Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
(Versione per stampa)
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento affari sociali |
Titolo: | L'attività delle Commissioni nella XVI legislatura - XII Commissione Affari sociali |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 1 Progressivo: 12 |
Data: | 22/03/2013 |
Organi della Camera: | XII-Affari sociali |
La documentazione di inizio legislatura - accessibile dalla home page della Camera dei deputati - dà conto delle principali politiche pubbliche e delle attività svolte dalle Commissioni parlamentari nella XVI legislatura, suddivise in Aree tematiche, a loro volta articolate per Temi e Approfondimenti. L'accesso è disponibile per Commissione ovvero per Area tematica.
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In linea generale, le politiche in materia sanitaria sono finalizzate all’obbiettivo di garantire e promuovere efficacemente la tutela della salute delle popolazioni, assicurando, al contempo, il governo della spesa in tale ambito. Nel disegno costituzionale gli attori di queste politiche sono lo Stato e le regioni, che agiscono nel quadro di competenze delineato dal nuovo articolo 117 della Costituzione. Da un lato, infatti, l’articolo 117 della Costituzione contempla tra le materie attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni la “tutela della salute”, dall’altro, ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione è materia di competenza esclusiva dello Stato “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Quanto al controllo della spesa sanitaria, il concorso dei diversi livelli di competenza si articola riservando al legislatore statale la determinazione del quadro complessivo delle risorse da destinare al comparto sanitario al fine di salvaguardare l’attuazione dei livelli essenziali di assistenza, rinviando a successive Intese in sede di Conferenza Stato Regioni la puntuale individuazione delle misure da adottare nei diversi settori.
In tal senso la manovra finanziaria relativa al triennio 2010-2012, in linea con le statuizioni del Patto per la salute siglato in sede di Conferenza Stato regioni, oltre a definire e programmare le risorse destinate al Servizio Sanitario nazionale per il triennio citato, ha definito una regolamentazione puntuale e dettagliata per le regioni con elevati disavanzi sanitari.
Infatti, pur sussistendo in capo alle regioni l’obbligo di assicurare l’equilibrio di bilancio del proprio Servizio Sanitario regionale, già in passato diversi atti normativi statali, per le regioni maggiormente indebitate nel settore sanitario, con un disavanzo pari o superiore al 5 per cento - valore così modificato dalla legge finanziaria per il 2010 essendo, in precedenza, fissato al 7 per cento -, hanno imposto per l’accesso agli aiuti economici per il ripiano dei deficit pregressi, alcune condizioni, tra le quali l’adozione di un piano di rientro, prevedendo anche la possibilità, in caso di mancato rispetto degli adempimenti previsti nei singoli Piani di rientro, del commissariamento del settore sanitario regionale, attraverso la nomina di un commissario ad acta. Con il decreto legge n. 78/2010, sono state adottate alcune modifiche sia in tema di pianificazione delle risorse da destinare al Servizio Sanitario nazionale che in tema di piani di rientro. La legge 220/2010 (legge di stabilità 2011) oltre ad incrementare per il 2011 il livello di finanziamento del SSN in linea con il nuovo Patto per la salute, ha previsto che una quota delle risorse del FAS per l'anno 2012 sia destinata ad interventi di edilizia sanitaria pubblica. Il decreto legge 98/2011 ha poi stabilito i livelli di finanziamento del Servizio sanitario nazionale per il biennio 2013-2014, e da ultimo, il D.L. 95/2012 ha determinato la riduzione dei livelli di spesa del 2013 e del 2014 ed ha previsto per un ulteriore triennio, dal 2013 al 2015, che le regioni in piano di rientro e non commissariate proseguano i programmi previsti nel piano a condizione che abbiano garantito l’equilibrio economico nel settore sanitario. Una ulteriore riduzione del livello del fabbisogno del Servizio sanitario nazionale e del correlato finanziamento, per gli anni 2013 e 2014, è stata infine disposta dalla legge n. 228/2012 (Legge di stabilità per il 2013). Per indagare sulle cause dei disavanzi sanitari regionali, oltre che sugli errori in campo sanitario è stata costituita presso la Camera dei deputati una Commissione parlamentare di inchiesta. Analoga Commissione è stata istituita presso il Senato in tema di efficacia ed efficienza del Servizio sanitario nazionale. Nelle diverse manovre finanziare adottate con gli atti normativi sopracitati sono state introdotte anche specifiche disposizioni in tema di razionalizzazione e contenimento della spesa farmaceutica.
Alcuni provvedimenti legislativi approvati dal Parlamento nel corso della XVI legislatura, attengono invece in modo più specifico al tema della tutela della salute. Rientra in quest'ambito la legge diretta a garantire l'accesso alle cure palliative (legge 38/2010), vale a dire alle cure globali per i pazienti affetti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e di cui la morte è diretta conseguenza, nonché alla terapia del dolore da parte del malato, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza. Il fine perseguito è quello di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze.
Un rilievo particolare riveste anche la legge concernente l'istituzione del registro nazionale e dei registri regionali degli impianti protesici mammari (legge 86/2012), che introduce disposizioni più severe a garanzia dei requisiti di sicurezza delle protesi mammarie e a tutela del diritto all’informazione delle pazienti, e la legge diretta a consentire ed a disciplinare il trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino (legge 167/2012) che recepisce i recenti progressi delle tecniche scientifiche e chirurgiche.
La XII Commissiona affari sociali ha inoltre avviato - senza concluderlo - l'esame di alcune proposte di legge concernenti, rispettivamente, il riconoscimento della sindrome post polio come malattia cronica e invalidante, la piena cittadinanza e l'integrazione delle persone affette da epilessia, nonché gli interventi in favore delle gestanti e delle madri volti a garantire il segreto del parto alle donne che non intendono riconoscere i loro nati.
Il Parlamento ha anche affrontato alcuni argomenti rientranti, più in generale, nelle questioni di bioetica, alle quali può essere ricondotta la disciplina del testamento biologico, già approvata dalla Camera e il cui esame non si è concluso presso il Senato, nonché le disposizioni, contenute in un testo unificato giunto all'esame dell'Assemblea della Camera, disciplinanti il tema dell'utilizzo del corpo post mortem a fini di studio e di ricerca scientifica.
Al tema dell’organizzazione del Servizio sanitario nazionale possono essere poi ricondotte le disposizioni della legge n.172/2009 riguardanti la nuova istituzione del Ministero della salute, nonché del Ministero del lavoro e delle politiche sociali: infatti, le funzioni dei due dicasteri venivano esercitate, prima dell'entrata in vigore della legge, dal Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali.
Vanno poi ricordate le norme contenute nel D.L. 158/2012, che ha un contenuto ampio ed articolato ed interviene su molti settori connessi alla tutela della salute. Le norme intervengono, tra l'altro, sui temi delle cure primarie e dell'assistenza territoriale, della professione e responsabilità dei medici, della dirigenza sanitaria e del governoclinico, della garanzia dei livelli essenziali di assistenza per le persone affette da malattie croniche e rare nonché da dipendenza da gioco con vincita di denaro, delle norme tecniche per le strutture ospedaliere, per promuovere corretti stili di vita, nonché degli interventi in materia di sicurezza alimentare e di emergenze veterinarie, dei farmaci e del servizio farmaceutico, della sperimentazione clinica dei medicinali, della razionalizzazione di alcuni enti sanitari e del trasferimento alle regioni delle funzioni di assistenza sanitaria al personale navigante.
La XII Commissione igiene e sanità del Senato ha poi dedicato molte sedute all'esame, che non si è concluso, del disegno di legge del Governo in materia di sperimentazione clinica e riforma delle professioni sanitarie, già approvato dalla Camera, diretto ad assicurare una maggiore funzionalità del Servizio sanitario nazionale in diversi settori ed ambiti.
Va infine ricordato che con il decreto legislativo n. 106/2009 sono state adottate disposizioni correttive del decreto legislativo n. 81/2008, che aveva introdotto una organica disciplina sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Su tali aspetti si fa rinvio all’area tematica Occupazione lavoro e professioni .
Gli interventi in tema di contenimento e razionalizzazione della spesa sanitaria hanno interessato le diverse componenti della spesa dedicata al finanziamento del SSN. La riduzione delle risorse, inizialmente previste dal Patto per la salute del 2009, per il biennio 2011-2012, è stata fronteggiata con la rimodulazione o l'introduzione di nuovi tetti di spesa, la parziale riorganizzazione della rete ospedaliera e un diverso sistema di acquisto e gestione dei beni e dei servizi in ambito sanitario. Le misure introdotte per il governo e il recupero dei disavanzi sanitari regionali e il monitoraggio delle politiche di risanamento, rappresentano un ulteriore settore di rilievo nel controllo della spesa sanitaria, collegato peraltro al processo di federalismo delineato dal D. Lgs. 68/2011 per la determinazione dei costi e fabbisogni standard
Per le regioni con elevati disavanzi sanitari, la legge 191/2009 (legge finanziaria per il 2010), come previsto dal Patto per la salute 2010-2012, ha stabilito nuove regole per i Piani di rientro e per il commissariamento delle regioni. Oltre a ridurre al 5% il livello di squilibrio economico (in precedenza fissato al 7%), per la presentazione del Piano di rientro regionale, viene modificata la procedura per la predisposizione e l’approvazione del Piano, nonché il procedimento di diffida della regione e della nomina di commissari ad acta. Accertato il deficit, la regione presenta entro il 30 giugno, il Piano, di durata non superiore al triennio, elaborato con AIFA e AGENAS. Dopo l'approvazione regionale, la valutazione è compiuta dal Tavolo tecnico di monitoraggio, a cui partecipano rappresentanti dei ministeri competenti e delle regioni, e della Conferenza Stato-Regioni. Decorsi i termini previsti, il Governo valuta il Piano e lo approva. In caso di valutazione negativa lo stesso Governo nomina il Presidente della regione, commissario ad acta per gli adempimenti necessari. Ciò comporta, oltre all’applicazione delle disposizioni già vigenti, l’automatica adozione di misure restrittive e sanzionatorie verso la regione (sospensione dei trasferimenti erariali a carattere non obbligatorio, decadenza dei direttori generali, amministrativi e sanitari, incremento delle aliquote). Le regioni, già sottoposte ai Piani di rientro e già commissariate (Abruzzo, Campania, Lazio, Molise e Calabria), possono, in alternativa alla prosecuzione del piano di rientro secondo programmi operativi coerenti con gli obiettivi della gestione commissariale, presentare un nuovo Piano di rientro, che determina, con la sua approvazione, la cessazione del commissariamento (articolo 2, comma 88).
Il decreto-legge 78/2010 ha inoltre disposto:
La legge di stabilità 2011, (art. 1, commi 50-52, legge 220/2010), ha concesso, per l’esercizio 2010, che le regioni che non hanno attuato completamente il loro piano, possono provvedere al disavanzo sanitario con risorse proprie, purché le misure di copertura siano adottate entro il 31 dicembre 2010, ed ha previsto:
Il decreto-legge 95/2012, all'art. 15, comma 20, ha disposto per un ulteriore triennio, dal 2013 al 2015, l'applicabilità delle disposizioni di cui all'articolo 11, comma 1, del decreto-legge 78/2010: le regioni in piano di rientro e non commissariate proseguono i programmi previsti nel piano di rientro, a condizione che abbiano garantito l’equilibrio economico nel settore sanitario, ma non abbiano raggiunto gli obiettivi strutturali previsti. In particolare, l'equilibrio economico è garantito se la regione non raggiunge o supera il 5 per cento di squilibrio economico ovvero meno del 5 per cento, per il quale gli automatismi fiscali o altre risorse di bilancio della regione non garantiscono la copertura integrale del disavanzo medesimo, (articolo 2, commi 77 e 88, della legge 191/2009 - legge finanziaria 2010). La prosecuzione ed il completamento del piano di rientro sono le condizioni per l'attribuzione di risorse aggiuntive e della quota premiale del finanziamento del SSN. Dal 2013, una quota premiale annua, pari allo 0,25 per cento delle risorse ordinarie previste per il finanziamento del SSN, è assegnata alle Regioni che hanno adottato misure idonee per una corretta gestione dei bilanci sanitari (art. 15, comma 23).
L'art. 4-bis del decreto-legge 158/2012 (c.d. decreto Sanita') prevede per le regioni in piano di rientro la disapplicazione del 15 per cento del blocco del turn-over per il 2012.
Nel corso della Legislatura sono intervenute numerose disposizioni in materia di contenimento della spesa farmaceutica e di appropriatezza nell’uso dei farmaci.
In particolare, il decreto-legge 39/2009 ha introdotto alcune disposizioni di razionalizzazione della farmaceutica territoriale. Le principali misure hanno riguardato: la riduzione del 12 per cento dei prezzi dei farmaci equivalenti, una trattenuta dell’1,4 per cento dell’importo dovuto alle farmacie per la distribuzione dei farmaci, la rimodulazione, per i farmaci equivalenti, delle quote di spettanza dell’azienda farmaceutica, del grossista e del farmacista sul prezzo di vendita al pubblico dei farmaci e la rideterminazione nella misura del 13,6 per cento del tetto di spesa della farmaceutica territoriale.
Dal 2010 il decreto legge 78/2009 ha rideterminato al 13,3% (con un risparmio quantificato in 800 milioni di euro) il tetto della spesa farmaceutica territoriale.
Successivamente, il decreto legge 78/2010:
In seguito, l’articolo 17 del decreto legge 98/2011 ha stabilito un incremento del livello di finanziamento del SSN per gli anni 2013 e 2014 inferiore a quello previsto dalla legislazione previgente, rinviando, per il raggiungimento delle riduzioni di spesa, a modalità da stabilirsi in sede di intesa Stato-Regioni, da stipularsi entro il 30 aprile 2012. In caso di mancata Intesa, come avvenuto, è prevista, nel biennio 2013-2014, l’applicazione di una pluralità di interventi sulla spesa sanitaria. Per la spesa farmaceutica, il decreto legge 98/2011 ha esteso alle aziende farmaceutiche, a decorrere dal 2013, la partecipazione al ripiano della spesa ospedaliera (precedentemente a carico delle sole regioni) tramite il meccanismo del pay back (prima previsto solo per la spesa territoriale), prevedendo di disciplinare le modalità di attuazione con un decreto interministeriale. In caso di mancata adozione, come avvenuto, per garantire gli effetti finanziari programmati, a decorrere dal 2013 il tetto della spesa farmaceutica territoriale è rideterminato in diminuzione.
In ultimo, l’articolo 15 del decreto legge 95/2012 prosegue e precisa le misure di razionalizzazione e contenimento della spesa farmaceutica introdotte dall’articolo 17 del D.L. 98/2011. Per quanto riguarda la spesa farmaceutica territoriale:
Per quanto riguarda la spesa farmaceutica ospedaliera:
Il D.L. 95/2012 (art. 15, commi 21-25) interviene tra l'altro sul contenimento della spesa del personale sanitario. La disciplina modifica quanto previsto sul contenimento della spesa per il personale del SSN dall'articolo 2, commi 71, 72 e 73 della legge 191/2009 ( legge finanziaria 2010), per il triennio 2010-2012 e per gli anni 2013 e 2014. In particolare, viene confermato per il 2013 e per il 2014 ed esteso al 2015, il livello di spesa stabilito per il 2004, ridotto dell'1,4 per cento, al netto dei rinnovi contrattuali successivi al 2004. Per il conseguimento del suddetto obiettivo le Regioni adottano interventi sulla rete ospedaliera e sulla spesa per il personale (fondi di contrattazione integrativa, organizzazione delle strutture semplici e complesse, dirigenza sanitaria e personale del comparto sanitario). La Regione è ritenuta adempiente al raggiungimento degli obiettivi previsti, a seguito dell’accertamento eseguito dal Tavolo di verifica degli adempimenti (ai sensi dell’art. 2, comma 73 della legge 191/2009). Per gli anni 2012, 2013 e 2014, la Regione che non ha conseguito i risultati previsti è adempiente, ove abbia almeno assicurato l’equilibrio economico (ai sensi dell’art. 2, comma 73 della legge 191/2009). Dal 2015, la Regione giudicata adempiente deve conseguire l’obiettivo finale dell’1,4 per cento. Per le regioni sottoposte ai Piani di rientro dai deficit sanitari o ai Programmi operativi di prosecuzione di detti Piani restano comunque fermi gli specifici obiettivi ivi previsti in materia di personale.
Le misure di contenimento della spesa del personale della pubblica amministrazione (art. 16 del decreto legge 98/2011) si applicano anche al personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale (medici di medicina generale e pediatri di libera scelta).
L'articolo 17 del decreto legge 98/2010 ha introdotto misure di razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi in ambito sanitario. In particolare:
Le misure in materia sono state integrate e precisate dal successivo decreto legge 95/2012, che ha applicato l'immediata riduzione del 5 per cento degli importi e delle prestazioni dei contratti in essere di appalto di servizi e di fornitura di beni e servizi stipulati da aziende ed enti del SSN. La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) ha inasprito la misura della riduzione portandola al 10 per cento ma ha contestualmente introdotto la possibilità, per le regioni e le province autonome, di adottare misure alternative alla riduzione del 10 per cento degli appalti, purché venga assicurato l’equilibrio del bilancio sanitario regionale. Inoltre, gli stessi enti del SSN, o per loro le regioni e le province autonome, sono tenuti ad avvalersi degli strumenti di acquisto e negoziazione telematici messi a disposizione dalla CONSIP o, eventualmente, dalle Centrali di committenza regionali di riferimento. Il rispetto di tale procedura costituisce adempimento ai fini dell'accesso al finanziamento integrativo al SSN. I contratti stipulati in violazione di tale procedura sono dichiarati nulli e tale violazione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità amministrativa. A partire dal 1° luglio 2012 l'Osservatorio dei contratti pubblici ha il compito di pubblicare i prezzi di riferimento per dispositivi medici, farmaci per uso ospedaliero e servizi sanitari e non sanitari. In attesa della completa standardizzazione dei prezzi, le Aziende sanitarie sono inoltre tenute a rinegoziare i contratti per gli acquisti di beni e servizi qualora i prezzi unitari di fornitura presentino differenze superiori al 20 per cento rispetto al prezzo di riferimento. In caso di mancato accordo con i fornitori, le Aziende sanitarie hanno il diritto di recedere dal contratto senza alcun onere a loro carico e possono stipulare nuovi contratti accedendo a convenzioni quadro anche di altre regioni, o tramite affidamento diretto a condizioni più convenienti in ampliamento di contratto stipulato da altre Aziende sanitarie a seguito di gare di appalto o forniture.
Per l’assistenza ospedaliera, si è intervenuti con una riduzione dello standard di posti letto: dai 4 posti letto per mille abitanti ad un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie. Specularmente, il tasso di ospedalizzazione è stato portato dall'attuale valore di 180 per mille abitanti al valore di 160 per mille abitanti, di cui il 25 per cento riferito ai ricoveri diurni (Day Hospital). La riduzione dei posti letto è a carico delle strutture pubbliche per una quota non inferiore al 50 per cento, conseguita esclusivamente attraverso la riduzione di unità operative complesse.
Inoltre, per le medesime finalità di razionalizzazione della spesa sanitaria, il decreto legge 95/2012 è intervenuto sull'accreditamento diminuendone il livello di spesa e prevedendo la ridefinizione delle tariffe massime per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e di assistenza ospedaliera fornite dalle strutture accreditate al SSN. In attuazione della misura, il Decreto 18 ottobre 2012 ha rideterminato la remunerazione delle prestazioni di assistenza ospedaliera per acuti, dell'assistenza ospedaliera di riabilitazione e di lungodegenza post acuzie e di assistenza specialistica ambulatoriale. L'adozione del decreto non confligge con l'istituzione, prevista dall'articolo 2-bis del decreto legge 158/2012 (c.d. Decreto Sanità), di una Commissione per la formulazione di proposte sull'aggiornamento delle tariffe massime per la remunerazione delle prestazioni di assistenza ospedaliera ed ambulatoriale fornita dalle strutture accreditate con il SSN.
Acquisto di beni e servizi
Il contenimento della spesa del personale sanitario
La spesa farmaceutica
Le misure di contrasto ai disavanzi regionali
Acquisto beni e servizi
Il controllo della spesa sanitaria
Spesa farmaceutica
Spesa sanitaria - Ticket
La presente esposizione ha lo scopo di illustrare i principali interventi legislativi in tema di disavanzi sanitari regionali.
In tal senso un particolare rilievo assumono le disposizioni innovative contenute nella legge finanziaria 2010 (legge n. 191/2009) che ha dato attuazione all’Intesa del 3 dicembre 2009 concernente il nuovo Patto per la salute per gli anni 2010-2012 (articolo 13 della citata Intesa), finalizzate a garantire l’equilibrio economico-finanziario del servizio sanitario regionale.
Con la legge finanziaria 2005 (legge n. 311/2004) e con la successiva Intesa Stato-regioni del 23 marzo 2005 sono stati introdotti una serie di adempimenti per le Regioni con un bilancio sanitario in deficit.
In particolare, l’articolo 1, comma 174 della legge n. 311/2004, modificato da successivi interventi normativi (cfr. il comma 277 dell'articolo 1 della legge 266/ 2005 (legge finanziaria 2006), il comma 796, lettera c) dell'articolo 1 della legge 296/2006 (legge finanziaria 2007), e l'articolo 2, comma 76, della legge 191/2009 (legge finanziaria 2010)), ha stabilito che, in caso di disavanzo di gestione del servizio sanitario regionale, che persista nel quarto trimestre di un dato esercizio finanziario, a partire dal 2005, a fronte del quale non siano stati adottati in corso di esercizio i necessari provvedimenti di copertura, ovvero i medesimi non siano risultati sufficienti, il Presidente del Consiglio dei ministri diffida la Regione ad adottare i provvedimenti necessari (vedi infra, nelle disposizioni recate dall’articolo 1, comma 180, della legge finanziaria 2005) entro il 30 aprile dell'anno successivo; qualora la Regione persista nella propria inerzia, entro i successivi trenta giorni il Presidente della Giunta regionale, in qualità di commissario ad acta, determina il disavanzo di gestione ed adotta i necessari provvedimenti per il ripianamento, ivi inclusi gli aumenti dell'addizionale Irpef e le maggiorazioni dell'aliquota Irap, entro i limiti previsti dalla normativa vigente. L'aliquota base IRAP è pari a 3,9 per cento ed è possibile variarla in misura minore o maggiore di 0,9 punti percentuali (art. 16 D.Lgs. 446/1997). L'addizionale IRPEF ha una base percentuale pari all'1,23 per cento, così rideterminata dall'articolo 28, commi 1 e 2 del D.L. 201/2011, in precedenza era pari allo 0,9 per cento. Tale modifica, valida anche per le regioni e province a statuto speciale, si applica a decorrere dall'anno di imposta 2011. L'articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 68/2011, prevede inoltre che a decorrere dal 2012 ciascuna regione a statuto ordinario può con legge, aumentare o diminuire l'aliquota dell'addizionale regionale IRPEF di base. Tale maggiorazione non può essere superiore: a) a 0,5 punti percentuali per gli anni 2012 e 2013 b) a 1,1 punti percentuali per l'anno 2014; c) a 2,1 punti percentuali a decorrere dall'anno 2015. In caso di inerzia da parte del commissario ad acta entro il 31 maggio, nella regione interessata, con riferimento agli anni di imposta 2006 e successivi, si applicano comunque, nella misura massima prevista dalla vigente normativa, l'addizionale Irpef e le maggiorazioni dell'aliquota Irap, nelle misure fisse di 0,15 punti percentuali l’aliquota dell’imposta regionale sulle attività produttive e di 0,30 punti percentuali l’addizionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) rispetto al livello delle aliquote vigenti, (art. 2, comma 79, lettera b) della legge 191/2009 (legge finanziaria 2010)). Scaduto il termine del 31 maggio, i provvedimenti del commissario ad acta non possono avere ad oggetto l'addizionale e le maggiorazioni d'aliquota delle predette imposte. L’articolo 2, comma 76 della legge finanziaria 2010, in caso di inerzia da parte della regione commissariata, ha previsto: il blocco automatico del turn over del personale del servizio sanitario regionale per due anni (fino al 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in corso) e il divieto di effettuare spese non obbligatorie per il medesimo periodo. La legge finanziaria 2010 prevede, inoltre, che gli atti emanati e i contratti stipulati in violazione del blocco automatico del turn over e del divieto di effettuare spese non obbligatorie sono nulli e che, in sede di verifica annuale degli adempimenti previsti, la regione interessata deve inviare una certificazione, sottoscritta dal rappresentante legale dell’ente e dal responsabile del servizio finanziario, attestante il rispetto dei predetti vincoli.
Per quanto riguarda la definizione dello standard dimensionale del disavanzo sanitario strutturale, rispetto al finanziamento ordinario e alle maggiori entrate proprie sanitarie, l’articolo 2, comma 77 della legge 191/2009 (legge finanziaria 2010) ha stabilito il livello del 5 per cento - precedentemente al 7 per cento (articolo 8 della citata Intesa del 23 marzo 2005) - ancorché coperto dalla regione, ovvero il livello inferiore al 5 per cento, qualora gli automatismi fiscali o altre risorse di bilancio della regione non garantiscano con la quota libera la copertura integrale del disavanzo.
Nel caso di raggiungimento o superamento di detto standard dimensionale, la regione è obbligata a presentare entro il successivo 10 giugno un piano di rientro di durata non superiore al triennio, elaborato con l’ausilio dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 311/2004 (legge finanziaria 2005). Il suddetto piano di rientro deve contenere le misure di riequilibrio sia sotto il profilo erogativo dei livelli essenziali di assistenza sia dlle misure per garantire l’equilibrio di bilancio sanitario in ciascuno degli anni compresi nel piano stesso.
L’articolo 1, comma 180, della legge 311/2004 disciplina le ipotesi di inadempimento, da parte delle regioni, degli obblighi di contenimento della spesa sanitaria, ovvero i casi di disavanzo di gestione, di cui all’articolo 1, comma 174, della medesima legge.
In particolare, la regione interessata procede ad una ricognizione delle cause relative allo squilibrio economico-finanziario sanitario ed elabora un programma operativo di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento del Servizio sanitario regionale, di durata non superiore al triennio. I Ministri della salute e dell'economia e delle finanze e la singola regione stipulano apposito accordo che individui gli interventi necessari per il perseguimento dell'equilibrio economico, inclusivo dei cosiddetti piani di rientro dal deficit sanitario.
Le regioni che hanno dovuto predisporre i piani di rientro sono state il Lazio, la Campania, la Sicilia, la Liguria, la Sardegna, l’Abruzzo, il Molise, la Calabria il Piemonte e la Puglia - i piani di rientro sono stati stipulati per il Lazio, il 28 febbraio 2007, per l’Abruzzo e la Liguria, il 6 marzo 2007, per la Campania, il 13 marzo 2007, per il Molise, il 27 marzo 2007, per la Sicilia e la Sardegna, 31 luglio 2007, per la Calabria, 17 Dicembre 2009, per il Piemonte il 5 agosto 2010, per la Puglia il 29 novembre 2010 - tra le quali, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise, la Campania e la Calabria, sono state commissariate. Si ricorda che dal 2007, per effetto dell’articolo 1, comma 836 della legge n. 296/2006 (legge finanziaria 2007), la Sardegna provvede al finanziamento del fabbisogno complessivo del Servizio sanitario nazionale sul proprio territorio senza alcun apporto a carico del bilancio dello Stato.
I piani di rientro della spesa sanitaria, articolati temporalmente sul triennio 2007/2009, prevedono azioni di intervento che possono essere così sintetizzate:
La disciplina relativa ai Piani di rientro, stabilisce, inoltre, quanto segue:
L'articolo 2, comma 78 della legge finanziaria 2010 ha stabilito che il piano di rientro, approvato dalla regione, è valutato dalla Struttura tecnica di monitoraggio (STEM) (Cfr. anche l’articolo 3, comma 2, della citata intesa Stato-regioni per il triennio 2010-2012) e dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome nei termini perentori, rispettivamente, di 30 e di 45 giorni dalla data di approvazione da parte della regione.
Il Consiglio dei ministri, decorsi i termini di cui sopra, accerta l’adeguatezza e, in caso di riscontro positivo, approva il piano, con immediata efficacia ed esecuzione. In caso di riscontro negativo, ovvero in caso di mancata presentazione del piano, il Consiglio dei ministri, in attuazione dell’articolo 120 della Costituzione, nomina il presidente della regione commissario ad acta per la predisposizione, entro i successivi trenta giorni, del piano di rientro e per la sua attuazione per l’intera durata del piano stesso.
Come previsto dall'articolo 2, comma 79 della legge finanziaria 2010, a seguito della nomina del commissario ad acta:
L’articolo 2, comma 80 della legge finanziaria 2010 dispone l’obbligo per la regione sottoposta al piano di rientro al mantenimento, per l’intera durata del piano, delle maggiorazioni dell’aliquota IRAP e dell’addizionale regionale IRPEF, ove scattate automaticamente ai sensi dell’articolo 1, comma 174, della legge n. 311/2004. Gli interventi individuati dal piano sono vincolanti per la regione, che è obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena attuazione del piano di rientro. A tale scopo, qualora, in corso di attuazione del piano o dei programmi operativi di cui al comma 88, gli ordinari organi di attuazione del piano o il commissario ad acta rinvengano ostacoli derivanti da provvedimenti legislativi regionali, li trasmettono al Consiglio regionale, indicandone puntualmente i motivi di contrasto con il Piano di rientro o con i programmi operativi. Il Consiglio regionale, entro i successivi sessanta giorni, apporta le necessarie modifiche alle leggi regionali in contrasto, o le sospende, o le abroga. Qualora il Consiglio regionale non provveda ad apportare le necessarie modifiche legislative entro i termini indicati, ovvero vi provveda in modo parziale o comunque tale da non rimuovere gli ostacoli all'attuazione del piano o dei programmi operativi, il Consiglio dei Ministri adotta, ai sensi dell'articolo 120 della Costituzione, le necessarie misure, anche normative, per il superamento dei predetti ostacoli (modifica all'art. 2, comma 80, introdotta dall'art. 17, comma 4, lett. a), D.L. 6 luglio 2011, n. 98).
Per quanto previsto dall’articolo 1, comma 796, lettera b), ottavo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), in caso di rispetto degli obiettivi intermedi, con risultati quantitativamente migliori, è possibile:
In tal senso, l'art. 4-bis del D.L. 158/2012 (decreto Balduzzi), nelle regioni sottoposte ai piani di rientro, nelle quali sia scattato per l'anno 2012 il blocco automatico del turn-over ai sensi dell'articolo 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, ovvero sia comunque previsto per il medesimo anno il blocco del turn-over in attuazione del piano di rientro o dei programmi operativi di prosecuzione del piano, tale blocco può essere disapplicato, nel limite del 15 per cento e in correlazione alla necessità di garantire l'erogazione dei livelli essenziali di assistenza, qualora i competenti tavoli tecnici di verifica dell'attuazione dei piani accertino, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il raggiungimento, anche parziale, degli obiettivi previsti nei piani medesimi. La predetta disapplicazione è disposta con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute e con il Ministro per gli affari regionali, il turismo e lo sport.
La verifica, come prevista dall’articolo 2, comma 81 della legge finanziaria 2010, dell’attuazione del piano di rientro avviene, ordinariamente, con periodicità trimestrale e annuale, e, straordinariamente, all’occorrenza. I provvedimenti regionali di spesa e programmazione sanitaria, e comunque tutti i provvedimenti aventi impatto sul servizio sanitario regionale indicati nel piano in apposito paragrafo dello stesso, sono trasmessi alla piattaforma informatica del Ministero della salute, di accesso a tutti i componenti degli organismi di monitoraggio, come prevede anche l’articolo 3 della citata intesa Stato-regioni in materia sanitaria per il triennio 2010-2012, ossia al Tavolo di verifica degli adempimenti, al Comitato permanente per la verifica dei livelli essenziali di assistenza e alla Struttura tecnica di monitoraggio. Il Ministero della salute, nell’ambito dell’attività di affiancamento di propria competenza nei confronti delle regioni sottoposte al piano di rientro dai disavanzi, esprime un parere preventivo esclusivamente sui provvedimenti indicati nel piano di rientro.
L’approvazione del piano di rientro, come stabilito dall'articolo 2, comma 82 della legge finanziaria 2010, da parte del Consiglio dei ministri e la sua attuazione costituiscono presupposto per l’accesso al maggior finanziamento dell’esercizio in cui si è verificata l’inadempienza e di quelli interessati dal piano stesso. Il maggior finanziamento è dato dalle quote premiali e dalle eventuali ulteriori risorse finanziate dallo Stato non erogate in conseguenza di inadempienze pregresse.
In particolare, una quota pari al 40 per cento è concessa a seguito dell’approvazione del piano. Il restante 60 per cento è erogato a seguito della verifica positiva dell’attuazione del piano, con la procedura (vedi infra) di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154.
In materia di erogabilità delle somme restano ferme le disposizioni (vedi infra) di cui all’articolo 1, commi 2 e 3, del citato decreto-legge n. 154/2008, e all’articolo 6-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185.
In particolare, l’articolo 1, commi 2 e 3, del decreto-legge n. 154/2008, stabilisce che, in favore delle regioni che hanno sottoscritto gli accordi, includendo i piani di rientro in applicazione del citato articolo 1, comma 180, della legge n. 311/2004, e successive modificazioni, e nelle quali, ai sensi dell'articolo 4 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, è stato nominato il commissarioad acta, può essere autorizzata, con deliberazione del Consiglio dei Ministri, l'erogazione, in tutto o in parte, del maggior finanziamento condizionato alla verifica positiva degli adempimenti, in deroga a quanto stabilito dall'articolo 8 dell'intesa del 23 marzo 2005. La procedura può essere deliberata qualora si siano verificate le seguenti condizioni:
Le suddette somme erogate alla regione si intendono erogate a titolo di anticipazione e sono oggetto di recupero, a valere su somme spettanti a qualsiasi titolo, qualora la regione non attui il piano di rientro nella dimensione finanziaria stabilita nello stesso (comma 3).
L’articolo 6-bis, comma 1 e comma 2 - quest'ultimo identico a quanto stabilito dal comma 3 del decreto-legge n. 154/2008 - del decreto-legge n. 185/2008 dispone l’applicazione di quanto previsto all’articolo 1, comma 2, del citato decreto-legge n. 154/2008, anche alle regioni che hanno sottoscritto gli accordi di cui sopra, inclusivi dei piani di rientro, senza la nomina del commissario ad acta per l'attuazione del citato piano. L'autorizzazione può essere deliberata a condizione che la regione interessata abbia provveduto alla copertura del disavanzo sanitario residuo con risorse di bilancio idonee e congrue entro il 31 dicembre dell'esercizio interessato (comma 1).
A decorrere dal 2013, la quota premiale a valere sulle risorse ordinarie previste dalla vigente legislazione per il finanziamento del SSN, disposta dall’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo n. 149 del 2011, è annualmente pari allo 0,25 per cento delle predette risorse (art. 15, comma 23, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95). L'articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 149/2011, che ha introdotto l’art. 2, comma 67-bis della legge 191/2009, prevede che con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da adottarsi entro il 30 novembre 2011, di concerto con il Ministro della salute, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sono stabilite forme premiali a valere sulle risorse ordinarie previste dalla vigente legislazione per il finanziamento del SSN, applicabili a decorrere dall'anno 2012, per le regioni che istituiscano una Centrale regionale per gli acquisti per l'approvvigionamento di beni e servizi per un volume annuo non inferiore ad un importo determinato con il medesimo decreto e per quelle che introducano misure idonee a garantire, in materia di equilibrio di bilancio, la piena applicazione per gli erogatori pubblici di quanto previsto dall'art. 4, commi 8 e 9, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, nel rispetto del principio della remunerazione a prestazione. L'accertamento delle condizioni per l'accesso regionale alle predette forme premiali è effettuato nell'ambito del Comitato permanente per la verifica dell'erogazione dei livelli essenziali di assistenza e del Tavolo tecnico.
L’articolo 2, comma 83 della legge legge finanziaria 2010 stabilisce che qualora, dall’esito delle verifiche previste dall’articolo 2, comma 81, emerga l’inadempienza della regione, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute e sentito il Ministro per i rapporti con le regioni, il Consiglio dei ministri, sentite la Struttura tecnica di monitoraggio (cfr. l’articolo 3, comma 2, della citata intesa Stato-regioni in materia sanitaria per il triennio 2010-2012) e la Conferenza Stato-regioni, che esprimono il proprio parere entro i termini perentori, rispettivamente, di 10 e di 20 giorni dalla richiesta, diffida la regione interessata ad attuare il piano, adottando altresì tutti gli atti normativi, amministrativi, organizzativi e gestionali idonei a garantire il conseguimento degli obiettivi in esso previsti. In caso di perdurante inadempienza, accertata dal Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali e dal Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, rispettivamente, previste all’articolo 12 e all’articolo 9 della citata intesa 23 marzo 2005, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute e sentito il Ministro per i rapporti con le regioni, in attuazione dell’ articolo 120 della Costituzione nomina il presidente della regione commissario ad acta per l’intera durata del piano di rientro, che adotta tutte le misure indicate nel piano, nonché gli ulteriori atti e provvedimenti normativi, amministrativi, organizzativi e gestionali da esso implicati in quanto presupposti o comunque correlati e necessari alla completa attuazione del piano. Il commissario verifica altresì la piena ed esatta attuazione del piano a tutti i livelli di governo del sistema sanitario regionale. A seguito della deliberazione di nomina del commissario:
L’articolo 2, comma 84 della legge finanziaria 2010 prevede che, in caso di inadempienza del commissario ad acta per la redazione e l’attuazione del piano, il Consiglio dei ministri, in attuazione dell’articolo 120 della Costituzione, adotta tutti gli atti necessari ai fini della predisposizione del piano di rientro e della sua attuazione, fino anche alla nomina di uno o più commissari ad acta di qualificate e comprovate professionalità ed esperienza in materia di gestione sanitaria per l’adozione e l’attuazione degli atti indicati nel piano e non realizzati.
L'articolo 2, comma 84-bis prevede che, in caso di dimissioni o di impedimento del presidente della regione, il Consiglio dei Ministri nomina un commissario ad acta, al quale spettano i poteri indicati dal comma 83 fino all'insediamento del nuovo presidente della regione o alla cessazione della causa di impedimento.
L'articolo 2, comma 85 della legge finanziaria 2010 conferma che gli oneri connessi alla gestione commissariale della regione sono attribuiti alla regione medesima come già previsto dalle disposizioni di cui all’articolo 4, comma 2, terzo, quarto, quinto e sesto periodo, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159. Restano altresì salve le disposizioni in materia di commissariamenti sanitari che non siano in contrasto con le disposizioni del presente articolo.
L’articolo 4 del decreto-legge n. 159/2007 disciplina la nomina e le funzioni del commissario ad acta per le regioni inadempienti nell’attuazione dei piani di rientro. In particolare, il comma 1 attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di diffidare la regione ad adottare, entro quindici giorni, tutti gli atti normativi, amministrativi, organizzativi e gestionali idonei a garantire il conseguimento degli obiettivi previsti nel Piano di rientro dai deficit sanitari. Il comma 2 prevede la nomina di un commissario ad acta, per l’intero periodo di vigenza del singolo piano di rientro, da parte del Consiglio dei Ministri, nell’ipotesi che la regione non adempia alla diffida di cui al comma 1, ovvero nel caso in cui gli atti e le azioni posti in essere, valutati dai predetti Tavolo e Comitato, risultino inidonei o insufficienti al raggiungimento degli obiettivi programmati. Il Consiglio dei Ministri può nominare, anche dopo l'inizio della gestione commissariale, uno o più subcommissari di qualificate e comprovate professionalità ed esperienza in materia di gestione sanitaria, con il compito di affiancare il commissario ad acta nella predisposizione dei provvedimenti da assumere in esecuzione dell'incarico commissariale. Il commissario può avvalersi dei subcommissari anche quali soggetti attuatori e può motivatamente disporre, nei confronti dei direttori generali delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere, degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici e delle aziende ospedaliere universitarie, fermo restando il trattamento economico in godimento, la sospensione dalle funzioni in atto, che possono essere affidate a un soggetto attuatore, e l'assegnazione ad altro incarico fino alla durata massima del commissariamento ovvero alla naturale scadenza del rapporto con l'ente del servizio sanitario. Gli eventuali oneri derivanti dalla nomina del commissario ad acta sono a carico della regione interessata. Il comma 2-bis prevede che i crediti interessati dalle procedure di accertamento e riconciliazione del debito pregresso al 31 dicembre 2005, attivate dalle regioni nell'ambito dei piani di rientro dai deficit sanitari, per i quali sia stata inoltrata ai creditori richiesta di informazioni da rendere entro un termine definito, si prescrivono in cinque anni dalla data in cui sono maturati e comunque non prima di 180 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge, qualora, alla scadenza del termine fissato, non sia pervenuta la comunicazione richiesta. A decorrere dal termine per la predetta comunicazione, i crediti di cui al presente comma non producono interessi.
L'articolo 2, comma 86 della legge finanziaria 2010 stabilisce che il mancato raggiungimento degli obiettivi del piano di rientro, verificato annualmente, comporta, oltre all’applicazione delle misure previste dal comma 80 (mantenimento per l’intera durata del piano delle maggiorazioni IRAP e IRPEF previste e vincolo per la regione degli interventi individuati dal piano) e ferme restando le misure eventualmente scattate ai sensi del comma 83 (concernente la gestione commissariale), l’incremento nelle misure fisse di 0,15 punti percentuali dell’aliquota IRAP e di 0,30 punti percentuali dell’addizionale all’IRPEF.
L'articolo 2, comma 87 della legge finanziaria 2010 applica nei confronti delle regioni che abbiano avviato le procedure per il piano di rientro le disposizioni di cui ai commi 80 (mantenimento per l’intera durata del piano delle maggiorazioni IRAP e IRPEF previste e vincolo per la regione degli interventi individuati dal piano di rientro), 82, ultimo periodo (in materia di erogabilità delle quote premiali e dalle eventuali ulteriori risorse finanziate dallo Stato non concesse in conseguenza di inadempienze pregresse), e da 83 a 86 (per le regioni inadempienti nell’attuazione del piano di rientro).
L'articolo 2, comma 88 della legge finanziaria 2010 conferma l’assetto della gestione commissariale previgente per la prosecuzione del piano di rientro, secondo programmi operativi, coerenti con gli obiettivi finanziari programmati, predisposti dal commissario ad acta, nonché le relative azioni di supporto contabile e gestionale, per le regioni già sottoposte ai piani di rientro e già commissariate, alla data di entrata in vigore della legge finanziaria medesima. Le suddette regioni possono, tuttavia, presentare un nuovo piano di rientro ai sensi della nuova disciplina. Conseguentemente, l’approvazione del nuovo piano di rientro determina la decadenza dello stato commissariale, secondo i tempi e le procedure definiti nel medesimo piano per il passaggio dalla gestione straordinaria commissariale alla gestione ordinaria regionale. In ogni caso si applicano le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 174, della legge n. 311/2004 sui disavanzi sanitari regionali e ai commi da 80 a 86 (maggiorazioni delle aliquote e delle addizionali, interventi del piano di rientro vincolanti per la regione, inadempienze del piano di rientro e gestione commissariale). I suddetti programmi operativi costituiscono prosecuzione e necessario aggiornamento degli interventi di riorganizzazione, riqualificazione e potenziamento del piano di rientro, al fine di tenere conto del finanziamento del servizio sanitario programmato per il periodo di riferimento, dell'effettivo stato di avanzamento dell'attuazione del piano di rientro, nonché di ulteriori obblighi regionali derivanti da Intese fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano o da innovazioni della legislazione statale vigente (articolo 2, comma 88-bis).
L'articolo 11 del D.L. 31 maggio 2010 n. 78 consente alle regioni sottoposte ai piani di rientro per le quali, non viene verificato positivamente in sede di verifica annuale e finale il raggiungimento al 31 dicembre 2009 degli obiettivi strutturali del Piano di rientro e non sussistono le condizioni di cui all'articolo 2, commi 77 e 88, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (standard dimensionale del disavanzo sanitario strutturale del 5 per cento e commissariamento), avendo garantito l'equilibrio economico nel settore sanitario e non essendo state sottoposte a commissariamento, possono chiedere la prosecuzione del Piano di rientro, per una durata non superiore al triennio (2010-2012), ai fini del completamento dello stesso secondo programmi operativi nei termini indicati nel Patto per la salute per gli anni 2010-2012 del 3 dicembre 2009 e all'articolo 2, comma 88, della legge 23 dicembre 2009, n. 191. La prosecuzione e il completamento del Piano di rientro sono condizioni per l'attribuzione in via definitiva delle risorse finanziarie, in termini di competenza e di cassa, già previste a legislazione vigente e condizionate alla piena attuazione del Piano - ancorché anticipate ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, convertito, con modificazioni dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189, e dell'articolo 6-bis del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 - in mancanza delle quali vengono rideterminati i risultati d'esercizio degli anni a cui le predette risorse si riferiscono. L'art. 15, comma 20, del decreto-legge 95/2012 ha previsto per un ulteriore triennio, dal 2013 al 2015 che le regioni in piano di rientro e non commissariate proseguano i programmi previsti nel piano di rientro. In particolare, sono applicate le disposizioni di cui all'articolo 11, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78.
