XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 150 di lunedì 13 gennaio 2014

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI

La seduta comincia alle 11,05.

ANNALISA PANNARALE, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 10 gennaio 2014.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Angelino Alfano, Alfreider, Amici, Berretta, Bocci, Boccia, Borletti Dell'Acqua, Bray, Brunetta, Caparini, Carrozza, Casero, Castiglione, Cicchitto, Cirielli, Costa, D'Alia, Dambruoso, De Girolamo, Dell'Aringa, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Epifani, Ferranti, Fico, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Giachetti, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Legnini, Letta, Lorenzin, Lupi, Giorgia Meloni, Merlo, Migliore, Orlando, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Realacci, Ricciatti, Sani e Tabacci sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
I deputati in missione sono complessivamente cinquantuno, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza, che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

Trasmissione dal Senato di un disegno di legge di conversione e sua assegnazione a Commissione in sede referente.

PRESIDENTE. Il Presidente del Senato, con lettera in data 10 gennaio 2014, ha trasmesso alla Presidenza il seguente disegno di legge, che è stato assegnato, ai sensi dell'articolo 96-bis, comma 1, del Regolamento, in sede referente, alla VI Commissione (Finanze):

S. 1188. – «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133, recante disposizioni urgenti concernenti l'IMU, l'alienazione di immobili pubblici e la Banca d'Italia» (Approvato dal Senato) (1941) – Parere delle Commissioni I, II, III, IV, V, VII, VIII, X, XI, XII, XIII e XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Il suddetto disegno di legge, ai fini dell'espressione del parere previsto dal comma 1 del predetto articolo 96-bis, è stato altresì assegnato al Comitato per la legislazione.

Annunzio delle dimissioni di un sottosegretario di Stato.

PRESIDENTE. Comunico che il Presidente del Consiglio dei ministri ha inviato, in data 10 gennaio 2014, la seguente lettera:
«Onorevole Presidente, La informo che il Presidente della Repubblica con proprio decreto, in data odierna, adottato su mia proposta, ha accettato le dimissioni rassegnate Pag. 2dall'onorevole dottor Stefano Fassina, deputato al Parlamento, dalla carica di sottosegretario di Stato all'economia e alle finanze. Firmato: Enrico Letta».

Discussione della mozione Airaudo ed altri n. 1-00196 concernente iniziative volte alla salvaguardia dell'interesse nazionale in relazione agli assetti proprietari di aziende di rilevanza strategica per l'economia italiana (ore 11,09).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Airaudo ed altri n. 1-00196 (Nuova formulazione) concernente iniziative volte alla salvaguardia dell'interesse nazionale in relazione agli assetti proprietari di aziende di rilevanza strategica per l'economia italiana (Vedi l'allegato A – Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione della mozione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto che sono state presentate le mozioni Abrignani ed altri n. 1-00299, Allasia ed altri n. 1-00300 e Fantinati ed altri n. 1-00301 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione (Vedi l'allegato A – Mozioni).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Saluto gli studenti e gli insegnanti dell'Istituto comprensivo «Pallavicini» e dell'Istituto comprensivo «Montanelli» di Roma, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
È iscritto a parlare il deputato Quaranta, che illustrerà anche la mozione Airaudo n. 1-00196 (Nuova formulazione), di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

STEFANO QUARANTA. Signor Presidente, consideriamo la mozione che abbiamo presentato una mozione che attiene al tema del lavoro, dell'occupazione e dello sviluppo industriale di questo Paese e riteniamo che sia particolarmente importante che sia stata calendarizzata in questo momento, un momento in cui diciamo finalmente che il tema del lavoro è diventato centrale nel nostro dibattito e la centralità del tema lavoro ci porta a ragionare su questi temi.
Quindi, una breve premessa rispetto al merito della mozione. In effetti ci troviamo in una fase del nostro Paese caratterizzata da circa 9 milioni di persone che sono sostanzialmente coinvolte in maniera negativa dal tema occupazione-lavoro, tra chi non lo trova, chi non lo cerca più e chi ha un lavoro con salari talmente bassi e inconsistenti da non consentire la sopravvivenza. Per aggredire questa situazione non basta, a nostro giudizio, il libero mercato, non basta il sistema delle imprese: occorrono forti e spessi interventi pubblici, che facciano ripartire da questo punto di vista l'economia, lo sviluppo e l'occupazione.
Tra i giovani ormai si diffonde sempre di più l'auto-impiego come risposta a questa situazione di frustrazione, ovviamente molto più per disperazione che non per scelta. E anche il piano previsto sui giovani appare ancora debole per ciò che concerne gli impegni e la quantificazione delle risorse. Si sta parlando in questi giorni di job Act, vedremo dopo il 16 gennaio quali saranno le proposte effettive. Anche qui, però, naturalmente si porrà il tema del dove prendere le risorse, il tema della patrimoniale, della redistribuzione del reddito nel nostro Paese.
Noi riteniamo, infine – in questa fase un po’ di premessa alla nostra mozione –, che sia l'occupazione che genera sviluppo e non il contrario. Da questo punto di vista, le politiche di austerità condotte in Europa hanno portato semplicemente alla recessione, che oggi è sotto agli occhi di tutti. E, allora, in queste fasi di particolari rivoluzioni tecnologiche o considerando che le politiche fiscali non hanno ottenuto fino in fondo gli obiettivi che si ripromettevano e che certamente noi siamo contrari Pag. 3a far ripartire l'economia con la produzione di armi, non può che essere lo Stato ad intervenire. E, in particolare, noi abbiamo proposto già da tempo un green new deal che tenga insieme lo sviluppo e la cura del nostro territorio.
Occorre non solo intervenire da parte del pubblico, ma anche modificare il sistema produttivo, orientando verso i settori ad alta intensità di lavoro, in una situazione di crisi drammatica come questa, e di utilità sociale e verso i settori nei quali le macchine, per ragioni tecniche o anche di costo, più difficilmente potranno sostituire il lavoro. Serve, quindi, lo Stato. E da qui, allora, il ragionamento sull'interesse nazionale in relazione agli assetti proprietari di aziende di rilevanza strategica.
Alcune delle maggiori industrie del nostro Paese sono passate in mani straniere in questi ultimi anni. Parliamo di marchi che riguardano il mondo della moda e del lusso, il settore alimentare, quello della meccanica. Insomma, questa perdita del nostro Paese ha riguardato un po’ tutti i settori principali e spesso, oltre che perdere pezzi pregiati, le conseguenze sono anche ristrutturazioni aziendali drammatiche, volte spesso a comprimere il lavoro e l'occupazione, pur in presenza magari anche di antecedenti finanziamenti statali o di agevolazioni pubbliche di vario genere. L'ultimo esempio che ci riguarda un po’ da vicino è quello della Piaggio, rispetto alla quale anche a livello regionale erano stati fatti interventi di facilitazione e oggi si avvia, invece, una politica di ristrutturazione.
Il debito pubblico, d'altra parte, – è l'altro corno del problema – induce spesso a fare cassa e sono state annunciate nuove privatizzazioni o cessioni di pacchetti azionari in settori che – a mio giudizio – sono nevralgici dal punto di vista del profilo tecnologico e dello sviluppo del nostro Paese, a partire ovviamente dalle questioni che riguardano il settore civile di Finmeccanica e, quindi, le varie Ansaldo.
Più in generale noi ci opponiamo ad un rischio di grave deindustrializzazione del Paese – che ci sembra sotto agli occhi di tutti –, che risulta ancora più grave laddove si tratta di settori strategici perché relativi a quei settori, come le comunicazioni, i trasporti o l'energia, la cui difesa non può essere certamente lasciata al mercato anche per un fatto proprio di qualità della nostra democrazia. Da questo punto di vista, io vedo anche con una qualche preoccupazione la vicenda che riguarda Poste Italiane, che è stata uno dei pochi attori ben gestiti, anche di tipo pubblico, in questa fase e di cui, anche in questo caso, si annunciano delle cessioni.
A questo Governo noi chiediamo una posizione chiara, che fino ad adesso non abbiamo percepito, sugli asset strategici e sui loro assetti, innanzitutto di quelli controllati direttamente dallo Stato, e come si intende utilizzare il Fondo strategico italiano della Cassa depositi e prestiti, ad esempio per rilanciare il nostro patrimonio industriale e non semplicemente come forma di garanzia.
SEL in questi mesi, con diverse interrogazioni e mozioni, ha manifestato la sua contrarietà alla cessione del settore civile di Finmeccanica e ci chiediamo il perché non sia stato attuato l'articolo 2 del decreto-legge 15 marzo 2012, poi convertito, recante «Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni»; provvedimenti attuativi di quella golden power che potrebbe consentire di tutelare nel migliore dei modi l'interesse nazionale, imponendo condizioni di investimento o il mantenimento di presidi industriali in caso di passaggi di proprietà di importanti aziende italiani a stranieri. E qui gli esempi ovviamente non mancano: da Telecom ad Alitalia, passando appunto per le Ansaldo di Finmeccanica. Si ricorda, tra l'altro, che questo decreto-legge citato interveniva a seguito di indicazioni e anche, in qualche modo, censure sollevate in sede europea, riguardanti in particolare l'oggetto, le condizioni e le procedure di esercizio dello Stato di poteri speciali attinenti la governance di queste società operanti in settori strategici, rendendo compatibile al diritto europeo la disciplina nazionale.Pag. 4
La principale differenza di quest'ultima, io credo, con la normativa precedente sta nell'ambito operativo, consentendo l'esercizio dei poteri speciali rispetto a tutte le società pubbliche o private che svolgono attività di rilevanza strategica e non solo a quelle privatizzate o pubbliche. Vorrei soffermarmi per un attimo solo, invece, sulla vicenda Telecom. Infatti nel dicembre dello scorso anno, anche attraverso una proficua discussione in Commissione trasporti cui ho partecipato e attraverso molte audizioni tra cui quella dell'amministratore delegato Patuano, si è pervenuti ad una risoluzione sostanzialmente unitaria in cui appunto si poneva e si chiedeva con forza l'approvazione di questi regolamenti attuativi: si poneva il tema della sicurezza nazionale e l'esercizio anche della golden power laddove ci sia un problema che riguarda la democrazia, la qualità della democrazia e, quindi, della sicurezza del nostro Paese; della tutela dell'occupazione, fondamentale perché conosciamo le vicende di Telecom, cosa è successo negli ultimi anni, come si avviò la privatizzazione e i grandi guasti che ne conseguirono e anche le garanzie di accesso alla rete però da parte di tutti gli operatori; del mantenimento e del perseguimento di una dimensione internazionale del gruppo che solo può garantire un futuro ad una società così importante per il settore strategico che ricopre. E poi si poneva anche il perseguimento, con gli investimenti necessari, dell'agenda digitale e, da questo punto di vista, credo di poter accogliere anche in questa sede l'auspicio espresso in maniera unitaria dal sindacato di categoria, di avviare un negoziato da parte del Governo con Telefónica che, di fatto, è diventato ora il proprietario della società, volto a garantire quegli investimenti che sono fondamentali per colmare quel gap tecnologico anche coinvolgendo investitori come Cassa depositi e prestiti che possano garantire uno sviluppo di qualità in un settore così importante per il nostro Paese.
Poi naturalmente c’è tutto il tema della modifica della legge sull'OPA, come rappresentato molto bene dalla mozione approvata al Senato anche qui con i voti di SEL, in cui sostanzialmente si rafforzavano i poteri della Consob ma non solo. Quindi, per concludere, quali sono gli impegni fondamentali che la nostra mozione chiede a questo Governo nello spirito di dare una svolta, di dare una mano allo sviluppo di questo Paese ? Innanzitutto, l'approvazione definitiva dei regolamenti di cui all'articolo 2 in modo da consentire l'esercizio della golden power; gli impegni che sono stati assunti in maniera unitaria dalla mozione approvata in Commissione trasporti, in particolare per quanto riguarda la situazione di Telecom, ma anche la modifica della legislazione sull'offerta pubblica di acquisto dell'OPA approvata al Senato; porre in essere ogni atto di competenza del Governo finalizzato ad evitare che le vicende relative alla compagnia di bandiera Alitalia a seguito dell'ingresso di nuovi soci privati stranieri, di cui ovviamente andrebbe verificata l'affidabilità, non si traducano in una ristrutturazione il cui unico scopo sarebbe quello dell'ulteriore compressione del costo del lavoro, ovviamente senza che siano ridimensionati e penalizzati gli aeroporti di Roma Fiumicino, di Milano Malpensa e che si faccia qualunque cosa, si garantisca ogni atto di competenza del Governo finalizzato a salvaguardare innanzitutto gli attuali livelli occupazionali già così pesantemente danneggiati negli scorsi anni. Si tratta poi di arrestare, noi crediamo, nella qualità di azionista di riferimento di Finmeccanica ogni possibile cessione degli asset civili di Finmeccanica, a partire da Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia e Breda-Menarinibus, anche qui per scelta strategica perché rappresenta la qualità tecnologica e lavorativa del nostro Paese. Si tratta poi di avviare, a nostro giudizio, una strategia volta alla conclusione di partnership con imprese industriali complementari realmente operanti nel sistema competitivo globale dell'alta tecnologia perché ovviamente riconosciamo che c’è bisogno di questo per rilanciare l'attività di queste importantissime aziende. Poi chiediamo con grande forza di avviare una riorganizzazione che Pag. 5investa in profondità Ansaldo Breda, Selex ES, Alenia al fine di ottenere un deciso incremento di competitività arricchendo il loro portafoglio tecnologico di prodotti e favorendo l'internazionalizzazione del loro capitale umano e direzionale.
Infine – e questo lo ribadisco anche da genovese, da ligure – chiediamo un impegno a non procedere alla messa sul mercato delle residue quote pubbliche di grandi società partecipate dello Stato – Genova, la Liguria, ha una grande esperienza in questo settore, che spesso rappresenta una grande qualità dello sviluppo del nostro Paese e rischiamo di perderlo con gravissime conseguenze, penso al caso di Fincantieri, ad esempio – adottando, invece, un piano che le renda effettivamente competitive nel mercato interno e internazionale.
Ecco, noi crediamo che se il nostro Paese recupererà una seria politica industriale, se recupererà quei necessari investimenti che servono a far ripartire l'economia, anche la discussione sul lavoro non sarà più solo una discussione sul come redistribuire il poco lavoro che c’è, ma finalmente potremo ragionare su politiche espansive del lavoro e forse potremo corrispondere a quell'articolo della Costituzione – il numero 4 – che prevede che la Repubblica deve portare avanti tutti gli atti necessari per garantire questo diritto a tutti cittadini.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Abrignani, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00299. Ne ha facoltà.

IGNAZIO ABRIGNANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, oggi affrontiamo, attraverso queste mozioni, un problema che ci riguarda tutti da vicino e che in qualche modo vorrei cercare di allargare rispetto al semplice problema delle quote di proprietà di alcune società statali.
Il problema riguarda non solo la perdita di competitività e di produttività della nostra industria, bensì quello di una vera e propria deindustrializzazione del nostro Paese. Questa deindustrializzazione si sta verificando drammaticamente in due modi ed è un po’ sotto gli occhi di tutti quello che sta capitando da un paio di anni a questa parte: ossia, da una parte, la chiusura di numerosi impianti in alcuni settori industriali, peraltro neanche di poca importanza, e, dall'altra, che è un po’ forse l'argomento principale di queste mozioni, la perdita della proprietà nazionale, sia pubblica che privata, di aziende in settori industriali anche strategici.
Potremmo in questo, e sarebbe per questo un percorso senza speranza, vedere la fine di una parabola che vive un inizio positivo nell'immediato dopoguerra – in particolare negli anni Sessanta-inizio anni Settanta, i famosi anni del boom economico – dove la nostra industria manifatturiera, il nostro made in Italy, mise delle basi per far diventare poi il nostro Paese, intorno ai successivi anni Novanta, la quinta nazione più industrializzata del mondo.
Certo, quelli furono anni particolari, furono anche gli anni dell'esplosione del nostro debito pubblico, anni in cui il debito pubblico in qualche modo aumentò anche per l'acquisizione, chiamiamola nazionalizzazione, di alcuni settori strategici importanti del nostro Paese, ma che indubbiamente poi, successivamente, hanno sicuramente reso il nostro Paese, sia per reddito pro capite che per occupazione, un grande Paese industrializzato.
Tutto questo si è poi riversato negli anni futuri sia in alcuni settori importanti come l'energia, senza voler per questo ritornare al grande Enrico Mattei, ma insomma direi che sia l'ENI che l'ENEL hanno, sotto il profilo energetico, dato un grande lustro al nostro Paese con investimenti all'estero che spesso sono stati anche motivi di politica, oltre che di politica industriale, del nostro Paese.
Il nuovo secolo è stato indubbiamente portatore di grandi crisi, soprattutto economiche. Non possiamo dimenticare quella del 2001, successiva alla crisi politica che nacque con l'aggressione agli Stati Uniti, le famose vicende delle torri gemelle, con tutte le insicurezze che provocano danni alle economie, e successivamente quella più recente del 2008, successiva Pag. 6alla crisi finanziaria negli Stati Uniti, che ha avuto poi chiaramente ripercussioni in tutto il mondo.
Per cui, indubbiamente, questa sensazione di crisi, che ha colpito e nasce sicuramente fuori dall'Italia e probabilmente anche fuori dall'Europa, ha visto però reazioni completamente diverse, sia da un punto di vista di quelle che sono le potenze storiche del mondo, come potevano essere gli inglesi e gli americani, sia da quelle nascenti: sappiamo tutti il famoso discorso, oggi, del Bric e del Mint. Invece, a mio parere, l'Europa, ossia l'Unione Europea, quella dei Paesi storici e quella dei Paesi che si sono aggiunti – se così possiamo chiamare l'Unione europea, perché ultimamente, al di là di alcuni settori che hanno estremizzato questo aspetto da più parti – questa chiamiamola frettolosa unione di Stati europei non ha avuto la capacità di rispondere in maniera positiva a questa crisi, sia da un punto di vista politico, ma soprattutto dal punto di vista economico.
Un'Europa che non ha una medesima politica industriale, una medesima politica fiscale, una Banca centrale che, di fatto, è una banca che, al di là dell'attività positiva che ha potuto svolgere il suo Governatore, sicuramente non ha le caratteristiche di quella che dovrebbe essere una banca centrale di un'Unione, considerata come se da un punto di vista economico fosse un Paese unico: tutto ciò ha indubbiamente penalizzato l'Europa, ma, all'interno dell'Europa, i Paesi più deboli economicamente della stessa Unione.
A causa di alcuni problemi strutturali del proprio ciclo economico, prima di tutto ciò ha penalizzato proprio l'Italia. Si tratta di problemi strutturali concernenti, per quanto riguarda la parte pubblica, l'alto debito, e per quanto riguarda il privato, l'alto costo del lavoro e un'insostenibile pressione fiscale. L'Italia ha, pertanto, pagato un alto prezzo a questa crisi economica mondiale: è stata una delle nazioni nell'ambito dell'Europa a farlo, proprio per la sua struttura manifatturiera, per il suo costo dell'energia, sul quale non è riuscita ad incidere in maniera forte. Sappiamo tutti bene quello che è successo con la nostra proposta di tornare a recuperare un po’ di gap con riferimento al costo dell'energia attraverso il nucleare, proposta finita miseramente con il referendum.
Chiaramente, oltre a questi motivi non del tutto interni, come abbiamo indicato, bisogna denunciare fondamentalmente il principale motivo su cui noi vogliamo basare, poi, questa mozione: al nostro Paese è mancato, ormai da troppo tempo, un piano industriale nazionale, che dovrebbe porre le basi per evidenziare le questioni, al fine di risolvere i punti relativi che lo riguardano, che sono, tra l'altro, drammaticamente emersi nel corso degli ultimi due anni. Al di là di quella che è la struttura di un piano industriale nazionale, certamente, con riferimento al nostro Paese, non possiamo che evidenziare – e qui ne sceglierò solo alcuni – quelli che sono i limiti fondamentali per cui oggi, in Italia, sicuramente sarebbe difficile fare un piano industriale.
Indubbiamente noi abbiamo, rispetto alla nostra industria, un sistema capitalistico malato, che dobbiamo comunque denunciare rispetto ad altre concezioni europee dell'industria; un sistema capitalistico che ha spesso portato gli utili rispetto all'imprenditore e scaricato sulle aziende i debiti. Abbiamo, cioè, una rarissima capitalizzazione effettiva delle nostre aziende, in quanto si è spesso lavorato attraverso un sistema bancario che oggi, in Italia, se facessimo il conto, sarebbe proprietario della maggior parte delle aziende italiane e la crisi bancaria economica, indubbiamente, ha portato, in maniera negativa, a potersi porre in competitività con gli altri sistemi capitalistici europei.
Il secondo motivo – lo sappiamo e lo abbiamo denunciato più volte – è il costo del lavoro: un costo del lavoro giunto a livelli insostenibili, nonostante, poi – è stato dichiarato da tutti – la vera e propria parte retributiva sia per molte categorie modesta e non al livello delle responsabilità di tali funzioni, proprio perché sul costo del lavoro incide una parte Pag. 7fiscale, direi, in maniera non solo preponderante, ma, ormai, assolutamente esagerata.
Per non parlare, poi, del nostro sistema della giustizia civile e penale che, direi, ormai non possiamo neanche definire da Terzo mondo, perché tutte le statistiche mondiali mettono noi come Terzo mondo rispetto ad altre nazioni. E così potrei citare altri punti, e potrei continuare per molto tempo, ma l'elenco da tempo è ben noto. Quello che, invece, vorrei dire in maniera abbastanza chiara è che i nostri principali competitor europei hanno affrontato, e spesso risolto, molti dei punti di quell'elenco e, pertanto, oggi possono guardare alla crisi con altri obbiettivi e con altre speranze.
Conseguenza di questa disuguaglianza, appunto, è che, negli ultimi anni, le nostre aziende più competitive sono state spesso acquistate da aziende internazionali: francesi, spagnole, russe e alcune arabe. Allora, è questa oggi drammaticamente l'analisi della situazione: aziende pubbliche e private poste in vendita, altre più o meno piccole o medie chiuse o con gravi problemi di squilibri finanziari.
Secondo i dati Cerved, che ormai sono noti a tutti, nel 2013 sono state circa 1.000 le imprese che, ogni mese, hanno chiuso nel nostro Paese, ed è un dato insostenibile, perché, come tutti sappiamo, quando un'azienda chiude, per ricrearla, ci vuole molto tempo. Bisogna reagire, bisogna assolutamente reagire, non certo solo aggrappandosi ad alcuni casi abbastanza singolari come può essere l'acquisizione della FIAT sulla Chrysler (sulla quale peraltro tutti noi vogliamo ancora capire bene gli esiti occupazionali che possono riguardare il nostro Paese), ma io ritengo e noi riteniamo che sia fondamentale intanto, proprio per i motivi che abbiamo detto, andare a chiedere le riforme strutturali all'Unione europea, a cominciare dal prossimo Consiglio europeo di febbraio 2014, che sarà appunto dedicato all'industria. Per cui, dobbiamo andare a chiedere all'Europa delle riforme che rendano possibile un'uguaglianza in Europa. Dobbiamo anche chiedere a questo Esecutivo, se veramente vuol parlare di impegni seri, di cominciare con un piano industriale nazionale che affronti e risolva anche parte, certamente non tutti, di quei limiti che abbiamo indicato prima.
Dobbiamo anche noi, come qualcuno ha ricordato precedentemente, in effetti, anche tutelare alcuni settori strategici per il futuro del nostro Paese. Per esempio, noi di Forza Italia veniamo sempre criticati perché, con il Governo Berlusconi, abbiamo e siamo riusciti – ancora oggi speriamo di continuare – a salvare la nostra compagnia di Bandiera, l'Alitalia, perché noi stessi riteniamo che un Paese a cosiddetta altissima vocazione turistica non possa avere una compagnia di bandiera di proprietà di un competitor. Per cui, così come abbiamo fatto quella battaglia, oggi noi guardiamo con preoccupazione – non possiamo anche noi negarlo – l'acquisizione di rilevanti quote di proprietà in altri settori strategici quali quello delle telecomunicazioni. Però, certamente non è questo a nostro parere il primo punto. Il primo punto è quello di attivarsi per un piano industriale. Pertanto, con questa mozione chiediamo al Governo in primis di attivarsi presso la Comunità europea affinché tutti i competitori europei, tutti i competitori transnazionali, siano posti sullo stesso piano e non ci siano invece condizioni proprio nate dagli squilibri esistenti e che abbiamo indicato per una svendita delle aziende storiche del nostro Paese; ma chiediamo soprattutto al Governo che si impegni a porre in essere anche i provvedimenti necessari ad evitare che le aziende strategiche, che possono ancora far rimanere il nostro Paese tra le principali potenze mondiali, vadano in mani straniere.
Ma ripeto, la nostra richiesta principale, quella con cui vorrei terminare il mio intervento, è chiedere al Governo di porre finalmente le condizioni per un serio piano industriale che, anche con i limiti che abbiamo indicato, inverta l'attuale linea di tendenza che sta portando il nostro Paese su un piano di deindustrializzazione, e riprenda un percorso che i nostri padri ci hanno insegnato e che non Pag. 8è giusto che noi non lo lasciamo ai nostri figli. Per questo chiederemo il voto su questa mozione (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia – Il Popolo della Libertà – Berlusconi Presidente).

PRESIDENTE. Avverto che è stata testè presentata la mozione Dorina Bianchi n. 1-00302 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente (Vedi l'allegato A – Mozioni). Il relativo testo è in distribuzione.
È iscritto a parlare l'onorevole Fantinati, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00301. Ne ha facoltà.

