in esso previsto. Il giudice investito della procedura decide in ordine alle contestazioni relative alla violazione di diritti soggettivi, nonché sulla sostituzione del liquidatore per giustificati motivi. Il giudice autorizza lo svincolo delle somme, la cancellazione della trascrizione del pignoramento, delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione e di ogni altro vincolo, sentito il liquidatore e previa verifica di conformità dell'atto dispositivo all'accordo e al piano. I pagamenti e gli atti dispositivi dei beni posti in essere in violazione dell’accordo o del piano sono nulli. La disposizione aggiunge:
Quando l’esecuzione dell’accordo o del piano del consumatore diviene impossibile per ragioni non imputabili al debitore o al consumatore, è consentita una modifica della proposta. Si applicano i paragrafi 2 e 3 della Sezione I.
La cessazione degli effetti dei due procedimenti è disciplinata da due distinti articoli, l’art. 14, relativo al solo accordo di composizione della crisi per il debitore, e l’art. 14-bis, relativo alla cessazione degli effetti del piano del consumatore.
L’articolo 14 è relativo all’impugnazione e risoluzione dell'accordo di composizione della crisi per il debitore.
L’ipotesi di annullamento dell’accordo è disciplinata dal comma 1: il tribunale agisce in tal senso, su istanza di qualsiasi creditore, nell’ipotesi in cui sia stato dolosamente "o con colpa grave", aumentato o diminuito il passivo, ovvero sia stata sottratta o dissimulata una parte rilevante dell'attivo, ovvero siano simulate dolosamente attività inesistenti. Non è ammessa alcuna altra azione di annullamento. Il ricorso per l'annullamento deve proporsi nel termine di sei mesi dalla scoperta e, in ogni caso, non oltre due anni dall'ultimo adempimento previsto.
La risoluzione dell’accordo può aversi invece, previo ricorso di un creditore al tribunale, nelle seguenti ipotesi:
Il ricorso per la risoluzione deve essere presentato entro sei mesi dalla scoperta o entro il termine perentorio di un anno dalla data dell’ultimo adempimento previsto dall’accordo. La risoluzione non pregiudica comunque diritti acquisiti da terzi in buona fede.
L’articolo 14-bis disciplina la revoca e cessazione degli effetti dell'omologazione del piano del consumatore.
La disposizione chiarisce che i presupposti per la revoca dell’omologazione sono quelli indicati dall’articolo 11, comma 5, della legge n. 3/2012 (v. sopra). A ciò si aggiunge che, in presenza di ulteriori ipotesi tassative, il tribunale, su istanza di ogni creditore ed in contraddittorio con il consumatore, deve dichiarare la cessazione degli effetti dell’omologazione del piano. Ciò avviene in questi casi:
La dichiarazione di cessazione degli effetti dell’omologazione del piano non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede e il procedimento è camerale, regolato dagli articoli 737 e seguenti c.p.c. «in quanto compatibili», affidato al tribunale.
La lettera s) introduce nel Capo II della legge 3/2012 la Sezione II, composta dagli articoli da 14-ter a 14-terdecies, dedicata alla liquidazione del patrimonio. Si tratta del procedimento da attivare in alternativa alla composizione della crisi da sovraindebitamento attraverso l’accordo o il piano e che dunque si può applicare tanto al debitore quanto al consumatore.
L’articolo 14-ter, rubricato (Liquidazione dei beni), stabilisce che il debitore, quando versa in una situazione di sovraindebitamento, non è soggetto ad una procedura concorsuale diversa da quella disciplinata dalla legge n. 3/2012 e non ha già fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, alla procedura di composizione della crisi, può formulare una proposta alternativa avanzando domanda di liquidazione di tutti i propri beni (comma 1). La domanda è proposta al tribunale del luogo di residenza o sede principale del debitore e deve essere corredata dalla documentazione già prevista per la proposta di accordo dall’art. 9, commi 2 e 3, nonché di una relazione particolareggiata dell’organismo di composizione della crisi che specifichi lo stato patrimoniale, le cause dell’indebitamento, le ragioni dell’incapacità per il debitore di far fronte alle obbligazioni, l’esistenza di eventuali atti già impugnati dai debitori giungendo infine a formulare un giudizio sulla completezza e l’attendibilità della documentazione fornita a corredo della domanda. L’organismo di composizione della crisi cui viene richiesta la relazione deve tempestivamente (entro 3 giorni) darne notizia all’agente della riscossione (Equitalia s.p.a.) ed agli uffici fiscali (Agenzia delle entrate), nonché ai competenti enti locali (comma 4).
In base al comma 5 la domanda è inammissibile se la documentazione fornita non consente di ricostruire compiutamente la situazione patrimoniale del debitore. Il comma 6 indica, infine, una serie di cespiti che non sono compresi nella liquidazione, ovvero:
Si ricorda che l’articolo 170 del codice civile dispone che «L'esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia».
Il comma 7 stabilisce la sospensione del corso degli interessi convenzionali o legali al deposito della domanda, fino alla chiusura della liquidazione. Tale disposizione ricalca quella del comma aggiuntivo 3-quater dell'articolo 9.
L’articolo 14-quater prevede la possibilità di convertire la procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento in quella di liquidazione del patrimonio del debitore (anche consumatore). La conversione è disposta con decreto del giudice (v. infra art. 14-quinquies) su istanza del debitore o di uno dei creditori, nei seguenti casi:
L’articolo 14-quinquies prevede l’apertura della liquidazione, che deve essere dichiarata dal giudice con decreto, dopo aver verificato l’assenza di atti in frode al creditore nell’ultimo quinquennio (comma 1). Nello stesso atto il giudice:
Il decreto deve intendersi equiparato all'atto di pignoramento (comma 3). Il comma 4 stabilisce che la procedura rimane aperta fino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e, in ogni caso, nei quattro anni successivi al deposito della domanda ai fini di quanto previsto dall'articolo 14-undecies (dedicato a "Beni e crediti sopravvenuti, vedi oltre).
L’articolo 14-sexies delinea i compiti del liquidatore in sede di inventario dei beni. Dopo la verifica dell’elenco dei creditori e dell’attendibilità della documentazione ricevuta, il liquidatore dovrà formare l'inventario dei beni e dei crediti da liquidare e comunicare ai creditori e ai titolari dei diritti reali e personali, mobiliari e immobiliari, sui beni mobili o immobili in possesso o nella disponibilità del debitore:
L’articolo 14-septies riguarda il contenuto della domanda di partecipazione alla liquidazione, proposta a mezzo ricorso. La disposizione richiede che nell’atto siano indicati (comma 1):
Il ricorso deve contenere anche i documenti che giustificano i diritti fatti valere (comma 2).
L’articolo 14-octies stabilisce che, ricevute le domande, il liquidatore redige un progetto di stato passivo, lo comunica agli interessati assegnandogli un termine di 15 giorni per le eventuali osservazioni (comma 1). Nei successivi 15 giorni, in assenza di osservazioni, lo stato passivo è approvato e comunicato alle parti (comma 2); in caso contrario, se il liquidatore ritiene le osservazioni fondate, predispone un nuovo progetto di passivo, ricomunicandolo alle parti (comma 3). Se vengono mosse al liquidatore contestazioni insuperabili, questi trasmette gli atti al giudice che provvede alla definitiva formazione del passivo. Si applicano le disposizioni sul rito in camera di consiglio.
L’articolo 14-novies dispone che il liquidatore debba, entro 30 giorni dalla formazione dell’inventario, elaborare un programma di liquidazione, comunicarlo a debitore, creditori e giudice. Il programma deve assicurare la ragionevole durata della procedura (comma 1). Il liquidatore ha l’amministrazione dei beni liquidabili e la liquidazione avverrà in conformità al programma e senza ulteriori autorizzazioni (potrà però il giudice, in presenza di gravi motivi, disporne la sospensione con decreto motivato). In particolare, la disposizione specifica che (comma 2):
Si tratta della disposizione del RD 267/1942 che – contenendo una formulazione identica a quella del decreto-legge – rinvia poi ad un regolamento del Ministro della giustizia, da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, l’individuazione dei requisiti di onorabilità e professionalità dei soggetti specializzati e degli operatori esperti dei quali il curatore può avvalersi per la fase liquidatoria, nonché dei mezzi di pubblicità e trasparenza delle operazioni di vendita.
Spetta al giudice disporre lo svincolo delle somme, ordinare la cancellazione di ogni vincolo sui beni (trascrizione di pignoramenti, diritti d prelazione, ecc.) e la cessazione di ogni pubblicità disposta (comma 3). Il comma 4 richiama il regolamento del Ministro della giustizia di cui all'articolo 107, sesto comma (rectius: settimo) della legge fallimentare con riferimento ai requisiti di onorabilità e professionalità dei soggetti specializzati e degli operatori esperti dei quali il curatore può avvalersi, nonché i mezzi di pubblicità e trasparenza delle operazioni di vendita. Il comma 5 stabilisce che il decreto di chiusura del procedimento debba essere emanato al completamento del programma e comunque non prima di quattro anni dal deposito della domanda.
L’articolo 14-decies dispone che il liquidatore possa esercitare ogni azione prevista dalla legge volta a rendere disponibili i beni componenti il patrimonio di liquidazione e comunque correlata con lo svolgimento dell'attività di amministrazione dei beni oggetto della liquidazione. Il liquidatore può altresì promuovere le azioni volte al recupero dei crediti inseriti nella liquidazione.
L’articolo 14-undecies esclude dall’ambito della liquidazione i beni e i crediti sopravvenuti al deposito della domanda di liquidazione, mentre il successivo articolo 14-duodecies esclude dalla procedura i creditori con causa o titolo posteriore alla data di esecuzione della pubblicità della domanda di liquidazione.
L'articolo 14-terdecies disciplina l’esdebitazione.
Si ricorda che l’istituto è disciplinato in via generale dagli articoli da 142 a 145 della legge fallimentare (RD. n. 267 del 1942), in forza dei quali il fallito persona fisica viene ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti a determinate condizioni. L’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali (art. 142).
Il debitore sovraindebitato è liberato dai debiti residui nei confronti dei creditori non soddisfatti a condizione che (comma 1):
Sono poi indicate (comma 2) due cause di esclusione dell’esdebitazione:
a) nella procedura di liquidazione del patrimonio, il sovraindebitamento del debitore è imputabile ad un ricorso al debito colposo e sproporzionato rispetto alle capacità patrimoniali;
b) il debitore nei cinque anni precedenti o nel corso delle medesime procedure ha compiuto atti in frode, simulazioni o altri atti per favorire alcuni creditori a danno di altri.
Sono quindi indicate (comma 3) le ipotesi in cui non opera l’esdebitazione:
Dopo avere verificato le condizioni e la cause di esclusione, il giudice (comma 4) dichiara inesigibili nei confronti del debitore i crediti non soddisfatti integralmente. I creditori non soddisfatti integralmente possono proporre reclamo ai sensi dell’articolo 739 c.p.c. davanti al tribunale, in composizione collegiale (del quale non può fare parte il giudice che ha emesso il decreto).
Il provvedimento di esdebitazione è revocabile in ogni momento, su istanza dei creditori, se risulta che (comma 5):
Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti c.p.c. (disposizioni comuni sui procedimenti in camera di consiglio).
La lettera t) sostituisce gli articoli da 15 a 20 della legge n. 3 con due soli articoli (l’art. 15, sugli organismi di composizione delle crisi, e l’art. 16, contenente l’apparato sanzionatorio) inseriti nell’ambito di una nuova Sezione III dedicata alle Disposizioni comuni.
L’articolo 15 disciplina istituzione e funzioni degli organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento, inserendo in un’unica disposizione quanto originariamente previsto dagli articoli 15, 17 e 20 della legge.
Per quanto riguarda i soggetti che possono svolgere la funzione, si tratta esclusivamente di enti pubblici. L'iscrizione nel registro avviene di diritto, a semplice domanda, per gli organismi di mediazione costituiti presso le camere di commercio; il segretario sociale per informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari istituito ai sensi dell'articolo 22, comma 4, lettera a) della legge 328/2000; gli ordini territoriali degli avvocati; gli ordini territoriali dei commercialisti ed esperti contabili; gli ordini territoriali dei notai (comma 1).
In ordine alla regolamentazione degli organismi, il decreto-legge rinvia a un regolamento del Ministro della giustizia (aggiungendo però il concerto con i ministri dello sviluppo economico e dell’economia), che dovrà essere emanato entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge.
Quanto alle funzioni, l’organismo di composizione della crisi deve fornire un ausilio al debitore e al consumatore in stato di sovraindebitamento nella proposizione ai creditori dell'accordo di ristrutturazione o del piano. In particolare, oltre ai compiti indicati dagli articoli 11, 12 e 13 della legge n. 3/2012 (comunicare il piano ai creditori e ricevere il loro eventuale consenso; trasmettere al giudice la relazione al fine dell’omologazione; intervenire in sede di esecuzione, proponendo il liquidatore e vigilando sull’esatto adempimento del piano), l’organismo deve:
Per lo svolgimento delle funzioni l’organismo può – previa autorizzazione del giudice e nel rispetto del Codice della privacy – accedere ad una serie di rilevanti banche dati pubbliche (anagrafe tributaria; sistemi di informazioni creditizie; centrali rischi; archivio centrale informatizzato delle frodi nel settore del credito al consumo e dei pagamenti dilazionati o differiti). I dati acquisiti potranno essere conservati esclusivamente per i tempi richiesti dalla procedura dovendo essere poi distrutti.
L’articolo 20 della legge contiene una disposizione transitoria in base alla quale, in attesa che vengano costituiti gli organismi di composizione della crisi, i compiti e le funzioni a essi attribuiti possono essere svolti da un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 28 della legge fallimentare e quindi avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili ovvero da un notaio. Il professionista è nominato dal presidente del tribunale o dal giudice da lui delegato. Con decreto del ministro della giustizia sono stabilite le tariffe applicabili. La disposizione transitoria può essere applicata fintanto che il Ministro della giustizia non stabilisce, con proprio decreto, la data a decorrere dalla quale le funzioni degli organismi di composizione possono essere svolte esclusivamente dagli enti pubblici indicati all’art. 15.
L’articolo 16 disciplina le sanzioni, con formulazione analoga a quella dell'originario articolo 19. La disposizione, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro il debitore che
Per i componenti dell’organismo di composizione della crisi è prevista la reclusione da uno a tre anni e la multa da 1.000 a 50.000 euro nei seguenti casi:
Rispetto alla disciplina originaria il decreto-legge, inoltre:
L'articolo 18, comma 2-bis del decreto legge 179/2012 novella l’art. 217-bis della legge fallimentare (R.d. 267/1942), relativo alle esenzioni dai reati di bancarotta.
La nuova disposizione specifica che i delitti di bancarotta non ricorrono in caso di pagamenti e operazioni compiuti, tra l’altro, in esecuzione di un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento.
Una delle maggiori novità della legge 69/2009 è costituita dalla previsione (articolo 51) di un nuovo procedimento speciale, il procedimento sommario di cognizione, introdotto nel codice con un nuovo Capo III-bis (composto dagli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater), tra i procedimenti sommari del Titolo I del Libro quarto.
L’introduzione del nuovo rito, con evidenti finalità di concentrazione e snellezza, è collegata alla delega al Governo per la semplificazione e riduzione dei procedimenti civili (articolo 54 della legge), attuata dal Decreto legislativo 150/2011 - Semplificazione dei riti civili. In tale ambito, il procedimento sommario di cognizione è il modello di rito per i procedimenti, anche camerali, in cui prevalgano “caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa”.
Il procedimento sommario di cognizione è disciplinato dagli articoli 702-bis, 702-ter e 702-quater del codice di procedura civile ed è destinato a trovare applicazione per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica permettendo di arrivare ad un rapido soddisfacimento della domanda grazie all’emanazione di un provvedimento immediatamente esecutivo su cui, in mancanza di appello, si forma il giudicato.
Analiticamente, l'articolo 702-bis del codice di procedura civile stabilisce che il rito sommario di cognizione può essere utilizzato per tutte le cause di competenza del tribunale in composizione monocratica (ossia nella maggioranza dei casi), senza alcuna limitazione di valore o di materia.
Si ricorda che, ai sensi dell'art. 50-bis c.p.c., il tribunale giudica sempre in composizione monocratica, salvo specifiche controversie ove giudica in composizione collegiale (tre membri):
Il tribunale giudica altresì in composizione collegiale nei procedimenti in camera di consiglio disciplinati dagli artt. 737 e ss. c.p.c., salvo che sia altrimenti disposto.
Il procedimento si instaura mediante un ricorso, dal contenuto analogo a quello della citazione (cfr. art. 163, numeri 1-6, c.p.c.); il ricorso deve contenere anche l'avvertimento al convenuto che la costituzione oltre i termini implica le decadenze di cui all'art. 167 c.p.c. In particolare, il ricorso deve essere sottoscritto dalla parte, se essa sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore che indica il proprio codice fiscale (ex art. 125 c.p.c.). Il ricorso deve contenere:
Formato il fascicolo d’ufficio e designato il giudice competente, quest’ultimo fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione delle parti ed il termine per la costituzione in giudizio del convenuto (non oltre 10 giorni prima della data dell’udienza). Il decreto deve quindi essere notificato al convenuto, insieme al ricorso, almeno 30 giorni prima del termine previsto per la sua costituzione.
Il convenuto deve costituirsi con comparsa di risposta, nella quale deve proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni. A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d'ufficio. Anche l’eventuale dichiarazione di chiamata in causa del terzo dovrà necessariamente essere contenuta nella comparsa.
Se fino a tale fase, a parte la contrazione dei termini, non vi sono sostanziali differenze rispetto al rito ordinario di cognizione, il vero snodo del nuovo rito si ha in fase di prima comparizione (art. 702-ter c.p.c.).
Nell’udienza di comparizione delle parti, il giudice valuta preliminarmente la propria competenza. In particolare, se ritiene di essere incompetente, il giudice lo dichiara con ordinanza. Se invece rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’articolo 702-bis – e dunque tra quelle per le quali sussiste la competenza del giudice unico di tribunale, il giudice, con ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile. Nello stesso modo provvede sulla domanda riconvenzionale.
Il giudice deve poi decidere se la causa consente una istruzione non sommaria, deliberando eventualmente con ordinanza non impugnabile il passaggio al rito ordinario e la fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.