L'articolo 2, comma 89, della legge finanziaria 2010 stabilisce che nelle regioni con i piani di rientro, per un periodo di due mesi dalla data di entrata in vigore della legge finanziaria medesima non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime e i pignoramenti eventualmente eseguiti non vincolano gli enti debitori e i tesorieri, i quali possono disporre delle somme per le finalità istituzionali degli enti.
L'articolo 11, comma 2, del D.L. 78/2010 e l'articolo 1, comma 51, legge 13 dicembre 2010 n. 220 (legge di stabilità 2011) stabiliscono che per le regioni già sottoposte ai piani di rientro e già commissariate, al fine di assicurare il conseguimento degli obiettivi dei medesimi Piani di rientro nella loro unitarietà, anche mediante il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti accertati in attuazione dei medesimi piani, i Commissari ad acta procedono, entro 15 giorni dall'entrata in vigore del presente decreto-legge, alla conclusione della procedura di ricognizione di tali debiti, predisponendo un piano che individui modalità e tempi di pagamento, nonchè all'espletamento delle funzioni istituzionali in situazioni di ripristinato equilibrio finanziario per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive, nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2013. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni alle aziende sanitarie locali e ospedaliere, ancorché effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2010, sono estinti di diritto dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Dalla medesima data cessano i doveri di custodia sulle predette somme, con obbligo per i tesorieri di renderle immediatamente disponibili, senza previa pronuncia giurisdizionale, per garantire l'espletamento delle finalità indicate nel primo periodo
L'articolo 2, comma 90, della legge finanziaria 2010 autorizza le regioni interessate dai piani di rientro ad utilizzare, a copertura dei debiti sanitari, le risorse del Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) nel limite individuato nella delibera di presa d’atto singoli piani attuativi regionali da parte del CIPE.
L'articolo 2, comma 91 della legge finanziaria 2010 consente, limitatamente al 2009, nelle regioni con i piani di rientro per le quali si è verificato il mancato raggiungimento degli obiettivi programmati di risanamento e riequilibrio economico-finanziario:
L'articolo 2, comma 92, della legge finanziaria 2010 disciplina con specifiche disposizioni (vedi i successivi commi da 93 a 97) gli adempimenti delle regioni inadempienti per motivi diversi dall’obbligo dell’equilibrio di bilancio sanitario (cfr. l'allegato 1, lettere c) e d) della citata Intesa del 23 marzo 2005).
Le regioni possono sottoscrivere un accordo, con il relativo piano di rientro, approvato dalla regione, ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni. La valutazione del suddetto piano di rientro è effettuato dalla Struttura tecnica di monitoraggio (STEM) (cfr. l’articolo 3, comma 2 della citata intesa Stato-regioni in materia sanitaria per il triennio 2010-2012) e dalla Conferenza Stato-regioni, rispettivamente, in quindici e in trenta giorni dall’invio (comma 93).
La sottoscrizione e l’attuazione dell’accordo costituiscono presupposto per l’accesso al maggior finanziamento dell’esercizio in cui si è verificata l’inadempienza e di quelli interessati dal piano di rientro. L’erogazione del maggior finanziamento avviene per una quota pari all’80 per cento a seguito della sottoscrizione dell’accordo. Le restanti somme sono erogate a seguito della verifica positiva dell’attuazione del piano, con la procedura (vedi supra) di cui all’articolo 1, comma 2, del citato decreto-legge n. 154/2008 (autorizzazione all’erogazione totale o parziale concessa per situazione di emergenza finanziaria o in caso di adozione del commissario di provvedimenti significativi di reale correzione degli andamenti di spesa).
In materia di erogabilità delle somme restano ferme le disposizioni (vedi supra) di cui all’articolo 1, commi 2 e 3, del citato decreto-legge n. 154/2008 e all’articolo 6-bis, commi 1 e 2, del citato decreto-legge n. 185/2008 (le somme erogate alla regione sono oggetto di recupero, qualora la regione non attui il piano di rientro e la copertura del disavanzo sanitario residuo compiuta con risorse di bilancio idonee e congrue entro il 31 dicembre dell'esercizio interessato) (comma 94).
Gli interventi individuati dal piano di rientro sono vincolanti per la regione, che è obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena attuazione del piano di rientro (comma 95).
La verifica dell’attuazione del piano di rientro avviene con periodicità semestrale e annuale, ed anche straordinaria. I provvedimenti regionali di spesa e programmazione sanitaria, e comunque tutti i provvedimenti aventi impatto sul servizio sanitario regionale indicati nel piano in apposito paragrafo dello stesso, sono trasmessi alla piattaforma informatica del Ministero della salute, cui possono accedere tutti i componenti degli organismi (Tavolo di verifica degli adempimenti, Comitato LEA e STEM, cfr. l’articolo 3 della citata intesa Stato-regioni in materia sanitaria per il triennio 2010-2012) (comma 96).
Le regioni che avrebbero dovuto sottoscrivere, entro il 31 dicembre 2009, un accordo ai sensi dell’ articolo 1, comma 180, della citata legge n. 311/2004, con il relativo piano di rientro, per la riattribuzione del maggior finanziamento, possono sottoscrivere il medesimo accordo con un adeguato piano di rientro, entro il 30 aprile 2010. In caso di mancata sottoscrizione dell’accordo entro i successivi novanta giorni, la quota di maggior finanziamento si intende definitivamente sottratta alla competenza della regione interessata (comma 97).
L'articolo 2, comma 98 della legge finanziaria 2010 autorizza lo Stato ad anticipare alle regioni interessate dai piani di rientro, un prestito restituibile con interessi in trent’anni fino a un massimo di 1.000 milioni di euro, per l’estinzione dei debiti sanitari registrati fino al 31 dicembre 2005. All’erogazione si provvede, anche in tranche successive, a seguito dell’accertamento definitivo e completo del debito sanitario non coperto da parte della regione, con il supporto dell’advisor contabile, in attuazione del citato piano di rientro, e della predisposizione, da parte regionale, di misure legislative di copertura dell’ammortamento della predetta liquidità, idonee e congrue.
Si ricorda che l'articolo 2, comma 46 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) aveva concesso alle regioni Lazio, Campania, Molise e Sicilia, che hanno stipulato con lo Stato i citati accordi per il riequilibrio del deficit sanitario, un'anticipazione finanziaria pari a 9.100 milioni di euro, ai fini dell'estinzione dei debiti contratti sui mercati finanziari e dei debiti commerciali cumulati fino al 31 dicembre 2005, da restituire, entro un periodo non superiore a trenta anni.
Al fine del riequilibrio economico dei servizi sanitari regionali nel triennio 2007-2009, l'art. 1, comma 796, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) aveva istituito un Fondo transitorio destinato alle regioni con un piano di rientro, da ripartirsi secondo il criterio dei disavanzi consuntivati fino al 31 dicembre 2005. Il Fondo prevede 1.000 milioni di euro nel 2007, 850 milioni di euro nel 2008 e 700 milioni di euro nel 2009. Il decreto ministeriale 23 aprile 2007 ha assegnato alle regioni Liguria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania e Sicilia le risorse per il triennio 2007-2009 del citato Fondo transitorio.
Successivamente, l’articolo 1 del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 ha previsto, nel quadro delle misure definite dalla legge finanziaria per il 2007, il concorso straordinario dello Stato, per il periodo 2001-2005, una spesa di 3.000 milioni di euro per l’anno 2007 a beneficio di determinate regioni. Le somme concernenti il citato ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario sono state ripartite con il Decreto ministeriale 4 maggio 2007 alle seguenti regioni: Lazio, Abruzzo, Molise, Campania e Sicilia.
Ai fini della rimborsabilità, i farmaci sono classificati in tre diverse fasce:
Completate le fasi dedicate alla sperimentazione clinica di un medicinale, la Commissione Tecnico Scientifica (CTS) dell'AIFA, effettua, su ciascun farmaco destinato ad essere immesso sul mercato, tutte le valutazioni necessarie (chimico-farmaceutiche, biologiche, farmaco-tossicologiche e cliniche) per assicurare i requisiti di sicurezza ed efficacia. Vengono inoltre esaminati i risultati delle ricerche condotte dall’azienda produttrice del farmaco. Nel momento in cui l'AIFA rilascia l’Autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), questa diviene la carta di identità del farmaco, poiché stabilisce: il nome del medicinale; la sua composizione; la descrizione del metodo di fabbricazione; le indicazioni terapeutiche, le controindicazioni e le reazioni avverse; la posologia, la forma farmaceutica, il modo e la via di somministrazione; le misure di precauzione e di sicurezza da adottare per la conservazione del medicinale e per la sua somministrazione ai pazienti; il riassunto delle caratteristiche del prodotto; il modello dell'imballaggio esterno; il foglio illustrativo; la valutazione dei rischi che il medicinale può comportare per l'ambiente. Quando per un medicinale è stata rilasciata un’AIC, ogni successiva modifica nel dosaggio o nella forma farmaceutica, nella presentazione o nella via di somministrazione, comporta la richiesta di un’ulteriore autorizzazione.
Tutti i farmaci necessitano che sia loro attribuito un prezzo ed una classe di rimborsabilità; deve essere infatti stabilito se il farmaco è a carico del SSN (medicinale di classe A e H) o del cittadino (medicinale classe C).
I prezzi dei farmaci di fascia C sono liberamente determinati dalle imprese produttrici e sono unici su tutto il territorio nazionale, il loro prezzo, e quello dei medicinali di fascia C-bis, può essere aumentato soltanto nel mese di gennaio di ogni anno dispari. Per i medicinali di fascia C da vendersi dietro presentazione di ricetta medica, il farmacista è obbligato ad informare il paziente dell'eventuale presenza di medicinali aventi la stessa composizione quali-quantitativa e la stessa forma farmaceutica con un prezzo più basso. Se il paziente accetta, il farmacista può sostituire il medicinale prescritto con un equivalente di prezzo minore. Il farmacista non può effettuare la sostituzione se sulla ricetta il medico ha indicato la non sostituibilità del medicinale. Anche per i farmaci senza obbligo di prescrizione (SOP) il prezzo è stabilito liberamente dal produttore. Nella pluralità dei casi si tratta di farmaci di automedicazione, per l’acquisto e l’assunzione dei quali non è necessaria la prescrizione medica, poiché sono destinati all’utilizzo autonomo da parte del cittadino per curare disturbi lievi o passeggeri. Per alcuni farmaci di libera vendita, definiti da banco o OTC (acronimo di over the counter), introdotti dalla Legge finanziaria 2004 (L. 311/2004) nella classe C-bis, è consentita la pubblicità. Ai sensi dell'articolo 96 del D.Lgs. 219/2006 sull'etichetta dei medicinali compresi nella classe C-bis deve essere riportata la dicitura «medicinale di automedicazione». Per i medicinali a carico del cittadino (classe C), l’AIFA svolge un’azione di monitoraggio sui farmaci con obbligo di prescrizione (ricetta), verificando il rispetto di due condizioni: il prezzo del medicinale deve essere aumentato ogni due anni (negli anni dispari); l’incremento non può superare l’inflazione programmata. Sul prezzo dei farmaci senza obbligo di prescrizione (SOP), l'AIFA non esercita alcun controllo.
Per quanto riguarda i medicinali erogabili a carico del SSN, il decreto legge 158/2012 ha introdotto, all’articolo 12, novità rilevanti in materia di procedure per la rimborsabilità e la determinazione del prezzo del farmaco.In seguito a tali innovazioni normative, le aziende farmaceutiche possono presentare all'AIFA la domanda di avvio delle procedure relative alla classificazione di un medicinale fra quelli erogabili a carico del SSN soltanto dopo aver ottenuto l'Autorizzazione all'immissione in commercio (AIC) per lo stesso medicinale. A questo punto, l'AIFA istruisce la domanda di concedibilità (ovvero di classificazione del medicinale fra i medicinali erogabili a carico del SSN) contestualmente alla contrattazione del relativo prezzo. In ogni caso, prima dell'inizio della commercializzazione, il titolare dell'AIC è tenuto a comunicare all'AIFA il prezzo ex factory e il prezzo al pubblico del medicinale.
La determinazione del prezzo dei farmaci rimborsati dal SSN, mediante la contrattazione tra Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e le Aziende Farmaceutiche (L. 326/03), è un’attività che l’Agenzia svolge sulla base delle modalità e dei criteri indicati nella deliberazione CIPE 1° febbraio 2001 “Individuazione dei criteri per la contrattazione del prezzo dei farmaci” . Il primo passo per l’avvio di questa attività è la presentazione, da parte dell’Azienda Farmaceutica, della domanda accompagnata da una documentazione dalla quale emerge:
A questo punto il Comitato Prezzi e Rimborso (CPR) dell’AIFA esamina le richieste di rimborsabilità pervenute, supportato anche dai dati di consumo e spesa forniti dall’Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali (OSMED). Le contrattazioni che hanno come oggetto le specialità medicinali registrate secondo procedura nazionale, e quelle comunitarie di mutuo riconoscimento o centralizzata, potranno dar luogo ad un accordo con le Aziende Farmaceutiche in cui saranno specificati i prezzi e le condizioni di ammissione alla rimborsabilità. Successivamente, l’accordo è ratificato dalla Commissione Tecnico Scientifica dell’AIFA e quindi sottoposto all’esame del Consiglio di Amministrazione dell’Agenzia per la successiva delibera, poi pubblicata in G. U..
In deroga a tale procedura, le aziende farmaceutiche possano presentare domanda di rimborsabilità prima del rilascio dell’AIC qualora la domanda riguardi:
Al di là delle deroghe illustrate, entro centottanta giorni dal ricevimento della domanda di concedibilità, l'AIFA comunica all'azienda interessata le proprie determinazioni. Il rigetto della domanda è comunicato al richiedente unitamente al parere della Commissione consultiva tecnico-scientifica o del Comitato prezzi e rimborso sul quale la decisione è fondata. Parimenti documentata è la comunicazione della determinazione di esclusione di un medicinale in precedenza classificato fra i farmaci erogabili dal SSN. In attesa della determinazione dell'AIFA relativa alla classe di rimborsabilità e al prezzo, tutti i medicinali, sono automaticamente collocati in una apposita sezione dedicata ai farmaci non ancora valutati ai fini della rimborsabilità e classificati nei medicinali di classe C.
Come innnovato dalle disposizioni recate dall'articolo 12 del decreto legge 158/2012, quando è autorizzata un'estensione delle indicazioni terapeutiche di un medicinale già in possesso di AIC e già classificato come farmaco erogabile dal SSN, il medicinale può essere prescritto per le nuove indicazioni con onere a carico del SSN solo a conclusione della procedura di contrattazione del prezzo e della correlata conferma della rimborsabilità del medicinale medesimo, nonché della pubblicazione, da parte dell'AIFA, del nuovo prezzo. Conseguentemente, il provvedimento che autorizza l'estensione delle indicazioni terapeutiche contiene anche il prezzo concordato in base alla nuova procedura di contrattazione e la conferma della rimborsabilità del medicinale.
I farmaci generici, o di medicinale biosimilare, sono automaticamente collocati, senza contrattazione del prezzo, nella classe di rimborso a cui appartiene il medicinale di riferimento se l'azienda titolare propone un prezzo di vendita di evidente convenienza per il SSN. E' considerato conveniente il prezzo che, rispetto a quello del medicinale di riferimento, presenta un ribasso pari almeno a quello stabilito con decreto adottato dal Ministro della salute, su proposta dell'AIFA, in rapporto ai volumi di vendita previsti.
Ai fini del regime brevettuale, i farmaci si distinguono in specialità medicinali con nome e confezione specifici - con copertura brevettuale o a brevetto scaduto - e farmaci generici (definiti equivalenti dal decreto legge 87/2005) non coperti da brevetto, aventi uguale composizione in principi attivi, forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio, numero di unità posologiche e dosi unitarie di una specialità medicinale a brevetto scaduto (originator).
Un medicinale equivalente (o generico) è una copia del suo medicinale di riferimento (originator) presente sul mercato già da molti anni (in Italia normalmente 10 anni) e, il cui brevetto sia scaduto. Infatti, un farmaco equivalente (o generico) non può essere messo in commercio se il brevetto dell'originator è ancora valido. La definizione di equivalente è contenuta nella direttiva 2001/83/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, nota anche come Codice per i medicinali di uso umano. Nel Codice sono contenute tutte le norme che regolano il settore farmaceutico europeo, dalla fabbricazione e registrazione dei medicinali alla sperimentazione clinica, alla farmacovigilanza, alla distribuzione dei medicinali fino alla alla pubblicità. L’Italia ha recepito il Codice con il decreto legislativo 219/2006, in cui, all’articolo 10, comma 5, lettera b), è contenuta la definizione di equivalente (generico) come un medicinale che ha la stessa composizione qualitativa e quantitativa di sostanze attive e la stessa forma farmaceutica del medicinale di riferimento nonché una bioequivalenza con il medicinale di riferimento dimostrata da studi appropriati di biodisponibilità. I generici sono normalmente identificati dalla denominazione comune internazionale del principio attivo o, in mancanza di questa, dalla denominazione scientifica del medicinale, seguita dal nome del titolare dell'AIC (Autorizzazione all'immissione in Commercio). Se il titolare segue una procedura di registrazione nazionale, l'AIC è concessa dal Ministero della Salute, a fronte di un abbassamento del prezzo di almeno il 20 per cento rispetto al prezzo della corrispondente specialità medicinale che ha goduto della tutela brevettuale (originator) o delle specialità medicinali che hanno beneficiato della licenza da parte dell’originator. L’articolo 7, comma 1 del decreto legge 347/2001, disciplina la rimborsabilità dei farmaci non coperti da brevetto, affidando alle Regioni, sulla base di apposite direttive regionali, la determinazione della misura del rimborso fino alla concorrenza del prezzo più basso del corrispondente farmaco generico disponibile nel normale ciclo distributivo regionale. Il medico nel prescrivere i farmaci generici, aventi un prezzo superiore al minimo, può apporre sulla ricetta adeguata indicazione secondo la quale il farmacista non può sostituire il farmaco prescritto con un medicinale uguale avente un prezzo più basso. In mancanza di tale indicazione, il farmacista, dopo aver informato l'assistito, consegna allo stesso il farmaco avente il prezzo più basso. Qualora il medico apponga sulla ricetta l’insostituibilità del farmaco prescritto, ovvero l'assistito non accetti la sostituzione proposta dal farmacista, la differenza fra il prezzo più basso ed il prezzo del farmaco prescritto è a carico dell'assistito. Ai fini di contenimento della spesa sanitaria, il D.L. 1/2012, all’articolo 11, comma 12, prevede che il medico informi il paziente dell'eventuale presenza in commercio di medicinali di medicinali aventi uguale composizione in principi attivi, nonché forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio e dosaggio unitario uguali. Il farmacista, qualora sulla ricetta non risulti apposta dal medico l'indicazione della non sostituibilità del farmaco prescritto, dopo aver informato il cliente e salvo diversa richiesta di quest'ultimo, è tenuto a fornire il medicinale prescritto quando nessun medicinale fra quelli equivalenti abbia prezzo più basso. Inoltre, rafforzando quanto già stabilito in materia dal D.L. 78/2011, il D.L. 1/2012 introduce, come ulteriore condizione per la vendita di un medicinale con prezzo più alto di quello di rimborso, l’espressa richiesta dell’assistito, che si aggiunge alla già prevista corresponsione della differenza tra il prezzo di vendita e quello di rimborso. Pertanto, il farmacista è sempre tenuto a sostituire il medicinale prescritto con medicinale corrispondente di prezzo inferiore tranne quando: a) il medico dichiara in prescrizione la non sostituibilità del farmaco; b) c’è una diversa richiesta del paziente; c) non esistono in commercio medicinali a prezzo più basso.
Il decreto legge 78/2010, all'articolo 11, comma 9, ha previsto che, a decorrere dal 2011, l’Agenzia nazionale del farmaco (AIFA) stabilisca un prezzo massimo di rimborso per i medicinali equivalenti, collocati in classe A, a parità di principio attivo, di dosaggio, di forma farmaceutica, di modalità di rilascio e di unità posologiche. Tali limiti di rimborso sono determinati dall’AIFA sulla base di una ricognizione dei prezzi vigenti nei paesi dell’Unione europea e in misura idonea a realizzare un risparmio di spesa non inferiore a 600 milioni di euro annui. I risparmi di spesa restano nella disponibilità delle regioni. La delibera AIFA del 30 marzo 2011 ha reso operativa tale misura. Come paesi di riferimento sono stati prescelti Germania, Regno Unito, Francia e Spagna, mentre il taglio massimo è stato fissato al 40 per cento dei listini, prevedendo un taglio dell'8 per cento anche per i farmaci i cui prezzi sono già allineati a quelli dei Paesi di riferimento.
Infine, l'articolo 15, comma 11-bis, del decreto legge 95/2012, come modificato dall'articolo 13-bis del decreto legge 179/2012, ha introdotto, per la prima volta, la possibilità per il medico di medicina generale di prescrivere un principio attivo in luogo di un medicinale equivalente. In particolare, il medico di medicina generale, in caso di prima diagnosi di una patologia cronica o in presenza di un primo episodio di patologia non cronica e a fronte del possibile utilizzo di più medicinali equivalenti, indica nella ricetta del SSN la denominazione del principio attivo contenuto nel farmaco oppure la denominazione di uno specifico medicinale a base dello stesso principio attivo accompagnata dalla denominazione di quest'ultimo. L'indicazione dello specifico medicinale è vincolante per il farmacista ove nella ricetta sia inserita, corredata obbligatoriamente da una sintetica motivazione, l'indicazione del medico della non sostituibilità del farmaco prescritto. L'indicazione è vincolante per il farmacista anche quando il farmaco indicato abbia un prezzo pari a quello di rimborso, fatta comunque salva la diversa richiesta del cliente. La stessa disposizione prevede che le regioni, nell'adottare eventuali decisioni basate sull'equivalenza terapeutica fra medicinali contenenti differenti princìpi attivi, si attengono alle valutazioni espresse dall'AIFA.
Si definisce off-label l’impiego nella pratica clinica di farmaci già registrati ma usati in maniera non conforme (per patologia, popolazione o posologia) a quanto previsto dal riassunto delle caratteristiche del prodotto autorizzato.
L’uso off-label riguarda, molto spesso, molecole conosciute e utilizzate da tempo, per le quali le evidenze scientifiche suggeriscono un loro razionale uso anche in situazioni cliniche non approvate da un punto di vista regolatorio. Questa pratica è ampiamente diffusa in vari ambiti della medicina, quali, ad esempio, oncologia, reumatologia, neurologia e psichiatria e riguarda la popolazione adulta e quella pediatrica. In campo pediatrico, specialmente a livello neonatale, una cospicua parte delle prescrizioni sia in ospedale sia sul territorio sono off-label.
L’articolo 3, comma 1, del D.L. 23/1998, che regola l’uso off-label dei medicinali, indica che il medico, nel prescrivere un farmaco, deve attenersi alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’AIC, in quanto tali modalità sono state valutate nella fase di sperimentazione del medicinale. Tuttavia il medesimo articolo 3, al comma 2, permette un uso diverso del farmaco, il c.d. uso compassionevole, qualora il medico curante, sulla base delle evidenze documentate in letteratura e in mancanza di valide alternative terapeutiche, ritenga necessario somministrare un medicinale al di fuori delle indicazioni d’uso autorizzate. Accanto a questa ipotesi, la norma stabilisce come ulteriore fattispecie di ammissibilità, l’inserimento dei farmaci non autorizzati in un apposito elenco, predisposto e periodicamente aggiornato dall’AIFA, per la prescrizione dei farmaci con finalità compassionevoli, in ragione dell’assenza di alternative terapeutiche. Ai sensi dell'articolo 1, comma 4, del D.L. 536/1996, in tale elenco possono essere inclusi, a totale carico del SSN:
L’inclusione di un medicinale, con le caratteristiche ora descritte, in tale elenco viene effettuata dall'AIFA su richiesta documentata da parte di associazioni dei malati, di società scientifiche e di organismi sanitari pubblici e privati. L’autorizzazione è concessa dopo attenta valutazione della documentazione a supporto della richiesta, che deve riportare informazioni concernenti il tipo e la gravità della patologia da trattare; l’inesistenza di valide alternative terapeutiche; il numero di soggetti interessati al trattamento; il follow-up; il completamento favorevole di studi clinici di fase 1 e 2; l’ammontare previsto della spesa derivante dall’impiego proposto; lo stato autorizzativo del medicinale in Italia ed in altri Paesi, con indicazione dell’azienda produttrice o fornitrice. I farmaci rimangono iscritti nell’elenco fino al permanere delle esigenze che ne hanno determinato l’inserimento. La prescrizione deve essere effettuata sulla base di un Piano Terapeutico attivato da strutture specializzate ospedaliere o universitarie o da istituti di ricovero e cura a carattere scientifico. Prima della prescrizione il medico deve acquisire il consenso informato scritto del paziente.
Il decreto 158/2012 (c.d. Decreto Balduzzi), nel testo originario, rendeva meno complesso l'inserimento di nuovi medicinali nell'elenco dei farmaci compassionevoli. L'AIFA infatti poteva inserire o mantenere nello specifico elenco un farmaco non autorizzato se, per una determinata patologia, esisteva, fra i farmaci regolarmente autorizzati, soltanto un'unica alternativa terapeutica ad alto costo, vale a dire quando il divario del costo-terapia derivante dall’uso dei due farmaci era di almeno il 50 per cento. La disposizione è stata soppressa dalla legge di conversione 189/2012.
Il decreto-legge 95/2012 ha introdotto misure di sostegno all’utilizzo dei farmaci innovativi. Fra queste si ricorda la norma recata dall’articolo 15, comma 6, lettera c), che calcola il tetto della spesa farmaceutica ospedaliera al netto delle somme restituite dalle aziende farmaceutiche, anche sotto forma di extra sconti, in applicazione di procedure di rimborsabilità condizionata per farmaci innovativi.
Al proposito, si ricorda che L’AIFA ha elaborato sistemi di rimborsabilità in grado di garantire l’accesso a cure innovative per tutti i pazienti. Il principio che guida questi accordi è il rimborso del farmaco innovativo in base alla sua efficacia, lasciando nei casi di fallimento terapeutico (failures) il costo della terapia a carico dell’azienda produttrice. Il risk sharing si inserisce nel contesto più ampio del payment by results o for performance cioè un pagamento sulla base dei risultati, volto a promuovere una più alta qualità delle cure e dell’assistenza sanitaria, evitando sprechi. Al proposito, si ricorda ancora, che, presso l’AIFA, è attivo un Registro di farmaci sottoposti a monitoraggio, che mira a limitarne l’uso ai pazienti aventi caratteristiche simili a quelle scelte negli studi registrativi. Per quanto riguarda i farmaci oncologici innovativi, sempre presso l’AIFA, dal 2005, è istituito un Registro nazionale dei nuovi farmaci oncologici sottoposti a Monitoraggio (RFOM). Con specifiche Determinazioni pubblicate in G.U., per l'utilizzo di alcuni farmaci oncologici, l’AIFA richiede la compilazione di schede di raccolta dati al fine di garantire l'appropriatezza d'uso degli stessi. Si tratta di un’iniziativa a livello europeo, adottata dalle Agenzie regolatorie nazionali, tramite la quale si è inteso raccogliere i dati di tutte le prescrizioni dei nuovi farmaci oncologici con riferimento ai pazienti arruolati e al follow-up clinico. La registrazione e gli aggiornamenti sono necessari per ottenere l’avallo dell’AIFA alla rimborsabilità del ciclo terapeutico a carico del SSN.
L'articolo 10, commi da 2 a 6 del decreto-legge 158/2012 (c.d. Decreto Balduzzi) ha introdottol'obbligo di erogare e utilizzare uniformemente i medicinali innovativi di particolare rilevanza, garantendo così la parità di trattamento di tutti gli assistiti nei vari ambiti regionali.
Molti dei farmaci innovativi, e fra questi soprattutto i farmaci oncologici ed antivirali, sono utilizzati nelle strutture ospedaliere, e pertanto sono medicinali di fascia H acquistati, o resi disponibili all’impiego, da parte delle strutture sanitarie direttamente gestite dal SSN. Si ricorda che l’Accordo in materia, stipulato in sede di Conferenza Stato-regioni nel 2010, aveva già previsto che le Regioni garantissero l’immediata disponibilità agli assistiti, anche senza il formale inserimento dei prodotti nei prontuari terapeutici ospedalieri regionali, dei medicinali che, a giudizio della Commissione tecnico-scientifica dell’Aifa, fossero in pssesso del requisito della innovatività terapeutica, individuato secondo i criteri predefiniti dalla medesima Commissione. Anche successivamente alla stipula dell'Accordo, è stata da più parti osservata la difformità della distribuzione territoriale dei farmaci ospedalieri, derivante dal fatto che per i farmaci di fascia H non esiste un unico Prontuario nazionale. Dopo che un farmaco di fascia H aveva ricevuto l’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), l’AIFA provvedeva ad inserirlo nel Prontuario farmaceutico nazionale, ma affinché il prodotto fosse utilizzabile nei presidi ospedalieri era necessario che il medicinale fosse inserito in prontuari di livello inferiore, vale a dire nei prontuari regionali, di area vasta, di aziende sanitarie locali o aziende ospedaliere. Ne derivava pertanto che uno stesso farmaco di fascia H potesse essere somministrato nelle regioni in tempi diversi a seconda dei diversi tempi di recepimento nei prontuari locali.
Per garantire su tutto il territorio nazionale il rispetto dei livelli essenziali di assistenza, le regioni e le province autonome devono assicurare agli assistiti l’immediata disponibilità dei medicinali di fascia H a carico del SSN erogati attraverso gli ospedali e le aziende sanitarie locali che, a giudizio della Commissione consultiva tecnico-scientifica dell’AIFA, possiedano, alla luce dei criteri predefiniti dalla medesima Commissione, il requisito della innovatività terapeutica importante, ovvero innovatività terapeutica potenziale ( ai sensi dell'articolo 1, comma 1, dell'Accordo in materia sopra richiamato). L’immediata disponibilità è prevista indipendentemente dall’inserimento dei medicinali nei Prontuari terapeutici ospedalieri o in altri elenchi analoghi predisposti dalle competenti autorità regionali e locali. Le regioni e le province autonome sono tenute ad aggiornare, semestralmente, nonché a trasmettere copia all'AIFA dei prontuari terapeutici ospedalieri e di ogni altro strumento regionale elaborato allo scopo di razionalizzare l'impiego dei farmaci da parte di strutture pubbliche, di consolidare prassi assistenziali e di guidare i clinici in percorsi diagnostico-terapeutici specifici. Le regioni possono inoltre comunicare all'AIFA dubbi sui requisiti di innovatività riconosciuti a un medicinale, fornendo la documentazione scientifica su cui si basa tale valutazione. In tal caso, l'AIFA sottopone alla Commissione consultiva tecnico-scientifica la questione affinché la riesamini entro 60 giorni dalla comunicazione regionale e esprima un motivato parere.
Con lo scopo di uniformare i prontuari, presso l'AIFA, è istituito un Tavolo permanente di monitoraggio dei prontuari terapeutici ospedalieri, al quale partecipano rappresentanti della stessa Agenzia, delle regioni e delle province autonome e del Ministero della salute. La partecipazione al tavolo è a titolo gratuito. Il tavolo discute eventuali criticità nella gestione dei prontuari terapeutici ospedalieri e degli altri strumenti regionali analoghi e fornisce linee guida per l'armonizzazione e l'aggiornamento degli stessi, anche attraverso audizioni periodiche delle organizzazioni civiche di tutela del diritto alla salute maggiormente rappresentative a livello nazionale.
La spesa farmaceutica a carico del SSN si articola nelle due componenti dedicate rispettivamente alla spesa farmaceutica territoriale e alla spesa farmaceutica ospedaliera. Per il finanziamento della spesa farmaceutica è destinata una quota del finanziamento complessivo ordinario del SSN.
Le regioni sono divenuti attori rilevanti ai fini del contenimento della spesa farmaceutica; il contenimento dei costi è infatti una conseguenza diretta del sistema di distribuzione da queste prescelto. La distribuzione diretta attraverso le aziende sanitarie ed ospedaliere implica uno sconto considerevole per gli enti del SSN che acquistano i medicinali direttamente dalle ditte produttrici. Ai sensi dell'articolo 9 della L. 386/1974, l’acquisto e la distribuzione dei farmaci direttamente da parte delle strutture pubbliche avviene con sconti minimi del 50 per cento per i medicinali autorizzati con procedura nazionale non sottoposti a negoziazione, e del 33,35 per cento per quelli autorizzati con procedura europea, centralizzata, di mutuo riconoscimento, o nazionale con negoziazione. In particolare, le regioni hanno la facoltà di attivare la distribuzione diretta dei farmaci di fascia A e H contenuti nel PHT - Prontuario della distribuzione diretta per la presa in carico e la continuità assistenziale H (Ospedale) - T (Territorio). Il PH-T rappresenta la lista dei medicinali per i quali sussistono le condizioni di impiego clinico e di setting assistenziale compatibili con la distribuzione diretta, ma la cui adozione, per entità e modalità dei farmaci elencati, dipende dall'assetto normativo, dalle scelte organizzative e dalle strategie assistenziali definite e assunte da ciascuna Regione.
Si ricorda infine che il decreto legge 158/2012 (c.d. Decreto Balduzzi), agli articoli 10 e 11, ha introdotto misure regolatorie in materia di Prontuari farmaceutici nazionale e locali.
In particolare, l’articolo 10 ha previsto, su tutto il territorio nazionale, l’erogazione e l’utilizzo uniforme dei medicinali innovativi di particolare rilevanza, garantendo la parità di trattamento di tutti gli assistiti nei vari ambiti regionali. La disposizione riproduce quasi fedelmente l’Accordo del 2010 sui farmaci innovativi stipulato in sede di Conferenza Stato-regioni, ma mai completamente attuato. L’intervento legislativo garantisce l’immediata e uniforme disponibilità dei medicinali innovativi di particolare rilevanza a carico del SSN indipendentemente dal loro avvenuto inserimento nei prontuari ospedalieri e nelle liste di concedibilità locali, che le regioni e le province autonome saranno tenute ad aggiornare periodicamente, almeno ogni sei mesi, allo scopo di razionalizzare l’impiego dei farmaci da parte delle strutture pubbliche. Gli aggiornamenti dovranno essere trasmessi all’AIFA, dove viene istituito un apposito Tavolo per il monitoraggio della gestione dei prontuari ospedalieri e la elaborazione di linee guida per il loro aggiornamento.
Il successivo articolo 11 contiene disposizioni finalizzate ad una revisione straordinaria del Prontuario farmaceutico nazionale nonché disposizioni dirette a favorire, da parte del SSN, l’impiego razionale ed economicamente compatibile dei medicinali. La misura è stata resa necessaria per adeguare il settore farmaceutico convenzionato agli interventi sulla spesa farmaceutica attuati con il D.L. 95/2012, che hanno fra l’altro ridotto gli spazi economici destinati alla rimborsabilità dei farmaci. A tal fine, si prevede che, entro il 30 giugno 2013 l’AIFA proceda ad una revisione straordinaria del Prontuario farmaceutico nazionale escludendo dalla rimborsabilità i farmaci non più di interesse per il SSN e la cui efficacia non risulti sufficientemente dimostrata.
Ai sensi dell’articolo 5 del D.L. 159/2007, la base di calcolo per la determinazione della spesa farmaceutica territoriale è costituita dal finanziamento del Servizio sanitario nazionale cui concorre ordinariamente lo Stato, inclusi gli obiettivi di piano e le risorse vincolate di spettanza regionale, al netto delle somme erogate per il finanziamento di attività non rendicontate dalle aziende sanitarie.
Relativamente alle componenti, la spesa farmaceutica territoriale indica l’insieme della spesa riferibile ai farmaci rimborsabili di fascia A, al lordo delle quote di partecipazione alla spesa a carico degli assistiti, distribuiti:
Il D.L. 95/2012, ha rideterminato, in diminuzione, il tetto per la spesa farmaceutica territoriale (a livello nazionale ed in ogni regione) portandolo, per il 2012, al 13,1 per cento. Dal 2013 decresce fino all’11,35 per cento.
Si ricorda che, in precedenza, il decreto legge 159/2007 aveva stabilito all’articolo 5, comma 1, che, a decorrere dal 2008, l'onere a carico del SSN per l'assistenza farmaceutica territoriale, non potesse superare (a livello nazionale ed in ogni singola Regione) il tetto del 14 per cento del finanziamento complessivo ordinario del medesimo SSN. Successivamente, l’articolo 13, comma 1, lettera c) del decreto legge 39/2009, ha rideterminato il tetto di spesa per l'assistenza farmaceutica territoriale (comprensivo della spesa farmaceutica convenzionata, della distribuzione diretta, della distribuzione per conto e del ticket) nella misura del 13,6 per cento per l'anno 2009. Il tetto è stato poi rideterminato nella misura del 13,3 per cento dall’anno 2010 dall’articolo 22, comma 3, del decreto legge 78/2009.
Nel triennio 2007-2009 non si è registrato sforamento del tetto della farmaceutica territoriale.
Il D.L. 159/2007 ha introdotto, all’articolo 5, un sistema di regolazione della spesa dei farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale, in base al quale l'AIFA attribuisce ad ogni azienda titolare di autorizzazioni all'immissione in commercio di farmaci un budget annuale, calcolato distintamente per i medicinali equivalenti e per quelli coperti da brevetto. La somma dei budget di ciascuna azienda, incrementata dal Fondo relativo alla spesa per i farmaci innovativi e dal Fondo di garanzia per esigenze allocative in corso d’anno, deve corrispondere all'onere a carico del SSN per l'assistenza farmaceutica territoriale. In caso di superamento del tetto per la farmaceutica territoriale, la filiera dei privati (Azienda farmaceutica, Grossista e Farmacista) è tenuta a coprire integralmente l’eventuale sforamento in misura proporzionale alle relative quote di spettanza sui prezzi dei medicinali, fermo restando l’obbligo per le regioni di adottare le necessarie misure di contenimento. Ai sensi dell’articolo 5, comma 3, lettera c), del D.L. 150/2007, il ripiano a carico dei grossisti e dei farmacisti è operato dall’AIFA mediante rideterminazione provvisoria (per sei mesi e su scala nazionale) delle relative quote di spettanza sul prezzo di vendita dei medicinali e della percentuale di sconto in favore del Servizio sanitario nazionale mentre per le aziende farmaceutiche si applica il sistema del pay-back. Le aziende farmaceutiche versano gli importi dovuti direttamente alle regioni dove si è verificato lo sforamento, in proporzione al superamento del tetto di spesa regionale.
La spesa farmaceutica ospedaliera indica invece la spesa riferibile ai medicinali di fascia H acquistati o resi disponibili all’impiego da parte delle strutture sanitarie direttamente gestite dal SSN, ad eccezione dei medicinali dispensati in distribuzione diretta.
L'articolo 15, commi da 4 a 11, del decreto legge 95/2012 ha rimodulato la spesa farmaceutica ospedaliera, precisandone la definizione e i suoi componenti.
La spesa farmaceutica ospedaliera è rilevata dai modelli CE riferibili ai medicinali di fascia H acquistati, o resi disponibili all’impiego, da parte delle strutture sanitarie direttamente gestite dal SSN, ad eccezione dei medicinali dispensati in distribuzione diretta e per conto, nonché, innovando, al netto delle spese per i vaccini, per i farmaci di fascia C, e al netto delle preparazioni magistrali e officinali effettuate nelle farmacie ospedaliere, dei medicinali esteri e dei derivati del plasma di produzione regionale.
Inoltre, la spesa farmaceutica ospedaliera è calcolata al netto delle somme corrispondenti a:
Al proposito, si ricorda che l’AIFA ha elaborato sistemi di rimborsabilità in grado di garantire l’accesso a cure innovative per tutti i pazienti. Il principio che guida questi accordi è di rimborsare il farmaco innovativo in base alla sua efficacia, lasciando nei casi di fallimento terapeutico (failures) il costo della terapia a carico dell’azienda produttrice. Il risk sharing si inserisce nel contesto più ampio del payment by results o for performance cioè un pagamento sulla base dei risultati, volto a promuovere una più alta qualità delle cure e dell’assistenza sanitaria, evitando sprechi.
Il decreto legge 95/2012 ha incrementato dal 2013 il tetto (a livello nazionale ed in ogni regione) della spesa farmaceutica ospedaliera da 2,4 a 3,5 punti percentuali del finanziamento cui concorre ordinariamente lo Stato per il SSN e ha rimodulato il ripiano dello sfondamento del tetto.
Dal 2013, il ripiano dello sfondamento del tetto della spesa ospedaliera è infatti a carico delle aziende farmaceutiche per una quota pari al 50 per cento del valore eccedente a livello nazionale; il restante 50 per cento è a carico delle sole regioni nelle quali si sia superato il limite, in proporzione ai rispettivi valori eccedenti. Resta fermo che, come detto, non è tenuta al ripiano la regione che abbia fatto registrare un equilibrio economico complessivo.
Si ricorda che l’articolo 17, comma 1, lettera b) del D.L. 98/2011, aveva già contemplato, per gli anni 2013 e successivi, un’ipotesi di attribuzione parziale degli oneri a carico delle aziende farmaceutiche - limitatamente ad una quota pari al 35 per cento del valore eccedente a livello nazionale. Tale meccanismo doveva essere introdotto con regolamento governativo, mai emanato, entro il 30 giugno 2012.
Il ripiano a carico delle singole aziende titolari di AIC avviene tramite versamenti a favore delle regioni e delle province autonome (pay-back) in proporzione alla quota di riparto delle complessive disponibilità del SSN, al netto delle quote relative alla mobilità interregionale.
L’imputazione di una quota a carico delle aziende farmaceutiche pari al 50 per cento ha comportato la determinazione di una procedura per la ripartizione fra le aziende farmaceutiche del pay-back. Tale procedura è stata fissata sulla base delle procedure utilizzate per il ripiano della spesa farmaceutica territoriale come stabilite dall’articolo 5 del D.L. 159/2007. In tal senso, l’AIFA, in via provvisoria il 31 marzo e in via definitiva il 30 settembre dell’anno di riferimento, attribuisce a ciascuna azienda farmaceutica titolare di AIC un budget annuale calcolato sull’acquisto dei medicinale da parte delle strutture pubbliche, distintamente per i farmaci equivalenti e per i farmaci ancora coperti da brevetto. Vengono inoltre definite le modalità di riparto fra le aziende farmaceutiche della quota necessaria per il ripiano e i provvedimenti da adottare in caso di mancata corresponsione di tale quota.
L’AIFA predispone le procedure di recupero della quota di disavanzo a carico delle singole aziende farmaceutiche titolari di AIC in proporzione al superamento del budget aziendale definitivo tenendo conto di quanto disposto per i medicinali innovativi ed i medicinali orfani. In particolare:
Partendo dall'evidenza del difficile contenimento della spesa farmaceutica ospedaliera, il decreto legge 78/2010 ha inoltre disposto che l' Agenzia italiana del farmaco (AIFA) individui, fra i medicinali attualmente dispensati dalle strutture ospedaliere, i farmaci da assegnare alla distribuzione territoriale. Il transito di farmaci di fascia H, a carico della spesa farmaceutica ospedaliera, in fascia A, quindi a carico della spesa farmaceutica territoriale, è stato pari a un volume di 600 milioni di euro annui.
Infine, per quanto riguarda i farmaci innovativi, in caso di sfondamento sono chiamate a ripianare tutte le aziende e non soltanto quelle titolari dei farmaci inclusi tra gli innovativi. Il ripiano avviene attraverso un trasferimento in contanti alle amministrazioni regionali da parte delle aziende farmaceutiche ed attraverso una riduzione proporzionale dei margini di spettanza per gli altri soggetti della filiera.
La mancata corresponsione, da parte delle aziende farmaceutiche, di quanto dovuto alle regioni interessate comporta l'adozione da parte dell'AIFA di provvedimenti di riduzione del prezzo di uno o più medicinali dell'azienda interessata in misura e per un periodo di tempo tali da coprire l'importo corrispondente alla somma non versata, incrementato del 20 per cento, fermo restando quanto previsto dalla normativa vigente in materia di recupero del credito da parte delle pubbliche amministrazioni interessate nei confronti delle aziende farmaceutiche inadempienti. In sede di prima applicazione, per la definizione dei budget delle aziende farmaceutiche per l'anno 2013, si procede detraendo dai fatturati aziendali relativi al 2012 una quota derivante dalla ripartizione fra tutte le aziende farmaceutiche, in proporzione al fatturato relativo al 2012, dell'ammontare del superamento, a livello complessivo, del tetto di spesa farmaceutica ospedaliera per lo stesso anno.