MATTIA FANTINATI. Signor Presidente, gentili colleghi, signori del Governo, la presentazione di questa mozione da parte del gruppo parlamentare MoVimento 5 Stelle nasce da una preoccupazione che abbiamo già avuto modo tante volte di manifestare in numerosi atti parlamentari, in merito, ad esempio, alla crisi del settore manifatturiero o in tema anche di deindustrializzazione. La preoccupazione è che l'Italia rischia di perdere aziende strategiche e fondamentali per il suo sviluppo economico, ma potrei dire per il nostro sviluppo. Noi vorremmo, invece, evitare che ciò avvenga, e per questo ribadiamo la nostra contrarietà alla vendita delle residue quote pubbliche di imprese come ENI, ENEL, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Fincantieri, le reti del gas e della luce di Snam, Terna e delle reti Rfi e di Telecom.
Queste aziende sono una risorsa e non certo un peso per il Paese di cui sbarazzarsi, semmai lo dico qui per inciso ma è un tema su cui si dovrebbe aprire una riflessione seria; sarebbe il caso di interrogarsi soprattutto sull'operato di certi manager pubblici di queste e di altre imprese, a fronte di stipendi milionari, che spesso sono stati più volte tema di trasmissioni, anche di scandalo, per i numeri e proprio per quanto questi percepiscono, nonché in un periodo di crisi così importante come in questi anni. Manager, che spesso, hanno compiuto dei veri e propri disastri, ma poi, guarda caso, non ne hanno quasi mai pagato le conseguenze. Anzi, in taluni casi, questi manager – che poi sono sempre gli stessi e passano di società pubblica in società pubblica, quando addirittura non sono presenti contemporaneamente in più consigli di amministrazione – sono addirittura ricompensati con liquidazioni milionarie per i fallimenti prodotti. Alla faccia della meritocrazia che, più volte, in questa Aula e nelle Commissioni, è sempre stata richiesta ed è sempre stata richiamata !
È una meritocrazia che dovrebbe essere di esempio da parte di noi parlamentari e delle nostre aziende pubbliche e che, invece, rimane soltanto una parola, soltanto un buon proposito e mai si concretizza veramente nella nostra realtà quotidiana. C’è infatti proprio da rimanere sconcertati. Le privatizzazioni sono una cosa seria ma noi non ci fidiamo di questo Governo e temiamo che, qualora le facesse, sarebbero una svendita di fine stagione, utile solo ad incassare qualcosina oggi, ma rinunciando ad utili ben più consistenti nel futuro. C’è il rischio, infatti, che saranno le grandi multinazionali straniere ad approfittare di questa svendita e, così facendo, perderemo pezzi consistenti di aziende italiane che sono sane e sulle quali il Governo dovrebbe iniziare ad investire veramente in ricerca e sviluppo.
Vorrei aprire una parentesi per ricordare quanto e quanti degli investimenti in ricerca e sviluppo siano veramente quelli che portino maggiore ripresa dell'economia, che fanno «restare» i nostri giovani, i nostri talenti, i nostri cervelli, i nostri ricercatori: sono gli investimenti che permettono di farci conoscere nel mondo e di darci quella competitività di cui siamo sempre stati famosi ma che, purtroppo, oggi rimane, per molti versi, solo un ricordo.
Allora, le privatizzazioni devono essere fatte in maniera strategica, pensando al futuro ma non in maniera tattica per trovare magari le coperture finanziarie per la finta abolizione di qualche tassa o imposta quando poi sappiamo bene che alle tasse il Governo ha cambiato semplicemente Pag. 9nome ma non le ha certo tolte, non le ha certo ridotte come si era prefisso di fare.
Il Governo Letta naviga a vista, lo sappiamo bene, sembra in perenne campagna elettorale; le sue iniziative sono di corto respiro e quindi non è assolutamente in grado di poter bene operare ad un piano serio di privatizzazione. Se oggi, in effetti, si svendesse quello che resta del patrimonio pubblico italiano, ciò a differenza di quanto sostiene il Governo, non servirebbe ad abbassare il debito perché questo patrimonio sarebbe acquistato dagli stessi soggetti finanziari e imprenditoriali che controllano il debito pubblico italiano e che su di esso hanno speculato.
Poi domando: perché mai dovremmo vendere aziende sane e strategiche consolidatesi nel tempo grazie al lavoro e al sacrificio economico, alle tasse pagate da più generazioni di italiani ? Perché mai, specie in una fase di recessione, così pesante con una disoccupazione a livelli record, dovremmo depauperare l'indotto, formato magari da piccole e medie imprese, che esiste attorno a queste grandi aziende ?
In attesa che il Parlamento si pronunci sui provvedimenti regolamentari che permettono al Governo di attuare la golden power, è necessario sin da ora che il Governo stesso adotti politiche di tutela del patrimonio industriale italiano.
Invece di svenderlo, causando un danno irreparabile alla nostra economia, invito invece il Premier Letta e i Ministri ad intervenire sulle cause, alcune molto lontane, mentre altre più recenti, che impediscono al nostro Paese di essere competitivo sul piano internazionale. E mi riferisco ad esempio alle cause che tutti abbiamo sempre detto: all'eccessiva burocrazia, all'altissima pressione fiscale, al gap infrastrutturale tra nord e sud, alla situazione del credito da parte delle banche verso le imprese, alla corruzione dilagante, alla criminalità organizzata, all'evasione fiscale, ai mancati tagli della spesa improduttiva.
E ricordiamoci soprattutto che, quando parliamo di delocalizzazione, quando parliamo delle aziende che vanno via, ormai esistono miti che spiegano perché se ne vanno via, miti che ormai non sono più veritieri. Molti ci raccontano che la maggior parte delle aziende delocalizza perché la manodopera in altri Paesi costa molto meno. È vero che ci sono Paesi dove la manodopera costa molto meno, ma additarlo come la principale causa è falso: è strumentalizzare la delocalizzazione. Le 27 mila aziende che, dal 2009 ad oggi hanno delocalizzato, non l'hanno fatto certo nei Paesi dove la manodopera costa meno; al primo posto nel rank dei Paesi dove hanno delocalizzato, vi sono posti dove la manodopera non costa meno: si tratta della Francia, della Svizzera, dell'Austria, della Slovenia. Posti dove la manodopera non costa meno, ma dove è molto più facile fare impresa, dove un Governo aiuta chi vuole fare impresa e aiuta le imprese.
Tornando al nostro provvedimento, alla nostra mozione, se il Governo vuol fare cassa, come si suol dire, è proprio sui fattori che citavo poc'anzi, di arretratezza economica che deve intervenire, e non certo privandosi delle sue migliori aziende, visto tra l'altro che abbiamo già perso il controllo nel corso degli anni di tante aziende che erano il fiore all'occhiello del made in Italy a livello internazionale, in campo agroalimentare, della moda o del lusso e della meccanica. Qualche nome, per dare un po’ concretezza a quello che dico, sicuramente non degli elenchi del MoVimento 5 Stelle, ma preso dagli elenchi di Confindustria: posso citare i nostri gioielli che se ne sono andati all'estero, Bulgari, Pomellato, Parmalat, Avio, Edison, Giugiaro, Ducati, Lamborghini, e così tante altre. Aziende che sono sempre state portavalori della nostra creatività, della nostra italianità.
Alla luce di queste considerazioni il MoVimento 5 Stelle con questa mozione intende impegnare quindi il Governo a non procedere alla messa sul mercato delle residue quote pubbliche delle grandi società partecipate. Anzi, chiediamo che esso adotti un piano di ottimizzazione delle società partecipate dirette ed indirette Pag. 10dello Stato, al fine di valorizzarle, di renderle più competitive nel mercato interno ed internazionale. Per fare ciò, a nostro avviso il Governo deve adottare un piano industriale che promuova, attraverso misure di fiscalità di vantaggio, la ricerca e l'innovazione e la tutela del made in Italy in qualsiasi settore produttivo.
E infine – e concludo – specie nei delicatissimi settori dell'energia e delle comunicazioni, dove sono in ballo non solo gli interessi, ma anche la sicurezza nazionale, chiediamo che da parte del Governo, in base ai poteri previsti dal golden power, ci sia una vigilanza attenta. Ma lo chiediamo subito: mi chiedo quante aziende dovranno ancora andarsene, quanti talenti dovremo ancora perdere, quanti giovani dovranno ancora emigrare per trovare un giusto valore alla loro potenzialità.
Con questo concludo, e lascio veramente una riflessione su quanto esposto fino ad ora, perché proprio le nostre aziende, il nostro made in Italy è sicuramente la soluzione, è sicuramente la leva che dovremo usare per rilanciare ormai la nostra «bassa» economia (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole De Maria. Ne ha facoltà.

ANDREA DE MARIA. Signor Presidente, colleghi, la crisi finanziaria, economica e successivamente industriale che ha coinvolto le principali economie occidentali negli ultimi cinque anni, ha duramente provato il tessuto industriale e manifatturiero italiano, con gravissime conseguenze occupazionali, che qui sono state ricordate, ma anche con il rischio che quello che ora si perde non si recupererà più.
Secondo il rapporto «Competitività» della Commissione UE del 25 settembre 2013, l'Italia rischia un processo di vera e propria deindustrializzazione, con l'indice della produzione industriale che ha perso venti punti dal 2007. Tale evoluzione è attribuita dalla Commissione sia alla riduzione dell'attività dovuta al rallentamento economico, sia alla chiusura di numerosi impianti in alcuni settori industriali di base: petrolchimica, siderurgia e biocombustibili. L'industria manifatturiera italiana rappresenta il 15,5 per certo del valore aggiunto complessivo generato nell'economia italiana, un dato leggermente al di sopra della media UE – 15,3 – con forti presenze in settori dal profilo tecnologico più contenuto (come l'abbigliamento, la metallurgia ed il legno) mentre la quota dei settori più innovativi appare più ridotta rispetto a quella di altre economie europee.
Secondo i dati Unioncamere sulla natalità e mortalità delle imprese, l'aumento dei fallimenti delle imprese nel terzo trimestre del 2013 ha trascinato ai minimi da dieci anni il saldo tra aperture e chiusure di aziende. Se il processo di deindustrializzazione sta accelerando le prospettive del rischio irreversibile di decadenza economica del made in Italy, uno dei temi di maggior impatto è quello della delocalizzazione delle nostre attività produttive, basti pensare ai numerosi trasferimenti e aperture di aziende o di società italiane non solo in Paesi fuori dall'Europa o dell'est Europa, ma anche ad esempio in Svizzera, scelta solo apparentemente contraddittoria in quanto ad esempio questo Paese – ma si potrebbero fare altri esempi simili – offre numerosi vantaggi strutturali che vanno dal carico fiscale contenuto al riconoscimento di tutti i costi aziendali giustificati, alla tassazione più vantaggiosa sul lavoro, alla riorganizzazione burocratica e amministrativa più semplice e più snella, alla buona posizione strategica servita da autostrade, linee ferroviarie e aeroporti, alla strutturale predisposizione all'internazionalizzazione delle imprese. Anche le vicende Telecom, Alitalia e Finmeccanica sono gli ultimi tasselli di un processo di depotenziamento industriale che registra ritmi sempre più rapidi e che rischia di incidere profondamente sul complesso del sistema Italia.
La ancora lieve tendenza alla ripresa, che in sé ovviamente è un fatto molto positivo, costituirà davvero un segnale importante per l'Italia se essa sarà in grado di guardarsi alle spalle senza infingimenti Pag. 11e vedere le disastrose conseguenze di quello che può essere considerato il primo vero grande processo di deindustrializzazione dell'economia nazionale, in quanto profondamente diverso, per qualità e misura, dalle molte crisi industriali, anche gravi, che il nostro Paese ha attraversato dal dopoguerra ad oggi. Per fare ciò è indispensabile accedere in maniera sempre maggiore alle più avanzate conoscenze e ricerche in ambito scientifico e tecnologico, valorizzando al contempo il capitale prezioso delle risorse umane, soprattutto nel campo della formazione, quali serie premesse alla messa in campo di nuove politiche industriali e produttive all'altezza della sfida dei tempi che verranno.
Per tutto questo serve una nuova politica industriale, basata su scelte strategiche di settori prioritari di intervento e su nuove e rafforzate politiche attive per il sistema manifatturiero. Tra le misure più urgenti voglio sottolineare quelle volte ad ampliare l'accesso al credito, per la riduzione del costo dell'energia, per rafforzare il processo di riduzione del carico fiscale sul costo del lavoro, per favorire l'internazionalizzazione. Inoltre, fondamentali saranno azioni di semplificazione burocratica tese a creare un ambiente più favorevole alla ripresa dell'attività economica e ad attrarre capitali dall'estero, azioni che vanno dalla riduzione degli adempimenti amministrativi all'abbattimento delle cosiddette tasse occulte, alla certezza dei tempi e delle procedure nell'ottica più generale di una progressiva ripresa di competitività del nostro sistema industriale e del nostro Paese.
In questo quadro, quindi, risulta essere di assoluta rilevanza il ruolo del pubblico, sia con l'attività propulsiva del Governo, esercitabile mediante la politica industriale e l'intervento nelle situazioni di crisi aziendale, sia attraverso l'impresa direttamente partecipata dallo Stato, da utilizzarsi non solo come mera presenza sociale, ma ben di più come leva strategica in settori particolarmente rilevanti e di grande interesse nazionale.
Il Governo, sin dal suo insediamento, ha mostrato una particolare attenzione a queste tematiche attraverso l'emanazione di numerosi provvedimenti in materia. Voglio ricordare l'ultimo di questi provvedimenti, il decreto-legge n. 145 del 2013, il cosiddetto «destinazione Italia», attualmente all'esame della Camera. Però il Governo deve proseguire in questo lavoro e orientare la sua azione in alcune direzioni di fondo, che voglio qui molto brevemente ricordare e che vogliamo sottoporre alla discussione dell'Aula come Partito Democratico: sviluppare ulteriori misure atte alla concessione di nuovo credito alle aziende ed a favorire percorsi di aggregazione e crescita societaria, anche favorendo un graduale avvicinamento ai mercati della quotazione da parte delle società e delle imprese; attuare un programma nazionale di politica industriale, che punti al rafforzamento del sistema produttivo e all'innalzamento della competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali; attuare la strategia energetica nazionale, articolata sull'efficienza e sul risparmio energetico, sulla diversificazione delle fonti, sulla riduzione dei combustibili fossili, sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, sul potenziamento delle infrastrutture, anche con la prospettiva del mercato unico europeo dell'energia, al fine di consentire una sensibile riduzione dei costi energetici per il sistema industriale; procedere con decisione sulla via della semplificazione amministrativa, così da creare un clima favorevole per le imprese esistenti e incentivare la creazione di nuove imprese e attrarre investimenti esteri.
Per quanto riguarda la tutela delle produzioni industriali, pensiamo a promuovere le iniziative necessarie in sede comunitaria per rafforzare le normative in materia di anticontraffazione e made in con una nuova norma che introduca l'obbligo di indicazione di origine per tutti i prodotti per i quali non esista già una legislazione specifica in materia; rafforzare le misure di riduzione del costo del lavoro sulle imprese e sui lavoratori contenute nella legge di stabilità per il 2014, Pag. 12in modo da incrementare l'occupazione e i redditi disponibili; realizzare politiche che consentano al sistema produttivo di recuperare competitività sui mercati internazionali sviluppando nuove tecnologie, processi, prodotti, servizi e sistemi che possano offrire interessanti sbocchi occupazionali e di crescita economica; riorganizzare il sistema degli incentivi alle imprese, orientando le risorse pubbliche verso la realizzazione di grandi progetti di ricerca e innovazione industriale; rilanciare la competitività di alcuni settori strategici nazionali, quali ad esempio Finmeccanica, e in particolare AnsaldoBreda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia e BredaMenarini; operare, nel caso di Alitalia, ovviamente con gli strumenti concessi dalla natura di soggetto privato alla compagnia, affinché non venga meno un grande vettore aereo che ha nell'Italia la sua base logistica di riferimento e la cui presenza appare fondamentale per un Paese che ha nel turismo e nella manifattura due capisaldi della propria economia; completare rapidamente l'attuazione del decreto-legge 15 marzo 2012 n. 21, convertito con modificazioni nella legge 11 maggio 2012, n. 56, così da esercitare i poteri speciali per tutelare l'interesse nazionale in caso di passaggio a proprietà straniera di importanti aziende italiane che possiedano reti strategiche, come nel caso ad esempio di Telecom Italia, a tal fine anche valutando la possibilità di rivedere l'attuale disciplina dell'OPA e garantendo in ogni caso che l'eventuale passaggio non costituisca un depauperamento del sistema economico e produttivo nazionale.
Riteniamo che la discussione che si fa oggi sia di grande importanza per il nostro Paese, che sia interessante che sia stata sottoposta anche in questa occasione alla discussione delle Camere. A questo confronto il Partito Democratico porta il contributo che ho brevemente voluto enunciare e che sarà anche oggetto del futuro sviluppo della discussione su questa mozione in questa Aula.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali della mozione. Prendo atto che il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
Nel frattempo salutiamo gli alunni e gli studenti dell'Istituto comprensivo statale di Via Lamarmora di Villanova di Guidonia, che stavano assistendo ai nostri lavori dalle tribune e stanno ora lasciando l'Aula (Applausi).

Discussione della mozione Ciprini ed altri n. 1-00292, concernente iniziative in ambito europeo e nazionale per la revisione dei vincoli derivanti dal Trattato noto come «fiscal compact» (ore 11,56).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Ciprini ed altri n. 1-00292, concernente iniziative in ambito europeo e nazionale per la revisione dei vincoli derivanti dal Trattato noto come «fiscal compact» (Vedi l'allegato A – Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto che sono state presentate le mozioni Marcon ed altri n. 1-00298, Guidesi ed altri n. 1-00303 e Piso e Dorina Bianchi n. 1-00305 che vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. (Vedi l'allegato A – Mozioni). I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritta a parlare la deputata Paola Carinelli che illustrerà anche la mozione n. 1-00292 di cui è cofirmataria, ma constato Pag. 13che non è presente, come anche il deputato Giovanni Paglia, l'onorevole Piso e l'onorevole Cominardi; l'onorevole Palese anche... credo che durerà poco questo genere di discussione, continuando così. Onorevole Cariello... Onorevole Ciprini ? Ne ha facoltà.

TIZIANA CIPRINI. Signor Presidente, mi scusi, i colleghi stanno arrivando, sono tutti qui, quindi chiederei un minuto di sospensione proprio per dare il tempo materiale ai colleghi che lei ha appena chiamato di venire in Aula.

PRESIDENTE. Ma, mi pare che sia presente l'onorevole Cariello, che quindi può interenire, io non posso sospendere la seduta per il ritardo dei colleghi, il punto è all'ordine del giorno, io non sospenderò, a me risulta iscritto a parlare l'onorevole Cariello, ne ha facoltà.

FRANCESCO CARIELLO. Signor Presidente, se è possibile chiediamo cinque minuti di pausa perché l'ordine degli interventi era prestabilito e volevamo seguire anche quell'ordine.

PRESIDENTE. Ho capito collega, l'ordine degli interventi prevede che si sia in Aula quando inizia l'esame del punto, io posso dare la parola all'onorevole Paglia se intende intervenire, perché era iscritto prima di voi. Onorevole Paglia ? Prego, ne ha facoltà.

GIOVANNI PAGLIA. Signor Presidente, come si vede si riesce a risolvere rapidamente.
La mia tesi di laurea, che io scrissi molti anni fa, si proponeva allora di indagare la struttura del debito pubblico dei paesi del sud del mondo. E fu allora, non per la prima volta ma quasi, che io ebbi modo di approfondire la conoscenza di istituti come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, a cui gli accordi di Bretton Woods, onorati, attribuivano rispettivamente i compiti di favorire la stabilità valutaria e di agevolare gli investimenti in importanti opere infrastrutturali, ma che poi dagli anni ottanta, avevano invece ricevuto una triste fama, per essersi specializzati in quei drammatici esperimenti socio-economici noti come piani di aggiustamento strutturale. Il sistema era semplice e standardizzato. Si interveniva su paesi, la quasi totalità di quelli in via di sviluppo, gravati da un debito pubblico divenuto insostenibile per cause quasi sempre esogene, e si imponeva un pacchetto standardizzato di riforme ultra-liberiste, in testa alle quali era sempre presente la svendita del patrimonio delle infrastrutture e delle risorse nazionali. In una seconda fase poi, data l'inutilità evidente di questi provvedimenti sia in termini di sviluppo economico, sia di contenimento della massa debitoria, si provvedeva a mettere il paziente in coma farmacologico, garantendolo contro il default, ma allo stesso tempo rendendo di fatto virtuale il rimborso di quanto dovuto. Nessuno pagava più e gli interessi si andavano ad accumulare e andavano a fare massa insieme al capitale. Questo rendeva impossibile anche solo ipotizzare un miglioramento delle condizioni del paese interessato, condannandolo al crollo dei servizi di base, a partire da istruzione e assistenza sanitaria, e all'impossibilità di migliorare il proprio assetto infrastrutturale, dato il sequestro, divenuto endemico e a tempo indeterminato, di tutte le risorse pubbliche.
Contro questo stato di cose, evidentemente privo di qualsiasi logica diversa da quella del capitale finanziario globale e dello stato di potere determinato da questo, oggetto, non a caso, poi, di riflessione critica da parte di tutti gli ex presidenti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale – c’è da dire che è una riflessione critica che è arrivata sempre un minuto dopo la fine del loro mandato –, si organizzavano numerose campagne, che confluirono nella Campagna del Millennio, voluta dalla Chiesa cattolica in occasione dell'ultimo giubileo – la ricorderete – per l'azzeramento del debito ai Paesi del sud.
Prima e dopo i giorni di Genova 2001, il tema del debito dei Paesi del sud del mondo con i piani di aggiustamento strutturale, Pag. 14fu uno dei temi centrali di riflessione e di proposta del Movimento dei movimenti, che aveva colto nel giusto, individuandolo come uno dei temi chiave della distorsione e dell'ingiustizia globale. Bene, io facevo parte di quel Movimento, però, allora, avevamo un grande torto: credevamo di guardare all'ultimo retaggio, all'ultima catena del colonialismo, mentre stavamo guardando ad un anticipo di futuro. Non avevamo capito, allora, che, quando si tratta della capacità di far danni del capitale finanziario globale, la campana, prima o poi, suona anche per te, per noi.
Infatti, a partire dal 2007, la campana suona molto lontana dalle periferie del mondo, dove, peraltro, non ha mai smesso di squillare, e arriva diritta in Europa, dove porta esattamente le stesse logiche e le stesse ricette sperimentate con insuccesso, dal punto di vista dell'umanità, nel nostro sud. Con una differenza sostanziale, però: ad Atene, a Lisbona, a Roma, a Madrid, non si presentano solo i funzionari del Fondo monetario e della Banca mondiale. No, con loro vi sono anche rappresentanti dell'Unione europea, vi sono i rappresentanti della nostra casa comune, e questo è un problema politico.
È il dramma vero, perché la destra continentale, supportata da tutte le strutture burocratiche di Bruxelles, porta all'interno di quello che era ed è un ecosistema delicato, l'Unione europea, fatta di difficili equilibri e già messa alla prova dai diversi effetti prodotti dall'euro nei diversi Paesi che l'hanno adottato, una «bomba» come la logica dei piani di aggiustamento strutturale, incompatibile con qualsiasi principio di solidarietà economica e politica che dovrebbero accompagnare l'Unione, e pretende, addirittura, di istituzionalizzare questa «bomba» con nuovi trattati.
Nel momento in cui persino i parametri e la logica dell'impianto di Maastricht sembrano incompatibili con il futuro dell'Europa, interviene per renderli ancora più rigidi e ancora più vincolanti; risponde alla contrazione degli investimenti pubblici e privati, dei consumi, ad una crisi evidente di domanda, con le ricette dell'austerità del mercato, provocando, ovviamente, un avvitarsi della recessione; pretende, persino, che nelle Costituzioni venga iscritto un principio contabile, quello del pareggio di bilancio.
In Italia vince anche questa battaglia e questa, lo devo dire, è una vergogna che peserà su chiunque l'abbia sottoscritta, arrivando persino a negare al popolo italiano la possibilità di conoscere e decidere con un referendum (fu fatto in estate e correndo dietro ai due terzi, rapidamente). Tutto questo è il fiscal compact, il Trattato con cui, nel 2012, l'Europa finisce di mentire a se stessa o di suicidarsi. Perché dico questo ? Pensiamo all'Italia: noi, stante a quanto abbiamo firmato, dovremmo, a partire dall'anno prossimo, continuare a rimanere ben serrati nelle gabbie dei limiti al deficit strutturale e al deficit ciclico e cominciare a ridurre il nostro stock di debito fino alla soglia magica, perché di questo si tratta, del 60 per cento del PIL, ad un ritmo del 5 per cento annuo.
Ora, noi, nel 2013, abbiamo appena misurato quanto sia irrazionale, e quanto quindi generi incertezza, e quindi danni economici profondi, un sistema che costringa in novembre, sulla base dell'andamento del ciclo, a mettere mano a conti pubblici già compressi e stressati per passare dal 3,1 al 3 per cento del rapporto deficit/PIL. Credo che qui dentro abbiamo tutti consapevolezza che non esista alcuna differenza, nella prospettiva economica e finanziaria di breve, medio o lungo periodo, quella che si voglia, tra un Paese al 3,1 per cento o lo stesso Paese al 3 per cento di disavanzo, tanto più quando quel Paese ha in sé una situazione consolidata di avanzo primario.
Eppure, anche per evitare il sistema sanzionatorio automatico previsto dal fiscal compact, il Governo ci ha esposti al ridicolo, tra coperture fantasiose, «decreti a pioggia», incrementi del peso fiscale, che, tutti insieme, concorrono a deteriorare la credibilità dell'Italia e a svuotare l'energia del Paese.Pag. 15
Allo stesso modo credo che tutti noi abbiamo consapevolezza di quanto insostenibile sarebbe per l'Italia l'applicazione del Trattato negli aspetti che riguardano la riduzione a tappe forzate della massa debitoria. Significherebbe per noi dovere scegliere tra un drastico prelievo sui patrimoni immobiliari privati, senza distinguere eccessivamente tra grandi e piccoli, oppure la demolizione reale di tutto l'impianto del welfare pubblico: niente scuola, niente sanità, niente assistenza ad anziani e disabili, nessuna integrazione al reddito nei momenti di difficoltà, nessuna manutenzione ordinaria e straordinaria delle infrastrutture pubbliche eccetera, eccetera, eccetera all'infinito. Questo significa, in sintesi, ridurre del 5 per cento all'anno la massa debitoria per vent'anni.
Non è terrorismo e neanche ci interesserebbe farlo. Ci interessa, invece, la verità. Per capire di cosa sto parlando basti dire che, tra il 1976 ed oggi, il rapporto debito-PIL è cresciuto dal 54 al 133 per cento, con venticinque anni in aumento sul precedente e dodici anni in calo, ma solo in quattro di questi per più di qualche decimale e solo una volta, in una serie storica che comprende tutta la mia vita, abbiamo visto un calo pari o superiore al 5 per cento. Era il lontano 1980 e si passava al 55 dal 65 del 1979. C’è tuttavia da aggiungere un piccolo particolare, ovvero che in quel 1980 il deficit era al 7 per cento, l'inflazione al 22 e il PIL cresceva in termini reali del 3,5. In altre parole, eravamo di fronte ad un quadro complessivo che era del tutto diverso, non paragonabile a quello imposto dai trattati europei in vigore.
La verità ci imporrebbe, quindi, di dire che l'unica alternativa alle due soluzioni di cui sopra, incompatibili io credo persino con la tenuta di un regime democratico, sia pensare che noi, intendendo per «noi» l'intera classe dirigente del Paese, al rispetto del fiscal compact, almeno nella parte che riguarda il debito, non ci pensassimo neppure.
Allora, se è così, sarebbe più onesto dirlo e trattare apertamente in Europa la revisione complessiva di un'impostazione al termine della quale c’è solo la dissoluzione dell'Unione europea. Giova, d'altronde, a questo punto anche dedicare qualche parola a questa crisi dei debiti sovrani. Una grande, grandissima operazione di egemonia culturale, che è stata conquistata a partire dalle cosiddette rivoluzioni liberali di Thatcher e Reagan, alimentata dalla fine della Guerra Fredda, consolidata nel pensiero unico degli anni Novanta, al punto di essere in grado di uscire indenne da una crisi che avrebbe dovuto schiantarne tutti i presupposti pratici e teorici.
Invece è accaduto che si è imposto un modello di finanziarizzazione dell'economia mondiale, accompagnato da un'estensione abnorme e non necessaria dei mercati, dalla creazione di uno sconfinato esercito industriale di riserva globale, da giganteschi aumenti delle disuguaglianze in tutto il mondo, dalla centralità della produzione di denaro per mezzo di altro denaro. Ebbene, è accaduto che questo modello abbia finito per essere salvato a spese dei bilanci pubblici: le banche erano troppo grandi per fallire, mentre questo non vale evidentemente per gli Stati, data la loro capacità e possibilità di scaricare su cittadini e cittadine i costi del fallimento del neoliberismo.
L'Europa avrebbe dovuto resistere a questa follia, ne aveva le condizioni storiche e culturali; doveva avere la memoria di cosa abbia significato nella stagione delle guerre mondiali la disoccupazione di massa ed il crollo delle aspettative di vita; aveva inventato il welfare come condizione della cittadinanza; aveva scritto Costituzioni dove centrale era il ruolo del lavoro; aveva ed ha ancora, nel suo patrimonio vivo culturale presente, radicate culture di resistenza a questo cupio dissolvi liberista. Invece, finora, ha scelto di essere il luogo di sperimentazione della peggiore opera di dissipazione asimmetrica del proprio futuro in tempo di pace che si possa ricordare; dissipazione perché stiamo negando il futuro a 26 milioni di disoccupati e a un'intera generazione; asimmetrica perché, come sempre, ad essere colpiti non sono tutti allo stesso modo, ma sempre e Pag. 16solo quelle classi sociali che nel dopoguerra avevano saputo conquistare con le lotte il cambiamento. Di tutto questo le classe dirigenti europee portano una responsabilità enorme.
Chi dice tutto questo è un europeista convinto, senza dubbi, una persona che crede negli Stati Uniti d'Europa, che non mette in discussione l'euro, che non ha alcuna nostalgia per il nazionalismo sovranista monetario, fiscale o economico che sia, che ritiene l'Italia in altre parole una provincia d'Europa, ma che sa che se l'Unione europea è quella cosa che impone il «martirio» della Grecia sull'altare di egoismi nazionali ed austere ideologie liberali e che pretende dai Governi la sottrazione del futuro ai loro popoli allora quell'Europa franerà nel peggiori dei modi e non possiamo che preoccuparcene.
Noi di Sinistra Ecologia Libertà non ci faremo complici di chi vuole uccidere sia il sogno, sia la realtà di un continente pacifico e solidale, né spero lo farà nessuna – e dico nessuna – delle sinistre europee tutte insieme.
Per questo mettiamo a disposizione del Parlamento una mozione che richiede di impegnarci insieme a ottenere la mutualizzazione dei debiti sovrani, la revisione dei Trattati, e in particolar modo della legge rinforzata, l'adozione di una golden rule che permetta il finanziamento, anche in deficit, di quegli interventi necessari alla tutela del welfare e del territorio e alla ripresa economica per un nuovo modello di sviluppo, e l'attribuzione alla BCE – come dovrebbe esserle proprio, come è proprio in tutto il mondo alle banche centrali – anche del ruolo di prestatore di ultima istanza. E, naturalmente, chiediamo la democratizzazione dell'Unione europea come condizione per la piena cittadinanza continentale. Noi abbiamo bisogno di democrazia in Europa, non di burocrazia, è una condizione minima: noi cediamo sovranità all'Unione europea, abbiamo ceduto tanta sovranità all'Unione europea. Crediamo si debba fare di più, ma deve essere fatto in un quadro di democrazia che si afferma.
Io non so se sia un'utopia, non credo. Non credo sia un'utopia più di quanto sia stata un'utopia l'unità dei grandi Stati nazionali di questo continente, ultimo tra questi la Germania, che ha riconquistato l'unità nazionale due decenni fa. Non è un'utopia, ma è un obiettivo per cui vale la pena spendersi fino in fondo, finché siamo in tempo per farlo, prima che la crisi, come già vediamo in molti accenni, faccia di nuovo esplodere i nazionalismi in questo continente. I nazionalismi li vediamo, d'altronde, già latenti anche in quest'Aula, sotto vari aspetti. E la vera tragedia d'Europa è sempre stata questa: è sempre stato il prevalere dello spirito nazionale.
Io credo che chiunque sia europeista in quest'Aula, come noi lo siamo, abbia in questo momento semplicemente l'occasione di dimostrarcelo appoggiando la nostra mozione o discutendo insieme come altro andare nella stessa direzione (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Paola Carinelli, che illustrerà anche la mozione Ciprini n. 1-00292, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