Se il giudice ritiene che la controversia possa essere trattata col rito sommario, dopo aver sentito le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, alla prima udienza, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande. Tale istruttoria (art. 702-ter, quinto comma) è sostanzialmente identica a quella prevista dall'art. 669-sexies, primo comma, c.p.c. per i procedimenti cautelari, con l'unica attenuazione costituita dal fatto che, mentre in fase cautelare il giudice procede esclusivamente agli atti di istruzione indispensabili, in fase sommaria di cognizione può procedere agli atti di istruzione rilevanti. L’ordinanza è provvisoriamente esecutiva e costituisce immediatamente titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione; con essa, il giudice si pronuncia, altresì, sulle spese di lite.
Ai sensi dell'articolo 702-quater c.p.c., se non é appellata entro 30 giorni, l’ordinanza produce gli effetti di cosa giudicata (art. 2909 c.c.).
Nell’eventuale appello - a seguito della modifica apportata dall'art. 54 del decreto-legge 83/2012, sul filtro in appello - saranno ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti solo se ritenuti indispensabili ai fini della decisione, ovvero se la parte dimostri di non aver potuto proporli prima per causa ad essa non imputabile.
Una novità rispetto all’appello ordinario è costituita dalla possibilità, per il presidente del collegio di corte d’appello, di delegare ad uno dei componenti l’assunzione dei mezzi di prova.
Per i profili di diritto sostanziale si ricorda che è all’esame delle Istituzioni europee la proposta di regolamento relativa a un diritto comune europeo della vendita (COM(2011)635). Tale iniziativa è volta ad armonizzare il diritto dei contratti degli Stati membri, non già imponendo modifiche ai diritti nazionali in vigore ma creando nell'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro un secondo regime di diritto dei contratti nell'ambito dell'ordinamento nazionale di ciascuno Stato membro, identico in tutta l'Unione. L’applicazione di tale corpus normativo è prevista su base facoltativa e per accordo espresso delle parti, e riguarda i contratti transfrontalieri di vendita di beni, fornitura di contenuto digitale e di servizi connessi (come l’installazione e la riparazione), tra imprese e consumatori, oppure tra imprese in cui almeno una delle parti sia una PMI (resta salva la possibilità per gli ordinamenti nazionali di estendere il campo di applicazione della disciplina sotto il profilo soggettivo).
Quanto alla circolazione transfrontaliera delle decisioni di giustizia civile le Istituzioni europee proseguono nella direzione dell’attuazione del principio del reciproco riconoscimento, contemperato dall’adozione di garanzie processuali minime e dall’introduzione di misure di armonizzazione degli ordinamenti nazionali circa le norme che risolvono i conflitti tra leggi. In tal senso, numerose le iniziative legislative che, in attuazione di tale profilo del Programma di Stoccolma, sono dirette ad eliminare le procedure intermedie che filtrano l’efficacia immediata delle decisioni adottate nei fori nazionali. Si segnala, al riguardo, il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, che prevedendo - tra l’altro - l’abolizione della procedura di exequatur introduce un meccanismo di esecuzione immediata nello Stato membro richiesto delle decisioni emesse in altri Stati membro.
Si ricorda che sulla proposta originaria della Commissione europea il 1 marzo 2011 la Commissione XIV (Politiche dell’Unione europea) ha adottato un documento di conformità al principio di sussidiarietà.
Nella stessa direzione, si ricorda l’adozione del Regolamento relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo. È attualmente all’esame delle Istituzioni europee una proposta di regolamento (COM(2011)445) volta ad istituire una nuova e autonoma procedura europea per ottenere il sequestro conservativo su conti bancari al fine di facilitare il recupero transfrontaliero dei crediti in materia civile e commerciale. Mediante tale disciplina si intende: consentire ai creditori di ottenere ordinanze di sequestro conservativo alle stesse condizioni, indipendentemente dal Paese in cui ha sede l’autorità giudiziaria competente; fare in modo che i creditori possano recuperare le informazioni sulla localizzazione dei conti bancari dei debitori; ridurre i costi e i ritardi a carico dei creditori che vogliano ottenere e far eseguire un’ordinanza di sequestro conservativo su conti bancari nei casi transfrontalieri. Si ricorda inoltre la proposta di regolamento (COM(2012)744) che modifica l’attuale normativa UE in materia di procedure d’insolvenza a carattere transfrontaliero. Tale proposta mira a: ampliare il campo di applicazione della normativa vigente al fine di includervi le procedure nazionali per la ristrutturazione delle società in fase di preinsolvenza, quelle che mantengono in carica la dirigenza delle società in stato di difficoltà economica (cosiddette procedure ibride), quelle di remissione del debito, ed infine le altre procedure concernenti le persone fisiche che non corrispondono all’attuale definizione di procedura di insolvenza prevista dalla vigente disciplina; chiarire le norme in materia di competenza giurisdizionale; razionalizzare l’attuale quadro giuridico europeo (che prevede accanto all’apertura in uno Stato membro di una procedura di insolvenza principale la possibilità di avviare analoghe procedure in Stati membri ove vi insistano dipendenze del medesimo soggetto in stato di insolvenza) ai fini di un più efficace coordinamento tra le diverse procedure di insolvenza avviate in Stati membri diversi a carico dello stesso soggetto; istituire l’obbligo per gli Stati membri di pubblicare le decisioni giudiziarie relative a casi di insolvenza transfrontaliera su registri elettronici accessibili al pubblico e reciprocamente interconnessi, nonché introdurre moduli standard per l’insinuazione dei crediti, in modo tale da garantire l’effettiva facoltà di accesso alle procedure di insolvenza ai creditori risiedenti in Stati membri diversi.
Per quanto riguarda il diritto di famiglia con implicazioni transnazionali, merita segnalare che l’Italia ha aderito, insieme ad altri 14 Stati membri UE (Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna e Ungheria) ad una cooperazione rafforzata, nel settore del diritto applicabile in materia di divorzio e di separazione legale (decisione del Consiglio 2010/405/CE ).
Dal 21 giugno 2012 si applica pertanto all’Italia il regolamento attuativo della cooperazione (regolamento (UE) n. 1259/2010, cd. regolamento ROMA III), che contiene norme dettagliate sulla scelta della diritto applicabile ai divorzi internazionali. La maggiore innovazione riguarda la facoltà che il regolamento riconosce alle coppie internazionali di convenire in anticipo la legge applicabile al loro caso. I coniugi, in particolare, potranno scegliere tra:
Il regolamento stabilisce altresì criteri comuni a disposizione delle autorità giurisdizionali per determinare la legge nazionale applicabile in mancanza di accordo delle parti. Si segnala inoltre che è attualmente all’esame delle istituzioni dell’Unione europea un pacchetto legislativo comprendente due proposte di regolamento rispettivamente relative alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di regime patrimoniale tra coniugi, (COM(2011)126) e di effetti patrimoniali delle unioni registrate (COM(2011)127).
Il pacchetto di proposte persegue i seguenti comuni obiettivi: garantire ai coniugi e ai partner la possibilità di scegliere, per quanto opportuno, le norme e le disposizioni giuridiche applicabili alla loro situazione patrimoniale; evitare procedimenti paralleli e l’applicazione di leggi sostanziali diverse ai beni delle coppie sposate o non sposate, prevenendo la “corsa in tribunale” ad opera della parte più attiva (forum shopping); facilitare il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni riguardanti i regimi patrimoniali internazionali delle coppie sposate e non sposate.
Nel settore penale i principali provvedimenti approvati dal Parlamento nella XVI legislatura sono riconducibili al contrasto alla violenza nei confronti delle donne (si pensi all'introduzione del delitto di atti persecutori nonché alla novella di alcuni istituti processuali volti a tutelare maggiormente le vittime dei delitti di violenza sessuale) e dei bambini (si pensi, soprattutto, alle misure occasionate dalla ratifica della Convenzione di Lanzarote contro lo sfruttamento sessuale dei minori). Un importante intervento del legislatore ha inoltre riguardato la repressione del fenomeno della corruzione.
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha in ripetute occasioni affrontato il tema della violenza nei confronti delle donne, approvando riforme legislative e specifici atti di indirizzo al Governo.
Quanto agli interventi riformtori, si segnala la conversione del decreto-legge 11/2009 che, anticipando il contenuto di un disegno di legge (A.C. 1440) - già approvato con ampia maggioranza dalla Camera - ha introdotto nel codice penale l'art. 612-bis, relativo al delitto di atti persecutori (c.d. stalking). Per la sussistenza della nuova fattispecie delittuosa (procedibile a querela della persona offesa, salvo talune ipotesi specificamente indicate) si richiede la ripetitività della condotta, nonché l’idoneità dei comportamento a provocare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero a ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona alla medesima legata da relazione affettiva ovvero a costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni. Tra gli interventi ulteriori recati dal provvedimento, oltre a talune misure di carattere sociale, si segnalano la facoltà per la persona offesa di avanzare al questore richiesta di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta e alcune modifiche al codice di procedura penale (in particolare, l'estensione ai procedimenti per il nuovo reato di talune specifiche regole in materia probatoria e l'introduzione di una nuova misura coercitiva, consistente nel divieto di avvicinamento dell’imputato ai luoghi frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa).
Il decreto-legge 11/2009 ha affrontato anche - seppur in modo non organico - il tema della violenza sessuale prevedendo - oltre ad alcune misure processuali (v. infra) un'aggravante speciale dell’omicidio, quando il fatto è commesso in occasione della commissione del delitto di violenza sessuale, di atti sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo, nonché da parte dell’autore del delitto di atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa (novella all’art. 576 c.p.).
Quanto agli atti di indirizzo, nelle sedute del 24 e 25 gennaio 2011 l'Assemblea della Camera ha approvato alcune mozioni (1-00512; 1-00534; 1-00538) che, nell'ambito di una riflessione più generale sulla condizione femminile e sulla crescente attenzione al tema a livello internazionale ed europeo, impegnano il Governo ad adottare iniziative per contrastare la violenza nei confronti delle donne.
Il Parlamento ha approvato la legge 172/2012, di ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote). Il provvedimento, in particolare, introduce i nuovi reati di adescamento di minorenni, anche attraverso Internet ("grooming") e di istigazione e apologia di pratiche di pedofilia e di pedopornografia. Il testo approvato dal Parlamento, in estrema sintesi prevede, oltre alla ratifica della Convenzione e all'individuazione nel Ministero dell’interno dell’autorità nazionale responsabile in relazione alla registrazione e conservazione dei dati nazionali sui condannati per reati sessuali (artt. 1-3), disposizioni di adeguamento dell'ordinamento interno, tra le quali si segnalano rilevanti novelle al codice penale. In particolare, il provvedimento:
Si ricorda, inoltre, che la legge 41/2009 ha istituito la Giornata nazionale contro la pedofilia e la pedopornografia. In occasione di tale Giornata, fissata al 5 maggio, potranno essere organizzate iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla lotta contro gli abusi sui minori e gli enti territoriali potranno promuovere apposite iniziative in particolare nelle scuole.
La legge 190/2012 ha un duplice contenuto: da una parte detta una serie di disposizioni di carattere organizzativo volte a prevenire e reprimere la corruzione e l'illegalità nella pubblica amministrazione e, dall'altra, introduce nel codice penale importanti modifiche alla disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione. In particolare, per quanto riguarda le novelle al diritto penale sostanziale, la legge oltre ad un complessivo aumento delle pene, dispone che:
Misure di diritto penale sono contenute in una serie di provvedimenti adottati ad inizio legislatura in materia di sicurezza pubblica: si tratta di disposizioni volte a fronteggiare i fenomeni di violenza negli stadi ma anche i crimini che destano allarme sociale. Un analisi a parte merita il contrasto alla Immigrazione così come l'inasprimento delle fattispecie connesse alla Il trasporto e la sicurezza stradali.
Infine, a seguito della ratifica di convenzioni internazionali (per le quali si rinvia a Cooperazione giudiziaria), il legislatore nella XVI legislatura ha adeguato il diritto penale nei seguenti settori:
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha approvato alcuni provvedimenti volti a riformare particolari istituti del processo penale.
Nella prima parte della legislatura in Parlamento sono state a lungo discusse le modalità più idonee per consentire, da un lato, alla magistratura penale di svolgere la propria funzione di accertamento e repressione dei reati e, dall'altro, per garantire il diritto delle più alte cariche dello Stato di svolgere le proprie funzioni. In particolare, il Parlamento ha dapprima approvato la legge 124/2008 (c.d. “lodo Alfano”), che disponeva la sospensione dei processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato, del Presidente della Camera e del Presidente del Consiglio dei ministri); sul punto è però intervenuta con la sentenza n. 262 del 2009 la Corte costituzionale, che ha dichiarato la legge incostituzionale per violazione del combinato disposto degli artt. 3 (principio di uguaglianza) e 138 (procedimento di revisione costituzionale) della Costituzione. Il Senato ha dunque avviato, senza concludere, l'esame di una proposta di legge costituzionale (A.S. 2180) volta ad attribuire al Parlamento la facoltà di deliberare la sospensione dei processi penali per reati extra-funzionali nei confronti del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. Nel frattempo, peraltro, il Parlamento ha approvato la legge 51/2010, relativa all'istituto del legittimo impedimento a comparire nelle udienze penali, in qualità di imputato, del Presidente del Consiglio e dei Ministri, individuando le attività che danno luogo ad impedimento nell'esercizio delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo. Sul provvedimento è dapprima intervenuta una sentenza di parziale incostituzionalità (Corte costituzionale, sentenza n. 23 del 2011) e poi un referendum abrogativo (12 e 13 giugno 2011).
Il decreto-legge 10/2010, convertito con voto unanime, ha esteso la competenza per materia delle Corti d'assise, mantenendo però ai tribunali, anche per i procedimenti in corso, la competenza per i delitti di associazione di tipo mafioso, anche nelle ipotesi aggravate. Senza questo intervento normativo le fattispecie aggravate sarebbero ricadute nella competenza della Corte d'assise, in forza della legge 251/2005, come affermato ad inizio 2010 dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 4964. La stessa relazione illustrativa dell'originario disegno di legge attribuiva al provvedimento la finalità di superare il rischio concreto che dibattimenti importanti e complessi potessero essere annullati a seguito della sopravvenuta competenza della Corte d´assise.
Modifiche del codice di procedura penale sono state previste anche dalla legge 172/2012, di ratifica della Convenzione di Lanzarote. Oltre a novellare il codice penale (v. sopra), infatti, la legge contiene una serie di disposizioni che, in relazione ai delitti di sfruttamento sessuale dei minori, novellano le norme sulle indagini preliminari, sull'arresto obbligatorio in flagranza, sull'assunzione delle prove e sul patteggiamento. In particolare, il provvedimento interviene sulla competenza sulle indagini relative ad alcuni delitti di sfruttamento sessuale dei minori, assegnando alla procura distrettuale la competenza ad indagare su tutte le fattispecie di pornografia minorile, di detenzione di materiale pedopornografico e di adescamento di minorenni.
Modifiche a singoli istituti del processo penale sono state apportate dal decreto-legge 11/2009, che ha introdotto Il delitto di atti persecutori (c.d. stalking). Il provvedimento è in particolare intervenuto:
La legge 85/2009, di adesione al Trattato di Prum, reca inoltre una nuova disciplina dello svolgimento nel corso di un procedimento penale di accertamenti tecnici coattivi (ovvero prelievi ed altri accertamenti medici) mentre la legge 12/2012 novella la disciplina della confisca dei beni utilizzati per compiere reati informatici o telematici, prevedendone la destinazione agli organi di polizia, per finalità di contrasto della criminalità informatica, ovvero ad altri organi dello Stato per finalità di giustizia.
La Camera dei deputati ha a lungo dibattuto intorno all'introduzione nel diritto penale di misure di specifico contrasto delle discriminazioni fondate su motivi di omofobia e transfobia, senza giungere ad approvare un testo.
Presso la Commissione giustizia della Camera è stato avviato anche l'esame di due proposte di legge in materia di lotta alla pedofilia (A.C. 665 e A.C. 1155). La prima, in particolare, intendeva introdurre nel codice penale una nuova fattispecie di reato denominata "pedofilia e pedopornografia culturale" che si configura qualora sia ravvisabile una condotta volta, anche al solo fine culturale, a legittimare pubblicamente o diffondere giudizi legittimanti o istigare a commettere o effettuare apologia dei reati di sfruttamento sessuale dei minori. Tali iniziative sono state poi "scavalcate" dalla ratifica della Convenzione di Lanzarote (v. sopra). Si sottolinea inoltre come un disegno di legge del Governo, che nell’ambito di più generali misure in materia di prostituzione interveniva anche in materia penale (e segnatamente, di prostituzione minorile e rimpatrio assistito) abbia avviato l'iter parlamentare al Senato A.S. 1079), senza concludere la fase referente. Sempre al Senato non ha concluso l'iter un testo unificato di numerosi progetti di legge, già approvato dalla Camera, che prevedeva un organico intervento in materia di violenza sessuale (A.S. 1675). Il provvedimento - come descritto dal Dossier del Servizio studi - prevedeva tra l’altro l’inasprimento delle sanzioni, ulteriori circostanze aggravanti, l’introduzione del reato di molestie sessuali, la possibilità di intervento in giudizio degli enti locali, dei centri antiviolenza e della Presidenza del Consiglio (nel caso di delitti in danno di minori o nell’ambito familiare), misure per l’informazione e l'assistenza sociale delle vittime di violenza, iniziative scolastiche contro la violenza e la discriminazione sessuale.
Infine, si segnala che:
Numerosi sono i provvedimenti volti a riformare il complesso o solo singoli aspetti della procedura penale che, pur avendo a lungo occupato l'agenda di Commissioni e Assemblee parlamentari nella XVI legislatura, non hanno concluso l'iter.
In primo luogo, per l'ampiezza dell'intervento proposto e per il dibattito che ha suscitato, merita di essere segnalato il disegno di legge del Governo (A.S. 1440), di riforma del processo penale, che ha avviato l'iter al Senato. I profili principali della riforma - illustrati nel Dossier del Servizio studi del Senato - erano i seguenti: la ridefinizione dei poteri del P.M. e della polizia giudiziaria; il rafforzamento delle prerogative della difesa; l’ampliamento della possibilità di ricusazione del giudice; la ridefinizione della competenza della Corte d'assise; la possibile avocazione delle indagini preliminari per mancato esercizio dell'azione penale; l’introduzione della “dichiarazione di impugnazione” che deve essere formulata, a pena di decadenza, dalla parte che intende proporre impugnazione; l’introduzione di corsi obbligatori per il magistrato che aspira alla direzione dell’ufficio giudiziario. Sul disegno di legge aveva espresso un articolato parere anche il Consiglio superiore della magistratura nella sedura del 28 gennaio 2010.