Il settore farmaceutico è stato oggetto di molteplici interventi regolatori mirati al governo e al contenimento della spesa farmaceutica. Il decreto legge 78/2010 ha inteso fornire gli strumenti necessari per una corretta programmazione e razionalizzazione della spesa farmaceutica. Gli interventi proposti a tal fine prevedono fra l'altro:
Tali interventi sono stati proseguiti dal decreto legge 95/2012 che, all'articolo 15, comma 2, ha disposto la sostituzione dell'attuale sistema di remunerazione della filiera distributiva del farmaco con un nuovo metodo, da definirsi sulla base di un accordo tra l'AIFA e le associazioni di categoria maggiormente rappresentative. Il termine, originariamente fissato al 1° gennaio 2013, è stato posticipato dall'articolo 1, comma 388, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), al 30 giugno 2013. Il successivo comma 394 ha disposto che tale termine possa essere ulteriormente prorogato al 31 dicembre 2013. L'accordo sarà quindi definito con decreto del Ministro della salute, di concerto con il MEF, previa intesa in sede di Conferenza Stato-regioni. In caso di mancato accordo degli attori della filiera del farmco, si provvede con decreto del Ministro della salute, di concerto con il MEF, previa intesa in sede di Conferenza Stato-regioni, sentite le Commissioni parlamentari competenti. Solo con l'entrata in vigore del nuovo metodo di remunerazione, perdono di efficacia le disposizioni che prevedono l'imposizione di sconti e trattenute su quanto dovuto alle farmacie per le erogazioni in regime di SSN. La base di calcolo per definire il nuovo metodo di remunerazione è riferita ai margini vigenti al 30 giugno 2012. In ogni caso deve essere garantita l'invarianza dei saldi di finanza pubblica.
Il prezzo al pubblico dei farmaci rimborsati integralmente dal SSN viene definito a seguito di una contrattazione fra l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e le aziende produttrici. L’articolo 1, comma 40, della legge 662/1996 stabilisce le quote di spettanza per le aziende farmaceutiche, i grossisti ed i farmacisti, ovvero le percentuali di ricavo, pari rispettivamente al 66,65 per cento, al 6,65 per cento e al 26,7 per cento del prezzo di vendita al pubblico al netto dell’IVA. Il prezzo al pubblico di un farmaco rimborsabile viene pertanto fissato partendo dal prezzo ex factory negoziato fra l’azienda produttrice ed il SSN, con l’aggiunta delle quote di spettanza dovute ai grossisti ed ai farmacisti, ovvero agli altri attori della filiera del farmaco.
In attesa dell’adozione di una nuova metodologia di remunerazione delle farmacie, il D.L. 78/2010 , ridetermina le percentuali di ricavo dovute dal SSN (quote di spettanza) ai grossisti e ai farmacisti sul prezzo di vendita al pubblico dei farmaci di classe A, interamente rimborsati dal SSN. Tale rideterminazione abbassa la quota dei grossisti al 3 per cento (precedentemente al 6,65 per cento) portando quella dei farmacisti al 30,35 (precedentemente al 26,7 per cento). Per i farmacisti la quota di spettanza del 30,35 per cento deve intendersi come quota minima a questi spettante.
Come illustrato dall'AIFA il nuovo schema di remunerazione della filiera distributiva subentrerà allo schema attualmente vigente, facendo cessare l’efficacia dei seguenti sconti ad invarianza dei saldi di finanza pubblica:
La Determinazione AIFA n. 26 del 27 settembre 2006 ha applicato una riduzione del 5 per cento sul prezzo al pubblico comprensivo di IVA di tutti i farmaci rimborsabili dal SSN (fascia A-H) . Successivamente, l’articolo 1, comma 796, lettere f) e g) della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006) ha previsto, per le aziende farmaceutiche, la possibilità di adottare il meccanismo del cosiddetto Payback di tutte le specialità medicinali di fascia A ed H distribuite attraverso le farmacie aperte al pubblico ed attraverso le strutture sanitarie pubbliche, con l’esclusione dei farmaci equivalenti inseriti nelle liste di trasparenza. Secondo la norma della finanziaria, piuttosto che continuare a subire la riduzione del prezzo del 5 per cento, le case farmaceutiche possono scegliere di attuare un rimborso diretto alle singole regioni (corrispondente al risparmio atteso con la riduzione del 5 per cento per ciascun medicinale, in relazione ai suoi volumi di vendita).
L'art. 5 del decreto legge 223/2006, ha previsto la possibilità di vendere alcuni tipi di medicinali anche negli esercizi commerciali di vicinato, nelle medie e nelle grandi strutture, nelle parafarmacie e nei corner. In tutti questi esercizi commerciali possono essere effettuate attività di vendita al pubblico dei farmaci da banco o di automedicazione e di tutti i farmaci o prodotti non soggetti a prescrizione medica, ossia dei SOP e degli OTC, dei medicinali per uso veterinario, che possono essere acquistati senza ricetta medica, e dei prodotti omeopatici.
La vendita è consentita durante l'orario di apertura dell'esercizio commerciale e deve essere effettuata nell'ambito di un apposito reparto, alla presenza e con l'assistenza personale e diretta al cliente di uno o più farmacisti abilitati all'esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine.
La circolare n. 3 del 3 ottobre 2006 del Ministero della salute illustra nel dettaglio l'applicazione dell'articolo 5 del D.L. 223/2006, specificando fra l'altro che la norma contenuta nell'articolo 9-bis del decreto legge 347/2001, per la parte in cui stabilisce che è ammesso il libero e diretto accesso da parte dei cittadini ai medicinali di automedicazione in farmacia, deve intendersi operante anche negli esercizi commerciali previsti nell'articolo 5. Pertanto, nell'apposito reparto, il farmaco può essere prelevato direttamente dal paziente, fermo restando l'obbligo per il farmacista di rispondere ad eventuali richieste da parte dei pazienti e di attivarsi nel caso risultasse opportuno il proprio intervento professionale.
Il Ministero della salute pubblica semestralmente l'elenco dei 50 medicinali senza obbligo di prescrizione più venduti alle farmacie aperte al pubblico ed agli esercizi commerciali di cui all'art. 5 del decreto legge 223/2006.
In ultimo l'articolo 32 del decreto legge 201/2011, come modificato dall'articolo 11, comma 13, del decreto legge 1/2012, ha previsto la vendita dei farmaci di classe C, senza obbligo di ricetta medica e non rimborsabili dal SSN, anche presso le parafarmacie e i corner della grande distribuzione nei comuni con popolazione superiore a 12.500 abitanti. A tal fine, l’Agenzia italiana del farmaco, ha individuato un elenco, continuamente aggiornabile, dei farmaci di fascia C per i quali permane l’obbligo di ricetta medica e dei quali non sarà consentita la vendita fuori dalle farmacie. Il decreto 18 aprile 2012 ha individuato pertanto i farmaci di fascia C che potranno essere acquistati solo in farmacia, la maggior parte dei quali appartiene alle quattro categorie di medicinali per le quali è stato lo stesso articolo 32, comma 1-bis, decreto legge 201/2011, ad escludere la possibilità del passaggio alla vendita senza ricetta: medicinali stupefacenti, iniettabili, medicinali del sistema endocrino e tutti i medicinali per i quali è previsto il più rigoroso regime della vendita dietro presentazione di ricetta medica da rinnovare volta per volta.
I dati riportati, tratti da L’uso dei farmaci in Italia - Rapporto Nazionale gennaio - settembre 2012, si riferiscono all’uso territoriale dei medicinali prescritti a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e all’acquisto privato da parte dei cittadini.
Nei primi nove mesi del 2012 la spesa farmaceutica territoriale pubblica è stata pari a 9.223 milioni di euro (152,1 euro pro capite), con una riduzione del -6,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tale decremento è dovuto principalmente alla riduzione del -9,6% della spesa farmaceutica convenzionata netta, che viene in parte controbilanciata da un aumento del +3,2% della spesa per medicinali di classe A erogati in distribuzione diretta e per conto.
Nel 2012 è stata riscontrata una maggiore incidenza del 12,1% – sulla spesa convenzionata – della compartecipazione a carico del cittadino (comprensiva del ticket per confezione e della quota a carico del cittadino eccedente il prezzo di riferimento sui medicinali a brevetto scaduto), rispetto al 10,4% registrato nel 2011. L’ammontare complessivo della spesa per compartecipazioni a carico del cittadino sui medicinali di classe A è risultata pari a 1.052 milioni di euro, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente del +7,8%, attribuibile principalmente all’incremento della quota a carico del cittadino eccedente il prezzo di riferimento sui medicinali a brevetto scaduto (+13,4%). Il ticket per confezione, con un valore di spesa pari a 401 milioni di euro, ha pesato per il 38,1%, mentre la quota a carico del cittadino eccedente il prezzo di riferimento per i medicinali a brevetto scaduto, con 651 milioni di euro, ha inciso per un residuale 61,9%.
La spesa privata, comprendente ogni compartecipazione a carico del cittadino, oltre alla spesa per i farmaci di fascia A acquistati privatamente, dei farmaci di fascia C con ricetta e di quelli per automedicazione, ha registrato una riduzione del -0,9%, dovuta ad una diminuzione della spesa per i farmaci di classe C con ricetta (-8,3%), controbilanciata dall’aumento della spesa per compartecipazione (+7,8%), dall’aumento della spesa per i farmaci di classe A (+2,6%) e dall’aumento della spesa per i farmaci per l’automedicazione (+3,3%) (tavola 2a).
Dalla lettura dei risultati è osservabile l’effetto del Decreto del Ministero della Salute del 18 Aprile 2012 che ha disposto la modificazione del regime di fornitura di alcuni medicinali di classe C, prevedendo l’eliminazione dell’obbligo di presentazione di ricetta medica, con la conseguente possibilità della loro dispensazione anche attraverso gli esercizi commerciali (parafarmacie e grande distribuzione organizzata).
Nei primi nove mesi del 2012 la spesa per medicinali acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche è stata pari a 5.796 milioni di euro (95,6 euro pro capite), in crescita del +8,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; in media ogni giorno sono utilizzate 171,4 dosi ogni mille abitanti in crescita del +3,3% rispetto all’anno precedente.
Infine, la spesa per i farmaci utilizzati in ambito ospedaliero è stata pari a 1,9 miliardi di euro, per il 66,2 % composta dai farmaci di classe H, per il 17,4% dai farmaci di classe A e per il restante 16,3% dai farmaci di classe C.
La legge statale determina annualmente il fabbisogno sanitario, cioe' il livello complessivo delle risorse del Servizio sanitario nazionale (SSN) al cui finanziamento concorre lo Stato. Tale fabbisogno nella sua componente cosiddetta indistinta (una quota del finanziamento e' vincolata al perseguimento di determinati obiettivi sanitari), e' finanziato dalle seguenti fonti:
Per ogni esercizio finanziario, in relazione al livello del finanziamento del SSN stabilito per l'anno di riferimento, al livello delle entrate proprie, ai gettiti fiscali attesi e, per la Regione siciliana, al livello della compartecipazione regionale al finanziamento, e' determinato, a saldo, il finanziamento a carico del bilancio statale nelle due componenti della compartecipazione IVA e del Fondo sanitario nazionale.
La composizione del finanziamento del SSN nei termini suddetti e' evidenziata nei cosiddetti "riparti" (assegnazione del fabbisogno alle singole Regioni ed individuazione delle fonti di finanziamento) proposti dal Ministero della Salute su i quali si raggiunge un'intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni e che sono poi recepiti con propria delibera dal Comitato interministeriale per la programmazione economica - CIPE.
Il livello del finanziamento sanitario, erogato alle Regioni in corso d'anno anche ricorrendo, ove necessario, ad anticipazioni di tesoreria, al fine di non condizionarlo all'andamento del ciclo economico e, in ultima analisi, all'andamento delle entrate fiscali, e' garantito da un meccanismo di salvaguardia (ai sensi dell'art. 39, comma. 1, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, dell'art. 13 del decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 56, e dell'art. 1, comma 321, della legge 23 dicembre 2005, n. 266), grazie al quale il bilancio dello Stato, con apposito capitolo determinato annualmente nella tabella 'C' della legge di stabilità - Fondo di garanzia, (cap. 2701 tab. 2 del bilancio dello Stato, Ministero economia e finanze), provvede a compensare l'eventuale mancato gettito fiscale dell'IRAP (sanità) e dell'addizionale regionale all'IRPEF relativi agli esercizi precedenti, a seguito della loro definitiva quantificazione.
Il controllo della spesa sanitaria è un tema rilevante all'inteno del federalismo fiscale .
Le crescenti esigenze di verifica della correttezza della gestione delle risorse sanitarie, in rapporto all’obbligo di fornire le prestazioni ritenute essenziali, hanno condotto allo sviluppo di metodologie di controllo, basate sia sull’utilizzo di indicatori economici sia su parametri di riferimento, per grandi aggregati di spesa, che permettono di accertare il grado di scostamento di una singola regione da un valore predeterminato. Sulla verifica delle modalità e dei costi dell’erogazione delle prestazioni si impernia l’avvio del federalismo sanitario ( al proposito si rinvia anche alla scheda dedicata al D. Lgs. 68/2011) , con l’indicazione delle regioni benchmark, cioè delle regioni di riferimento in equilibrio economico che garantiscono l’erogazione dei LEA in condizione di appropriatezza ed efficienza.
Il D.Lgs 68/2011 dedica il capo IV (artt. 25-32) ai costi e fabbisogni standard nel settore sanitario, delineando una diversa articolazione del processo di formazione e soprattutto di ripartizione del finanziamento statale della spesa sanitaria.
Innanzitutto il decreto ribadisce il principio, già enunciato dal Nuovo Patto per la salute 2010-2012, secondo cui il finanziamento della sanità rappresenta una scelta di politica e di programmazione della politica economica, che ricompone gli obiettivi di assistenza sanitaria e i vincoli di finanza pubblica. A decorrere dal 2013, il fabbisogno sanitario nazionale standard, è infatti determinato in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo del Paese e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi assunti dall’Italia in sede comunitaria. D’altra parte, il fabbisogno sanitario nazionale deve anche corrispondere all’ammontare di risorse necessarie ad assicurare i livelli essenziali di assistenza (LEA), erogati in condizioni di efficienza ed appropriatezza sulla base degli indicatori individuati dagli allegati 1, 2 e 3 dell’Intesa Stato-Regioni del 3 dicembre 2009. Tali indicatori, in particolare, si distinguono in: indicatori del rispetto della programmazione nazionale; indicatori sui costi medi; standard di appropriatezza, di efficacia e di efficienza. Il decreto sottolinea che i costi e i fabbisogni sanitari standard costituiscono comunque il riferimento cui rapportare, progressivamente nella fase transitoria di cinque anni, e successivamente a regime, il finanziamento integrale della spesa sanitaria, nel rispetto della programmazione nazionale e dei vincoli di finanza pubblica.
Per la determinazione dei costi e dei fabbisogni regionali, il decreto legislativo 68/2011 ribadisce l’utilizzo dello strumento pattizio, tramite intesa, ma, a differenza di quanto avvenuto con la programmazione triennale prevista dagli ultimi Patti della salute, l’indicazione dell’ammontare del finanziamento da destinare alla sanità, e il relativo riparto fra le regioni, viene lasciato a una determinazione annuale del Ministro della salute, di concerto con il MEF, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, sentita la Struttura tecnica di supporto della stessa Conferenza.
In merito alla quantificazione del fabbisogno sanitario nazionale, le disposizioni contenute nel decreto recepiscono pertanto le indicazioni degli ultimi Patti della salute con l’unica rilevante differenza, fra l’altro fortemente critica dalla Conferenza delle Regioni, del passaggio dalla programmazione triennale, di ampio respiro, alla determinazione annuale, forse più aderente al quadro macroeconomico in costante mutamento ma carente di progettualità.
Le maggiori novità sono introdotte dall’articolo 27, che vincola la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard regionali all’individuazione delle regioni di riferimento (regioni benchmark nel testo originario dello schema di decreto trasmesso alle Camere).
A decorrere dal 2013, in fase di prima applicazione, il fabbisogno standard delle regioni a statuto ordinario è determinato applicando a ogni singola regione i valori di costo rilevati nelle regioni prese a riferimento. Le Regioni hanno cinque anni di tempo per completare il processo di convergenza in ambito sanitario, ovvero il passaggio dalla spesa storica al fabbisogno standard calcolato secondo i valori standard di costo e fabbisogno. Nell'arco dei cinque anni, le Regioni devono convergere verso le percentuali di costo e fabbisogno indicate nella programmazione nazionale (5% per l’assistenza collettiva, 51% per la distrettuale/territoriale e 44% per l’ospedaliera) poiché i tre macrolivelli, proporzionalmente alle percentuali assegnate, costituiscono indicatori della programmazione nazionale per l’attuazione del federalismo fiscale sanitario e il loro rispetto da parte delle regioni è oggetto delle valutazioni dei Tavoli di verifica degli adempimenti. E’ da notare che alle regioni veniva finora assegnata una quota globale e indistinta di finanziamento: i valori dei livelli e sotto-livelli non costituivano un vincolo settoriale di spesa, fatta eccezione per l'assistenza farmaceutica per la quale vige un tetto (parametrato al fabbisogno complessivo) fissato per legge. Nella successiva ripartizione dei fondi tra le ASL del proprio territorio le regioni, infatti, non erano vincolate ad assegnare le stesse percentuali del budget nazionale. Alcuni osservatori hanno al proposito rilevato che tale innovazione può costituire l’elemento di novità che “vincolando al rispetto delle quote per macrolivelli, potrebbe favorire recuperi di efficacia ed efficienza soprattutto in quelle regioni che perdurano in un’organizzazione dei servizi sanitari fondati su una costosa assistenza ospedaliera”.
In via preliminare, il decreto specifica che le risorse disponibili per il finanziamento della sanità devono essere ripartite fra i tre macrolivelli determinati dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 di definizione dei LEA, in base ai livelli percentuali previsti dall’Intesa del 3 dicembre 2009:assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, ovvero prevenzione (5%); assistenza distrettuale (leggi territoriale) (51%);assistenza ospedaliera (44%). Per ciascuno dei tre macrolivelli (assistenza collettiva, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera), il costo standard è pari alla media della spesa pro-capite rapportata alla popolazione pesata registrata (a livello aggregato) nelle tre regioni di riferimento. Le pesature sono effettuate con i pesi per fasce di età (rapporti di fabbisogno sanitario fra individui di età diverse) utilizzati per il riparto del Fondo sanitario nazionale 2011.
Nel 2011, come nel precedente quadriennio 2007-2010, le Intese hanno confermato i criteri e le percentuali di accesso al fabbisogno stabilite dal riparto 2006, con le correzioni necessarie per tener conto delle modifiche intervenute nella distribuzione della popolazione sul territorio nazionale, nonché di quelle relative ai tetti per la farmaceutica. Rispetto ai criteri di riparto, l’Intesa di riparto per il 2011 stabilisce che il finanziamento indistinto è ripartito tra regioni e PA sulla base della frequenza dei consumi sanitari della popolazione residente, distintamente per LEA e per fasce di età della popolazione stimata al 1° gennaio dell’anno precedente. Una volta definito il livello di risorse destinate a finanziare i LEA, esso viene ripartito tra le Regioni secondo il principio della quota capitaria semplice o ponderata, in base a criteri concordati in sede di Conferenza Stato-Regioni. La procedura di ripartizione delle risorse, basata su una metodologia ormai consolidata, si articola nelle seguenti fasi:
Tabella dei pesi
Livello di assistenza |
<1 anno |
1-4 anni |
5-14 anni |
15-24 anni |
25-44 anni |
45-64 anni |
65-74 anni |
≤75 anni |
Specialistica |
0,389 |
0,221 |
0,279 |
0,390 |
0,650 |
1,560 |
2,177 |
2,074 |
Ospedaliera |
3,122 |
0,366 |
0,226 |
0,363 |
0,528 |
0,930 |
2,079 |
2,906 |
Fonte: Intesa su nuova proposta del Ministro della salute di deliberazione CIPE concernente il riparto tra le regioni delle disponibilità finanziarie per il SSN per l’anno 2011 Rep. Atti n. 165/CSR del 27 luglio 2011
La vera novità del decreto legislativo 68/2011 risiede nel processo di individuazione delle regioni di riferimento per la determinazione della quota di fabbisogno sanitario da assegnare a ogni regione.
A tal fine, il Ministro della salute, di concerto con il MEF, sentito il Ministro per i rapporti con le regioni (ora Ministro per la Coesione territoriale), individua cinque regioni da sottoporre per la scelta definitiva alla Conferenza Stato-Regioni. Fra le cinque Regioni, la Conferenza ne seleziona tre, tra cui obbligatoriamente la prima delle cinque, che divengono le regioni di riferimento per il calcolo dei costi standard.
Le regioni di riferimento non devono essere sottoposte a piani di rientro e devono aver garantito l'erogazione dei LEA in condizione di equilibrio economico, nel rispetto degli adempimenti necessari per l’accesso al maggior finanziamento delle risorse destinate al SSN, come verificato dal Tavolo di verifica degli adempimenti regionali. La stessa norma specifica che sono in equilibrio economico le Regioni che garantiscono l’erogazione dei LEA in condizione di efficienza e di appropriatezza con le risorse ordinarie stabilite dalla legislazione vigente, comprese le entrate proprie regionali effettive incardinate nella programmazione della spesa statale per la sanità. Nell’individuazione delle Regioni si dovrà tenere conto dell’esigenza di garantire una rappresentatività in termini di appartenenza geografica al nord, al centro e al sud e di dimensione, con almeno una Regione di piccola dimensione geografica. I risultati per la valutazione dell’equilibrio economico delle regioni sono riferiti all'esercizio 2011. Qualora nella selezione delle cinque migliori regioni si trovi un numero di regioni inferiori a cinque, le regioni di riferimento sono individuate anche tenendo conto del miglior risultato economico registrato nel 2011, depurando i costi della quota eccedente rispetto a quella che sarebbe stata necessaria a garnatire l'equilibrio ed escludendo comunque le regioni sottoposte a piani di direntro.
Il riferimento alle risorse ordinarie comporta che, ai fini della valutazione dell’equilibrio economico-finanziario, siano considerate esclusivamente le entrate previste in sede di riparto annuale del FSN. Non sono quindi considerate, ad esempio, le maggiori entrate derivanti dall’attivazione della leva fiscale o altre entrate da bilancio disponibili per la copertura della spesa sanitaria, ma solo le entrate proprie delle aziende sanitarie. Queste ultime sono rappresentate dai ricavi derivanti dalla vendita di prestazioni sanitarie e non sanitarie a soggetti pubblici e privati, della Regione e al di fuori della Regione di appartenenza, e da altri ricavi, quali interessi attivi e altri proventi finanziari, rimborsi, etc. In tale voce sono ricompresi i ticket introitati direttamente e le compartecipazioni per l’attività libero professionale svolta all’interno delle aziende sanitarie. E’ da notare che, in sede di riparto, tali entrate sono computate a livello convenzionale, in misura dunque inferiore a quella effettivamente registrata a consuntivo.
I criteri di appropriatezza, efficienza e qualità dei servizi erogati devono essere definiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa intesa della Conferenza Stato-Regioni, sentita la Struttura tecnica di supporto della Conferenza, sulla base degli indicatori di cui agli allegati 1, 2 e 3 dell’Intesa del 3 dicembre 2009.
Il Consiglio dei ministri dell'11 dicembre 2012, ha approvato lo schema di D.P.C.M. per la definizione dei criteri di qualità dei servizi erogati, di appropriatezza ed efficienza, poi passato all'esame della Conferenza unificata. Lo schema prevede che le regioni eligibili debbano certificare equilibrio sanitario in bilancio, non essere sottoposte a piani di rientro, aver erogato i LEA riportando un punteggio pari o superiore al punteggio mediano e essere risultate adempienti alle valutazioni operate dai Tavoli di verifica degli adempimenti regionali di cui all'articolo 12 dell'Intesa Stato-regioni in materia sanitaria del 2005. Se risultano meno di 5 Regioni in equilibrio economico-finanziario, possono essere considerate anche le Regioni col disavanzo più basso. La seconda fase di valutazione, per la formazione della graduatoria, si basa sulle modalità applicative dei LEA e sull'incidenza percentuale tra avanzo/disavanzo e finanziamento. Infine è valutata la qualità dei servizi erogati sulla base di 15 indicatori fra i quali lo scostamento dallo standard previsto per l'incidenza della spesa per assistenza collettiva sul totale della spesa, così come per l'assistenza distrettuale e per quella ospedaliera, le percentuali specifiche di dimessi dai reparti chirurgici e i costi per i ricoveri di 1 giorno (day hospital, day surgery), fino alla spesa specialistica, diagnostica, di base e farmaceutica. Conti e risultati sono riferiti all'esercizio 2011.
La Commissione Salute della Conferenza nel documento presentato sottolinea le criticità presenti, peraltro già rilevate a suo tempo in sede di parere al D. Lgs. n. 68/2011. In particolare viene ritenuta incoerente l’esclusione, tra quelle elegibili, delle Regioni in piano di rientro per ragioni che esulano dall’equilibrio economico del settore sanitario; l’esclusione dal computo delle risorse investite dalle Regioni a copertura degli extra LEA; l’individuazione dell’anno di riferimento in luogo del triennio; l’incoerenza normativa in tema di ammortamenti sterilizzati rispetto ad D. Lgs. 118/2011. In conclusione, si rappresenta la difficoltà ad esprimere un parere su un provvedimento di così rilevante importanza per la futura definizione dei costi standard. Si ribadisce, inoltre, la necessità di riprendere il percorso interrotto dal Governo sull’effettiva e compiuta realizzazione di costi standard. Conseguentemente, la Conferenza nella seduta del 22 novembre 2012 ha espresso la mancata intesa sul provvedimento.
I costi standard sono computati a livello aggregato per ciascuno dei tre macrolivelli di assistenza: assistenza collettiva, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera. Il valore di costo standard è dato, per ciascuno dei tre macrolivelli di assistenza erogati in condizione di efficienza ed appropriatezza dalla media pro-capite pesata del costo registrato dalle regioni di riferimento. A tal fine il livello della spesa delle tre macroaree delle regioni di riferimento è calcolato:
I livelli essenziali di assistenza LEA vengono erogati ai cittadini attraverso i servizi sanitari regionali finendo per essere definiti dalle politiche attuate dalle regioni di residenza. Alcuni dei servizi e delle prestazioni fornite dalle regioni concernono patologie e problemi di salute specifici, parzialmente esclusi dai LEA in quanto erogabili solo secondo specifiche indicazioni cliniche come le cure odontoiatriche e quelle riabilitative. Alcune regioni, poi, finanziano e forniscono prestazioni escluse dai Lea, quali le certificazioni richieste dalle istituzioni scolastiche ai fini della pratica sportiva non agonistica nell'ambito scolastico nonché varie prestazioni riabilitative.
Alcune analisi, fra le altre Giuseppe Pisauro e Vittorio Mapelli, tendono a sottolineare come il calcolo dei costi standard non serva per definire un livello standard della spesa ma sia solo un criterio di riparto del finanziamento totale programmato, risultando alla fine una costante moltiplicativa della popolazione pesata, per cui il riparto avverrebbe esclusivamente in base a quest’ultima. Altri autori, fra questi Petretto, propongono una tecnica alternativa per la determinazione del costo standard per macrolivello e per il riparto del fabbisogno nazionale. L’idea portante di questa tecnica, che propone un’interpretazione estensiva della lettera del D. Lgs. 68/2011, è di pervenire ad un costo standard per fascia di età e poi risalire al costo standard per macrolivello.
L'individuazione del finanziamento della singola Regione (fabbisogno standard regionale) si ottiene applicando all’ammontare destinato al finanziamento nazionale del SSN - determinato con procedimento top-down - il rapporto tra il fabbisogno sanitario standard della Regione e la somma dei fabbisogni regionali standard risultanti dall’applicazione a tutte le Regioni dei valori di costo rilevati nelle regioni di riferimento.
Infine, la quota percentuale assicurata alla migliore regione di riferimento non può essere inferiore alla quota percentuale già assegnatale l'anno precente in sede di riparto, al netto delle variazioni di popolazione.
Poiché la razionalizzazione della spesa sanitaria non può prescindere dalla verifica dei costi e dalle modalità di erogazione dei servizi, la determinazione dei prezzi di riferimento è stata ritenuta un passaggio fondamentale per la realizzazione del disegno federalista tracciato dal decreto legislativo 68/2011.
A tal fine, l'articolo 17 del decreto legge 98/2010 ha incaricato l'AGENAS di stilare un elenco dei prezzi di riferimento dei dispositivi medici, dei farmaci per uso ospedaliero e dei servizi sanitari e non sanitari tra quelli di maggiore impatto sulla spesa sanitaria complessiva. A partire dal 1 luglio 2012, l’Osservatorio dei contratti pubblici, è stato preposto alla pubblicazione dell'elaborazione dei prezzi di riferimento. Per la determinazione dei prezzi, l’Osservatorio ha selezionato, su base regionale, attraverso la Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici, le principali stazioni appaltanti operanti in ambito sanitario su tutto il territorio nazionale, selezionate tra quelle che presentavano la spesa più rilevante. Per rispettare i termini previsti, la rilevazione è stata effettuata su base campionaria. Le categorie di beni e servizi oggetto di rilevazione sono state: principi attivi; dispositivi medici; servizio di ristorazione; servizio di pulizia; servizio di lavanderia; materiali da guardaroba; prodotti di cancelleria. I prezzi acquisiti con l’indagine sono stati oggetto di operazioni di riclassificazione, correzione e conversione del dato per essere successivamente elaborati ai fini del rilascio dei prezzi di riferimento. In particolare, una volta completata la raccolta dei dati è stata effettuata un’analisi preliminare della variabilità delle distribuzioni volta ad individuare eventuali valori anomali. Dato l’obiettivo più generale di contenimento della spesa, la verifica dei valori anomali ha riguardato in prevalenza i prezzi compresi tra i valori minimi e gli altri valori rappresentativi della distribuzione come la media e la mediana. Per quanto riguarda i dispositivi medici, durante l’analisi statistica è stata riscontrata un’elevata variabilità di prezzo in relazione ad alcuni dispositivi medici, imputabilea fattori qualitativi nonché ad ulteriori specifiche tecniche inerenti ai dispositivi medesimi.
Le misure in materia sono state integrate e precisate dal successivo decreto legge 95/2012, che ha applicato l'immediata riduzione del 5 per cento degli importi e delle prestazioni dei contratti in essere di appalto di servizi e di fornitura di beni e servizi stipulati da aziende ed enti del SSN. La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) ha inasprito la misura della riduzione portandola al 10 per cento ma ha contestualmente introdotto la possibilità, per le regioni e le province autonome, di adottare misure alternative alla riduzione del 10 per cento degli appalti, purché venga assicurato l’equilibrio del bilancio sanitario regionale. Inoltre, gli stessi enti del SSN, o per loro le regioni e le province autonome, sono tenuti ad avvalersi degli strumenti di acquisto e negoziazione telematici messi a disposizione dalla CONSIP o, eventualmente, dalle Centrali di committenza regionali di riferimento. Il rispetto di tale procedura costituisce adempimento ai fini dell'accesso al finanziamento integrativo al SSN. I contratti stipulati in violazione di tale procedura sono dichiarati nulli e tale violazione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità amministrativa. In attesa della completa standardizzazione dei prezzi, le Aziende sanitarie sono inoltre tenute a rinegoziare i contratti per gli acquisti di beni e servizi qualora i prezzi unitari di fornitura presentino differenze superiori al 20 per cento rispetto al prezzo di riferimento. In caso di mancato accordo con i fornitori, le Aziende sanitarie hanno il diritto di recedere dal contratto senza alcun onere a loro carico e di stipulare nuovi contratti accedendo a convenzioni quadro anche di altre regioni, o tramite affidamento diretto a condizioni più convenienti, in ampliamento di contratto stipulato da altre Aziende sanitarie a seguito di gare di appalto o forniture. Per i dispositivi medici, a decorrere dal 1° gennaio 2013 è stata affidata all'Agenas la ricognizione dei dispositivi su cui basare la elaborazione dei prezzi , sulla scorta di criteri fissati con decreto del Ministro della salute, di concerto con il MEF, relativamente a parametri di qualità, di standard tecnologico, di sicurezza e di efficacia.
Ai sensi dell'articolo 15, comma 25-ter, del decreto legge 95/2012, in relazione alla determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario prevista dal decreto legislativo 68/2011, il Governo avrebbe dovuto provvedere all'acquisizione e alla pubblicazione dei dati relativi ai prezzi di riferimento entro il 31 ottobre 2012, nonché a ridefinire i tempi per l'attuazione del decreto legislativo nella parte relativa ai costi e fabbisogni standard nel settore sanitario, entro il 31 dicembre 2012.
Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale
Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, Audizione del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi, Enrico Bondi, sulle misure di contenimento della spesa degli enti territoriali, in relazione al procedimento di determinazione dei costi e fabbisogni standard, seduta del 31 luglio 2012Commissione parlamentare per l'atttuazione del federalismo fiscale, Audizione del Ministro della salute, Renato Balduzzi, sullo stato di attuazione dei procedimenti di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei costi e fabbisogni standard nel settore sanitario, seduta del 17 luglio 2012
Commissione parlamentare per l'atttuazione del federalismo fiscale, Audizione di rappresentanti della Corte dei conti, nell'ambito dell'esame dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario, seduta del 24 febbraio 2011
Commissione parlamentare per l'atttuazione del federalismo fiscale, Audizione di rappresentanti della SVIMEZ, del CEIS, del CERM e dell´ISSiRFA-CNR, nell'ambito dell´esame dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario, seduta del 23 febbraio 2011
Commissione parlamentare per l'atttuazione del federalismo fiscale, Audizione del Comitato di rappresentanti delle autonomie territoriali di cui all´articolo 3, comma 4, della legge n. 42 del 2009, nell´ambito dell´esame dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario, seduta del 17 febbraio 2011
Commissione parlamentare per l'atttuazione del federalismo fiscale, Audizione informale di esperti del settore, nell'ambito dell'esame dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario, seduta del 22 luglio 2011
Le principali misure riguardanti i livelli di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale per il triennio 2010-2012 e il controllo della spesa sanitaria sono contenute nella legge finanziaria 2010, che ha attuato il Patto per la salute 2010-2012, nel decreto-legge 78/2010 e nella legge di stabilità 2011. Per il biennio 2013-2014, i livelli di finanziamento del SSN sono stabiliti dai decreti-legge 98/2011 e 95/2012 e dalla legge di stabilità 2013
L'articolo 1, comma 2 del Patto per la salute 2010-2012, attuato dall'art. 2, commi 66-105 della legge 191/2009 (legge finanziaria 2010), ha previsto che il livello di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale per il 2011 sia costituito da risorse pari a 106.884 milioni, al netto dei 50 milioni per l'ospedale Bambino Gesù e dei 167,8 milioni per la sanità penitenziaria, e risorse aggiuntive pari a 1.719 milioni di euro, comprendenti quest'ultime da un incremento di 419 milioni di euro, da 466 milioni di economie derivanti dal riconoscimento dell'indennità di vacanza contrattuale del personale sanitario e da 834 milioni per l'abolizione del ticket di 10 euro sulle prestazioni specialistiche ambulatoriali, introdotto dall'articolo 1, comma 796, lettere p) e p-bis), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e poi sospeso per il triennio 2009-2011 dall'articolo 61, comma 19, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112.
L'art. 9, comma 16, e l'art. 11, comma 12 del decreto-legge 78/2010 ha disposto per il 2011:
A tali riduzioni, pari a 1.018 milioni di euro, si aggiungono i citati 466 milioni di euro di economie ed i 381,5 milioni di euro, non più assegnati per la copertura dei citati 834 milioni di euro, per effetto dell'articolo 17, comma 6 del D.L. 98/2011, che ha reintrodotto per gli assistiti non esentati il pagamento di una quota fissa sulla ricetta pari a 10 euro, e che conseguentemente ha assegnato 105 milioni di euro, per il periodo compreso tra il 1 giugno 2011 e la data di entrata in vigore della legge di conversione, il 17 luglio 2011, e dell'art. 1, comma 49 della legge di stabilità 2011 (legge n. 220/2010), che ha previsto 347,5 milioni di euro, limitatamente ai primi cinque mesi del 2011.
Per effetto delle suddette riduzioni, pari a 1.865,5 milioni di euro, il livello di finanziamento del SSN del 2011 ammonta a 106.905,3 milioni di euro. L'importo include 167,8 milioni di euro per la sanità penitenziaria di cui all'art.2, comma 283, lett. c) della legge 244/2007 e non include i 50 milioni dell'ospedale Bambino Gesù.
Il finanziamento 2012 del SSN è pari a 111.643,884 milioni di euro come stabilisce l'art.2, comma 67 della legge 191/2009, che recepisce l'art.1, commi 2 e 3 del Patto del salute 2010-2012, e che assicura al Servizio sanitario nazionale risorse corrispondenti a quelle previste per il 2011, pari a 108.603 milioni di euro (106.884+1.719 milioni di euro), incrementate del 2,8 per cento.
La legge 191/2009 prevede altresì una riduzione di 466 milioni di economie derivanti dal riconoscimento dell'indennità di vacanza contrattuale del personale sanitario, a cui l'art. 9, comma 16 e l'art. 11, commi 5, 7 e 12 del decreto-legge 78/2010, a decorrere dal 2012, aggiunge una riduzione di 1.132 milioni di euro, per le economie di spesa derivanti dal blocco contrattuale 2010-2012 del personale del SSN e, a decorrere dal 2011, la riduzione di 600 milioni di euro, spostati dalla spesa ospedaliera alla spesa farmaceutica territoriale. L'intervento del citato articolo 17, comma 6 del D.L. 98/2011, ha ulteriormente ridotto il livello di finanziamento 2012 di 834 milioni di euro. L'articolo 15, comma 22 del D.L. 95/2012 (spending review), ha infine stabilito una riduzione di 900 milioni di euro per il 2012.
Il livello del finanziamento 2012 è incrementato dall'art. 3-ter, comma 7 del D.L. 211/2011, che ha disposto, al fine di concorrere alla copertura degli oneri correnti per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, una spesa di 38 milioni di euro per l'anno 2012 e 55 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2013, e dall'art. 5, comma 16 del D.Lgs n. 109 del 16 luglio 2012 (attuazione della direttiva 2009/52/CE), per 43 milioni di euro per l'anno 2012 e di 130 milioni di euro a decorrere dall'anno 2013, in materia di sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
Conseguentemente, il livello di finanziamento del 2012, inizialmente di 111.643,884 milioni di euro, per effetto di una riduzione complessiva di 3.932 milioni di euro e di un incremento di 81 milioni di euro, è pari a 107.960,68 milioni di euro. L'importo include i 167,8 milioni di euro per la sanità penitenziaria e non comprende i 50 milioni dell'ospedale Bambino Gesù.
Per il livello di finanziameno del biennio 2013-2014, l'art. 17, comma 1 del D.L. 98/2011 stabilisce un incremento dello 0,5 per cento del livello 2012 e dell’1,4 per cento del livello 2013, riducendo le previgenti percentuali del 2,8 e del 4. In tal modo il finanziamento del SSN si riduce di 2.500 milioni per il 2013 e di 5.450 milioni per il 2014. Il livello di finanziamento del SSN risulta pari a 109.294 milioni per il 2013 e di 110.786 milioni per il 2014. Successivamente, l'art. 17 comma 5 del D.L. 98/2011, ha ridotto i livelli di spesa del 2013 e del 2014 di 70 milioni annui relativi agli accertamenti medico legali svolti dalle ASL per la pubblica ammnistrazione. Da ultimo, l'articolo 15, comma 22 del citato D.L. 95/2012 ha determinato la riduzione dei livelli di spesa del 2013 e del 2014, rispettivamente per 1.800 e 2.000 milioni di euro e per 2.100 milioni di euro, a decorrere dall'anno 2015.
L'articolo1, comma 132 della legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012 n. 228) ha ridotto di 600 milioni di euro per l'anno 2013 e di 1.000 milioni di euro a decorrere dall'anno 2014 il livello di finanziamento del SSN.
Conseguentemente, i livelli di finanziamento del SSN per gli anni 2013 e 2014 sono, rispettivamente, pari a 106.824 e 107.716 milioni di euro.
L'art. 15, comma 25-ter, del D.L. 95/2012 prevede che il Governo, entro il 31 ottobre 2012 ed il 31 dicembre 2012, rispettivamente, determina i costi e i fabbisogni standard del settore sanitario, (decreto legislativo 6 maggio 2011 n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario) e ne definisce i tempi di attuazione.
Per gli investimenti pluriennali in edilizia sanitaria (l'art. 20, della legge 67/1988), la legge finanziaria 2010 ha elevato l’importo previsto da 23 a 24 miliardi di euro e, successivamente, la legge di stabilità 2011, ha destinato, per le stesse finalità, 1.500 milioni di euro, per l'esercizio 2012, del Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS).
Nel 2011 la spesa sanitaria totale (pubblica e privata) risulta pari al 9,1% del Pil, mentre nel 2010 era il 9,3% del Pil, inferiore alla media OCSE pari al 9,5% ed a quella di Germania (11,6%), Francia (11,6%), Spagna (9,6%) e Gran Bretagna (9,6).
Nel 2010 la spesa pro-capite in Italia è stata di 2.964 dollari, contro una media Ocse di 3.268, ed è cresciuta a un tasso medio dell'1,9% dal 2000 al 2009, rallentando a +1,5% nel 2010. In Italia ci sono 3,7 medici attivi ogni 1.000 abitanti, e 6,3 infermieri, il che mostra una sovrabbondanza di medici e una carenza di infermieri, che ha come risultato un'allocazione inefficiente delle risorse., mentre il numero di letti d'ospedale nel 2010 è di 2,8 per 1.000 abitanti, inferiore alla media Ocse, (Ocse Health data 2012). Nel 2012 la spesa sanitaria del SSN stimata risulta pari a 113,6miliardi, in crescita rispetto al dato consuntivato di 112 miliardi del 2011 e 112,7 miliardi del 2010. Nel 2012, il rapporto spesa SSN/PIL si attesta al 7,3 in crescita rispetto al 7,1 del 2011 (nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2012).
Nel 2011 il finanziamento del SSN è stato pari a 106,9 miliardi di euro (deliberazione n.15/2012 Cipe del 20 gennaio 2012), in aumento rispetto ai 105,6, miliardi di euro del 2010 (deliberazione n.25/2011 Cipe del 5 maggio 2011). Il disavanzo sanitario passa dai 2,2 miliardi del 2010 ai 1,4 miliardi del 2011, di cui il 42 per cento è relativo alle regioni meridionali (50 per cento nel 2010), l'8,3 per cento allla Liguria (4 per cento nel 2010) e il 50 per cento del Lazio (44,6 per cento nel 2010). Le regioni in piano di rientro passano da un disavanzo di poco meno di 2 miliardi nel 2010 ad uno di 1,2 miliardi nel 2011 (Rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica 2012).
In tema di organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale va innanzitutto ricordata l'approvazione della legge recante l'istituzione del Ministero della salute. Il Parlamento ha poi convertito in legge il decreto- legge recante disposizioni urgenti per lo sviluppo del Paese. Si tratta di un provvedimento ampio che ha disciplinato oggetti diversi recependo, in alcune parti, i risultati del lavoro legislativo già svolto dalle due Camere su alcuni temi, quali quelli del governo clinico e della responsabilità professionale del personale sanitario medico e non medico. Rilevanti appaiono anche le disposizioni dirette a disciplinare nuovi servizi e funzioni delle farmacie pubbliche e private.
La legge 172/2009 istituisce un autonomo Ministero della salute e ne definisce gli aspetti organizzativi e funzionali.
Vengono attribuite al Ministero della salute le funzioni in materia di tutela della salute umana, di coordinamento del sistema sanitario nazionale, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze per tutti i profili di carattere finanziario, di sanità veterinaria, di tutela della salute nei luoghi di lavoro, di igiene e sicurezza degli alimenti.
Al Ministero dell’economia e delle finanze sono attribuite, tra le altre, le funzioni di coordinamento della spesa pubblica e verifica dei suoi andamenti, ivi incluso il settore della spesa sanitaria. Conseguentemente viene istituito il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
La legge n. 69/2009 ha disciplinato, tra l’altro, una delega al Governo per l’attuazione di principi e i criteri volti a definire nuovi servizi e funzioni che le farmacie pubbliche e private devono svolgere nell'ambito del SSN. Tali principi attengono alla partecipazione delle farmacie al servizio di assistenza domiciliare integrata, alla collaborazione delle stesse ai programmi di educazione sanitaria nonché allo svolgimento di campagne di prevenzione, all’espletamento delle attività connesse alla prenotazione e alla riscossione delle quote di partecipazione e al ritiro dei referti di visite ed analisi. La delega comprende anche la revisione dei requisiti di ruralità delle farmacie, ai fini della corresponsione dell'indennità annua di residenza; l’erogazione di quest’ultima infatti viene prevista soltanto in presenza di situazioni di effettivo disagio, in relazione all'ubicazione delle farmacie e all'ampiezza del territorio servito.
In attuazione della delega sopracitata è stato emanato il decreto legislativo n. 153/2009, sul contenuto del quale si sono previamente espresse le competenti commissioni parlamentari. Successivamente, due decreti del 16 dicembre 2010 del Ministero della Salute hanno regolamentato, rispettivamente l'effettuazione, presso le farmacie, di prestazioni analitiche di prima istanza rientranti nell'ambito dell'autocontrollo e l'erogazione di specifiche prestazioni professionali. Infine il decreto 8 luglio 2011 ha stabilito che le farmacie, attraverso una postazione dedicata, possono operare anche come canali di accesso al Sistema CUP per prenotare prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale presso le strutture sanitarie pubbliche e private accreditate, provvedere al pagamento dei ticket a carico del cittadino e ritirare i relativi referti.