PAOLA CARINELLI. Signor Presidente, «maiali», «PIIGS»: così ci chiamano in Europa, «maiali», «PIIGS». Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna: questo è l'acronimo che viene usato per questi Paesi, che letteralmente in inglese significa «maiali». Questo la dice lunga di come l'Europa veda il nostro e questi altri Paesi.
Noi con questa mozione proponiamo la revisione, la modifica di due trattati internazionali, il MES e il fiscal compact, che sono cardini del funzionamento dell'Unione europea. Il MES e il fiscal compact sono due accordi che noi italiani, anzi, il nostro Governo in realtà – visto che il Governo non ha chiesto nulla ai cittadini italiani – ha fatto con l'Europa, accordi che – ci tengo a sottolinearlo – non era obbligatorio firmare per restare nell'Unione europea. Lo ripeto: non era obbligatorio firmare questi due Trattati Pag. 17per restare nell'Unione europea, tanto che diversi Paesi dell'Unione europea non li hanno firmati.
Un accordo, il fiscal compact, prevede che il debito e il deficit non superino una certa quota e se superi questa quota, invece, l'Europa ti obbliga a manovre di rientro al limite dello strozzinaggio e le politiche di austerity, di tagli e di sangue degli ultimi anni ne sono una prova. Il problema è che le regole e i tetti che impone questo accordo al deficit e al debito sono troppo severi, cioè fissano degli standard troppo alti, che sono tarati sulle possibilità di altri Paesi, sono tarati sulle possibilità della Germania e dei Paesi del nord. In pratica, l'Europa ci impone una velocità che noi non riusciamo a rispettare.
È come se prendessimo una Mercedes e una Punto – giusto per fare un esempio a caso –, le mettessimo sulla stessa strada e le costringessimo ad andare a 130, a 150 chilometri orari. La Mercedes va, la Punto non ce la fa mica tanto: un po’ va, poi arranca, comincia a rimanere indietro e prima o poi alla fine «schiatta». E così noi: l'Europa ci sta imponendo una velocità che noi non riusciamo a mantenere. Noi siamo quella Punto: arranchiamo e alla fine «schiatteremo». Mettiamocela bene in testa questa cosa.
L'altro accordo di cui parliamo nella mozione è il MES, che prevede la creazione di un fondo in cui i vari Stati versano dei soldi che, in teoria, dovrebbero essere usati per aiutare gli Stati in difficoltà, ma, in realtà, vengono usati per tutt'altro, cioè per ripianare i debiti delle banche private.
In pratica i cittadini italiani hanno messo, senza saperlo, 15 miliardi di euro per aiutare delle banche private straniere quando, invece, potevano essere usati per molte altre cose, ad esempio, per aiutare le famiglie e le imprese in difficoltà. Se i cittadini avessero saputo, se avessero potuto scegliere tra dare questi 15 miliardi a banche private oppure darle a famiglie e imprese, sono sicura cosa avrebbero scelto. Ma è stato deciso sopra le loro teste. Proponiamo di cambiare questi due accordi perché, come tutti gli accordi, come anche gli accordi commerciali, possono essere modificati, possono essere rivisti, basta ridiscuterli. Il nostro Governo dovrebbe, cioè, andare dalle persone con cui ha fatto questi accordi anni fa e dirgli che questi accordi sono da rivedere, sono da ridiscutere e inizierebbe una trattativa. Ma il nostro Governo non lo fa. Non ci prova neanche. Perché ? Perché non ha il coraggio ? Sì. Perché non conta nulla in Europa ? Sì. Perché non gli interessa ? Be’, forse è il caso che il Governo inizi a fare gli interessi dei cittadini prima che quelli delle banche. L'Europa non dovrebbe essere uno strozzino, ma dovrebbe essere un aiuto (dovrebbe essere: condizionale). Se il nostro Governo non è in grado di imprimere questo cambiamento all'Europa, forse è meglio se si fa da parte perché gli italiani non sono maiali. I politici italiani probabilmente sì, ma i cittadini italiani no. Chi in questi anni era seduto in Parlamento e ha permesso tutto questo si dovrebbe vergognare. Oltre ai nostri soldi hanno venduto la nostra dignità (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Piso, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Cominardi. Ne ha facoltà.

CLAUDIO COMINARDI. Signor Presidente, oggi stiamo discutendo una mozione che vuole mettere sotto la lente di ingrandimento i trattati che l'Italia ha siglato con l'Europa richiedendone una profonda modifica. Si tratta in sostanza di vincoli come il fiscal compact e il cosiddetto Fondo salva-Stati che hanno come obiettivo apparente quello di diminuire il debito pubblico facendolo pagare ai cittadini. Tale debito è stato generato da poteri forti quali le lobby finanziarie, banchieri, speculatori e una classe politica clientelare e parassita. In realtà, con il MES ci indebitiamo ulteriormente e lo facciamo affinché, qualora se ne presentasse la necessità, l'organizzazione intergovernativa che dovrà Pag. 18gestire il Fondo salva-Stati ci possa prestare a chissà quali tassi di interesse un po’ di quello che abbiamo versato. Dal momento che per pagare la prima tranche del versamento dovremo fare dei debiti, quel meccanismo non farà che indebitarci ulteriormente. È lo strozzinaggio perpetuo. E il trattato che ha istituito il fondo è costruito in modo tale da permettere allo strozzino di fare qualsiasi cosa senza mai essere chiamato in giudizio per quello che fa. Un tassello importante per la dittatura europea sui popoli i quali saranno costretti a subire politiche di austerity sempre più rigide, non già per rilanciare lo sviluppo sostenibile, ma per pagare il fondo stesso. Le politiche di governance economica europea che si stanno attuando estromettono il cittadino dalle decisioni, esautorando di fatto un Parlamento che serve solo a ratificare decisioni prese a Bruxelles con l'avallo dei Governi compiacentemente asserviti. Di fatto abbiamo perduto buona parte della sovranità popolare delegandola a strutture sovranazionali che, a loro volta, rispondono ai mercati. Quel che emerge è che mentre milioni di cittadini europei stanno pagando con la loro vita le politiche recessive imposte dall'Europa, molte banche continuano ad arricchirsi giocando con le economie di interi Paesi. Nel contempo la troika Unione europea, BCE e Fondo monetario internazionale, chiede all'Italia di cedere sovranità e di proseguire il processo di privatizzazioni avviato nei primi anni Novanta durante i quali svendemmo interi asset strategici: Telecom Italia, ENEL, ENI sono solo alcuni esempi. C’è qualcosa di losco in tutto questo. Chi sono gli attori che in questi anni hanno tradito i principi di comunità e solidarietà a cui i padri fondatori dell'Europa si ispirarono ? Com’è possibile che l'Europa rappresenti ormai una dittatura finanziaria grazie alla regia di un club di banchieri tecnocrati ? Quali sono gli intrecci tra politica, istituzioni europee, italiane e le banche ? Si dice che siano gli uomini a fare la storia. Bene, allora facciamo un po’ di storia e un po’ di nomi.
Il primo è consulente della Banca d'affari Goldman Sachs, membro del comitato esecutivo dell’Aspen Institute Italia, organizzazione americana finanziata anche dalla Rockefeller Brothers Fund, che si pone come obiettivo quello di incoraggiare le leadership illuminate, le idee e i valori senza tempo. Questo personaggio è stato uno degli artefici dell'ingresso nell'unione monetaria europea dell'Italia. Si tratta di un ex Presidente del Consiglio ed ex Presidente della Commissione europea: il suo nome è Romano Prodi.
Ora passiamo al direttore esecutivo della Banca mondiale dal 1984 al 1990. È stato artefice delle più importanti privatizzazioni delle aziende statali italiane, avendo ricoperto diversi incarichi nel Ministero del tesoro durante gli anni Novanta. È stato Governatore della Banca d'Italia dal 2002 al 2005; è stato vicepresidente e membro del management committee worldwide della Banca d'affari Goldman Sachs; ora è Presidente dell'ente privato BCE-Banca centrale Europea. Nel 2013 è stato inserito tra le cento persone più influenti del pianeta, classifica redatta dal The Times per la categoria leaders, ma lui non è un leader politico, decide solamente la politica monetaria dell'Unione e autorizza le Banche centrali dei Paesi dell'area dell'euro a emettere banconote: poca roba insomma ! Il suo nome è: Mario Draghi.
Ed infine, il presidente dell'università Bocconi. Nel 1995 diventa commissario europeo per il mercato interno. Nel 1999 viene confermato commissario europeo dal Governo D'Alema, che indica Romano Prodi come secondo rappresentante per la Commissione europea, di cui lo stesso Prodi diviene Presidente. Dal 2005 al 2011 è stato international advisor per Goldman Sachs, anch'egli membro del comitato esecutivo dell’Aspen Institute. Dal 2010 è divenuto presidente europeo della Commissione trilaterale, gruppo di orientamento neoliberista fondato nel 1973 da David Rockefeller, e membro del comitato direttivo del Club Bilderberg. Da questi incarichi si è dimesso il 24 novembre 2011, a seguito della nomina a Presidente del Pag. 19Consiglio della XVI legislatura, durante la quale sono stati approvati provvedimenti come la ratifica ad accordi quali il fiscal compact, il disegno di legge costituzionale contenente il pareggio di bilancio in Costituzione, il Fondo salva-Stati e la conseguente «macelleria sociale» del decreto salva-Italia. Il suo nome è: Mario Monti.
Questi sono solo alcuni nomi dei protagonisti della società italiana in ambito nazionale ed europeo: tutti con ruoli importanti in Europa, tutti inseriti in ambienti molto influenti, tutti molto rispettati dai partiti, tutti insigniti dell'onorificenza di Cavaliere di gran croce ordine al merito della Repubblica italiana, tutti con un passato in Goldman Sachs, banca di investimenti americana che ha contribuito ad innescare la crisi finanziaria del 2008 trascinando nel baratro le economie del mondo, una banca a delinquere accusata di truffa e finita sotto inchiesta, definita da un ex manager...

PRESIDENTE. La invito a concludere.

CLAUDIO COMINARDI. ... un ambiente tossico e distruttivo, che considera i clienti dei pupazzi a cui vendere derivati avvelenati, pensando unicamente al «dio denaro». Questi cattivi maestri stanno lasciando una traccia indelebile sulla quale la politica di Palazzo non riesce a fare altro che seguire, senza nemmeno provare ad alzare lo sguardo verso una economia, una politica ed una società diversa. Se per incapacità o per complicità, sarà la storia a giudicarlo.
Con questa mozione proponiamo di restituire al Parlamento l'esercizio della sovranità sul proprio bilancio per non essere schiavi dell'Europa. Suggeriamo, inoltre, un'altra traccia, un'inversione di tendenza rispetto ai dogmi della finanza e dei mercati, che devono avere almeno rispetto dell'economia reale, che nasce dal valore oggettivo creato dalle persone e che, per questo, non può sottostare a qualunque vincolo finanziario ed economico (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Francesco Cariello. Ne ha facoltà.

FRANCESCO CARIELLO. Signor Presidente, colleghi e membri del Governo, oggi ci troviamo a discutere questa mozione sul fiscal compact, che il Parlamento prima di questa legislatura ha già ratificato con i Paesi con cui questo accordo è stato stretto. Ma è nostro dovere oggi, in questo Parlamento, informare i cittadini – sia quelli che siedono in quest'Aula, che quelli che sono fuori dal Palazzo – di quello che realmente implica l'adesione al fiscal compact.
Alla lettera parliamo di un patto di bilancio sottoscritto da soli 25 Paesi membri dell'Unione europea e non da tutti. E questo – come già in precedenza i miei colleghi hanno fatto notare – è già un dato importante. Quindi, non c’è piena coesione in questo accordo. È un patto di bilancio nato da un accordo intergovernativo, che poi è stato tramutato in un trattato internazionale e che stabilisce tempi e tracciati specifici affinché gli Stati firmatari raggiungano il pareggio di bilancio e lo mantengano negli anni.
Ciò al fine di ridurre il proprio debito pubblico ad una quota pari al 60 per cento del PIL. Bene, questo è il tecnicismo, ma cosa significa questo anno per anno per il nostro Paese ? Significa che le entrate dello Stato devono coprire interamente le spese e dove è possibile ambire anche a superarle. Ovvero in una condizione di grave crisi economica si chiede agli Stati membri o meglio agli Stati che hanno aderito a questo Accordo di produrre entrate superiori alle spese. Qualunque Governo si trovi ad affrontare un tale impegno in una condizione economica globale quale è quella del nostro tempo, deve necessariamente alzare le entrate, quindi le tasse, e ridurre contemporaneamente la spesa per i cittadini in tutti i prossimi anni, almeno nel prossimo ventennio. In una tale condizione stiamo praticamente dicendo ai cittadini che il Paese o meglio Pag. 20i nostri membri del Governo informano anche i cittadini che dal 2014 si intravede anche una ripresa economica.
Bene, sfido chiunque a trovare qualcuno sano di mente che ci creda veramente e che non sia membro di questo Esecutivo in carica. Dico ciò perché se applichiamo alla lettera questa strategia di finanza pubblica per i prossimi vent'anni, il fiscal compact, questa non potrà non avere implicazioni deflazionistiche e comportare ogni anno tagli alla spesa ed aumenti delle entrate per complessivi 50 miliardi l'anno.
Quindi, ciò, a giudicare da quella che è stata la nostra legge di stabilità, che ha mosso risorse per almeno un quinto di quello che per il prossimo ventennio questo Governo deve realizzare per ottemperare agli obblighi del fiscal compact, è veramente qualcosa di assurdo.
Si sta tentando di ridurre lo stock di debito pubblico e, con queste implicazioni, si ridurrebbe implicitamente anche il PIL del nostro Paese.
In una situazione del genere non intravediamo veramente nulla di concreto, nulla che abbia delle basi economiche, delle teorie economiche che supportino questo. Il nostro Paese con l'intera Comunità europea sta per entrare in una spirale deflazionistica che produrrà un disastro sociale mai visto prima nella storia dell'uomo, che si chiama disoccupazione con tutte le implicazioni socio-economiche che potranno derivare: credo che ci saranno più vittime della seconda guerra mondiale, senza nemmeno combatterla una guerra.
Il numero di disoccupati – questo è il dato a novembre 2013 – è pari 3 milioni 254 mila unità ed aumenta ad un tasso dell'1,8 per cento rispetto ai vari mesi precedenti, ed è del 12,1 per cento su base annua (più 351 mila unità). Se questo tasso dovesse continuare in tal senso, saremmo veramente a numeri da guerra mondiale.
Fatte queste premesse, è dovere di questo Parlamento intervenire ed accelerare il processo di annullamento di questo Accordo. Per questo motivo noi del MoVimento 5 Stelle ne abbiamo chiesto d'urgenza la calendarizzazione affinché si dia a questo Parlamento la possibilità di riflettere sulla questione e sulle motivazioni che stanno alla base del fiscal compact. Il nostro ruolo è di informare i cittadini, pertanto in questo mio intervento tengo a precisare che tale Accordo è già stato definito e dimostrato essere completamente illegittimo da noti giuristi di fama mondiale. Perché allora questo Parlamento non ne chiede delle audizioni e non attiva una commissione d'indagine, un'indagine conoscitiva per approfondirne le ragioni e prendere una giusta posizione affinché questo Governo realmente venga in Parlamento a dare delle risposte concrete ?

PRESIDENTE. Concluda !

FRANCESCO CARIELLO. Se il Governo o chi sostiene il contrario non replicano a queste tesi commettono un grave errore e direi che stanno attentando alla Costituzione dello Stato italiano.
Se permette, Presidente, vorrei concludere...

PRESIDENTE. Onorevole Cariello, io permetto, però lei ha concluso le sue premesse avendo già finito il tempo. Adesso io le sto dando un minuto in più, però, poi, questo minuto lo dovrò sottrarre all'onorevole Tripiedi che parlerà successivamente, che ha cinque minuti. Quindi, lei è libero di utilizzare il tempo del suo gruppo, però tenga presente le esigenze del collega che viene dopo di lei. Prego.

FRANCESCO CARIELLO. Va benissimo, la ringrazio. Ci sono diverse teorie giuridiche ed economiche che dimostrano l'illegittimità e l'inopportunità di questo Trattato, appunto il fiscal compact. Noi chiediamo che il Governo debba necessariamente aprire un tavolo tecnico di confronto tra tutte le forze politiche, che metta in atto un processo di analisi delle basi che hanno portato alla partecipazione dell'Italia a questo Accordo. Sulla base dei risultati, decretarne la nullità, come da noi Pag. 21auspicato, e la sua incongruenza rispetto ai Trattati fondanti dell'Unione europea.
Sotto il profilo puramente economico, è ormai noto a tutti che il regime finanziario europeo non deriva da alcuna scienza economica e diversi premi Nobel dell'economia mondiale hanno espresso parere negativo all'ossessivo contenimento della spesa pubblica, senza altresì intervenire in una riforma dell'efficienza della spesa pubblica. Pertanto, tale approccio appare più che altro un'ideologia fraudolenta, che prescrive di colpire lo Stato per favorire i grandi monopoli economici privati.
Anche l'aspetto giuridico, però, non è da meno. Questo Trattato nasce da un'origine con forti limiti di legalità: basti leggere il preambolo del fiscal compact per rendersi conto che l'unico regolamento a cui si fa riferimento per definire la base normativa del Trattato stesso è il regolamento n. 1466 del 1997, ovvero quel regolamento nato sotto la Commissione Santer, guarda caso l'unica e sola Commissione costretta alle dimissioni dal Parlamento europeo, anticipate rispetto al mandato, di tutti i suoi componenti a causa di uno scandalo che ha visto, per corruzione, implicati molti membri della stessa Commissione: per frode, nepotismo e cattiva gestione. Questo è un rapporto ufficiale del Parlamento europeo.
Quindi, con queste basi, signori, auspichiamo veramente un tavolo di discussione approfondito del fiscal compact, che porti alla sua nullità (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Causi. Ne ha facoltà.

MARCO CAUSI. Signor Presidente, io credo che affrontare il tema dell'Europa in generale, ma soprattutto in questa fase storica, implichi una grande responsabilità da parte di chi ha responsabilità politiche: non si può affrontare il tema in Europa in modo superficiale, gretto, puramente propagandistico.
Paradossalmente, alcuni che affrontano il tema dell'Europa in un senso profondamente antieuropeo, proponendo all'Italia di rinunciare e, anzi, addirittura, di uscire dai Trattati europei esistenti, assumono una prospettiva economicistica e puramente finanziaria che sembrerebbe proprio quella che questi signori, proponenti di queste ipotesi, sembrerebbero combattere. Essi non hanno – come chi mi ha preceduto, Presidente – alcuna prospettiva storica. Noi non riusciremo mai a capire, onorevoli colleghe e colleghi, membri del Governo, Presidente, le motivazioni, le dimensioni, le prospettive della crisi europea se ci ancoriamo a un mero ragionamento economicistico. Perché la crisi europea e la crisi dell'euro hanno delle radici fondamentalmente storiche: se noi non affrontiamo la storia, rischiamo di fare gravissimi errori.
Io su questo voglio dire che non concordo neppure con la visione, che pure in modo molto più razionale, l'onorevole Paglia ha esposto poco fa, di un'Unione europea che storicamente si colloca come un'operazione neoliberista. Non è così. Ma ricordiamoci la storia: ve la ricordo con un fatto personale a questo punto. Mia moglie è figlia di un padre francese e di una mamma tedesca, quindi è una franco-tedesca.
Quando, mi pare nell'estate del 2000, furono abbattute le frontiere europee, noi facemmo un viaggio andando a raggiungere sua madre che abitava – è morta adesso, povera – più o meno in Germania centromeridionale: uscimmo dall'Italia, entrammo in Svizzera, uscimmo dalla Svizzera verso la Francia, sull'autostrada che porta verso Mulhouse – è un'autostrada alla cui sinistra c’è la Francia e alla destra ci sono il Reno e la Germania – e ad un certo punto, mentre guidavo la macchina, mi sono voltato verso mia moglie e ho visto che piangeva; le ho detto: perché stai piangendo ? Piangeva perché stavamo arrivando al punto dove c’è un grande ponte e mi ha detto: lo vedi quel grande ponte ? Quando ero bambina ho sempre visto intorno a questo ponte due garitte della polizia della dogana, una da un lato e una dall'altro, con lunghe, lunghissime Pag. 22file di automobili, camion e motorini; per attraversare questo ponte sino ad un mese prima c'era la frontiera.
Io invito tutti a parlare con qualche storico. Invito tutti a parlare con qualche storico e a farsi dire – da uno storico autorevole – se, nell'arco degli ultimi 1.900 anni – facciamo dopo Augusto – nella parte occidentale dell'Europa e nella parte dell'Unione europea – perché so bene che c’è stata una guerra in Jugoslavia –, in quella parte dell'Europa, nell'arco degli ultimi 1.900 anni, abbiamo mai vissuto un periodo di 65 anni senza guerre.
Quando sento certi toni, che tra l'altro mi ricordano vagamente alcune cose che si sentivano negli anni Trenta, quando scoppiò la politica europea e precipitammo verso il nazismo, verso il fascismo e verso la guerra, quando sento certi ragionamenti mi preoccupo un poco, perché noi non possiamo, per responsabilità nazionale, deflettere da un approccio storico-politico e non soltanto economicistico sulla questione europea.
La vera critica all'Unione europea è quella di chi si impegna per la modifica della governance dell'Unione e di chi è capace di proporre anche radicali modifiche di governance dell'Unione europea all'interno di alleanze politiche sopranazionali e all'interno di un chiaro quadro degli aspetti geopolitici della vicenda europea.
Non si impegna a risolvere i problemi dell'Unione chi cavalca il vento della crisi per lucrare in termini elettorali ma resta indifferente alle ricadute potenzialmente devastanti dell'opzione politica che poi suggerisce; e poi verremo alle opzioni politicamente devastanti del populismo antieuropeo.
Invece, quello di cui il Paese ha bisogno oggi è una vera critica, un impegno politico verso la modifica della governance dell'Unione che però non potrà mai essere realistico e realizzabile se non dentro un'alleanza politica sopranazionale, quindi mettendo insieme gli schieramenti democratici e progressisti di tutta Europa, e dentro una chiara visione geopolitica del problema. Infatti, qui non è che siamo allo stadio con l'Italia contro la Germania o l'Italia contro la Francia: c’è bisogno di un approccio geopolitico strategico da parte dell'Italia.
Ora, certo l'Unione europea, ma soprattutto l'unione economica e monetaria hanno gravissimi difetti macroeconomici, che sono emersi pienamente dopo la crisi del 2009. È cominciato un percorso per aggiustarli, percorso che va sicuramente molto velocizzato e molto irrobustito. Ma attenzione, la crisi dell'Europa ha anche a che fare con questioni microeconomiche, con le riforme strutturali necessarie. E se queste riforme strutturali non si fanno non è colpa dell'Europa; il caso italiano ne è una perfetta dimostrazione.
Non è certo colpa dell'Europa se il processo civile è troppo lungo, se l'RC-auto costa il doppio in Italia rispetto all'Europa, se il governo multilivello Stato-regioni-comuni italiano è pesante e ridondante, oltre che costoso e inefficiente, se la decisione pubblica è lenta, anche per un assetto istituzionale, per esempio il bicameralismo perfetto, mai rinnovato rispetto a 65 anni fa in un mondo che invece è molto e totalmente cambiato.
Ma attenzione, il rischio di soffermarsi soltanto sulla critica alle politiche macroeconomiche dell'Unione europea è che poi ci autoassolviamo e ci dimentichiamo del versante delle politiche microeconomiche strutturali che abbiamo il dovere di modificare. Così come ci dobbiamo impegnare sul versante dell'aggiustamento delle politiche macroeconomiche europee, dobbiamo impegnarci con ancora maggiore energia per modificare le leve politiche che sono a nostra completa disposizione.
Infine, anche guardando la crisi italiana, non è convincente chi sostiene che essa dipenda soltanto dall'euro, questa è una della componenti della crisi, l'altra, che ha un valore che non va sottovalutato, è il mancato o perlomeno non completo adeguamento strutturale dell'intero sistema socio economico, finanziario e industriale, politico e istituzionale italiano al nuovo mondo del dopo Ottantanove. Di nuovo, chi butta la palla in aria dando tutto la colpa all'euro – a parte il rischio Pag. 23di ritrovarsi in un linguaggio nazionalista, revanscista, addirittura con punte antisemite che ogni tanto si sentono, un linguaggio che avremmo sperato di mai più risentire in giro per tutti i Paesi europei, – però finisce con lavarsi le mani dalle esigenze sempre più pressanti delle riforme strutturali.
Io vorrei provare, Presidente, a riportare un attimo di ordine in questa discussione che mi sembra molto confusa, soprattutto per una delle mozioni che ho sentito qui illustrata; mi riferisco al punto di fondo relativo allo status istituzionale, e perciò democratico, della governance dell'Unione economica e monetaria, cioè dell'Eurozona; c’è una asimmetria tra Eurozona e Unione europea: alla prima aderiscono 18 Paesi (dal 1 gennaio di quest'anno sono diventati 18), mentre invece l'Unione europea è composta da 27 Paesi. Questa asimmetria ha portato al sovrapporsi di una governance basata, nel caso dell'Eurozona, prevalentemente sul metodo intergovernativo. Non a caso il fiscal compact, così come lo European Stability Mechanism, sono stati approvati con accordi intergovernativi. Questa governance si sovrappone e collide con quella basata pienamente sul quadro giuridico e istituzionale dell'Unione che è basato, come sapete, sul tridente Consiglio-Commissione-Parlamento. È da lì che sono passati, invece, il semestre europeo, il six pack, il two pack e l'attuale processo di coordinamento dei bilanci pubblici.
Ora, noi dobbiamo ricordarci – visto tra l'altro che ci avviamo ad una campagna elettorale verso le elezioni europee – che il Parlamento europeo, durante il mese di dicembre, ha approvato a larghissima maggioranza un rapporto, il cosiddetto «Rapporto Trzaskowski-Gualtieri», Gualtieri è più facile, dove il Parlamento europeo a larga maggioranza propone – e questo credo che sia uno dei temi cruciali della campagna elettorale in tutti i Paesi europei nei prossimi mesi – di unificare queste due governance, unificare la governance dell'Eurozona nel quadro giuridico e istituzionale dell'Unione europea, partire subito con riforme possibili a partire dalla costruzione di una capacità fiscale aggiuntiva dell'Eurozona da collocare all'interno del bilancio dell'Unione e usare, dice il «Rapporto Trzaskowski-Gualtieri», questa capacità fiscale aggiuntiva per avviare un vero coordinamento rafforzato delle politiche economiche dei 18 Paesi europei con un approccio, quindi, diverso da quello degli accordi contrattuali per le riforme che sarà in discussione nel prossimo Consiglio europeo. Un approccio, invece, in grado di dare luogo a politiche asimmetriche che rispondano agli schock reali asimmetrici che ciascuna economia dell'Eurozona subisce.
Qui emerge un tema di legittimazione democratica che la strada degli accordi intergovernativi non garantisce, ma emerge anche un tema vero di strumentazione di politica economica, perché la crisi dell'Eurozona non può essere risolta solo con gli strumenti di politica monetaria e finanziaria che pure si sono evoluti positivamente, seppur tardivamente dopo la crisi e ancora dovranno evolversi, ma anche – quindi in sostanza non lo possiamo chiedere solo alla BCE e a Draghi di risolvere la crisi europea – è necessario attivare strumenti di politica fiscale e di coordinamento delle politiche nazionali in un quadro poi in cui ciascun Paese fa i suoi compiti a casa, quelli che gli competono in conseguenza degli squilibri che manifesta.
Compito a casa della Germania, per esempio, è aumentare i redditi e i consumi interni. Io qui voglio dire che è importante che nel nuovo patto di coalizione del Governo tedesco, grazie all'SPD, si vada verso un aumento dei salari minimi e tale aumento è un fatto importante in un Paese che deve reflazionare redditi e consumi.
Compito a casa dell'Italia, col peso del debito pubblico che ha, non può che essere garantire la sostenibilità delle pubbliche finanze in un sentiero credibile di riduzione del rapporto fra debito e PIL. Ma compito di tutti insieme è di rendere sostenibile l'Unione monetaria e l'euro, e per fare questo non basta la BCE, non basta l'ESM: ci vuole, solo per fare un esempio, un meccanismo asimmetrico e Pag. 24anticiclico incardinato nel bilancio europeo per il finanziamento dei sussidi alla disoccupazione e per il sostegno dell'occupazione giovanile. Il Programma «Garanzia Giovani», che il Governo italiano ha strappato nel passato semestre europeo, è un primo importante passo, ma molto di più andrà fatto e potrà essere fatto con l'espressione politica democratica di un Parlamento europeo che vorrà costruire una nuova Europa federale e grazie anche all'impegno della Presidenza europea nel secondo semestre 2014.
E poi, abbiamo cominciato a parlare di mutualizzazione del debito pubblico, si discute di Debt Redemption Fund: anche quello però rischia di essere un accordo intergovernativo. Si discute di strumenti di debito europeo, gli eurobill. Dovremmo approvare – e questa dovrebbe essere la posizione dell'Italia, questo sarà l'elemento che indichiamo al Governo nella mozione che stiamo predisponendo – che tutti questi strumenti siano di tipo federale, propriamente federali, incardinati nel quadro giuridico-istituzionale dell'Unione, e non di tipo contrattuale.
Ma attenzione, e qui mi avvio alla parte conclusiva del mio intervento, Presidente: questa discussione tutta ideologica, tutta teorica, tutta macroeconomica, dei massimi sistemi, tra l'altro trattati anche un po’ maluccio, sull'Europa rischia poi di farci perdere di vista il compito quotidiano, direi le priorità quotidiane dei prossimi mesi rispetto all'Europa. Noi siamo attesi durante il 2014 al completamento dell'Unione bancaria, e per difendere gli interessi nazionali dobbiamo stare molto attenti ai criteri di valutazione che verranno usati negli stress test dell'Autorità di vigilanza unica europea per quanto riguarda la valutazione dei titoli pubblici posseduti dagli operatori finanziari, in particolare le banche e assicurazioni italiane.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