Altrettanto controverso è stato il dibattito sull' A.C. 668-B che, frutto dell'approvazione alla Camera e di una quasi integrale riscrittura del testo ad opera del Senato, intendeva modificare il regime di ammissione della prova nel processo penale, intervenendo inoltre sul giudizio abbreviato e sull'accesso ai benefici penitenziari. In particolare, e rinviando al dossier del Servizio studi, il provvedimento recava modifiche al regime probatorio nel processo penale prevedendo:
Anche su questo provvedimento (giornalisticamente definito "processo lungo") si era pronunciato il Consiglio Superiore della Magistratura che, nella risoluzione sulle ricadute sul funzionamento del sistema giudiziario della disciplina proposta nel progetto di legge 668-B, approvata il 7 settembre 2011, sottolineava rilevanti criticità della nuova disciplina del regime probatorio nel processo penale sotto il profilo del principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), richiamando altresì le numerose condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. L'iter del provvedimento si è interrotto in Commissione Giustizia alla Camera nell'ottobre 2011.
Nello stesso mese si è interrotto anche l'esame di un altro provvedimento che aveva come ragione ispiratrice il necessario rispetto del principio della ragionevole durata del processo: A.S. 1880-B. Il provvedimento, nel testo approvato dalla Camera e arenatosi al Senato, individuava termini di fase per ciascun grado del giudizio penale, diversamente articolati in funzione della gravità del reato, e collegava al loro inutile decorso non - come originariamente previsto dal Senato - l'estinzione del processo (da cui il termine giornalistico processo breve), bensì una semplice comunicazione da parte del capo dell’ufficio giudiziario al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura.
Tra le riforme più a lungo discusse nel corso della legislatura va inoltre segnalato il provvedimento volto a riformare l'istituto delle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. In particolare, l'A.C. 1415 è stato approvato in prima lettura dalla Camera e poi, con modifiche, dal Senato; nuovamente posto all'esame dell'Assemblea della Camera nel luglio 2010, il provvedimento non ha concluso il proprio iter.
Aspetti più circoscritti della procedura penale erano oggetto delle proposte di legge:
Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, prima essenzialmente affidata al metodo intergovernativo, risulta attualmente pienamente integrata nel sistema dell’Unione. Ciò implica, che anche in questo settore, la Commissione europea ha acquisito il potere di iniziativa legislativa (seppure non esclusivo, permanendo il potere di iniziativa degli Stati membri) e il Parlamento europeo il ruolo di colegislatore insieme al Consiglio. In base alle pertinenti disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (artt. 82-89), tramite il programma di Stoccolma per lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia 2010-2014, il Consiglio europeo ha definito i seguenti obiettivi della cooperazione giudiziaria penale del quinquennio: adozione di misure che consolidino il principio di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie da parte degli Stati membri, adozione di norme minime comuni in materia di tutela dei diritti di imputati e indagati nell’ambito dei procedimenti penali di protezione delle vittime; ravvicinamento delle legislazioni nazionale per quanto riguarda le forme di reato particolarmente gravi e a dimensione transnazionale; rafforzamento della cooperazione tra Stati membri e agenzie UE, con particolare riferimento ad Europol, Eurojust e alla Rete giudiziaria europea.
In questo quadro, l’Unione europea ha recentemente adottato atti normativi di particolare rilievo, tra i quali si segnala, la direttiva 2011/99/UE, che istituisce un “ordine di protezione europeo” per la tutela delle vittime di reato, volto a permettere in tutto il territorio dell’UE l’applicazione di misure di protezione nei confronti di persone che già ne beneficino in uno Stato membro (la direttiva dovrà essere recepita entro l’11 gennaio 2015) nonché la direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (termine di recepimento: 16 novembre 2015).
Per quanto riguarda i reati gravi a carattere transnazionale, si segnalano la direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e la direttiva 2011/92/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile. Relativamente alla tutela dei diritti di imputati e indagati si segnala la direttiva 2012/13/UE sul diritto all’informazione nei procedimenti penali, che dovrà essere attuata negli ordinamenti nazionali entro il 2 giugno 2014.
Tra le iniziative legislative dell’Unione, attualmente all’esame delle istituzioni UE, risultano particolarmente rilevanti, per la loro capacità di incidere sulle fonti economiche del crimine transnazionale, la proposta di direttiva (COM(2012)85) in materia di congelamento e confisca dei proventi della criminalità in Europa e la proposta di direttiva, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, destinata a sostituire la vigente direttiva 2005/60/CE (cd. terza direttiva antiriciclaggio).
A miglioramento della cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati membri è invece dedicata la proposta di direttiva relativa all’istituzione di un ordine europeo di indagine penale (OEI).
Si segnala infine il recente avvio, in seno alle istituzioni UE, di una riflessione sull’impatto dell’istituzione di una Procura europea in attuazione dell’articolo 86 TFUE. L’articolo in questione stabilisce che, per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo una procedura legislativa speciale (unanimità previa approvazione del Parlamento europeo), possa istituire una Procura europea a partire da Eurojust. In base al Trattato, la Procura europea sarà competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio, eventualmente in collegamento con Europol, gli autori dei reati. Essa eserciterà l’azione penale dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri.
Il decreto-legge 10/2010, convertito con voto unanime, ha esteso la competenza per materia delle Corti d'assise, mantenendo però ai tribunali, anche per i procedimenti in corso, la competenza per i delitti di associazione di tipo mafioso, anche nelle ipotesi aggravate. Senza questo intervento normativo le fattispecie aggravate sarebbero ricadute nella competenza della Corte d'assise, in forza della legge 251/2005, come affermato ad inizio 2010 dalla Cassazione (sentenza n. 4964 del 2010).
La relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del decreto-legge (A.C. 3322) attribuiva al provvedimento la finalità di superare il rischio concreto che dibattimenti importanti e complessi potessero essere annullati a seguito della sopravvenuta competenza della Corte d´assise.
Per impedire questa conseguenza il decreto-legge 10/2010 novella l’articolo 5 del codice di procedura penale, in materia di competenza per materia della Corte d’assise e incide, conseguentemente, sulla competenza residuale del tribunale (art. 6 c.p.p.).
L’articolo 5 c.p.p., nel testo antecedente all’entrata in vigore del decreto-legge, attribuiva aIla competenza di tale giudice:
La competenza per materia del tribunale è individuata in via residuale: in base all’articolo 6 c.p.p. il tribunale è competente per i reati che non appartengono alla competenza della corte di assise o del giudice di pace (la cui competenza per materia è definita dall’articolo 4 del d.lgs. n. 274 del 2000).
A seguito dell'emanazione del decreto-legge è stata esclusa la competenza della Corte d’assise - da cui conseguentemente deriva la competenza del tribunale:
Il decreto-legge ha invece attribuito alla competenza della Corte d’assise i seguenti ulteriori delitti consumati o tentati:
L’articolo 1, comma 2, e l’articolo 2 del decreto-legge 10/2010 dettano due disposizioni transitorie, la prima di portata generale, la seconda specificamente riferita ai procedimenti in corso relativi al delitto di associazioni di tipo mafioso anche straniere disponendo:
La relazione illustrativa giustifica tale ultima disposizione in relazione al rischio concreto dell’annullamento di dibattimenti importanti e complessi incardinati presso i tribunali nonché della scadenza di termini di custodia cautelare a seguito della sentenza n. 4964 dell’8 febbraio 2010. Con tale sentenza, la Corte di Cassazione, risolvendo un conflitto negativo di competenza fra un tribunale e una corte di assise, ha affermato che l’aggravamento dei limiti edittali di pena operato dalla legge 251/2005 in relazione al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. ha determinato un diverso riparto di competenza tra Tribunale e Corte d´Assise. In particolare, l’aumento di pena per l’ipotesi aggravata di associazione armata nei confronti di promotori, direttori ed organizzatori di cui all’art. 416-bis, comma quarto, c.p., fissata dall´art. 1 della legge 251/2005, nella reclusione da dieci a ventiquattro anni, determina la sopravvenuta competenza della Corte d’assise, qualora la consumazione del reato associativo (che ha carattere permanente) si sia protratta oltre la data di entrata in vigore della legge 251/2005. La Cassazione ha aggiunto che le ipotesi (anche aggravate) di partecipazione all’associazione rimangono di competenza del tribunale, ma sussistendo una connessione tra procedimenti a carico di dei partecipi di rango primario e quelli nei confronti di partecipi di rango secondario, in base all’articolo 15 c.p.p., viene attratto nella competenza della Corte d’assise anche il procedimento per il delitto di partecipazione all’associazione mafiosa necessariamente connesso.
Nel corso della XVI legislatura Senato e Camera hanno a lungo esaminato una proposta di iniziativa parlamentare che introduceva misure contro la durata indeterminata dei processi (A.S. 1880). Approvato in prima lettura al Senato, il provvedimento - che prevedeva l'estinzione del processo penale a seguito dell'inutile decorso di "termini di fase" stabiliti per ciascun grado del giudizio (da qui il termine giornalistico "processo breve") - è stato ampiamente modificato dalla Camera, tornando all'esame del Senato dove, nell'ottobre 2011, l'iter si è interrotto.
Nel gennaio del 2010, dopo un esame particolarmente celere in Commissione, il Senato approva il disegno di legge di iniziativa parlamentare (Sen. Gasparri) recante misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi e lo trasmette alla Camera (A.C. 3137). Il provvedimento è dichiaratamente volto a dare attuazione all’art. 111 Cost. (che, al secondo comma, prevede che la legge assicuri la ragionevole durata del processo) e all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (che, al par. 1, enuncia il medesimo principio). In particolare, il provvedimento (rispetto al quale aveva sollevato incisive critiche il Consiglio superiore della Magistratura, nel parere del 14 dicembre 2009):
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Pena pecuniaria o pena detentiva inferiore nel massimo a 10 anni |
pena detentiva pari o superiore nel massimo a 10 anni di reclusione |
Reati previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.(*) |
Giudizio di I grado |
Tre anni |
Quattro anni |
Cinque anni |
Giudizio d’appello |
Due anni |
Due anni |
Tre anni |
Giudizio di Cassazione |
Un anno e sei mesi |
Un anno e sei mesi |
Due anni |
Gradi ulteriori (nel caso di annullamento con rinvio) |
Un anno |
Un anno |
Un anno e sei mesi |
(*) Con facoltà per il giudice di prorogare tali termini fino ad un terzo nei casi di particolare complessità del processo o di numero elevato di imputati.
Il dies a quo del termine per ciascuna fase del processo era individuato secondo il seguente schema:
Fase |
Dies a quo |
Primo grado |
Emissione del provvedimento con cui il P.M. ha esercitato l’azione penale formulando l’imputazione ai sensi dell’art. 405 c.p.p. |
Appello |
Pronuncia della sentenza di primo grado |
Cassazione |
Pronuncia della sentenza di appello |
Gradi ulteriori |
Sentenza con cui la Corte di cassazione ha annullato il provvedimento con rinvio. |
Il proposto art. 531-bis dettava ulteriori disposizioni che prevedevano: il limite temporale di tre mesi dal termine delle indagini preliminari entro il quale il P.M. doveva assumere le proprie determinazioni in ordine all’azione penale; il limite di tre mesi all’aumento dei termini nel caso di modifica dell'imputazione ai sensi degli artt. 516, 517 e 518 c.p.p.; i casi di sospensione del decorso dei termini; la ricorribilità per cassazione per violazione di legge nei confronti della sentenza di non luogo a procedere; la rinunciabilità della prescrizione processuale; l’applicabilità del principio del ne bis in idem alla sentenza irrevocabile di non luogo a procedere; disposizioni volte ad assicurare una rapida trattazione dell’eventuale azione trasferita in sede civile.
Il provvedimento stabiliva l’inapplicabilità del nuovo art. 531-bis ai processi in corso e precisava che i processi in corso in primo grado relativi ai reati commessi fino al 2 maggio 2006, puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva, inferiore nel massimo a dieci anni di reclusione, diversi da quelli rientranti nelle esclusioni previste dalla legge sull’indulto, dovessero estinguersi quando non è stato definito il giudizio di primo grado nei confronti dell’imputato e sono decorsi più di due anni (o due anni e tre mesi nel caso di nuove contestazioni) dal provvedimento con cui il P.M. ha esercitato l’azione penale.
Il provvedimento è stato trasmesso alla Camera nel gennaio 2010 per essere assegnato alla Commissione Giustizia che, sul principio della ragionevole durata del processo, contemplato dall'articolo 111 della Costituzione e dall'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ha condotto una specifica indagine conoscitiva, nell'ambito della quale ha svolto una serie di audizioni di rappresentanti della magistratura, dell’avvocatura, della Corte europea dei diritti dell’uomo, di professori universitari. L'attività conoscitiva si è concentrata in particolare sull'impatto del meccanismo di prescrizione processuale previsto dal testo approvato dal Senato e sulla norma transitoria.
In esito all'istruttoria svolta, la Commissione ha approvato una serie di modifiche al testo che sono state confermate dall'Assemblea della Camera nella seduta del 13 aprile 2011, comportando una nuova trasmissione dell'atto all'altro ramo del Parlamento (A.S.1880-B).
Il testo approvato dalla Camera conferma l'operatività dei "termini di fase" per ciascun grado del giudizio, diversamente articolati in funzione della gravità del reato (per i reati puniti con pena inferiore a dieci anni: tre anni per il primo grado; due anni per l'appello; un anno e sei mesi in fase di Cassazione; un anno per ogni ulteriore grado del processo nel caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione. Per i reati puniti con pena superiore: rispettivamente, quattro anni, due anni e un anno e sei mesi e un anno. Per reati di particolare allarme sociale, tra i quali quelli di mafia e terrorismo: cinque anni, tre anni, due anni e un anno e sei mesi). Tali termini possono essere prolungati con decreto del giudice procedente qualora necessario in ragione del numero degli imputati, dalla complessità dell'imputazione e degli accertamenti istruttori.
All'inutile decorso di tali termini, tuttavia, il testo della Camera ricollega non l'estinzione del processo, bensì una comunicazione da parte del capo dell’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che procede al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura. Ai fini dell'invio della comunicazione, il capo dell'ufficio giudiziario valuta la sufficienza delle dotazioni organiche complessivamente attribuite all'ufficio, nonché i carichi di lavoro gravanti sulla sezione, sul collegio o sul magistrato cui è assegnato il procedimento.
Il decreto-legge 11/2009, convertito dalla legge 38/2009, al fine di fornire una risposta più concreta nella lotta contro la violenza sulle donne, ha introdotto nel nostro ordinamento il reato di atti persecutori, detto anche stalking, inserendo nel codice penale l'art. 612-bis.
Un primo tentativo di inserire nel codice penale una fattispecie di reato volta a sanzionare i fenomeni di stalking è stato effettuato dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati nella XV legislatura. Il 15 gennaio 2008, infatti, la Commissione aveva approvato in sede referente un testo unificato delle proposte di legge A.C. 1249-ter ed abb., recante disposizioni volte a contrastare le molestie insistenti e le discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale (per i lavori parlamentari in XV legislatura si veda il dossierdel Servizio studi). L’esame del provvedimento non aveva avuto seguito per l’interruzione anticipata della legislatura.
Alla ripresa dei lavori parlamentari della XVI legislatura, la Commissione giustizia della Camera avvia da subito l’esame di una serie di proposte di legge di iniziativa parlamentare relative al tema delle molestie insistenti, cui si aggiungerà poi un apposito disegno di legge del Governo (A.C. 1440) che verrà adottato dalla commissione come testo base. Leggermente emendato in commissione, il testo governativo è stato quindi approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 29 gennaio 2009, registrando un’ampia convergenza da parte dei gruppi parlamentari.
L’iter del disegno di legge trasmesso al Senato (A.S. 1348), si è però interrotto per l’emanazione da parte del Governo del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori, con il quale sono state anticipate alcune delle disposizioni già approvate dalla Camera.
Il Capo II del decreto-legge 11/2009, non modificato in sede di conversione, è rubricato “Disposizioni in materia di atti persecutori” e introduce nell’ordinamento il delitto di “atti persecutori” e, conseguentemente, apporta modifiche al codice di procedura penale e detta disposizioni a sostegno delle vittime del reato. In sintesi, gli articoli da 7 a 12 del decreto-legge:
La nuova fattispecie penale è inserita nell’ambito dei delitti contro la libertà morale (è infatti collocato subito dopo il delitto di minaccia, previsto dall’art. 612 c.p.).
Per la sussistenza del delitto (procedibile a querela della persona offesa, salvo talune ipotesi specificamente indicate) si richiede la ripetitività della condotta, nonché l’idoneità dei comportamento a provocare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero a ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona alla medesima legata da relazione affettiva ovvero a costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni (primo comma).
I commi secondo e terzo del nuovo art. 612-bis c.p. prevedono alcune aggravanti:
La pena sarà peraltro aumentata anche il fatto è commesso da soggetto già ammonito dal questore (v. infra).
Fermo il principio della procedibilità del delitto a querela della persona offesa (comma quarto), da presentarsi entro sei mesi dal fatto, l’art. 612-bis prevede la procedibilità d’ufficio:
In considerazione della durata del procedimento penale, che potrebbe non essere compatibile con le finalità di tutela delle vittime degli atti persecutori, il decreto-legge (artt. 8 e 9) ha previsto strumenti di tutela che, da un lato, possono intervenire anticipatamente rispetto alla pronuncia di una sentenza e, dall'altro, potrebbero anche dissuadere lo stalker dal condurre a ulteriori conseguenze il proprio comportamento persecutorio. In particolare, l’articolo 8 ha introdotto una misura di prevenzione personale consistente nell’ammonimento del questore.
Al fine di apprestare una tutela nel periodo che intercorre tra il comportamento persecutorio e la presentazione della querela, infatti, la disposizione, anche allo scopo di dissuadere preventivamente il reo dal compimento di nuovi atti, introduce in particolare la possibilità per la persona offesa di esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza, avanzando al questore richiesta di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta dovrà essere trasmessa al questore senza ritardo.