Le Regioni hanno il compito di regolamentare lo svolgimento delle attività mediante l’emanazione di Linee guida e di provvedimenti che stabiliscano anche i requisiti di qualità.
Nell'ottobre 2012 è stato definitivamente approvato dai due rami del Parlamento, il D.L. 158/2012 (A.C. 5440) che reca incisivi e rilevanti interventi per garantire un più alto livello di tutela della salute, mediante una riorganizzazione di alcuni fondamentali aspetti del Servizio sanitario Nazionale. Tale riassetto presenta carattere di urgenza a seguito del profondo ridimensionamento dell’offerta assistenziale di tipo ospedaliero e, più in generale, della contrazione delle risorse destinate al SSN, derivante dai provvedimenti legislativi degli ultimi anni e, più recentemente, dalle disposizioni del decreto legge n. 95/2012.
A tal fine sono adottate misure finalizzate ad assicurare e garantire la continuità, la funzionalità e lo svolgimento delle particolari attività connesse ai bisogni di salute, di qualità e appropriatezza delle cure ed economicità nell'impiego delle risorse.
Le norme contenute nel provvedimento dettano nuovi princìpi in tema di cure primarie e assistenza territoriale, di professione e responsabilità dei medici, di dirigenza sanitaria e governo clinico, di garanzia dei livelli essenziali di assistenza per le persone affette da malattie croniche e rare nonché da dipendenza da gioco con vincita di denaro, di norme tecniche per le strutture ospedaliere, per promuovere corretti stili di vita, nonché di interventi in materia di sicurezza alimentare e di emergenze veterinarie, di farmaci e di servizio farmaceutico, di sperimentazione clinica dei medicinali, di razionalizzazione di alcuni enti sanitari e di trasferimento alle regioni delle funzioni di assistenza sanitaria al personale navigante.
Nel corso della XVI legislatura la XII Commissione affari sociali, in sede referente, ha avviato, senza concluderlo, l'esame di una proposta di legge (A.C.4269) diretta a novellare il testo vigente degli articoli 8-quater, 8-quinquies e 8-sexies del D.Lgs. 502/1992. Nelle intenzioni del proponente tali modifiche intendono sopperire alle aporie normative lasciate insolute dal D.L. 112/2008, introducendo un meccanismo di responsabilizzazione delle regioni e delle aziende sanitarie locali nell'utilizzo delle risorse pubbliche, attraverso la sostanziale parificazione tra strutture pubbliche e private nel meccanismo dei tetti di spesa.
Nella seduta del 28 settembre 2011 l'Assemblea della Camera ha approvato, in prima lettura, il disegno di legge del Governo, A.C. 4274. L'iter del provvedimento, trasmesso al Senato, a causa della fine della legislatura, non si è potuto concludere presso l'altro ramo del Parlamento. Il disegno di legge è finalizzato ad assicurare una maggiore funzionalità del SSN, adottando misure incisive e significative in diversi settori. Tra le misure proposte, si ricordano: l'introduzione di una riforma del sistema della sperimentazione clinica dei medicinali, il riordino degli albi e degli ordini professionali e la messa a punto di una disciplina unitaria del fascicolo sanitario elettronico.
Disposizioni urgenti per lo sviluppo del paese
Istituzione del Ministero della salute
Modifiche al decreto legislativo 502/1992
Sperimentazione clinica e professioni sanitarie
Sperimentazione clinica dei farmaci
Nell'ottobre 2012, è stato approvato dal Parlamento il decreto-legge n. 158/2012 (A.C. 5440, A.S. 3534), convertito, con modificazioni, dalla legge 189/2012, che reca interventi per garantire un più alto livello di tutela della salute, mediante una riorganizzazione di alcuni fondamentali aspetti del Servizio sanitario Nazionale.
Il provvedimento, che ha subito alcune modifiche nel corso dell'esame parlamentare, ha un contenuto ampio ed articolato ed interviene su molti settori connessi alla tutela della salute. Tale riassetto presenta carattere di urgenza a seguito del profondo ridimensionamento dell’offerta assistenziale di tipo ospedaliero e, più in generale, della contrazione delle risorse destinate al SSN, derivante dai provvedimenti legislativi degli ultimi anni e, più recentemente, dalle disposizioni del decreto legge n. 95/2012.
A tal fine sono adottate misure finalizzate ad assicurare e garantire la continuità, la funzionalità e lo svolgimento delle particolari attività connesse ai bisogni di salute, di qualità e appropriatezza delle cure ed economicità nell'impiego delle risorse.
Il provvedimento si compone di 16 articoli suddivisi in IV Capi.
Qui di seguito si procederà ad una sintetica illustrazione dei principali aspetti disciplinati dall'articolato.
Il Capo I (artt.1-6bis) contiene norme per la razionalizzazione dell'attività assistenziale e sanitaria.
L'articolo 1 concerne, in primo luogo, il riordino dell'organizzazione dei servizi territoriali di assistenza primaria, prevedendo che le regioni ridefiniscano tale organizzazione mediante il ricorso a forme organizzative sia monoprofessionali sia multiprofessionali. Le prime sono denominate aggregazioni funzionali territoriali; esse condividono, in forma strutturata, obiettivi e percorsi assistenziali, strumenti di valutazione della qualità assistenziale, linee guida, audit e strumenti analoghi. Le seconde sono denominate unità complesse di cure primarie; esse erogano prestazioni assistenziali tramite il coordinamento e l’integrazione dei professionisti delle cure primarie e del sociale a rilevanza sanitaria, tenuto conto della peculiarità delle aree territoriali. La riorganizzazione deve essere volta a garantire l’attività assistenziale per l’intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana. In particolare, per le unità complesse di cure primarie, le regioni privilegiano la costituzione di reti di poliambulatori territoriali dotati di strumentazione di base, aperti al pubblico per tutto l’arco della giornata, nonché nei giorni prefestivi e festivi con idonea turnazione, che operino in coordinamento e in collegamento telematico con le strutture ospedaliere. Le forme monoprofessionali e multiprofessionali summenzionate erogano l’assistenza primaria attraverso il personale convenzionato con il SSN (medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e specialisti ambulatoriali). Viene poi consentito alle regioni, per esigenze di riorganizzazione della rete assistenziale, di attuare processi di mobilità del personale dipendente dalle ASL, con ricollocazione del medesimo presso altre aziende regionali al di fuori dell’àmbitoprovinciale, previo accertamento delle situazioni di eccedenza ovvero di disponibilità di posti.
L’articolo 2, relativo all'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria, reca modifiche alla legge 120/2007 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), con l’intento di delineare il passaggio a regime dell’attività libero-professionale intramuraria, le cui tappe fondamentali sono:
L'articolo 2-bis prevede l'istituzione di una Commissione per la formulazione di proposte sull'aggiornamento delle tariffe massime per la remunerazione delle strutture sanitarie accreditate che erogano, in base ad accordi e contratti, assistenza ospedaliera ed ambulatoriale a carico del Servizio sanitario nazionale.
L’articolo 3 disciplina alcuni aspetti della responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.
Viene esclusa la responsabilità penale per i casi di colpa lieve, a condizione che, nello svolgimento dell'attività, il soggetto si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Viene invece fatta salva la responsabilità civile - che viene dalla norma in esame ricondotta nell'àmbito della cosiddetta responsabilità extracontrattuale -. Si prevede, tuttavia, che, nella determinazione della misura del risarcimento del danno, il giudice tenga debitamente conto dell'eventuale conformità dell'operato alle linee guida e buone pratiche summenzionate. Inoltre si prevede l’adozione di un provvedimento regolamentare allo scopo di agevolare l’accesso alle polizze assicurative da parte degli esercenti le professioni sanitarie, anche in attuazione dell’articolo 3, comma 5, lettera e), del decreto-legge 138/2011, che statuisce il principio dell’obbligo del professionista di stipulare,a tutela del cliente, idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale.
L'articolo 4 detta disposizioni in tema di dirigenza sanitaria e governo clinico, disciplinando le modalità di nomina dei direttori generali delle aziende e degli enti del servizio sanitario regionale da parte delle regioni, nonché per il conferimento degli incarichi di direzione di struttura complessa e di struttura semplice: la procedura prevista ed i requisiti richiesti sono informati a criteri di trasparenza e pubblicità. L'articolo 5 prevede l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA), con particolare riferimento ad una nuova ricognizione delle malattie croniche e di quelle rare, nonché alle persone affette da ludopatia, nonché un aggiornamento del nomenclatore tariffario relativo alle prestazioni di assistenza protesica, erogate nell'àmbito del Servizio sanitario nazionale. L’articolo 6 dispone misure in materia di edilizia sanitaria:
Il Capo II (artt. 7-9), detta disposizioni in tema di riduzione dei rischi sanitari connessi all'alimentazione e alle emergenze veterinarie. L'articolo 7 vieta e sanziona la vendita e l'acquisto di bevande alcoliche e di prodotti del tabacco da parte di minorenni. Esso introduce anche una disciplina per sanzionare e prevenire la diffusione delle dipendenze dalla pratica di gioco con vincite in denaro, dettando prescrizioni sulla pubblicità dei giochi citati, vietando l'ingresso dei minori in aree destinate al gioco con vincite in denaro, prevedendo un piano annuale di controlli, predisposto da AAMS, d’intesa con la SIAE, la Polizia di Stato, l’Arma dei carabinieri e la Guardia di finanza, consistente in almeno diecimila verifiche specificamente destinate al contrasto del gioco minorile, nei confronti degli esercizi commerciali in cui sono presenti apparecchi di gioco AWP o attività di scommessa su eventisportivi, anche ippici,e non sportivi,collocati in prossimità di istituti scolastici primari e secondari,di strutture sanitarie ed ospedaliere, di luoghi di culto. L'articolo 8 reca norme in materia di sicurezza alimentare e bevande, mentre l'articolo 9 detta disposizioni in tema di emergenze veterinarie.
Il Capo III (artt.10-13) reca disposizioni in materia di farmaci e di servizio farmaceutico. L'articolo 10 detta disposizioni in materia di farmaci, modificando le procedure autorizzative per i princìpi attivi destinati alla produzione di medicinali sperimentali, introducendo la disponibilità, per gli assistiti,a carico del Servizio sanitario nazionale, dei medicinali che risultino possedere il requisito dell'innovatività terapeutica disciplinando la revisione dei prontuari terapeutici ospedalieri e degli altri analoghi strumenti regionali e prevedendo l'istituzione di un tavolo permanente di monitoraggio dei suddetti prontuari e strumenti. L'articolo 11 prevede una revisione straordinaria del prontuario farmaceutico nazionale al fine di escludere dalla rimborsabilità (a carico del Servizio sanitario nazionale) i farmaci terapeuticamente superati. Viene poi stabilito che ogni revisione del prontuario in esame può includere nell'àmbito della rimborsabilità i medicinali equivalenti a quelli in scadenza di brevetto o di certificato di protezione complementare con effetto non anteriore alla scadenza medesima. L'articolo11-bisdispone che,in caso di condanna con sentenza di primo grado per il reato di truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale, l'autorizzazione all'esercizio della farmacia non possa essere trasferita per atto tra vivi,fino alla conclusione del procedimento penale (a séguito di sentenza definitiva).L’articolo 12 concerne alcune procedure relative ai medicinali. L’articolo13 concerne: i medicinali omeopatici, anche veterinari (in particolare,per le procedure di registrazione o di autorizzazione), l'aggiornamento delle tariffe e dei diritti annuali dovuti nel settore farmaceutico,gli adempimenti riguardanti la macellazione degli animali;alcune particolari fattispecie di somministrazione dei medicinali veterinari.
Il Capo IV (artt.14-16), infine, interviene con disposizioni incidenti sulla disciplina di alcuni enti sanitari (Consorzio anagrafi animali, Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti, Fondazione Onaosi, IRCSS, art. 14), nonché sul trasferimento alle regioni dell'assistenza sanitaria al personale navigante (art. 15).
L'articolo 2 del decreto legge 158/2012 (c.d. Decreto Sanità) ha novellato le disposizioni sull'attività professionale intramuraria (ALPI) contenute nella legge 120/2007, ultimo sostanziale intervento legislativo volto a regolamentare l'ALPI. L'illustrazione della disciplina in materia, già ripetutamente modificata, soprattutto nella parte in cui disponeva il passaggio dal regime transitorio al regime ordinario, richiede una breve ricostruzione introduttiva del quadro normativo di riferimento.
Per attività libero-professionale intramuraria (ALPI) si intende l'attività che la dirigenza del ruolo sanitario medica e non medica, individualmente o in équipe, esercita fuori dell'orario di lavoro, in favore e su libera scelta dell'assistito pagante, ad integrazione e supporto dell’attività istituzionalmente dovuta. L’Alpi viene esercita in strutture ambulatoriali interne o esterne all’Azienda sanitaria, pubbliche o private non accreditate, con le quali l’Azienda stipula apposita convenzione. Sono comprese anche le attività di diagnostica strumentale e di laboratorio, di day hospital, di day surgery e di ricovero, nonché le prestazioni farmaceutiche ad esso collegate, sia nelle strutture ospedaliere che territoriali, con oneri a carico dell’assistito, di assicurazioni o dei fondi integrativi del SSN di cui all’art. 9 del D.Lgs. n. 502/92. Si considera ALPI a tutti gli effetti, anche se oggetto di specifico accordo, l'attività del professionista o dell'équipe svolta, su richiesta dell'Azienda/Istituto in situazioni eccezionali ovvero quando sia necessario ridurre le liste di attesa per il rispetto degli standard prefissati dalla Regione. L’ALPI è autorizzata a condizione che:
Le disposizioni relative all’ALPI si applicano a tutto il personale della dirigenza che non abbia optato per l’attività extramuraria, nonché, ai soli fini dell’attribuzione degli incentivi economici, al restante personale sanitario e degli altri ruoli che collabora per l’esercizio dell’attività ALPI.
L’attività libero-professionale viene erogata nel rispetto dell’equilibrio tra attività istituzionali e libero-professionali secondo quanto previsto dall’art. 15-quinquies, comma 3 del D.Lgs. 502/1992 . Successivamente, l’articolo 22-bis del decreto legge 223/2006 ha affidato alle Regioni il compito di controllare le modalità di svolgimento dell’attività intramoenia dei dirigenti sanitari, stabilendo un limite in termini quantitativi all’attività libero professionale. Il decreto legge citato, infatti, impone che l'attività libero-professionale non superi sul piano quantitativo, nell'arco dell'anno, l'attività istituzionale dell’anno precedente.
In materia, l’articolo 1, comma 5, della legge 120/2007, ha precisato che ogni azienda sanitaria locale, azienda ospedaliera, azienda ospedaliera universitaria, policlinico universitario a gestione diretta ed IRCCS di diritto pubblico predispone un piano aziendale sul funzionamento delle singole unità operative e sui volumi da assegnare rispettivamente all’attività istituzionale e all’ALPI. I piani aziendali sono approvati sentito il parere del Collegio di direzione, o qualora esso non sia costituito, di una commissione paritetica di sanitari dell’azienda di riferimento.
In tal senso, l’Accordo Stato-Regioni del 18 novembre 2010, adottato al fine di realizzare un adeguato coordinamento tra Stato, Regioni e Province autonome per favorire la compiuta attuazione della disciplina dell’attività libero-professionale, ha ulteriormente precisato che, al fine di garantire un corretto ed equilibrato rapporto tra attività istituzionale e attività libero-professionale, i piani di attività della programmazione regionale e aziendale prevedono:
Per quanto riguarda la cosiddetta “intramoenia allargata” (l’attività libero professionale svolta in spazi sostitutivi fuori dall’azienda), tutte le disposizioni che l’hanno consentita, hanno sottolineato l’eccezionalità e la transitorietà dell’utilizzo di spazi sostitutivi fuori dell’azienda e, in alternativa, degli studi professionali. L’articolo 72, comma 11, della legge 448/1998, ha stabilito che il direttore generale, fino alla realizzazione di strutture idonee e spazi distinti per l'esercizio dell'attività libero professionale intramuraria in regime di ricovero ed ambulatoriale, è tenuto ad assumere le specifiche iniziative per reperire fuori dall'azienda spazi sostitutivi in strutture non accreditate nonché ad autorizzare l'utilizzazione di studi professionali privati e ad attivare altresì misure atte a garantire la progressiva riduzione delle liste d'attesa per le attività istituzionali, sulla base di quanto previsto da un atto di indirizzo e coordinamento a tal fine adottato.
In particolare, l’articolo 15-quinquies, comma 10, del D.Lgs. 502/1992 consente l'utilizzazione del proprio studio professionale con le modalità previste dall'atto di indirizzo e coordinamento di cui al D.P.C.M. 27 marzo 2000, fermo restando per l'azienda sanitaria la possibilità di vietare l'uso dello studio nel caso di possibile conflitto di interessi. L’uso dello studio professionale è però consentito solo in caso di carenza di strutture e spazi aziendali idonei, limitatamente alle attività libero-professionali in regime ambulatoriale e fino alla data, certificata dalla regione o dalla provincia autonoma (PA), del completamento da parte dell'azienda sanitaria di appartenenza degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell’ALPI. Le regioni possono disciplinare in modo più restrittivo la materia in relazione alle esigenze locali. L'esercizio straordinario in studi professionali dell'attività libero-professionale intramuraria è stato in ultimo autorizzato dal già citato articolo 22-bis, comma 3, del decreto legge 223/2006, che lo rimette all’autonomia organizzativa di ogni singola azienda sanitaria, pur nel rispetto delle modalità stabilite dalle regioni e dalle PA e sulla base dei principi previsti nell'atto di indirizzo e coordinamento di cui al D.P.C.M. 27 marzo 2000.
Il D.Lgs. 254/2000 ha introdotto, nel corpo del D.Lgs. 502/1992, anche gli articoli 15-duodecies e 15-quattordecies che definiscono in maniera più puntuale alcuni aspetti dell’intramoenia. Di particolare interesse, l’articolo 15-duodecies che affida alle Regioni e alle PA il compito di definire un programma per la realizzazione di strutture sanitarie per l'attività libero-professionale intramuraria. A favore degli interventi programmati, ciascuna regione può utilizzare i fondi ex articolo 20 della legge 67/1998 destinati all'edilizia sanitaria. In caso di ritardo ingiustificato, rispetto agli adempimenti fissati dalle regioni per la realizzazione delle nuove strutture e di quanto occorrente al loro funzionamento, la Regione dve provvedervi mediante la nomina di commissari ad acta. Come strumento di verifica l’articolo 15-quattordies istituisce, con decreto del Ministro della Sanità d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, un organismo di monitoraggio continuo, l'Osservatorio per l'attività libero-professionale, con il compito di acquisire, per il tramite delle regioni, gli elementi di valutazione e, quindi di elaborare, in collaborazione con i medesimi enti, una Relazione da trasmettersi annualmente al Parlamento sullo stato di attivazione e realizzazione degli spazi e delle strutture destinate all'attività libero-professionale, sulle disposizioni regionali, contrattuali ed aziendali concernenti l'attività libero-professionale nonché sul rapporto fra attività istituzionale ed attività intramuraria.
La legge 3 agosto 2007, n. 120 ha previsto nuove norme in merito alle modalità di esercizio della libera professione e soprattutto ha fissato tempi certi, ma sempre prorogati da successivi provvedimenti, per la realizzazione di idonei spazi aziendali, nonché per il definitivo passaggio al regime ordinario del sistema dell’attività libero professionale intramuraria. La legge prescrive diverse azioni individuando responsabilità tanto a carico delle regioni e PA, quanto a carico delle singole aziende.
In merito ai termini per il definitivo passaggio al regime ordinario dell’ALPI, la legge 120/2007 ha stabilito che, per garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria, le regioni e le PA assumono, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli IRCCS di diritto pubblico, le iniziative più idonee per assicurare gli interventi di ristrutturazione edilizia, necessari per rendere disponibili i locali destinati a tale attività. La stessa legge 120/2007, all'articolo 1, comma 2, ha ribadito l'autorizzazione all' utilizzo, in via straordinaria e previa autorizzazione aziendale, del proprio studio professionale per l’esercizio dell'ALPI, fissando, per la cessazione del regime straordinario, termini temporali, più volte prorogati dalle leggi annuali di proroga.
Il decreto legge 158/2012 ha precisato aspetti già precedentemente normati e ha introdotto alcune innovazioni con l’intento di delineare il passaggio a regime dell’ALPI. Le tappe fondamentali del processo di riforma sono: la ricognizione, da parte delle regioni, entro il 31 dicembre 2012, degli spazi per lo svolgimento dell’ALPI e l’adozione, entro il 30 aprile 2013, di un programma sperimentale che preveda lo svolgimento del’attività libero-professionale intramuraria presso gli studi privati dei professionisti collegati in rete. Dal 28 febbraio 2015 l’intramoenia allargata potrà essere posta a regime. In particolare:
E’ stata infine prevista la rideterminazione delle tariffe, attraverso la definizione di un tariffario comprendente gli importi, da corrispondere a cura dell’assistito, che consentiranno di coprire, per ogni prestazione, i compensi del professionista, dell'équipe e del personale di supporto, articolati secondo criteri di riconoscimento della professionalità nonché i costi pro-quota per l’ammortamento e la manutenzione delle apparecchiature, e quelli necessari ad assicurare la copertura di tutti i costi diretti ed indiretti sostenuti dalle aziende, ivi compresi quelli connessi alle attività di prenotazione e di riscossione degli onorari e quelli relativi alla realizzazione dell’infrastruttura di rete. Anche i costi della prima implementazione della rete, seppur stimati in via preventiva, saranno coperti attraverso la rideterminazione delle tariffe.
Il processo di riorganizzazione, modulato come sopra illustrato su termini temporali, prevede una serie di adempimenti che di seguito vengono esaminati nel dettaglio.
Entro il 31 dicembre 2012, le regioni e le PA, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative delle categorie interessate, adottano provvedimenti tesi a garantire che le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli IRCCS di diritto pubblico provvedano ad una ricognizione straordinaria degli spazi già disponibili per l’esercizio dell’ALPI nonché ad una valutazione dettagliata dei volumi delle prestazioni dell’ultimo biennio nelle strutture interne, esterne e negli studi professionali. La ricognizione ha per oggetto anche gli spazi che si renderanno disponibili in seguito all'applicazione delle misure di cui all'art. 15 del decreto legge 95/2012 (c.d. Spending review). Sulla base della ricognizione, le regioni e le PA possono autorizzare l’azienda sanitaria, ove ne sia adeguatamente dimostrata la necessità e nel limite delle risorse disponibili, ad acquisire spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria ordinaria. Gli spazi ambulatoriali possono essere acquisiti tramite l'acquisto o la locazione presso strutture sanitarie autorizzate non accreditate, nonché tramite la stipula di convenzioni con altri soggetti pubblici, previo parere del collegio di direzione. Qualora quest’ultimo non sia costituito, il parere è reso da una commissione paritetica di sanitari, costituita a livello aziendale, che esercitano l'attività libero-professionale intramuraria. Le regioni e le PA trasmettono i risultati della ricognizione all’AGENAS e all’Osservatorio nazionale sull’attività libero professionale.
Il termine utile, per le regioni e le PA, per conseguire il collaudo degli interventi di ristrutturazione edilizia finalizzati al programma per l'ALPI viene prorogato fino al 31 dicembre 2014. Il mancato rispetto del termine comporta, ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 120/2007, la revoca della copertura finanziaria delle risorse statali assegnate. La proroga si inquadra nell'ambito dei progammi regionali per la realizzazione degli interventi di edilizia sanitaria previsti dall'articolo 20 della legge finanziaria 1988 (legge 67/1988).
In merito a quanto brevemente illustrato, occorre ricordare che se da una parte l'articolo 15 del decreto legge 95/2012 ha previsto misure di razionalizzazione delle reti ospedaliera e territoriale che possono liberare spazi utilizzabili per l'ALPI, dall'altro l'articolo 1, comma 138, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) ha inasprito la disciplina recata dall'articolo 12 del decreto legge 98/2011 in materia di acquisto di immobili da parte della Pubblica Amministrazione. In particolare si è previsto che, a decorrere dal 1° gennaio 2014, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale, al fine di ottenere risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, acquistano immobili solo nel caso in cui sia comprovata documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestata dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Sul sito internet dell’ente deve essere data preventiva notizia dell’operazione di acquisto, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito.
L'ultima edizione della relazione dell'Osservatorio per l'attività libero-professionale, riferita al secondo semestre 2010, mette in evidenza lo stato di avanzamento dei programmi regionali per la realizzazione di strutture sanitarie per l'attività libero-professionale intramuraria.
Per quanto riguarda gli interventi di ristrutturazione nell'ambito dell'edilizia sanitaria, ai sensi dell'articolo 20 della legge 67/1988, il decreto ministeriale 8 giugno 2001, ha ripartito fra le regioni l'importo di 826.143.140,92 euro; sono stati ammessi a finanziamento 418 interventi, per complessivi 746.843.755,27, pari al 90,40 per cento delle risorse disponibili. Soltanto 9 regioni e province autonome hanno completato il programma [provincia autonoma di Trento (per 11 interventi), Veneto (per 39 interventi), Liguria (per 22 interventi), Emilia Romagna (per 69 interventi), Toscana (per 27 interventi), Umbria (per 9 interventi), Lazio (per 49 interventi), Basilicata (per 7 interventi) e Sardegna (per 11 interventi)].
Accanto agli interventi di ristrutturazione, 15 regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana, Veneto) hanno acquisito spazi ambulatoriali esterni, tramite acquisto, locazione e stipula di convenzioni. In due regioni e province autonome (Toscana, provincia autonoma di Bolzano) non viene esercitata l'intramoenia allargata; in sei regioni (Basilicata, Liguria, Marche, Umbria, Valle d'Aosta, provincia autonoma di Trento) tutte le aziende hanno attivato tali strumenti; in dieci regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte. Sardegna, Sicilia, Veneto) parte delle aziende insistenti sui rispettivi territori hanno implementato specifiche attività di verifica e controllo sull'intramoenia allargata; in due regioni nessuna azienda ha implementato tali specifiche attività; per una regione (Lazio) il dato fornito non è completo. La relazione sottolinea come il dato del superamento dell'intramoenia allargata, riscontrato in Toscana e a Bolzano, comporti l’esistenza di modelli virtuosi, da promuovere e il trasferire in altre realtà.
Dal Conto Annuale 2009 pubblicato dalla Ragioneria Generale dello Stato, si evince che la quasi totalità dei dirigenti medici e sanitari (mediamente il 95 per cento) ha optato per il rapporto di esclusività con la struttura sanitaria presso la quale opera. Tuttavia, non tutti i dirigenti con rapporto esclusivo esercitano effettivamente l'attività libero professionale intramuraria. Il conto annuale fornisce una quantificazione dell'indennità di esclusività percepita dai dirigenti medici e sanitari, che nel 2009 ha quasi raggiunto quota 1.359 milioni di euro, in media 10.696 euro anno pro-capite, con un aumento di oltre il 6 per cento dal 2005.
Infine, dai dati economici-finanziari delle AUSL e delle AO si evince che la spesa per prestazioni erogate in regime di intramoenia è cresciuta del 10,2% dal 2006 al 2009, passando da 1.148.171 euro a 1.264.776 euro, corrispondenti rispettivamente ad una spesa pro-capite (calcolata rispettivamente sulla popolazione residente al 1° gennaio 2006 ed al 1° gennaio 2009) di 19,5 euro/anno per il 2006 e di 21,1 euro/anno nel 2009. Il dato relativo al consuntivo dell’anno 2009 mette in luce un'inversione di tendenza nella serie storica dei costi per i quali si registra per la prima volta dal 2006 una variazione negativa (-0,6%) che, seppur associata ad un incremento lieve dei ricavi (+0,5%), genera un aumento del saldo piuttosto significativo (+9,1%).
Entro il 31 marzo 2013, le regioni e le PA devono, con disposizioni regionali, predisporre ed attivare un infrastruttura di rete per il collegamento in voce o in dati, trale l'ente o l'azienda e le singole strutture dedicate all'ALPI. La disposizione regionale, precisando le funzioni e le competenze dell’azienda sanitaria e del professionista, prevede l’espletamento, in via esclusiva, del servizio di prenotazione, l’inserimento obbligatorio e la comunicazione, in tempo reale, all’azienda sanitaria competente, dei dati relativi all’impegno orario del sanitario, ai pazienti visitati, alle prescrizioni e agli estremi dei pagamenti, anche in raccordo con le modalità di realizzazione del fascicolo sanitario elettronico. La norma regionale deve anche indicare le misure da adottare in caso di emergenze assistenziali o di malfunzionamento del sistema.
L'infrastruttura di rete è predisposta grazie alla rideterminazione del tariffario attuata proprio per coprire integralmente tutti i costi direttamente e indirettamente correlati alla gestione dell'attività libero-professionale intramuraria, ivi compresi quelli connessi alle attività di prenotazione e di riscossione degli onorari. La rideterminazione delle tariffe deve pertanto essere operata in modo da coprire i costi della prima implementazione della rete, anche stimati in via preventiva.
Per la realizzazione dell'infrastruttura di rete per il collegamento in voce o in dati, in condizioni di sicurezza, tra l’ente/azienda e le singole strutture nelle quali vengono erogate le prestazioni di ALPI, il decreto legge 158/2012 aveva previsto, entro il 30 novembre 2012, l'emanazione di un decreto per la determinazione delle modalità tecniche dell'infrastruttura. Il decreto, di natura non regolamentare, del Ministro della salute, deve essere emanato previa intesa con la Conferenza Stato-regioni, nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs.196/2003 recante il codice in materia di protezione dei dati personali.
Il 21 febbraio 2013, il Ministro della salute, ha firmato il decreto sul quale la Conferenza Stato-Regioni ha sancito l’intesa e l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha espresso parere favorevole. L’infrastruttura di rete per il collegamento in voce è realizzata fornendo al professionista accesso telefonico al sistema CUP (Centro Unico di Prenotazione), se esistente, o ad altro analogo sistema per le prenotazioni utilizzato dall’azienda/ente sanitario, mentre l'infrastruttura di rete per il collegamento in dati è realizzata preferibilmente con una connessione secondo le regole stabilite dal Sistema pubblico di connettività (SPC).
Entro il 30 aprile 2013 il pagamento di tutte le prestazioni deve essere corrisposto all'ente o azienda del SSN, mediante mezzi di pagamento che assicurino la tracciabilità della corresponsione di qualsiasi importo.
Gli importi per l'ALPI, da corrispondere a cura dell’assistito sono definiti, d’intesa con i dirigenti interessati, previo accordo in sede di contrattazione integrativa aziendale. Gli importi, articolati secondo criteri di riconoscimento della professionalità, consentiranno di coprire, per ogni prestazione, i compensi del professionista, dell’équipe e del personale di supporto, nonchè i costi pro-quota per l’ammortamento e la manutenzione delle apparecchiature, e quelli necessari ad assicurare la copertura di tutti i costi diretti ed indiretti sostenuti dalle aziende, ivi compresi quelli connessi alle attività di prenotazione e di riscossione degli onorari e quelli relativi alla realizzazione dell’infrastruttura di rete. Nell’applicazione dei predetti importi, quale ulteriore quota, oltre quella già prevista dalla vigente disciplina contrattuale, una somma pari al 5 per cento del compenso del libero professionista viene trattenuta dal competente ente o azienda del Servizio sanitario nazionale per essere vincolata ad interventi di prevenzione ovvero volti alla riduzione delle liste d’attesa, ai fini del progressivo allineamento dei tempi di erogazione delle prestazioni nell'ambito dell'attività istituzionale ai tempi medi di quelle rese in regime di libera professione intramoenia; anche con riferimento alla definizione delle prestazioni aggiuntive richieste, in via eccezionale e temporanea, ad integrazione dell’attività istituzionale, dalle aziende ai propri dirigenti allo scopo di ridurre le liste di attesa, soprattutto in presenza di carenza di organico ed impossibilità anche momentanea di coprire i relativi posti con personale in possesso dei requisiti di legge.
Il decreto legge 158/2012 delinea un percorso, da concludersi nel febbraio 2015, che permette lo svolgimento a regime dell'ALPI presso gli studi professionali.
Le regioni e le PA, nel cui territorio vi siano aziende sanitarie nelle quali non risultino spazi disponibili per l'esercizio dell'ALPI, possono autorizzare, limitatamente alle medesime aziende sanitarie, l'adozione di un programma sperimentale che preveda lo svolgimento delle stesse attività, in via residuale, presso gli studi privati dei professionisti collegati in rete. Viene ribadito il principio, già contenuto nella legge 120/2007 del controllo dei volumi delle prestazioni libero-professionali e il divieto - anch'esso già presente – che essi non superino, globalmente considerati, quelli eseguiti nell’orario di lavoro.
Come per l'intramuraria ordinaria, anche gli studi professionali dovranno provvedere ad allarciarsi all'infrastruttura di rete per il collegamento in voce e dati e dovranno altresì garantire la tracciabilità dei pagamenti entro il 30 aprile 2013. Nel caso dei singoli studi professionali in rete, la necessaria strumentazione è acquisita dal titolare dello studio, a suo carico, ed entro il 30 aprile 2013. Alla stessa data deve essere adottato un programma sperimentale che preveda lo svolgimento del’attività libero-professionale intramuraria presso gli studi privati dei professionisti collegati in rete. Il collegamento in rete fra studi privati ed aziende sanitarie dovrà avvenire previa sottoscrizione di una convenzione annuale rinnovabile tra il professionista interessato e l’azienda sanitaria di appartenenza, sulla base di uno schema tipo approvato con accordo sancito dalla Conferenza Stato-regioni.
Le autorizzazioni relative all’esercizio straordinario in studi professionali dell’attività intramuraria cessano al 31 dicembre 2012. Oltre quella data, la temporanea continuazione dell'ALPI presso studi professionali, può essere concessa, fino all’attivazione del loro collegamento operativo alla infrastruttura di rete e comunque non oltre il 30 aprile 2013, su domanda degli interessati e con l’applicazione del principio del silenzio-assenso.
Entro il 28 febbraio 2015 la regione interessata effettua la verifica del programma sperimentale per lo svolgimento della attività libero professionale intramuraria, presso gli studi professionali collegati in rete, in base a criteri fissati con accordo sancito dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. In caso di verifica positiva, la regione medesima, ponendo contestualmente termine al programma sperimentale, può consentire in via permanente ed ordinaria, limitatamente allo specifico ente o azienda del Servizio sanitario regionale ove si è svolto il programma sperimentale, lo svolgimento della attività libero professionale intramuraria presso gli studi professionali collegati in rete. In caso di inadempienza da parte dell’ente o azienda del Servizio sanitario regionale, provvede la regione o provincia autonoma interessata. In caso di verifica negativa, tale attività cessa entro il 28 febbraio 2015. Degli esiti delle verifiche regionali viene data informazione al Parlamento attraverso la relazione annuale dell'Osservatorio per l'attività libero-professionale.
Non può essere esercitata ALPI in studi professionali, anche se collegati in rete, ove operino, accanto a professionisti dipendenti in regime di esclusività o convenzionati con il SSN, anche professionisti non dipendenti o non convenzionati del SSN ovvero dipendenti non in regime di esclusività. E' prevista deroga, su disposizione regionale, e a condizione che sia garantita la completa tracciabilità delle prestazioni di tutti i professionisti dello studio professionale associato, con l'esclusione, in ogni caso, di qualsiasi addebito a carico dell’ente o azienda del SSN.
Le modifiche introdotte alla disciplina dell'ALPI dal decreto legge 158/2012, inaspriscono anche l'impianto sanzionatorio in materia di ALPI. Come precedentemente previsto, le regioni e le PA assicurano il rispetto delle previsioni, nazionali e regionali, in materia, anche mediante l'esercizio di poteri sostitutivi e la destituzione, nell'ipotesi di grave inadempienza, dei direttori generali delle aziende, policlinici ed IRCSS. Innovando, peri i direttori generali inadempienti viene prevista anche la decurtazione della retribuzione di risultato pari ad almeno il 20 per cento.
La disciplina principale del settore farmaceutico è stata riordinata dalla legge 8 novembre 1991, n. 362, (sulla composizione della commissione giudicatrice, sui criteri per la valutazione dei titoli e l'attribuzione dei punteggi, sulle prove di esame e le modalità di svolgimento del concorso di assegnazione di sedi farmaceutiche, vedi il D.P.C.M. 30 marzo 1994 n. 298, di attuazione dell'art. 4, comma 9, della citata legge 362/1991), che ha parzialmente modificato la precedente disciplina, intervenendo su alcune disposizioni della legge 2 aprile 1968, n. 475 (Norme concernenti il servizio farmaceutico), attuata dal D.P.R. 21 agosto 1971, n. 1275. e del Testo unico delle leggi sanitarie, approvato con Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265.
L’art. 8 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria) disciplina invece le convenzioni del SSN con le farmacie e i relativi servizi prestati, integrati dal D.Lgs. 3 ottobre 2009, n. 153 con nuovi servizi (vedi il D.M. 16 dicembre 2010 che ha disciplinato le prestazioni professionali previste e il D.M. 08 luglio 2011, sulla specialistica ambulatoriale, i pagamenti, e il ritiro dei referti in farmacia), intervenendo anche in materia di indennità di residenza per i titolari di farmacie rurali,. Si ricordano inoltre il D.Lgs. 8 agosto 1991 n. 258 (in materia di formazione e diritto di stabilimento dei farmacisti) e il D.Lgs. 8 luglio 2003 n. 277 (Riconoscimento delle qualifiche professionali e le professioni di infermiere professionale, dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista e medico). Interventi nel campo della distribuzione di farmaci sono stati determinati da D.L. 223/2006 e dal D.L. 201/2011. Da ultimo, il D.Lgs. 24 aprile 2006 n. 219 ha disciplinato il codice unico dei farmaco ad uso umano, recante tra l’altro la classificazione del farmaco per la fornitura.
Per quanto riguarda le disposizioni previste dal decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, l'articolo 11 interviene in diversi ambiti.
In particolare, il quorum minimo demografico, per l’apertura di una farmacia è pari a 3.300 abitanti risultando inferiore ai previgenti parametri demografici (5.000 abitanti per comuni fino a 12.500 abitanti e 4.000 abitanti per gli altri comuni). Il parametro del’eccedenza di abitanti, per l’apertura di un ulteriore farmacia deve essere maggiore del 50 per cento di 3.300 abitanti -1651 abitanti, (comma 1, lett. a).
I commi 2 e 3 dell'art. 1 della L. 475/1968 prevedevano, rispettivamente, una farmacia ogni 5.000 abitanti nei comuni con popolazione fino a 12.500 abitanti e una farmacia ogni 4.000 abitanti negli altri comuni. La popolazione eccedente, rispetto ai parametri di cui al comma 2, veniva computata, ai fini dell'apertura di una farmacia, qualora fosse pari ad almeno il 50 per cento dei parametri stessi.
Le regioni e le province autonome possono prevederne l’apertura di ulteriori farmacie in aree ad alta frequentazione (nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti civili a traffico internazionale, nei porti, nelle aree di servizio autostradali, nei centri commerciali) con un limite del 5 per cento del totale delle farmacie, comprendenti le nuove sedi, (comma 1, lett. b), che aggiunge il comma 1-bis all'articolo 1 della L. 475/1968), da assegnarsi tutte ai comuni, competenti per territorio, fino al 2022, (comma 10). La norma in esame deroga all'art. 9 della L. 475/1968 che prevede che la titolarità delle farmacie che si rendono vacanti e di quelle di nuova istituzione a seguito della revisione della pianta organica può essere assunta dal comune.
Il Comune deve stabilire il numero delle farmacie risultante esattamente dell’applicazione dei citati parametri previsti, prevedere l’ubicazione della farmacie secondo criteri di equa distribuzione e di copertura delle aree scarsamente abitate, usare le rilevazioni Istat sulla popolazione per la revisione biennale della pianta organica (comma 1, lett. c), che sostituisce e aggiorna l'art. 2 della L. 475/1968).
Il Comune deve inoltre (comma 2) individuare il numero di nuove farmacie disponibili sul territorio, sulla base dei dati Istat al 31 dicembre 2010 della popolazione residente sul territorio, ed inviare i dati alla Regione entro e non oltre 30 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge.
Le Regioni e le Province autonome (comma 3) devono bandire il concorso straordinario per soli titoli, entro 60 giorni dall'invio dei dati comunali, per il conferimento delle nuove sedi o vacanti, dalla cui assegnazione sono esclusi i comuni, e concludere il concorso straordinario e l'assegnazione delle sedi farmaceutiche entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge medesimo.
L'art. 4 della L. 8 novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore farmaceutico) prevedeva che il conferimento delle sedi farmaceutiche vacanti o di nuova istituzione che risultino disponibili per l'esercizio da parte di privati ha luogo mediante concorso provinciale per titoli ed esami bandito entro il mese di marzo di ogni anno dispari dalle regioni e dalle province autonome.
Con l'art. 23, comma 12-septiesdecies, del D.L. 95/2012, il Ministero della salute, in collaborazione con le regioni e le province autonome realizza una piattaforma tecnologica ed applicativa unica per lo svolgimento delle predette procedure, da mettere a disposizione delle stesse regioni e province autonome e dei candidati.
Per agevolare l’accesso di giovani farmacisti alla titolarità delle farmacie al concorso straordinario sono ammessi, (comma 3), esclusivamente i farmacisti, cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea, iscritti all'albo professionale:
Si tratta di quelli indicati all'articolo 4, comma 1, lettere d), e) I) del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114: esercizi di vicinato, aventi superficie di vendita non superiore a 150 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 250 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti, medie strutture di vendita, gli esercizi aventi superficie superiore ai limiti di cui al punto precedente e fino a 1.500 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 2.500 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti, grandi strutture di vendita, gli esercizi aventi superficie superiore ai limiti di cui al punto precedente.
Due ulteriori condizioni per l’accesso al concorso straordinario, riguardano: il divieto per il candidato di concorrere in più di due regioni o province autonome e il limite di età inferiore a 65 anni alla data di scadenza del termine per la partecipazione al concorso prevista dal bando (comma 5). Sono valutati, altresì, titoli preferenziali, l’età dei candidati e la scelta di forme associative di gestione della farmacia.
Al fine di garantire parità di condizioni nella valutazione dell'esercizio professionale dei candidati al concorso straordinario si equiparano i punteggi delle seguenti figure professionali (comma 5):
L'art. 23, comma 12-duodevicies, lettera b) del D.L. 95/2012 introduce il titolo di ricercatore universitario nei corsi di laurea in farmacia e in chimica e tecnologia farmaceutiche, tra i titoli previsti per la valutazione dell'esercizio professionale nel concorso straordinario, assegnando per ogni anno e per ciascun commissario, 0,30 punti per i primi dieci anni e 0,08 punti per i secondi dieci anni.
Si ricorda che l'art. 5 del citato D.P.C.M. 298/1994, in particolare, prevede che per la valutazione dei titoli, ogni commissario dispone: a) fino a un massimo di 3 punti per titoli di studio e di carriera; b)fino a un massimo di 7 punti per titoli relativi all'esercizio professionale, con esclusione dei periodi di esercizio professionale superiori ai venti anni ed inferiori ad un anno. Ai fini della valutazione dell'esercizio professionale, sono assegnati i seguenti punteggi: a) per l'attività di titolare e direttore di farmacia aperta al pubblico: punti 0,5 per anno per i primi dieci anni; 0,2 per anno per i secondi dieci anni; b) per l'attività di collaboratore di farmacia aperta al pubblico: punti 0,45 per anno per i primi dieci anni; 0,18 per anno per i secondi dieci anni; c) per l'attività di professore ordinario di ruolo della facoltà di farmacia, per l'attività di farmacista dirigente dei ruoli delle unità sanitarie locali, per l'attività di direttore di farmacia ospedaliera o di farmacia militare, per l'attività di direttore tecnico di stabilimento farmaceutico: punti 0,40 per anno per i primi dieci anni; 0,15 per anno per i secondi dieci anni; d) per l'attività di direttore di aziende farmaceutiche municipalizzate, di informatore scientifico o di collaboratore ad altro titolo di industria farmaceutica, di coadiutore o collaboratore dei ruoli delle unità sanitarie locali, di farmacista militare, di direttore di deposito o magazzino all'ingrosso di medicinali, di direttore tecnico di officine di produzione di cosmetici, di professore universitario associato della facoltà di farmacia, di farmacista dipendente del Ministero della sanità e dell'Istituto superiore di sanità, delle regioni e delle province autonome: punti 0,35 per anno per i primi dieci anni; 0,10 per i secondi dieci anni.
Le Regioni e le Province autonome devono:
Viene ridotto da due anni a sei mesi il termine che agli eredi del titolare o del socio di società di una farmacia è concesso per la cessione dei diritti previsti. La decorrenza del suddetto termine inizia dalla presentazione della dichiarazione di successione (comma 11)
DAl 1° gennaio 2015, non è consentito al direttore di farmacia privata superare nell’esercizio professionale il limite del requisito di età pensionabile (pari a 65 anni, con una permanenza massima fino a 70 anni, art. 15-nonies del D.Lgs. 502/1992), con eslusione delle faramacie rurali sussidiate (modifica apportata dall'art. 23, comma 12-duodevicies, lett. e) del D.L. 95/2012) (comma 17).