MARCO CAUSI. Siamo attesi a partire dal 1 gennaio 2015 a costruire il nuovo European Stability Mechanism. Qui non capisco la critica all'ESM, perché l'ESM è uno strumento che permetterà la ricapitalizzazione pubblica delle banche in crisi con uno strumento europeo, e non con singoli strumenti nazionali: un po’ come è successo nel caso spagnolo. Quindi, è uno strumento che europeizza a livello pubblico ciò che in passato è stato fatto in molti Paesi, e cioè le nazionalizzazioni bancarie.
Poi – e qui concludo velocemente – siamo attesi ad un importante rapporto della Commissione europea, che farà seguito al Rapporto Liikanen, che dovrà dare indicazioni su come separare le attività finanziarie più rischiose delle banche da quelle di intermediazione tradizionale: la separazione cosiddetta fra banche di investimento e banche commerciali.
Siamo attesi al miglioramento delle procedure di coordinamento di bilancio.

PRESIDENTE. La invito nuovamente a concludere.

MARCO CAUSI. Voglio ricordarlo: l'Italia non è sotto procedura di infrazione; sotto procedura di infrazione per deficit eccessivo per lo sforamento oggi ci sono i Paesi Bassi, l'Olanda, uno dei Paesi del nord molto spesso critici nei confronti del sud. Ma appunto per questo l'Italia può chiedere ed ottenere una maggiore flessibilità degli obiettivi di bilancio a medio termine, per tenere conto del ciclo economico.
E poi, durante il 2014 – e concludo, Presidente, e mi scuso per aver sforato, però questo punto è importante – è previsto il processo di riesame di tutti i Trattati europei, perché in tutti i Trattati europei ci sono clausole di revisione e di riesame, che scadono proprio nel 2014. Quindi chi dice oggi ai cittadini italiani che i Trattati vanno soltanto respinti o rifiutati, ovvero ricontrattati, dimentica di dire ai cittadini italiani che c’è un processo di revisione in corso, e che il Paese Italia deve arrivare a questo risultato di revisione con un importante pacchetto di proposte.

Pag. 25

PRESIDENTE. La invito ancora a concludere.

MARCO CAUSI. A chiusura di questo pacchetto di proposte, esprimo una forte critica a come sono state governate le crisi dell'Eurozona in questi anni, e in particolare una critica all'utilizzo dello strumento della troika, e invece la necessità di riportare gli strumenti di gestione della crisi ad un quadro istituzionale di governance incardinato sulle istituzioni democratiche europee.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tripiedi. Ne ha facoltà. Le comunico che le sono rimasti pochissimi minuti perché il suo collega ha approfittato del tempo del suo gruppo. Sarò piuttosto flessibile però la invito ad una sintesi.

DAVIDE TRIPIEDI. Signor Presidente, cercherò di essere brevissimo. Premesso che coloro che hanno firmato questi accordi sono dei veri e propri criminali – ma noi siamo abituati, voi politici avete il pelo sullo stomaco e degli interessi dei cittadini non vi interessa nulla – voglio essere molto chiaro: spesso sentiamo parole come fiscal compact e MSE, ma gli italiani oggi sono a conoscenza del significato ? Sanno qual è il senso ? L'unica cosa che ci è dato sapere è che siamo in crisi, che abbiamo un debito enorme e che i cittadini devono pagare sempre più tasse. Inoltre, sappiamo che le aziende chiudono e che il numero dei disoccupati aumenta ogni giorno, come il tasso di povertà degli italiani, ma questo per noi cittadini è scontato, visto che le situazioni le viviamo sulla nostra pelle.
Il Parlamento dovrebbe essere il fulcro della democrazia. Gli accordi con l'Europa che impongono all'Italia il vincolo di bilancio, che cedono sovranità popolare e che di fatto impoveriscono il Paese delle conseguenze politiche recessive, sono stati approvati dal Governo Monti con modalità a dir poco anomale. Una su tutte è il disegno di legge costituzionale che impone il pareggio di bilancio in Costituzione, che è stato votato con maggioranza dei due terzi, escludendo di fatto la possibilità di procedere al referendum di revisione costituzionale, previsto e disciplinato dall'articolo 138. Come disse Paolo Becchi, professore di filosofia del diritto all'università di Genova, non è la prima volta che la Costituzione subisce modifiche senza il ricorso allo strumento referendario, per semplice colpo della maggioranza, ma è la prima volta che alcuni articoli della Costituzione vengono cambiati in un'atmosfera tanto silenziosa senza alcun coinvolgimento dell'opinione pubblica e senza una reale discussione politica.
In sostanza, abbiamo un cappio al collo di tutto il Paese; nel giro di pochissimi mesi abbiamo delegato a strutture sovranazionali le politiche economiche e ora ci troviamo un Paese in macerie che non ha nemmeno il diritto di spendere i soldi necessari per assicurare una vita dignitosa in linea con tutti i principi fondamentali che la nostra Carta costituzionale ci imporrebbe. Non importa che la gente si suicidi, che la disperazione delle famiglie imperi, che i giovani non abbiano prospettive, quel che conta sono i diktat dell'Europa e la sua influenza, a tal punto che l'occhio dell'Europa è entrato persino nel Parlamento con l'istituzione di un organismo previsto dall'articolo 5, comma 1, della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 243, che viene denominato Ufficio parlamentare di bilancio, avente funzioni di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e valutazione dell'osservanza delle regole di bilancio. Tutta questa invadenza di Bruxelles, a cosa è dovuta ? Siamo stati interpellati noi cittadini sull'entrare o meno nell'Unione monetaria ? Siamo stati informati sugli effetti sociali che hanno comportato e comporteranno i trattati europei ratificati dal Parlamento italiano ? L'informazione ha fatto il suo dovere diffondendo conoscenza ? Io direi proprio di no. La complicità dei media e dell'intera classe politica insieme alla moltitudine dei partiti hanno realizzato un vero e proprio golpe silenzioso nel giro di pochissimi mesi.Pag. 26
Ora tocca a noi cittadini nelle istituzioni rivelare l'inganno con questa mozione, proporre al Governo una radicale modifica dei trattati. Voi, lo dico con tutto il cuore, per fare un piacere a tutti gli italiani e per essere scusati per tutte quelle «porcate» che avete firmato, dovete andarvene immediatamente tutti a casa (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Prendo atto che il sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze, Pier Paolo Baretta, si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
Saluto gli allievi e gli insegnanti della direzione didattica statale «Don Milani», di Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).

Discussione delle mozioni Gigli, Sereni, Cimmino ed altri n. 1-00254, Bobba, Luigi Cesaro, Scotto, Antimo Cesaro, Binetti ed altri n. 1-00058 e Di Salvo ed altri n. 1-00295 concernenti iniziative per il contrasto alla povertà (ore 12,55).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Gigli, Sereni, Cimmino ed altri n. 1-00254, Bobba, Luigi Cesaro, Scotto, Antimo Cesaro, Binetti ed altri n. 1-00058 e Di Salvo ed altri n. 1-00295 concernenti iniziative per il contrasto alla povertà (Vedi l'allegato A – Mozioni). Colleghi, per favore ! Se permettete, la Presidenza sta leggendo.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Calabria ed altri n. 1-00297, Rondini ed altri n. 1-00304, Silvia Giordano ed altri n. 1-00306 e Dorina Bianchi e Roccella n. 1-00307 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare il deputato Gianluigi Gigli, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00254. Ne ha facoltà.

GIAN LUIGI GIGLI. Signor Presidente, questa mozione nasce dalla constatazione di un'emergenza sociale. È noto infatti come ormai nel 2012 la povertà assoluta sia arrivata ad interessare l'8 per cento della popolazione italiana, il doppio di solo sette anni prima, e come, secondo alcuni indicatori basati su dati FAO, l'Italia sia ormai considerata un Paese a medio rischio di fame. È noto come ormai questa piaga si stia diffondendo, andando al di là dei tradizionali serbatoi, fino ad interessare anche le famiglie con soli due figli e anche le regioni del nord, anche se è vero che essa continua a prevalere certamente soprattutto nel meridione e soprattutto tra le famiglie numerose, quelle appunto dai tre figli in su, contribuendo non poco a determinare l'inverno demografico che oggi affligge l'Italia. Ogni nuovo figlio che nasce, infatti, costituisce per la famiglia, oltre che una speranza di vita, un rischio concreto di impoverimento.
Secondo quanto affermato dal Viceministro al welfare, Maria Cecilia Guerra, qui presente e che saluto, i fondi attualmente stanziati contro la povertà ammontano a 887 milioni per il periodo 2014-2016, tra questi particolare significato assumono quelli che andranno alla sperimentazione della nuova social card, che saranno ripartiti in questo modo: nel 2014 ci saranno Pag. 27300 milioni, di cui 50 milioni per la sperimentazione nelle dodici città originarie, 140 milioni nel sud d'Italia provenienti dalle risorse della prima riallocazione dei fondi europei, 40 milioni per l'allargamento della sperimentazione al centro-nord, previsto con la legge di stabilità, e 70 milioni provenienti dai 300 milioni della seconda riallocazione dei fondi europei. Nel 2015 i fondi disponibili per la sperimentazione della nuova social card sono 297 milioni, tra cui i restanti 230 milioni del sud d'Italia della riallocazione di fine anno, i 27 milioni della prima riallocazione e i 40 milioni per il centro-nord. Nel 2016, infine, restano solo i 40 milioni per il centro-nord, ai quali si aggiungeranno – si spera – altri fondi ancora da reperire.
Si tratta certamente – e questo è un dato positivo – di un'inversione di tendenza rispetto al passato, inversione di tendenza nelle cifre; basti notare che la vecchia social card prevedeva l'attribuzione di 40 euro mensili, poco più di un'elemosina, alle persone beneficiarie e oggi, con la nuova social card, a seconda della composizione del nucleo familiare, si può arrivare anche ad un importo mensile di circa 400 euro per le famiglie con cinque e più componenti. Ma si tratta anche di una innovazione nelle modalità.
La nuova social card si caratterizza infatti come una carta per l'inclusione attiva. La sua particolarità consiste nel fatto che, accanto al sostegno economico, il destinatario beneficerà di un piano personalizzato, il patto, appunto, volto al suo reinserimento lavorativo e alla più generale inclusione sociale dell'intero nucleo familiare, prevedendo specifici impegni in termini di contatti con i servizi, ricerca attiva di lavoro, adesione a progetti di formazione, frequenza e impegno scolastico dei figli, assistenza ai membri disabili e tutela della salute della famiglia.
Secondo il Ministro Giovannini, nel 2014 la sperimentazione si configurerà come il più ampio intervento contro la povertà assoluta realizzato nell'ultimo decennio, arrivando ad interessare circa 400 mila persone. Ora è chiaro che, se questo è vero, ed è vero, siamo certamente oggi in una situazione migliore rispetto a quando questa mozione fu presentata – e di questo diamo atto al Governo – ma certamente siamo ancora ben lontani dalla risoluzione del problema.
Il Governo ha infatti deciso di procedere per gradi, aumentando le risorse, allargando la platea dei destinatari, consentendo una sperimentazione più vasta, ma giudicando certamente ancora troppo oneroso per le casse dello Stato in questa fase l'allargamento, l'universalizzazione del SIA, il Sostegno all'inclusione attiva. Sembra da dati degli esperti che il costo a regime per questo strumento sarà di circa 7-8 miliardi all'anno e noi, a fronte di questo, rimaniamo quindi in una condizione di emergenza sociale.
Dobbiamo allora – questo è lo spirito di questa mozione – muoverci con decisione nella direzione del Piano nazionale contro la povertà, propugnato da Alleanza contro la povertà in Italia, il cartello di soggetti sociali tra cui i sindacati e associazioni cattoliche, Conferenza delle regioni e associazione nazionale dei comuni, che ha deciso di unirsi per contribuire alla costruzione di adeguate politiche pubbliche contro la povertà assoluta nel nostro paese, puntando alla graduale introduzione di una misura nazionale basata su una logica non meramente assistenziale ma, come abbiamo detto, che sostenga un atteggiamento attivo da parte dei soggetti beneficiari e che si rivolga finalmente a tutte le persone in povertà assoluta.
Evidenziare la necessità del finanziamento statale non significa assolutamente svilire il patrimonio di esperienze maturate a livello territoriale da parte di enti locali, del terzo settore, di organizzazioni sociali, che dovrà piuttosto essere valorizzato nella costruzione della riforma e confluire in essa, garantendo che rimangano destinate alla spesa sociale per le famiglie in condizioni disagiate tutte le risorse attualmente impiegate nella lotta alla povertà a livello regionale e territoriale.
Nel progetto del Piano nazionale contro la povertà, si prevede anche che il finanziamento Pag. 28di donatori privati, il cui apporto dovrà essere e lo dico fin d'ora incoraggiato e favorito, possa svolgere un ruolo di rilievo con funzione complementare rispetto al necessario finanziamento statale del livello essenziale.
Pur nella consapevolezza che le condizioni economiche del paese impongono una attivazione graduale del piano, a partire dalle famiglie numerose in condizioni di maggior bisogno, l'Alleanza contro la povertà in Italia chiede che il Governo assuma precisi impegni riguardanti il punto di arrivo della misura a regime, a partire dal quale tutte le famiglie in povertà assoluta beneficeranno dell'intervento, ed indichi anche il Governo le tappe intermedie per il concreto raggiungimento dell'obiettivo, specificando l'ampliamento dell'utenza e il relativo finanziamento previsto per ogni annualità. Il documento dell'Alleanza contro la povertà in Italia chiede dunque al Governo che il piano nazionale contro la povertà abbia durata pluriennale e contenga indicazioni concrete per la graduale introduzione di una misura nazionale rivolta a tutte le persone in povertà assoluta nel nostro paese, basata, come abbiamo detto, su una logica non assistenziale ma di atteggiamento verso l'inclusione attiva.
Senza precisi impegni in grado di delineare un preciso percorso, per quanto in una prospettiva graduale pluriennale, è chiaro – è questo che vorrei sottolineare al rappresentante del Governo – che risulterebbe poco realistico immaginare la costruzione di un sistema di servizi adeguato alla lotta contro l'esclusione sociale....

PRESIDENTE. Concluda.

GIAN LUIGI GIGLI...in grado di mobilitare, e concludo, anche investimenti, abbiamo visto anche privati, di sviluppare competenze, di programmare interventi, di coordinare efficacemente l'azione dello Stato con quella degli enti locali, del terzo settore, delle organizzazioni sociali. Contrastare la povertà non significa soltanto lottare per una maggiore giustizia sociale e per restituire autonomia e dignità a larghi strati della popolazione. Coincide anche con la crescita stessa, non potendosi avere crescita se lo sviluppo è frenato dall'esclusione sociale.
Occorre dunque superare una volta per tutte una mentalità assistenzialistica capace solo di «interventi tampone» e comprendere che risolvere la povertà può contribuire efficacemente alla ripresa economica del paese, consentendo di recuperare al lavoro, alla produttività ed al consumo settori che, in assenza di interventi, potrebbero solo frenare lo sviluppo e ritardare l'uscita del paese dalla crisi. Anche a nome dei 70 firmatari di questa mozione, auspico che il Governo voglia solennemente assumere in questa sede gli impegni richiesti.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Edoardo Patriarca, che illustrerà anche la mozione Bobba, Luigi Cesaro, Scotto, Antimo Cesaro, Binetti ed altri n. 1-00058, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

EDOARDO PATRIARCA. Signor Presidente, la mozione che andrò ad illustrare è una mozione presentata a quest'aula nel giugno 2013; si tratta di una mozione che, nella sua parte analitica, ha bisogno di essere aggiornata, ma che, tuttavia, nella parte propositiva, contiene ancora indicazioni importanti e significative.
Credo che oggi, e domani forse, sia l'occasione per affrontare, sperabilmente, con azioni ancor più incisive, il dramma della povertà, soprattutto assoluta, che attanaglia il nostro Paese; tema troppo spesso affidato soprattutto – mi si consenta questa parola – alla «compassione» delle organizzazioni caritative del terzo settore e all'azione generosa svolta dai comuni, ma ritenuto da molti opinion leader irrilevante per la ripresa del Paese.
Una visione economicistica e ragionieristica della crisi, che impedisce di comprendere che la disgregazione del capitale umano e sociale, la sua lenta dilapidazione, se non interrotta al più presto, bloccherà profondamente la ripresa e un Pag. 29futuro di speranza per il Paese. È dilapidato il capitale sociale, ma dilapidata e a rischio di sfinimento è anche quella cultura del sociale che ha animato stagioni passate di politiche attive per far fronte e prevenire, laddove possibile, situazioni di povertà o di esclusione sociale.
Quale Paese stiamo progettando per i prossimi decenni, se già ora accettiamo che un numero sempre più crescente di cittadini e famiglie rischino di cadere in povertà, in una condizione di deprivazione economica e morale, in una condizione di dipendenza assistenziale che soffoca qualsiasi tentativo di riprendersi la vita, di provare a gareggiare ancora per sé e per la vita della propria famiglia ?
Il Paese vive una sofferenza sociale diffusa, con una povertà assoluta raddoppiata e quella relativa ormai dilagante e in rapida crescita. Le reti familiari sono messe a dura prova e stanno esaurendo le proprie risorse economiche e la propria capacità di supporto socio-assistenziale informale. È finita la risorsa famiglia, ci domandiamo un po’ retoricamente ? Come potrà il Paese durare in questo passaggio difficile ? Come potrà ancora resistere all'impatto devastante che ha la crisi sulle reti sociali e sulle comunità locali ?
Gli ultimi dati ISTAT ci consegnano l'immagine di un Paese affaticato: è malata la nostra democrazia (mi si consenta questo passaggio, forse un po’ pesante); è malata, forse, la nostra Repubblica, che deve o dovrebbe garantire a tutti una vita libera e dignitosa. Il principio di uguaglianza e il principio delle pari opportunità non possono essere continuamente elusi e vilipesi.
L'ultimo rapporto ISTAT, come il rapporto Caritas o come il rapporto di Bankitalia del 2013, ci propongono un vero e proprio – mi si passi questo termine, che non mi piace molto, ma lo uso per un attimo – «bollettino di guerra». Dopo la Grecia, l'Italia è il Paese della zona euro nel quale il rischio di povertà ed esclusione è il più alto.
Gli obiettivi Europa 2020 relativi alla riduzione della popolazione italiana a rischio di povertà prevedono per l'Italia l'impegno a garantire nel 2020 un abbassamento a due milioni e 200 mila delle persone a rischio di povertà, quando, invece, nel Paese, dal 2010 al 2011, il numero di persone a rischio povertà è aumentato di due milioni e 369 mila unità.
Sono ormai il 12,7 per cento le famiglie residenti a rischio di povertà: una percentuale non tollerabile, che coinvolge quasi 18 milioni di persone. Nel rapporto di Bankitalia del 2013, l'indebitamento medio delle famiglie – questo è un altro elemento di riflessione – è passato dal 13,8 per cento al 53,2 per cento del reddito disponibile lordo. I dati di Agea, nella relazione del piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti del 2013, segnalavano nel 2012 un aumento del 9 per cento delle famiglie che hanno chiesto aiuto per mangiare, con un totale di ben 3,7 milioni di assistiti con pacchi alimentari e pasti gratuiti nelle mense.
E ancora, il sovraindebitamento del 2012 delle famiglie, che è passato dal 2 al 4 per cento. E ancora, se non è peggiorato, permane lo scandalo, solo italiano, della dispersione scolastica e di circa un milione e 860 mila minori in condizioni di povertà. Non va neppure, infine, sottovalutata la devastazione in atto provocata dal gioco d'azzardo patologico, che porta persone e famiglie, in breve tempo, davvero in breve tempo, alla povertà e al disastro esistenziale e relazionale.
Non da ultimo, è bene rammentare lo scarso impatto – ma le cose credo stiano migliorando, come ricordava il collega Gigli – della spesa sociale sull'effettiva riduzione del tasso di povertà.
L'Italia si colloca al terz'ultimo posto in Europa: nel nostro Paese, dopo i trasferimenti sociali, la povertà si riduce del 19,7 per cento, contro una media europea del 35,2 per cento.
Se questo è il quadro, occorre agire presto e senza indugi. È chiaro che il lavoro è il migliore antidoto alla povertà e tutto ciò che genera lavoro e sostegno al lavoro è certamente la via maestra per la lotta alla povertà, ma è giunto il tempo di un intervento sistematico e di politiche attive di contrasto alla povertà assoluta.Pag. 30
In questi anni abbiamo assistito – credo che nell'ultimo anno ci sia stata un'inversione chiara di tendenza, ma negli anni precedenti è stato così – a politiche disordinate, frammentate, che hanno inciso assai poco sul tasso di povertà assoluta. Abbiamo bisogno di un intervento strutturale che si proietti su un periodo lungo ed attorno al quale si organizzi un quadro unitario di interventi, come prevedeva tra l'altro la legge n. 328 del 2000. Soprattutto a livello locale occorrerà favorire la ripresa di una stagione di progettazione condivisa, di governance partecipate che vedano protagoniste le amministrazioni locali assieme al volontariato ed al terzo settore.
Non hanno aiutato le misure di contenimento della spesa, messe in atto dai Governi precedenti, che hanno colpito pesantemente il sistema di welfare del nostro Paese, già di per sé debole. E certamente va salutata positivamente, e non si può che prenderne atto, l'inversione di tendenza attuata dall'attuale Governo, dal nostro Governo. Nel 2013, con la legge di stabilità per il 2014, è tornato ad aumentare il Fondo nazionale per le politiche sociali e il Fondo per la non autosufficienza. Positiva l'attivazione del Fondo nazionale per gli aiuti alimentari agli indigenti, previsto dalla legge n. 134 del 2012, e lo stanziamento di maggiori risorse per i fondi dedicati all'infanzia e ai minori non accompagnati. Altresì importante lo stanziamento – credo che tanto merito vada anche al Viceministro Cecilia Guerra – di 290 mila euro di fondi per la sperimentazione della social card, la carta di acquisti. Quindi ci troviamo di fronte ad un segnale di inversione di tendenza che credo vada rafforzato e sostenuto con decisione.
Per scendere nel merito delle proposte – mi avvio alla conclusione – illustrate nella mozione del collega Bobba e degli altri firmatari: va varato uno strumento universalistico per il contrasto alla povertà, dato che l'Italia è l'unico Paese assieme alla Grecia a non disporne. Esistono in Italia oltre trenta tipi diversi di interventi economici a favore di persone e famiglie in difficoltà, gestiti in modo autonomo e separato da singoli enti erogatori, al di fuori, ahimè, di ogni regia e coordinamento. In campo vi sono tre proposte. La prima è quella presentata dal Governo, il Sia, il sostegno di inclusione attiva. Vi è poi la proposta presentata da ACLI e da Caritas, il Reis, e ancora, un'altra proposta che merita anche una certa attenzione, vi è il reddito minimo di inserimento proposto da Irs. Credo che sia una misura che non ha trovato spazio nella legge di stabilità del 2014, ma che dovrà essere cantierata per il 2015. Sarà di aiuto la sperimentazione della social card/carta acquisti avviata in molti comuni, uno strumento e una misura che immaginiamo in capo alle comunità locali, alle amministrazioni e alle organizzazioni di terzo settore, che oltre all'intervento economico sappiano attivare percorsi di accompagnamento e un sostegno relazionale per l'uscita dalle condizioni di povertà.
Mi avvio alla conclusione. La mozione suggerisce altresì altri interventi. Ne ricordo alcuni.
Certamente si richiede un provvedimento legislativo – speriamo presto approvato – di contrasto al gioco d'azzardo patologico. Si dirà cosa c'entra con la povertà, eppure i dati ultimi, che abbiamo a disposizione, ci dicono che oggi un fattore di povertà a volte drammatico e devastante è proprio il gioco d'azzardo patologico. Si richiede una modifica alla normativa per dare la possibilità alle famiglie di accedere al Fondo di solidarietà per le vittime di usura, oggi aperto soltanto agli imprenditori. Si richiede di introdurre finalmente i livelli essenziali delle prestazioni socio-assistenziali affinché si possa realizzare, finalmente, su tutto il territorio nazionale, una rete integrata di servizi, uniforme e garantita per tutti.
Si richiede una legge, per esempio, per il microcredito, che aiuti le persone e le famiglie povere o a rischio di povertà ad accedere al credito, sempre più faticoso e sempre negato. Si richiede di studiare eventualmente – questo è l'ultimo passaggio Pag. 31della mozione – l'utilizzo di deduzioni e di detrazioni fiscali per le spese relative all'assistenza e al sostegno delle famiglie con componenti minori, persone non autosufficienti e anziani.
In breve – e concludo, Presidente – si richiedono, quindi, risorse economiche adeguate, nuovi strumenti, sostegno alla progettazione locale, riduzione degli interventi economici gestiti dal livello nazionale a vantaggio delle amministrazioni locali e, infine, non solo risorse economiche, ma anche politiche di accompagnamento, di presa in carico della persona e dei nuclei familiari, per sostenere l'uscita dalla dipendenza da povertà, chiamando in causa tutti i soggetti presenti sul territorio così da agire una sussidiarietà finalmente responsabile e innovativa.