Il questore dovrà assumere, se necessario, informazioni dagli organi investigativi e dovrà sentire le persone informate dei fatti. Ove ritenga fondata l'istanza, ammonirà oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge. Verrà redatto processo verbale, copia del quale sarà rilasciata al soggetto che ha richiesto l'ammonimento e al soggetto ammonito.
Il questore dovrà anche valutare l'eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni.
Il decreto-legge 11/2009 apporta anche una serie di modifiche al codice di procedura penale.
Fra queste, in particolare, si ricorda l’inserimento nel codice di rito dell’art. 282-ter, che introduce una nuova misura coercitiva personale, che può essere disposta nel corso del procedimento penale, consistente nel divieto di avvicinamento dell’imputato ai luoghi frequentati dalla persona offesa ovvero nell’obbligo di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.
Il divieto può essere disposto indipendentemente dalla misura dell'allontanamento dalla casa familiare, con l'intento di integrare e completare il quadro cautelare già delineato per i reati consumati in ambito familiare dal suddetto art. 282-bis c.p.p..
Ai sensi del nuovo art. 282-ter, il divieto può riguardare anche i luoghi frequentati da prossimi congiunti o da persone conviventi o comunque legate alla persona offesa da una relazione affettiva.
Si prevede inoltre che il divieto di avvicinamento possa accompagnarsi alla prescrizione di non comunicare con le predette persone, attraverso qualsiasi mezzo. Laddove l’avvicinamento sia inevitabile per ragioni lavorative o abitative il giudice detta apposite prescrizioni.
Mediante l’introduzione nel codice di procedura penale di un nuovo art. 282-quater sono infine prescritti specifici obblighi di comunicazione all’autorità di P.S. competente, dei provvedimenti sia di cui al nuovo art. 282-ter che all’art. 282-bis (allontanamento dalla casa familiare) ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni. Tali provvedimenti sono altresì comunicati alla parte offesa e ai servizi socioassistenziali del territorio.
L’articolo 9 del decreto legge non si limita a prevedere la misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ma novella anche altre disposizioni del codice di procedura penale. Analiticamente,
Gli articoli 11 e 12 del decreto legge nascono dal riconoscimento dell'esigenza di affiancare alla disciplina repressiva dei comportamenti persecutori forme di sostegno sociale e/o psicologico al soggetto che di tali comportamenti è vittima.
Peraltro, si ricorda che un coinvolgimento dei servizi socio-assistenziali è previsto anche dall'art. 9 del decreto legge, laddove, mediante l'inserimento nel codice di procedura penale di un nuovo art. 282-quater, dispone che a tali servizi debbano essere comunicati i provvedimenti che dispongono le misure cautelari coercitive dell'allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
In particolare, il decreto legge prevede che le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia del reato di atti persecutori debbano:
Si ricorda che, in sede di esame presso l’Assemblea della Camera dell’A.C. 1440 (cfr. seduta del 29 gennaio 2009), il Governo aveva accolto due ordini del giorno che lo impegnano, rispettivamente, "a potenziare i centri antiviolenza, indispensabili per un valido supporto psicologico alle vittime" (9/1440-A/7 nuova formulazione, Vietti e altri) e a "valutare la possibilità di prevedere politiche di potenziamento dei centri antiviolenza già operanti e di una loro diffusione più capillare sull'intero territorio nazionale, monitorandone costantemente l'operato e l'attività del personale preposto ad assistere le vittime delle violenze" (9/1440-A/8, Frassinetti).
Nel corso di tale seduta il Governo ha anche accolto, tra gli altri, un ordine del giorno che lo impegna "ad assumere tutte le iniziative di propria competenza, al fine di superare ogni difficoltà di ordine organizzatorio perché nelle questure per ricevere le denunce di stalking sia previsto, ove possibile, la presenza di personale qualificato, anche femminile, in possesso delle competenze necessarie per assolvere il difficile compito di fornire alle donne vittime di atti persecutori l'assistenza e il sostegno di cui hanno bisogno in un momento tristemente cruciale della loro esistenza" (9/1440-A/9 testo modificato nel corso della seduta, Lussana).
Il decreto-legge istituisce inoltre un numero verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori. Il numero verde è istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio e sarà attivo 24 ore su 24, per realizzare le seguenti finalità:
XV legislatura
XVI legislatura: sulle proposte di legge esaminate dalla Commissione giustizia all'inizio della XVI legislatura
...e sul decreto-legge 11/2009
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha lungamente esaminato un provvedimento volto a riformare l'istituto delle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. In particolare, l' A.C. 1415 è stato approvato in prima lettura dalla Camera e poi, con modifiche, dal Senato; nuovamente posto all'esame dell'Assemblea della Camera nel luglio 2010, il provvedimento non ha concluso il proprio iter.
Nel nostro ordinamento il principio della libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione è sancito all'art. 15, della Costituzione, che al comma 1 afferma che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». La disposizione costituzionale, unitamente a quella di cui all'art. 14, comma 1, Cost. («Il domicilio è inviolabile») integra il disposto dell'art. 13, comma 1, Cost. («La libertà personale è inviolabile»), concorrendo in tal modo alla definizione del più generale principio della inviolabilità della persona umana.
La segretezza delle comunicazioni entra poi a far parte di una più ampia area di protezione dell'insieme di dati e notizie attinenti alla sfera di intimità personale e privata delle persone fisiche, delle formazioni sociali e delle persone giuridiche, riconducibile a quella coperta dal cosiddetto diritto alla riservatezza, cui viene generalmente riconosciuto rilievo costituzionale, variamente individuandone il fondamento negli articoli 2 e 3 ovvero nell'art. 15 citato (isolatamente o in connessione con l'art. 21, comma 8, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo) ovvero negli articoli 13, 14 e 15 della Costituzione nel loro combinato disposto con altre norme costituzionali.
La limitazione del principio della libertà ed inviolabilità delle diverse forme di comunicazione può avvenire - ai sensi dell'art. 15, comma 2, della Costituzione - soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Tale norma pone dunque a garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione:
La tutela dei principi sopra richiamati è affidata anzitutto alle norme che sanzionano penalmente i delitti di cognizione, rivelazione e divulgazione del contenuto della corrispondenza e di comunicazioni telefoniche, informatiche o telematiche ad opera di estranei (articoli da 615-bis a 623-bis del codice penale). Ma a parte la disciplina che opera sul piano amministrativo (si pensi ad esempio alle disposizioni sul corretto svolgimento del servizio postale, telefonico e telegrafico e a quelle in materia di tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni previste dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali), un’articolata tutela opera sul piano più strettamente processuale.
Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova e consistono nell’acquisizione della cognizione di comunicazioni tra più persone; queste possono avere forma di telecomunicazioni riservate tra persone distanti (a mezzo telefono, via fax, mediante reti informatiche o telematiche o altri mezzi di trasmissione) ovvero consistere in comunicazioni (colloquio) tra persone presenti (cd. intercettazioni ambientali). Le comunicazioni o conversazioni sono generalmente captate, ad opera di terzi, mediante l’ascolto diretto e segreto attuato con l’ausilio di strumenti meccanici o elettronici idonei a superare le naturali capacità dei sensi. Le intercettazioni costituiscono una tipica attività che trova la sua naturale collocazione temporale nel corso delle indagini preliminari ed, all’interno del codice di rito penale, in quanto mezzo di ricerca della prova, negli articoli da 266 a 271 c.p.p., norme di chiusura del titolo III del libro III.
Investendo un diritto costituzionalmente protetto, il legislatore ha previsto che l’intercettazione, ammissibile entro specifici limiti, richieda due distinti procedimenti: uno finalizzato all’iniziativa, l’altro al controllo; il primo vede protagonista il pubblico ministero, l’altro il giudice delle indagini preliminari (GIP).
I presupposti dell’intercettazione sono indicati dall’art. 267 c.p.p, che dispone che l'autorizzazione per le operazioni è concessa dal G.I.P. con decreto motivato, su richiesta del P.M,. se ricorrono le due seguenti condizioni:
Il comma 1-bis dell’art. 267 opera un rinvio all’art. 203 c.p.p. per la valutazione dei gravi indizi di reato. Sarà quindi impossibile a tali fini, utilizzare le informazioni confidenziali riferite dalla polizia giudiziaria e dai servizi di sicurezza se gli informatori non abbiano reso testimonianza; dette informazioni sono parimenti inutilizzabili anche nelle fasi successive del dibattimento se gli informatori non siano stati interrogati né le loro dichiarazioni siano state assunte dalla polizia giudiziaria nei verbali di sommarie informazioni.
Un’autonoma ipotesi di ricorso alle intercettazioni è, poi, dettata dall’art. 295 c.p.p. (Verbale di vane ricerche), quando ciò sia necessario per agevolare la ricerca del latitante.
Se, nelle ipotesi ordinarie, è il GIP - quale organo garante delle libertà individuali - ad autorizzare le intercettazioni, nei casi di urgenza, il P.M. dispone direttamente l'intercettazione con decreto motivato, che va comunque convalidato dallo stesso GIP. L’urgenza, nello specifico, risiede nel possibile grave pregiudizio alle indagini che potrebbe derivare dal ritardo nell’intercettazione. Il PM comunica immediatamente e, in ogni caso, non oltre 24 ore, al GIP l’adozione del provvedimento; la convalida da parte del giudice deve comunque avvenire non oltre 48 ore (dal decreto del PM). Alla mancata convalida, consegue l’impossibilità di proseguire l’intercettazione e l’inutilizzabilità probatoria dei risultati ottenuti.
A tale disciplina autorizzatoria da parte del GIP non sono, invece, soggette le acquisizioni da parte del PM dei tabulati del traffico telefonico relativi ad una determinata utenza, che rendono conoscibili i dati esteriori della conversazione telefonica (autori della comunicazione, tempo e luogo della stessa). Dopo che la Cassazione aveva avallato una interpretazione difforme (Sezioni Unite, sentenza 13 luglio 1998, n. 21), la Corte costituzionale (sentenza 17 luglio 1998, n. 281) - confermando la sentenza 11 marzo 1993, n. 81 del 1993 - ha precisato che la disciplina di cui agli artt. 266 e 267 c.p.p. è modellata con esclusivo riferimento all’intercettazione di comunicazioni e non va estesa ad istituti diversi, come “l’acquisizione a fini probatori di notizie riguardanti il mero fatto storico della avvenuta comunicazione telefonica”. Secondo la Consulta, “alla diversa forza invasiva dei due mezzi di prova, ragionevolmente corrispondono diversi livelli di garanzia”. Le intercettazioni del contenuto delle conversazioni infatti, notevolmente più intrusive della sfera di riservatezza e segretezza delle comunicazioni, richiedono l’autorizzazione del giudice; per l’acquisizione dei tabulati, di evidente minore incisività, sarebbe invece sufficiente e comunque rispettoso della guarentigia costituzionale il provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, tra cui evidentemente va ricompreso anche il pubblico ministero (della stessa opinione, Cass., Sezioni Unite, 23 febbraio 2000, n. 6).. Analogamente, Cass., Sezioni Unite, sentenza 30 giugno 2000, n. 16 ha affermato che, anche se manca la previsione di un immediato controllo giurisdizionale del decreto motivato del PM che autorizza l’acquisizione dei tabulati telefonici, “tuttavia il recupero di tale controllo, che attiene a un mezzo di ricerca della prova, avviene attraverso la rilevabilita', anche di ufficio, dell'eventuale relativa inutilizzabilita', in ogni stato e grado del procedimento, cosi' nelle indagini preliminari nel contesto incidentale relativo all'applicazione di una misura cautelare, come nell'udienza preliminare, ovvero nel dibattimento o nel giudizio di impugnazione”. Di recente, Cass., Sez. I, sentenza 26 settembre 2007, n. 46086 ha precisato che ai fini dell'acquisizione dei tabulati relativi al traffico telefonico, l'obbligo di motivazione del provvedimento acquisitivo (decreto del PM), stante il modesto livello di intrusione nella sfera di riservatezza delle persone, è soddisfatto anche con espressioni sintetiche, nelle quali si sottolinei la necessità dell'investigazione, in relazione al proseguimento delle indagini ovvero all'individuazione dei soggetti coinvolti nel reato, o si richiamino, con espressione indicativa della loro condivisione da parte dell'autorità giudiziaria, le ragioni esposte da quella di polizia. Oltre alle norme concernenti le intercettazioni in senso stretto (artt. 266 - 271 c.p.p.), per quanto concerne l’acquisizione dei tabulati telefonici assume sicuramente rilievo l'art. 256 c.p.p.(Dovere di esibizione e segreti), che pone una disciplina applicabile anche all'ente gestore del servizio pubblico della telefonia. La norma prevede in capo ai soggetti di cui agli artt. 200 e 201 c.p.p. (pubblici ufficiali, pubblici impiegati, incaricati di pubblico servizio, avvocati, investigatori privati, notai, ecc, comunque tenuti al segreto professionale e d’ufficio) l’obbligo di consegna immediata all’autorità giudiziaria richiedente degli atti e documenti in loro possesso per ragioni di ufficio (incarico, ministero, professione o arte) anche se coperti dal segreto professionale o d’ufficio.
L'art. 266 c.p.p. definisce i limiti oggettivi di ammissibilità delle intercettazioni, elencando tassativamente quali sono i reati per le quali è ammesso questo mezzo di ricerca della prova e distinguendo poi, l'«intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazioni» dalla «intercettazione di comunicazioni tra presenti». Le intercettazioni sono ammissibili nel corso delle indagini nei procedimenti relativi a specifiche categorie di reati, identificati in relazione all’entità della pena o per la particolare natura giuridica del bene protetto (primo comma). Si tratta dei seguenti reati:
a) delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 5 anni;
b) delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni;
c) delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope;
d) delitti concernenti armi ed esplosivi;
e) delitti di contrabbando;
f) reati di ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria, abuso di informazioni privilegiate, manipolazione del mercato, molestia o disturbo alle persone col mezzo del telefono;
f-bis), delitti previsti dall'articolo 600-ter, terzo comma, c.p. (divulgazione, distribuzione e pubblicizzazione anche per via telematica, di pornografia minorile - anche di natura “virtuale” ex art- 600-quater1 - o di notizie finalizzate alla pedofilia, fuori delle ipotesi di commercio di materiale pornografico minorile e di sfruttamento di minori a fini di esibizione pornografica o di produzione di materiale pornografico).
Per le intercettazioni tra persone presenti (cd. intercettazioni ambientali), ad esempio con l’uso di microspie, il secondo comma dell’art. 266 prevede un'ulteriore limitazione: nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p. (domicilio o altro luogo di privata dimora) esse sono infatti consentite solo se vi è fondato motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l'attività criminosa. Una deroga a tale limite è stato introdotto in relazione ai delitti di criminalità organizzata e terrorismo (v. ultra). Le intercettazioni ambientali, secondo giurisprudenza costante, non violano in tali casi il limite dettato dall’art. 14 Cost. della inviolabilità del domicilio (primo comma), precetto che deve essere coordinato - al pari di quello di cui all'art. 15 Cost. sulla libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni - con l’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti tutelato dall'art. 112 Cost.
Con l’introduzione dell’art. 266-bis c.p.p. è sempre consentita anche l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ogni volta che si proceda per uno dei reati elencati dall’art. 266 o per i reati commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche.
Alcuni provvedimenti in materia di lotta alla criminalità organizzata e di terrorismo hanno disposto un progressivo ampliamento delle ipotesi nelle quali è consentito il ricorso alle intercettazioni. In particolare, l'articolo 13 del D.L. 152/1991, nel testo risultante dalla legge di conversione (L. 203/1991), ha introdotto una deroga alla disciplina contenuta nell'art. 267 c.p.p., stabilendo sostanzialmente un allargamento delle possibilità di ricorso alle intercettazioni per indagini relative a delitti di criminalità organizzata o di minaccia con il mezzo del telefono. A seguito dell’intervento del D.L. 374/2001 (L. 438/2001) analoga deroga riguarda le intercettazioni per i reati di terrorismo e di assistenza, fuori del concorso, ad associati ad organizzazioni terroristiche, anche internazionali. In queste ipotesi, infatti, l'autorizzazione all’intercettazione è soggetta a limiti meno stringenti, potendo essere concessa:
Nelle stesse ipotesi le intercettazioni ambientali sono consentite nel domicilio o altro luogo di dimora privata anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l'attività criminosa. La relativa durata è di 40 giorni, prorogabile per periodi successivi di 20 giorni.
Inoltre, il comma 3-bis all'art. 295 c.p.p., aggiunto dal decreto antimafia cd. Scotti Martelli (D.L. 306/1992, L. 356/1992) ed integrato dal citato D.L. 374/2001, ha dettato rilevanti modifiche alle disposizioni in tema di intercettazioni ambientali più recentemente novellate dalla legge 56/2006 . Alle possibili intercettazioni telefoniche o di altro strumento di telecomunicazione finalizzate alla ricerca del latitante ed autorizzate secondo le modalità ordinarie (artt. 266 e 267 c.p.p.), il comma 3-bis affianca la possibilità di intercettazioni tra presenti per agevolare le ricerche di latitanti per reati di criminalità organizzata e terrorismo.
Sempre in relazione all'uso delle intercettazioni ambientali nelle indagini relative a reati di criminalità organizzata quale mezzo di ricerca della prova, il D.L. 306/1992, integrando l’art. 13 del D.L. 152/1991 (L. 203/1991), ha stabilito che l'intercettazione di comunicazioni tra presenti in un procedimento relativo a tali delitti che avvenga in luoghi di privata dimora è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l'attività criminosa.
Oltre alle intercettazioni di telecomunicazioni e quelle ambientali si è posto il problema, da un lato, di un possibile tertium genus di questo strumento di ricerca della prova consistente nelle videoregistrazioni in luogo di privata dimora e, quindi, nella loro eventuale assimilabilità alla disciplina codicistica delle intercettazioni ambientali; dall’altro, di un loro assoluto divieto ai sensi dell’art. 14 della Costituzione, non essendo ricomprese nelle ipotesi ivi previste (ispezioni, perquisizioni, ecc.) di deroga al principio dell’inviolabilità del domicilio.