I poteri sostitutivi degli organi amministrativi competenti:
Le farmacie possono svolgere il servizio in turni e orari oltre quelli obbligatori (comma 8) e possono, inoltre, praticare sconti sui tutti i farmaci e prodotti direttamente pagati dai clienti, dandone adeguata informazione. In pratica si estende a tutti i farmaci per i quali è necessaria la prescrizione obbligatoria del medico, non a carico del SSN, venduti in farmacia, la possibilità di sconto già prevista per i farmaci senza obbligo di prescrizione (comma 8). L'articolo 5 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 ha previsto la possibilità di vendere i medicinali da banco o di automedicazione, e quelli senza obbligo di prescrizione (SOP) pagati interamente dal cittadino, negli esercizi commerciali definiti parafarmacie ovvero corner dei centri commerciali. Tali medicinali, ai sensi del comma 3 dell'art. 5, possono essere scontati da farmacie, parafarmacie ovvero corner dei centri commerciali. Su tale materia ha disposto anche l'art. 32, comma 4 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita).
In tema di medicinali sono previsti i seguenti obblighi:
L'art. 7 del D.L.18 settembre 2001 n. 347, (Interventi urgenti in materia di spesa sanitaria) stabilisce un prezzo di rimborso a favore del farmacista e a carico del SSN per la vendita dei farmaci equivalenti, fino al prezzo più basso del corrispondente prodotto disponibile in regione, presente in apposite direttive regionali. Dal 2011, ai sensi dell'art. 11, comma 9 del D.L. 78/2010, per i medicinali equivalenti, con rimborso a carico del SSN (classe A) l'AIFA, attraverso una ricognizione sui prezzi vigenti nei paesi dell'Unione europea, a fissare il prezzo massimo di rimborso per confezione, a parità di principio attivo, di dosaggio, di forma farmaceutica, di modalità di rilascio e di unità posologiche. In tale ambito il medico nel prescrivere i farmaci, con prezzo superiore al minimo, ha facoltà di prescrivere la non sostituibilità da parte del farmacista. Il farmacista, in assenza dell'indicazione di non sostituibilità o, dopo aver informato l'assistito, di non accettazione della sostituzione da parte di quest'ultimo, è obbligato a consegnare il farmaco avente il prezzo più basso.
Al fine di rafforzare l’obbligo del farmacista di sostituzione del farmaco con quello più conveniente, introduce, come ulteriore condizione per la vendita di un medicinale con prezzo più alto di quello di rimborso, l’espressa richiesta dell’assistito, che si aggiunge alla già prevista corresponsione della differenza tra il prezzo di vendita e quello di rimborso, (comma 12).
L'art. 15, comma 11-bis, del D.L. 95/2012 ha stabilito inoltre che, al fine di aiutare la diffusione dei farmaci equivalenti, il medico di medicina generale, in caso di prima diagnosi di una patologia cronica o in presenza di un primo episodio di patologia non cronica e a fronte del possibile utilizzo di più medicinali equivalenti, è tenuto ad indicare sulla ricetta del SSN la denominazione del principio attivo utilizzabile, senza indicare alcun farmaco specifico.
Entro il 31 dicembre 2012, l’AIFA deve identificare le confezioni monodose dei farmaci ( comma 12).Per incrementare la vendita dei farmaci fuori dalle farmacie, il comma 13 consente:
Un ulteriore requisito della farmacia convenzionata con il SSN riguarda la dotazione minima di personale, da stabilirsi in sede di rinnovo dell'accordo collettivo nazionale, in relazione al fatturato della farmacia a carico del SSN e ai nuovi servizi aggiuntivi erogati.
L'informatizzazione della Pubblica Amministrazione è un tema rilevante della XVI Legislatura.
Per l'attuazione della sanità digitale, il Piano e-Gov ha previsto una serie di interventi condivisi da tutte le amministrazioni operanti a livello centrale, regionale e locale. In particolare:
Nel corso della XVI Legislatura, il progetto di legge di iniziativa governativa A.C. 4274, esaminato in prima lettura alla Camera, ha inteso normare definitivamente una materia spesso già regolamentata a livello regionale. L'articolo 12 della pdl introduce pertanto una disciplina organica in materia di Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), mentre l'articolo 13 propone la disciplina dei sistemi di sorveglianza e dei registri di mortalità e di patologia. Tali disposizioni sono state quasi integralmente riproposte dal decreto legge 179/2012, che reca una parziale disciplina anche della cartella clinica. Per quanto riguarda l'unificazione su un unico supporto della Tessera sanitaria con la Carta nazionale dei servizi e/o la Carta d'identità elettronica, si rileva una stratificazione normativa (in ultimo il decreto legge 70/2012), che richiederà, per i successivi interventi, uno sforzo in direzione di una maggiore semplificazione e chiarezza. Risulta invece completamente attuata, sia a livello normativo che operativo, la procedura per l'invio della certificazione di malattia online.
La Tessera sanitaria (TS), istituita ai sensi dell’articolo 50, comma 1, del decreto legge 269/2003, è uno strumento indispensabile per il monitoraggio della spesa pubblica nel settore sanitario nonché per la realizzazione di misure di appropriatezza delle prescrizioni, per l'attribuzione e la verifica del budget di distretto, di farmacovigilanza e di sorveglianza epidemiologica. La tessera sanitaria può essere utilizzata per le funzionalità che ne hanno determinato l'emissione: sostituisce il tesserino di codice fiscale; abilita all'accesso delle prestazioni sanitarie erogate dal SSN su tutto il territorio nazionale ed è Tessera di assicurazione malattia (Team) ai fini del riconoscimento dell'assistenza sanitaria nei Paesi della Comunità europea.
Il decreto 11 marzo 2004 del Ministero dell'economia e delle finanze, emanato di concerto con il Ministero della salute ed il dipartimento per l'innovazione e le tecnologie della Presidenza del Consiglio dei ministri, ha definito le caratteristiche tecniche della TS .
A regime, il progetto TS prevede che la tessera contenga le informazioni sanitarie del proprietario (prescrizioni, diagnosi e referti sanitari), configurandosi pertanto come un documento personale sanitario ma anche come chiave di accesso ai servizi online forniti dal SSN. In tal senso, l’articolo 50, comma 13, del citato decreto legge 269/2003, prevede la definizione delle modalità per il successivo e progressivo assorbimento, senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato, della TS nella carta di identità elettronica o nella carta nazionale dei servizi (CNS), demandando tale processo ad appositi decreti di natura non regolamentare del Ministro per l'innovazione e le tecnologie (ora Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione).
La carta CNS, ovvero il sistema CNS, si configura come l’infrastruttura per l’accesso (via internet e digitale terrestre) ai servizi in rete della pubblica amministrazione (sanità, trasporti, biglietti) e alla gestione personalizzata delle informazioni da parte del cittadino-utente. La CNS corrisponde nella maggior parte dei casi alla Carta Regionale dei Servizi (CRS), una tessera dotata di microprocessore (smart card) che riunisce le funzioni di tessera sanitaria (TS) e carta nazionale dei servizi (CNS), configurandosi come uno strumento elettronico multiuso, finora adottato, in forma sperimentale e con modalità diverse, solo in alcune Regioni (Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e Sicilia).
Il percorso normativo che ha reso possibile la nascita della TS/CNS è delineato dal comma 11 del citato articolo 50, che consente alle regioni e alle province autonome di utilizzare, in tutto o in parte, i sistemi di monitoraggio della spesa sanitaria già sviluppati, purché risultino di efficacia ed efficienza analoga a quanto previsto per la TS dallo stesso articolo 50 del decreto legge 269/2003. Le regioni Lombardia, Veneto, Sardegna, Sicilia e Friuli-Venezia Giulia, aderendo a tale possibilità, hanno presentato richiesta al Ministero dell'economia e delle finanze affinché venissero riconosciute come tessere sanitarie le carte regionali dei servizi con microchip/certificato che le stesse regioni avevano pianificato di distribuire ai propri assistiti. Tale riconoscimento, di cui al decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 19 aprile 2006, aggiunge pertanto alla tessera sanitaria una quarta funzionalità di CNS, di competenza delle regioni emittenti. Come chiarito dal Ministero dell’economia e delle finanze in risposta ad un atto di sindacato ispettivo, lo stesso decreto subordina il riconoscimento delle carte regionali come tessere sanitarie al rispetto degli impegni assunti in sede di esame ed approvazione delle richieste di adesione al citato comma 11 dell'articolo 50 del decreto legge 269/2003.
Proprio al riguardo delle TS/CNS delle regioni Lombardia, Sicilia e Friuli-Venezia Giulia, l'Agenzia delle entrate ha fatto presente che queste vengono inviate al cittadino con una doppia lettera ad evidenziare la convergenza di compiti istituzionali distinti attuata su un unico supporto: in quanto tessera sanitaria (supporto plastificato e banda magnetica), la carta è di competenza del Ministero dell'economia e delle finanze e del Ministero della salute; in quanto carta nazionale dei servizi (contenuto del microchip), la carta è di competenza regionale, abilita all'accesso ai servizi in rete messi a disposizione dalle regioni nonché, in relazione alla normativa vigente sulle CNS, all'accesso più generale ai servizi in rete posti a disposizione dei cittadini dalle diverse Amministrazioni.
Per accelerare tale processo, il decreto legge 78/2010, all’articolo 11, comma 15, ha disposto che, in occasione del rinnovo delle tessere sanitarie in scadenza, il MEF curi la generazione e la progressiva consegna della TS-CNS, autorizzando a tal fine la spesa di 20 milioni di euro annui a decorrere dal 2011. Il decreto 20 giugno 2011 ha successivamente definito le modalità per l'assorbimento, senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato, della tessera sanitaria nella carta d'identità elettronica o nella carta nazionale dei servizi. A tal fine, le regioni e le province autonome possono chiedere al MEF, ai sensi dell'art. 50, comma 11, del decreto legge n. 269/2003, la generazione e consegna delle TS-CNS per i propri assistiti, nell'ambito della generazione e progressiva consegna delle TS che il MEF cura in occasione del processo di riemissione massiva delle TS in scadenza. A seguito dell'accordo con il MEF, le regioni e le province autonome sottoscrivono con l'Agenzia delle entrate una apposita convenzione allo scopo di garantire la validità della TS-CNS, in sostituzione del tesserino di codice fiscale e si dotano di un sistema di gestione della componente CNS delle TS-CNS. La realizzazione di servizi che attengono all'utilizzo della componente CNS delle TS-CNS è curata dalla regione o dalla provincia autonoma unicamente per le finalità e i compiti ad essa istituzionalmente attribuiti, anche in funzione delle richieste degli altri enti pubblici del territorio. Da una sezione del Portale Tessera Sanitaria è possibile avere la visione della TS-CNS regione per regione.
L'articolo 10 del decreto legge 70/2011, c.d. decreto sviluppo, è intervenuto in materia di carta di identità elettronica (CIE), da un lato riservando al Ministero dell’interno la responsabilità sul processo di produzione e rilascio della stessa, dall’altro prevedendo l’unificazione, anche progressiva, della CIE con la TS e la conseguente definizione delle modalità di realizzazione, distribuzione e gestione del documento unificato. Nelle more della definizione delle modalità di convergenza della TS nella CIE, il MEF continua ad assicurare la generazione della tessera sanitaria su supporto di Carta nazionale dei servizi. Successivamente, il decreto legge 179/2012 ha modificato parte delle disposizioni del decreto legge 70/2011 concernenti il processo di unificazione della carta di identità elettronica e della tessera sanitaria su medesimo supporto informatico. Le principali novità introdotte riguardano l’ampliamento, anche progressivo, delle possibili utilizzazioni della carta d’identità elettronica in relazione all’unificazione con la tessera sanitaria. L'ampliamento dovrà essere disposto con un D.P.C.M. che disponga anche in merito alle modifiche ai parametri della CIE e della TS necessarie per l'unificazione delle stesse sul medesimo supporto, nonché al rilascio gratuito del documento unificato, mediante utilizzazione, anche ai fini di produzione e rilascio, di tutte le risorse disponibili a legislazione vigente per la tessera sanitaria. Le modalità tecniche di produzione, distribuzione, gestione e supporto all'utilizzo del documento unificato sono stabilite entro sei mesi con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il MEF, con il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione e con il Ministro delegato per l'innovazione tecnologica e, limitatamente ai profili sanitari, con il Ministro della salute. Per la realizzazione e il rilascio gratuito del documento unificato, in aggiunta alle risorse già previste per il Progetto Tessera Sanitaria, è autorizzata la spesa di 60 milioni di euro per l'anno 2013 e di 82 milioni di euro a decorrere dal 2014.
A detta della relazione illustrativa al ddl di conversione, questo finanziamento è destinato, per il 2013, alla realizzazione delle piattaforme centrali (onde attuare il processo di produzione, personalizzazione e distribuzione del documento unificato) nonché alla fornitura ai Comuni delle necessarie postazioni informatiche (per l’acquisizione e la trasmissione delle richieste e dei dati dei cittadini). Negli anni successivi, è destinato alla distribuzione del documento unificato nei Comuni progressivamente abilitati. Si ricorda come il finanziamento disposto si aggiunge a quello - pari a 20 milioni annui (dal 2011) - disposto dall’art. 11, comma 15 del D.L. n. 78/2010 ai fini dell'evoluzione della Tessera Sanitaria (TS) verso la Tessera Sanitaria-Carta nazionale dei servizi (TS-CNS), in occasione del rinnovo delle tessere in scadenza. Non l'intera quota di quello stanziamento annuo di 20 milioni è utilizzabile per il documento unificato, giacché permane (seppur in quantità via via decrescente) una produzione residua di TS-CNS (per i cittadini stranieri, per i cittadini italiani con carta d’identità cartacea ancora valida) nonché della tessera europea di assicurazione di malattia (TEAM) presente sul retro della TS-CNS, non inclusa nel futuro documento unificato.
In definitiva, l’unificazione della tessera sanitaria con CNS o CIE, è stata oggetto di una complessa normazione stratificata. Negli ultimi anni si è, infatti, assistito, sia a livello nazionale che regionale, a una proliferazione di carte che, a vario titolo, consentono l'accesso a servizi messi a disposizione dalle diverse amministrazioni. Ebbene, nel tentativo di omogeneizzare le diverse realtà locali, il piano e-Gov 2012 ha previsto, tra l’altro, che le carte nazionali/regionali dei servizi sostituiscano o integrino le tessere sanitarie in tutte le regioni italiane (obiettivo 17).
Il Centro Unificato di Prenotazione (CUP) è il sistema centralizzato informatizzato di prenotazione delle prestazioni sanitarie, incaricato di gestire l'intera offerta dei servizi sanitari (SSN, regime convenzionato, intramoenia) presenti sul territorio di riferimento. Il 29 aprile 2010 è stata siglata dalla Conferenza Stato-Regioni l’intesa sulle Linee Guida nazionali del sistema CUP. Le Linee Guida, predisposte dal Ministero della salute in stretta collaborazione con le regioni, indicano il percorso per lo sviluppo di un centro CUP unificato a livello nazionale in cui far confluire i sistemi CUP, oggi presenti a livello provinciale e regionale, che operano spesso in modalità isolata e con canali differenziati.
La previsione, nell’ambito delle Linee guida relative ai sistemi CUP, delle farmacie territoriali quale possibile canale di accesso ai servizi di prenotazione da parte dei cittadini, ha trovato riscontro nel decreto legislativo 153/2009 che delinea il nuovo modello di farmacia dei servizi. L'articolo 1, comma 2, lettera f), del decreto prevede che le farmacie, attraverso la postazione dedicata, possano operare quali canali di accesso al Sistema CUP per prenotare prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale presso le strutture sanitarie pubbliche e private accreditate, provvedere al pagamento delle relative quote di partecipazione alla spesa a carico del cittadino e ritirare i relativi referti. Il decreto ministeriale 8 luglio 2011 ha dato attuazione alla norma definendo fra l'altro nel dettaglio modalità tecniche, misure di sicurezza e responsabilità.
Infine, con riferimento ai CUP, l’art 47-bis del decreto legge 5/2012 stabilisce, nell’ottica della semplificazione in materia di sanità digitale, che nei piani di sanità nazionali e regionali si privilegi la gestione elettronica delle pratiche cliniche, attraverso l’utilizzo della cartella clinica elettronica, così come i sistemi di prenotazione elettronica per l’accesso alle strutture da parte dei cittadini con la finalità di ottenere vantaggi in termini di accessibilità e contenimento dei costi.
La prescrizione elettronica (ricetta digitale, come definita nel piano e-Gov 2012) presuppone il collegamento in rete delle strutture di erogazione dei servizi sanitari: medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, aziende sanitarie locali, aziende ospedaliere e farmacie pubbliche e private. A tal fine, l’articolo 50, comma 5, del D.L. 269/2003 ha previsto un collegamento telematico tra il Ministero dell'economia e delle finanze e le strutture di erogazione dei servizi sanitari.
Il D.P.C.M. del 26 marzo 2008, attuativo del decreto legge 269/2003, ha in parte definito le regole tecniche e di trasmissione dei dati delle ricette e le relative modalità di trasmissione telematica, da parte dei medici prescrittori del SSN, al Sistema di accoglienza centrale (SAC) del Ministero dell’economia e delle finanze. Successivamente, il decreto ministeriale 26 febbraio 2010 ha definito le modalità per la predisposizione e l'invio telematico dei dati delle certificazioni di malattia all'INPS per il tramite del SAC. Per accelerare anche il processo di trasmissione telematica delle ricette al MEF, l'art. 11, comma 16, del decreto legge 78/2010 ha previsto con norma transitoria e nelle more dell'emanazione dei decreti ministeriali necessari per il completamento delle procedure tecniche in materia, che venissero utilizzate le modalità tecnico-operative di cui all’allegato 1 del D.M. 26 febbraio 2010, ovvero che venissero utilizzate le modalità techniche-operative relative alla trasmissione telematica delle certificazioni di malattia. Tale modalità transitoria è stata superata con l’adozione del D.M. 2 novembre 2011 che ha stabilito le modalità tecniche e i servizi resi disponibili dal SAC ai fini dell’attuazione di quanto previsto articolo 11, comma 16, ultimo periodo, del D.L. 78/2010, per la dematerializzazione della ricetta elettronica dalla fase di prescrizione a quella di erogazione delle prestazioni sanitarie a carico del SSN. Il decreto stabilisce che, a fronte dell'esito positivo dell'invio telematico dei dati della ricetta medica, comprensivi del numero della ricetta, del codice fiscale dell'assistito titolare della prescrizione e dell'eventuale esenzione dalla compartecipazione dalla spesa, il medico prescrittore rilascia all'assistito il promemoria cartaceo della ricetta elettronica. In caso di esito negativo dell'invio telematico dei dati, il medico segnala tale anomalia al Sistema Tessera Sanitaria. Le ricette mediche sono inviate dai medici al SAC o, ove esistenti, al Sistema di accoglienza regionale (SAR). Nel momento in cui l'assistito utilizza la ricetta elettronica, la struttura che eroga i servizi sanitari previsti, sulla base delle informazioni di cui al promemoria della medesima ricetta elettronica, preleva dal SAC i dati della prestazione da erogare, comprese le indicazioni di eventuali esenzioni. Se i dati necessari alla procedura non sono disponibili, la struttura di erogazione segnala l'anomalia al Sistema Tessera Sanitaria ed eroga la prestazione rilevando i dati dal promemoria fornito dall'assistito e poi trasmette telematicamente al Sac le informazioni sulla prestazione erogata. La diffusione e la messa a regime, presso le singole regioni e province autonome, del processo di dematerializzazione della ricetta medica per le prescrizioni a carico del SSN, è definita attraverso accordi specifici tra il Ministero dell'economia e delle finanze, il Ministero della salute e le singole regioni e province autonome. Sono escluse dall'ambito di applicazione del decreto le prescrizioni di farmaci stupefacenti e di sostanze psicotrope, per le quali la ricetta resta cartacea. La messa a regime nelle regioni è prevista entro dicembre 2012.
Finora sono stati emessi i seguenti decreti:
A fronte di un quadro normativo e regolatorio ormai completo, l'articolo 13 del decreto legge 179/2012 ha stabilito uno scadenzario temporale per il passaggio al formato elettronico delle prescrizioni mediche di farmaceutica e specialistica a carico del SSN. La norma intende imprimere un'accelerazione ad un processo mirato al miglioramento della qualità dei servizi offerti ai cittadini e al progetto di monitoraggio della spesa del settore sanitario. A tal fine, le regioni e le province autonome, entro 6 mesi dall’entrata in vigore del decreto-legge, provvedono alla graduale sostituzione delle prescrizioni in formato cartaceo con le equivalenti in formato elettronico, in percentuali che, in ogni caso, non dovranno risultare inferiori al 60 per cento nel 2013, all’80 per cento nel 2014 e al 90 per cento nel 2015.
Dal 1° gennaio 2014, le prescrizioni farmaceutiche generate in formato elettronico saranno valide su tutto il territorio nazionale nel rispetto delle disposizioni che regolano i rapporti economici tra le regioni, le Asl e le strutture convenzionate che erogano prestazioni sanitarie, fatto salvo l’obbligo di compensazione tra regioni del rimborso di prescrizioni farmaceutiche relative a cittadini di regioni diverse da quelle di residenza. Le modalità attuative sono definite con decreto del Ministro della salute di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa con la Conferenza Stato-regioni.
L'inosservanza del passaggio delle prescrizioni mediche di farmaceutica e specialistica a carico del SSN dal formato cartaceo al formato elettronico, costituisce per i medici inadempienti illecito disciplinare e, in caso di reiterazione, comporta l'applicazione della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione, in modo inderogabile dai contratti o accordi collettivi, in applicazione di quanto previsto dall’articolo 55-septies, comma 4, del D. Lgs. 165/ 2001. Il comma 3-bis dell'articolo 13, inserito nel corso dell’esame parlamentare, aggiunge alcune disposizioni al citato comma 4 dell’articolo 55-septies del D.Lgs n. 165/2001, che attiene alle conseguenze dell’’inosservanza degli obblighi di trasmissione per via telematica della certificazione medica concernente le assenze di lavoratori per malattia, prevedendo che per configurare tale inosservanza quale illecito disciplinare devono ricorrere sia l’elemento oggettivo dell’inosservanza all’obbligo di trasmissione, sia l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Viene inoltre previsto che le sanzioni siano applicate secondo criteri di gradualità e proporzionalità, secondo le previsioni degli accordi e dei contratti collettivi di riferimento.
In proposito va ricordato che il comma 4 del citato articolo 55-septies del D.Lgs. n. 165/2001, prevede che l'inosservanza degli obblighi di trasmissione per via telematica della certificazione medica concernente assenze di lavoratori per malattia di cui al comma 2 costituisce illecito disciplinare e, in caso di reiterazione, comporta l'applicazione della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione, in modo inderogabile dai contratti o accordi collettivi.
Ricordiamo infine che l'articolo 6, comma 2 lettera d) del decreto legge 70/2011, c.d. decreto sviluppo, ha disposto che le aziende sanitarie del Ssn adottino procedure telematiche per consentire il pagamento online delle prestazioni erogate, nonché la consegna, tramite web, posta elettronica certificata o altre modalità digitali, dei referti medici. Resta in ogni caso salvo il diritto dell'interessato di ottenere, anche a domicilio, copia cartacea del referto redatto in forma elettronica. Infine, in caso di trasferimento di residenza delle persone fisiche, i comuni, su richiesta degli interessati, ne danno comunicazione all’azienda sanitaria locale nel cui territorio è ricompresa la nuova residenza. La comunicazione è effettuata, entro un mese dalla data di registrazione della variazione anagrafica, telematicamente o su supporto cartaceo secondo modalità stabilite con decreto interministeriale di natura non regolamentare. L’azienda sanitaria locale provvede ad aggiornare il libretto sanitario, trasmettendo alla nuova residenza dell’intestatario il nuovo libretto ovvero un tagliando di aggiornamento da apporre su quello esistente.
Come contenuto la Cartella Clinica Elettronica è assimilabile ad una cartella clinica di ricovero ospedaliero oppure ad una cartella clinica ambulatoriale specialistica, mentre il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) è costituito dall’insieme di tutte le cartelle cliniche, indagini diagnostiche preventive e tutto quanto riguarda la salute presente e trascorsa del paziente.
L’articolo 47-bis del decreto-legge 5/2012 ha previsto che i piani sanitari, nazionale e regionali, privilegino la gestione elettronica delle pratiche cliniche attraverso l'utilizzo della cartella clinica digitale e i sistemi di prenotazione elettronica. Successivamente l'articolo 13, comma 5 del decreto legge 179/2012 ha rafforzato tali previsioni indicando che, dal 1° gennaio 2013, la conservazione delle cartelle cliniche può essere effettuata anche solo in formato digitale, senza che ciò comporti nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e comunque nel rispetto di quanto previsto dal Codice dell’amministrazione digitale (D. Lgs. 82/2005) e dal Codice in materia di protezione dei dati personali (D. Lgs. 196/2003). Le disposizioni si applicano anche alle strutture sanitarie private accreditate.
Il Ministero della salute ha recentemente pubblicato un Manuale dedicato allo Sviluppo di un modello di Cartella Paziente Integrata (CPI), al quale si rinvia per un approfondimento delle tematiche legate alla digitalizzazione della cartella clinica.
Al fine di supportare la realizzazione di una cornice normativa unitaria, nel secondo semestre del 2008 è stato istituito dal Ministero della salute un Tavolo interistituzionale a cui hanno partecipato rappresentanti del Ministero per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione, oltre ai referenti regionali e ad un rappresentante dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali. Il Tavolo interistituzionale per il fascicolo sanitario elettronico ha successivamente previsto l’adozione di un regolamento attuativo per la definizione dei dati contenuti nel Fascicolo, per le garanzie e le misure di sicurezza da adottare nel trattamento dei dati personali, nonché per le modalità ed i diversi livelli di accesso. Il Tavolo ha inoltre individuato il modello architetturale dell’infrastruttura tecnologica del FSE.
Il 10 febbraio 2011 sono state infine approvate in sede di Conferenza Stato-Regioni le Linee guida sul fascicolo sanitario elettronico proposte dal Ministero della Salute. Le Linee guida individuano gli elementi necessari per una progettazione omogenea del fascicolo elettronico su base nazionale ed europea. Il Fse verrà realizzato dalle Regioni previo consenso dell’assistito, e consiste nell’insieme dei dati e documenti digitali di tipo socio-sanitario generati da eventi clinici presenti e trascorsi, riguardanti il paziente. Coprirà l'intera vita di quest'ultimo e sarà costantemente aggiornato dai soggetti che lo prendono in cura. Nelle urgenze, il Fse permetterà agli operatori di inquadrare immediatamente i pazienti, consentirà la continuità delle cure e permetterà di condividere tra gli operatori le informazioni amministrative (ad esempio prenotazioni di visite specialistiche, ricette, etc.). L’accesso al Fse potrà avvenire mediante l’utilizzo della carta d’identità elettronica (Cie) e della carta nazionale dei servizi (Cns), ma potrà essere consentito anche attraverso strumenti di autenticazione forte, con l’utilizzo di smart card rilasciate da certificatori accreditati, o debole, con l’utilizzo di userid e password, o con altre soluzioni, purché siano rispettate le misure minime di sicurezza nel rispetto del Codice in materia di protezione di dati personali.
Il Dipartimento per la digitalizzazione e l'innovazione nella pubblica amministrazione, in collaborazione con il Ministero della salute, è stato finora impegnato nel coordinamento di progetti regionali volti a sviluppare e garantire l'interoperabilità del FSE a livello regionale, nazionale ed europeo. Ad oggi la situazione sul territorio è ancora frammentata, anche se tutte le regioni sono attivamente impegnate a sviluppare soluzioni condivise e l'Italia partecipa con altri undici Stati membri ad un progetto per l'interoperabilità del FSE finanziato dalla Commissione europea. Nel luglio 2012, sono state presentate le prime linee guida di infrastruttura tecnologica del FSE realizzate nell’ambito di una collaborazione tra il Dipartimento per la digitalizzazione della pubblica amministrazione e l’innovazione tecnologica (DDI) e il Dipartimento Tecnologie dell’Informazione e delle Comunicazioni del CNR. Il documento definisce le linee guida di riferimento per garantire l’interoperabilità tra le soluzioni di FSE in corso di realizzazione e di studio a livello territoriale. Le linee guida non sono prescrittive per le regioni che hanno realizzato, stanno realizzando o intendono realizzare soluzioni di FSE, ma costituiscono il primo risultato del dibattito instauratosi nell’ambito del Tavolo permanente per la Sanità Elettronica delle regioni per favorire una convergenza verso soluzioni condivise. Lo sviluppo di una soluzione nazionale FSE comporta la progettazione di un modello architetturale dell’infrastruttura tecnologica, nella quale siano definiti i meccanismi per la raccolta e la disponibilità dei documenti e dei dati sanitari in formato digitale, nonché dei servizi di supporto ai processi sanitari. L’Infrastruttura tecnologica del FSE dovrà garantire la compatibilità con le soluzioni architetturali già sviluppate presso alcune regioni, in una visione generale orientata verso un unico modello di infrastruttura federata, condivisa a livello nazionale e allineata allo scenario internazionale. Inoltre, il modello deve recepire i requisiti infrastrutturali necessari alla interoperabilità funzionale e semantica oggetto dei progetti nazionali ed europei in tema di FSE. Per rispettare tutti questi requisiti, il modello architetturale di FSE deve rispecchiare, nel suo complesso, un’architettura orientata ai servizi (Service-Oriented Architecture, SOA), la quale, a sua volta, deve essere posta al di sopra delle infrastrutture tecnologiche del Sistema Pubblico di Connettività (SPC) per la cooperazione applicativa tra PA. A tale progetto si collega il progetto «IPSE – Interoperabilità nazionale del FSE», in relazione al quale è stato sottoscritto un accordo interregionale con dieci regioni (Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Sardegna, Abruzzo e Molise).
L'articolo 12 del decreto legge 179/2012 ha introdotto l'istituto del fascicolo sanitario elettronico (FSE), definendolo come l'insieme dei dati e documenti digitali di tipo sanitario e socio-sanitario generati da eventi clinici presenti e trascorsi, riguardanti l'assistito. Il FSE può essere istituito dalle regioni e province autonome, nel rispetto della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali, per finalità di:
Un decreto interministeriale del Ministro della salute e del Ministro delegato per l’innovazione, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione e il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-regioni, acquisito il parere del Garante per la protezione dei dati personali, da emanare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (legge 221/2012 in vigore dal 19 dicembre 2012), dovrà stabilire:
Nel corso dell'esame parlamentare è stato inoltre previsto che il decreto interministeriale definisca modalità in grado di garantire:
Il decreto avrà infine il compito di definire i livelli di accesso, le modalità e le logiche di organizzazione ed elaborazione dei dati inseriti nel FSE per finalità di studio e ricerca scientifica in campo medico, biomedico ed epidemiologico nonché di programmazione sanitaria, verifica delle qualità delle cure e valutazione dell'assistenza sanitaria. I dati dovranno essere utilizzati senza l'uso dei dati identificativi degli assistiti e dei documenti clinici presenti nel FSE, in conformità ai principi di proporzionalità, necessità e indispensabilità nel trattamento dei dati personali.
Il coma 7 dell'articolo 12 specifica che il decreto interministeriale di definizione del FSE non impatta e nulla modifica di quanto stabilito dall’articolo 15, comma 25-bis del D.L. 95/2012. Nel corso della XVI legislatura, gli interventi legislativi in materia di sistemi informativi sanitari sono stati numerosi seppur disorganici. Ai fini della attivazione dei programmi nazionali di valutazione in ambito sanitario, il comma 25-bis dell’articolo 15 del D.L. 95/2012 mette in capo al Ministero della salute il compito di modificare ed integrare tutti i sistemi informativi del SSN, anche quando gestiti da diverse amministrazioni dello Stato, interconnettendo, a livello nazionale, tutti i flussi informativi su base individuale. Per le attività di valutazione, il complesso delle informazioni e dei dati individuali deve essere reso disponibile esclusivamente in forma anonima, come previsto dall'articolo 35 del D. Lgs. 118/2011 che demanda ad un decreto del Ministro della salute la determinazione delle procedure di anonimizzazione dei dati individuali presenti nei flussi informativi, già oggi acquisiti in modo univoco sulla base del codice fiscale dell'assistito, con la trasformazione del codice fiscale, ai fini di ricerca per scopi di statistica sanitaria, in codice anonimo, mediante apposito algoritmo biunivoco, in modo da tutelare l'identità dell'assistito nel procedimento di elaborazione dei dati. I dati così anonimizzati sono utilizzati per migliorare il monitoraggio e la valutazione della qualità e dell'efficacia dei percorsi di cura, con un pieno utilizzo degli archivi informatici dell'assistenza ospedaliera, specialistica, farmaceutica.
In tema di consenso ed informativa, occorre in primo luogo ricordare che l'articolo 12, al comma 3-bis, inserito nel corso dell'esame parlamentare, specifica che il FSE può essere alimentato esclusivamente sulla base del consenso libero e informato dell’assistito, che può decidere se inserirvi tutti o parte dei propri dati sanitari. Inoltre, la consultazione dei dati e dei documenti presenti nel FSE per le finalità di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione può essere realizzata soltanto con il consenso dell'assistito e sempre nel rispetto del segreto professionale, salvo i casi di emergenza sanitaria e secondo modalità da individuare. Il mancato consenso dell’assistito non pregiudica il diritto all'erogazione della prestazione sanitaria.
In attesa della formulazione di un’adeguata legislazione in materia, la deliberazione del 2009 del Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida in tema di Fascicolo sanitario elettronico (Fse) e di dossier sanitario, ha inteso fornire un primo quadro di cautele, al fine di delineare garanzie, responsabilità e diritti legati al FSE. La condivisione informatica, da parte di distinti organismi o professionisti, di dati e documenti sanitari riguardanti un medesimo individuo e, in prospettiva, l'intera sua storia clinica, presenta infatti aspetti problematici, primo fra tutti la necessità di prevedere profili diversi di accessi ed abilitazioni con diversi gradi di tutela. Il provvedimento del Garante stabilisce che il paziente possa scegliere, con un consenso autonomo e specifico, distinto da quello che si presta a fini di cura della salute, se far costituire o meno un fascicolo sanitario elettronico, con tutte o parte delle informazioni sanitarie che lo riguardano. Affinché tale scelta sia effettivamente libera, l'interessato che non desiderà di non costituire un proprio FSE deve poter accedere comunque alle prestazioni del SSN e non avere conseguenze negative sulla possibilità di usufruire di tutte prestazioni mediche offerte dal SSN. Relativamente al consenso, questo, anche se manifestato unitamente a quello previsto per il trattamento dei dati a fini di cura, deve essere autonomo e specifico e devono essere previsti momenti distinti in cui l'interessato possa esprimere la propria volontà: attraverso un consenso di carattere generale per la costituzione del FSE e di consensi specifici ai fini della sua consultazione da parte dei singoli titolari del trattamento (es. medico di medicina generale, pediatra di libera scelta, farmacista, medico ospedaliero). Inoltre, il Garante specifica che l'informativa e la connessa manifestazione del consenso possono essere formulate distintamente per ciascuno dei titolari o, più opportunamente, in modo cumulativo, avendo comunque cura di indicare con chiarezza l'ambito entro il quale i singoli soggetti trattano i dati del FSE. Infine, l'interessato deve essere informato anche della circostanza che il Fascicolo potrebbe essere consultato, anche senza il suo consenso, ma nel rispetto dell'autorizzazione generale del Garante, qualora sia indispensabile per la salvaguardia della salute di un terzo o della collettività (art. 76 del Codice e Autorizzazione generale del Garante n. 2/2008 al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale del 19 giugno 2008). La necessità di un previo consenso al trattamento dei dati, emerge anche da quanto previsto dal D.Lgs. 196/2003 in materia di trattamenti dei dati sensibili in ambito sanitario
effettuati con modalità tradizionali, soprattutto nella parte in cui prevede (articolo 78) che il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta informino l'interessato
relativamente al trattamento dei dati personali. Si ricorda inoltre che in applicazione dei principi di pertinenza e proporzionalità, l'articolo 6 della Direttiva 95/46/CE e l'articolo 11 del D.Lgs 196/2003) , il consenso deve essere specifico con riferimento alle finalità, ovvero deve avere un destinatario ben identificato e specificare la situazione concreta e definita per la quale il trattamento di dati sanitari è previsto.
La norma istitutiva del FSE esclude nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica: i soggetti del SSN e dei servizi socio-sanitari che prendono in cura l'assistito alimenteranno infatti il FSE in maniera continuativa nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
La progettazione e realizzazione del FSE è già una realtà in gran parte delle regioni e province autonome, anche grazie a progetti finanziati e coordinati a livello nazionale, interregionale ed europeo. Inoltre, le infrastrutture utilizzate sono in larga parte già disponibili nell'ambito del sistema pubblico di connettività (SPC), pertanto non necessitano di ulteriori investimenti. Per quanto riguarda i progetti in corso presso le regioni, i finanziamenti di riferimento provengono da risorse nell'ambito dei fondi FAS per il settore della società dell'informazione. Si richiama in proposito quanto previsto dalla delibera CIPE n. 17 del 9 maggio 2003. A tali risorse vanno aggiunte quelle previste nel ciclo di programmazione dei fondi strutturali europei 2000-2006, che contempla, per i progetti regionali di sviluppo di sistemi di supporto per la sanità, un volume finanziario complessivo pari a 45 milioni di euro. Infine, le regioni hanno destinato e tuttora destinano quota parte delle risorse loro assegnate nell'ambito del programma straordinario di edilizia sanitaria ed ammodernamento del patrimonio tecnologico del Servizio sanitario nazionale, di cui all'articolo 20 della legge 67/1988, anche alla informatizzazione dei servizi sanitari, e in particolare alla realizzazione del FSE. In particolare, la delibera CIPE n. 98 del 18 dicembre 2008 indica come priorità della programmazione regionale e nazionale anche l’implementazione e l’ammodernamento dei sistemi informatici delle aziende sanitarie e ospedaliere e l’integrazione dei medesimi con i sistemi informativi sanitari delle regioni. I costi stimati per la realizzazione del FSE a livello nazionale, circa 90 milioni di euro secondo la stima del Piano e-gov 2012, si ritengono per tanto coperti dalle risorse sopra elencate.
La Federazione italiana delle aziende sanitarie ed ospedaliere (FIASO) ha effettuato una ricognizione sullo stato dell’arte delle iniziative progettuali del Fascicolo sanitario elettronico, dalla quale emerge da un lato un apprezzabile dinamismo, con progetti attivi sostanzialmente in tutte le Regioni, dall’altro una situazione fortemente eterogenea a livello nazionale in termini di tipologie di FSE. Il 43 per cento delle Asl, il 62 per cento delle Aziende e dei Presidi ospedalieri e il 19 per cento degli ambulatori territoriali fanno in qualche misura uso del FSE. Il FSE è conosciuto dal 71 per cento dei medici di famiglia e pediatri di libera scelta, dal 67 per cento dei medici ospedalieri e specialisti, dal 29 per cento degli infermieri e dal 5 per cento dei farmacisti. Con il FSE sono gestite il 52 per cento delle prestazioni specialistiche ed ospedaliere, il 33 per cento delle prestazioni farmaceutiche e il 24 per cento di quelle di pronto soccorso. Per la sua realizzazione è tuttavia necessaria una infrastruttura che assicuri l’integrazione tra i diversi sistemi di generazione degli eventi sanitari e ne garantisca l’accesso sicuro in rete agli operatori autorizzati e al cittadino, nel pieno rispetto della normativa vigente in materia di privacy.
Per l’attuazione delle disposizioni in materia di FSE, le regioni e le province autonome, possono, nel principio dell’ottimizzazione e razionalizzazione delle spesa informatica, anche mediante la definizione di appositi accordi di collaborazione, realizzare infrastrutture tecnologiche per il FSE condivise a livello sovra-regionale, ovvero avvalersi, anche mediante riuso, delle infrastrutture tecnologiche per il FSE a tale fine già realizzate da altre regioni o dei servizi da queste erogate.
Ai fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, programmazione sanitaria, verifica della qualità delle cure, valutazione dell’assistenza sanitaria e di ricerca scientifica in ambito medico, biomedico ed epidemiologico nonché per garantire un sistema attivo di raccolta sistematica di dati anagrafici, sanitari ed epidemiologici, per registrare e caratterizzare tutti i casi di rischio per la salute, di una particolare malattia o di una condizione di salute rilevante in una popolazione definita, l'articolo 12, commi da 10 a 14, del decreto legge 179/2012 ha istituito i sistemi di sorveglianza e i registri di:
I sistemi di sorveglianza sono basati sulla segnalazione di informazioni relative a pazienti con diagnosi definite. Recentemente sono stati avviati nuovi sistemi basati non più sulla diagnosi di malattia, ma sulla presenza di un insieme di segni e sintomi, che costituiscono una sindrome. Tali sistemi hanno l'obiettivo di identificare precocemente potenziali minacce per la salute pubblica, in modo da mettere in atto una risposta rapida in grado di ridurre morbilità e mortalità. Tipico esempio di sistema di sorveglianza è InfluNet, coordinato dal Ministero della Salute con la collaborazione dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), del Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Influenza (CIRI), dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta nonché dei laboratori di riferimento per l’influenza e degli Assessorati regionali alla Sanità. L’obiettivo è descrivere i casi di influenza e stimare l’incidenza settimanale della sindrome influenzale durante la stagione invernale, in modo da valutare durata e intensità dell'epidemia.
In merito ai registri , si ricorda che i registri di patologia, riferiti a malattie di rilevante interesse sanitario, costituiscono uno strumento di monitoraggio e valutazione dell’efficacia delle azioni di prevenzione e di qualità delle cure.
Per quanto riguarda i registri di mortalità, la fonte primaria del dato relativo alle cause di decesso è rappresentata dalla scheda di morte predisposta dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) che deve essere compilata dal medico curante o dal medico che ha prestato assistenza al paziente deceduto. Questa scheda, secondo il Regolamento di Polizia mortuaria (DPR 285/90), è in duplice copia e deve essere inviata dal Comune di decesso all’Istat e alla Asl di decesso. Accanto alla banca dati di mortalità dell’Istat sono state create banche dati e registri di mortalità regionali gestiti dalle aziende sanitarie e dalle Regioni, ai sensi dell’articolo 1 del Regolamento di polizia mortuaria che prevede che ogni unità sanitaria locale debba istituire e tenere aggiornato un registro per ogni comune incluso nel suo territorio contenente l'elenco dei deceduti nell'anno e la relativa causa di morte.
Gli impianti protesici, ai sensi del D.Lgs. 46/1997, sono a tutti gli effetti dispositivi medici e pertanto soggetti alla normativa in materia. La legge finanziaria per il 2003 (articolo 1, comma 57, della L. 2289/2002), ha previsto la realizzazione del Repertorio generale dei dispositivi medici commercializzati in Italia (RDM), al fine di consentire sia valutazioni di ordine economico sugli stessi da parte dei diversi soggetti pubblici deputati al loro acquisto sia la definizione del prezzo di riferimento dei dispositivi. Successivamente la legge finanziaria 2006 (articolo 1, comma 409, della legge 266/2005) ha previsto l’istituzione di registri di patologie che implichino l'utilizzazione di dispositivi medici.
Presso l'Istituto superiore di sanità sono stati costituiti alcuni registri nazionali: il Registro nazionale della procreazione medicalmente assistita; il Registro nazionale dell'ADHD (sindrome da iperattività con deficit di attenzione); il Registro nazionale AIDS (RAIDS); il Registro nazionale degli assuntori di ormone della crescita; il Registro nazionale gemelli; il Registro nazionale degli ipotiroidei congeniti; il Registro nazionale della legionellosi; il Registro nazionale della malattia di Creutzfeldt-Jakob e sindromi correlate; il Registro nazionale delle malattie rare; il Registro nazionale e regionale del sangue e del plasma nonché il Registro nazionale degli interventi di protesi d'anca.
I Registri Tumori attivi raccolgono invece informazioni sui malati di cancro residenti in un determinato territorio. Attualmente sono attivi 31 registri di popolazione o specializzati che seguono complessivamente un quarto della popolazione italiana. Le informazioni raccolte includono dati anagrafici e sanitari essenziali per lo studio dei percorsi diagnostico-terapeutici, la ricerca sulle cause del cancro, per la valutazione dei trattamenti più efficaci, per la progettazione di interventi di prevenzione e per la programmazione delle spese sanitarie. Tutti i Registri Tumori italiani aderiscono all’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRT), che fornisce assistenza tecnica, promuove l’uso di tecniche uniformi di registrazione e di sistemi di classificazione uguali o confrontabili e valuta la qualità e la completezza dei dati dei Registri di popolazione e dei Registri specializzati (raccolgono informazioni su un singolo tipo di tumore o su specifiche fasce di età).
Sia i sistemi di sorveglianza che i registri possono essere permanenti o temporanei, a seconda delle finalità per cui sono stati costituiti.