PRESIDENTE. La ringrazio molto, anche per la sintesi. È iscritta a parlare l'onorevole Nicchi, che illustrerà la mozione Di Salvo n. 1-00295, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

MARISA NICCHI. Signor Presidente, ormai le statistiche parlano chiaro: circa 10 milioni di persone versano in condizioni di povertà relativa e circa 5 milioni si trovano in condizioni di povertà assoluta. La statistica traccia in modo scientifico la linea della povertà e anche la sua classificazione tra quella assoluta e quella relativa: linee che nella vita sono diventate tragicamente fluide. Nella società liquida basta poco perché la condizione sociale cambi e cambi in peggio.
Questi dati noi li vogliamo incrociare con altri. Il 10 per cento delle famiglie italiane detiene quasi la metà della ricchezza complessiva. Tra lo stipendio medio di un dipendente e quello di un top manager c’è un rapporto di 1 a 163: 26 mila euro lordi contro 4 milioni e 326 mila euro. E mentre le famiglie in povertà sono aumentate rispetto al 2011 del 33 per cento – l'incremento più rilevante degli ultimi dieci anni –, nel 2012, invece, è schizzato in alto il numero dei milionari nel nostro Paese, più 9,5 per cento, cioè 127 mila nuovi milionari.
L'incrocio di questi dati dimostra che la crisi per molti è una condanna, ma per altri è un'occasione. Lo scrive bene Libera nella sua campagna «Miseria ladra», riproponendo al dibattito pubblico e politico quel nesso tra ricatto sociale e proliferazione delle mafie che talvolta dimentichiamo.
L'incrocio dei dati dimostra che le distanze sociali si stanno allargando. C’è un'Italia sempre più estesa che sprofonda lungo la scala sociale e si trova alle soglie della povertà. C’è anche un'altra Italia che si arricchisce, invece, sempre di più. È l'assillo della politica, per esempio, americana, degli Stati Uniti, di Obama, quando in quel Paese si discute animosamente sulla scomparsa della parte media della società. La radicalizzazione tra super ricchi e meno abbienti è un tema che è stato bene individuato. Si parla di un principio, il principio della clessidra, che ispira i fondi bancari, i giganti del consumo, che oggi investono proprio sui poli sociali opposti, sempre più divaricati, e che ha come conseguenza proprio la scomparsa della parte media della società.
Questa polarizzazione sociale è il frutto velenoso delle politiche di austerity, fondate sui dogmi del rigore dei bilanci pubblici a senso unico, che hanno prodotto un avvitamento di recessione, protetto i soggetti forti, colpito i diritti fondamentali. Ne abbiamo parlato prima con la mozione sul fiscal compact. Sono politiche che il Governo Letta non vuole mettere in discussione con la forza necessaria, con la determinazione necessaria.
Noi siamo per tutt'altra Europa. Non c’è un'azione di Governo all'altezza della drammaticità della situazione. Come ha fatto Bill de Blasio, il nuovo sindaco di New York, quello che per sua scelta, Viceministro, porta il cognome della madre. Il sindaco che, nel giorno del suo insediamento, ha dichiarato: «Abbiamo una missione profonda: mettere fine alla disuguaglianza sociale ed economica che minaccia di distruggere la società che amiano». Ecco una missione che vorremmo che fosse perseguita da tutti i Pag. 32sindaci d'Italia, quelli che si stanno presentando alle prossime elezioni, compreso quello della mia città.
La politica italiana, invece, ha la «coda» dei Governi d'Europa che sbattono i tacchi davanti al volere dei mercati finanziari e dei poteri bancari. Non sono un caso i milioni di disoccupati e cassaintegrati. È un quadro di assoluta gravità che continua a peggiorare: 2,8 milioni di lavoratori precari e la disoccupazione è arrivata alla soglia inaudita del 12,2 per cento e il 40 per cento di giovani. E quello che dovrebbe più indignare tutti è l'enorme spreco di tutti quelli che sono scoraggiati, i famosi «neet», chi non studia, chi non lavora, chi non cerca lavoro, e dubito che siano figli delle famiglie abbienti. Non sono un caso i pensionati che, secondo il bilancio sociale dell'INPS sono 11,5 milioni, e percepiscono un reddito medio – sono dati di questi giorni – di 10 mila euro lordi annui pari a 700 euro al mese, meno di quei mille euro della soglia di povertà. Di loro più di 2 milioni non arriva nemmeno a 500 euro. Pensioni che sono l'unica fonte di reddito stabile e sicuro della famiglia intorno a cui ruotano altri introiti volatili, precari, stipendi anche bloccati da anni. Non è un caso, e lo conosce bene la Viceministra, la solitudine di chi si trova ad affrontare la disabilità, la non autosufficienza. C’è stato un incremento di questo fondo che, a un certo punto, per una vergogna indicibile, è stato azzerato dalle politiche del Governo di centrodestra, ma certo le risorse ancora non sono sufficienti.
Non sono un caso le famiglie e le persone che sono impossibilitate a sostenere pasti adeguati, case riscaldate, spese impreviste comprese le cure sanitarie e anche le bollette, che vivono con debiti arretrati per il pagamento di mutui ed affitti. C’è un aumento dell'indebitamento delle famiglie che hanno prosciugato il conto in banca e adesso si sentono chiedere di rientrare dallo scoperto: persone che chiudono il negozio, si rassegnano a far fallire la propria piccola impresa. Non sono un caso quei bambini e quelle bambine che vivono con pochi o nessun libro. Noi sappiamo che la povertà materiale si lega sempre cupamente alla povertà educativa e culturale. Non è per caso che tante famiglie e persone dopo aver perso lavoro e reddito, perdano la casa: 430 mila famiglie in difficoltà per il costo dei mutui mentre, solo nel 2012, sono state ben 68 mila le sentenze di sfratto e il 90 per cento per morosità incolpevole. Peggiora la condizione dei più vulnerabili da sempre: al sud, le famiglie numerose, quelle dei giovani e quelle monoreddito. E un'altra parte dell'Italia quella del nord, considerata più ricca, ha scoperto il crollo improvviso, l'incertezza, la paura.
Credo che, più che parlare di povertà, si debba ritornare a parlare del contrasto tra ricchi e poveri: ecco, la lotta alla disuguaglianza è la sola politica efficace che contrasta alla radice la povertà, con più azioni di prevenzione per evitare cioè che si diventi poveri oppure che si resti poveri e inchiodati al marchio di nascita con politiche di riparazione dei danni umani, sociali ed anche economici che la povertà procura.
È la nostra missione, la missione di SEL, di questa rappresentanza parlamentare; con forza, con coerenza, noi la poniamo. Non sentiamo nella politica intorno a noi – anche quella che è stata dinamizzata dal nuovo PD – la tensione necessaria perché si possa affrontare il problema fondamentale del nostro Paese, un Paese fortemente diseguale, con livelli di disparità superiori alla media dei paesi OCSE: è il primato triste dell'Italia.
Nella società in tanti agiscono in modo solidale per obiettivi di giustizia, tante associazioni, è un'enorme riserva sociale, umana. È nata, per esempio, l'Alleanza contro la povertà, un insieme molto rappresentativo di soggetti sociali, sindacali, del terzo settore, istituzionali, ma il dato di fondo resta la non adeguata volontà del Governo ad affrontare l'enorme scarto esistente tra le esigenze di reddito, lavoro, potere e sapere di tanti e la reale possibilità di soddisfazione di queste fondamentali esigenze.
Le politiche sociali sono arrivate al minimo storico per conseguenza delle politiche Pag. 33di austerity di cui si è parlato, strette nella morsa del ridimensionamento dell'intervento pubblico, derubricate ad assistenzialismo minimale, a partire per esempio dal problema di una definizione dei livelli di assistenza in tutto il nostro Paese, un connubio tra tagli alla spesa indiscriminati e misure frammentarie di impronta marcatamente assistenzialistica, caritatevole, oppure delimitate – come è successo ora, in questi mesi – a sperimentazioni, senza alcuna certezza che dalla sperimentazione si passi alla stabilizzazione.
È così per la sperimentazione sul sostegno per l'inclusione attiva (SIA), misura per il contrasto alla povertà, estesa dal Governo anche nella legge di stabilità per il 2014: un passo, certo, ben diverso dall'indicazione della risoluzione del Parlamento europeo sul reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa, così scrive quella risoluzione. Indicazione che sancisce in modo pieno il riconoscimento di un diritto dei cittadini dell'Unione ad un reddito che ne salvaguardi la dignità sociale, come previsto dalla Carta di Nizza ove il reddito minimo viene definito come un diritto sociale fondamentale, strumento di protezione della dignità della persona e della sua possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica. È altra cosa da una mera misura assistenzialistica contro la povertà. Il reddito minimo è anche uno strumento che tutela la dignità nel lavoro, perché aiuta a sottrarsi al ricatto di un lavoro purché sia. L'Italia è l'unico grande Paese europeo a non avere una misura di questo tipo. Nell'Unione europea a 15, l'Italia è in compagnia della Grecia, nell'unione monetaria a 27, anche di Bulgaria e Malta, comunque sempre fanalino di coda.
La nostra mozione delinea un complesso di azioni che muovono da un'idea di fondo: il rilancio di un nuovo welfare di donne e uomini, di più generazioni, in grado di garantire autonomia e indipendenza di vita, parte fondamentale di un piano di buon lavoro e di sviluppo dell'economia. Noi mettiamo sul tavolo – e con questo volgo al termine – due scelte, tra le tante che abbiamo individuato. Sono due scelte che vogliono suonare una sfida al Governo, ma una sfida anche ai pungolatori del Governo. Più lavoro femminile, la prima: è una misura strutturale per intervenire contro l'impoverimento delle famiglie e a tutela dei figli. Questo si porta dietro politiche fiscali specifiche, organizzazione del lavoro in sintonia con la vita a partire dal riconoscimento universale della maternità e la valorizzazione di entrambi i genitori.
Seconda misura: attivazione subito del reddito minimo garantito. Ci sono proposte in questo Parlamento. È in atto la sperimentazione del Governo. Vediamo, troviamoci, ci può essere una maggioranza per fare un passo in questa direzione. Non si tiri fuori la cupa litania del vincolo di bilancio. Si facciano scelte. Si chieda di contribuire a quel 10 per cento che possiede metà della ricchezza del Paese. Si destinino diversamente le risorse pubbliche. Per questo gruppo rimane una vergogna l'abnorme uso delle spese militari. Faremo sempre questa nostra azione, questo richiamo alle scelte del Governo. Insomma, ci sono in ballo due misure che fanno marciare insieme due cose importanti, sviluppo e giustizia sociale, l'unico buon legame che può farci uscire da questa crisi.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Calabria, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00297. Ne ha facoltà.

ANNAGRAZIA CALABRIA. Signor Presidente, signor Viceministro, onorevoli colleghi, il 30 dicembre 2013 è stato pubblicato il quarto Rapporto sulla coesione sociale, elaborato congiuntamente da INPS, ISTAT e Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il rapporto fotografa un'Italia scivolata in pochi anni ad un passo dal baratro della crisi economica. Nel rapporto si forniscono, sia i dati concernenti lo stato della povertà relativa, che nel 2012 ha toccato il 12,7 per cento delle famiglie e il 15,8 per cento degli Pag. 34individui residenti in Italia, che i dati della povertà assoluta che colpisce, invece, il 6,8 per cento delle famiglie e l'8 per cento degli individui. Si tratta dei valori più alti dal 1977. I poveri in senso assoluto sono raddoppiati dal 2005 e triplicati nelle regioni del nord che da sempre sono considerate le più abbienti del Paese. Anche agli occhi dell'Europa, l'indicatore sintetico Europa 2020, che considera le persone a rischio di povertà o esclusione sociale, ha posto l'Italia solo prima della Grecia e questo perché nel nostro Paese il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace nel contenere il rischio di povertà rispetto ad altre realtà nazionali del contesto europeo.
Dal rapporto emergono, inoltre, almeno quattro gruppi caratteristici di nuclei poveri del nostro Paese: le coppie anziane, le donne anziane sole, le famiglie con persone in cerca di occupazione nel Mezzogiorno e le famiglie con lavoratori a basso profilo professionale. Analizzando i dati, è ormai chiaro che a fare le spese maggiori in termini di povertà è la famiglia. Avere dei figli da crescere significa aumentare di molto il rischio di povertà, soprattutto se si tratta di figli minori residenti nel Mezzogiorno e per le famiglie con membri aggregati con cui convivono più generazioni. Sempre dal rapporto emerge che una famiglia su tre è relativamente povera e una su cinque lo è in senso assoluto. Un minore ogni cinque vive in una famiglia in una condizione di povertà relativa e uno ogni dieci in una famiglia in condizione di povertà assoluta. Quest'ultimo valore è più che raddoppiato dal 2005. In Italia, dunque, ogni nuovo figlio costituisce per la famiglia, oltre che una speranza di vita, una crescita del rischio di impoverimento. Al di là delle cifre e dei dati, oggi è doveroso guardare la realtà dei fatti. Signor Presidente, quando si parla di famiglia a rischio povertà, si fa riferimento a quelle famiglie che arrivano con difficoltà alla quarta settimana del mese e sono costrette a indebitarsi e a ricorrere ai centri assistenziali, nonostante abbiano un lavoro e un reddito, per permettersi una vita che sfiori la soglia della dignità. Esponenzialmente cresce sempre di più l'insicurezza delle famiglie italiane che temono di non essere in grado di far fronte a eventi negativi come, per esempio, un'improvvisa malattia associata a non autosufficienza di un familiare o l'instabilità del rapporto di lavoro o gli oneri finanziari sempre maggiori.
Il parlare di politiche sociali o di contrasto all'esclusione e alla povertà non è una questione solo nominalistica o terminologica. Le politiche sociali dovrebbero saper rispondere a una molteplicità di problemi legati a diversi fattori: dai nuovi rischi sociali centrati sulla profonda modifica dei cicli di vita, a partire da quelli legati a famiglia e vecchiaia, alla ristrutturazione crescente delle forme di lavoro sempre più orientate alla flessibilità e alla precarizzazione, per arrivare alla presenza di nuove domande di integrazione sociale provenienti da persone che arrivano da altri Paesi. L'endemica diffusione del precariato e della disoccupazione fra le giovani generazioni, ma così diffusa dal 1977, a cui anche la collega che mi ha preceduto ha reso omaggio, rende questa categoria tra quelle a maggior rischio di povertà, rinviando le possibilità e il desiderio di una vita quantomeno normale e di una progettualità di lungo termine.
Crescono le persone cadute nell'emarginazione senza neppure aver potuto sperimentare una vita lavorativa e familiare normale: persone con una traiettoria di mobilità discendente, contrassegnata dalla perdita del lavoro, dei legami familiari, della stabilità abitativa; persone senza famiglia che, con l'avanzare degli anni, si trovano senza sostegni; donne sole con bambini, prive del sostegno del coniuge o con compagni a loro volta colpiti dalla precarietà occupazionale, da malattie o inabilità o con genitori anziani da assistere; persone che subiscono a livello psicologico e relazionale i contraccolpi della disoccupazione o del fallimento e della cessazione di attività autonome.
Anche al fine di favorire una ripresa della fiducia nei confronti delle prospettive economiche e sociali del Paese, non si può prescindere da una particolare attenzione Pag. 35alle politiche per la famiglia, con l'intento di fronteggiare la crisi demografica, che ha effetti negativi soprattutto nel medio e lungo termine, di arrestare l'aumento della povertà assoluta, di contrastare la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto livelli assolutamente intollerabili, di implementare quei servizi alla persona in grado di incrementare il tasso di occupazione femminile, anche attraverso la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Le politiche sociali, ed al loro interno le politiche per l'inclusione sociale e per il contrasto alla povertà, presentano dunque la crescente necessità di spingere verso una significativa ristrutturazione le agende politiche di Governi nazionali e locali. È necessario dare rilievo all'aspetto culturale e valoriale delle scelte, a partire dal riconoscimento della centralità della persona, di una maggiore attenzione alla primaria difesa della vita e alla concreta valorizzazione del ruolo della famiglia e dei minori, anche predisponendo forme nuove di reddito d'accompagnamento sulla base di progetti personalizzati e di attenzione particolare ai minori, attraverso una rete di collaborazione con i servizi abitativi, con i servizi di inserimento al lavoro, di istruzione e di formazione attiva sul territorio.
È doveroso ricordare che le uniche misure di lotta alla povertà e d'integrazione del reddito che hanno finora sortito effetti concreti furono quelle dirette al contenimento del carico fiscale delle famiglie, contenute nel decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126, nel corso del Governo Berlusconi: un provvedimento legislativo mirato anche al sostegno delle categorie sociali più deboli, con particolare attenzione alla rinegoziazione dei mutui a tasso variabile sulla prima casa, alla cancellazione dell'imposta comunale sugli immobili, alla detassazione degli straordinari e dei premi di produttività per i dipendenti del settore privato con un reddito non superiore ai 30 mila euro. Il Governo di allora mantenne la promessa di non mettere le mani in tasca agli italiani.
Così come avvenne con la manovra finanziaria per il 2009, che definì – secondo un ragionevole equilibrio – gli interventi di risanamento e di riduzione della spesa corrente insieme con importanti misure di redistribuzione del reddito, fra le quali la cosiddetta social card, che permise ai cittadini che versavano in gravi condizioni sociali di acquistare prodotti alimentari e di pagare le bollette.
È sotto gli occhi di tutti che, ad oggi, le risorse a valere sul fondo istituito con il pacchetto anticrisi del 2008 per il finanziamento della social card restano le uniche misure contro la povertà ancora operative.
Analizzando inoltre nel dettaglio gli attuali livelli di spesa per interventi e servizi sociali a livello regionale, si registrano significativi divari, per cui permangono ampi divari territoriali di spesa sociale, con valori maggiori nelle regioni centro-settentrionali e minori in quelle meridionali, con punte di differenze pari a quasi 2 mila euro annui.
Il problema della disuguaglianza impatta fortemente su altri aspetti fondamentali del vivere e le condizioni di salute sono tra le più importanti. Politiche sui determinanti della salute e contro povertà ed esclusione sociale sono fondamentali per il miglioramento del benessere psicofisico della popolazione: i dati del rapporto ISTAT sulla salute mostrano che, scendendo lungo la scala sociale e passando dal nord al sud, aumenta lo svantaggio degli individui e che i poveri del sud versano in peggiori condizioni di salute rispetto a quelli del nord.
In uno Stato moderno, la spesa sociale dovrebbe svolgere una funzione di perequazione delle differenze in termini di dotazione di servizi tra i territori, operando, in particolare, una redistribuzione delle risorse in base ai rischi specifici dei diversi comparti, quali la povertà, le condizioni di salute per la sanità, il disagio per l'assistenza sociale e l'investimento in capitale umano per l'istruzione.
Chiediamo pertanto al Governo di adottare tutte le misure atte a prevenire le condizioni di povertà.Pag. 36
Per fare ciò, signor Presidente, si potrebbe assumere come punto di partenza l'Agenda sociale europea, i cui obiettivi indicati spaziano dal creare una strategia integrata che garantisca un'interazione positiva delle politiche economiche, sociali e dell'occupazione al promuovere la qualità dell'occupazione, della politica sociale e delle relazioni industriali, consentendo, quindi, il miglioramento del capitale umano e sociale, e all'adeguare i sistemi di protezione sociali alle esigenze attuali basandosi sulla solidarietà e potenziando il ruolo di fattore produttivo, tenendo conto del costo dell'assenza di politiche sociali.
È inoltre necessario che il Governo prenda un impegno serio e concreto per prevenire e combattere tutte le forme di povertà, incidendo su alcuni aspetti strutturali del nostro Paese, attraverso la buona e piena occupazione femminile, l'adozione di misure fiscali e monetarie a sostegno dei figli, l'elaborazione di politiche di conciliazione tra lavoro nel mercato e responsabilità di cura per donne e uomini, l'accesso ai servizi socio-educativi per la prima infanzia, l'adozione di misure per prevenire, rallentare e prendere in carico la non autosufficienza attraverso la piena, concreta e reale attuazione del fondo all'uopo creato.
È per questo, signor Presidente, che chiediamo a questo Governo lo sforzo di guardare a chi ha più bisogno, considerando la lotta alla povertà non un mero enunciato di principio, ma un obiettivo serio dell'agenda politica di questo Paese (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia – Il Popolo della Libertà – Berlusconi Presidente).

PRESIDENTE. Dovrebbe ora intervenire l'onorevole Marco Rondini, che non vedo in Aula.
È iscritta a parlare l'onorevole Silvia Giordano, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00306. Ne ha facoltà.

SILVIA GIORDANO. Signor Presidente, chiedo scusa se ripeterò qualche dato, ma è importante capire il quadro anche per capire poi gli impegni che noi vogliamo chiedere al Governo e soprattutto che gli altri partiti hanno chiesto al Governo. La situazione economica causata da disoccupazione e inflazione si fa sempre più preoccupante, con i numeri che parlano chiaro e che purtroppo non preannunciano nulla di buono. Secondo i dati ISTAT, a novembre 2013 gli occupati sono 22.292.000: sono andati persi ben 448 mila posti di lavoro nell'ultimo anno, con un calo del 2 per cento. Infatti, mi chiedo come mai stiamo parlando di una mozione sulla povertà e non di una seria riforma del mondo lavorativo. L'Istituto di statistica ci dice anche che il numero dei disoccupati è pari a 3.250.000, con una crescita del 12,1 per cento su base annua. L'incidenza del tasso di disoccupazione nella fascia giovanile compresa tra i 15 e i 24 anni è pari al 41,6 per cento, anch'essa in aumento, rispetto al mese precedente, dello 0,2 per cento. Desta particolare preoccupazione l'aumento della povertà assoluta: nel 2012, in Italia, secondo l'ISTAT, 1.725.000 famiglie, cioè il 6,8 per cento delle famiglie residenti, risultavano in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4.814.000 individui, l'8 per cento dell'intera popolazione. Il numero di famiglie in situazioni di povertà assoluta è aumentato quindi del 33 per cento rispetto al 2011. Si tratta dell'incremento percentuale più rilevante degli ultimi dieci anni. La Banca d'Italia, nel rapporto diffuso nel mese di giugno 2013, ha rilevato come nell'arco di tempo che va dal 2003 al 2011 l'indebitamento medio delle famiglie italiane sia passato dal 30,8 per cento al 53,2 per cento del reddito disponibile lordo. Il potere d'acquisto delle famiglie consumatrici nel 2012 è diminuito così del 4,8 per cento. La conseguenza di tale ridotta capacità di spesa ha determinato cambiamenti significativi nello stile di vita e una crescente mole di richiesta d'aiuto.
Ad esempio, in riferimento al primo dei due aspetti, secondo un recente studio della Coldiretti sulle consuetudini di spesa e i bisogni alimentari delle famiglie, nell'ultimo anno le famiglie italiane hanno ridotto il consumo per i prodotti base per l'alimentazione: meno 4 per cento di Pag. 37frutta, meno 3 per cento di ortaggi, meno 7 per cento di Grana Padano, meno 3 per cento di Parmigiano Reggiano, meno 7 per cento del consumo di carne bovina. Sul secondo versante, in base ai dati dell'ultimo Piano nazionale di distribuzione degli alimenti agli indigenti realizzato da AGEA, nel corso del 2012 si è registrato un aumento del 9 per cento delle famiglie che hanno chiesto aiuto per mangiare, con un totale di ben 3,7 milioni di persone assistite con pacchi alimentari e pasti gratuiti nelle mense. Il dato conferma che nel corso del 2012 molte famiglie sono cadute in povertà, con tanti bambini e anziani che hanno difficoltà economiche e non riescono a garantirsi da mangiare.
Come è sempre accaduto, i dati assumono connotati differenti quando si analizzano i valori nelle aree nord, centro e sud. Con il rapporto Svimez 2013 si scopre, ad esempio, un Mezzogiorno sempre più spopolato da cui entro il 2065 spariranno 2 milioni di under 44 tra denatalità, disoccupazione e nuove emigrazioni.
Una terra a rischio di desertificazione industriale dove crollano consumi e investimenti, risale la disoccupazione ufficiale ma dove in cinque anni le famiglie povere sono aumentate del 30 per cento.
Dall'analisi dei dati emergono chiare le responsabilità nell'ultimo ventennio di alcune forze politiche, che poi sono sempre le stesse ma qui in particolare vi parlo di una precisa, che hanno continuato a fare propaganda nordista, a scialacquare investimenti, a fallire nella gestione economica e politica del Sud che diventa ogni anno più povero.
La punta più debole dell’iceberg, formato dal disagio sociale, è rappresentata dai bambini e dagli anziani. È angosciante sapere che in Italia circa 430 mila bambini con meno di cinque anni di età, nel 2013, hanno chiesto aiuto per poter semplicemente bere il latte o mangiare e che ben oltre 570 mila anziani, over 65, sono ricorsi a sostegni alimentari.
Ci siamo chiesti in questa Aula, almeno spero, quante sono davvero le vittime della crisi in Italia. È da un po’ di tempo che superano abbondantemente le 100 unità ogni anno, numero in costante crescita che qualcuno tenta di non ascrivere alla voce recessione tirando fuori dal cilindro motivazioni diverse in basa alla momentanea convinzione personale. Tutti i dati che emergono dicono chiaramente che il nostro Paese è gravemente malato così come, perdonatemi, è malata la democrazia come forma di Governo che dovrebbe essere chiamata a garantire a tutte le persone una vita libera e dignitosa.
L'Italia è da tempo accartocciata su se stessa e incapace di qualsiasi visione futura in grado di programmare azioni politiche di risanamento immediate per migliorare la situazione attuale e lungimiranti nel medio e lungo periodo. Di fronte a questa situazione non possiamo stare in silenzio ma soprattutto non possiamo rimanere inermi, la politica quindi esca dai tatticismi e dalle spartizioni di potere.
Voglio solo ricordare che nella Commissione bicamerale infanzia e adolescenza stiamo portando avanti un'indagine sulla povertà ma voglio anche ricordare che questa Commissione, sempre per i soliti accordi politici, è partita con mesi di ritardo e convocata sei volte inutilmente perché non si mettevano d'accordo sulle presidenze; oltretutto il caso è anche abbastanza spiritoso perché adesso la presidenza della bicamerale è di una forza dell'opposizione, una minima forza dell'opposizione.
Quello che voglio far capire è che noi stiamo letteralmente perdendo tempo sempre per le solite cose: per gli accordi politici, per le poltrone, per le solite spartizioni di queste poltrone, del potere e diciamo fuori, all'esterno, alla gente cose non vere in questa Aula perché adesso noi – e so che molti lo faranno – andremo in televisione e diremo di aver fatto questa mozione sulla povertà che può essere utile a qualcosa quando, in realtà, in pratica non si porta avanti niente.
Noi al Senato, come MoVimento 5 Stelle, abbiamo presentato al disegno di legge di stabilità un emendamento che parlava del reddito minimo garantito. Ma indovinate un po’ ? Ovviamente è stato bocciato.Pag. 38
Ma ripartiamo con la tiritera. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizioni di potere, la smetta di subire i diktat delle finanze e dei mercati e, soprattutto, si impegni da subito a ridurre le distanze sociali lasciandosi così guidare dai bisogni delle persone, a partire da quelle più in difficoltà garantendo davvero risorse adeguate e non elemosini nulla.
Finora il bonus gas, il bonus per l'energia elettrica, i contributi per gli affitti sono state alcune misure appartenenti ad un insieme di interventi disorganici e insufficienti che sono serviti più ai politici per promuoversi che alle famiglia per sostenersi.
Questa crisi, prima che economica, è una crisi dell'etica e della politica; è una crisi di civiltà da cui si esce solo mettendo in campo un altro approccio ed un altro punto di vista capace di partire dalla centralità dei diritti e dalla partecipazione ed inclusione dei cittadini e delle cittadine oggi ai margini.
Cito questa frase perché ritengo che esprima in maniera chiara il principio di eguaglianza, purtroppo ignorato dagli ultimi Governi, espresso dall'articolo 3 della Carta costituzionale. Sono convinta che siano necessari ed urgenti misure di contrasto alla povertà nel nostro Paese; tra queste l'introduzione, appunto, del reddito minimo garantito, semmai lo approvate, attraverso la predisposizione di un piano che individui la platea degli aventi diritto, considerando come indicatore il numero di coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà.
Perché invece di elargire sostegni a pioggia, così da far perdere efficacia all'intero sistema, l'Italia è l'unico Paese europeo, insieme a Grecia e Ungheria, a non disporre di un reddito minimo garantito ?
Una misura, quella del reddito minimo garantito, alla quale si dovrebbe affiancare un sistema parallelo di ricollocamento nel mondo del lavoro che, al solito, nel bel Paese è quasi una barzelletta.
Avete mai provato a mettervi nelle mani di un centro per l'impiego ? Il solito elefante inutile che serve in primo luogo a perpetrare se stesso, come del resto decine e decine di altre organizzazioni e strutture pubbliche in Italia.
Questo gruppo chiede un impegno serio al Governo nel trovare le risorse per ridurre, ad esempio, l'applicazione dell'IVA sui prodotti di prima necessità per coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia di povertà. Il Governo dia gli strumenti a coloro che volontariamente già operano sui territori attraverso le organizzazioni no profit e le imprese sociali, per migliorare la condizione di vita delle sempre più numerose persone meno abbienti. A questo proposito abbiamo già impegnato il Governo a stabilizzare la quota del 5 per mille destinata alle ONLUS, e ad aumentare lo stanziamento a 500 milioni di euro.
Quest'Aula dovrebbe impegnarsi compatta per garantire il credito alle famiglie e ai singoli con redditi minimi, che oggi non consentono di guardare al futuro in maniera serena. Noi abbiamo gettato l'amo, con il semplice gesto della restituzione di una parte dei nostri stipendi; e non solo: abbiano rinunciato anche al TFR, e sarebbe bello vedere che qualcuno faccia lo stesso. È il momento di rendersi conto che puntare ad una maggiore coesione sociale e territoriale non è solo un nostro obbligo di solidarietà nei riguardi dei cittadini italiani che stanno peggio e dei territori delle regioni dove più è concentrato il disagio economico e sociale, ma è anche l'unica strada per uscire dalla crisi e per assicurare uno sviluppo solido a tutto il Paese.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

SILVIA GIORDANO. Voglio fare un unico appello: noi abbiamo presentato più di 19 impegni; vedremo quanti ne resteranno poi, alla fine, quando verranno approvati, e quanti verranno bocciati. Ma soprattutto noi presenteremo il reddito minimo garantito, e sarà una bella prova per vedere se questa giornata servirà a qualcosa o vi basteranno solo le mozioni (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

Pag. 39

PRESIDENTE. Era intendimento della Presidenza sospendere la seduta alle ore 14. Ho ancora un intervento, che è quello dell'onorevole Giulia Di Vita, che si potrebbe fare in tempo a svolgere prima della sospensione. Se l'onorevole Di Vita intende intervenire le do la parola, altrimenti dopo la pausa. Prego.