Va ricordata in merito la giurisprudenza della Corte costituzionale che, con la sentenza 24 aprile 2002, n. 135 ha affermato la non allineibilità della disciplina processuale delle riprese visive in luoghi di privata dimora a quella delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti nei medesimi luoghi. La Corte, escludendo che le riprese visive in questione possano scontrarsi con un divieto assoluto di inviolabilità del domicilio ex art. 14 Cost. (le citate ipotesi di cui al secondo comma disciplinabili con legge non costituiscono un “numero chiuso”), ha distinto le riprese finalizzate alla captazione di comportamenti personali a carattere comunicativo (come i messaggi gestuali) da quelle aventi ad oggetto solo immagini prive di detto contenuto.
Nel primo caso, le riprese sono assimilabili alle intercettazioni ambientali in luogo di privata dimora (si applica l’art. 266, comma 2, c.p.p.) ed è quindi necessaria l’autorizzazione del giudice delle indagini preliminari; nel secondo, la captazione di immagini configurerebbe una prova documentale non espressamente regolata dalla legge, fermo […] il limite della tutela della libertà domiciliare di cui all’art. 14 Cost. da valutarsi di volta in volta. Nel caso in cui si fuoriesca dalla videoripresa di comportamenti di tipo comunicativo non è possibile quindi estendere alla captazione di immagini in luoghi tutelati dall’art. 14 Cost. la normativa dettata dagli artt. 266 ess. c.p.p., data la sostanziale eterogeneità delle situazioni: in caso di videoregistrazioni a carattere comunicativo, la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni; l’invasione della sfera della libertà domiciliare in quanto tale, negli altri casi.
In conclusione la Corte rivolse un invito al legislatore ad intervenire, specie per l’ipotesi della videoregistrazione non avente carattere di intercettazione di comunicazioni, ferma restando, per l’importanza e la delicatezza degli interessi coinvolti, l’opportunità di un riesame complessivo della materia.
Sul punto la Cassazione ha comunque maturato un proprio orientamento, consolidato nel tempo (cfr. Cass. Pen., S.U., 13 luglio 1998, n. 21) ed imperniato sull’interpretazione dell’art. 191 c.p.p. Secondo la S.C.. rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., non solo quelle oggettivamente vietate, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati in modo specifico dalla Costituzione, come nel caso degli art. 13, 14 e 15, in cui la prescrizione dell’inviolabilità attiene a situazioni fattuali di libertà assolute, di cui è consentita la limitazione solo nei casi e nei modi previsti dalla legge.
I concetti di inutilizzabilità ed incostituzionalità relativamente alla prova penale si intrecciano sulla base dell’assunto che i divieti cui fa riferimento l’art. 191 c.p.p. non possono essere solamente quelli di natura processuale ma anche quelli rinvenibili comunque nell’ordinamento e, a maggior ragione, quelli derivanti da violazione di norme costituzionali
Cass., Sez. I, Sent. n. 31389 del 10 luglio 2007 ha da ultimo affermato che le prove rappresentate dalle riprese videofilmate non appartengono al "genus" delle intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni, ma a quello delle prove documentali non disciplinate dalla legge, con la conseguenza che ad esse non si applicano le limitazioni stabilite dalla disciplina di cui agli artt. 266 e seguenti cod.proc.pen., ma soltanto quelle derivanti dal rispetto della libertà morale della persona, che va verificato dal giudice, di volta in volta, con riferimento alla loro utilizzabilità.
Per quel che riguarda gli aspetti esecutivi delle operazioni, il legislatore ha voluto che il decreto del PM indicasse le modalità dell’intercettazione (indicando, ad es., le utenze telefoniche da controllare) e la sua durata. Quest’ultima, in ogni caso non può essere superiore a 15 giorni, salvo motivata proroga con decreto del GIP per periodi successivi di 15 giorni, purchè permangano i requisiti richiesti ab origine (art. 267). Il codice non prevede un termine di durata massima delle intercettazioni, che possono essere quindi teoricamente disposte durante tutto il periodo di durata delle indagini preliminari (tale periodo, nelle ipotesi di cui all’art. 407 c.p.p., può essere anche di due anni).
Ai sensi dell’art. 268 c.p.p. (Esecuzione delle operazioni), le intercettazioni - affidate direttamente al PM o ad ufficiali di polizia giudiziaria - sono registrate e di esse è redatto verbale, anche in forma sommaria, rispettando sempre le modalità esecutive di cui all’art. 89 disp. att. (Verbale e nastri registrati delle intercettazioni).
Il verbale delle operazioni contiene l'indicazione degli estremi del decreto che ha disposto l'intercettazione, la descrizione delle modalità di registrazione, l'annotazione del giorno e dell'ora di inizio e di cessazione della intercettazione nonché i nominativi delle persone che hanno preso parte alle operazioni.
I nastri contenenti le registrazioni, racchiusi in apposite custodie numerate e sigillate, sono collocati in un involucro sul quale sono indicati il numero delle registrazioni contenute, il numero dell'apparecchio controllato, i nomi, se possibile, delle persone le cui conversazioni sono state sottoposte ad ascolto e il numero che, con riferimento alla registrazione consentita, risulta dal registro delle intercettazioni previsto dall'articolo 267 comma 5 del codice.
Il citato art. 268 scandisce le ulteriori fasi procedimentali con i necessari adempimenti a garanzia dell’acquisizione della prova e dei diritti della difesa.
Così, i verbali delle intercettazioni delle conversazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche sono immediatamente trasmessi al PM e da questi depositati in segreteria entro 5 giorni dal termine delle operazioni (salvo il ritardato deposito, autorizzato dal GIP, non oltre la chiusura delle indagini preliminari, quando dal deposito possa derivare “grave pregiudizio” alle indagini).
Effettuato il deposito, ne è data immediatamente comunicazione ai difensori che hanno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni entro il termine stabilito dal PM (salva proroga del giudice). Il mancato avviso aldifensore non determina, secondo la giurisprudenza (v. Cass., sez. V, 15 aprile 1998, n. 4408), l'inutilizzabilità delle intercettazioni, ma può tuttavia dar luogo a nullità di ordine generale ex. art. 178 lett. c) c.p.p., in quanto costituisce violazione del diritto di difesa.
Dal momento del deposito cade il segreto sui verbali di intercettazione ai sensi dell'art. 329 c.p.p. (ex segreto istruttorio).
L’art. 329 c.p.p. stabilisce l’obbligo del segreto investigativo (o d’indagine) stabilendo che gli atti d’indagine compiuti dal PM e della polizia giudiziaria non possano essere comunicati né all’indagato o al suo difensore, né, naturalmente, a terzi, fino a quando l'imputato (quindi, ex art. 61 c.p.p., anche l’indagato) non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari (fissata, ex art. 405 c.p.p., dalla richiesta di azione penale o di archiviazione). In assenza di specifica previsione da parte della norma, sono tenuti al segreto oltre, ovviamente, il PM e gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria che hanno compiuto gli atti d’indagine, tutte le altre persone che ne siano a conoscenza. Sempre in base all'art. 329, il PM - in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini - può comunque disporre con decreto motivato che il segreto si continui ad applicare anche oltre la chiusura delle indagini preliminari per singoli atti, quando l'imputato lo consenta o quando la conoscenza dell'atto possa ostacolare le indagini su altre persone. Il pubblico ministero può, inoltre, vietare la pubblicazione del contenuto di singoli atti o notizie relative a determinate operazioni, comprese le intercettazioni. Al contrario, lo stesso PM può, durante le indagini preliminari, consentire con decreto motivato la pubblicazione di uno o più atti (cd. desecretazione) quando ciò risulti necessario per la prosecuzione delle indagini (si pensi ad un identikit di un indiziato).
Dall’obbligo del segreto sull’esistenza stessa dell’atto di indagine va tenuta distinta la disciplina della pubblicazione a mezzo stampa (o altre forme di comunicazione) delle intercettazioni ed altri atti di indagine. Si tratta di un tema di particolare delicatezza che investe diversi aspetti giuridicamente rilevanti: oltre al citato segreto investigativo, la libertà d’informazione e la tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nelle intercettazioni.
L’art. 114 c.p.p consentendo la pubblicazione dei soli atti non coperti dal segreto (comma 7), delinea, peraltro, un sistema di limiti alla pubblicazione di atti (e immagini) del procedimento penale, la cui violazione è variamente sanzionata. La norma prevede anzitutto un diverso trattamento a seconda che oggetto della pubblicazione sia il documento nella sua originalità (atto-documento, ad es., i verbali delle intercettazioni) oppure il suo contenuto (cioè, l’evento documentato nell’atto, come i riassunti dei verbali). Così, l’art. 114, comma 1, per le intercettazioni e gli altri atti d’indagine, vieta ogni pubblicazione anche parziale o per riassunto, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto. La violazione del divieto integra:
La sanzione disciplinare concorre con quella penale, salvo l’esclusività della prima in determinate ipotesi (ad es., nel caso di una successiva segretazione, da parte del PM o dal giudice, di intercettazioni già pubblicate). Gli atti non più “segreti” non sono invece pubblicabili (testualmente), neanche in parte, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino alla chiusura dell’udienza preliminare (art. 114, comma 2). Come accennato, al contrario non è vietata la pubblicazione del contenuto di tali atti, ovvero il riassunto degli stessi.
Una volta scaduto il termine per l'esame degli atti da parte dei difensori, parte l’apposito procedimento incidentale finalizzato alla cernita ed alla selezione del materiale probatorio nell’ambito di una apposita udienza camerale.
Il giudice dispone, in contraddittorio, l'acquisizione delle conversazioni o delle comunicazioni informatiche o telematiche indicate dalle parti che non appaiano manifestamente irrilevanti, procedendo, anche d'ufficio, allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione ex art. 271; alle operazioni di stralcio possono partecipare sia il PM che i difensori. Questi ultimi possono estrarre copia delle trascrizioni integrali delle registrazioni disposte dal giudice e possono far eseguire la loro trasposizione su nastro magnetico o supporto informatico o avere copia della stampa delle informazioni contenute nei flussi informatici o telematici intercettati.
Le trascrizioni delle intercettazioni, depurate delle sue parti irrilevanti e inutilizzabili (v. ultra), in quanto espressive di atti per loro natura “irripetibili” sono inserite nel fascicolo del dibattimento di cui all’art. 431 c.p.p..
In ossequio ai principi della legge delega del nuovo c.p.p. ((art. 2, n. 41, lett. e) è previsto, a fini di garanzia;
In ogni caso, regola generale è che una volta acquisiti, i verbali e le registrazioni delle intercettazioni (salvo l’accennata possibilità di distruzione) siano conservati integralmente presso il PM fino alla sentenza irrevocabile, salva la distruzione di atti non utilizzabili ex art. 271 (art. 269 c.p.p.). Il giudice, se dispone la distruzione del materiale, ne controlla l'operazione, della quale è redatto verbale. La decisione circa la distruzione deve essere adottata con rito camerale ex art. 127 c.p.p., anche quando la relativa richiesta provenga dal PM congiuntamente alla richiesta di archiviazione; il contraddittorio camerale di cui all'art. 127 si rende necessario proprio a garanzia del diritto alla riservatezza sul quale tali decisioni vanno comunque ad incidere.
Ad analoghe finalità garantistiche rispondono altre due previsioni: la prima (art. 267, comma 5) sancisce l’obbligo per il PM, di annotare in ordine cronologico su apposito registro riservato i decreti di disposizione, autorizzazione, convalida o proroga delle intercettazioni, precisando, inoltre, la data di inizio e cessazione di ogni operazione; la seconda (art. 268, commi 3 e 3-bis) secondo cui le intercettazioni devono esser compiute utilizzando impianti in dotazione alle Procure delle Repubblica. Nei casi in cui siano necessari ulteriori mezzi tecnici o esistano eccezionali ragioni d’urgenza, il P.M., con decreto motivato, può disporre il compimento d’operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione della P.G.
Quanto al profilo della utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali sono state autorizzate, in deroga alla disciplina generale dell’art. 238 (Verbali di prove di altri procedimenti), essa è consentita dall’art. 270 c.p.p. soltanto se tale utilizzabilità è indispensabile per l’accertamento dei più gravi delitti per i quali sia obbligatorio l’arresto in flagranza. Opportunamente, ad evitare una trasmissione parziale degli atti nel diverso procedimento, è stabilita la facoltà per il PM ed i difensori delle parti di esaminare l’intera documentazione inerente le intercettazioni, compresi le parti stralciate.
Pur ponendosi al di fuori della tematica processuale, va inoltre ricordata la possibilità di intercettazioni preventive di comunicazioni o conversazioni, comprese quelle ambientali. Infatti, l'art. 226 disp. att.c.p.p. (come sostituito dal più volte citato D.L. antiterrorismo n. 374/2001) consente intercettazioni preventive, anche per via telematica o ambientali (anche in abitazioni o altri luoghi di privata dimora) quando le stesse siano necessarie per acquisire le notizie concernenti la prevenzione dei gravi delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis (associazione mafiosa o finalizzata al traffico di stupefacenti, strage, sequestro di persona a scopo di estorsione, ecc.) e 407, comma 2, lett. a, n. 4 (terrorismo, anche internazionale) del codice di procedura penale. L’iniziativa delle intercettazioni è del Ministro dell’interno o di autorità da lui delegate, come il direttore della Direzione Investigativa Antimafia (solo per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p.), i responsabili dei Servizi centrali dellaPolizia di Stato, dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di finanza, il questore o il comandante provinciale dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza. Le operazioni sono autorizzate dal procuratore della Repubblica del distretto (in presenza di elementi investigativi o quando lo ritenga necessario) e non possono superare i 40 giorni, prorogabili per altri 20, sempre previa autorizzazione del PM. E’ redatto un verbale sintetico (delle operazioni svolte e del contenuto delle intercettazioni) che va depositato con i supporti delle registrazioni entro 5 gg dal termine delle operazioni presso il magistrato che ha autorizzato le operazioni; quest’ultimo provvederà immediatamente alla distruzione sia del verbale che dei supporti non appena verificata la regolarità delle operazioni. Gli elementi raccolti con le intercettazioni, utilizzabili a fini investigativi, sono comunque privi di valore nel processo; non sono, inoltre, menzionabili in atti d’indagine né essere oggetto di deposizione e divulgazione. Analoga disposizione, in relazione alle intercettazioni preventive sui delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis, del codice di procedura penale è contenuta nell’art. 25-ter del D.L. 306/1992 (L. 356/1992).
Il Ministro della Giustizia Alfano ha presentato il disegno di legge di riforma delle intercettazioni A.C. 1415 all'inizio della XVI legislatura (30 giugno 2008). Nel corso dell'esame in Commissione è intervenuto sul disegno di legge anche un articolato parere del Consiglio superiore della magistratura (17 febbraio 2009).
La Camera ha approvato il provvedimento nel giugno 2009 - dopo che il Governo, in Assemblea, ha presentato un emendamento interamente sostitutivo del testo approvato dalla Commissione, sul quale ha posto la questione di fiducia (sul contenuto dell'emendamento si veda il dossier del Servizio studi) - trasmettendo il disegno di legge al Senato (A.S. 1611, sul quale si veda il dossier del Servizio studi del Senato).
Trascorso un ulteriore anno, nel giugno 2010 il Senato ha approvato il disegno di legge con modificazioni, rendendo necessario un ulteriore esame dell' A.C. 1415-B da parte della Camera. La Commissione Giustizia della Camera ha nuovamente ampiamente modificato il testo che giungeva dal Senato, sottoponendo all'esame dell'Assemblea l' A.C. 1415-C, composto da un articolo unico, del quale si dà di seguito conto. L'Assemblea di Montecitorio ha avviato la discussione generale sul provvedimento il 30 luglio 2010 per poi sospenderne nei fatti l'esame fino al 5 ottobre 2011 quando ha respinto due questioni pregiudiziali di costituzionalità avanzate dall'opposizione. Nella successiva seduta del 6 ottobre 2011 si è svolta la discussione sull'articolo unico della proposta di legge del quale la Camera non ha poi più ripreso l'esame.
Si dà qui sinteticamente conto dell' A.C. 1415-C, approvato dalla Commissione Giustizia in sede referente il 17 giugno 2010.
La competenza a disporre le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, che attualmente appartiene al GIP, è attribuita dal disegno di legge al Tribunale distrettuale in composizione collegiale; a seguito di modifiche apportate dalla Commissione in sede referente, spetta invece al GIP (anziché al PM) l'autorizzazione all'acquisizione dei tabulati telefonici.
L'ammissibilità delle intercettazioni viene estesa anche ai procedimenti per il reato di stalking.
Così come nella normativa vigente, il giudice può disporre le intercettazioni in presenza di gravi indizi di reato e quando le operazioni sono assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini; al fine di rendere possibile l’uso di tale strumento di indagine nei procedimenti contro ignoti, il testo della Commissione prevede che le intercettazioni possano essere disposte anche su utenze in uso a soggetti diversi dagli indagati, quando sussistono concreti elementi per ritenere che tali utenze siano utilizzate per conversazioni o comunicazioni attinenti ai fatti per i quali si procede.
Il testo della Commissione interviene anche sulla disciplina delle intercettazioni tra presenti (cd. «intercettazioni ambientali»), ampliando le ipotesi nelle quali si può procedere a tali operazioni in assenza del presupposto del fondato motivo di ritenere che nel luogo ove sono disposte si stia svolgendo l’attività criminosa.
Il provvedimento delinea, infine, un "doppio binario", introducendo una disciplina differenziata dei presupposti per i reati di mafia e terrorismo (ai quali il testo della Commissione aggiunge ulteriori reati di particolare pericolosità sociale); per i procedimenti relativi a tali reati, l'autorizzazione a disporre le intercettazioni è data se vi sono sufficienti indizi di reato e le intercettazioni tra presenti (cd. «intercettazioni ambientali») possono essere disposte a prescindere dal presupposto di ordine generale sopra richiamato.
L' A.C. 1415-C, come il testo approvato dal Senato, prevede un periodo massimo di durata delle operazioni di intercettazione di trenta giorni, con tre possibili successive proroghe per periodi di quindici giorni (fino quindi a un limite massimo di 75 giorni), qualora permangano i presupposti per disporre le intercettazioni.
Scaduto tale termine, è attribuita al PM la facoltà di richiedere proroghe ulteriori per periodi di 15 giorni, qualora le intercettazioni possano consentire l'acquisizione di elementi fondamentali per l'accertamento del reato per cui si procede.