I sistemi di sorveglianza e i registri di rilevanza nazionale dovranno essere istituiti con D.P.C.M., su proposta del Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, e acquisito il parere del Garante per la protezione dei dati personali. Gli elenchi dei sistemi di sorveglianza e dei registri saranno aggiornati periodicamente con la stessa procedura, ovvero su proposta del Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, e acquisito il parere del Garante per la protezione dei dati personali. L’attività di tenuta e aggiornamento dei registri è svolta con le risorse disponibili in via ordinaria e rientra tra le attività istituzionali delle aziende e degli enti del SSN. D’altra parte, le regioni e le province autonome potranno istituire con propria legge i registri di patologia, di mortalità e di impianti protesici di rilevanza regionale e provinciale diversi da quelli nazionali.
Entro diciotto mesi dalla entrata in vigore del decreto legge in esame, un regolamento, da adottare su proposta del Ministro della salute, acquisito il parere del Garante per la protezione dei dati personali e previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, individua:
I contenuti del regolamento devono in ogni caso informarsi ai principi di pertinenza, non eccedenza, indispensabilità e necessità di cui agli articoli 3, 11 e 22 del codice in materia di protezione dei dati personali.
L'obiettivo di ridurre il fenomeno dell'assenteismo nel settore pubblico, anche ai fini del recupero della produttività della pubblica amministrazione, è stato tra i temi principali della riforma della P.A. La questione è stata affrontata a più riprese, dapprima con il decreto-legge 112/2008, quindi dalla legge-delega 15/2009 e dal relativo decreto legislativo di attuazione (D.Lgs. 150/2009), successivamente, con il decreto-legge 78/2009 e, da ultimo, con il decreto-legge 98/2011 (per una analisi più puntuale della normativa in materia si rinvia al temaAssenze per malattia). Allo stesso tempo sono state portate a compimento le procedure relative alla trasmissione telematica delle certificazioni di malattia.
L'invio online dei certificati di malattia riguarda i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ad esclusione del personale ad ordinamento pubblicistico di cui all'art. 3 del D.Lgs. 165/2001: forze armate e di polizia, vigili del fuoco, magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, personale delle carriere prefettizie e diplomatiche, personale della carriera dirigenziale penitenziaria, professori e ricercatori universitari.
In presenza di malattia, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legge 663/1979, come modificato dal comma 149 dell’art. 1 della legge 311/2004 (finanziaria per il 2005), il medico curante è responsabile dell’accertamento, della redazione e della trasmissione del certificato medico per via telematica all’INPS.
Successivamente, la legge finanziaria per il 2007 (art. 1, comma 810, della legge n. 296/2006) ha aggiunto il comma 5-bis, all’articolo 50 del decreto legge 269/2003 rendendo disponibile, a partire dal 1° luglio 2007, il collegamento in rete dei medici del SSN, secondo le regole tecniche del Sistema pubblico di connettività. L’articolo 8 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 26 marzo 2008 ha quindi definito i principi generali relativi alla trasmissione telematica dei dati delle certificazioni di malattia al sistema fornito dal Ministero dell’economia e delle finanze e denominato SAC (Sistema di Accoglienza Centrale) nonché le caratteristiche tecniche di acquisizione e trasmissione dei dati, in attesa di ulteriori modalità attuative da definirsi con decreto interministeriale.
In seguito, il decreto del 26 febbraio 2010 del Ministero della Salute, di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Ministero dell’economia e delle finanze ha disposto il collegamento in rete dei medici curanti e l’obbligo, da parte di quest’ultimi, di trasmettere all’Inps per via telematica le certificazioni di malattia dei lavoratori del settore privato. Sul punto, l’articolo 4 del decreto prevede che l'Inps renda immediatamente disponibile al datore di lavoro l'attestazione della malattia rilasciata dal medico curante. Da parte sua, il lavoratore del settore privato è tenuto, entro due giorni dal relativo rilascio, a recapitare o a trasmettere a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, l'attestazione della malattia rilasciata dal medico curante, al datore di lavoro, salvo il caso in cui quest'ultimo richieda all'INPS la trasmissione in via telematica della suddetta attestazione.
Analogamente, il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 ha introdotto l’articolo 55-septies nel decreto legislativo 165/2001, disponendo che per la trasmissione telematica dei certificati medici per i dipendenti pubblici si applichino le medesime modalità stabilite per la trasmissione dei certificati medici nel settore privato. Contestualmente viene disposto che l'inosservanza degli obblighi di trasmissione per via telematica della certificazione medica concernente assenze di lavoratori per malattia costituisce illecito disciplinare e, in caso di reiterazione, comporta l'applicazione della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione, in modo inderogabile dai contratti o accordi collettivi.
Al fine di assicurare un quadro completo delle assenze per malattia nei settori pubblico e privato, nonché un efficace sistema di controllo delle stesse, l’articolo 25 della legge 183/2010 ha infine previsto che dal 1° gennaio 2010 in tutti i casi di assenza per malattia dei dipendenti del settore privato, per il rilascio e la trasmissione della attestazione di malattia si applichino le disposizioni di cui all’ articolo 55-septies del D.Lgs. 165/2001, ivi compresi gli aspetti sanzionatori riferiti ai medici del SSN, o con esso convenzionati, eventualmente inadempienti.
Il Dipartimento della funzione pubblica e il Dipartimento della digitalizzazione della Pubblica amministrazione e dell’innovazione tecnologica hanno fornito indicazioni operative per la trasmissione in via telematica dei certificati di malattia con la circolare n. 1 del 11 marzo 2010. Successivamente, la circolare n. 2 del 28 settembre 2010 è intervenuta in materia e, preso atto delle risultanze del lavoro della Commissione di collaudo e del Tavolo tecnico istituiti nel luglio 2010, ha fissato il termine del periodo transitorio per la messa in opera del sistema al 31 gennaio 2011. In seguito, la circolare 1/2011 ha stabilito la conclusione del periodo transitorio ribadendo che, a decorrere dal 1° febbraio 2011, nei casi di violazione della normativa in materia di trasmissione telematica dei certificati, in assenza di giustificati motivi che impediscano l’utilizzo delle tecnologie informatiche, i medici avrebbero potuto incorrere in sanzioni disciplinari secondo criteri di gradualità e proporzionalità. Analogamente, il processo di telematizzazione della certificazione di malattia è partito anche per i lavoratori del settore privato, a decorrere dal 3 aprile 2010 a seguito dell’emanazione del Decreto interministeriale del 26 febbraio 2010 e del relativo disciplinare tecnico. Successive circolari, per la visione delle quali si rinvia alla sezione dedicata nel sito del Governo, hanno regolamentato nel tempo specifici aspetti legati alla certificazione online dei periodi di malattia.
In ultimo, l'articolo 16, commi 9-10, del decreto legge 98/2011 è intervenuto sull'articolo 55-septies, del D.Lgs. 165/2001, modificando il comma 5 e introducendo ulteriori due disposizioni (commi 5-bis e 5-ter). In particolare si prevede che:
Il medico, o la struttura sanitaria responsabile, inviano per via telematica la certificazione medica all'Inps tramite il Sistema di accoglienza centrale (Sac), gestito dal Ministero dell'Economia. Tramite il Sac, il certificato viene inviato all'Inps, che mette immediatamente a disposizione del datore di lavoro, pubblico o privato, l'attestato di malattia. I datori di lavoro possono collegarsi direttamente al sito dell'Inps, grazie alle credenziali ricevute dallo stesso Istituto di previdenza, o l'Inps può inviare l'attestato di malattia al datore di lavoro nel caso in cui quest'ultimo gli abbia comunicato il proprio indirizzo di posta elettronica certificata. Il medico comunica inoltre al lavoratore il numero di protocollo del certificato trasmesso. Il lavoratore, solamento nel caso in cui sia richiesto, resta l'obbligo di comunicare al proprio datore di lavoro il numero di protocollo del certificato di malattia.
L'articolo 55-septies, comma 4, del D. Lgs. 165/2001, come modificato dall'articolo 13, comma 3-bis, del decreto legge 179/2012 stabilisce che l'inosservanza degli obblighi di trasmissione per via telematica della certificazione medica concernente assenze di lavoratori per malattia costituisce illecito disciplinare e, in caso di reiterazione, comporta l'applicazione della sanzione del licenziamento ovvero, per i medici in rapporto convenzionale con le aziende sanitarie locali, della decadenza dalla convenzione, in modo inderogabile dai contratti o accordi collettivi. Affinché si configuri l'ipotesi di illecito disciplinare devono ricorrere sia l'elemento oggettivo dell'inosservanza all'obbligo di trasmissione, sia l'elemento soggettivo del dolo o della colpa. Le sanzioni sono applicate secondo criteri di gradualità e proporzionalità, secondo le previsioni degli accordi e dei contratti collettivi di riferimento.
Si ricorda che anche il CCNL relativo all'area IV, dirigenza medica e veterinaria, stipulato il 6 maggio 2010, prevede la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di sei mesi per il caso di inosservanza degli obblighi in merito alla certificazione medica concernente assenze di lavoratori per malattia (art. 8, comma 8) e richiama il contenuto dell'art. 55-septies, comma 4, citato tra le fattispecie di illecito che comportano il licenziamento con preavviso.
Il collegamento fra le università e le attività di assistenza ospedaliera è stato inizialmente previsto dalla legge 132/1968 che ha introdotto lo strumento della convenzione tra università ed enti ospedalieri stabilendo che l’ordinamento interno delle cliniche e degli istituti universitari deve essere adeguato all’ordinamento interno degli ospedali ed avere un’analoga organizzazione.
Il successivo, D.P.R. 129/1969, conferma lo strumento convenzionale, ed individua la materie oggetto del relativo accordo, rimandando, per le convenzioni, ad uno schema tipo emanato con decreto ministeriale 24 giugno 1971.
Il decreto ministeriale del 1971 definisce le relazioni intercorrenti fra le due istituzioni attraverso la creazione di strutture universitario-ospedaliere: l'ente ospedaliero assume la gestione dell'assistenza connessa con i fini istituzionali dell'università e utilizza l'assistenza fornita dalle cliniche e istituti universitari di ricovero e cura, d’altra parte le Università utilizzano il potenziale didattico e di ricerca dell’ente ospedaliero, sempre in base a precisi accordi.
Affinché le regioni e le università realizzino un idoneo coordinamento delle rispettive funzioni istituzionali, l’articolo 39 della legge 833/1978 riconferma transitoriamente, fino alla riforma dell'ordinamento universitario e delle facoltà di medicina, lo strumento della convenzione. In tal senso le convenzioni fanno parte dei piani sanitari regionali poiché disciplinano l'apporto delle facoltà di medicina alla realizzazione degli obiettivi della programmazione sanitaria regionale.
La legge 833/1978 delinea due diversi modelli organizzativi del collegamento università-assistenza ospedaliera:
Il D.Lgs. 502/1992, dedica l’articolo 6 ai rapporti tra università e SSN, stabilendo che, per soddisfare le specifiche esigenze del SSN connesse alla formazione degli specializzandi ed all’accesso ai ruoli dirigenziali del SSN, le università e le regioni stipulano specifici protocolli d’intesa per disciplinare le modalità di reciproca collaborazione. I rapporti in attuazione di tali intese sono regolati con appositi accordi tra università e Aziende ospedaliere, unità sanitarie locali e Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico. La titolarità dei corsi di insegnamento universitari è affidata a dirigenti delle strutture presso le quali si svolge la formazione stessa, in conformità ai protocolli di intesa che fra l’altro sanciscono che la formazione del personale avvenga in sede ospedaliera.
Ferma restando la disciplina in tema di formazione dei medici specialisti di cui al D.Lgs. 257/1991, risulta pertanto chiara la volontà del legislatore di non considerare più in capo al solo medico universitario il compito di prestare servizio ai fini assistenziali, didattici e di ricerca. Anche al medico ospedaliero competono infatti funzioni e prerogative, oltre all’attività assistenziale, relative alle attività didattiche e di ricerca, intimamente collegate alla peculiarità del percorso formativo del personale medico.
Tale impostazione è allargata al personale infermieristico, tecnico e della riabilitazione di cui si prevede la formazione in sede ospedaliera ovvero in altre strutture del SSN.
Con il D.M. 31 luglio 1997 i Ministeri competenti, dell’Università e della Sanità d’intesa con la Conferenza Stato-Regione, licenziano le Linee Guida, che sulla scorta delle indicazioni fornite dal D.lgs. n. 502/92, forniscono le prime indicazioni utili per elaborare i Protocolli.
Il D.Lgs. 517/1999, tuttora vigente, norma i rapporti tra SSN e università, riunificando in un unico modello, l’Azienda ospedaliero–Universitaria (AOU), le funzioni di assistenza, ricerca e didattica. Il modello di azienda integrata nasce anche sulla base delle esperienze e delle soluzioni adottate per il Policlinico Umberto I di Roma, che condecreto legge 343/1999, è stato il primo policlinico universitario ad essere stato trasformato in azienda ospedaliero-universitaria.
In primo luogo si stabilisce che l'attività assistenziale, necessaria per lo svolgimento dei compiti istituzionali delle università, è determinata nel quadro della programmazione nazionale e regionale in modo da assicurarne la funzionalità e la coerenza con le esigenze della didattica e della ricerca, secondo specifici protocolli d'intesa stipulati dalla Regione con le università ubicate nel proprio territorio.
In tal senso, vengono di fatto superati i precedenti diversi modelli aziendali (quali policlinici universitari e aziende miste) in favore di una nuova tipologia di azienda, che mira alla integrazione, e non più all’inscindibilità, di assistenza, didattica e ricerca.
Per conseguire simile obiettivo il D.Lgs. 517/1999 punta essenzialmente su due strumenti:
In particolare, i protocolli regionali devono: promuovere e disciplinare l'integrazione dell'attività assistenziale, formativa e di ricerca; definire le linee generali della partecipazione dell'università alla programmazione sanitaria; definire i parametri per l'individuazione delle attività necessarie allo svolgimento delle funzioni istituzionali e di ricerca; definire i parametri per l'individuazione delle strutture assistenziali complesse funzionali alle esigenze della didattica e della ricerca dei corsi di laurea delle Facoltà di Medicina e Chirurgia delle Aziende Integrate; definire il volume di attività ed il numero dei posti letto essenziali anche in rapporto al numero degli iscritti ai corsi di laurea con criteri e modalità di adeguamento agli standard fissati, secondo le indicazioni del Piano Sanitario Regionale; disciplinare le modalità di reciproca collaborazione per le esigenze del SSN connesse alla formazione degli specializzandi, alla formazione del personale sanitario mediante lo svolgimento delle attività formative presso le Aziende ospedaliere di riferimento o presso altre Aziende sanitarie pubbliche e private accreditate; definire i criteri generali per l'adozione dell'atto aziendale, per la costituzione, l'organizzazione ed il funzionamento dei dipartimenti integrati (DAI); definire forme e modalità di accesso dei dirigenti sanitari del SSN ai fondi di Ateneo e ad incarichi didattici; prevedere il trattamento economico aggiuntivo di cui all'art.6 del D.Lgs. 517/1999; definire i criteri generali per l'attuazione dei principali atti di gestione delle Aziende Ospedaliero-Universitarie.
Il D.Lgs. 517/1999, costituito da otto articoli, interviene sui seguenti aspetti:
La concreta ed omogenea attuazione del D.Lgs. 517/1999 è stata demandata ad atti di indirizzo e coordinamento, il principale dei quali è il D.P.C.M. del 24 maggio 2001 - Linee guida concernenti i protocolli di intesa da stipulare tra regioni ed università per lo svolgimento delle attività assistenziali delle università nel quadro della programmazione nazionale e regionale ai sensi dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n.517.
Le Linee guida ribadiscono la partecipazione attiva degli atenei alla programmazione sanitaria regionale. Le università, attraverso la partecipazione al processo formativo dei piani sanitari regionali, devono concorrere, ai sensi dell'art. 7 del D.P.C.M., all'elaborazione dei medesimi relativamente alle esigenze didattiche e di ricerca biomedica, anche estese alla formazione specialistica, infermieristica, tecnica, riabilitativa e prevenzionale.
Inoltre prima dell'adozione o dell'adeguamento del piano sanitario regionale, le regioni sono tenute ad acquisire formalmente il parere delle università sedi della facoltà di medicina e chirurgia ubicate nel territorio della regione di riferimento. I pareri espressi dagli Atenei sono allegati al progetto di piano e trasmessi al Ministro della Sanità per l'espressione dell'avviso di congruità con il piano sanitario nazionale. Pertanto, il processo elaborativo si compone di due momenti: un primo momento caratterizzato dall’informalità, che si esprime attraverso un tavolo concertativo tra regioni ed atenei finalizzato alla realizzazione della bozza di piano, il secondo, invece, di carattere formale, che trova realizzazione nel parere sui contenuti di piano.
Le Linee guida specificano inoltre che i Protocolli d'Intesa devono contenere indicazioni relative alla tipologia delle strutture sanitarie coinvolte, ovvero delle Aziende Integrate. Sempre ai sensi delle Linee guida, i Protocolli d'Intesa devono inoltre individuare le modalità attraverso le quali le AOU concorrono alla realizzazione sia dei compiti istituzionali dell'università che di quelli assistenziali. Occorre però rilevare l'assenza, nel D.P.C.M. 24 maggio 2001, di qualsiasi indicazione in merito alla gerarchia delle possibili opzioni tra strutture pubbliche e private.
Relativamente al personale, sia universitario, sia sanitario, si prevede che i Protocolli d'Intesa debbano stabilire i criteri per la quantificazione dell'impegno assistenziale medio ed assicurare un equilibrato rapporto con quello della dirigenza sanitaria. Ciò è finalizzato alla determinazione delle dotazioni organiche e di programmazione dell'attività. Il legislatore, all'art. 3, comma 2, lett. c), delle Linee Guida, preferisce rinviare l'articolazione dell'orario di servizio del personale universitario a un piano di lavoro predisposto dalle singole strutture aziendali di appartenenza che deve essere oggetto d'intesa con l'Ateneo e deve tener conto sia dell'impegno assistenziale che di quello didattico scientifico.
Sempre relativamente al personale, i Protocolli d'Intesa devono inoltre prevedere che il trattamento economico integrativo dei docenti e ricercatori sia composto, in analogia al personale medico dipendente dal SSN, dalla retribuzione di posizione, correlata alla direzione di struttura (dipartimenti, unità operative complesse e semplici) e dalla retribuzione di risultato, rapportata ai risultati assistenziali conseguiti. L'importo del trattamento economico viene attribuito dall'azienda all'università e da questa ai docenti universitari.
Per quanto riguarda gli aspetti di tipo organizzativo, vengono disciplinati gli assetti istituzionali delle aziende, dei dipartimenti, delle strutture complesse e semplici nonché quelli relativi al dimensionamento delle strutture oggetto dei protocolli d'intesa.
Relativamente agli assetti istituzionali delle Aziende, le linee guida incaricano i Protocolli d'Intesa di determinare la composizione dell'Organo di Indirizzo di cui all'art. 4, comma 4 del D.Lgs. 517/99. Unica indicazione in merito è la previsione che i componenti devono essere paritariamente designati dalla Regione e dall'Università, tenendo conto di un membro di diritto rappresentato dal Preside della Facoltà di Medicina.
Le Linee Guida inoltre rimettono all'atto aziendale, di cui all'art. 3, comma 2, del D.Lgs. 517/99, l'organizzazione delle Aziende Ospedaliere Universitarie "in modo da assicurare il pieno svolgimento delle funzioni didattiche e scientifiche delle Facoltà di Medicina e Chirurgia in un quadro di coerente integrazione con l'attività assistenziale e con gli obiettivi della programmazione regionale”. Tale atto è assunto dal Direttore Generale d'intesa con il Rettore. La materia organizzativa viene inoltre regolata, in via preventiva, anche dai Protocolli d'Intesa cui spetta individuare, sulla base di specifici criteri di cui all'art. 4, comma 3, le strutture assistenziali complesse essenziali alle esigenze di didattica e di ricerca dei corsi di laurea di medicina e chirurgia. L'individuazione delle strutture assistenziali compete pertanto sia all'atto aziendale sia ai protocolli d'intesa, ed,al fine di evitare il conflitto di competenze, concordemente si assegna all'atto di organizzazione, assunto d'intesa con il Rettore, il compito di disciplinare gli assetti organizzativi interni, lasciando ai Protocolli d'intesa , il ruolo di disciplinare i criteri di massima.
Infine, le Linee Guida prevedono indicazioni circa i criteri della compartecipazione degli Atenei ai risultati delle Aziende Integrate da realizzarsi attraverso la definizione, nei Protocolli d'Intesa, dalla messa a disposizione del personale docente e non docente e dei beni mobili ed immobili. In caso di risultati positivi della gestione aziendale, gli utili vengono impiegati per il finanziamento di programmi di ricerca di interesse assistenziale e di sviluppo della qualità delle prestazioni. In caso invece di risultati negativi, la Regione e l'Università concordano specifici piani di rientro attraverso l'utilizzo delle risorse ordinarie delle Aziende Integrate. In caso di mancato accordo tra Regione ed Università, la Regione, dopo aver sentito il comitato regionale di coordinamento delle università, disdetta il Protocollo d'Intesa per quanto concerne l'azienda interessata e ripristina autonomamente l'equilibrio economico finanziario.
In ultimo, le Linee Guida impongono alle Regioni gli adeguamenti delle remunerazioni delle strutture oggetto dei Protocolli d'Intesa. L'art. 1, comma 7 prevede infatti che la Regione è tenuta a corrispondere alle aziende pubbliche e private coinvolte nei Protocolli d'Intesa i maggiori costi indotti sulle attività assistenziali dalle funzioni di didattica e di ricerca, detratta la quota derivante dai risparmi ottenuti dall'apporto del personale universitario. Ciò si traduce in un aumento dei Diagnosis Related Group (D.R.G.) che la Regione dovrà riconoscere in relazione alla produzione assistenziale assicurata, alle suddette Aziende.
L’istituzione delle Aziende Ospedaliere Universitarie prevista dal D.Lgs. 517/1999, avrebbe dovuto superare il dualismo storico esistente tra Policlinici Universitari e Aziende Tuttavia tale risultato non è stato raggiunto soprattutto per un’applicazione disomogenea delle norme in materia, molto spesso condizionata dall’organizzazione a livello locale.
Nel 2011, il Ministero della salute ha realizzato una indagine sul grado di integrazione raggiunto, avvalendosi per l’occasione della collaborazione di un network composto da 24 strutture ospedaliero- universitarie (AOU).
L’indagine, relativamente ai protocolli siglati dalle regioni, rileva che “le norme contenute nei protocolli d’intesa risultano particolarmente astratte e generali, senza ricadute immediate dal punto di vista operativo. Solamente in rari casi vengono date delle indicazioni concrete in merito all’organizzazione delle AOU, mentre viene dato largo spazio a concetti generali ripresi soprattutto dalla normativa nazionale nessun protocollo presenta novità di particolare rilievo rispetto a quanto disciplinato dal legislatore statale”. Inoltre, l’indagine sottolinea che tali norme, già astratte e generiche, sono per lo più accompagnate da rimandi ad ulteriori protocolli attuativi, all’atto aziendale o ad altri accordi in ambito regionale e locale.
L’indagine sottolinea anche la difficoltà delle università italiane a garantire il turn over del personale docente e a fornire quindi un contributo costante alle attività assistenziali tramite tale tipologia di personale.
L’indagine sottolinea come “un vero fattore di originalità potrebbe essere costituito dalla possibilità di adottare e di disciplinare, all’interno dei protocolli, modelli comuni di organizzazione e funzionamento delle aziende ospedaliero-universitarie, più rispondenti alle esigenze di integrazione, pur preservandone la flessibilità di contestualizzazione a livello locale, e dalla possibilità di sviluppare soluzioni alle problematiche connesse ai rapporti tra università e SSN., mettendo a frutto l’interscambio di esperienze. Queste forme di coordinamento tra le aziende ospedaliero-universitarie su scala nazionale potrebbero portare da un lato a rafforzare e migliorare la potestà legislativa delle regioni e dall’altro ad adattare i modelli e le connesse modalità operative all’evoluzione dei rapporti tra il sistema della tutela della salute ed il sistema della formazione”.
Per quanto riguarda l’integrazione, viene misurata la dipendenza dell’università dal personale del SSR di riferimento, per le funzioni di didattica e ricerca. A questo proposito, sia nel 2008 che nel 2009 risulta che “la dipendenza dell’università dal personale del SSR è superiore all’entità della dipendenza del SSR dall’università” per le funzioni assistenziali. Relativamente alla presenza dei Dipartimenti ad attività integrata che possono diventare una sede unitaria per coordinarsi con le attività della facoltà di medicina, l’indagine segnala un miglioramento nel biennio 2008-2009: nel 2009 sono state rilevate sei aziende che hanno dichiarato di essere organizzate esclusivamente con dipartimenti ad attività integrata a fronte delle quattro del 2008. Più difficile l’integrazione delle procedure» (obiettivi di budget, programmazione, controllo, attività amministrative ecc.) dove l’indice di integrazione non supera il 50% nel 2009 (contro il 40% del 2008).
In via preliminare occorre ricordare che il D.Lgs. 517/1999, all’articolo 8, comma 5, stabilisce che alle procedure concernenti il trasferimento o l'utilizzazione del personale non docente nelle aziende ospedaliero-universitarie si provvede con uno o più decreti interministeriali dei Ministri della salute, dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica (ora dell'istruzione, dell'università e della ricerca), della funzione pubblica (ora per la pubblica amministrazione e la semplificazione) e del tesoro (ora dell'economia e delle finanze), sentite le organizzazioni sindacali, d'intesa con la Conferenza Stato-regioni. Come sottolineato dal rappresentante del Governo, nella risposta all’interrogazione 5-07050 dell'on. Palagiano, tali decreti non sono stati adottati in ragione di una divergenza di tesi interpretative della norma. In particolare, da un lato si riteneva che il costo del personale delle AOU dovesse essere assunto dalle Regioni, e dall’altro si sosteneva – soprattutto da parte del Ministero Economia e Finanze, come più volte ribadito in sede di riunioni tecniche -, che le Università dovessero trasferire unitamente al personale anche le risorse necessarie per gestire il medesimo personale.
Successivamente è intervenuto l’articolo 6, comma 13, della legge 240/2010, in vigore dal 10 febbraio 2012, che prevede che il MIUR, di concerto con il Ministero della salute, d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, sentita la Conferenza dei presidi delle facoltà di medicina e chirurgia, predisponga lo schema-tipo delle convenzioni al quale devono attenersi le università e le regioni per regolare i rapporti in materia di attività sanitarie svolte per conto del SSN. La schema-tipo deve essere predisposto con riguardo alle strutture cliniche e di ricerca traslazionale (trasformazione di scoperte fondamentali in applicazioni cliniche) necessarie per la formazione nei corsi di laurea di aerea sanitaria di cui alla direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali.
La direttiva europea 2005/36/CE, recepita in Italia con il D.Lgs. 206/2007, sostituisce le quindici direttive che precedentemente hanno disciplinato il riconoscimento delle qualifiche professionali riguardanti le professioni d'infermiere professionale, odontoiatra, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista e medico. Nel quadro della disciplina concernente il riconoscimento delle qualifiche professionali acquisite in uno o più Stati membri dell'Unione europea ai fini dell'esercizio in Italia delle relative attività professionali, il D.Lgs. 206/2007 ha dettato specifiche norme in materia di formazione e di riconoscimento dei titoli relativi alle professioni sanitarie.
Nel maggio del 2011, il network di Aziende Ospedaliero-Universitarie che hanno partecipato all’indagine del Ministero della salute (v. supra), hanno elaborato un documento finalizzato alla predisposizione dello schema tipo di convenzioni al quale devono attenersi le università e le regioni nel regolare i rapporti in materia di attività sanitarie per conto del SSN, auspicando un ampio confronto con gli interlocutori istituzionali.
In ultimo, nel rispetto della norma della legge 240/2012, è stato predisposto lo schema di decreto volto a definire i rapporti tra università e regioni in materia di attività integrate di didattica, ricerca e assistenza. In particolare, sono state individuate:
Lo schema di decreto è all’esame del coordinamento tecnico della Commissione salute della Conferenza Stato-regioni dal 9 agosto 2012.
Gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) sono enti a rilevanza nazionale dotati di autonomia e personalità giuridica che, secondo standards di eccellenza, perseguono finalità di ricerca, prevalentemente clinica e traslazionale, nel campo biomedico ed in quello dell'organizzazione e gestione dei servizi sanitari, unitamente a prestazioni di ricovero e cura di alta specialità.
La peculiarità dell’attività di ricerca degli IRCCS sta quindi nello scambio continuo di conoscenze scientifiche fra laboratorio e clinica; ogni ricerca deve infatti trovare necessariamente sbocco in applicazioni terapeutiche ospedaliere.
Il D.Lgs. 288/2003 ha disposto il riordino degli IRCCS prevedendo come aspetto prioritario la condivisione tra il Ministero della Salute e le Regioni della trasformazione degli istituti pubblici in fondazioni e della definizione dei loro organi di gestione. Il decreto stabilisce, inoltre, che gli istituti che non verranno trasformati saranno organizzati sulla base di criteri che garantiscano le esigenze di ricerca e la partecipazione a reti nazionali di centri di eccellenza.
Gli IRCCS hanno natura giuridica diversa, pubblica o privata. Gli IRCCS pubblici sono veri e propri enti pubblici e si caratterizzano per la maggiore ingerenza dello Stato sull’andamento della loro gestione (al Ministro spetta la nomina del direttore scientifico). Dal 2003 gli IRCCS di diritto pubblico, su istanza della Regione in cui l'Istituto ha la sede prevalente di attività clinica e di ricerca, possono essere trasformati in Fondazioni di rilievo nazionale, aperte alla partecipazione di soggetti pubblici e privati e sottoposte alla vigilanza del Ministero della salute e del Ministero dell'economia e delle finanze. Gli enti trasformati assumono la denominazione di Fondazione IRCCS. Gli IRCCS privati invece hanno una maggiore libertà di azione ed il controllo su di essi viene effettuato soltanto sulla valenza delle ricerche effettuate.
Gli IRCCS sono sottoposti alla vigilanza del Ministero della Salute che garantisce che la ricerca da essi svolta sia finalizzata all’interesse pubblico e di supporto tecnico ed operativo agli altri organi del SSN per l'esercizio delle funzioni assistenziali al fine del perseguimento degli obiettivi del Piano Sanitario Nazionale in materia di ricerca sanitaria e per la formazione del personale.
Realtà ospedaliere emergenti che trattano patologie di rilievo nazionale, vengono qualificate come IRCCS attraverso una procedura che riconosce il loro carattere scientifico. Tale riconoscimento conferisce il diritto alla fruizione di un finanziamento statale (che va ad aggiungersi a quello regionale) finalizzato esclusivamente allo svolgimento della attività di ricerca relativa alle materie riconosciute.
L'articolo 14, commi 9-bis-12, del decreto legge 158/2012 hanno proceduto ad una manutenzione del sistema regolatorio nazionale degli IRCCS, con disposizioni volte a precisare la procedura per il riconoscimento, la revoca del medesimo e la documentazione a tal fine necessaria. L’intervento è stato attuato intervenendo sul D.Lgs. 288/2003.
Ai sensi dell’art. 13 del decreto 288/2003, il riconoscimento del carattere scientifico è soggetto al possesso, in base a titolo valido, dei seguenti requisiti: personalità giuridica di diritto pubblico o di diritto privato; titolarità dell'autorizzazione e dell'accreditamento sanitari; economicità ed efficienza dell'organizzazione, qualità delle strutture e livello tecnologico delle attrezzature; caratteri di eccellenza del livello delle prestazioni e dell'attività sanitaria svolta negli ultimi tre anni; caratteri di eccellenza della attività di ricerca svolta nell'ultimo triennio relativamente alla specifica disciplina assegnata; dimostrata capacità di inserirsi in rete con Istituti di ricerca della stessa area di riferimento e di collaborazioni con altri enti pubblici e privati; dimostrata capacità di attrarre finanziamenti pubblici e privati indipendenti; certificazione di qualità dei servizi secondo procedure internazionalmente riconosciute. I commi 9-bis e 9-ter dell'articolo 14 del decreto legge 158/2012 hanno modificato un requisito, posto ai fini del riconoscimento dell'IRCCS e consistente (nella norma precedentemente vigente) nei caratteri di eccellenza del livello e di alta specialità dell'attività di ricovero e cura svolta negli ultimi tre anni. La novella
prevede che il requisito possa consistere, in alternativa, nel carattere di eccellenza del contributo tecnico-scientifico fornito - nell’àmbito di un’attività di ricerca biomedica riconosciuta a livello nazionale ed internazionale - , inteso ad assicurare una più altaqualità dell’attività assistenziale, ttestata da strutture pubbliche del SSN. Resta fermo il requisito concorrente del carattere di eccellenza dell'attività di ricerca svolta nell'ultimo triennio, relativamente alla specifica disciplina assegnata.
I commi 10 e 10-bis dell'articolo 14 del decreto legge 158/2012 sostituisce i commi 1 e 2 dell’articolo 14 del D.Lgs. 288/2003 in materia di procedimento per il riconoscimento del carattere scientifico. In tal senso si stabilisce che la domanda di riconoscimento è presentata, dalla struttura interessata, alla regione competente per territorio. Tale domanda è presentata unitamente alla documentazione, individuata con decreto del Ministro della salute, sentita la Conferenza Stato-regioni, comprovante la titolarità dei requisiti prima elencati. La regione inoltra la domanda al Ministero della salute. Nella domanda va precisata la sede effettiva di attività della struttura e la disciplina per la quale si richiede il riconoscimento, evidenziando la coerenza del riconoscimento con la propria programmazione sanitaria. Si ricorda che a legislazione previgente non era previsto il decreto ministeriale relativo alla documentazione. Per quanto riguarda la procedura di valutazione, il Ministro della salute nomina una commissione di valutazione formata da almeno due esperti nella disciplina oggetto della richiesta di riconoscimento. Gli esperti svolgono l’incarico a titolo gratuito. Entro trenta giorni dalla nomina, la commissione esprime il proprio parere motivato sulla sussistenza dei requisiti, sulla completezza della documentazione allegata alla domanda e su quella eventualmente acquisita dalla struttura interessata. La commissione può anche effettuare sopralluoghi. Entro dieci giorni dal ricevimento del parere, il Ministro della salute trasmette gli atti alla Conferenza Stato-regioni, che deve esprimersi sulla domanda di riconoscimento entro quarantacinque giorni dal ricevimento. Il riconoscimento è disposto con decreto del Ministro dalla salute, previa intesa con il Presidente della Regione interessata. L'eventuale decisione difforme dai pareri deve essere motivata.
Il procedimento di conferma e revoca del carattere scientifico è disciplinato ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. 288/2003, completamente modificato dal comma 11 dell'articolo 14 del decreto legge 158/2012.Le Fondazioni IRCCS, gli Istituti non trasformati e quelli privati inviano ogni due anni, a legislazione previgente ogni tre anni, al Ministero della salute i dati aggiornati circa il possesso dei requisiti necessari per il riconoscimento. Innovando rispetto alla disciplina previgente, il Ministero della salute, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, può verificare in ogni momento la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento delle Fondazioni IRCCS, degli Istituti non trasformati e di quelli privati. Nel caso di sopravvenuta carenza di tali condizioni, il Ministero informa la regione territorialmente competente ed assegna all’ente un termine non superiore a sei mesi – precedentemente il termine era fissato a un anno - entro il quale reintegrare il possesso dei requisiti prescritti. Il Ministro della salute e la regione competente possono immediatamente sostituire i propri designati all’interno dei consigli di amministrazione e, innovando, sospendere cautelativamente l’accesso al finanziamento degli enti interessati. Alla scadenza di tale termine, sulla base dell’esito della verifica, il Ministro della salute, d’intesa con il Presidente della regione interessata, conferma o revoca il riconoscimento. In caso di revoca del riconoscimento, le Fondazioni IRCCS e gli Istituti, pubblici e privati, riacquistano la natura e la forma giuridica rivestite prima della concessione del riconoscimento, fermo restando l'obbligo di terminare i progetti di ricerca finanziati con risorse pubbliche o, in caso di impossibilità, di restituire i fondi non utilizzati.
Il decreto legge 158/2012 ha inoltre previsto che entro il 31 dicembre 2012 dovrà essere adottato un decreto del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e la Conferenza Stato-regioni, in cui saranno stabiliti i criteri di classificazione degli IRCCS non trasformati, delle Fondazioni IRCCS e degli altri IRCCS di diritto privato sulla base di indicatori quali-quantitativi di carattere scientifico di comprovato valore internazionale. Il medesimo decreto dovrà individuare le modalità attraverso cui realizzare l’attività di ricerca scientifica in materia sanitaria a livello internazionale. Il decreto non è stato finora emanato.
Ricordiamo infine che gli IRCCS sono attori importanti della ricerca sanitaria: la normativa vigente li individua come destinatari istituzionali della ricerca sanitaria finalizzata, anche l'attività di ricerca sanitaria corrente è svolta dagli IRCCS attraverso l'elaborazione di progetti. Le attività di ricerca sanitaria corrente e finalizzata sono infatti svolte dalle regioni, dall'Istituto superiore di sanità, dall'INAIL (per le attività in precedenza svolte dall'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, ora soppresso), dall'Agenzia per i servizi sanitari regionali, dagli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici e privati nonché dagli Istituti zooprofilattici sperimentali. Alla realizzazione dei progetti possono concorrere, sulla base di specifici accordi, contratti o convenzioni, le Università, il Consiglio nazionale delle ricerche e gli altri enti di ricerca pubblici e privati, nonché imprese pubbliche e private.
In tema di bioetica nel corso della XVI Legislatura il dibattito parlamentare si è concentrato essenzialmente sugli ambiti del consenso informato e delle dichiarazioni anticipate di trattamento, mediante l'esame di diverse proposte di legge che sono state approvate dal Parlamento in prima lettura e, giunte in seconda lettura all'esame del Senato, non hanno potuto concludere il proprio percorso. Si tratta di argomenti fortemente connessi al diritto costituzionale alla salute ed alle sue implicazioni sulle problematiche del "fine vita". Appaiono significative anche le disposizioni concernenti il tema dell'utilizzo del corpo post-mortem a fini di studio e di ricerca scientifica.
Sui temi riconducibili alla generale categoria della bioetica, ed in particolare su quelli concernenti la fine della vita e il "diritto a morire con dignità", si è sviluppato, negli ultimi anni nel nostro Paese, un intenso dibattito dottrinario e giurisprudenziale che non ha lasciato indifferente il legislatore. Il dibattito è fondato sul riconoscimento del diritto alla salute, di cui all’articolo 32 della Costituzione, quale diritto fondamentale e del principio del consenso informato quale presupposto di ogni trattamento sanitario. Peraltro, il principio del consenso informato viene sancito anche dalla Convenzione di Oviedo - ratificata dalla legge n. 145 del 28 marzo 2001 -, dal codice di deontologia medica e da specifiche disposizioni normative.
Si fa riferimento, da un lato, al ricorso agli analgesici per alleviare il dolore e, più in generale, alle cure palliative, dall’altro al rifiuto o alla sospensione di trattamenti eccezionali, che non hanno più valore di terapia. Particolari problemi sorgono inoltre quando il paziente non sia più in grado di esprimere la propria volontà e di opporsi a determinati trattamenti.
Nell’ottobre 2008 il Senato ha avviato l’esame, concluso, in prima lettura, il 26 marzo 2010, del testo unificato di varie proposte di legge (A.S. 10 ed abb.) recante disposizioni sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Nel corso del dibattito parlamentare non sono mancate prese di posizione varie e contrastanti tra i diversi schieramenti politici e anche all’interno degli stessi, frutto di differenti concezioni etiche e giuridiche.
Il provvedimento è stato esaminato, in sede referente, dalla XII Commissione affari sociali della Camera (A.C.2350) che ne ha concluso l'esame, con la votazione del mandato al relatore, il 1° marzo 2011. L'esame in Commissione del testo già approvato dal Senato ha visto l'intervento di molti deputati. Sono state svolte anche audizioni informali di associazioni ed esperti del settore. Il lavoro istruttorio della Commissione ha portato all'approvazione di numerosi emendamenti. L'Assemblea della Camera ha concluso l'esame del provvedimento il 12 luglio 2011 e lo ha trasmesso all'altro ramo del Parlamento. L'esame in seconda lettura presso il Senato, avviato nel settembre 2011, non è tuttavia giunto a conclusione.
Il progetto di legge sancisce preliminarmente i principi della tutela della vita umana e della dignità della persona, del divieto dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico, e del consenso informato quale presupposto di ogni trattamento sanitario. Provvede quindi alla disciplina, con una norma di carattere generale, del consenso informato, sempre revocabile e preceduto da una corretta informazione medica, e delinea le caratteristiche e i principi essenziali della dichiarazione anticipata di trattamento. Tale dichiarazione consiste nella manifestazione di volontà con cui il dichiarante si esprime, con determinate formalità, in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un'eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere. Essa, tuttavia, non può riguardare l’alimentazione e l'idratazione, che devono essere mantenute fino al terminedella vita, salvo che non abbiano più alcuna efficacia nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Le dichiarazioni anticipate hanno una validità di cinque anni e sono pienamente revocabili, rinnovabili e modificabili. Ne viene inoltre sancita la non obbligatorietà per il medico che, tuttavia, qualora non intenda seguire gli orientamenti espressi dal paziente, è tenuto a sentire il fiduciario o i familiari e a motivare in modo approfondito la sua decisione sottoscrivendola.
L'assistenza ai soggetti in stato vegetativo è qualificata come livello essenziale di assistenza ed è assicurata attraverso prestazioni ospedaliere, residenziali e domiciliari secondo modalità previste da disposizioni normative e dall'Accordo sancito tra il Ministro della salute e le regioni e province autonome sulle Linee di indirizzo per l'assistenza alle persone in stato vegetativo e stato di minima coscienza. Vengono poi disciplinati il ruolo del fiduciario e del medico ed è infine stabilita l’istituzione di un Registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento in un archivio unico nazionale informatico.
Va ricordato poi l'esame da parte della Camera del testo unificato di alcune proposte di legge (A.C. 746 ed abb.) disciplinanti il tema dell'utilizzo del corpo umano e dei tessuti a fini di ricerca scientifica dei soggetti dei quali sia stata accertata la morte ai sensi della legge n. 578/1993, e che abbiano espresso in vita il consenso informato. Vengono disciplinate le modalità per l'espressione in vita del relativo consenso - mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata - e previsti centri di riferimento per la conservazione e utilizzazione delle salme, destinati a gestire le diverse fasi in cui si articola la relativa procedura. Essi hanno precisi obblighi informativi nei confronti dell'ufficio di stato civile del comune di residenza del donatore e sono tenuti alla restituzione della salma alla famiglia, in condizioni dignitose, entro un anno dalla consegna. Per agevolare la conoscenza delle nuove disposizioni sono previste specifiche iniziative informative.
La XII Commissione affari sociali della Camera ha concluso l'esame in sede referente del provvedimento; in Assemblea, tuttavia, si è svolta soltanto la discussione dello stesso che non ha concluso il suo iter a causa della fine della legislatura.
Il testamento biologico
Post mortem
Le cellule staminali sono cellule non specializzate (immature), diverse da tutti i tipi di cellule esistenti nell’organismo; sono ad alto potenziale proliferativo e sono in grado di rinnovarsi, attraverso la divisione cellulare, per periodi indefiniti, generando tipi cellulari specializzati che costituiscono i vari tessuti e organi. Le cellule staminali possono essere divise in due grandi famiglie: le cellule staminali embrionali provenienti da un organismo in formazione come l’embrione – precisamente il pre-embrione, o blastocisti – in grado di trasformarsi in qualsiasi tipo di cellule o tessuti e di proliferare a grandissima velocità, e le cellule staminali provenienti da un tessuto adulto che controllano l’integrità del corpo, dedicandosi alla riparazione dei guasti dovuti al logoramento naturale dei tessuti o a una malattia. Le cellule staminali adulte/somatiche sono state identificate a livello di vari organi e tessuti – quali midollo osseo, pancreas, ossa, cartilagine, fegato, cute, sistema nervoso e tessuto adiposo – ma la maggiore conoscenza dei loro meccanismi rigenerativi deriva dallo studio del sistema emopoietico, vale a dire il sistema corporeo deputato a generare le cellule del sangue.
A seconda dello stadio di sviluppo e della potenzialità differenziativa si distinguono diversi tipi di cellule staminali:
§ Cellule staminali embrionali, in grado di differenziarsi, sotto l’influenza di determinati stimoli, in tutti i tipi cellulari del nostro organismo. Le cellule staminali embrionali sono derivate dalla massa cellulare interna della blastocisti, ovvero dell’embrione nella fase dello sviluppo compreso tra il 5° ed il 7° giorno circa dal momento della fecondazione dell’uovo. Le cellule staminali embrionali sono pluripotenti in quanto sono in grado di dare origine a tutti i tipi cellulari che compongono l’organismo. Possono essere cresciute in laboratorio in mezzi di coltura definiti. Le cellule staminali embrionali umane sono state isolate per la prima volta nel 1998.