GIULIA DI VITA. Signor Presidente, oggi viene messo sul tavolo da Scelta Civica, o quello che è adesso, il tema della povertà. Presidente, siamo seri: oggi è il 13 gennaio; se dopo ben nove mesi da quando siamo entrati qui dentro ci ritroviamo a discutere una mozione che dovrebbe contrastare la povertà, a chiunque verrebbe da chiedersi cosa mai abbiamo fatto finora. Cosa ha fatto finora questo Parlamento contro la povertà, e cosa ha fatto il Governo, cosa ha fatto la Commissione affari sociali ?
Insomma, Presidente, stiamo ammettendo pubblicamente che finora questo Parlamento non ha mosso un dito per gli italiani che si ritrovano sempre più numerosi sotto la soglia di povertà. Un autogol, insomma. E allora perché viene fatto ? Semplice: perché è difficile per i cittadini conoscere davvero quello che avviene qui dentro. I media infatti come sempre ribalteranno la situazione, dicendo che la Camera ha appena approvato le mozioni per il contrasto alla povertà: così come potrebbero dire che abbiamo appena approvato la pace nel mondo. È così che si fa la politica ?
Ma a questo punto vorrei approfittare di questo intervento per raccontare a chi ci sta ascoltando come fare per sapere, anche senza l'aiuto dei giornali, cosa facciamo tutto il giorno qui dentro. Intanto chiariamo che quando una forza politica propone un tema, tramite ad esempio una mozione o una proposta di legge, tutte le altre forze politiche possono proporre la loro in modo che vengano discusse tutte insieme; ed è per questo che noi oggi ci ritroviamo costretti a partecipare a questa fiera dell'ipocrisia contro la povertà: perché fosse stato per noi, come ormai sapete tutti, il nostro primo punto nell'agenda di Governo sarebbe stato il reddito di cittadinanza, che abbiamo tra l'altro riproposto anche in questa mozione.
Ma ecco la prima cosa da fare: su www.camera.it sono disponibili tutti gli atti del Parlamento, tra cui ad esempio le mozioni di oggi sulla povertà. Nella nostra, come potrete vedere, non abbiamo fatto altro che raccogliere tutte quelle proposte che da mesi mettiamo continuamente sul piatto ogni volta che ne abbiamo la possibilità, e che ci vengono ripetutamente bocciate, perfino quando dicono di essere tutti d'accordo.
Ma andiamo avanti. Si potrebbe pensare che la Commissione affari sociali della Camera dovrebbe trattare appunto i temi sociali, a partire magari dalla povertà. E invece no: eh no ! Perché a quest'ora saremmo qui con una proposta di legge seria, discussa e votata dalla Commissione, non con generiche mozioni; ma questo ovviamente avverrebbe in una democrazia, qui no. Qui pettiniamo le bambole da nove mesi, e per un semplice motivo: perché chi occupa le istituzioni ha deciso, in piena coscienza, di non far funzionare questo Parlamento. E non lo dico io: guardate con i vostri occhi. Tornate su www.camera.it, cliccate in alto su «Deputati e organi», poi sul menù a sinistra cliccate su «Commissioni» e scegliete la XII, affari sociali
Adesso cliccate su «Convocazioni» e guardate di cosa ci occuperemo ad esempio questa settimana: a parte il fatto che ci riuniamo solo un'oretta il martedì, mercoledì e giovedì, noterete una quantità smisurata di atti del Governo, qualche parere da dare a qualche altra Commissione e quanto tempo resta per le nostre proposte di legge ? Ovviamente «zero», altro che parlare di povertà ! Allora si potrebbe pensare che almeno la Commissione serva per vigilare bene sul Governo, visto che praticamente fa solo quello. Ma anche no, nel nostro caso il nostro unico interlocutore del Governo sui temi sociali è il Viceministro «tuttofare» Guerra, che – confermerà – si occupa di lavoro, previdenza, politiche sociali, quindi infanzia, adolescenza, anziani, disabili, immigrati, Pag. 40volontariato, eccetera, e da quando si è dimesso il Ministro per le pari opportunità, piuttosto che sostituirlo – e visti gli ultimi scandali, forse hanno fatto bene – hanno affibbiato sempre alla Guerra anche questa delega. Come possa occuparsi di tutto questo un solo Viceministro è un mistero, come lo è anche il fatto che ad avere la delega alla famiglia, un altro dei temi impellenti che la mia Commissione dovrebbe trattare, sia addirittura il Presidente del Consiglio Letta. Ora, se non vengono nemmeno i Ministri in Commissione, qualcuno pensa che verrà mai Letta in prima persona a parlare di famiglia ? Troppo impegnato a dire bugie in televisione, piuttosto.
Insomma, in questo momento, stiamo solo inscenando – tanto per cambiare – la solita pantomima istituzionale. A dirla tutta, solo una settimana fa, se questo Parlamento avesse voluto fare qualcosa contro la povertà, avrebbe votato la mozione sul taglio alle pensioni d'oro per aiutare i tanti «nonni Mario» di questo Paese, che con la loro piccola pensione spesso sfamano anche la famiglia dei propri figli. Invece questo Parlamento ha mostrato tutta la sua di povertà, povertà di coraggio, povertà di responsabilità e povertà di dignità morale, ma per sconfiggere questa povertà non esiste alcuna mozione che possa pulire le vostre coscienze, serve solo che andiate tutti a casa (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) !

PRESIDENTE. Sospendiamo a questo punto la seduta, che riprenderà alle ore 15 con gli ulteriori interventi in discussione generale sulle mozioni concernenti iniziative per il contrasto alla povertà. La seduta è sospesa.

La seduta, sospesa alle 14, è ripresa alle 15.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Michele Bordo, Kyenge e Speranza sono in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
I deputati in missione sono complessivamente cinquantaquattro, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

Si riprende la discussione delle mozioni concernenti iniziative per il contrasto alla povertà.

(Ripresa discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Dorina Bianchi, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00307. Ne ha facoltà.

DORINA BIANCHI. Signor Presidente, poiché in concomitanza all'Aula è convocata anche la Commissione ambiente, essendo capogruppo in Commissione ambiente, dove si stanno votando gli emendamenti sul decreto «Terra dei fuochi e Ilva», chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. È iscritto a parlare l'onorevole Pesco. Ne ha facoltà.

DANIELE PESCO. Signor Presidente, i dati sono agghiaccianti. Non so se lei ha avuto modo di leggere i risultati delle indagini dell'ISTAT sulla povertà in Italia con lo scorcio che abbiamo riportato nelle premesse di questa mozione. Ebbene, signor Presidente, gli italiani stanno diventando tutti poveri. Cresce il numero di famiglie che stanno al di sotto della soglia di povertà assoluta ed anche di quelle che stanno al di sotto della soglia di povertà relativa. Ma ricordiamo i significati di queste espressioni: povertà assoluta vuol dire essere in difficoltà a comparsi da mangiare o quanto meno a reperire i beni di prima necessità; per quanto riguarda la Pag. 41povertà relativa, ad esempio, una famiglia di due persone che ha a disposizione un reddito per i consumi inferiore al consumo medio pro capite è considerata relativamente povera. In pratica si tratta di non avere a disposizione mille euro per una coppia o 600 euro per il singolo individuo.
Ma vediamo più da vicino di quanto sono cresciuti questi indici. Dal 2011 al 2012 la povertà assoluta è passata dal 5,2 al 6,8 per cento, mentre la relativa dall'11,1 all'12,7 per cento. In pratica, entrambi gli indicatori sono cresciuti di 1,5 punti percentuale, ma facciamo due conti: le famiglie in Italia sono circa 22 milioni, 1,5 per cento vuol dire 330 mila famiglie, che equivalgono a 880 mila abitanti. È come se tutti gli abitanti di una città italiana grande come Torino da un anno all'altro fossero diventati tutti poveri, tutti poveri.
Per non parlare della disoccupazione: sotto i venticinque anni non trovano lavoro più di quattro giovani su dieci, secondo i dati dell'ISTAT rilevati a settembre 2013 e, per la cronaca, i peggiori dati registrati da quando l'ISTAT esiste. Forse non tutti sono riusciti a rendersi conto che disoccupazione e povertà vanno di pari passo. Cresce la disoccupazione e cresce la povertà; è triste, è triste, ma è così. Ma perché cresce la disoccupazione ? Per molti ragioni: perché cala la domanda di beni e servizi, perché le famiglie sono strozzate dalle tasse, perché le aziende non hanno soldi e non riescono a trovare soldi per fare nuovi investimenti e perché lo Stato non può aumentare la spesa pubblica produttiva. Per di più le nostre aziende fanno fatica ad esportare a causa di una moneta unica, chiamata euro, troppo, troppo costosa.
E a capo di tutto questo, signor Presidente, ci sono due cause fondamentali: la prima è quel 3 per cento del valore del rapporto deficit su PIL, che la nostra nazione non può superare per il Patto di stabilità europeo; la seconda è l'impossibilità di stampare nuova moneta, in quanto abbiamo perso, senza che i cittadini se ne accorgessero, la sovranità monetaria.
Siamo poveri per l'euro, e che sia chiaro, non per l'appartenenza all'Unione europea, ma per l'appartenenza alla moneta unica. Potevamo far parte dell'Unione europea anche senza aderire all'euro. È importante la differenza, è importante. Noi ce ne rendiamo conto e lo vogliamo ricordare.
E non dimentichiamo la connivenza della politica con il sistema bancario nazionale e internazionale, che ha puntato troppo sulla speculazione e sui bonus, utili a far riempire la pancia a pochi, senza pensare all'economia reale, alle aziende, alle famiglie, alla casa. Stiamo molto peggio di prima, stiamo molto peggio di prima, i cittadini non hanno colpa e non è giusto che paghino con la povertà le scelte scellerate fatte da pochi. I cittadini, però, signor Presidente, non hanno colpa, perché non hanno scelto loro di aderire al cosiddetto Patto di stabilità. Nessun cittadino è stato chiamato a scegliere se adottare l'euro. All'euro ci hanno portato alcuni politici, finti economisti da strapazzo, promettendoci mari e monti, dicendoci che con l'euro avremmo lavorato un giorno in meno guadagnando come se lavorassimo un giorno in più. Detta così, sarebbe stata una cosa fantastica. E invece no, stiamo molto peggio di prima, i cittadini non hanno colpa e non è giusto che paghino con la povertà.
Lo Stato deve intervenire, lo Stato deve porre rimedio, lo Stato deve offrire un reddito minimo, un reddito di cittadinanza, a chiunque ne abbia bisogno per vivere. Noi del MoVimento 5 Stelle sappiamo che serve farlo ora a causa di questa situazione tragica, economica, in cui versa la nostra nazione, ed è urgente attuarlo ora come non mai. Ma deve essere chiaro che questo diritto va riconosciuto a tutti i cittadini, fin dalla nascita; certo, con delle regole, e, per chi può lavorare, deve rappresentare quell'ancora di salvezza per quando rimane temporaneamente senza lavoro. Il diritto a un reddito minimo deve essere universale.Pag. 42
Sul come e sul quanto siamo qui per deciderlo insieme, noi con voi, ammesso e non concesso che ai partiti interessi veramente dare un reddito di cittadinanza alle persone, ma è ora che lo si faccia, ora. Il MoVimento 5 Stelle, in ogni modo, è già avanti: ha redatto una bozza di proposta di legge sul reddito di cittadinanza e l'ha condivisa con i cittadini, che hanno partecipato e proposto più di 7 mila miglioramenti e integrazioni. Il Parlamento deve diventare la casa degli italiani, il MoVimento lo è già (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Paola Binetti. Ne ha facoltà.

PAOLA BINETTI. Signor Presidente, «Un miliardo di persone nel mondo soffre ancora la fame: è uno scandalo mondiale. La voce dei poveri diventi un ruggito». Papa Francesco ha lanciato il suo messaggio contro la povertà e la fame nel mondo nell'ambito della campagna Caritas, denunciando «lo scandalo mondiale di circa un miliardo di persone che ancora oggi soffrono la fame. Non possiamo girarci dall'altra parte e far finta che questo non esista. Il cibo a disposizione nel mondo basterebbe a sfamare tutti» e il Pontefice ha aggiunto: «Invito tutte le istituzioni del mondo, tutta la Chiesa e ognuno di noi, come una sola famiglia umana, a dare voce a tutte le persone che soffrono silenziosamente la fame, affinché questa voce diventi un ruggito in grado di scuotere il mondo».
Ma chi sono i nuovi poveri ? Quante famiglie non ce la fanno più ad arrivare a fine mese ? Quali sono le storie di chi, fino a qualche anno fa, conduceva una vita normale e oggi, per mangiare, deve rivolgersi alle mense del povero ? E chi aiuta le persone che stanno pagando il prezzo di questa interminabile crisi economica ? Molte realtà di aiuto e di vicinanza a chi vive una difficoltà economica sono conosciute, altre possono essere, invece, ancora troppo poco note.
Tra i nuovi poveri incontriamo madri sole, cinquantenni disoccupati, migranti, ma anche le famiglie numerose con almeno tre figli. Avere tre figli da crescere significa un rischio di povertà pari al 27,8 per cento e nel sud questo valore sale al 42,7 per cento. Il microimprenditore cinquantenne che si ritrova con l'attività spazzata via dalla crisi economica, la madre sola, plurilaureata, che accumula incarichi saltuari, il padre di famiglia migrante di prima generazione, impiegato per anni in modo discontinuo nell'edilizia, nell'agroalimentare e ora disoccupato: sono alcuni dei profili dei nuovi poveri, persone lontanissime dall'immaginario del bisogno e dell'emarginazione, costrette a bussare alla porta dell'assistenza sociale con bisogni concreti a cui è necessario rispondere con nuovi approcci.
L'istruzione e il lavoro non sono più garanzia di sicurezza sociale. Il 40 per cento delle donne dichiara di essersi trovata in difficoltà dopo la separazione dal compagno e gli stessi padri separati denunciano forme di povertà concrete, nonostante i lavori che svolgono. Molte persone colpite dalla crisi economica non sempre riescono a individuarne le cause precise, ma il fatto concreto è l'incapacità di provvedere alle spese di gestione per la casa. I centri di ascolto dimostrano come la povertà e le situazioni di difficoltà per le famiglie aumentino di giorno in giorno: una fotografia che non lascia spazio all'immaginazione.
La situazione è critica, e a soffrire non sono più soltanto gli stranieri, ma anche le famiglie italiane che fino a qualche anno fa vivevano una situazione pressoché normale: il 57 per cento è straniero, il restante 43 italiano, gli italiani che chiedono aiuto continuano ad essere maggiormente quelli separati, divorziati oppure single. A differenza degli scorsi anni, in cui le persone che si rivolgevano al centro di ascolto avevano soprattutto problemi economici, occupazionali o abitativi, quest'anno una problematica emergente riguarda i rapporti familiari; molti si rivolgono per chiedere aiuto perché hanno anziani a carico o disabili, o minori problematici; il 50 per cento ha perso il posto e il restante 50 per cento o è in cassa Pag. 43integrazione o lavora saltuariamente o in nero; sono persone con un determinato stile di vita, che non riescono ad abituarsi ad avere redditi inferiori e finiscono per avere debiti; oppure sono persone che hanno chiesto e ottenuto prestiti dalle banche e che si trovano in situazioni critiche perché non possono più farvi fronte.
In Italia 4,1 milioni di persone sono senza cibo, più 47 per cento in tre anni. Dal 2013, secondo il Food service risk, mappa che evidenza le zone a rischio di tutto il mondo utilizzando i dati forniti dalla FAO, il nostro Paese non è più considerato a basso rischio fame, ma a rischio medio e, a rendere la situazione ancora più instabile, si aggiunge un tasso di inattività tra i 15 e i 64 anni pari al 36,6 per cento, tra i più alti d'Europa.

PRESIDENTE. Dovrebbe concludere...

PAOLA BINETTI. Salgono alla cifra record di 4.068.000 i poveri che nel 2013 in Italia sono stati costretti a chiedere aiuto per il cibo da mangiare, con un aumento del 10 per cento rispetto allo scorso anno, del 47 per cento rispetto al 2010, ovvero ben 1.300.000 persone in più negli ultimi tre anni.
Con la povertà, però aumenta anche la solidarietà, e si contano nel 2013 ben 15 mila strutture periferiche, mense e centri di nutrizione, di distribuzione, ma anche centri di aiuto, promossi da 242 enti caritativi che fanno riferimento ad alcune organizzazioni riconosciute dall'Agenzia per l'erogazione, in tutti i campi, da quello dell'agricoltura, a quelli, più diversificati, del sociale. Il 15 per cento delle famiglie italiane ha offerto aiuto alimentare ai più bisognosi. Accanto all'aiuto alimentare, è stato fornito anche aiuto economico.
Cosa vogliamo dire, noi, per concludere questo intervento, su cosa vogliamo impegnare il Governo ? Chiediamo delle misure di intervento che siano stabili, che non siano legate, per così dire alle finanziarie di ogni anno, che abbiano carattere universalistico, che siano capaci di promuovere davvero un welfare creativo, un welfare di inclusione, in cui le persone possano essere messe in condizione di risolvere...

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Binetti.

PAOLA BINETTI. ... il problema della povertà, ma chiediamo anche una diversa sensibilità, una sensibilità di tipo strutturale, che non si rassegni a considerare la povertà come una irrinunciabile caratteristica del nostro tempo. La povertà può diminuire se tutti noi insieme creiamo davvero le condizioni positive per fare fronte a nuove richieste in nuovi modi.

PRESIDENTE. È iscritto parlare l'onorevole Baroni. Ne ha facoltà.

MASSIMO ENRICO BARONI. Signor Presidente, la mozione del MoVimento 5 Stelle si pone come obiettivo quello di riportare un equilibrio in questo nostro Paese, cercando di spostare i soldi e di recuperarli dall'industria del gioco d'azzardo, dal malaffare che gira intorno agli innumerevoli appalti del malaffare – vedi Expo 2015 oppure la TAV – riducendo le spese militari inutili, e semplicemente, e con grave prova di coscienza, per iniziare restituendo i soldi, come fa il MoVimento 5 Stelle, per le piccole e medie imprese, rinunciando anche, e soprattutto, ai rimborsi elettorali.
«Oggi c’è uno squilibrio negli investimenti finanziari, per cui a fronte di grandi riunioni internazionali, si muore di fame. Nell'attuale crisi economica, il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, mentre quello della maggioranza si indebolisce; questo squilibrio deriva da ideologie occulte, che promuovono l'autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo degli Stati, pur incaricati di provvedere al bene comune». Queste parole sono state pronunciate da Papa Francesco.
L'attuale esplosione dei debiti pubblici, privati, aziendali, bancari è lì a dimostrare il paradosso di un mercato finanziario Pag. 44diventato autoreferenziale, dove si scambia denaro con denaro, in differenti forme di finanza creativa o, meglio, moneta con moneta, per cui si produce e riproduce e vi resta intrappolata per prolungare l'illusione della sostenibilità del gioco, come fosse un azzardo, un gioco assurdo, che è causa profonda della crisi economica e politica, dell'accelerazione sperequativa di redditi e patrimoni, dei mali investimenti peggiorativi e della situazione ecologica ed ambientale, di un modello di sviluppo drogato e dipendente da una crescita quantitativa illimitata ed obbligata, del fallimento della democrazia, schiacciata da un potere monetario che toglie il primato alla politica, negando così l'ipotesi stessa di sovranità popolare.
Se scattiamo una foto sul nostro sistema economico, o meglio sul sistema finanziario, abbiamo un'Italia in piena crisi. I dati sull'inattività e sull'occupazione sono tra i peggiori d'Europa.
La povertà è la condizione di singole persone o collettività umane che si ritrovano ad avere, per ragioni di ordine economico, un limitato o del tutto mancante accesso a beni essenziali. Povertà è anche quella cosa che ti fa scegliere se morire di stenti e umiliazione per mancanza di lavoro o decidere di lavorare in un luogo malsano, per poi morire di cancro, come a Porto Marghera o all'ILVA di Taranto. Ma la povertà è anche la fame di essere amati, come diceva Madre Teresa di Calcutta, il diritto alla felicità del movimento della decrescita felice, il bisogno di essere accolti, protetti, difesi, considerati.
In Italia la povertà sta crescendo e non solo quella economica. Redditi e condizioni di vita, persone senza fissa dimora, consumi sempre più contratti, assenza di lavoro, senza un «piano B», registrano numeri sempre più allarmanti. Un dato per tutti: in Italia solamente i bambini poveri sono quasi 2 milioni. Definiamo, ancora, poveri coloro che non possono sostenere spese inaspettate, che non possono onorare il mutuo della casa, che non riescono a far studiare i propri figli, che non possono permettersi pasti adeguati, che non riescono a pagare più le bollette di luce e gas. Stiamo parlando di attività di prevenzione primaria, in questo caso prevenzione dell'infelicità, dei suicidi dovuti a queste ragioni.
Il welfare, che poggia sulla famiglia come ammortizzatore sociale, è un fallimento. La famiglia oggi non ce la fa più. I vecchi, con le loro sempre più misere pensioni, devono mantenere figli sempre meno giovani, disoccupati e inoccupati, che nemmeno lo cercano più il lavoro, perché – tanto si sa – il lavoro non c’è e, se va bene, diventi uno dei tanti schiavi moderni cui viene rubato il tempo, magari in un call center a 500 euro al mese senza garanzie per il futuro.
Ciò ha portato all'impoverimento del tessuto produttivo italiano, all'incremento della disoccupazione con conseguente, prevedibile, futuro aumento degli stanziamenti di somme a favore del sostegno al reddito ed a un aumento di cittadini che vivranno al di sotto della soglia di povertà. Non a caso il settore manifatturiero in Italia è in forte crisi e necessita di interventi sia immediati che a lungo termine.
Bisogna, perciò, trovare delle idee diverse, nuove e rivoluzionarie su come impiegare il nostro potere decisionale, oltre che su come riconquistarlo, in termini di democrazia, nei metodi e nei contenuti. Alcune linee guida esemplificative per costruire una condizione preliminare di ripartenza possono essere: restituire il primato a una base monetaria prodotta e controllata direttamente da uno Stato degno di questo nome, che ritorni a rappresentare il Paese e i suoi interessi nel rispetto della comunità internazionale, senza intermediazioni private o di qualsiasi particolarismo, lobby, corporazione o partito degenerato che sia, e, men che meno, senza ipocriti Governi di transizione guidati da sedicenti tecnocrati di chiara matrice ideologica neoliberista; ritrasformare il sistema bancario in semplice intermediario del credito, su mandato esplicito dei risparmiatori consenzienti, oltre che fornitore di tutti i servizi essenziali alla gestione del denaro, riconosciuti come servizi irrinunciabili di pubblica utilità, privi di rilevanza economica. Pag. 45Stop, quindi, all'esplosione degli utili parassitari privati delle banche e, per tramite delle banche, riconosciuti quali fattori degenerativi delle economie malintesamente finanziarizzate e globalizzate.
Una rivoluzione dell'economia politica di tale portata è del resto improrogabile di fronte al precipitare degli eventi, ma è comunque necessaria per restituire il futuro e la speranza alle prossime generazioni. Il reddito di cittadinanza è l'unico modo per fermare questa società minata, basata sullo sfruttamento...

PRESIDENTE. Concluda.

MASSIMO ENRICO BARONI. ... finanziario ed elettorale lobbistico (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Matteo Dall'Osso. Ne ha facoltà.

MATTEO DALL'OSSO. Signor Presidente, colleghi, sapete, una volta, gli abitanti del sud d'Italia partivano, lasciavano le loro famiglie, i loro cari e le proprie città per andare a lavorare al nord d'Italia. Oggi, vi basti pensare che gli abitanti del nord d'Italia per non morire di fame, perché non hanno più lavoro, partono per l'estero.
Figuratevi quindi al sud d'Italia. È superfluo dire che gli studi svolti sino ad ora prospettano un quadro non affatto rincuorante per il prossimo futuro di questo Paese. È compito della politica trovare soluzioni immediate e di prospettiva e non posso sottacere che è di fondamentale importanza che l'Italia si doti del reddito di cittadinanza. È imprescindibile ad ogni risoluzione il tentativo o palliativo al problema povertà rappresentato dall'introduzione di questo indispensabile sistema. Sinceramente, non credo che abbiate capito fino in fondo l'emergenza – lo ripeto: l'emergenza – che stanno vivendo gli italiani. Sono qui perché di voi non mi fido più. Voi siete stati quelli che avete lasciato da solo l'onorevole Giachetti sulla mozione contro il porcellum a favore del mattarellum. Come è andata a finire ? Che solo Giachetti l'ha votata, i suoi colleghi cofirmatari si sono tirati indietro e con voto palese per di più. Poi, è arrivata la sentenza della Corte che ha invalidato l'attuale legge elettorale, vi rendete conto ? Ma il Parlamento no, anzi voi no.
Ma ditemi voi in quale Paese al mondo un Primo Ministro va in televisione a dire il contrario di quello che ha fatto in Aula e rimane al proprio posto, cioè è andato in TV, ha detto il falso e rimane al proprio posto, facendo finta di niente. Onorevole Letta, un bugiardo, ripeto: un bugiardo e scusate la parola «onorevole».
Ma ditemi voi in quale Paese al mondo si può pensare di lavorare di notte alla legge forse più importante del Paese, la legge di stabilità, per poi non fare nulla il giorno dopo, perché così è stato. A me chi lavora di notte ricorda altre due categorie di persone: o le prostitute o i ladri e vorrei chiedere scusa a tutte le prostitute, spesso ridotte in schiavitù, per averle paragonate ai politici italiani. E lo stesso giorno, questa volta di giorno però e non di notte, un condannato in primo grado dalla Corte dei conti per danno erariale alla città dove fa il sindaco, teneva il comizio perché voleva vincere le primarie del proprio partito per entrare qui in Parlamento dalla porta principale. Molti dei miei concittadini allora chiedono a noi di andarlo a dire in TV e io rispondo loro: Ma come ? Non l'avete visto ? Noi ci siamo andati in televisione a dirlo, come fece, ad esempio, la mia collega e amica Dalila Nesci. Ma poi, come ci rispondevano ? Ci rispondevano così: che ognuno è libero di fare le proprie interviste e che loro non hanno neanche il diritto di replicare e, ad ogni intervistato, le proprie responsabilità. Io forse non sono un giornalista, ma penso anche che non ci voglia Oxford per capire che i cittadini debbano sapere prima del voto chi sono e, per esprimersi, devono avere un'informazione libera, ripeto: libera.