Per i delitti di particolare allarme sociale la durata massima delle operazioni è aumentata a quaranta giorni e può essere prorogata per periodi successivi di venti giorni, qualora permangano i presupposti per disporre le operazioni.
Il testo del Senato (A.C. 1415-B) prevedeva un divieto assoluto di pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle intercettazioni e dei dati riguardanti il traffico telefonico o telematico sino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero al termine dell'udienza preliminare. Il testo della Commissione (A.C. 1415-C), a seguito dell'approvazione di un emendamento del Governo, prevede che l’obbligo del segreto operi fino alla conclusione della “udienza stralcio”; tale udienza, da fissarsi entro 45 giorni dalla trasmissione degli atti dal PM al tribunale, è finalizzata all’acquisizione delle conversazioni che non appaiono manifestamente irrilevanti e allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione.
In ogni caso, è vietata la pubblicazione delle intercettazioni di cui sia stata ordinata la distruzione o riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini.
Il provvedimento introduce inoltre il divieto di pubblicazione e di diffusione dei nominativi e dell'immagine dei magistrati per procedimenti loro affidati, salvo che, ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca, la rappresentazione dell'avvenimento non possa essere separata dall'immagine del magistrato ovvero nei casi in cui il giudice abbia autorizzato le riprese audiovisive dei dibattimenti.
La violazione dei divieti di pubblicazione dà luogo a responsabilità penale e disciplinare.
Con riferimento ai profili penali, il provvedimento:
Con riferimento ai profili disciplinari, il disegno di legge prevede la sospensione cautelare dal servizio o dall'esercizio della professione fino a tre mesi; la sospensione è disposta da parte dell’organo titolare del potere disciplinare.
Il testo della Commissione, infine, interviene sulla disciplina della responsabilità dell'editore conseguente alla violazione dei divieti di pubblicazione, in particolare circoscrivendo tale responsabilità, nel caso di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, alle ipotesi di pubblicazione di intercettazioni ritenute irrilevanti dal PM o dal giudice e inserite nell'archivio riservato istituito dal disegno di legge.
L' A.C. 1415-C introduce le seguenti due nuove fattispecie di reato:
Infine, il provvedimento aggiunge ai casi di astensione obbligatoria del giudice quello in cui lo stesso abbia rilasciato pubblicamente dichiarazioni relative al procedimento affidatogli; nel medesimo caso, prevede la sostituzione del P.M., contemplata anche nell’ipotesi in cui nei confronti del PM sia stata esercitata l'azione penale per il reato di illecita rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale in relazione al procedimento assegnatogli.
Durante il complesso iter del disegno di legge di riforma delle intercettazioni, il tema dei costi delle operazioni di intercettazione è stato spesso posto al centro del dibattito politico.
Secondo il cd. Rapporto Giarda (Elementi per una revisione della spesa pubblica - 8 maggio 2012, presentato dal Ministro per i Rapporti con il Parlamento al Consiglio dei ministri il 30 aprile 2012), la voce di spesa per intercettazioni, incide per oltre il 40% del totale delle cd. spese di giustizia. Al fine di conseguire l’obiettivo di razionalizzazione e risparmio di spesa per intercettazioni telefoniche è necessario procedere all’acquisizione in forma centralizzata e in modalità forfettaria di tali servizi, mentre anche il listino per le prestazioni obbligatorie necessita di una profonda ristrutturazione sempre in vista di una possibile forfetizzazione anche di tale voce di spesa. Nella Relazione al Parlamento sullo stato delle spese di giustizia (ex art. 37, co. 16, D.L. n. 98/2011 – doc. CCXLVII, n. 1, presentato il 28 giugno 2012) si osserva che, a fronte di una dotazione del bilancio 2011 del Ministero della giustizia, cap. 1363 (Spese per intercettazioni) pari a 249,8 milioni di euro, è stata sostenuta una spesa di circa 260 milioni di euro. Emerge quindi un debito di circa 10 milioni. Si tratta, tuttavia, di una spesa in diminuzione rispetto agli scorsi anni (in cui la spesa era tra i 285 e i 300 milioni di euro). Nel 2012, lo stanziamento sullo stesso capitolo di bilancio è di 239,8 milioni di euro, a fronte di una spesa presunta di circa 250 milioni. Nei primi quattro mesi del 2012 gli uffici giudiziari hanno, infatti, sostenuto una spesa per intercettazioni di circa 82 milioni di euro.
In merito nel 2012 il legislatore ha approvato due provvedimenti:
Il ministro della giustizia Severino - nell'ambito degli obiettivi di riduzione della spesa - ha emanato il 25 febbraio 2013 una direttiva per la gara unica nazionale sulle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. La direttiva si è basata sulle conclusioni di uno specifico gruppo di lavoro istituito presso il ministero.
Servizio Biblioteca
Servizio Studi
All'inizio della XVI legislatura il Parlamento ha approvato la legge 124/2008, c.d. “lodo Alfano”, che disponeva la sospensione dei processi penali nei confronti del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato, del Presidente della Camera e del Presidente del Consiglio dei ministri. La Corte costituzionale ha dichiarato la legge incostituzionale per violazione del combinato disposto degli artt. 3 (principio di uguaglianza) e 138 (procedimento di revisione costituzionale) della Costituzione, in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.
Il “lodo Alfano” disponeva la sospensione dei processi penali nei confronti del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato, del Presidente della Camera e del Presidente del Consiglio dei ministri.
La sospensione, applicabile anche ai processi relativi a fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione e ai processi penali in corso, operava dalla data di assunzione della carica e sino alla cessazione dalla medesima, non era reiterabile nei confronti del medesimo soggetto (salvo nel caso di “nuova nomina” intervenuta nel corso della stessa legislatura) ed era rinunciabile in qualsiasi momento dall’imputato.
La legge prevedeva, inoltre, la possibilità per il giudice di procedere all’assunzione delle prove non rinviabili, la contestuale sospensione del decorso del termine di prescrizione, nonché, infine, disposizioni volte a tutelare la posizione dell’eventuale parte civile.
Finalità del provvedimento, secondo la relazione illustrativa del disegno di legge del Governo (A.C. 1442), era la tutela dell’interesse “al sereno svolgimento delle funzioni che fanno capo alle più alte cariche dello Stato”, sulla base dei “principi di continuità e di regolarità nell’esercizio delle più alte funzioni pubbliche, nel pieno rispetto del principio di eguaglianza, che consente di prevedere un regime differenziato, anche riguardo all’esercizio della giurisdizione, purché risultino concretamente tutelati anche gli altri concorrenti valori costituzionali, secondo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale”. La relazione illustrativa si riferiva alla precedente sentenza n. 24 del 2004, con la quale era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione del principio di uguaglianza l’art. 1 della L. 140/2003 (c.d. Lodo Schifani), che, al comma 2, prevedeva la sospensione dei processi penali in corso in ogni fase, stato o grado nei confronti delle cinque più alte cariche dello Stato (era ricompreso anche il Presidente della Corte costituzionale).
Per meglio comprendere le posizioni dei diversi gruppi parlamentari sul tema della sospensione del processo per le alte cariche dello Stato, si richiama il dibattito svolto nella seduta del 9 giugno 2009 alla Camera su alcuni atti di indirizzo, riferiti anche al “lodo Alfano”.
In tale seduta è stata approvata la mozione 1-00187, a prima firma Cicchitto, nella quale si evidenziava la finalità del meccanismo di sospensione processuale introdotto dal “lodo Alfano” di “tutelare, secondo l'esempio delle maggiori democrazie occidentali, l'interesse al sereno svolgimento delle funzioni che fanno capo alle più alte cariche dello Stato”; nella mozione n. 1-00185, a prima firma Franceschini, respinta nel corso della medesima seduta, l’opposizione ribadiva invece “il giudizio negativo della legge n. 124 del 2008 che impropriamente, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, con norme di rango ordinario, sottrae le più alte cariche dello Stato alla giurisdizione penale” e impegnava il Governo “ad attivarsi, nell'ambito delle proprie competenze, affinché la legge n. 124 del 2008, nota come â€lodo Alfano’, sia abrogata visti i problemi che la stessa ha creato nella prima applicazione”. Analogo impegno era contenuto nella mozione n. 1-00186, a prima firma Di Pietro, anch’essa respinta.
La Corte costituzionale, con (sentenza n. 262 del 2009, depositata il 19 ottobre, ha dichiarato l’incostituzionalità della legge 124/2008(“lodo Alfano”) per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione, in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost. L’articolo 3 Cost. afferma il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; l’articolo 138 Cost. prescrive uno speciale procedimento per l’approvazione delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali.
L’iter argomentativo seguito dalla Corte nella sentenza sul lodo Alfano è il seguente:
Dopo la sentenza della Corte costituzionale, la Commissione Affari costituzionali del Senato ha avviato l'esame di una proposta di legge costituzionale che attribuisce al Parlamento la facoltà di deliberare la sospensione dei processi penali per reati extra-funzionali nei confronti del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri (A.S. 2180); la sospensione opera per l'intera durata della carica o della funzione (sul contenuto della proposta di legge costituzionale si veda il dossier del Servizio studi del Senato).
La Commissione, che non ha concluso l'esame del provvedimento in sede referente, ha svolto numerose audizioni sul tema della sospensione del processo per le alte cariche nella seduta del 23 giugno 2010.
Biblioteca della Camera dei deputati
Servizio studi della Camera dei deputati
Anche nella XVI legislatura, e sulla scia di sempre più eclatanti vicende di cronaca, il Parlamento ha affrontato il tema della lotta all corruzione tentando di individuare strumenti per prevenire un fenomeno che appare così esteso nel nostro Paese (si veda il Rapporto Greco del 2009 e, da ultimo, il Rapporto sulla corruzione presentato dalla Commissione sulla prevenzione del fenomeno corruttivo il 22 ottobre 2012) e per reprimere efficacemente gli autori degli illeciti.
Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha ratificato tre Convenzioni internazionali, una delle Nazioni Unite e due del Consiglio d'Europa, volte a reprimere il fenomeno della corruzione.
Il primo intervento del Parlamento in tema di lotta alla corruzione è stato infatti l'approvazione della legge 116/2009, di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a Merida nel 2003.
Pochi mesi dopo, il Senato ha avviato l'esame di un disegno di legge del Governo Berlusconi (AS. 2156) che affrontava il tema della lotta alla corruzione prevedendo un generale inasprimento delle pene per i delitti contro la pubblica amministrazione. Il complesso iter della legge "anticorruzione" influenzerà anche l'approvazione dei progetti di legge di ratifica di due convenzioni del Consiglio d'Europa, che il Parlamento deciderà di ratificare senza disposizioni di adeguamento interno, ritenendo che ogni ulteriore modifica al diritto penale sostanziale dovesse trovare sede nel progetto di legge anticorruzione, poi legge 190/2012.
Pertanto, con la legge 110/2012, il Parlamento ha ratificato la Convenzione penale di Strasburgo del 1999 sulla corruzione che impegna, in particolare, gli Stati a prevedere l'incriminazione di fatti di corruzione attiva e passiva tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel settore privato; del cosiddetto traffico di influenze; dell'autoriciclaggio. Con la legge 112/2012 ha ratificato la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo nel 1999 e diretta, in particolare, ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudiziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione.
Il disegno di legge A.S. 2156, recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione è stato presentato dal Ministro della giustizia Alfano al Senato nel maggio 2010 (sul contenuto originario del disegno di legge si veda il Dossier del Servizio studi del Senato) ed approvato il 15 giugno 2011. Alla Camera l'A.C. 4434 - il cui contenuto è descritto nel Dossier del Servizio studi - è stato esaminato dalle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia che nelle sedute del 13 settembre e del 14 settembre 2011 hanno svolto sul tema un'indagine conoscitiva. Approdato in Assemblea nel maggio 2012, il provvedimento è stato ampiamente modificato rendendo necessario un nuovo passaggio al Senato (A.S. 2156-B). Anche le commissioni del Senato hanno svolto numerose audizioni, acquisendo ulteriori elementi conoscitivi; il 12 ottobre 2012 l'Assemblea del Senato ha approvato il testo con modifiche, rendendo necessario un ultimo esame alla Camera. In particolare, al Senato, a seguito dell’approvazione di un maxiemendamento del Governo, i primi 26 articoli del disegno di legge sono stati sostituiti e inglobati in un articolo unico.
La legge 190/2012, definitivamente approvata dalla Camera il 31 ottobre 2012, presenta un contenuto eterogeneo:
L'articolo 1 della legge individua l’autorità nazionale competente a coordinare l’attività di contrasto al fenomeno corruttivo nella pubblica amministrazione, nonché le funzioni degli altri organi incaricati di funzioni di prevenzione e contrasto dell’illegalità. In sintesi, il nuovo assetto organizzativo delle politiche di contrasto alla corruzione a livello nazionale si fonda sulla collaborazione tra la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – Civit, il Dipartimento della funzione pubblica e le pubbliche amministrazioni.
In particolare, il comma 2 dell’articolo 1 individua, quale Autorità nazionale anticorruzione, la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – CIVIT, così modificando la precedente distribuzione delle competenze in questa materia.
Per quanto concerne l’attuazione in Italia delle disposizioni sulle autorità nazionali anticorruzione, occorre infatti ricordare che, in un primo momento, con la legge n. 3/2003[1] (art. 1), era stato istituito l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e degli altri illeciti nell’ambito della pubblica amministrazione. Successivamente, il D.L. n. 112 del 2008 (art. 68, co. 6 e 6-bis), ha soppresso la figura dell’Alto Commissario e trasferito le strutture e funzioni al “Ministro competente”, con facoltà per quest’ultimo di delegare un sottosegretario di Stato. In attuazione di tale disposizione, con D.P.C.M. 2 ottobre 2008 (art. 1) è stato attribuito al Dipartimento della funzione pubblica il compito di:
Il Dipartimento della funzione pubblica esercitava tali funzioni attraverso il Servizio Anticorruzione e trasparenza (SAeT) dello stesso Ministero. Confermando l’assetto di competenze successivo al D.L. 112, l’articolo 6 della legge 116/2009 di ratifica della Convenzione ONU ha designato quale autorità nazionale ai sensi dell'art. 6 della Convenzione il soggetto al quale sono state trasferite le funzioni dell'Alto Commissario, ai sensi dell'art. 68, comma 6-bis, del decreto-legge 112/2008.
Pertanto, con la legge 190 la Civit – a cui peraltro la normativa istitutiva già attribuisce il compito di favorire la diffusione della legalità e della trasparenza nelle pa – si sostituisce nel ruolo di Autorità nazionale anticorruzione al Dipartimento della funzione pubblica, che ha ricoperto tale veste sino a quel momento.
La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – Civit è stata istituita exarticolo 13 del decreto legislativo 150/2009 con la funzione di indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione delle amministrazioni; di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale. A tali attribuzioni si affianca il compito di garantire la trasparenza totale delle amministrazioni, cioè l’accessibilità dei dati inerenti al loro funzionamento. La Commissione esercita le proprie attribuzioni «in posizione di indipendenza di giudizio e di valutazione e in piena autonomia», in collaborazione con il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In particolare, ai sensi del comma 8 dell’articolo 13 del d.lgs. 150, nell’ambito della Commissione è istituita la Sezione per l'integrità e la trasparenza delle amministrazioni, a cui sono assegnati, con delibera della Commissione, personale della struttura ed esperti di elevata professionalità ed esperienza sui temi della prevenzione e della lotta alla corruzione. La Sezione ha il compito di favorire la diffusione della legalità e della trasparenza nelle amministrazioni pubbliche e sviluppare interventi a favore della cultura dell'integrità.
Le funzioni affidate alla Commissione in materia di lotta alla corruzione attengono prevalentemente al ruolo di rappresentanza istituzionale, specie nei rapporti con i competenti organismi internazionali, nonché di vigilanza e controllo sulle politiche di contrasto alla corruzione e sull’efficacia delle singole misure adottate dalle pubbliche amministrazioni. Più nel dettaglio, alla Commissione è affidato il compito di:
Residuano in capo al Dipartimento della funzione pubblica importanti funzioni normative, esecutive e di coordinamento (art. 1, co. 4). Infatti, il Dipartimento:
Le pubbliche amministrazioni centrali predispongono un piano di prevenzione della corruzione e adottano procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo la rotazione di funzionari e dirigenti in tali settori (co. 5). Il piano è adottato entro il 31 gennaio di ogni anno a proiezione triennale, dall’organo di indirizzo politico e viene trasmesso al Dipartimento della funzione pubblica; la sua elaborazione non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione (co. 8). Anche gli enti locali predispongono il piano e, a tal fine, possono richiedere al prefetto il necessario supporto tecnico e informativo del prefetto (co. 6).
Per quanto riguarda contenuti ed obiettivi (co. 9), il piano è funzionale a:
Le pubbliche amministrazioni centrali e gli enti locali individuano un responsabile della prevenzione della corruzione. Nelle prime, questi è scelto di norma tra i dirigenti di ruolo di prima fascia in servizio, mentre negli enti locali coincide con il segretario, salva diversa motivazione (co. 7). Il responsabile (co. 8 e 10):
In tema di responsabilità sono individuate nuove fattispecie. In particolare, la mancata predisposizione del piano e la mancata adozione delle procedure di selezione e formazione costituiscono elementi di valutazione della responsabilità dirigenziale (co. 8). Inoltre, il responsabile della prevenzione, in caso di commissione, all'interno dell'amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato risponde, per responsabilità dirigenziale e sul piano disciplinare, per danno erariale e danno all’immagine della p.a. salva la prova di aver predisposto il piano di prevenzione prima della commissione del fatto, di averne osservato le prescrizioni e di aver vigilato sul funzionamento e sull'osservanza del piano (co. 12). La sanzione disciplinare non può essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi. Il responsabile della prevenzione risponde per responsabilità dirigenziale e sul piano disciplinare, per omesso controllo, anche nell’ipotesi di ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal Piano da parte dei dipendenti dell’amministrazione, per i quali tali condotte costituiscono illecito disciplinare (co. 14).