§ Cellule staminali adulte/somatiche, cellule staminali unipotenti (capaci di produrre solo un tipo di cellula) o multipotenti (capaci di generare più tipologie di cellule come accade nel caso del sangue, le cui staminali adulte dette emopoietiche possono produrre fino a nove diversi tipi di cellule del sangue) presenti nei tessuti degli individui adulti e deputate al mantenimento della struttura e funzionalità del tessuto in cui sono localizzate. Sono in grado di differenziare dando origine a cellule specializzate che saranno dello stesso tipo di quelle del tessuto da cui sono state prelevate. Sono in corso applicazioni sperimentali con cellule staminali della pelle, del cervello e del midollo (per la cura del morbo di Alzheimer e Parkinson, Corea di Huntington, epilessia, SLA, e danni da traumi), e altri gruppi di ricercatori sono impegnati a indagare le proprietà staminali per le ossa, le strutture dell’occhio e dell’orecchio e sui vasi danneggiati dall’ipertensione.
Le cellule staminali possono essere distinte anche per fonte di raccolta in :
§ Cellule staminali embrionali;
§ Cellule staminali adulte provenienti da un tessuto. In alcuni caso si possono prelevare da una persona vivente. Sono abbondanti nei tessuti che si rinnovano durante la vita degli individui (come la pelle). Le proprietà individuali e sperimentali , vale a dire la possibilità d isolarle ed espanderle in laboratorio o di dare origine a cellule specializzate di un dato tessuto, possono essere più o meno efficaci in funzione della cellula staminale;
§ Cellule staminali adulte emopoietiche]]: contenute in prevalenza nell'interno del midollo osseo, ma presenti anche nel sangue periferico e nel sangue placentare prelevato dal cordone ombelicale al momento della nascita. Le cellule staminali emopoietiche sono in grado di dare origine agli elementi corpuscolati del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) e di rigenerare il midollo osseo.
La legislazione italiana prevede che il Servizio Sanitario Nazionale assicuri, attraverso risorse finanziare pubbliche, la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini e le pari opportunità di accesso alle prestazioni assistenziali. Tali attività sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale e non comportano alcuna spesa da parte del cittadino, dal momento che si configurano come livelli essenziali di assistenza (LEA), cioè prestazioni e servizi che sono erogati a carico del servizio pubblico in quanto sostenute dall’evidenza scientifica di un significativo beneficio in termini di salute a livello individuale e collettivo. Il D.P.C.M 21 novembre 2001 di definizione dei Livelli essenziali di assistenza, grazie ad una integrazione del 2007, ha incluso nel livello riferibile all’assistenza ospedaliera, la raccolta, lavorazione, controllo e distribuzione degli emocomponenti e servizi trasfusionali nonché l’attività di ricerca e reperimento di cellule staminali presso Registri e banche nazionali ed estere. Il trapianto di cellule staminali emopoietiche rappresenta una terapia salvavita consolidata e di grande successo per la cura di numerose e gravi malattie del sangue. L’osservazione che il sangue placentare contiene cellule staminali emopoietiche ha indotto una serie di studi e sperimentazioni che hanno confermato la possibilità di utilizzare il sangue prelevato dal cordone ombelicale come fonte alternativa di staminali emopoietiche a scopo trapiantologico. Il Ministero della salute
La possibilità di effettuare trapianti con sangue da cordone ombelicale ha portato alla istituzione di apposite banche. Il decreto del Ministero della salute 18 novembre 2009 ha istituito la Rete nazionale italiana di banche per la conservazione di sangue da cordone ombelicale, attualmente composta da 18 banche, distribuite su tutto il territorio nazionale, e coordinata, a livello centrale, dal Centro Nazionale Sangue in collaborazione con il Centro Nazionale Trapianti. Le unità di sangue cordonale conservate presso le banche italiane sono circa 20.000 e di queste, al 31 dicembre 2008, circa 800 sono state utilizzate per trapianto, sia in Italia che all’estero. In queste strutture vengono conservate le unità di sangue cordonale donate a scopo allogenico, a disposizione della collettività. La materia è disciplinata dalla legge 21 ottobre 2005, n. 219 recante la disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati. Sinteticamente la norma dispone che il prelievo di cellule staminali emopoietiche periferiche e da cordone ombelicale possa avvenire esclusivamente all'interno di strutture trasfusionali a tal fine autorizzate dalle regioni. Analogamente, la legge stabilisce la volontarietà e la gratuità della donazione della placenta e del sangue da cordone ombelicale alla quale ogni donna può dare il proprio assenso informato al momento del parto.
Il decreto ministeriale 18 novembre 2009 recante disposizioni in materia di conservazione di cellule staminali da sangue del cordone ombelicale per uso autologo-dedicato, ribadisce la conservazione per uso allogenico, cioè in favore di persone diverse da quelle da cui le cellule sono prelevate, a fini solidaristici, in strutture pubbliche a ciò dedicate. Il decreto ribadisce il divieto della conservazione per uso unicamente autologo, cioè personale, del sangue del cordone ombelicale, tranne nei casi in cui sia presente, nel nascituro o tra i suoi consanguinei, una patologia per la quale sia riconosciuto clinicamente valido ed appropriato l’utilizzo terapeutico delle cellule staminali del sangue da cordone ombelicale. In tal caso si tratta di “donazione dedicata” e le cellule staminali, conservate gratuitamente nelle banche italiane, sono ad esclusiva disposizione del soggetto al quale sono state dedicate in ragione della sua patologia. In particolare, le disposizioni vigenti nel nostro Paese consentono la conservazione delle cellule staminali da sangue cordonale per uso autologo-dedicato al neonato o ad un consanguineo presso le banche di sangue placentare esistenti sul territorio nazionale, qualora ricorrano determinate condizioni quali: patologie in atto presenti nel neonato o evidenziate in epoca prenatale o in un consanguineo al momento della raccolta e trattabili con le cellule staminali; famiglie a rischio di avere figli affetti da malattie geneticamente determinate per le quali risulti appropriato l’utilizzo di cellule staminali da sangue cordonale. La norma consente inoltre la conservazione del sangue da cordone ombelicale ad uso autologo dedicato anche in caso di particolari patologie, non ancora presenti nell’elenco allegato al decreto ministeriale 18 novembre 2009, per le quali sussistono comprovate evidenze scientifiche di un possibile impiego di cellule staminali da sangue cordonale anche nell’ambito di sperimentazioni cliniche approvate secondo la normativa vigente, previa presentazione di una documentazione rilasciata da un medico specialista nel relativo ambito clinico. Tale conservazione viene autorizzata dal responsabile della banca, sentito il parere di un gruppo tecnico multidisciplinare coordinato dal Centro Nazionale Trapianti. La conservazione del sangue cordonale per un uso personale collegato a eventuali esigenze terapeutiche future è ancora oggi gravata da incertezze. L'ordinanza ministeriale del 1 marzo 2010 ha prorogato le disposizioni, per l'autorizzazione alla esportazione di campioni di sangue cordonale per uso autologo, stabilite dalla precedente ordinanza del 26 febbraio 2009. La norma consente di esportare, presso una struttura estera e a proprie spese, il sangue di cordone ombelicale prelevato al momento della nascita del proprio figlio e conservarlo per un uso strettamente personale. Sul punto è poi intervenuto l’Accordo tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sull’esportazione di campioni di sangue da cordone ombelicale per uso autologo del 29 aprile 2010 che ha stabilito le modalità per il rilascio dell'autorizzazione alla esportazione di campioni di sangue da cordone ombelicale, da parte della Regione o della Provincia autonoma di competenza. Nell'accordo è anche previsto che la Regione o Provincia autonoma, nella piena autonomia gestionale, possa stabilire il pagamento di una adeguata tariffa in base ai costi sostenuti per le operazioni svolte per il rilascio dell'autorizzazione e la raccolta del campione di sangue da cordone ombelicale.
Si ricorda infine l'Accordo Stato-Regioni del 20 aprile 2011, sulle Linee guida per l’accreditamento delle Banche di sangue da cordone ombelicale, con il quale vengono ulteriormente definiti, nel rispetto di standard nazionali e internazionali, gli aspetti organizzativi tecnici ed operativi che caratterizzano le attività delle Banche di sangue da cordone ombelicale.
Attualmente la rete trapiantologica di cellule staminali emopoietiche vede impegnati circa 100 Centri Trapianti, distribuiti su tutto il territorio nazionale, che effettuano ogni anno oltre 1400 trapianti. Nel 2009 sono stati realizzati 1474 trapianti di cellule staminali emopoietiche da donatore familiare o da donatore volontario iscritto all’apposito Registro; il 17% di questi sono stati effettuati utilizzando cellule staminali cordonali provenienti da banche italiane ed estere. La rete italiana delle banche (ITCBN – Italian Cord Blood Bank) è, come detto, costituita da 18 strutture, per lo più allocate all’interno di Servizi Trasfusionali, che condividono tra loro strategie e protocolli relativi al bancaggio e alla modalità di ricerca, gestita dal Registro Nazionale Donatori di Midollo Osseo (IBMDR), che ha sede presso l’Ospedale Galliera di Genova e che con oltre 380.000 donatori iscritti costituisce uno dei Registri più importanti a livello internazionale. Ad oggi, in tutto il mondo, oltre 20.000 trapianti sono stati effettuati con cellule staminali emopoietiche da sangue cordonale. Il Registro Nazionale Donatori di Midollo Osseo (IBMDR) è stato istituito nel 1989 e riconosciuto formalmente con la legge n. 52 del 2001. Dal 2007 ha ottenuto il massimo riconoscimento a livello internazionale attraverso il raggiungimento dell’accreditamento WMDA (World Marrow Donor Association) e ha coordinato oltre 2000 ricerche di donatori per pazienti stranieri e oltre 1400 per pazienti italiani, nel solo 2009. In questo sistema organizzativo si inseriscono, con funzioni di coordinamento, due Centri Nazionali: il Centro Nazionale Trapianti ed il Centro Nazionale Sangue, che svolgono il loro compito in stretta collaborazione con le autorità regionali competenti, attraverso dei Centri di Coordinamento Trapianti e Sangue regionali, e direttamente con i professionisti, in un’ottica di cooperazione tecnico-scientifica interdisciplinare mirata all’affermazione di standard assistenziali di elevata qualità e sicurezza.
Nel corso delle XVI Legislatura sono state esaminate, in sede referente, dalla XII Commissione Affari sociali della Camera alcune proposte di legge (A.C. 361 ed abb.) disciplinanti la donazione e l’utilizzo, a fini terapeutici e di ricerca, di cellule staminali fetali, di cellule staminali da cordone ombelicale e di cellule staminali adulte. La Commissione ha deliberato l'istituzione di un comitato ristretto per la predisposizione di un testo unificato, alla cui stesura non si è mai giunti. Molte delle proposte intendevano autorizzare anche in Italia la conservazione del sangue cordonale per uso autologo non dedicato sia presso le strutture pubbliche che private autorizzate.
Le cellule staminali embrionali, presenti transitoriamente nella blastocisti (v. supra), possono essere ricavate esclusivamente prelevandole da blastocisti coltivate in vitro e risultanti in eccesso da una precedente fertilizzazione avente scopi riproduttivi, oppure da blastocisti coltivate appositamente mediante fecondazione in vitro per motivo di ricerca. Le linee cellulari embrionali oggi disponibili derivano da blastocisti soprannumerarie. Le cellule staminali embrionali, presenti nella massa cellulare interna della blastocisti, vengono prelevate e stabilizzate per poi essere trattate in laboratorio in terreni di coltura idonei. Finora l’estrazione delle staminali embrionali dalla massa cellulare interna ha comportato la distruzione della blastocisti.
Nel 2000, il Rapporto Donaldson, il primo studio organico sulle potenzialità terapeutiche delle cellule staminali, adottato dalla Gran Bretagna, stimola il dibattito in materia. Nel settembre dello stesso anno, l’allora Ministro della salute italiano, Umberto Veronesi, istituisce la Commissione di studio per l’uso di cellule staminali per finalità terapeutiche, presieduta dal Prof. Renato Dulbecco. In particolare, il Ministro Veronesi pone ai 25 componenti la Commissione alcune questioni di ordine scientifico ed etico.
Nel rapporto finale, la Commissione, oltre ad elaborare le risposte ai quesiti posti dal Ministro Veronesi, esprime alcune raccomandazioni. Il gruppo di esperti sottolinea come sia un dovere della società favorire e sostenere la ricerca su tutte le fonti di cellule staminali, fermo restando il quesito etico relativo alle modalità per ottenere cellule staminali embrionali umane. Non impone pertanto vincoli di scelta ai ricercatori per le indagini verso la fonte che ritengono più consona alle proprie valutazioni scientifiche ed etiche. Per quanto riguarda le cellule staminali ricavate da embrioni, la maggioranza della Commissione suggerisce che sia consentito esclusivamente il ricorso a embrioni soprannumerari. A tal proposito viene inoltre raccomandata la necessità di un’indagine, nel più breve tempo possibile, che permetta di stabilirne il numero e la localizzazione. La Commissione inoltre rinvia alla necessità di elaborare una procedura per ottenere il consenso informato dalle coppie che, avendo acconsentito alla crioconservazione, non intendono più utilizzare quegli embrioni. Tali procedure devono prevedere l’esplicita esclusione di ogni forma di compenso o di riserva per la donazione. Viene infine proposto di elaborare un "Progetto nazionale di ricerca sulle cellule staminali" che si occupi di individuare apposite Linee guida per la redazione dei protocolli di ricerca, di monitorare l’andamento della ricerca - al fine di stabilire tempi e modalità di passaggio alla fase sperimentale clinica - e di indicare le opportune forme di coordinamento per la valutazione dei protocolli operativi. All’interno della Commissione si profilano poi le diverse posizioni sulla liceità morale della sperimentazione sugli embrioni umani, La Commissione pertanto preso atto dell’ampiezza e della radicalità di tale controversia, non abbraccia nessuna delle posizioni emerse, non ritenendo possibile dirimere un disaccordo che ha la sua radice in posizioni antropologiche filosoficamente e/o religiosamente fondate.
In relazione all'avvio del VI Programma Quadro di Ricerca dell'U.E., nel 2003, l’allora Ministro della Pubblica istruzione, Letizia Moratti, chiede il Parere del Comitato nazionale per la bioetica sulle ricerche utilizzanti embrioni umani e cellule staminali. Nel documento, la maggioranza dei componenti esprime parere negativo nei confronti di qualsiasi forma di sperimentazione che comporti o abbia comportato la distruzione di embrioni umani, richiamandosi fra l’altro al dettato della Convenzione di Oviedo. In particolare, nel parere si afferma che gli embrioni umani sono vite umane a pieno titolo che pertanto esiste il dovere morale di sempre rispettarli e sempre proteggerli nel loro diritto alla vita, indipendentemente dalle modalità con cui siano stati procreati e indipendentemente dal fatto che alcuni di essi possano essere qualificati soprannumerari, vale a dire embrioni che, non essendo stati utilizzati perché in eccedenza nella fecondazione medicalmente assistita, vengono congelati. Nel parere la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali è pertanto giustificata unicamente se praticata nel loro specifico interesse e nel seppur rilevante interesse generale della società e della scienza. Il 6° Programma quadro UE per la ricerca è lo strumento per l’attuazione della politica comunitaria di ricerca e sviluppo tecnologico nella programmazione 2002-2006. Il PQ è proposto dalla Commissione europea e adottato dal Consiglio e dal Parlamento europeo secondo la procedura di codecisione. Il 6° PQ mira a contribuire alla creazione di un vero "Spazio europeo della ricerca", con la creazione di consorzi di ricerca europei ai quali partecipino gruppi di nazioni diverse. Per quanto riguarda le cellule staminali embrionali, diverse sono le posizioni legislative ed etiche degli Stati membri, per cui nell’aprile 2003, la Commissione presenta un rapporto sulle questioni etiche, scientifiche, legali e socio-economiche collegate alla ricerca sulle cellule staminali umane, in cui si evidenzia la necessità di definire linee guida per il finanziamento. Il documento esclude i finanziamenti per la clonazione umana, le modifiche trasmissive del patrimonio genetico umano e la creazione di embrioni ad hoc per fini di ricerca. A dimostrazione della delicatezza dell’argomento, contestualmente viene decisa una moratoria relativamente alla questione della liceità della ricerca su cellule staminali provenienti da embrioni esistenti ovvero eccedenti. Nel 2004 vengono infine ammessi i finanziamenti sulle cellule staminali embrionali soprannumerarie se aderiscono ai requisiti etici e legali stabiliti dal programma, a prescindere dalla data di derivazione delle linee di cellule staminali embrionali.
Il dibattito sulla liceità dell’uso delle cellule staminali embrionali per fini di sperimentazione e ricerca si collega ai quesiti e alle questioni sin qui esposti e trova una parziale sistematizzazione nella legge 19 febbraio 2004, n. 40, che regola la procreazione medicalmente assistita e l’utilizzo di embrioni umani ai fini di ricerca e sperimentazione. La disciplina recata dalla legge 40/2004 riguarda la sperimentazione sull’embrione intero e il suo trattamento per la produzione di linee cellulari. Non è presente alcun divieto esplicito per la ricerca su linee cellulari embrionali d’origine umana. D’altra parte, la legge nulla prevede circa l’utilizzo di cellule embrionali non prodotte in Italia. Il divieto dell’uso di cellule staminali embrionali ai fini di ricerca e sperimentazione è pertanto rinvenibile, seppur indirettamente, all’articolo 13, ove vieta qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano nonché la produzione di embrioni, utilizzabili per l’estrazione di linee cellulari embrionali. La ricerca clinica e sperimentale è infatti consentita soltanto per il perseguimento di finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative. L’articolo 13 della L. 40/2004 specifica inoltre che sono, comunque, vietate le attività dirette alla produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione, ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti diretta ad alterare il patrimonio genetico dell'embrione o del gamete ovvero a predeterminarne le caratteristiche genetiche, interventi di clonazione sia a fini procreativi sia di ricerca nonché la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa e la produzione di ibridi o di chimere. Per quanto riguarda gli embrioni crioconservati, l’articolo 14 Limiti all'applicazione delle tecniche sugli embrioni, vieta la crioconservazione e la soppressione di embrioni, ponendo come unica eccezione quella che potrebbe rendersi necessaria con l’applicazione della legge 22 maggio 1978, n. 194 sulla tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza. In particolare, il comma 2 dell’articolo 14, non consente la creazione di un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre. Successivamente, la Corte costituzionale, con sentenza 1 aprile-8 maggio 2009, n. 151 ha dichiarato, l'illegittimità della disposizione limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”, sottolineando che la tutela dell’embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione. Dalla sentenza è pertanto derivato, seppur indirettamente, l’obbligo giuridico di crioconservare gli embrioni vitali generati in provetta e non più destinabili all’impianto in utero.
Il decreto del Ministro della salute del 4 agosto 2004 Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, ha in parte regolamentato la materia, senza tuttavia fornire indicazioni univoche circa la durata della crioconservazione, il costo per il mantenimento degli embrioni e la responsabilità in ordine alla loro conservazione. La Commissione di studio sugli embrioni crioconservati nei centri di P.m.a. (nominata con Decreto del Ministro del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali il 25 giugno 2009), è stata pertanto incaricata di indicare le soluzioni praticabili. La Relazione Finale della Commissione affronta le questioni di carattere giuridico, etico e scientifico relative alla conservazione degli embrioni nei centri di procreazione medicalmente assistita e alla formulazione del consenso informato da parte delle coppie sottolineando la necessità di modificare le attuali disposizioni normative relative all’istituzione della banca degli embrioni cosiddetti “abbandonati” e al loro trasferimento.
Infine, il 19 luglio 2006 al Senato viene approvata la Risoluzione (6-00004) n. 4 in relazione dell’esame, da parte del Consiglio dell’Unione europea del VII Programma quadro di attività comunitarie di ricerca e sviluppo tecnologico (2007-2013). La risoluzione impegna il Governo a sostenere sotto il profilo finanziario, in sede di Consiglio Europeo competitività, le ricerche che non implichino la distruzione di embrioni, valorizzando quindi la ricerca sulle cellule staminali adulte, comprese le cordonali, promuovendo al contempo la ricerca scientifica tesa ad individuare la possibile produzione di cellule staminali totipotenti non derivate da embrioni e a verificare la possibilità di ricerca sugli embrioni crioconservati non impiantabili. Viene inoltre ribadita la volontà di sostenere le ricerche e le iniziative comunitarie che, innalzando il livello di educazione scientifica della popolazione, contribuiscano a costruire una più completa cittadinanza attiva, anche sotto il profilo scientifico, promuovendo modalità innovative di coinvolgimento attivo dei cittadini nelle scelte di carattere scientifico e tecnologico che hanno effetti rilevanti per la loro vita e per quella delle generazioni future. All’interno del VII Programma quadro viene consentito il finanziamento della ricerca sull’utilizzazione delle cellule staminali umane, sia allo stato adulto che embrionale, a patto che siano tenuti in considerazione sia i contenuti della proposta scientifica che il contesto giuridico esistente nello Stato membro o negli Stati membri interessati. Resta vietato il finanziamento di attività di ricerca volte alla clonazione umana a fini riproduttivi, di quelle volte a modificare il patrimonio genetico degli esseri umani nonché delle attività indirizzate alla creazione di embrioni umani esclusivamente a fini di ricerca o per l’approvvigionamento di cellule staminali, anche mediante il trasferimento di cellule somatiche.
La legge finanziaria 2001 (L. 388/2000) all’articolo 92, comma 6, istituisce un fondo dell'ammontare 5 miliardi di lire per ciascuno degli anni 2001, 2002 e 2003 per l'attuazione di un programma nazionale di ricerche sperimentali e cliniche sulle cellule staminali umane post-natali.
Il Programma viene gestito dalla Commissione Nazionale sulle Cellule Staminali, nominata dal Ministro della Salute, presieduta dal Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e composta da Membri selezionati tra i maggiori esperti italiani nel settore specifico. A seguito del Bando pubblico per i Progetti di Ricerca biennali (2003-05), vengono finanziati 82 Progetti, su un totale di 137 Progetti presentati. Al primo Bando ne segue un secondo concernente lo «Sviluppo di uno o più prototipi strutturali, organizzativi e gestionali di banche di cellule staminali umane», vinto nel 2003 dal centro-prototipo dell'Ospedale Maggiore di Milano. Il terzo bando non viene effettuato, poiché i fondi a disposizione sono esauriti. Fra i progetti vincitori del primo bando si ricordano quelli mirati all’identificazione delle cellule staminali primitive del cancro al colon e la messa a punto di un protocollo terapeutico per la distrofia muscolare basato sull’impiego di cellule staminali.
Come risulta dalla consultazione degli atti di indirizzo e controllo presentati nel corso della XV Legislatura, la procedura di assegnazione dei fondi fu ritenuta da più parti poco efficace, sia per la scarsa trasparenza collegata alla reale entità dei fondi assegnati, sia per il fatto che 7 dei progetti vincitori erano presentati da membri della stessa Commissione nazionale sulle cellule staminali. Lo stesso rappresentane del Governo nella risposta all’Interrogazione n. 5-00014 (on. Poretti) Procedure per l'aggiudicazione da parte della «Commissione sulle cellule staminali», istituita presso l'Istituto superiore di sanità presentata il 19 ottobre 2006 in Commissione Affari sociali della Camera nel corso della XV Legislatura, dichiarava che “a nostro avviso la disciplina della procedura seguita non garantisce adeguatamente la trasparenza. A tal proposito ci preme ribadire che è preciso intendimento del Ministro giungere, nel campo della ricerca medico-scientifica, a garantire l'adozione di procedure di valutazione per l'attribuzione dei finanziamenti che, similmente a quanto accade negli ambienti scientifici internazionali più qualificati, siano condotte nel rigoroso rispetto dei principi della trasparenza e dell'indipendenza”.
Successivamente, la legge finanziaria 2007 (L. 296/2006), all'articolo 1, comma 813, dispone, per gli anni 2007, 2008 e 2009, nell'utilizzazione delle risorse previste nella Tabella C allegata alla legge e destinate al finanziamento di progetti di ricerca sanitaria di cui all'articolo 12-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, un importo pari a 3 milioni di euro ciascuno per il finanziamento di progetti per il miglioramento degli interventi di diagnosi e cura delle malattie rare, il finanziamento di progetti per l'utilizzazione di cellule staminali e il finanziamento di progetti per la qualificazione ed il potenziamento delle attività di tutela della salute nei luoghi di lavoro.
Il Bando relativo al Programma di ricerca sanitaria 2008: attività di ricerca sulle cellule staminali, presentato nel maggio 2009 si è concluso nel 2010. I soggetti ammessi al finanziamento sono esclusivamente i destinatari istituzionali, ovvero: Regioni e Province autonome, Istituto superiore di sanità, Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici e privati, Istituti zoo profilattici sperimentali. In ogni progetto inoltre deve essere garantita la presenza di almeno una unità operativa appartenente al SSN. Alla realizzazione dei progetti possono concorrere università, CNR, altri enti di ricerca pubblici o privati, nonché le imprese pubbliche e private sulla base di specifici accordi, contratti o convenzioni da stipularsi con l’istituzione proponente, con particolare riferimento alle regioni. Al Programma sono destinate risorse pari a 8 milioni di euro (di cui 6 milioni di euro ai sensi della finanziaria 2007 e 2 milioni di euro provenienti da fondi dell’Istituto superiore di sanità). Un quarto dell’intera cifra è destinato a progetti eseguiti in collaborazione con laboratori di ricerca statunitense. Nell’agosto 2010 sono stati resi noti i progetti presentati ed i vincitori del bando attraverso pubblicazione sul sito web del Ministero della salute. Le aree tematiche indicate sono: la biologia delle cellule staminali come premessa per un impiego terapeutico e la cellula staminale come biomarcatore e bersaglio. Sono esplicitamente esclusi i progetti che prevedono l’utilizzo di cellule staminali embrionali di origine umana.
Sul punto si registrano numerosi interventi in Atti di indirizzo e controllo presentati nel corso della XVI Legislatura, fra le altre . Alcuni degli interpellanti chiedono infatti al Governo di chiarire la ragione dell’esclusione dei progetti contenenti la previsione dell’uso di staminali embrionali di origine umana: limitazione che si ritiene non giustificata dalla legge 40/2004, che vieta la distruzione di embrioni residui, ma non l’utilizzo in Italia di cellule staminali embrionali ottenibili dai laboratori internazionali.
Nel settembre del 2012 è stato avviato un Tavolo di lavoro sugli studi e l’utilizzo in Italia delle cellule staminali mesenchimali. Il Tavolo è stato istituito anche in seguito all'utilizzo della terapia a base di cellule staminali secondo il metodo Stamina presso gli Spedali Civili di Brescia. Il ricorso e la prosecuzione della terapia sono stati infatti oggetto di complessi e non omogenei interventi dei giudici ordinari e amministrativi.
Al tavolo partecipano tecnici del Ministero della Salute, dell’Aifa, dell’Istituto Superiore di sanità e del Centro Nazionale Trapianti allo scopo di raccogliere dati e informazioni relativi alle patologie trattate, le tipologie di tessuti e di cellule utilizzate, il numero di pazienti e gli effetti dei trattamenti. Contestualmente, come supporto scientifico al Tavolo di lavoro, è stato costituito un “board di saggi”. Il Ministro della salute Balduzzi ha sottolineato l'urgenza di completare il quadro normativo, anche con il coinvolgimento delle Regioni, e attivare strumenti che consentano al Ministero di comprendere l’eventuale efficacia delle terapie finora somministrate e la reale percentuale dei pazienti che ne hanno beneficiato. A tal fine è stato avviato un percorso per arrivare alla costituzione di un Registro sui trattamenti classificabili come “farmaceutici” e su quelli classificabili come “trapianti”, stabilendo al tempo stesso che sia reso disponibile un expertise per i professionisti.
Le cellule staminali mesenchimali sono cellule che hanno la capacità di differenziarsi, crescere e sono in grado di diventare osso, cartilagine o grasso. E' stato inoltre dimostrato che che sono in grado di interagire con il sistema immunitario. Per questo motivo vengono utilizzate all’interno di studi clinici sperimentali per il trattamento di alcune patologie che riguardano il sistema immunitario, come quelle che possono sorgere dopo un trapianto. In Italia esistono 13 Cell-Factory autorizzate da Aifa quali siti produttivi di medicinali per terapia cellulare da impiegarsi in protocolli clinici sperimentali.
La Corte di Giustizia dell'Unione europea, con la Sentenza nella causa C-34/10 Oliver Brüstle / Greenpeace eV ha disposto che non è brevettabile un procedimento che, ricorrendo al prelievo di cellule staminali ricavate da un embrione umano nello stadio di blastocisti, comporti la distruzione dell'embrione. L’utilizzazione per finalità terapeutiche o diagnostiche che si applichi all’embrione umano e sia utile a quest’ultimo può essere oggetto di brevetto ma la sua utilizzazione a fini di ricerca scientifica non è brevettabile.
Il sig. Oliver Brüstle è titolare di un brevetto, depositato il 19 dicembre 1997, relativo a cellule progenitrici neurali isolate e depurate, ricavate da cellule staminali embrionali umane utilizzate per curare le malattie neurologiche. Secondo le indicazioni fornite dal sig. Brüstle, ne esistono già applicazioni cliniche, segnatamente su pazienti affetti da morbo di Parkinson. Su domanda presentata da Greenpeace eV, il Bundespatentgericht (Tribunale federale in materia di brevetti) ha dichiarato la nullità del brevetto del sig. Brüstle, in quanto ha ad oggetto procedimenti che consentono di ottenere cellule progenitrici a partire da cellule staminali di embrioni umani. Il Bundesgerichtshof (Corte federale di cassazione), adito dal sig. Brüstle, ha deciso di interpellare la Corte di giustizia in merito all’interpretazione della nozione di embrione umano, non definita dalla direttiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Si tratta di sapere se l'esclusione della brevettabilità dell'embrione umano riguardi tutti gli stadi della vita a partire dalla fecondazione dell'ovulo o se debbano essere soddisfatte altre condizioni, ad esempio che sia raggiunto un determinato stadio di sviluppo.
In sede di esame della nozione di embrione umano, la Corte sottolinea innanzitutto che essa non è chiamata ad affrontare questioni di natura medica o etica, ma che deve limitarsi ad un’interpretazione giuridica delle pertinenti disposizioni della direttiva. Il contesto e la finalità di quest'ultima rivelano che il legislatore dell’Unione ha inteso escludere qualsiasi possibilità di ottenere un brevetto quando il rispetto dovuto alla dignità umana può esserne pregiudicato. Ne risulta, secondo la Corte, che la nozione di «embrione umano» deve essere intesa in senso ampio. Pertanto, la Corte considera che sin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un «embrione umano», dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano. Deve essere riconosciuta questa qualificazione di «embrione umano» anche all’ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e all’ovulo umano non fecondato indotto a dividersi e a svilupparsi attraverso partenogenesi. Anche se tali organismi non sono stati oggetto, in senso proprio, di una fecondazione, essi, per effetto della tecnica utilizzata per ottenerli, sono tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano come l’embrione creato mediante fecondazione di un ovulo.
Per quanto riguarda le cellule staminali ricavate da un embrione umano nello stadio di blastocisti – alle quali si riferisce l'invenzione oggetto del brevetto – la Corte constata che spetta al giudice nazionale stabilire, in considerazione degli sviluppi della scienza, se esse siano tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano e, di conseguenza, rientrino nella nozione di embrione umano.
La Corte esamina poi se la nozione di utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali, non brevettabili, includa anche l’utilizzazione a fini di ricerca scientifica. Quanto a quest'ultima utilizzazione, la Corte osserva che il fatto di accordare a un’invenzione un brevetto implica, in linea di principio, lo sfruttamento industriale e commerciale della stessa. Orbene, anche se lo scopo di ricerca scientifica deve essere distinto dai fini industriali e commerciali, l’utilizzazione di embrioni umani a fini di ricerca che sia oggetto della domanda di brevetto non può essere scorporata dal brevetto medesimo e dai diritti da esso derivanti. A tale riguardo, l’utilizzazione, oggetto di una domanda di brevetto, di embrioni umani a fini di ricerca scientifica non può essere distinta da uno sfruttamento industriale e commerciale e, pertanto, sottrarsi all’esclusione dalla brevettabilità. Di conseguenza, la Corte conclude che la ricerca scientifica che implichi l’utilizzazione di embrioni umani non può ottenere la protezione del diritto dei brevetti. La Corte ricorda tuttavia che la brevettabilità delle utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali non è vietata, in forza della direttiva, ove riguardi l’utilizzazione a fini terapeutici o diagnostici che si applicano e che sono utili all’embrione umano – ad esempio per correggere una malformazione e migliorare le sue prospettive di vita.
Infine, la Corte risponde alla questione della brevettabilità di un’invenzione relativa alla produzione di cellule progenitrici neurali. Essa sottolinea, da un lato, che quest'ultima presuppone il prelievo di cellule staminali ricavate da un embrione umano nello stadio di blastocisti, e, dall'altro, che il prelievo comporta la distruzione dell'embrione. In conclusione, la Corte reputa che un'invenzione non possa essere brevettata qualora l’attuazione del procedimento richieda, in via preliminare, la distruzione di embrioni umani o la loro utilizzazione come materiale di partenza, anche ove, in sede di domanda di brevetto, la descrizione di tale procedimento, come nel caso di specie, non menzioni l’utilizzazione di embrioni umani.
La Corte di Giustizia CE e la ricerca sulle cellule staminali embrionali
Nel corso della XVI Legislatura è stata attuata la delega per il riordino degli enti vigilati dal Ministero della salute, mediante l'emanazione di un decreto legislativo. Va inoltre ricordato che gli indirizzi della ricerca sanitaria sono stati recentemente definiti dal Programma nazionale di ricerca sanitaria elaborato dal Ministero della salute.
La ricerca sanitaria risponde al fabbisogno conoscitivo e operativo del Servizio sanitario nazionale (SSN) e ai suoi obiettivi di salute. A tal fine, il Piano sanitario nazionale definisce gli obiettivi e i settori principali della ricerca del SSN, alla cui coerente realizzazione contribuisce la comunità scientifica nazionale. L'attività di ricerca del Ministero della salute, divenuta con la modifica del titolo V della Costituzione materia concorrente tra Stato e Regioni, pur nella sua autonomia gestionale, è allargata a tutto il sistema sanitario nazionale. Il Ministero della salute, sentita la Commissione nazionale per la ricerca sanitaria, elabora il Programma nazionale di ricerca sanitaria (PNRS) e propone iniziative da inserire nella programmazione della ricerca scientifica nazionale e nei programmi di ricerca internazionali e comunitari. Il Programma, adottato dal Ministro della salute, d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, ha validità triennale.
Nel corso della seduta della Conferenza Stato-Regioni del 7 febbraio 2013 è stata sancita l'Intesa tra il Governo, le Regioni e le Province autonome sulla proposta del Ministero della salute di "Programma nazionale di ricerca sanitaria 2013-2015" .
L'articolo 14, comma 12, del decreto legge 158/2012 (c.d. Decreto Sanità) ha previsto che entro il 31 dicembre 2012 dovrà essere adottato un decreto del Ministro della salute, sentiti il MIUR e la Conferenza Stato-regioni, in cui saranno fra l'altro individuate le modalità attraverso cui realizzare l’attività di ricerca scientifica in materia sanitaria a livello internazionale. Il decreto non è stato finora emanato.
Il programma di ricerca sanitaria si articola nelle attività di ricerca corrente e di ricerca finalizzata:
La ricerca corrente, diretta a sviluppare le conoscenze fondamentali in settori specifici della biomedicina e della sanità pubblica, è attuata tramite programmazione triennale dei progetti istituzionali degli organismi di ricerca nazionali e dei soggetti istituzionali pubblici e privati, la cui attività di ricerca è stata riconosciuta dallo Stato come orientata al perseguimento di fini pubblici. I maggiori destinatari della ricerca corrente sono gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, pubblici e privati-IRCCS.
La ricerca finalizzata attua gli obiettivi prioritari, biomedici e sanitari, del Piano sanitario nazionale. I finanziamenti per la ricerca finalizzata sono allocati attraverso un bando competitivo tramite il quale il Ministero della Salute invita alla presentazione di progetti di ricerca clinico-assistenziale e biomedica, prevalentemente traslazionale, tutti gli operatori del SSN (ricercatori) relativamente alle nuove strategie diagnostiche, terapeutiche e clinico assistenziali in aree individuate bando per bando. Alla realizzazione dei progetti possono concorrere sulla base di specifici accordi, contratti o convenzioni, le università, il Consiglio Nazionale delle Ricerche ed altri enti di ricerca pubblici e privati, nonché imprese pubbliche e private. Le risorse economiche messe a bando per i progetti 2011-2012 ammontano a circa 135 milioni di euro (di cui 84 milioni a valere sull’anno finanziario 2011 e circa 51 milioni a valere sul 2012).
Le fonti di finanziamento della ricerca sanitaria sono pubbliche e private. Per quanto riguarda le risorse pubbliche, ai sensi dell'articolo 12 del D. Lgs. 502/1992, la quota della ricerca sanitaria finanziata dal Ministero della Salute è stabilita annualmente nella Tabella C della legge finanziaria. Per tale finalità, la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) ha stanziato per l'anno in corso 275 milioni di euro. A partire dalla legge finanziaria 2006 (legge 266/2005, articolo 1, comma 337) una quota pari al 5 per mille dell'IRPEF può essere destinata, in base alla scelta del contribuente, al finanziamento della ricerca sanitaria. Per quanto riguarda la ricerca farmacologica, la legge istitutiva dell'Agenzia italiana del Farmaco - AIFA (legge 326/2003) ha istituito un fondo per la ricerca indipendente sui farmaci nel quale confluisce il 5% delle spese promozionali versate dalle aziende farmaceutiche.
Si ricorda infine che l’articolo 6, comma 13, della Legge di Riforma dell'università (legge 240/2010) ha previsto l'emanazione di un decreto in materia di sanita' universitaria. In particolare, il MIUR, di concerto con il Ministero della salute e d'intesa con la Conferenza Stato-regioni, sentita la Conferenza dei presidi delle facoltà di medicina e chirurgia, dovrà predisporre lo schema-tipo delle convenzioni al quale dovranno attenersi le università e le regioni per regolare i rapporti in materia di attività sanitarie svolte per conto del SSN. La schema-tipo dovrà essere predisposto con riguardo alle strutture cliniche e di ricerca traslazionale (trasformazione di scoperte fondamentali in applicazioni cliniche) necessarie per la formazione nei corsi di laurea di aerea sanitaria di cui alla direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Al proposito si rinvia alla risposta fornita dal Governo il 28 novembre 2012 all'interrogazione 5-07050 dell'on. Palagiano.
Con il D.Lgs. 106/2012, sul cui schema la XII Commissione della Camera ha espresso parere favorevole con condizioni e osservazioni il 25 giugno 2012, è stata attuata la delega di cui all’articolo 2, della legge 183/2010 per la riorganizzazione degli enti, degli istituti e delle società vigilati dal Ministero della salute.Il riordino ha interessato l'Istituto Superiore di Sanità (ISS), gli Istituti zooprofilattici sperimentali (IZS) e l’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas).
Per quanto riguarda l'ISS, le principali novità introdotte dal decreto riguardano l'adozione di uno statuto e di un piano triennale di attività, aggiornato annualmente, e coerente con le linee di indirizzo – definite dal Ministro della salute di intesa con la Conferenza Stato-regioni - relative al Centro nazionale per i trapianti e al Centro nazionale sangue, operanti entrambi presso l'ISS. Il Piano stabilisce gli obbiettivi le priorità e le risorse per l’intero periodo, e comprende la programmazione triennale del fabbisogno delle risorse umane. Ogni tre anni il Ministro della salute presenta al Parlamento una relazione sull’attività svolta dall’Istituto e sul programma per il triennio successivo.
Per gli IZZS il riordino ha previsto la razionalizzazione e ottimizzazione dei centri di costo, delle strutture e degli uffici di livello dirigenziale e non, demandate alla competenza regionale, nonché l'istituzione di un Comitato di supporto strategico presso il ministero della Salute, in grado di garantire il potenziamento dell’azione degli Istituti attraverso il sostegno di strategie nazionali di sanità pubblica veterinaria e sicurezza alimentare. Il decreto prevede inoltre lo scioglimento del consiglio di amministrazione nell’ipotesi di gravi irregolarità nell'amministrazione, ovvero gravi e reiterate violazioni delle disposizioni di legge o statutarie, e nel caso in cui il conto economico chiuda con una perdita superiore al 20 per cento del patrimonio per due esercizi successivi, o vi sia impossibilità di funzionamento degli organi di amministrazione e gestione. In questi casi è nominato un Commissario straordinario, con il compito di rimuovere le irregolarità e sanare la situazione di passività, sino alla ricostituzione degli ordinari organi di amministrazione.
Per quanto riguarda l’Age.Na.S, il riordino è stato limitato a pochi interventi, quali l'approvazione dello Statuto, fino a oggi non previsto, e il rafforzamento dei poteri del Presidente. L'Agenzia infatti è stata recentemente riorganizzata dal D.M. 28 dicembre 2011.
L'articolo 14 del decreto legge 158/2012 (c.d. Decreto Sanità) ha disposto la razionalizzazione di alcuni enti sanitari:
Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti - INMP
Al fine di limitare gli oneri a carico del SSN per l’erogazione delle prestazioni in favore delle popolazioni immigrate, l'INMP, precedentemente costituito quale sperimentazione gestionale, è stato configurato come ente con personalità giuridica di diritto pubblico con il compito istituzionale di promuovere le attività di assistenza, ricerca e formazione per la salute delle popolazioni migranti e di contrastare le malattie della povertà. A tal fine, l’INMP è dotato di autonomia organizzativa, amministrativa, contabile e posto sotto la vigilanza del Ministero della salute. Per il finanziamento delle attività si provvede annualmente nell’ambito di un apposito progetto interregionale approvato dalla Conferenza Stato-regioni su proposta del Ministro della salute di concerto con quello dell’economia e delle finanze per la cui realizzazione è vincolato l’importo di 5 milioni di euro per il 2012 e di 10 milioni di euro a decorrere dal 2013, a valere sulle risorse del fondo sanitario nazionale destinate alla realizzazione di specifici obiettivi del Piano sanitario nazionale. Viene conseguentemente disposto che per il finanziamento dell’INMP si provveda nell’ambito dello stanziamento sopracitato, nonché mediante i rimborsi delle prestazioni erogate a carico del Servizio sanitario nazionale e la partecipazione a progetti anche di ricerca nazionali ed internazionali.
IRCCS
Il decreto legge 158/2012 procede ad una manutenzione del sistema regolatorio nazionale degli IRCCS, con disposizioni volte a precisare la procedura per il riconoscimento, la revoca del medesimo e la documentazione a tal fine necessaria (per una analisi più puntuale si rinvia alla scheda su sanita' universitaria). L’intervento viene attuato novellando il D.Lgs. 288/2003. Entro il 31 dicembre 2012 era prevista l'adozione di un decreto del Ministro della salute, sentiti il MIUR e la Conferenza Stato-regioni, per la determinazione dei criteri di classificazione degli IRCCS non trasformati, delle Fondazioni IRCCS e degli altri IRCCS di diritto privato sulla base di indicatori quali-quantitativi di carattere scientifico di comprovato valore internazionale.
Enti sanitari di ricerca
I princìpi etici fondamentali a cui devono conformarsi gli studi nell'ambito della sperimentazione clinica sui medicinali traggono origine dalla Dichiarazione di Helsinki e dai requisiti previsti dagli standard internazionali di buona pratica clinica (Gcp) messi a punto per progettare, condurre, registrare e comunicare gli esiti degli studi clinici che coinvolgono soggetti umani. Gli standard di Buona Pratica Clinica sono stati adottati dall'Unione europea e recepiti nell’ordinamento italiano. In ambito europeo sono infatti intervenute le direttive 2001/20/CE e 2005/28/CE, recepite con il D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 211, successivamente integrato con il D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 200. Disposizioni in materia sono recate anche dal D. Lgs. 219/2006 cha ha dato attuazione al Codice comunitario concernente i medicinali per uso umano.
Il D.M. 21 dicembre 2007 ha regolamentato nel dettaglio gli adempimenti relativi alla sperimentazione clinica di un medicinale.
Tutte le sperimentazioni cliniche sono basate su un protocollo in cui è descritta la metodologia applicata alla sperimentazione. Il protocollo individua i vari attori della sperimentazione: lo sponsor, il primo ricercatore e i soggetti coinvolti, di cui è è necessario acquisire il consenso libero, specifico ed informato. In ogni fase, la valutazione deve permettere ai ricercatori di misurare l’efficacia e la tolleranza del principio attivo. Tale valutazione deve essere facile, riproducibile e sufficientemente sensibile per rilevare le più deboli variazioni. Prima che la sperimentazione abbia inizio, il protocollo deve ottenere il parere favorevole di un Comitato etico indipendente che definisca, tra l'altro, i criteri di inclusione ed esclusione dei soggetti della sperimentazione clinica, il monitoraggio e gli aspetti concernenti la pubblicazione dei dati. Lo sperimentatore e il promotore tengono conto di tutte le indicazioni relative all'avvio e alla realizzazione della sperimentazione clinica espresse dal Comitato etico e dall'autorità competente.
Gli studi clinici su nuove molecole vengono svolti in generale in tre fasi, coinvolgendo un numero elevato di persone. Quando la molecola è già conosciuta, per un’altra indicazione terapeutica, si passa direttamente alle sperimentazioni di fase II.
Gli studi della fase IV sono i più lunghi e hanno inizio una volta che il farmaco è stato immesso sul mercato (studi post marketing) allo scopo di valutare gli effetti indesiderati o le proprietà farmaceutiche evidenziate durante le prime tre fasi.