PRESIDENTE. Onorevole Dall'Osso, concluda.

Pag. 46

MATTEO DALL'OSSO. La ringrazio, signor Presidente, per il richiamo.
Vede, noi abbiamo versato il nostro stipendio in favore delle piccole e medie imprese lottando – e anche qui, ripeto, lottando – per farci aprire il conto. Ebbene sì, cari cittadini, seppiatelo: ora possono versare su questo conto tutte le persone che lo vogliono. Ripeto: tutte le persone che lo vogliono, non solo noi. Non c’è bisogno di una legge. Non c’è bisogno di una legge.
Sapete, per Natale, alcuni italiani, quando hanno fatto il presepe, mi hanno immaginato nella parte di indovino. Io non ho la presunzione di dire come andrà a finire questa mozione, chi la voterà, però di una cosa sono certo: l'onestà tornerà di moda.
E ora, con gentilezza e pacatezza, metterò giù questo microfono, perché l'altro l'ho già distrutto (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della proposta di legge: Madia ed altri: Modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in materia di professionisti dei beni culturali e istituzione di elenchi nazionali dei suddetti professionisti (A.C. 362-A) (ore 15,30).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge n. 362-A: Madia ed altri: Modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in materia di professionisti dei beni culturali e istituzione di elenchi nazionali dei suddetti professionisti.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali – A.C. 362-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare Partito democratico ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la VII Commissione (Cultura) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Ha facoltà di intervenire la relatrice, deputata Ghizzoni.

MANUELA GHIZZONI, Relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, migliaia di professionisti dei beni culturali attendono questo momento da molti anni. Questi professionisti, che svolgono un lavoro di rilevante interesse pubblico, perché presiedono fattivamente all'attuazione dell'articolo 9 della Costituzione, attendono che sia finalmente riconosciuto il loro ruolo lavorativo, professionale, economico e culturale, attualmente mortificato tanto da condizioni lavorative inaccettabili in un mercato senza regole e privo di ogni garanzia, quanto da un arretramento delle istituzioni pubbliche rispetto agli investimenti sui beni culturali. Professionisti – voglio sottolinearlo – ai quali, di fatto, in questo Paese, ogni giorno, viene affidata la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, che è testimonianza unica dell'identità e della bellezza, strumento per la formazione e per la trasmissione della conoscenza non solo per il nostro Paese, ma per l'intera umanità.
Sono i professionisti che, sabato scorso, si sono dati appuntamento in piazza del Pantheon per rivendicare dignità per il loro lavoro e buona occupazione, mettendo al primo punto della propria piattaforma Pag. 47il riconoscimento pubblico dei profili, delle competenze e della dignità dei professionisti dei beni culturali. Chiedono, cioè, che nel codice dei beni culturali e del paesaggio sia riconosciuto il ruolo e la qualificazione dei professionisti dei beni culturali mediante l'approvazione della proposta di legge n. 362-A, vale a dire la proposta di legge di cui oggi iniziamo la discussione sulle linee generali. E quale migliore risposta da parte della politica, se non una sua rapida approvazione ?
Il testo che esaminiamo oggi risulta arricchito rispetto a quello originariamente presentato nell'agosto del 2008 e ulteriormente riformulato e, poi, ripresentato all'inizio di questa legislatura, nel marzo scorso. Una riformulazione e un arricchimento che testimoniano positivamente del fecondo esame collegiale da parte delle forze politiche avvenuto in seno al comitato ristretto, a partire dall'attenta valutazione dei contributi emersi nel corso dell'audizione dei rappresentanti delle associazioni del settore, del Ministero, nonché del Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici.
Il confronto serrato di idee e di proposte ha portato all'adozione di un primo nuovo testo nell'agosto scorso. Su di esso si è aperta un'ulteriore fase di riflessione e di discussione pubblica, che ha nuovamente coinvolto tutti i soggetti interessati dalle disposizioni del testo.
I suggerimenti e le osservazioni di questa ulteriore fase di approfondimento sono stati adeguatamente valutati e recepiti, così da giungere, nel dicembre scorso, all'adozione di un ulteriore nuovo testo, sottoscritto da tutte le forze politiche.
Credo sia giusto richiamare tutti i passaggi del percorso per dar conto della qualità del lavoro svolto: un lavoro condiviso, attento nel soppesare le istanze e le esigenze avanzate dai diversi soggetti coinvolti, senza chiusure ideologiche o posizioni preconcette. Credo di poter dire che si sia lavorato con spirito costruttivo per scrivere norme efficaci, chiare e facilmente applicabili per dare riconoscimento ai professionisti dei beni culturali. Questo almeno fino al 9 gennaio, data della seduta conclusiva dei lavori di Commissione, quando il MoVimento 5 Stelle ha ritenuto di ritirare le proprie firme, pregiudicando, quindi, la richiesta di procedere in sede legislativa per l'approvazione della proposta di legge.
Al di fuori di qualsiasi tono polemico, mi interessa qui rilevare un problema non di merito ma di metodo, dato che le sopraggiunte perplessità nel MoVimento 5 Stelle avrebbero potuto essere proficuamente presentate e discusse in seno alla Commissione, così come si è fatto nei mesi scorsi, affrontando di volta in volta i vari dubbi sollevati e giungendo a soluzioni che hanno portato non solo ad un testo condiviso, ma ad un buon testo, solido nel proprio impianto perché sottoposto per mesi all'esercizio della critica.
Mi auguro che le perplessità del MoVimento 5 Stelle possano trovare una risposta nel proseguo della discussione in Aula, per non disperdere l'importante lavoro che abbiamo svolto insieme.
E vengo all'illustrazione sintetica del contenuto della proposta di legge. L'articolo 1 inserisce nella parte delle disposizioni generali del codice dei beni culturali e del paesaggio un nuovo articolo, il 9-bis. Esso dispone che gli interventi operativi di tutela, protezione, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali siano affidati, secondo le rispettive competenze, alla responsabilità e all'attuazione di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell'arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale.
A questa disposizione, per fugare alcune perplessità emerse durante l'esame del provvedimento, abbiamo ritenuto opportuno anticipare un richiamo alla competenza della tutela dei beni culturali disposta dall'articolo 4 del codice stesso, così da esplicitare inequivocabilmente che gli interventi di tutela svolti dai professionisti privati sottendono, nella loro espressa Pag. 48esecutività, alla funzione dello Stato in materia di tutela del patrimonio culturale.
Analogamente, rispetto al testo originario, sono stati espunti gli interventi di vigilanza ed ispezione tra quelli di competenza dei professionisti, poiché precipui delle funzioni dello Stato e comunque non necessariamente delegati all'operato di professionisti.
L'articolo 1, quindi, dopo aver fatto salve le competenze degli operatori delle professioni già regolamentate – quale, ad esempio, quella degli architetti – elenca i professionisti competenti ad eseguire interventi sui beni culturali.
La selezione è avvenuta mediante un attento vaglio, teso ad individuare quei profili che operano in via esclusiva sui beni culturali. Ecco perché, ad esempio, non sono stati inclusi i fotografi o gli economisti della cultura, che prestano la loro opera e le loro competenze per i beni culturali in modo non esclusivo.
Come si evince dall'articolo 1, la proposta in esame interviene nell'ambito delle professioni non organizzate in ordini o collegi, cioè in quella disciplina affrontata in termini generali dalla legge n. 4 del 2013.
Questa recente legge ha rappresentato quindi, per il nostro lavoro, un importante riferimento normativo durante l'esame della proposta di legge, in particolare per quanto riguarda i contenuti dell'articolo 2, poiché la legge n. 4 definisce un nuovo orizzonte di sviluppo delle associazioni professionali, anche mediante l'attribuzione loro di una precisa responsabilità sociale.
La legge n. 4 dispone, tra l'altro, che i professionisti possono costituire associazioni professionali di natura privatistica al fine di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e, quindi, la tutela degli utenti.
L'altra normativa alla quale si è fatto un costante e specifico riferimento nel testo della proposta di legge è quella dell'Unione europea, tenuto conto che per la disciplina europea i professionisti sono soggetti alle regole di concorrenza e, quindi, la normativa europea è particolarmente attenta ai cosiddetti diritti esclusivi, cioè a tutte le regolamentazioni che riservano alcune attività a una ristretta categoria di professionisti.
Di questa normativa, quindi, abbiamo tenuto conto nella stesura del nuovo testo, in particolare per quanto riguarda i contenuti dell'articolo 2, che dispone l'emanazione di un decreto, sul quale mi soffermerò a breve, che dovrà essere emanato in conformità alla normativa europea.
L'articolo 2, a differenza del testo originario, non costituisce una novella del Codice dei beni culturali e del paesaggio, poiché la specificità del contenuto meglio si presta ad un distinto provvedimento. Il comma 1 dispone l'istituzione presso il Ministero di elenchi nazionali di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologie applicate ai beni culturali, storici dell'arte, in possesso dei requisiti che vengono individuati nel comma 2.
Non sono inclusi in questo elenco i restauratori e i collaboratori restauratori di beni culturali, poiché tali figure sono già disciplinate dalle disposizioni dell'articolo 29 e dell'articolo 182 del vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio, come modificato dalla legge n. 7 del 2013. In base al comma 2, le modalità e i requisiti per l'iscrizione dei professionisti negli elenchi saranno stabiliti con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, da adottare, previo parere delle Commissioni competenti, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, sentito il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, d'intesa con la Conferenza Stato-regioni e con le rispettive associazioni professionali, che collaborano anche alla tenuta degli elenchi.
Aggiungo che, sulla base del parere espresso dalla I Commissione, dal comma 2 è stata eliminata la previsione in base alla quale lo stesso decreto ministeriale doveva inserire tra i requisiti per l'iscrizione negli elenchi il possesso da parte dei professionisti della certificazione di conformità Pag. 49alla norma tecnica UNI, in considerazione del fatto che, in base alla normativa vigente, il professionista è libero di non iscriversi ad un'associazione e che la citata certificazione UNI non è obbligatoria. Abbiamo condiviso tale valutazione e devo dire che non ho difficoltà ad ammettere che, in realtà, il possesso della certificazione UNI doveva essere un requisito sufficiente per l'iscrizione negli elenchi, e non esclusivo, come invece lo ha reso un testo che non abbiamo evidentemente perfettamente formulato. Ad ogni modo, abbiamo ritenuto di espungere questo periodo, come indicato dalla I Commissione, per non creare un «doppio canale», dei canali differenziati di iscrizione e di accesso agli elenchi e quindi demandare totalmente al decreto l'individuazione dei requisiti per l'iscrizione.
Questo è, in sintesi, il contenuto del provvedimento che sottoponiamo all'esame dell'Aula, e siamo consapevoli che l'approvazione di questa proposta non possa rappresentare la soluzione a tutti i problemi che i professionisti dei beni culturali hanno denunciato alla manifestazione di sabato scorso, a partire dagli interventi di carattere paternalistico e assistenzialista troppo spesso avanzati in questo settore. Molto resta da fare per garantire la loro buona occupazione: penso, ad esempio, ad interventi sulle regole generali del mercato del lavoro, che ora favoriscono il ricorso a forme contrattuali precarizzanti e a misure specifiche nella disciplina degli appalti pubblici che tengano conto della specificità degli interventi sui beni culturali; ma penso anche ad un massiccio reclutamento di professionalità nei ruoli della pubblica amministrazione così come ad un forte investimento in una prospettiva di sviluppo del settore.
Ma siamo altresì certi che non può esserci piena tutela del nostro patrimonio culturale se non si valorizzano le competenze e la dignità degli specialisti che se ne prendono cura. Senza di essi la stessa sopravvivenza del nostro patrimonio storico-artistico è a rischio. Per questa ragione il riconoscimento dei profili dei professionisti dei beni culturali è il primo atto, necessario, per orientare nella direzione giusta le future politiche per il patrimonio e per la buona occupazione nel settore dei beni culturali.

PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
È iscritta a parlare l'onorevole Flavia Piccoli Nardelli. Ne ha facoltà.

FLAVIA PICCOLI NARDELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la proposta di legge che oggi è in discussione va a colmare un vuoto normativo, intervenendo sul decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, il cosiddetto Codice dei beni culturali e del paesaggio, attraverso un emendamento che riconosce il ruolo e la qualificazione dei professionisti che operano nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio culturale.
L'approvazione della proposta di legge è di grande importanza per le figure professionali che operano nel campo dei beni culturali. Infatti, rappresenta un primo passo verso forme di attestazione e certificazione della professionalità che favoriranno qualità e responsabilità nel settore.
La proposta di legge arriva in ritardo e disciplina l'esistente, ma presenta indubbi punti di forza: contribuisce a mettere ordine in settori in cui serve chiarezza e offre certezze ad un gran numero di operatori del settore. Considera professionisti diversi per tipologie di lavoro, conservatori tutti, a vario titolo, della memoria del Paese, favorendo lo spirito di collaborazione fra loro e dissuadendo da separazioni verticali per incoraggiare il lavoro comune.
Considera profili quali: archeologi, storici dell'arte, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi che svolgono attività per le istituzioni di tutela dello Stato e per gli enti pubblici territoriali, ma anche per i privati. Sul piano identitario le professionalità che afferiscono a tale area strategica si sono moltiplicate nel corso degli ultimi anni, connotandosi in specificità culturali e tecnico-scientifiche in continuo aggiornamento.Pag. 50
La proposta di legge si sofferma anche sul tipo di interventi richiesti. Parla di tutela, vigilanza, ispezione, protezione, conservazione e fruizione dei beni culturali. Ci sembra importante l'inserimento tra gli interventi regolamentati anche di quello della fruizione, un'area professionale importantissima che ha assunto una dimensione di grande interesse sotto il profilo dell'occupazione dei giovani di formazione umanistica.
Per i professionisti del settore, in questa fase storica di cambiamento, in cui, da un lato, si sono modificati i compiti dello Stato di fronte alle regioni in una materia come la valorizzazione dei beni culturali, con l'esistenza di competenze concorrenti, e, dall'altro, si ha una cornice di riferimento che non è più il nostro Paese, ma tutta l'Europa, diventa estremamente delicato e importante il garantire e definire i requisiti necessari per le prestazioni d'opera di chi lavora sul patrimonio dei beni culturali, un patrimonio di interesse pubblico, ma che, allo stesso tempo, coinvolge il mercato e le sue logiche.
Offrire riconoscibilità istituzionale ai professionisti dei beni culturali appare un ulteriore passo, decisivo e concreto, sulla strada intrapresa da questo Governo per dare respiro al settore della cultura, che ha visto un primo importante intervento nel decreto «valore della cultura» approvato nell'ottobre 2013, di cui si stanno definendo i regolamenti attuativi.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio non prevede ad oggi il riconoscimento delle professioni dei beni culturali, ad esclusione, fino ad ora, delle figure del restauratore e del collaboratore restauratore.
Si è detto che non parlare dei professionisti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio è come scrivere le regole del calcio parlando solo del pallone e non dei calciatori. È così. Le figure considerate hanno in comune il compito di preservare, a vario titolo, la memoria, quello che si chiama «curator». Sono archeologi che, stando a quanto loro stessi affermano, operano nel nostro Paese in condizioni di vuoto normativo che ha generato condizioni di lavoro prive di qualunque regolamentazione istituzionale determinando lo svilimento delle competenze e delle aspettative professionali di migliaia di operatori. Con alle spalle anni di formazione universitaria e post universitaria e con un continuo aggiornamento professionale svolto in cantieri, nella gestione museale, nella didattica, nella catalogazione, nella divulgazione, questi lavoratori della conoscenza non hanno garanzie né possibilità di programmarsi un futuro professionale.
Nel settore dei musei, così come in quello degli storici dell'arte e degli antropologi, è particolarmente importante garantire la qualificazione e le competenze professionali delle figure che assumono responsabilità di direzione, cura delle collezioni, ricerca e promozione culturale, tenuto anche conto della mancanza di una precisa definizione dei compiti spesso assegnati e dei requisiti richiesti. In altri Paesi europei sono previste garanzie per le figure dedicate all'accoglienza del pubblico, per la diffusione e la mediazione culturale e per il restauro dei beni e delle collezioni.
Gli archivisti, d'altra parte, hanno visto crescere nel corso degli ultimi anni le esigenze della tutela della conservazione e della fruizione del patrimonio archivistico storico. La conservazione della memoria storica nell'età contemporanea è già cosa diversa da quella a cui eravamo abituati perché gli archivi e i documenti che ne costituiscono la memoria si caratterizzano e si distinguono dal passato per la loro natura immateriale, frutto della formazione e gestione in ambiente digitale.
La loro è dunque una professionalità in evoluzione, che vede la progressiva perdita di consistenza fisica da parte degli archivi tradizionalmente costituti da documentazione cartacea e la loro sostituzione con documenti informatici.
Questo cambia ruolo e funzioni di archivisti e di bibliotecari, costretti a confrontarsi con un processo che segue la tendenza ormai generale dell'uso degli strumenti dell’information and communication technology in ogni settore dell'agire umano e della vita delle istituzioni. Per Pag. 51bibliotecari ed archivisti, dunque, si è passati dalla formazione di base, finora attuata, a molteplici formazioni specialistiche coordinate e codificate di cui occorre tener conto. È dunque questo un mondo in evoluzione, che le professionalità che consideriamo riflettono ed in cui l'informazione spesso prevale ormai sul documento.
Senza soffermarmi sulle singole figure professionali citate, va ricordato che la proposta di legge prevede anche un riconoscimento della figura del diagnosta dei beni culturali, professionalità già da tempo prevista dagli ordinamenti europei e meglio conosciuta come conservation scientist.
La proposta di legge al nostro esame (n. 362-A) interviene nell'ambito della disciplina delle professioni non organizzate in ordini o collegi, peraltro affrontata di recente dalla legge 14 gennaio 2013, n. 4, che ha riconosciuto e regolato le professioni intellettuali prive di albo e ordini. Alla sua stesura hanno partecipato, attraverso varie audizioni, gli stessi soggetti oggi coinvolti per questa proposta di legge.
Il testo arriva oggi in discussione in Aula dopo avere registrato il voto favorevole della Commissione parlamentare per le questioni regionali e il giudizio positivo da parte delle varie Commissioni parlamentari in sede consultiva, compresa la V Commissione, quindi con il parere favorevole su merito e sostenibilità finanziaria. Il Comitato ristretto ha lavorato a partire da luglio 2013 sentendo in audizioni informali i rappresentanti del Ministero, della Conferenza Stato-regioni, dell'Accademia e delle associazioni professionali individuate fra quelle che hanno maggiore rappresentatività a livello nazionale. È stato predisposto un meccanismo di riconoscimento della qualificazione professionale degli operatori valido in tutto il territorio europeo, così come richiesto dalla normativa europea e dalla legislazione italiana di recepimento, per risolvere i problemi posti dalle disposizioni europee in materia di liberalizzazione delle professioni e di circolazione dei cittadini.
Per il diritto europeo i professionisti sono, al pari delle imprese, soggetti alle regole di concorrenza. La proposta di un elenco di professionisti obbligatorio avrebbe reso la disposizione di legge fuori dalla normativa dell'Unione europea e di fatto inapplicabile a fronte della necessità di garantire i principi di non discriminazione, di necessità e di proporzionalità previsti dalla direttiva n. 2006/123 dell'Unione europea per evitare i cosiddetti diritti esclusivi che riservano alcune attività ad una categoria ristretta di professionisti.
Ma occorreva, inoltre, tener conto del nuovo assetto istituzionale del Paese dopo la riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione, che prevede sempre più un processo di delega agli enti locali e ai privati nelle funzioni di valorizzazione e di fruizione del patrimonio culturale, e una funzione dello Stato solo di coordinamento, indirizzo e controllo, soprattutto di garanzia dei livelli minimi delle prestazioni pubbliche. Andavano superate alcune prese di posizione dell'Accademia, che ha definito ormai in base ai decreti ministeriali del 2007 e del 2010 le classi di laurea e di laurea magistrale, e con il decreto del 31 gennaio 2006 le otto tipologie di scuole di specializzazione relative ai beni culturali. A queste si aggiungevano le osservazioni del Ministero sul metodo di tenuta dei registri.
Il provvedimento non intende creare albi professionali, ma intende al contrario garantire i consumatori, come li chiama l'Unione europea, che in questo caso equivalgono all'intera collettività nazionale, tenendo conto del riordino della formazione universitaria avvenuta e del coinvolgimento delle associazioni rappresentative delle professioni non regolamentate per la definizione dei profili di qualificazione professionale e per l'attestazione delle competenze.
La proposta di legge al nostro esame correttamente specifica che «sono fatte salve le competenze degli operatori delle professioni già regolamentate»: ad esempio, gli architetti conservatori, eccetera. Istituisce appositi elenchi nazionali presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, rinviando ad un Pag. 52decreto, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge al nostro esame, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia, le modalità e i requisiti per l'iscrizione negli elenchi nonché le modalità per la loro tenuta in collaborazione con le associazioni professionali di riferimento.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

FLAVIA PICCOLI NARDELLI. La proposta di legge – finisco – ha una sua evidente utilità perché il bene culturale, inteso come testimonianza materiale di civiltà, è ad alto contenuto di interesse pubblico e la sua conservazione, valorizzazione o restauro meritano senza dubbio specifiche professionalità e competenze.
Questo, signor Presidente, consente di superare le perplessità legate al ritorno all'approvazione con legge di singoli o specifici profili professionali secondo il criterio «una legge per ogni professione», decisamente inattuale e contrario alla fatica riformatrice svolta per affermare il nuovo sistema duale delle professioni.
Occorre, inoltre, evitare che il rinvio a un ulteriore decreto per la definizione dei requisiti possa dar luogo a ritardi o incomprensioni.
È tempo di decisioni pronte ed efficaci, il Paese deve essere accompagnato negli sforzi per la ripresa economica e le professioni sono un campo centrale del lavoro nell'economia della conoscenza.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fratoianni, che però non vedo in Aula: s'intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Domenico Rossi. Ne ha facoltà.

DOMENICO ROSSI. Signor Presidente, noi, sentiti gli interventi che mi hanno preceduto, innanzitutto non possiamo che essere, nella sostanza, d'accordo con quanto espresso, perché ci sono due aspetti che sono stati richiamati e che con questo intervento si vogliono unicamente ribadire.
Il primo è che nella realtà, attraverso questa proposta di legge, ci si inserisce in un processo di qualificazione o di determinazione della qualificazione degli operatori che intendono intervenire nel settore della tutela, della vigilanza, della protezione e conservazione dei beni culturali, ma, ben più importante, come è stato messo in rilievo da chi mi ha preceduto, è che finalmente nel codice vengono inserite delle figure professionali che oggi sono assenti; figure professionali che attendono da tempo che questa proposta di legge venga effettivamente approvata dal Parlamento, figure professionali che, attraverso quanto previsto dall'articolo 1 e dall'articolo 2, troveranno finalmente un riconoscimento non solo formale ma anche qualificato. Mi riferisco in primis agli archeologi ma, per continuare, a tutte le figure che vengono richiamate dalla proposta di legge.
Pertanto, non riteniamo che ci sia molto da aggiungere a chi ci ha preceduto, se non ribadire l'importanza della proposta di legge per questi due punti.
Richiamiamo solamente un aspetto che, sotto un certo punto di vista, a mio avviso, meriterà attenzione successivamente e che è quello della definizione, attraverso il decreto ministeriale, dei requisiti e delle competenze che questi operatori debbono avere.
È evidente che questo è un punto cruciale per chi è addentro a questa materia da tempo e sa che passiamo attraverso alcune figure che da tempo hanno invece chiesto che fossero inserite all'interno di ordini professionali e altro; ragion per cui, nel momento in cui ci spostiamo attraverso un meccanismo che sicuramente ha il merito di portare queste persone all'interno del codice, peraltro, non dobbiamo dimenticare, nel momento in cui saranno individuati i requisiti del decreto ministeriale, evidentemente la professionalità e le competenze comunque acquisite attraverso i percorsi di studio; e dobbiamo individuare comunque e tenere ben presenti quali sono le difficoltà per acquisire competenze oggi nel mondo del lavoro per determinate figure richiamate.Pag. 53
In questo senso, bene è stato fatto in Commissione, con le varianti apportate che poi praticamente individuano un percorso anche di parere delle Commissioni parlamentari nel merito dei requisiti e delle competenze individuati nel decreto ministeriale che verrà emanato, perché sicuramente quello è un punto cruciale che può poi significare di fatto l'inserimento delle persone all'interno degli elenchi. È evidente che ci sono due aspetti: uno è la collocazione come figura, ma l'altro è come persona.
Ed è questo secondo aspetto che poi farà premio rispetto alle tante persone che stanno guardando a questa proposta di legge non solo con lo spirito di chi vuole aiutare un settore cui si è legati oltre che da attività lavorativa anche da passione, ma evidentemente anche per crearsi delle prospettive in senso generale.
È, infine, una proposta di legge che reputiamo assolutamente importante e necessaria: che cosa, se non la cultura, che cosa, se non la valorizzazione dei beni culturali di questo Paese, per ricominciare per un nuovo futuro.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Simone Valente. Ne ha facoltà.