I commi da 15 a 36 dell’articolo 1 della legge recano norme concernenti la trasparenza dell'attività amministrativa. Si ribadisce, attraverso il richiamo al d.lgs. 150/2009, che la trasparenza dell'attività amministrativa costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione (co. 15). La trasparenza, si prevede, è assicurata attraverso la pubblicazione, sui siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi. Sono oggetto di pubblicazione anche i bilanci e i conti consuntivi, nonché i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati. I criteri che devono essere seguiti nella pubblicazione sono: facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio e di protezione dei dati personali.
Le pubbliche amministrazioni, ai sensi del comma 16, assicurano i livelli essenziali di cui sopra con particolare riferimento ai procedimenti di:
Le informazioni pubblicate sono trasmesse in via telematica alla CIVIT (co. 27). Tali disposizioni si applicano anche ai procedimenti posti in essere in deroga alla procedure ordinarie (co. 26). Con riferimento a tutti i procedimenti amministrativi, la legge (art. 1, co. 28) impone, inoltre, alle pubbliche amministrazioni di provvedere al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali anche al fine di evidenziare e risolvere eventuali anomalie. I risultati devono poter essere consultabili sui siti istituzionali di ciascuna amministrazione.
Ulteriori misure volte ad assicurare la trasparenza amministrativa sono:
Per l’attuazione dei nuovi obblighi di pubblicità, il comma 31 demanda ad uno o più decreti interministeriali, da adottare sentita la Conferenza unificata. Specifiche prescrizioni sono stabilite dal comma 32 per la pubblicazione delle informazioni relative alla scelta del contraente, prevedendo obblighi in capo alle stazioni appaltanti e all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Il comma 33 stabilisce che la mancata o incompleta pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni delle informazioni, costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici, ai sensi dell'art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 198/2009e, dunque, presupposto per avviare la c.d. class action della pubblica amministrazione (su cui, si v. Decreto legislativo 198/2009 - Tutela collettiva nei confronti della P.A.). È, altresì, valutata ai sensi dell'art. 21, D.lgs. 165/2001 (in materia di responsabilità dirigenziale) così come eventuali ritardi nell'aggiornamento dei contenuti sugli strumenti informatici sono sanzionati a carico dei responsabili del servizio.
Per quanto riguarda, l’ambito di applicazione soggettivo, le regole sulla trasparenza introdotte dalla L. 190/2012 sono destinate alle amministrazioni pubbliche come individuate dall’art. 1, co. 2, D.lgs. 165/2001, agli enti pubblici nazionali e alle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, limitatamente alla loto attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto nazionale o dell’UE (co. 34).
Infine, il legislatore ha disposto una delega al Governo (co. 35 e 36), da attuare con un unico decreto legislativo entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, per il riordino della normativa in materia di obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazione da parte delle p.a., che, oltre alla ricognizione ed il coordinamento di tutte le disposizioni vigenti, preveda:
Lo schema di decreto legislativo è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri nella seduta del 15 febbraio 2013.
I commi da 19 a 24 dell'articolo 1 della legge 190/2012 intervengono sul c.d. Codice degli appalti (d.lgs. 163/2006) per modificare la disciplina degli arbitrati. In particolare la riforma novella l'art. 241 del Codice - che, nell’ambito della Parte IV (Contenzioso) disciplina l’arbitrato, a cui possono essere deferite le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario - specificando che:
La legge sulla corruzione nella pubblica amministrazione introduce alcune modifiche alla La disciplina del procedimento amministrativo, recata dalla legge n. 241/1990 (legge proc.).
Innanzitutto (co. 37), si modifica l’articolo 1 della legge prevedendo che i soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative debbano non solo seguire criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, ma anche assicurare nella propria attività livelli di garanzia non inferiori a quelli cui sono tenute le pubbliche amministrazioni.
Inoltre, l’articolo 1, co. 38, con una modifica all’art. 2, co. 1, della L. 241, prevede la possibilità per le pubbliche amministrazioni di concludere il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata qualora ravvisino “la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda”. La semplificazione consiste nel fatto che la motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. In tal modo, s’intendono fornire gli strumenti per attuare correttamente l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, già sancito dall’articolo 2 della L. 241, nei casi in cui si riscontri l’assoluta mancanza dei presupposti per l’avvio della stessa istruttoria, al fine di realizzare un’ulteriore semplificazione ed accelerazione dell’attività amministrativa.
L’art. 1, co. 41, ha introdotto il nuovo articolo 6-bis della L. 241/1990, ai sensi del quale il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale hanno un dovere di astensione in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale. Non sono indicate le conseguenze della violazione di tale disposizione da parte del dipendente. La disposizione, che ha finalità di evitare l’insorgere di fenomeni di illegalità e di corruzione, pare esplicitazione del più generale dovere di imparzialità, sancito dall’articolo 97 della Carta costituzionale, nonché dalla stessa legge proc., in base al cui art. 1, l’attività amministrativa deve essere retta dal criterio di imparzialità.
Sempre al fine di garantire l’imparzialità e la massima trasparenza dell’attività amministrativa, il comma 47 dell’art. 1 aggiunge al comma 2 dell'articolo 11 della legge proc. la disposizione secondo la quale agli accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento si applica la disciplina sulla motivazione di cui all’articolo 3. Pertanto, tali accordi devono essere motivati, con l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Inoltre, senza modificare la legge 241, l’articolo 1, co. 48 delega il Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, un decreto legislativo per introdurre una disciplina organica degli illeciti e delle sanzioni disciplinari correlati al superamento dei termini di definizione dei procedimenti amministrativi.
Infine, l’art 1, co. 62 della legge dispone in tema di danno all’immagine della pubblica amministrazione, inserendo due nuovi commi all’articolo 1 della legge 20/1994 che disciplina il giudizio di responsabilità amministrativa. In particolare si prevede: una presunzione fino a prova contraria relativa alla quantificazione del danno all’immagine della PA, derivante dalla commissione di un reato contro la stessa p.a. da parte del dipendente (il danno si presume essere pari al doppio del valore patrimoniale illecitamente percepito dal dipendente); la concessione del sequestro conservativo di beni mobili e immobili del convenuto nei giudizi di responsabilità amministrativa per il danno all’immagine in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale.
Alcune disposizioni della legge 190 incidono direttamente sulla disciplina dei dipendenti pubblici, introdotte in molti casi con lo strumento della novella al D.lgs. 165/2001. Le modifiche principali riguardano:
Infine, la legge 190 (all’art. 1, co. 49) contiene un’ulteriore delega al Governo avente un duplice oggetto. Da un lato, la modifica della disciplina vigente in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle p.a. e negli enti privati che svolgono funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi per le p.a. o gestione di servizi pubblico. Dall’altro, la modifica della disciplina vigente in tema di incompatibilità tra incarichi dirigenziali e di vertice e lo svolgimento di incarichi elettivi o la titolarità di interessi privati che si possono porre in contrasto con l’esercizio imparziale delle funzioni pubbliche. Tra i criteri per l’esercizio della delega (co. 50) si segnala la necessità di prevedere la non conferibilità di incarichi dirigenziali:
L'articolo 1, commi da 52 a 58, della legge 190/2012 detta una serie di disposizioni volte a prevenire le infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti di lavori. In particolare, la legge anticorruzione prevede l'istituzione presso ogni prefettura di c.d. white list, ovvero elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di opere non soggetti a infiltrazione mafiosa.
Già in precedenti occasioni nel corso della legislatura il parlamento aveva previsto l'istituzione di questi elenchi. Si ricordano, in particolare,
- l'art. 4 del decreto-legge 70/2011 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia) che per l’efficacia dei controlli antimafia nei subappalti e subcontratti successivi ai contratti pubblici ha, per primo, generalizzato l’istituzione di “white list” di imprese presso le Prefetture, prima previsto in singole leggi speciali (normative sulla ricostruzione in Abruzzo, sulle opere per l'EXPO 2015, sul piano carceri);
- l'art. 5-bis del decreto-legge 74/2012 (Terremoto Emilia) che prevede – per l’efficacia dei controlli antimafia sugli interventi di ricostruzione post-terremoto - che presso le prefetture delle province interessate agli interventi stessi siano istituite le cd. white list ovvero gli elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori considerati soggetti non a rischio di infiltrazione mafiosa, cui si rivolgono gli esecutori dei lavori di ricostruzione. Va sottolineato come il comma 1 dell’art. 5-bis del DL 74/2012 prevede – diversamente dall’art. 4 del D.L. 70/2011, per cui è facoltativo – il ricorso obbligatorio, per gli esecutori dei lavori di ricostruzione, ad una delle imprese inserite nella white list.
Si ricorda che l'art. 91, comma 7, del D.Lgs 159/2011 (Codice antimafia) affida ad un regolamento, da adottare con D.M. Interno, l'individuazione delle diverse tipologie di attività suscettibili di infiltrazione mafiosa nell'attività di impresa per le quali, indipendentemente dal valore del contratto, è sempre obbligatoria l'acquisizione dell'informazione antimafia.
Analiticamente, la legge anticorruzione:
La riforma diventerà operativa a partire dal sessantesimo giorno successivo all'emanazione di un decreto attuativo del Presidente del consiglio dei ministri (comma 57).
L’articolo 1, co. 59, dispone in via generale in ordine all’ambito di applicazione delle disposizioni anticorruzione dei commi da 1 a 57 che investe tutte le amministrazioni pubbliche indicate dall’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 165/2001. Contiene inoltre una clausola di adeguamento (co. 60) ad alcune disposizioni recate dalla legge per le regioni e province autonome di Trento e Bolzano, nonché per gli enti locali, gli enti pubblici e i soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo.
In particolare, si stabilisce che i relativi adempimenti siano adottati entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge in sede di Conferenza unificata e riguardano:
La legge anticorruzione, all’articolo 1, co. 63-65, delega il Governo ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e di componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, di presidente e di componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di consigliere di amministrazione e di presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al D.lgs 267/2000 c.d. TUEL, e successive modificazioni, di presidente e di componente degli organi esecutivi delle comunità montane.
Si tratta di riordinare ed armonizza la normativa vigente, disseminata in distinte fonti normative, secondo alcuni principi e criteri direttivi:
In chiusura della legislatura, la delega è stata attuata con il D.lgs. 235/2012, che completa il quadro delle novità intervenute in materia di Ineleggibilità, incandidabilità e incompatibilità parlamentari.
La legge anticorruzione vieta ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e procuratori dello Stato, la partecipazione a collegi arbitrali o l'assunzione di incarico di arbitro unico (art. 1, comma 18), pena la decadenza dalla carica e la nullità degli atti compiuti.
Rispetto agli stessi soggetti, i commi da 66 a 74 dell'articolo 1 della legge prevedono l’obbligo del collocamento fuori ruolo per l’attribuzione degli incarichi apicali o semiapicali presso istituzioni, organi ed enti pubblici. La legge delega inoltre il Governo a individuare gli ulteriori incarichi per i quali il collocamento fuori ruolo è obbligatorio. In particolare, la legge 190/2012:
I commi da 75 a 83 dell'articolo 1 della legge 190/2012 apportano modifiche al codice penale e al codice di procedura penale con la sue disposizioni di attuazione, al codice civile e al decreto legislativo sulla responsabilità amministrativa degli enti (d.lgs. 231/2001).
La legge 190/2012 (art. 1, comma 75) introduce numerose modifiche al codice penale; in primo luogo, aumenta le pene previste per i seguenti delitti contro la pubblica amministrazione:
Inoltre, la legge ridefinisce alcune fattispecie penali e ne introduce di nuove. Analiticamente:
Sull'eliminazione del riferimento alla figura dell'incaricato di pubblico servizio nel testo dell'articolo 317 c.p. si è sviluppato un particolare dibattito nella seduta del 22 maggio 2012 delle Commissioni riunite alla Camera. Sul punto è intervenuto, in risposta ad alcune richieste di chiarimenti, il Ministro della giustizia Severino che ha evidenziato come la scelta di non prevedere più l'incaricato di pubblico servizio quale autore del reato trovi la propria giustificazione nella considerazione che questi non ha poteri tali da essere in grado di costringere il soggetto passivo del reato, mentre è in grado di indurlo indebitamente a dare o promettere delle utilità. Il Ministro ha proseguito osservando poi come, in sostanza, la nuova formulazione dei reati di concussione, corruzione per l'esercizio della funzione e induzione indebita a dare o promettere utilità tenga conto, per quanto attiene al soggetto attivo del reato, della diversa forza coercitiva del pubblico ufficiale e dell'incaricato di pubblico servizio. L'eliminazione del riferimento alla figura dell'incaricato di pubblico servizio ripristina sul punto il testo dell'articolo 317 del codice penale vigente anteriormente alla riforma effettuata con la legge n. 86 del 1990.
Ulteriori modifiche al codice penale hanno, soprattutto, natura di coordinamento essendo prevalentemente volte ad estendere l'ambito di applicazione di alcune disposizioni codicistiche mediante l'inserimento nelle medesime del rinvio alle nuove fattispecie incriminatrici. Da ultimoInfine, la legge
La legge 190/2012 (art. 1, comma 76) novella il codice civile sostituendo l'art. 2635 (prima rubricato Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità), e rubricandolo corruzione tra privati.
La disposizione prevede - al comma 1 - che siano puniti con la reclusione da uno a tre anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori che, compiendo od omettendo atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionano nocumento alla società. Il comma 2 dispone l'applicazione della pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al precedente comma. Il successivo comma 3 prevede che il soggetto che dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e secondo comma sia punito con le pene ivi previste. Il comma 4, infine, statuisce che le pene stabilite nei commi precedenti siano raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 58/1998). Il delitto è procedibile a querela.
L'art. 1, comma 77 della legge anticorruzione coordina la disciplina della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (d.lgs 231/2001) con le novelle introdotte nel codice penale (v. sopra). In particolare, la citata responsabilità consegue anche per i reati:
La legge anticorruzione interviene (art. 1, comma 78) anche sull'art. 308 del codice di procedura penale, in tema di durata massima delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare. Inserendo nella disposizione un ulteriore comma si prevede che, nel caso in cui si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 314 (Peculato), 316 (Peculato mediante profitto dell'errore altrui), 316-bis (Malversazione a danno dello Stato), 316-ter (Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), 317 (Concussione), 318 (Corruzione per l'esercizio della funzione), 319 (Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio), 319-ter (Corruzione in atti giudiziari), 319-quater, primo comma (Induzione indebita a dare o promettere utilità), e 320 (Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio) del codice penale, le misure interdittive perdano efficacia decorsi sei mesi dall'inizio della loro esecuzione (in luogo dell'ordinario termine di due mesi). Si dispone, inoltre che, in ogni caso, qualora tali misure siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice possa disporne la rinnovazione anche oltre sei mesi dall'inizio dell'esecuzione, fermo restando che comunque la loro efficacia viene meno se dall'inizio della loro esecuzione sia decorso un periodo di tempo pari al triplo dei termini previsti dall'articolo 303 del codice di procedura penale.
La legge novella anche (art. 1, comma 79) l'art. 133 delle norme di attuazione del codice di rito, prevedendo che anche il decreto che - ai sensi dell'articolo 429 del predetto codice - dispone il giudizio per il nuovo reato di cui all’articolo 319-quater del codice penale (Induzione indebita a dare o promettere utilità), sia comunicato alle amministrazioni o agli enti di appartenenza del dipendente pubblico.
Infine, la legge 190/2012
La legge sul legittimo impedimento a comparire in udienza nasce alla Camera dalla calendarizzazione in Commissione Giustizia, il 9 dicembre 2009, di una serie di proposte di legge di iniziativa parlamentare (AA.C. 889, 2964, 2982, 3005, 3013, 3028, 3029) volte - ciascuna con caratteristiche diverse - a modificare l'articolo 420-ter del codice di procedura penale, con la finalità di identificare normativamente le attività, esercitate da soggetti che rivestono cariche pubbliche di rilievo costituzionale, che costituiscono impedimento a comparire nelle udienze penali. L'effetto di tali proposte di legge era rappresentato dal rinvio dell'udienza penale, per la durata dell'impedimento, con la fissazione di una nuova udienza.
Nelle sedute della Commissione dedicate all'esame del provvedimento sono emerse subito profonde critiche da parte dell'opposizione soprattutto a causa della natura ordinaria delle norme proposte, che era ritenuta in contrasto con la loro rilevanza costituzionale. Nel corso dell'esame la Commissione peraltro introdotto nel testo unificato una disposizione sul carattere transitorio delle disposizioni sul legittimo impedimento, con particolare riguardo al limite dell'ambito temporale del provvedimento, fissato in 18 mesi, ed al riferimento all'approvazione di una legge costituzionale organica sulle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri e sulle modalità di partecipazione degli stessi ai processi penali. Ciò ha indotto la Commissione Affari costituzionali a rendere sul provvedimento un parere favorevole (20 gennaio 2010)
L'esame in Aula alla Camera del testo approvato dalla Commissione (A.C. 889 e abbinati-A) è iniziato il 25 gennaio 2010. In quella sede, il relatore ha richiamato l'esigenza di garantire l'equilibrato esercizio della giurisdizione e delle prerogative del Parlamento e del Governo, bilanciando funzioni e poteri costituzionalmente garantiti in base al principio di leale collaborazione, ed ha sottolineato come il provvedimento all'esame introducesse una disciplina meramente transitoria in attesa di pervenire ad una definitiva sistemazione della materia attraverso una riforma costituzionale. L'opposizione ha sottolineato invece come il testo rispondesse unicamente all'esigenza di garantire l'immunità del Presidente del Consiglio fino al termine del mandato, provocando in tal modo un danno enorme alla macchina giudiziaria, rendendo, tra l'altro, il processo penale ingiusto e diseguale.Sono conseguentemente state presentate due pregiudiziali di costituzionalità che sono state respinte dall'Assemblea. La Camera dei deputati ha dunque approvato il provvedimento il 3 febbraio 2010 (316 voti favorevoli, 239 contrari e 40 astenuti).
Immediatamente trasmesso al Senato, il provvedimento (A.S. 1996) è stato definitvamente approvato il 10 marzo 2010. La legge 51/2010 è stata promulgata il 7 aprile 2010, pubblicata in G.U. l’8 aprile e, ai sensi dell’art. 2, comma 2, è entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione.