SIMONE VALENTE. Signor Presidente, colleghi, la proposta di legge in esame oggi reca modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, attraverso l'inserimento di due nuovi articoli.
Il testo reca disposizioni in materia di esercizio della professione dei soggetti impegnati nelle attività di tutela, vigilanza, ispezione, protezione, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali, a tal fine prevedendo l'istituzione di elenchi nazionali di professionisti.
La proposta interviene, dunque, nell'ambito della disciplina delle professioni non organizzate in ordini o collegi, affrontato in termini generali dalla legge 14 gennaio 2013, n. 4, richiamata nel testo.
L'obiettivo della legislazione comunitaria e nazionale è la creazione di una piattaforma comune al fine di colmare le differenze sostanziali in materia di requisiti per l'esercizio delle professioni, incluse quelle non regolamentate, nelle quali ricadrebbero proprio le figure oggetto della novella in discussione.
Il MoVimento 5 Stelle aveva rimarcato la discutibilità dell'affermazione secondo la quale tale obiettivo sarebbe raggiungibile attraverso l'introduzione dell'articolo 9-bis ad opera dell'articolo 1 della proposta di legge che, intervenendo nella parte del codice dei beni culturali dedicata alle disposizioni generali, farebbe sì che «gli interventi di tutela, vigilanza, ispezione, protezione, conservazione e fruizione dei beni culturali ma anche quelli relativi alla loro valorizzazione» (infatti, benché non esplicitamente citati, il riferimento ai titoli I e II della parte seconda del codice, relativi, rispettivamente, a «Tutela» e «Fruizione e valorizzazione», indubbiamente li include) «da qualunque soggetto realizzati, sono affidati, secondo le rispettive competenze, alla responsabilità o alla diretta attuazione di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi o storici dell'arte in possesso di adeguata formazione e professionalità, nonché alla responsabilità o alla diretta attuazione degli operatori delle altre professioni già regolamentate».
In particolare, riguardo al testo originario, il MoVimento 5 Stelle aveva evidenziato come all'articolo 1, capoverso articolo 9-bis, del provvedimento, si faceva riferimento – tra l'altro – agli interventi di tutela, vigilanza, ispezione, protezione e conservazione dei beni culturali realizzati da qualunque soggetto, senza che sia chiaro a chi la norma si riferisca e quale sia la qualificazione richiesta ai soggetti.
Aveva chiesto, inoltre, chiarimenti in merito a quali siano attualmente nel settore le professioni già regolamentate e quali no, e se sussista una normativa concernente tali professioni al di fuori del codice dei beni culturali e del paesaggio che si intende integrare con la presente iniziativa legislativa.
Aveva rilevato, infine, come l'articolo 2, capoverso articolo 182-bis, del provvedimento, introduceva una riserva di attività Pag. 54che contraddiceva la natura ricognitiva dei registri ivi indicati, come invece affermato nella relazione illustrativa del progetto di legge in esame.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARINA SERENI (ore 16)

SIMONE VALENTE. Il riferimento a «qualunque soggetto» che realizzi gli interventi sopra elencati, poneva già un primo interrogativo; in effetti, dall'articolato non si capiva bene chi dovessero essere questi soggetti, se dovessero essere in possesso di adeguata qualifica (criterio che, in linea di principio e per stessa ammissione della relazione, avrebbe dovuto informare l'intera disciplina), in che modo l'operato di tali soggetti dovesse essere soggetto alla responsabilità, o diretta attuazione delle competenze dei soggetti in possesso delle professionalità elencate e, infine, quali fossero le professioni già regolamentate indicate dall'ultima parte dell'articolo.
Nella formulazione che approda in data odierna qua in Aula tale riferimento è stato opportunamente eliso.
Resta il dubbio sul limitare le azioni di valorizzazione del bene culturale alle sole categorie di tali elenchi, essendo questo un concetto molto ampio legato non solo alla competenza per materia, ma anche alla creatività ed all'ingegno umano.
La valorizzazione è infatti quell'insieme di azioni volte alla creazione di valore aggiunto al bene, con particolare attenzione ai beni culturali e possiamo concepirlo come un'insieme di azioni che portino a sfruttare nel complesso tutte le potenzialità del bene in oggetto, creando un indotto economico a favore dei cittadini e degli enti interessati.
In merito alle disposizioni di cui all'articolo 2 del testo originario, che inseriva l'articolo 182-bis, recante disposizioni transitorie, avrebbe introdotto l'istituzione presso il MIBACT di registri nazionali dei professionisti archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi e storici dell'arte idonei allo svolgimento degli interventi di cui all'articolo 9-bis: letteralmente, peraltro, i registri avrebbero avuto funzione meramente ricognitiva; tuttavia, all'avvenuta iscrizione a tali registri sarebbe stata condizionata la possibilità di esercitare la professione, con ciò introducendo nei fatti una riserva di attività in favore dei soli professionisti iscritti, contraddicendo la natura meramente ricognitiva dei registri stessi. Testualmente infatti «l'iscrizione all'elenco è condizione sufficiente allo svolgimento degli stessi interventi indicati nell'articolo 9-bis».
Si ribadiva, anche in merito a questo aspetto, l'opportunità di un chiarimento dei profili più conflittuali e contraddittori dell'articolato, soprattutto per quanto riguardava l'esatto significato della parte dell'articolo 2 in cui si affermava che le modalità e i requisiti di iscrizione dei professionisti nei registri, nonché le modalità per la loro tenuta in collaborazione con le associazioni professionali di riferimento, sono demandati all'emanazione di un decreto del Ministro per i beni e le attività culturali e del turismo, sentiti il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e la Conferenza Stato-regioni, e in collaborazione con le relative associazioni professionali rappresentative a livello nazionale.
Nel testo intermedio – mi riferisco a quello del 6 agosto 2013 – elaborato dal Comitato ristretto, l'iscrizione negli elenchi era – cito testualmente «comunque consentita a coloro che siano in possesso di certificazione della qualificazione professionale, rilasciata dalla rispettiva associazione professionale, purché riconosciuta rappresentativa ai sensi dell'articolo 26 del decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206».
Malgrado infatti la certificazione delle associazioni professionali fosse definita condizione sufficiente, anche se non necessaria, per l'iscrizione al registro nazionale di riferimento, l'esplicito ed unico richiamo a tale modalità di certificazione, al fine della individuazione dei requisiti di Pag. 55idoneità all'iscrizione, destava perplessità che giustificavano, anche in questo senso, la richiesta di un chiarimento.
Si ricorda, in merito, che l'articolo 101, ex articolo 81, del TCE sottopone i professionisti alle stesse regole di concorrenza operanti per le imprese; con ciò dimostrando una particolare attenzione all'istituzione dei cosiddetti diritti esclusivi di esercizio di determinate mansioni per cerchie ristrette di professionisti.
L'articolo 16 della «direttiva servizi», n. 2006/123/CE, poi, prevede che gli Stati membri non possano subordinare l'accesso a un'attività di servizi o l'esercizio della medesima sul proprio territorio a requisiti che non rispettino i principi di: non discriminazione; necessità (i requisiti devono essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell'ambiente); proporzionalità (i requisiti sono tali da garantire il raggiungimento dell'obiettivo perseguito e non vanno al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo).
La stessa direttiva, peraltro, evidenzia che tra i «motivi imperativi di interesse generale» rientrano la tutela dei consumatori e dei destinatari di servizi, la conservazione del patrimonio nazionale storico ed artistico, gli obiettivi di politica sociale e di politica culturale – tutti obiettivi citati dalla relazione – che possono giustificare l'applicazione di regimi di autorizzazione e altre restrizioni, fatto salvo il rispetto dei citati principi di necessità e proporzionalità.
Quanto alla normativa interna di recepimento della appena citata direttiva Bolkestein, ossia il decreto legislativo n. 59 del 2010, essa afferma che, fatte salve le disposizioni istitutive relative ad ordini, collegi e albi professionali, regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto dei principi di non discriminazione.
Ove sia previsto un regime autorizzatorio, le condizioni alle quali è subordinato l'accesso e l'esercizio delle attività di servizi devono essere, tra l'altro: non discriminatorie, commisurate all'obiettivo di interesse generale, chiare ed inequivocabili, oggettive, rese pubbliche preventivamente, trasparenti e accessibili. Come si deduce, quindi, i criteri per l'introduzione di restrizioni all'accesso alle professioni sono particolarmente stringenti. In tal senso, il nostro gruppo aveva segnalato l'esigenza di procedere ad un'adeguata analisi della sussistenza dei requisiti suindicati, non adeguatamente analizzati né argomentati nella relazione introduttiva.
Si segnalava, inoltre, una certa indeterminatezza del riferimento alla fase transitoria – collegata, fra l'altro, alla definizione dei livelli minimi di qualificazione – anche in considerazione dell'attuale sussistenza di percorsi universitari e di scuole di specializzazione per gli ambiti in questione. Nonostante tutto, il contenuto dell'articolo 2 è rimasto pressoché invariato, con la sola eccezione della possibilità di iscriversi comunque ai registri se in possesso di qualifiche rilasciate dalle associazioni di riferimento, che è stata espunta.
È stata, infine, aggiunta la clausola di invarianza finanziaria, che, come già detto, fu richiesta dalla Commissione Bilancio. In conclusione, pur ammettendo che il testo, nella sua attuale formulazione, abbia superato taluni punti critici, riteniamo che la norma, nella sua interezza, necessiti di maggiori approfondimenti e di ulteriori migliorie. L'improvvisa accelerata data a questa proposta, che al momento non ci pare così impellente e urgente, ci ha portato a rivalutare alcune posizioni prese precedentemente.
Riteniamo, peraltro, che l'argomento, toccando tematiche quali l'occupazione, diritto al lavoro, cultura, turismo, categorie professionali, sia appartenente a quella categoria di materie tali da richiedere una trattazione secondo l'iter legislativo ordinario. Inoltre, tecnicamente, la materia esorbita l'ambito di competenze della VII Commissione cultura, scienza ed istruzione. Pag. 56
Si riconosce, in ogni caso, il contributo dato in sede consultiva dalle Commissioni coinvolte, anche se sarebbe stato necessario anche il parere della Commissione lavoro, che, con nostro rammarico, invece non c’è.
In sostanza, stiamo creando degli elenchi che non sono meramente di carattere cognitivo, ma delimitano l'ambito di intervento e di competenze. Il MoVimento 5 Stelle vuole superare l'attuale modello di gestione degli albi di professioni regolamentate e quello delle professioni non regolamentate, auspicando che si arrivi ad un modello molto più simile a quello anglosassone, dove il titolo di studio è abilitante alla professione e i professionisti si riuniscono in libere associazioni solo se lo ritengono necessario (ovvero, non è di fatto obbligatorio).
Crediamo, quindi, si sia scelta una strada non ottimale per riconoscere determinate professionalità, che abbiamo cercato di invertire con la proposizione di alcuni emendamenti, che presenteremo in Aula. Pertanto, abbiamo ritenuto opportuno presentare emendamenti volti a tenere conto delle numerose esigenze venute ad esistenza grazie alle associazioni del settore, in un'ottica di miglioramento della proposta di legge in esame.
I nostri emendamenti, infatti, sono stati formulati nell'intento di migliorare entrambi gli articoli della proposta nella direzione di ampliare la categoria dei professionisti, includendo, nell'articolo 9-bis, in primo luogo, la figura dei professionisti di organizzazione e gestione del patrimonio culturale ed ambientale, che raggiungono tale qualifica a seguito del conseguimento di apposito titolo di laurea in Organizzazione e gestione del patrimonio culturale e ambientale; in secondo luogo, quella dei cosiddetti »manager culturali”, figure professionali di notevole rilievo, perché ritenute capaci di fronteggiare gli aspetti economico-finanziari, organizzativi e giuridici che vengono ad esistenza durante la realizzazione di un evento socio-culturale.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI (ore 16,10)

SIMONE VALENTE. Sarebbe stato bello che la prima proposta di legge di iniziativa parlamentare della VII Commissione avesse riguardato una riforma del settore culturale in senso più ampio oppure una proposta che investisse fondi nella scuola.
Peccato solo che la responsabile delle riforme sul lavoro di Matteo Renzi, per valorizzare le professionalità, sappia solo ricorrere alla creazione di elenchi che sembrano più simili ad ordini che altro: un'idea corporativista di alcuni secoli fa. La premessa del Job-Act piddino è: finte riforme per non liberare il mercato del lavoro e lasciarlo ingessato per altri anni (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Malisani. Ne ha facoltà.

GIANNA MALISANI. Signor Presidente, vorrei iniziare una discussione con il mio collega del MoVimento 5 Stelle, però magari lo faccio durante il mio intervento, perché ritengo, invece, contrariamente a quanto affermato adesso dall'onorevole Valente, che questa proposta di legge, anche se circoscritta, sia urgente e anche molto importante per il mondo della cultura.
La proposta di legge n. 362-A fonda, difatti, le sue ragioni innanzitutto sulla necessità strategica della tutela dei beni culturali, intervenendo, come si scrive nella relazione che accompagna la proposta, nel delicato e complesso settore delle professionalità degli operatori privati impegnati nell'attività di intervento di tutela, protezione, conservazione e valorizzazione.
Noi tutti siamo consapevoli che la bellezza dell'ambiente, della natura, delle città, dei paesaggi, dei beni artistici e culturali rappresenta la nostra principale ricchezza nazionale. L'Italia, difatti, ha il più alto numero nel mondo di siti classificati dall'Unesco come patrimonio dell'umanità. Pag. 57Mi riferisco anche all'illustrazione delle linee guida che ha fatto il Ministro Bray di fronte alle Commissioni VII congiunte di Camera e Senato il 23 maggio 2013, quando affermava che la tutela, lo sviluppo, la diffusione dei beni, delle attività, dei valori della cultura si collocano necessariamente al centro degli obiettivi di crescita civile e sociale e anche economica del nostro Paese, aggiungendo che la cultura rappresenta anche l'oggetto di un insieme di diritti fondamentali del cittadino, della persona, delle formazioni sociali, cioè il diritto di accesso al sistema delle produzioni culturali, il diritto alla più ampia fruizione di tutti i beni, dei prodotti delle attività culturali.
Da questo punto di vista assume tutta la sua ampiezza strategica l'obiettivo della realizzazione di un sistema turistico culturale integrato, tenendo conto che, malgrado la ricchezza del nostro patrimonio e la sua diffusione in gran parte del nostro territorio, non sono ancora adeguati né i flussi di turismo interno né quelli di quello estero.
Da queste poche parole, da quanto esposto finora mi pare risulti chiaro l'intreccio tra la valorizzazione del patrimonio culturale, la sua fruizione, il ruolo delle figure professionali che operano su di esso e l'interesse pubblico a garantire che il riconoscimento delle competenze avvenga sulla base di requisiti accertati e dell'individuazione dei livelli minimi di qualificazione.
L'approvazione, quindi, della proposta di legge costituirebbe un passo fondamentale per le figure professionali che operano nel campo dei beni culturali. La proposta di legge riguarda, infatti, modifiche al codice dei beni culturali in ordine all'esercizio delle professioni dei soggetti impegnati in interventi operativi di tutela, protezione, conservazione e valorizzazione dei beni culturali e all'istituzione di elenchi nazionali nei quali possono iscriversi professionisti idonei allo svolgimento dei suddetti interventi.
La proposta interviene, infatti, nell'ambito della disciplina delle professioni non organizzate in ordini o collegi, peraltro affrontata di recente dalla citata legge n. 4 del 2013. La proposta intende identificare un sistema di garanzie – questo è il problema e infatti dovremmo discutere di questo – della qualificazione professionale degli operatori dei beni culturali per delle categorie non regolamentate. Si tratta di misure che, da una parte, si collocano sul versante della libertà dei cittadini dell'Unione europea di vivere e lavorare in ciascuno degli Stati membri, dall'altra, considerano la necessità che tale mobilità professionale avvenga grazie a un sistema di indirizzo, coordinamento e garanzie della qualità delle prestazioni pubbliche, questo è il problema.
Molte delle professioni che rivestono un particolare interesse pubblico sono già regolamentate. La proposta di legge non intende creare nuovi albi professionali, ma l'articolo 1, come articolo 9-bis novellato del decreto legislativo n. 42, definisce i professionisti competenti ad eseguire interventi sui beni culturali, e all'articolo 2 istituisce, presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, elenchi nazionali delle professioni già citate in possesso dei requisiti individuati ai sensi del comma 2.
Prima di trattare del comma 2, mi preme sottolineare l'importanza della scelta compiuta: da una parte, per tutelare le figure professionali nel mercato del lavoro – dato peraltro più volte sottolineato dagli stessi rappresentanti delle professioni auditi presso la Commissione –; dall'altra, per garantire all'intera collettività nazionale – e questo è il punto in discussione – che ciò avviene coinvolgendo, nella certificazione delle competenze, le associazioni rappresentative delle professioni non regolamentate, e che questa immissione nel mercato del lavoro avviene per operatori in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale, quindi grazie a presupposti sostanziali e non soltanto grazie all'iscrizione in un albo o in un elenco. Si tratta, come si può ben capire, di ricercare, pur attraverso un intervento legislativo così circoscritto, una virtuosa sintesi tra la Pag. 58priorità politica del rilancio del nostro Paese, il valore cultura e la qualità del lavoro, grazie alla quale sarà sicuramente possibile che si amplino le opportunità occupazionali, proprio perché meglio regolamentate e maggiormente riconosciute.
Come dicevo, l'articolo 2 di questa proposta di legge.- che non e’ una modifica dell'articolo 182 del Codice dei beni culturali e del paesaggio –, al comma 2 prevede che il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo dovrà emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, un proprio decreto che definirà – ed è la norma della quale forse non si è ancora capito il significato –: «le modalità e i requisiti per l'iscrizione dei professionisti negli elenchi» istituiti ai sensi appunto dell'articolo 1 della proposta di legge.
Questi requisiti dovranno, ovviamente, tener conto della normativa europea, «colmare le differenze sostanziali in materia di requisiti per l'esercizio delle professioni, incluse quelle non regolamentate», recependo così anche il parere espresso dalla XIV Commissione Politiche dell'Unione Europea.
Nello stesso tempo, acquisendo anche il parere espresso dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali, il comma 2 stabilisce che il decreto sui requisiti dovrà essere emanato d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in quanto la «valorizzazione» dei beni culturali, come pure la promozione e l'organizzazione di attività culturali, rientra tra le materie di legislazione concorrente. Quindi, ritengo sussistano tutte queste valenze normative e anzi la stessa proposta fatta dal ministro dovrà avere un passaggio nelle Commissioni competenti sicché sono previsti tempi e modi per la discussione dei requisiti; francamente, quindi, non capisco il MoVimento 5 Stelle che fino a dicembre sottoscrive un atto proposto dalla Commissione e poi improvvisamente cambia orientamento (a mio avviso fa anche riferimento ad una proposta che non corrisponde al testo definitivo licenziato dalla Commissione).
Importante, infine, sottolineare il comma 4, che, facendo propria l'osservazione della Commissione Bilancio, precisa che all'attuazione dell'articolo 2 «si provvede nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
La proposta di legge di cui stiamo discutendo, infine, come ricordato da un deputato dianzi intervenuto, è accompagnata dai pareri, tutti favorevoli, delle Commissioni permanenti I (Affari costituzionali), II (Giustizia) e X (Attività produttive, commercio).
È giusto inoltre ricordare che i pareri espressi hanno contribuito positivamente alla formulazione del testo qui proposto.
Mi piace concludere con le parole di un rappresentante del mondo culturale, del Presidente dell'Associazione nazionale archeologi Barrano: «L'approvazione del disegno di legge rappresenterebbe un segnale di attenzione della politica e del Governo al patrimonio culturale italiano, aprendo nuove prospettive ai professionisti che se ne prendono cura con passione e competenza (...) costituirebbe un tappa fondamentale per favorire, in un momento di grande crisi occupazionale, la buona occupazione nei Beni culturali in Italia».

PRESIDENTE. Constato l'assenza del deputato Di Benedetto, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo – A.C. 362-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che la relatrice e il rappresentante del Governo rinunciano ad intervenire in sede di replica.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Pag. 59

Ordine del giorno della seduta di domani

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani

Martedì 14 gennaio 2014, alle 10:

1. – Svolgimento di una interpellanza e di una interrogazione.

(ore 14)

2. – Seguito della discussione delle mozioni Rondini ed altri n. 1-00227, Gallinella ed altri n. 1-00274, Mongiello ed altri n. 1-00276, Franco Bordo ed altri n. 1-00277, Zaccagnini e Pisicchio n. 1-00278, Faenzi ed altri n. 1-00279 e Dorina Bianchi e Bosco n. 1-00280 sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari.

3. – Seguito della discussione delle mozioni Airaudo ed altri n. 1-00196, Abrignani ed altri n. 1-00299, Allasia ed altri n. 1-00300, Fantinati ed altri n. 1-00301, Dorina Bianchi n. 1-00302 e Benamati ed altri n. 1-00308 concernenti iniziative volte alla salvaguardia dell'interesse nazionale in relazione agli assetti proprietari di aziende di rilevanza strategica per l'economia italiana.

4. – Seguito della discussione delle mozioni Ciprini ed altri n. 1-00292, Marcon ed altri n. 1-00298, Guidesi ed altri n. 1-00303, Piso e Dorina Bianchi n. 1-00305 e Martella ed altri n. 1-00310 concernenti iniziative in ambito europeo e nazionale per la revisione dei vincoli derivanti dal Trattato noto come «fiscal compact».

5. – Seguito della discussione della proposta di legge:
MADIA ed altri: Modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in materia di professionisti dei beni culturali, e istituzione di elenchi nazionali dei suddetti professionisti (C. 362-A).
Relatore: Ghizzoni.

6. – Seguito della discussione delle mozioni Gigli, Sereni, Cimmino ed altri n. 1-00254, Bobba, Luigi Cesaro, Scotto, Antimo Cesaro, Binetti ed altri n. 1-00058, Di Salvo ed altri n. 1-00295, Calabria ed altri n. 1-00297, Rondini ed altri n. 1-00304, Silvia Giordano ed altri n. 1-00306 e Dorina Bianchi e Roccella n. 1-00307 concernenti iniziative per il contrasto alla povertà.

(ore 18)

7. – Discussione del disegno di legge (per la discussione sulle linee generali):
Conversione in legge del decreto-legge 10 dicembre 2013, n. 136, recante disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate (C. 1885).

La seduta termina alle 16,20.

TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO DORINA BIANCHI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DELLE MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL CONTRASTO ALLA POVERTÀ

DORINA BIANCHI. Signor Presidente, Rappresentanti il Governo, Colleghi, la crisi economica che l'Occidente ed in particolare il nostro Paese stanno vivendo ormai dal lontano 2007, può essere definita con sicurezza come la più grave e dalle conseguenze maggiormente devastanti a partire dal secondo dopoguerra.
Una crisi nata oltreoceano, precisamente negli Stati Uniti, all'indomani dello scoppio della bolla immobiliare venutasi a creare con l'impossibilità del sistema bancario di rientrare dei crediti elargiti a quelle classi della società americana che, a Pag. 60causa dell'improvviso aumento dei tassi d'interesse, non sono più riuscite ad onorare le scadenze dei mutui pattuiti.
Tale situazione di insolvenza, oltre che innescare una serie di fallimenti a catena di colossi della finanza che si credevano al riparo da qualsiasi turbolenza economico-finanziaria, ha finito per estendere le proprie nefaste conseguenze all'intero tessuto bancario, finanziario, ed in ultimo occupazionale, dell'intero Occidente ormai fortemente interconnesso e globalizzato.
A distanza di ben sette anni dall'inizio di una crisi che ormai possiamo definire come epocale, a fronte di un tessuto sociale americano che seppur faticosamente e lentamente sta uscendo dal tunnel di una delle recessioni economiche più lunghe che memoria d'uomo ricordi, in Europa il treno della ripresa riesce ancora a stento a rimettersi in moto, in special modo nei Paesi, quali il nostro, considerati gli anelli deboli dell'intera Unione Europea.
Fare un elenco dettagliato dei danni e delle conseguenze prodotti in Italia dalla crisi economica purtroppo ancora in corso e dalla fine ancora incerta, risulta compito assai arduo e complesso, dal momento che la sua gravità ha finito per incidere non solo su questioni tipicamente e tradizionalmente riconducibili alle leggi ed alle logiche del libero mercato ma anche, e con risultati forse ancora più devastanti, sul tessuto sociale del nostro Paese, apportando modifiche talmente profonde e radicali da mettere in pericolo la stessa tenuta di una realtà che si considerava ormai consolidata ed a prova di crisi.
Classi sociali che fino a pochi anni fa si potevano ritenere al riparo dal rischio povertà, potendo esse contare su una sicurezza economica legata alla stabilità lavorativa si sono viste, con il passare del tempo, coinvolte in una spirale economico-finanziaria che ha finito col minacciare il loro tenore di vita.
Sono recenti i dati ISTAT che parlano di 1.725.000 famiglie che ormai vivono in una costante condizione di assoluta povertà, con una maggiore incidenza nel Meridione d'Italia, zona in cui ben 2,3 milioni di cittadini sono da considerarsi poveri.
Una tale situazione sociale, un tale radicale mutamento del tessuto della realtà in cui viviamo, non può non comportare uno stravolgimento delle esistenze di intere fasce della popolazione: basti pensare alle giovani generazioni che, in assenza di una sicurezza lavorativa, sono costretti da una parte a vivere sempre più a lungo presso le proprie famiglie originarie, e dall'altra a posticipare o addirittura eliminare l'idea, il progetto di formarsene una propria.
Diventa difficile infatti, in queste condizioni, anche solo pensare ad avere dei figli.
A fronte di questi problemi non dobbiamo sorprenderci se i giovani scelgono di lasciare l'Italia, con la speranza di poter realizzare i propri programmi professionali ed anche personali in altri paesi in cui far valere le proprie competenze, le proprie esperienze, le proprie ambizioni.
La cosiddetta «fuga di cervelli» rappresenta per il nostro Paese una grave perdita di capitale umano, di capacità professionali che potremmo e dovremmo utilizzare al fine di contribuire all'incremento del benessere, del progresso dell'Italia: insomma essa rappresenta un ulteriore danno che inevitabilmente si somma a quelli già prodotti dalla crisi in corso.
Aiutare i giovani e meno giovani a restare nel proprio Paese significa necessariamente sostenere l'apparato produttivo dell'Italia, che spazia dalle grandi realtà industriali fino alle piccole e medie imprese, in modo da garantirne la ripresa dell'attività a pieno regime, così favorendo il recupero dei livelli occupazionali, la crescita dei redditi e, di conseguenza, dei consumi interni, soprattutto nelle aree del Paese maggiormente colpite dalla crisi in corso, come il Mezzogiorno.
Ma risulta quanto mai urgente anche sostenere con forza il ruolo sociale del cosiddetto Terzo Settore, ovvero quel complesso di soggetti organizzativi di natura privata volti però alla produzione di beni Pag. 61e servizi a destinazione pubblica o collettiva (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative, ONLUS, ecc.), che sono elemento di vitalità della società civile e soggetti spesso in grado di farsi carico dei bisogni delle persone generando relazioni positive e attivando reti di solidarietà.
La situazione di ristrettezze economiche in cui versa il nostro Paese, l'esigenza quanto mai attuale di contenere la spesa in modo da mantenere i conti in ordine anche e soprattutto in considerazione del fatto che ormai siamo sempre più soggetti ai giudizi delle autorità europee preposte allo scopo, richiederebbe da parte del Governo una maggiore attenzione nei confronti di tutti quei soggetti operanti nel volontariato: da essi potremmo ottenere enormi benefici in termini di sostegno ai meno abbienti, con l'attivazione di meccanismi di solidarietà in grado di sopperire alla mancanza di interventi pubblici dettati dalla crisi economica.
Il rafforzamento dell'istituto del 5 per 1000, in grado di raccogliere fondi da destinare a settori quanto mai bisognosi della nostra società, di certo risulterebbe un valido strumento di contrasto alla povertà, se non altro in termini di immediato sostegno e di pronta assistenza alle numerose famiglie di cui si faceva menzione in apertura di questo mio intervento illustrativo.
Nell'affrontare la gravosa questione dell'impoverimento della società, ciò che risulta essenziale per riattivare e rivitalizzare il tessuto sociale non è semplicemente attuare politiche di assistenza a quanti hanno bisogno di aiuto, bensì occorre sostenere tutto il comparto dell'associazionismo, del volontariato, delle ONLUS, in maniera tale da rimettere in moto un circolo virtuoso all'insegna del progresso, del benessere e del lavoro.
La tenuta del nostro tessuto sociale, sempre più minacciata da rovesciamenti pericolosi e perdita del necessario equilibrio che è alla base della pacifica e civile convivenza, si garantisce operando solo in questo modo.
La stessa Social Card, utile ai fini di offrire un valido supporto a quanti si trovano in oggettiva difficoltà economica, può funzionare solo se si coinvolge l'intero comparto del volontariato, quindi di quel Terzo Settore da me, in questa sede, già menzionato.
È indubbio, a questo punto, chiedere al Governo una azione forte che solleciti anche l'Unione Europea a fornire il proprio contributo nel difficile e complesso processo di sostegno ai meno abbienti e di creazione di occupazione per quanti cercano lavoro senza però trovarlo.
L'Unione Europea deve, accanto alle politiche del rigore di bilancio, fornire risposte a quanti all'interno del proprio territorio vengono a trovarsi in una situazione di bisogno, di indigenza che non può essere certamente ignorata o considerata di secondaria importanza.
Sarebbe, questo, un modo per iniziare a gettare le basi di una Unione Europea vicina alla gente, anziché semplice portavoce di problematiche legate al rispetto del deficit, del debito pubblico che così lontana la pongono dai cittadini dei paesi membri.
Guadagnarsi il rispetto della gente vuol dire anche porsi vicino ad essa nell'affrontare i problemi del vivere quotidiano: un'Europa vicina ai bisogni della propria popolazione si garantisce rispetto ed un futuro costituito da un rafforzamento dello spirito di appartenenza ad essa: un'Europa che si occupa solo di rigore e di conti da mantenere in ordine è tristemente destinata a non entrare mai concretamente nelle vite e nel comune sentire dei propri cittadini.
Grazie.

Pag. 62