In sintesi, la legge 51/2010, senza modificare direttamente l'art. 420-ter c.p.p., con disposizione autonoma disciplina l'impedimento a comparire nelle udienze, quale imputato, del Presidente del Consiglio e dei Ministri. Le attività che danno luogo ad impedimento sono individuate nell'esercizio delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo. La disposizione ha natura transitoria, essendo destinata ad operare in attesa della legge costituzionale recante la disciplina organica delle prerogative del Presidente del consiglio e dei Ministri, e comunque non oltre 18 mesi dalla data della sua entrata in vigore.
Più in particolare, l'articolo 1, comma 1, della legge individua per il Presidente del Consiglio dei ministri una serie di fattispecie che vengono qualificate ex lege come legittimo impedimento a comparire nelle udienze dei procedimenti penali, ai sensi dell'articolo 420-ter del codice di procedura penale, quale imputato.
L’articolo 420-ter del codice di procedura penale rubricato "Impedimento a comparire dell'imputato o del difensore" disciplina il comportamento del giudice del dibattimento nel processo penale in caso di assenza dalle udienze dell’imputato o del suo difensore e prevede che:
1. Quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta all'udienza e risulta che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d'ufficio, rinvia ad una nuova udienza e dispone che sia rinnovato l'avviso all'imputato, a norma dell'articolo 419, comma 1.
2. Con le medesime modalità di cui al comma 1 il giudice provvede quando appare probabile che l'assenza dell'imputato sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore. Tale probabilità è liberamente valutata dal giudice e non può formare oggetto di discussione successiva né motivo di impugnazione.
3. Quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta alle successive udienze e ricorrono le condizioni previste dal comma 1, il giudice rinvia anche d'ufficio l'udienza, fissa con ordinanza la data della nuova udienza e ne dispone la notificazione all'imputato.
4. In ogni caso la lettura dell'ordinanza che fissa la nuova udienza sostituisce la citazione e gli avvisi per tutti coloro che sono o devono considerarsi presenti.
5. Il giudice provvede a norma del comma 1 nel caso di assenza del difensore, quando risulta che l'assenza stessa è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato. Tale disposizione non si applica se l'imputato è assistito da due difensori e l'impedimento riguarda uno dei medesimi ovvero quando il difensore impedito ha designato un sostituto o quando l'imputato chiede che si proceda in assenza del difensore impedito.
La legge 51 individua il legittimo impedimento nello svolgimento concomitante dell'esercizio di una o più delle attribuzioni del Presidente del Consiglio previste dalle leggi o dai regolamenti, e in particolare richiama:
Per quanto riguarda i ministri, il comma 2 prevede che costituiscano un legittimo impedimento:
Il comma 3 prevede poi che il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti, rinvii il processo ad altra udienza. A norma del comma 4 si prevede infine che, ove la Presidenza del Consiglio dei ministri attesti che l'impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni indicate dalla legge, il giudice rinvii il processo ad udienza successiva al periodo indicato; tuttavia il comma fissa ex lege un termine di durata massimo per il conseguente rinvio, che non può essere superiore a sei mesi. Secondo la previsione del comma 5, il corso della prescrizione rimane sospeso. Il comma 6 reca una norma transitoria, in virtù della quale le disposizioni dell'articolo 1 si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della legge.
L'articolo 2 prevede che le disposizioni di cui all'articolo 1 si applichino:
La legge 51/2010, sia durante l'iter parlamentare di approvazione, sia all’indomani della sua entrata in vigore, ha suscitato non pochi dubbi di conformità costituzionale, incentrati sul fatto che la legge introduceva una presunzione “assoluta” (c.d. iuris et de iure) di legittimo impedimento, non riservando al giudice alcuna possibilità di sindacare l’impedimento medesimo, a differenza di quanto accade con la disciplina generale ex art. 420-ter c.p.p. Infatti, di fronte
alla produzione in giudizio dell’attestazione del Segretario Generale della Presidenza del Consiglio di “impedimento continuativo” dell’imputato (sia esso Presidente del Consiglio, sia esso Ministro), il giudice era costretto, di fatto, a sospendere il processo sino a quando l’impedimento non fosse cessato. E, dunque, l’impedimento stesso – sostanziandosi in una causa automatica di rinvio del dibattimento – si risolveva in uno status derogatorio dell’ordinaria giurisdizione, con la conseguenza che sarebbe stata necessaria, ai fini della sua validità, una norma di rango costituzionale, come del resto aveva specificato la Corte costituzionale nella sentenza n. 262 del 2009 e, soprattutto, si poteva evincere dall’art. 2 della legge, che rinviava appunto a una riforma costituzionale.
Tali dubbi sono giunti al vaglio della Corte costituzionale, alla quale si sono rivolti i giudici innanzi ai quali pendevano procedimenti penali a carico del Presidente del Consiglio, che hanno evidenziato il contrasto della legge con gli artt. 3, sotto il profilo dell’uguaglianza e 138 della Costituzione.
Con lasentenza n. 23 del 2011 il giudice delle leggi ha dichiarato:
Con il D.P.R. 23 marzo 2011 è stato indetto, per i giorni 12 e 13 giugno 2011, un referendum abrogativo delle norme della legge sul legittimo impedimento che residuavano dopo il citato intervento della Corte costituzionale.
Raggiunto il quorum di validità del referendum (54,8%, compreso il voto estero), la consultazione popolare ha dato esito favorevole (94,6% dei SI) all'abrogazione della legge 51 del 2010.
La formale abrogazione delle norme sul legittimo impedimento oggetto del referendum è avvenuta con il DPR 18 luglio 2011, n. 115.
Durante la XVI legislatura per ben tre volte la Commissione giustizia della Camera ha avviato l'esame di proposte di legge di iniziativa parlamentare volte a contrastare le discriminazioni fondate su motivi di omofobia e transfobia. Nei primi due casi è stata l'Assemblea ad approvare pregiudiziali di costituzionalità che hanno bloccato il successivo iter dei provvedimenti; nell'ultimo caso è stata la stessa Commissione giustizia ad approvare un emendamento interamente soppressivo del testo sottopostole.
Provvedimenti mirati alla specifica tutela di omosessuali e transessuali si rintracciano nell’ambito degli interventi attuati a livello europeo per prevenire ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale.
In particolare, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea afferma, all’articolo 10, che «nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale». Il divieto di discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale trova un ulteriore riferimento normativo nell’articolo 19.
La disposizione prevede che «il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale». Peraltro, in deroga alla disposizione precedente, il paragrafo 2 dell’art. 19 aggiunge che «il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle misure di incentivazione dell'Unione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui al paragrafo 1».
Per quanto concerne specificamente il tema dell’omofobia, si ricorda che il 18 gennaio 2006 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sull'omofobia in Europa con la quale, condannando ogni forma di omofobia, ha chiesto agli Stati membri di contrastare tali fenomeni e alla Commissione europea di far sì che la discriminazione basata sull'orientamento sessuale sia vietata in tutti i settori. Con la successiva Risoluzione del 26 aprile 2007 sull'omofobia in Europa il Parlamento europeo è tornato a chiedere alla Commissione di garantire che la discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale in tutti i settori sia vietata completando il pacchetto legislativo contro la discriminazione basato sull'articolo 13 del trattato CE, «senza il quale lesbiche, gay, bisessuali e altre persone che si trovano a far fronte a discriminazioni multiple continuano ad essere a rischio di discriminazione».
La lotta contro l’omofobia costituisce inoltre una delle priorità del Programma 2010-2014 per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (programma di Stoccolma), adottato dal Consiglio europeo nel dicembre 2009. Il Programma sottolinea in particolare che “poiché la diversità è una fonte di ricchezza per l'Unione, l'Unione e gli Stati membri devono garantire un ambiente sicuro in cui le differenze siano rispettate e i più vulnerabili siano tutelati. Occorre continuare a lottare con determinazione contro le discriminazioni, il razzismo, l'antisemitismo, la xenofobia e l'omofobia”.
Il tema della discriminazione dei transessuali è stato specificamente affrontato a livello europeo qualche anno addietro. In particolare, già con la Risoluzione sulla discriminazione dei transessuali del 12 settembre 1989, il Parlamento europeo invitava, da una parte, il Consiglio d’Europa a emanare una convenzione per la tutela dei transessuali e, dall’altra, la Commissione e il Consiglio a precisare che le direttive comunitarie sull’equiparazione di uomini e donne sul posto di lavoro vietano anche la discriminazione dei transessuali. Pochi giorni dopo al Parlamento europeo faceva eco l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che, attraverso la Raccomandazione 1117 (1989) sulla condizione dei transessuali, invitava gli Stati membri a proibire ogni forma di discriminazione dei transessuali in base all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Il contrasto alle discriminazioni fondate su motivi di omofobia e transfobia è stato oggetto di un lungo e contrastato iter parlamentare.
All’inizio della XVI legislatura la Commissione Giustizia della Camera ha avviato l’esame di due proposte di legge (AA.C. 1658 e 1882) volte a fornire una tutela contro ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale del singolo o sulla sua identità di genere. Entrambe le proposte novellavano la legge n. 654 del 1975, di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo, integrando le ipotesi di discriminazione penalmente sanzionate dall’articolo 3. A seguito di un ampio dibattito svoltosi in Commissione, il testo risultante dall’esame in sede referente (AC 1658-1882-A) non interveniva sulla legge del 1975, ma introduceva nell’art. 61 del codice penale una nuova circostanza aggravante dei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la personalità individuale, contro la libertà personale e contro la libertà morale, consistente nell'avere commesso il fatto per finalità inerenti all'orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa.
La Commissione Affari costituzionali in sede consultiva aveva formulato sul testo un parere favorevole a condizione che fosse adeguatamente definita la nozione di "orientamento sessuale", anche al fine di garantire il rispetto del principio costituzionale di determinatezza della fattispecie penale.
Tale testo è stato respinto dall’Assemblea, a seguito dell’approvazione di una questione pregiudiziale presentata dal gruppo dell’UDC per motivi di costituzionalità (seduta del 13 ottobre 2009). In particolare, in tale strumento procedurale si evidenziava, da un lato, la violazione dell’articolo 3 Cost., che sancisce il principio di uguaglianza, posto che chi subisce violenza, presumibilmente per ragioni di orientamento sessuale, riceverebbe una protezione privilegiata rispetto a chi subisce violenza tout court; dall’altro, l’indeterminatezza dell’espressione “orientamento sessuale” per violazione del principio di tassatività delle fattispecie penali di cui all’art. 25 Cost.
Il tema è stato nuovamente posto all’attenzione della Camera con l’esame in Commissione giustizia di due nuove proposte di legge dell'opposizione: l’A.C. 2802 (Soro) cui è stata abbinata la proposta C. 2807 (Di Pietro). La proposta dell’On. Soro è stata anche inserita, in quota opposizione, nel calendario dell’Assemblea per il mese di maggio 2011. In prossimità dell’esame delle proposta in Assemblea, la Commissione giustizia ha però respinto una proposta di testo unificato presentato dalla relatrice, on. Concia (seduta del 18 maggio 2011).
Il testo unificato proposto dalla relatrice constava di due articoli. L’articolo 1 novellava il codice penale, inserendovi:
L’articolo 2, rubricato Lavoro di pubblica utilità, prevedeva che in caso di reati aggravati in base alle disposizioni precedenti la sospensione condizionale della pena potesse essere subordinata alla prestazione di attività non retribuita in favore di enti o associazioni che hanno lo scopo di tutelare le persone omosessuali o transessuali contro le discriminazioni.
La rappresentante in Commissione del Partito Democratico ha allora chiesto la revoca dell’abbinamento della proposta C. 2807 (Di Pietro), insistendo dunque per un voto sulla proposta originaria dell’On. Soro (C. 2802). Le proposta di legge A.C. 2802, analogamente al testo unificato esaminato nel 2009, era volta ad introdurre una tutela contro le discriminazioni fondate sull’omofobia e la transfobia novellando l’art. 61 c.p. e dunque introducendo una nuova circostanza aggravante che ricorre quando l’autore del delitto ha commesso il fatto per motivi di omofobia e transfobia (articolo 1). La proposta conteneva però un’esplicita indicazione di tali motivi, che venivano così qualificati: motivi di odio e discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale della vittima del reato verso persone dello stesso sesso, verso persone del sesso opposto o verso persone di entrambi i sessi.
Anche in questo caso, l'Assemblea nella seduta del 26 luglio 2011 ha approvato le questioni pregiudizialità proposte, inerenti di nuovo la tassatività dei reati (art. 25 della Costituzione), sotto il profilo dell'indeterminatezza della condotta, e il principio di uguaglianza.
Il tema del contrasto all'omofobia non è stato tuttavia abbandonato dal Parlamento: la Commissione Giustizia della Camera ha infatti nuovamente avviato l'esame della proposta di legge A.C. 2807 (Di Pietro e altri) – che è potuta tornare all’esame della Commissione in sede referente perché disabbinata dall’A.C. 2802 prima del voto della Commissione - e della proposta di legge C. 4631 (Concia e altri). Entrambe le proposte intendevano contrastare i delitti commessi per finalità di discriminazione degli omosessuali o transessuali attraverso la novella di due disposizioni vigenti:
- la legge 654/1975 (c.d. Legge Reale), di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite a New York nel 1966, che all'articolo 3 sanziona le condotte di apologia, istigazione e associazione finalizzate alla discriminazione. Analiticamente, l’articolo 3 punisce:
- il decreto-legge 122/1993 (c.d. Legge Mancino) che ha provveduto ad inasprire le pene per i delitti previsti dalla legge del 1975 e ha introdotto (articolo 1) sanzioni accessorie in caso di condanna (dall’obbligo di prestare un'attività non retribuita a favore della collettività all’obbligo di permanenza in casa entro orari determinati; dalla sospensione della patente di guida o del passaporto al divieto di detenzione di armi, al divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale). Il D.L. n. 122/1993, inoltre, facendo costante rinvio alle fattispecie di cui all’articolo 3 della legge 654/1975, all’articolo 2 ha previsto sanzioni penali per:
Infine, il decreto-legge ha introdotto (articolo 3) la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico: per qualsiasi reato - ad eccezione di quelli per i quali è previsto l’ergastolo - commesso per le finalità di discriminazione di cui alla legge n. 654/75, la pena viene aumentata fino alla metà.
La Commissione - nella seduta del 24 ottobre 2012 - ha adottato come testo base l'A.C. 2807 che interviene su tutte le fattispecie previste dalla legge del 1975 aggiungendo alle attuali forme di discriminazione (per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi), la discriminazione fondata sull’omofobia o sulla transfobia conseguentemente novellando anche il decreto-legge 122/1993. Nella seduta del 7 novembre 2012, peraltro, la Commissione ha approvato un emendamento soppressivo dell'articolo 1 delle proposta, con conseguente caducazione degli articoli seguenti. La contrarietà della Commissione al testo della proposta nella sua complessità ha determinato un cambio di relatore e il mandato a riferire all'Assemblea in senso contrario sulla proposta di legge C. 2807. L'Assemblea non ha esaminato il provvedimento.
Biblioteca della Camera dei deputati
Servizio studi della Camera dei deputati
Con specifici provvedimenti d'urgenza (D.L. 92/2008 e D.L. 187/2010) sono state introdotte disposizioni di natura penale in materia di sicurezza. Un pacchetto di interventi finalizzati al decoro delle città e al contrasto dell'illegalità diffusa è inoltre contenuto nella legge in materia di sicurezza pubblica (legge 94/2008). La legge 120/2010 reca infine disposizioni in materia di sicurezza stradale.
Il decreto-legge 187/2010 contiene specifiche misure, anche di natura penale, per rafforzare la sicurezza degli impianti sportivi. Il provvedimento, in particolare, interviene in materia di reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive:
Inoltre, a fronte del consistente aumento nell'anno in corso di lesioni riportate a seguito di aggressioni da parte delle tifoserie violente da parte del personale addetto ai controlli dei luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive (cd. steward), il decreto-legge estende anche a tale personale alcune disposizioni già applicabili a tutela dei pubblici ufficiali che svolgono servizi di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive e, in particolare, l'aggravante del fatto commesso mediante il lancio o l'utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere.
Una serie di disposizioni, contenute nella legge 94/2009, in materia di sicurezza pubblica, persegue finalità di decoro delle città e di contrasto dell’illegalità diffusa. In particolare:
Il provvedimento prevede inoltre norme a tutela delle persone più deboli: minori (contrasto della prostituzione minorile, dell’impiego di minori nell’accattonaggio, della sottrazione di minore, ecc.); anziani (aggravante per il reo che si approfitta della vittima per la sua età); disabili (con specifico riferimento ai delitti contro il patrimonio).
Le questioni relative all’immigrazione, ed in particolare il contrasto all’immigrazione clandestina e ai reati connessi, sono state argomento di dibattito soprattutto nella prima parte della XVI legislatura. Con specifico riferimento ai profili penali, il decreto-legge 92/2008 inasprisce il regime sanzionatorio per violazioni connesse con l’immigrazione e contempla nuove fattispecie di reato. Tra l’altro:
La legge in materia di sicurezza (legge 94/2009), proseguendo in questa direzione, prevede la nuova fattispecie di reato dell’ingresso e soggiorno illegale, punita come contravvenzione e attribuita alla competenza del giudice di pace.
Inoltre, sono aumentate le pene per la mancata ottemperanza all’ordine di esibizione del passaporto (o di altro documento di identificazione) e del permesso di soggiorno e viene ridefinita la disciplina del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Per le modifiche in materia di espulsione dello straniero e, più in generale, sul tema dell’immigrazione, vedi Immigrazione clandestina.
Anche per l’attualità e la frequenza del fenomeno, di particolare rilievo appaiono le disposizioni del D.L. 92/2008, volte ad un generale inasprimento delle pene per l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose conseguenza di guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di droghe.
Sulla materia (sulla quale più in generale, vedi Sicurezza stradale) è successivamente intervenuta anche la legge in materia di sicurezza pubblica, che in particolare ha previsto l’aggravante della guida notturna per i reati di guida sotto l’influenza di alcool e di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
E' stata poi approvata la legge in materia di sicurezza stradale (legge 120/2010) che inasprisce ulteriormente le sanzioni previste dal Codice della strada per guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di stupefacenti. Di particolare rilievo le nuove, più restrittive disposizioni sul tasso alcolemico dei conducenti con età inferiore a 21 anni e per chi esercita professionalmente l'attività di trasporto di persone o di cose; per non incorrere in alcuna sanzione il tasso alcolemico di tali soggetti dovrà essere pari a zero.