La sperimentazione preclinica o Fase 0: utile per osservare su un organismo vivente complesso come si comporta la molecola chimica da cui si ritiene di poter ricavare un farmaco e qual è il suo livello di tossicità. Inizialmente sono eseguiti degli studi “in vitro”. Soltanto quando si è appurato in laboratorio che la molecola possiede potenziali effetti terapeutici, si passa alla sperimentazione in vivo sugli animali.
Fase I: Primo studio di un nuovo principio attivo condotto nell’uomo (spesso su volontari sani). L'obiettivo principale è la valutazione degli effetti collaterali che possono essere attesi considerando i risultati delle precedenti sperimentazioni sugli animali e la valutazione della modalità di azione e distribuzione del farmaco nell’organismo. I volontari vengono divisi in più gruppi, ciascuno dei quali riceve una diversa dose di farmaco (in genere crescente), per valutare gli eventuali effetti indesiderati della sostanza in relazione alla quantità somministrata. Se oggetto della sperimentazione sono gravi patologie (per esempio tumori, AIDS, eccetera), gli studi possono essere condotti direttamente su pazienti che ne sono affetti e per i quali il farmaco è stato pensato.
Il decreto legge 158/2012 ha recentemente innovato la materia. Ai sensi dell'articolo 10, non è più necessaria alcuna autorizzazione per la produzione di un principio attivo da utilizzare nella produzione di un medicinale impiegato nelle sperimentazioni cliniche di Fase I. Resta l'obbligo di notifica all'AIFA da parte dei titolari dell'officina, che dovrà comunque essere autorizzata alla produzione di materie prime farmacologicamente attive. Entro il 31 dicembre 2014 l'AIFA dovrà trasmettere al Ministro della salute, e pubblicare nel suo sito internet, una relazione sugli effetti derivanti dall'applicazione della disposizione e sui possibili effetti della estensione di tale disciplina ai medicinali impiegati nelle sperimentazioni cliniche di fase II.
Fase II: Negli studi di fase II la sostanza è somministrata a soggetti volontari affetti dalla patologia per cui il farmaco è stato pensato. I soggetti vengono generalmente divisi in più gruppi, a ciascuno dei quali è somministrata una dose differente del farmaco e, quando è eticamente possibile, un placebo (vale a dire una sostanza priva di efficacia terapeutica) Per evitare che la somministrazione del placebo influenzi le aspettative dei partecipanti, le valutazioni dei parametri di attività e sicurezza sono condotte senza che i partecipanti conoscano il tipo di trattamento ricevuto o somministrato. Questa fase dura circa un paio d'anni.
Fase III: Ai pazienti viene assegnato casualmente (in inglese random) il nuovo principio attivo o un farmaco di controllo (in genere il trattamento standard per quella specifica patologia oggetto della ricerca). Lo studio clinico controllato randomizzato è molto affidabile nel definire l’efficacia di un medicinale. Infatti, l’attribuzione casuale del nuovo farmaco o del farmaco di controllo garantisce che i due gruppi siano simili per tutte le caratteristiche salvo che per il medicinale assunto. Dunque, alla fine della sperimentazione, sarà possibile attribuire ogni differenza nella salute dei partecipanti esclusivamente al trattamento e non a errori o al caso. Durante questa fase vengono controllate con molta attenzione l'insorgenza, la frequenza e gravità degli effetti indesiderati. La durata della somministrazione del farmaco è variabile a seconda degli obiettivi che la sperimentazione si pone, ma in genere dura dei mesi. Il periodo di monitoraggio degli effetti del farmaco è invece spesso più lungo, arrivando in qualche caso a 3-5 anni.
Fase IV: Studio su un farmaco già in commercio (post-marketing) per valutare, in un usuale contesto di prescrizione, il valore terapeutico e/o gli effetti dannosi (farmacovigilanza).
Ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera m), dell’articolo 6 del D.Lgs. 211/2003, il Comitato etico per le sperimentazioni cliniche dei medicinali è un organismo indipendente che ha la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti in sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di tale tutela. Il Comitato può essere istituito nell'ambito di una o più strutture sanitarie pubbliche o ad esse equiparate, o negli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, conformemente alla disciplina regionale in materia. Il Comitato etico può altresì essere istituito, conformemente alla normativa regionale, nell'ambito dell'amministrazione regionale competente per materia. Ove non già attribuiti a specifici organismi, i Comitati etici possono svolgere anche una funzione consultiva in relazione a questioni etiche connesse con le attività scientifiche e assistenziali, allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona umana. Il Comitato etico, inoltre, può proporre iniziative di formazione di operatori sanitari relativamente a temi in materia di bioetica. Il D.M. 12 maggio 2006 ha stabilito i requisiti minimi per l'istituzione, l'organizzazione e il funzionamento dei Comitati etici. Il Comitato etico è fra l’altro responsabile di:
In seguito alla riorganizzazione del sistema sanitario di alcune regioni, nel 2009 si è assistito al raggruppamento di alcuni Comitati etici con la conseguente diminuzione del numero totale, che ad oggi si attesta sui 254 (nel 2008 erano 269). La Lombardia è la regione con un maggior numero di Comitati etici, seguita da Lazio, Sicilia e Campania. L’attività di questi organismi non è omogenea, infatti su 254 Comitati, soltanto 154 sono quelli che hanno rilasciato un parere unico in qualità di coordinatori di un progetto nel periodo 2007-2009 . L'attività dei Comitati sotto l'aspetto meramente formale, è caratterizzata da una disomogeneità locale in merito a: calendarizzazione delle riunioni; tempi minimi per la presentazione delle domande al CE; elenco e copie di ciascun documento; formato dei documenti da presentare; modulistiche «locali»; compensi per l'esame dei progetti; tempistica per la valutazione e per l'elaborazione dei verbali di riunione; criteri di valutazione dei compensi alle strutture.
Il decreto legge 158/2012 (c.d. Decreto Balduzzi) è recentemente intervenuto sulla materia. In particolare, l'articolo 12 ha attribuito all'AIFA le competenze in materia di sperimentazione clinica dei medicinali, attribuite precedentemente, dal decreto legislativo 211/2003, all'Istituto superiore di sanità. A decorrere dal 1º luglio 2013, la documentazione riguardante studi clinici sui medicinali sarà gestita esclusivamente con modalità telematiche, attraverso i modelli standard dell'Osservatorio nazionale sulla sperimentazione clinica dell'AIFA.
Per quanto riguarda i Comitati etici, entro il 30 giugno 2013, le regioni e le province autonome dovranno provvedere a riorganizzare i Comitati etici istituiti nel proprio territorio, secondo i seguenti criteri:
I criteri per la composizione dei Comitati etici e per il loro funzionamento saranno stabiliti con decreto del Ministro della salute, su proposta dell'AIFA per i profili di sua competenza, d'intesa con la Conferenza Stato-regioni.
Nella seduta del 7 febbraio 2013 della Conferenza Stato-regioni è stata acquisita l'intesa sullo schema di decreto del Ministro della salute concerenente i criteri per la composizione dei Comitati etici e per il loro funzionamento.
Tra le misure più significative, in tema di tutela della salute, approvate dal Parlamento nel corso della XVI Legislatura, vanno segnalate le disposizioni riguardanti le cure palliative, per i pazienti affetti da malattie di cui la morte è diretta conseguenza, le norme recanti l'istituzione e la disciplina del registro nazionale e dei registri regionali degli impianti protesici mammari, e la legge diretta a consentire di disporre a titolo gratuito di parti di polmone, pancreas e intestino al fine esclusivo del trapianto tra persone viventi.
Sul tema della tutela della salute, data la rilevanza che negli anni più recenti ha assunto il capitolo della sicurezza delle cure, va in primo luogo ricordata l’istituzione, presso la Camera dei deputati, della Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali, deputata ad indagare sulle cause e sulle responsabilità degli errori sanitari nelle strutture pubbliche e private e sulle cause e responsabilità in tema di disavanzi sanitari regionali . Nel corso della sua attività la Commissione ha approvato alcune relazioni relative allo stato della sanità nella Regione Calabria (Doc. XXII-bis, n. 1), ai punti nascita (Doc. XXII-bis, n. 3), al disavanzo della ASL 1 di Massa Carrara (Doc. XXII-bis, n. 4) e allo stato di sanità nella Regione Liguria (Doc. XXII-bis, n. 5). Un’analoga Commissione di inchiesta per valutare l’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale è stata istituita presso il Senato.
Particolarmente attuale appare il settore delle cure palliative, vale a dire delle cure multidisciplinari per i pazienti affetti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici, e di cui la morte è diretta conseguenza. Su questo tema il Parlamento ha approvato la legge n. 38/2010 (A.C. 624 ed abb.). Il provvedimento garantisce il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore, nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza, definite quali obbiettivi prioritari del Piano sanitario nazionale. Esso prevede una definizione, da parte del Ministero della salute, delle linee guida per il coordinamento degli interventi regionali in tale ambito, individua specifici percorsi formativi per il personale che opera nelle due reti, dispone l’attivazione, presso il Ministero, di un monitoraggio relativo alle caratteristiche e al funzionamento delle reti per le cure palliative e per la terapia del dolore. Viene introdotto l'obbligo di riportare la rilevazione del dolore all'interno della cartella clinica e viene prevista la realizzazione di campagne istituzionali di comunicazione destinate ad informare i cittadini sulle modalutà di accesso alle prestazioni ed ai programmi. E' stata poi trasmessa al Parlamento la Relazione del Ministro della salute concernente lo stato di attuazione della legge relativamente all'anno 2011: la XII Commissione affari sociali della Camera ne ha concluso l'esame il 3 luglio 2012 mediante l'approvazione di una risoluzione (n. 8-00184 approvata il 3 luglio 2012), nella quale si evidenzia la persistenza di alcune criticità e si invita il Governo ad adottare le iniziative necessarie per superarle.
Un rilievo importante rivestono anche le disposizioni contenute nella legge n. 86/2012 (A.C. 3703 ed abb.) recanti l'istituzione e la disciplina del registro nazionale e dei registri regionali degli impianti protesici mammari. Negli ultimi anni si è registrato un continuo aumento del numero delle donne che decidono di ricorrere a protesi mammarie, nonostante la ricerca abbia evidenziato che il ricorso a tali impianti può comportare conseguenze sulla salute della donna. Il provvedimento in esame pertanto introduce disposizioni più severe a garanzia dei requisiti di sicurezza delle protesi mammarie e a tutela del diritto all’informazione delle pazienti.
Essa prevede e disciplina l'istituzione del registro nazionale e dei registri regionali degli impianti protesici mammari effettuati in Italia, nell'ambito della chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica. I registri sono istituiti per finalità di monitoraggio clinico delle persone impiantate ed epidemiologico a scopo di studio e ricerca scientifica e di programmazione, gestione, controllo e valutazione dell'assistenza sanitaria, e raccolgono, tra l'altro, i dati relativi alla tipologia e durata degli impianti e agli effetti collaterali ad essi connessi, nel rispetto della vigente normativa in materia di protezione dei dati personali.
La legge vieta l'impianto di protesi mammaria a soli fini estetici sulle minorenni. L'inosservanza del divieto da parte degli operatori sanitari che provvedono all'esecuzione dell'impianto è punita con il pagamento di sanzione amministrativa pecuniaria nonché con la sanzione della sospensione dalla professione per tre mesi.
Il divieto non si applica nei casi di gravi malformazioni congenite certificate da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale o da una struttura sanitaria pubblica.
E' stata recentemente approvata dal Parlamento anche la legge 167/2012 (A.C. 4003 ed abb.) diretta a consentire, in deroga al divieto di cui all’articolo 5 del codice civile, di disporre a titolo gratuito di parti di polmone, pancreas e intestino al fine esclusivo del trapianto tra persone viventi. Il provvedimento intende recepire le importanti acquisizioni delle tecniche scientifiche e chirurgiche ed è diretto a colmare il divario tra norma e progresso scientifico, poiché consentendo nuovi progressi nel settore dei trapianti rende possibile la cura di importanti patologie, anche pediatriche. A tal fine vengono richiamate, in quanto compatibili, le disposizioni della legge 26 giugno 1967, n. 458 diretta a consentire il trapianto del rene tra persone viventi e del relativo regolamento attuativo, salvaguardando quindi le precauzioni e le garanzie contenute nelle citate disposizioni.
Presso la XII Commissione affari sociali della Camera si è svolto, ma non concluso, l'esame, in sede referente, di una proposta di legge (A.C. 3367) volta al riconoscimento della sindrome post polio (PPS) come malattia cronica e invalidante. Infatti, pur essendo stata – grazie al vaccino - la poliomelite nel nostro paese debellata da tempo, vi è un numero elevato di persone, sopravvissute ad essa, che ne hanno subito e ne patiscono tuttora gli esiti. Si tratta di persone affette dagli “effetti tardivi della polio”, colpite da sintomi muscolari ed articolari, che non trovano una giusta risposta sanitaria ed istituzionale essendo stati dismessi da tempo i diversi centri di ricerca, di recupero e riabilitazione. Oltre all'inserimento della patologia nell'elenco delle malattie croniche e invalidanti, il provvedimento prevede l'individuazione delle strutture sanitarie pubbliche deputate alla diagnosi e riabilitazione e dispone un censimento dei soggetti che hanno contratto la poliomelite. La XII Commissione ha concluso la fase dell'esame degli emendamenti riferiti al testo.
Inoltre è pressoché giunto a conclusione presso la XII Commissione l'esame, in sede referente, di una proposta di legge (A.C. 4894) recante disposizioni concernenti l'etichettatura dei farmaci contenenti gliadina e l'indicazione della presenza di lattosio, a tutela delle persone affette dal morbo celiaco. Vengono posti alcuni obblighi a carico delle aziende produttrici dei medicinali citati e viene rimesso a disposizioni attuative, da emanare con un regolamento ministeriale, la definizione dei simboli convenzionali da apporre sulle confezioni dei medicinali e all'interno del foglietto illustrativo allegato alla confezione.
Etichettatura farmaci contenenti gliadina
Impianti protesici mammari
Le Commissioni parlamentari di inchiesta
Riconoscimento della sindrome post-polio
Trapianto parziale di polmone pancreas e intestino
Assistenza alla nascita e salute del neonato
Assistenza Psichiatrica
Cure palliative
Donazione e utilizzo di cellule staminali
Le malattie rare
Nel corso della XVI legislatura, presso la XII Commissione affari sociali della Camera, si è svolta e conclusa un'indagine conoscitiva relativa agli aspetti sociali e sanitari della dipendenza dal gioco d'azzardo. L'indagine, deliberata il 22 febbraio 2012 e conclusa il 2 agosto dello scorso anno con l'approvazione di un documento finale, è stata promossa al fine di conoscere le ricadute sociali e sanitarie della dipendenza dal gioco d’azzardo.
Tale dipendenza, infatti, coinvolge un numero sempre crescente di persone, di ogni fascia di età, specie a seguito del forte mutamento del contesto economico e sociale. Oltre ad un incremento notevole delle offerte di gioco in ogni luogo e con ogni modalità, l'aumento esponenziale dei soldi spesi dagli italiani per giocare va infatti messo in rapporto con la crisi economica mondiale che, anche nel nostro Paese, ha portato maggiore insicurezza e difficoltà economiche. Il fenomeno della ludopatia rappresenta quindi un costo sociale molto elevato che conduce all'impoverimento delle famiglie. Si tratta di una patologia che ancora stenta ad essere riconosciuta tale dallo Stato, non essendo inclusa nei livelli essenziali di assistenza. Tuttavia sono molti i percorsi di recupero portati avanti dalle singole regioni e da numerose realtà che operano privatamente nel settore sociale - come evidenziato nelle audizioni svoltesi, anche se manca un modello uniforme sul territorio nazionale. Nelle conclusioni del documento approvato, oltre all’esigenza di disporre di una maggiore conoscenza dei dati è stata sottolineata l’opportunità di intervenire nel campo della pubblicità, di operare una limitazione dei giochi, di “sistematizzare” la cura della patologia del gioco d’azzardo mediante il riconoscimento e l’inserimento della patologia nei L.E.A., di avviare un’operazione di trasparenza nelle procedure di concessione e di definire una legge quadro per disciplinare e distinguere meglio le funzioni di governo e le competenze.
Sul tema del gioco d'azzardo è poi intervenuto il D.L. 158/2012 (vedi Organizzazione del Servizio Sanitario - Disposizioni urgenti per lo sviluppo del Paese).
Il tema delle cure palliative, quale approccio globale diretto ai malati che non rispondono più ai trattamenti specifici e che sono affetti da una patologia di cui la morte è diretta conseguenza, ha impegnato il Parlamento fin dai primi mesi della XVI legislatura.
La legge approvata individua principi e linee guida essenziali per assicurare un'assistenza adeguata ed omogenea su tutto il territorio nazionale anche attraverso la formazione e il riconoscimento di una specifica professionalità in tale ambito .
Nell'ottobre 2008 è stato avviato l'esame, presso la XII Commissione affari sociali della Camera, delle diverse proposte di legge (A.C. 624 ed abb.) recanti disposizioni in tema di cure palliative; il contenuto delle proposte è successivamente confluito in un testo unificato. Approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati con voto unanime il 16 settembre 2009, il provvedimento è stato licenziato dal Senato, con alcune modifiche, il 27 gennaio 2010. Nella seduta del 9 marzo 2010 esso è stato approvato in via definitiva dall'Assemblea della Camera. La legge n.38/2010 è stata quindi pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 19 marzo scorso.
Le cure palliative, possono qualificarsi come la cura globale e multidisciplinare per i pazienti affetti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e di cui la morte è diretta conseguenza.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha qualificato le cure palliative come “un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione ed il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicofisica e spirituale”.
Attualmente, ai sensi del D.P.C.M. 29 novembre 2001, l’assistenza domiciliare sanitaria e socio-sanitaria ai pazienti terminali, l’assistenza territoriale residenziale e semiresidenziale a favore degli stessi, i trattamenti erogati nel corso del ricovero ospedaliero (quindi anche per i pazienti terminali) e gli interventi ospedalieri a domicilio costituiscono Livelli Essenziali di Assistenza.
La citata legge n. 38/2010 è diretta ad introdurre alcuni principi e linee guida omogenee su tutto il territorio nazionale, per quanto attiene l’erogazione dell’assistenza, la formazione del personale impiegato nel settore, l’uso dei farmaci per la terapia del dolore, il monitoraggio dell’attuazione delle nuove disposizioni, e di quelle preesistenti, da parte delle regioni e dei soggetti impegnati in tale ambito.
Dopo aver definito le cure palliative e le terapie del dolore obiettivi prioritari del Piano sanitario nazionale, la legge rimette al Ministero della salute, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, previo parere del Consiglio superiore di sanità, nel rispetto del riparto di competenze tra Stato e regioni, la definizione delle linee guida per il coordinamento degli interventi regionali negli ambiti individuati dalla legge. L'accordo è intervenuto il 16 dicembre 2010.
Spetta al Ministero della salute la promozione di campagne di informazione ai cittadini sulle modalità e sui criteri di accesso ai programmi di assistenza in materia di cure palliative e di terapia del dolore nonché l’attivazione di una rilevazione specifica sui presìdi e sulle prestazioni che, in ciascuna regione, vengono assicurate dalle strutture del Servizio sanitario nazionale.
Viene poi demandata ad un Accordo stipulato in sede di Conferenza Stato-regioni, su proposta del Ministro della salute, l’individuazione di figure professionali con specifiche competenze nei settori delle cure palliative e della terapia del dolore, anche per l’età pediatrica, con particolare riferimento ad alcune categorie espressamente previste, nonché delle tipologie di strutture nelle quali, a livello regionale, si articolano le due reti - per le cure palliative e per la terapia del dolore - e delle modalità per assicurare il coordinamento delle due reti a livello nazionale e regionale. Con un’Intesa tra stato e regioni dovranno essere definiti i requisiti per l’accreditamento delle strutture presenti in ogni regione e un sistema tariffario unitario di riferimento. Viene finanziata e disciplinata, attraverso un Accordo tra il Governo e Regioni, la completa attuazione, nel 2010-2011, del progetto “Ospedale senza dolore”, qualificato nuovamente come “Ospedale territorio senza dolore”, di cui all’Accordo del 24 maggio 2001 tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome . Una particolare attenzione viene dedicata alla formazione e all’aggiornamento del personale medico e sanitario sulle cure palliative e sulla terapia del dolore. Viene rimessa ad uno o più decreti del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro della salute, l’individuazione dei criteri per la disciplina degli ordinamenti didattici di specifici percorsi formativi in cure palliative e terapia del dolore nonché per l’istituzione di master professionalizzanti in tale ambito. E’ poi previsto un aggiornamento periodico specifico nell’attuazione dei programmi obbligatori di formazione continua in medicina.
E’ attivato presso il Ministero della salute un monitoraggio per le cure palliative e per la terapia del dolore e vengono introdotte norme per semplificare la prescrizione di farmaci per il trattamento di pazienti affetti da dolore severo. Viene introdotto l'obbligo di riportare la rilevazione del dolore all'interno della cartella clinica.
Ai sensi dell'articolo 11 della legge n.38/2010 è stata trasmessa al Parlamento la relazione annuale sullo stato di attuazione della legge. Su questo documento la XII Commissione affari sociali della Camera, nella seduta del 3 luglio 2012, ha approvato una risoluzione (n. 8-00184 approvata il 3 luglio 2012) con la quale, evidenziandosi la persistenza di alcune criticità ancora irrisolte, si impegna il Governo ad adottare le opportune iniziative allo scopo di dare piena attuazione alle previsioni della legge 38/2010.
Per la loro specificità, il numero limitato di pazienti e la scarsità di conoscenze e competenze, le malattie rare costituiscono un settore con un valore aggiunto europeo molto elevato. La stessa definizione di malattie rare è stata formulata all’interno del programma d’azione comunitaria sulle malattie rare 1999-2003, la Decisione n. 1295/1999/CE, che le ha qualificate come patologie potenzialmente letali o cronicamente debilitanti, per lo più ereditarie, con una soglia di prevalenza di non più di cinque pazienti su 10.000. L'Organizzazione europea per le malattie rare, Eurordis ha stimato un totale di 6-8 mila tipologie di malattie rare per circa 36 milioni di persone interessate.
Gran parte dei pazienti affetti da malattie rare incontrano difficoltà nella ricerca di diagnosi e cure per migliorare qualità e aspettative di vita; difficoltà riconosciute anche dalla Comunicazione della Commissione del 2008, Le malattie rare: una sfida per l'Europa e dalla Raccomandazione del Consiglio su un’azione nel settore delle malattie rare dell'8 giugno 2009 che invita gli Stati membri a elaborare e attuare piani o strategie per le malattie rare al livello appropriato o esplorare misure appropriate per le malattie rare nell'ambito di altre strategie di pubblica sanità, al fine di mirare a garantire ai pazienti che ne soffrono l'accesso ad un'assistenza di livello qualitativamente elevato, compresi gli strumenti diagnostici, i trattamenti, l'abilitazione per le persone affette dalla malattia e, se possibile, medicinali orfani efficaci. La Comunicazione della Commissione e la Raccomandazione del Consiglio hanno dato il via allo sviluppo di Piani Nazionali per le Malattie Rare. Al momento, la Francia è il solo paese ad aver sviluppato un piano completo, l’Olanda ha definito una strategia nazionale che coinvolge tutte le parti interessate, mentre l’Italia ha applicato strategie a livello regionale. Infine la Decisione della CE n. 2009/872/EC del 30 novembre 2009 ha istituito il Comitato europeo di esperti sulle malattie rare, European Union Committee of Experts on Rare Diseases (EUCERD).
La recente Direttiva sull’assistenza sanitaria transfrontaliera 2011/24/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2011 concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera sottolinea l’importanza delle reti di riferimento europee per migliorare l’accesso alle diagnosi e alla prestazione di assistenza sanitaria di qualità a tutti i pazienti le cui patologie richiedono una concentrazione particolare di risorse o di competenze. L’ articolo 13 della direttiva è dedicato alle malattie rare. La Commissione si impegna a sostenere gli Stati membri nella cooperazione allo sviluppo di capacità di diagnosi e di cura, al fine di rendere i professionisti sanitari consapevoli degli strumenti a loro disposizione a livello di Unione e per aiutarli a compiere una corretta diagnosi delle malattie rare, anche attraverso l’utilizzo della base dati Orphanet e delle reti di riferimento europee. La Commissione si impegna a rendere consapevoli i pazienti, i professionisti sanitari e gli organismi responsabili del finanziamento dell’assistenza sanitaria delle possibilità offerte dal regolamento (CE) n. 883/2004 per il trasferimento di pazienti con malattie rare in altri Stati membri, anche per diagnosi e cure che non sono disponibili nello Stato membro di affiliazione.
I farmaci destinati alla cura delle malattie rare, farmaci orfani in quanto destinati a platee di pazienti molto ridotte, non consentono la realizzazione, da parte delle aziende farmaceutiche, di ricavi in grado di recuperare i costi sostenuti per la ricerca e lo sviluppo del medicinale. Al fine di stimolarne la produzione, le autorità nazionali hanno adottato un sistema di incentivi per le industrie, la sanità e le biotecnologie. Nel 1983 gli Stati Uniti hanno adottato l'Orphan DrugAct, seguiti dal Giappone nel 1993 e dall’Australia nel 1997. In Europa, il regolamento (CE) n. 141/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1999, concernente i medicinali orfani istituisce una procedura comunitaria per l'assegnazione della qualifica di medicinale orfano e stabilisce un sistema di incentivi messi a disposizione dalla Comunità e dagli Stati membri allo scopo di promuoverne la ricerca, lo sviluppo e l'immissione in commercio.
Ai sensi del Regolamento (CE) n. 141/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 1999, concernente i medicinali orfani, un medicinale è classificato come medicinale orfano nei casi in cui sia destinato alla diagnosi, alla profilassi o alla terapia di una malattia che colpisce meno di 5 individui su 10.000 nella Comunità; quando sia destinato alla cura di una malattia grave o invalidante e che, in mancanza di incentivi, la sua commercializzazione risulti improbabile. Il regolamento è stato adottato al fine di istituire una procedura comunitaria di assegnazione della qualifica di medicinale orfano, e per garantire incentivi alla ricerca, allo sviluppo ed alla commercializzazione di tali medicinali, concedendo in particolare un’esclusiva di mercato. A tal fine, presso l’Agenzia europea di valutazione dei medicinali (EMA) è operativo il Comitato per la Designazione dei Prodotti Medicinali Orfani (COMP), il cui compito principale è di valutare i dossier dei promotori (sponsor) per stabilire se un medicinale può ottenere la designazione di orfano; in caso positivo, vengono garantite allo sponsor la procedura centralizzata di immissione in commercio e l’esclusività di mercato per 10 anni nonché altri incentivi, tra cui l’esonero dal pagamento del diritto normalmente dovuto all’EMA. Con il Regolamento (CE) n. 847/2000 della Commissione europea del 27 aprile 2000 è stata data attuazione al regolamento n. 141/2000.
A livello europeo è stata costituita la base di dati Orphanet gestita da un consorzio europeo di cui fanno parte una quarantina di paesi, il cui coordinamento ha sede in Francia. Orphanet, gestito da diversi comitati, offre una serie di servizi gratuiti e ad accesso libero [1]. I team nazionali hanno il compito di raccogliere informazioni sulle consulenze specialistiche, sui laboratori di diagnosi, sulle attività di ricerca in corso e sulle associazioni di pazienti nei rispettivi paesi.
Per quanto riguarda i medicinali orfani si ricorda che in Francia è stato adottato un Piano nazionale per le malattie rare e già dal 1994 è in vigore l'autorizzazione temporanea di utilizzo dei farmaci orfani che ha consentito a più di 400 prodotti farmaceutici di ottenere l'autorizzazione temporanea di utilizzo (ATU) con largo anticipo rispetto ai tempi necessari alla conclusione del consueto procedimento autorizzativo.
In Italia, infatti, la possibilità di accedere a farmaci non ancora dotati di autorizzazione all'immissione in commercio è limitata ai casi disciplinati dal decreto del Ministero della salute dell'8 maggio 2003, relativo al cosiddetto uso compassionevole, e dal decreto-legge 536/1996, concernente misure per il contenimento della spesa farmaceutica, che, consentono la somministrazione ai pazienti solo in presenza di sperimentazioni cliniche in fase già avanzata.
In Italia, i pazienti affetti da patologie rare godono di tutela normativa, in accordo a quanto stabilito dal decreto del Ministero della sanità del 18 maggio 2001, n. 279, che istituisce la rete nazionale per la prevenzione, la sorveglianza, la diagnosi e la terapia delle malattie rare.
Il decreto Ministeriale 279/2001 dispone inoltre che vengano erogate in esenzione tutte le prestazioni specialistiche (diagnostiche e terapeutiche) appropriate ed efficaci per il trattamento ed il successivo monitoraggio delle malattie rare accertate e per la prevenzione degli ulteriori aggravamenti. Attualmente, ai fini dell’esenzione sono individuate 56 malattie e condizioni, esenti ai sensi del decreto ministeriale 329/1999 sulle malattie croniche ed invalidanti e 284 malattie e 47 gruppi di malattie rare, esenti ai sensi del decreto 279/2001. Il decreto 279/2001 prevede inoltre che i contenuti del regolamento siano aggiornati, con cadenza almeno triennale. Nonostante le previsioni di cui sopra, non si è proceduto ad alcun aggiornamento, sebbene il D.P.C.M. del 21 marzo 2008 sui “nuovi LEA”, mai entrato in vigore, recasse, all'allegato 7, un aggiornamento delle malattie riconosciute come rare, in cui erano indicate 109 nuove patologie da includere, ai fini dell’esenzione, nell’allegato I del decreto 279/2001. Il decreto legge 158/2012 (c.d. Decreto Balduzzi) ha previsto, all'articolo 5, l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza con prioritario riferimento alla riformulazione dell’elenco delle malattie croniche e delle malattie rare, al fine di assicurare il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze.
Le malattie che danno diritto all’esenzione sono individuate sulla base dei criteri dettati dal D.Lgs. 124/1998: gravità clinica, grado di invalidità e onerosità della quota di partecipazione derivante dal costo del relativo trattamento. L'esenzione è estesa anche ad indagini volte all'accertamento delle malattie rare ed alle indagini genetiche sui familiari dell'assistito eventualmente necessarie per la diagnosi di malattia rara di origine genetica. L'esenzione deve essere richiesta alla ASL di residenza presentando una certificazione idonea, rilasciata da una delle strutture riconosciute dalla Regione come presidio di riferimento per quella malattia. Nel caso in cui presso la Regione di residenza non vi siano presidi di riferimento specifici, l'assistito può rivolgersi ad una struttura riconosciuta dalle altre Regioni. Anche le prestazioni finalizzate alla diagnosi della malattia devono essere eseguite (e prescritte) in uno dei presidi di riferimento della rete e, in tal caso, il medico del Servizio sanitario nazionale che formula il sospetto di malattia rara deve indirizzare l'assistito alla struttura della rete specificamente competente per quella particolare malattia. L'esenzione può essere richiesta per più malattie, ove accertate. Per le malattie rare non è riportato un elenco dettagliato delle prestazioni esenti, in quanto di tratta di malattie che possono manifestarsi con quadri clinici molto diversi tra loro e, quindi, richiedere prestazioni sanitarie differenti. Il medico dovrà scegliere, tra le prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza, quelle necessarie e più appropriate alla specifica situazione clinica.
Per quanto riguarda la rete nazionale, presso l’Istituto superiore di sanità opera dal 2001 il Centro nazionale delle malattie rare con scopi di ricerca, in collegamento con le strutture nazionali e internazionali. La vera e propia rete nazionale malattie rare è costituita da presidi accreditati, appositamente individuati dalle regioni. Nell’ambito di tali presidi, preferibilmente ospedalieri, sono individuati i centri interregionali di riferimento. Ai predetti centri interregionali compete la gestione del Registro delle malattie rare; lo scambio di informazioni con gli altri centri interregionali e organismi internazionali competenti; il coordinamento dei presidi della rete; la consulenza e il supporto ai medici del SSN in ordine alle malattie rare ed alla disponibilità dei farmaci appropriati per il loro trattamento.
Con l’Accordo Stato-Regioni dell’11 luglio 2002 si è rafforzato il ruolo delle regioni nell’attuazione del programma di sorveglianza epidemiologica; e si è formalizzata l’istituzione di un gruppo tecnico interregionale permanente, al quale partecipano il Ministero della salute e lâ€Istituto superiore di sanità, per il coordinamento ed il monitoraggio delle attività assistenziali per le malattie rare, al fine di ottimizzare il funzionamento delle reti regionali e salvaguardare il principio di equità dell’assistenza per tutti i cittadini. Il gruppo interregionale permanente cura, a tal fine, la diffusione dei protocolli metodologici, indica le procedure per garantire la sorveglianza epidemiologica e definisce le modalità di collaborazione con le associazioni che operano nel settore. Con l’Accordo Stato Regioni del 10 maggio 2007 sono state, successivamente, fornite le indicazioni per il riconoscimento di Centri di coordinamento regionali e/o interregionali, di Presidi assistenziali sovraregionali per patologie a bassa prevalenza e per l'attivazione dei registri regionali ed interregionali delle malattie rare. Ogni regione ha poi intrapreso percorsi autonomi e alcune regioni sono andate decisamente oltre i livelli minimi dei servizi previsti, inaugurando pratiche di eccellenza che vanno essenzialmente in tre direzioni: l'allargamento dello screening neonatale, l'ampliamento del regime delle esenzioni attraverso i livelli essenziali di assistenza regionali e l'attuazione di percorsi assistenziali.
Il Registro nazionale malattie rare è stato istituito nel 2001 presso l’ISS in attuazione dell’articolo 3 del D.M. 279/2001 e ha avuto successive implementazioni mediante gli Accordi Stato-Regioni del 2002 e 2007.
Il 18 dicembre 2012 è stata presentata alle Associazioni dei pazienti e ai loro familiari la prima bozza di Piano nazionale per le malattie rare (PNMR). Obiettivo del documento è quello di delineare le strategie e definire i compiti delle diverse istituzioni coinvolte (Ministero della Salute, Istituto superiore di sanità, Regioni e aziende del Servizio sanitario nazionale), per dare unitarietà all’insieme delle azioni già in atto e programmare quelle future con continuità e coerenza. Tra le questioni affrontate ci sono l’organizzazione della rete nazionale, il sistema di monitoraggio, le banche dati, il percorso diagnostico e assistenziale, l’innovazione terapeutica (tra cui i farmaci orfani) e il ruolo delle associazioni. La bozza del Piano è stata sottoposta a consultazione pubblica: i soggetti interessati (Associazioni di malati, Strutture della Rete nazionale e Società scientifiche) sono state invitati a inviare (entro e non oltre il 4 febbraio 2013) suggerimenti utili a migliorare il documento o a chiarire aspetti specifici.
La legge finanziaria per il 2007 (articolo 1, commi 805 e 806 della legge 296/2006) ha assegnato 30 milioni alle Regioni ed alle PA, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, per l'integrazione ed il cofinanziamento dei progetti regionali in materia di malattie rare. Il decreto ministeriale 28 febbraio 2009 ha definito la ripartizione alle Regioni del fondo per l'anno 2007; per tale annualità, le Regioni hanno condiviso un unico progetto e la ripartizione è stata effettuata su base capitaria. Per l'anno 2008 e per l'anno 2009, rispettivamente, le somme di 4.482.008 e di 4.984.727 di euro sono state assegnate alle Regioni che hanno presentato progetti sulle MR. Successivamente la legge finanziaria per il 2008 (articolo 2, comma 374 della legge 244/2007) ha riconfermato lo stanziamento destinato al Fondo per il cofinanziamento dei progetti e ha ribadito la priorità delle malattie rare, senza tuttavia indicare una specifica somma destinata a tale priorità.
L’Accordo siglato il 26 febbraio 2009 in sede di Conferenza Stato-Regioni ha destinato al Programma di Ricerca sulle Malattie Rare risorse per programmi di ricerca sanitaria sulle malattie rare pari a 8 milioni di euro (5 stanziati dal Ministero della Salute e 3 dall'AIFA - Agenzia italiana del farmaco). Successivamente, l’ Accordo, in sede di Conferenza Stato-regioni, dell’8 luglio 2010, sulle linee progettuali per l’utilizzo da parte delle Regioni delle risorse vincolate del FSN per la realizzazione degli obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale per l’anno 2010, vincola 20 milioni di euro per le malattie rare.
Nel marzo del 2012 è stato comunicato dal Ministro della salute e dal direttore dell’AIFA il finanziamento di 12 progetti di ricerca sulle malattie rare per complessivi 3 milioni di euro. Tra i 12 progetti finanziati sono presenti studi su: fibrosi polmonare idiopatica; sclerosi laterale amiotrofica (SLA); sindrome di Klinefelter; diabete insipido neurogenico; ipoparatiroidismo; malattia di Fabry.
Si ricorda infine che con il decreto-legge 269/2003 (articolo 48, comma 19, lettera a) è stato prevista la costituzione presso l’AIFA di un apposito fondo (finanziato con i contributi annuali delle imprese farmaceutiche) destinato, tra l’altro, allo studio, alla ricerca e all’impiego, a carico del Servizio sanitario nazionale, dei farmaci orfani per malattie rare, in attesa di una loro commercializzazione.
Presso la XII Commissione affari sociali della Camera è stato avviato l'esame di alcune proposte di legge (A.C. 2060 ed abb.) dirette ad assicurare il miglioramento della qualità di vita delle persone affette da epilessia e delle loro famiglie. Infatti le persone affette da tale patologia sono spesso costrette ad affrontare i problemi correlati non solo alla malattia, ma anche ai pregiudizi e alla disinformazione collegati alla stessa, presente sotto forma di ben quaranta sindromi epilettiche accomunate dalla stessa connotazione neurologica, ma distinte per prognosi e per approccio terapeutico. Pertanto, entrambe le proposte rilevano l’importanza dell’informazione e di una maggiore conoscenza della malattia proponendo a tal fine l’istituzione di corsi di medicina specialistica oltre che della Commissione nazionale per la lotta contro l’epilessia, incaricata di predisporre e proporre azioni per migliorare le terapie e l’integrazione delle persone affette da epilessia e delle loro famiglie. Esse sottolineano inoltre la necessità del riconoscimento dei casi di guarigione e richiamano l’urgenza di istituire adeguati percorsi integrativi per le persone affette da sindromi epilettiche invalidanti.
La Commissione ha deliberato la costituzione di un comitato ristretto per procedere all'elaborazione di un testo unificato delle due proposte ed anche per lo svolgimento di un ciclo di audizioni informali: le fasi da ultimo citate non hanno tuttavia avuto luogo a causa della fine della legislatura.
Dall'aprile 2009, al settembre 2012 la XII Commissione ha svolto un esame lungo ed articolato, che tuttavia non si è concluso, su alcune proposte di legge in tema di prevenzione del randagismo e sul trattamento degli animali di affezione (A.C.1172 ed abb.). I provvedimenti intervengono essenzialmente a modificare la legge quadro in materia (legge n. 281/1991) che, pur valida nello stabilire regole e principi comuni, ha mostrato, nel tempo, alcuni limiti . Peraltro su alcuni aspetti sono intervenute tre ordinanze del Ministro della salute. Le disposizioni contenute nelle proposte di legge riguardano, tra l'altro, i doveri ed i compiti del responsabile di animali d'affezione, la disciplina per l’identificazione e per la sterilizzazione di questi ultimi, i requisiti minimi dei canili e gattili sanitari e dei rifugi, il risanamento dei canili municipali, l’accesso dei cani ai luoghi pubblici e privati e ai servizi di trasporto, le competenze dei servizi veterinari delle ASL, i cimiteri per gli animali di affezione. La XII Commissione, in sede referente, ha concluso l'esame degli emendamenti al testo unificato elaborato dal comitato ristretto e adottato come testo base; l'esame non si è tuttavia concluso.
Relativamente agli scenari sulla futura diffusione del mesotelioma maligno, si stima, per sei paesi dell'Europa occidentale (Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Olanda e Svizzera), un numero di decessi maschili per mesotelioma variante da 5000 del 1998 ai 9.000 del 2018, per poi iniziare a decrescere dopo questa data. Per l'Italia si stimano 940 casi per anno nel periodo di massima diffusione della neoplasia previsto fra il 2015 e il 2019. Queste proiezioni sono in linea con una precedente stima che ha indicato un picco di 1.300 casi per la Gran Bretagna nel 2010. Anche studi epidemiologici condotti in altri paesi europei occidentali confermano il dato. In questo preoccupante quadro epidemiologico la raccolta sistematica dei casi di mesotelioma e l'analisi delle occasioni di esposizione a polveri di amianto è uno strumento essenziale che si può ricondurre ad un programma di prevenzione (Peto J., Decarli A., La Vecchia C., Levi F„ Negri E., The European mesothelioma epidemia).
In Italia sono 9.166 i casi di mesotelioma maligno (MM) registrati dal ReNaM (III° rapporto 2010) fino al 2004 e distribuiti su tutto il territorio nazionale. Tra le regioni più colpite ci sono il Piemonte (1.963 casi di MM), la Liguria (1.246),la Lombardia (1.025), l’Emilia Romagna (1.007) ed il Veneto (856). Per quanto riguarda i nuovi casi tumorali stimati in Italia nel 2012, il mesotelioma corrisponde allo 0,38% del totale (1400 casi su 364.500 I numeri del cancro in Italia 2012)
La Legge 27 marzo 1992, n. 257 non consente più in Italia l'estrazione, l'importazione, il commercio e l'esportazione di amianto e materiali contenenti amianto. A seguito dell'entrata in vigore della L. n. 257 del 1992, le lavorazioni con amianto come materia prima e quindi l'esposizione degli addetti in tali ambiti sono quasi scomparse. Rimane, però, ancora l'esposizione di lavoratori in quelle attività che prevedono la rimozione, la bonifica e lo smaltimento.
In Italia, il Registro nazionale dei mesoteliomi (Re.na.m.) è stato previsto nell'art. 17 della direttiva comunitaria 83/477, (abrogata dalla direttiva 2009/148CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un'esposizione all'amianto durante il lavoro), che prescrive per gli Stati membri l'obbligo di predisporre un registro dei casi accertati di asbestosi e di mesotelioma. La citata direttiva 83/477 è stata attuata con il D.Lgs. n. 277 del 1991che all'art. 36 ha previsto un Registro tumori, presso l'Ispesl (il D.L. 78/2010 ha attribuito all'Inail le funzioni già svolte dall'Ispesl). Con il successivo D.P.C.M 308/2002 sono stati disciplinati i modelli e le modalità di attuazione del Re.na.m. il sistema informativo, per assicurare completezza e qualità delle informazioni rilevate, che ha previsto, presso ogni Regione, l'istituzione di Centri operativi regionali (C.o.r.) per l'acquisizione, l'implementazione ed archiviazione, anche attraverso la ricerca attiva, delle informazioni relative a tutti i casi diagnosticati o trattati nell'area di competenza con particolare riferimento alla definizione diagnostica ed alla definizione della possibile storia di esposizione ad amianto. Tali rilevazioni sono effettuate dalle ASL, presenti sul territorio di competenza, che diagnosticano e trattano casi di mesotelioma (servizi di anatomia ed istologia patologica, reparti di pneumologia e di chirurgia toracica di ospedali pubblici e/o privati). Controlli di esaustività e completezza della casistica raccolta vengono effettuati con l'utilizzo delle schede di dimissione ospedaliera (S.d.o.) e/o dei certificati di morte. Protocolli diagnostici di riferimento per la standardizzazione dei criteri di diagnosi di mesotelioma consentono di suddividere i casi in classi, a seconda del diverso livello di certezza diagnostica raggiunto.
Con l’emanazione del Decreto Legislativo 81/2008 (testo unico sulla sicurezza del lavoro) è stata prevista che il citato registro dei tumori (Art. 244) sia costituito da sezioni rispettivamente dedicate, in particolare:
I risultati dell'attività condotta fino ad oggi mostrano come, malgrado la legge n. 257 del 1992, siano possibili ancora oggi numerose occasioni di esposizione a causa della presenza dell'amianto negli ambienti sia di lavoro che di vita e che le attività di risanamento ambientale non sono state sistematiche e complete (K.Cervato e G. Pagnoni, L’amianto, un pericolo per la salute, in Ragiusan 309/310, anno 2010).
Sulla bonifica dei rifiuti contenenti amianto, il primo riferimento e` la citata legge 27 marzo 1992, n. 257, che detta le norme relative alla cessazione dell’impiego dell’ amianto e in particolare, prevede, la predisposizione di disciplinari tecnici, sulle modalità di gestione dei rifiuti contenenti amianto da parte della Commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all'impiego dell'amianto e l'adozione di detti disciplinari da parte del Ministro dell'ambiente, di concerto con il Ministro della sanità (articoli 5, comma 1, lettera c) e 6, comma 4), e Piani regionali e delle province autonome di protezione dell'ambiente, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall'amianto, con l’individuazione dei siti utilizzati per l'attività di smaltimento dei rifiuti di amianto (art. 10). Per l’attuazione dei citati disciplinari tecnici è stato emanato il decreto ministeriale 29 luglio 2004, n. 248, che disciplina le attività di recupero dei prodotti e dei beni contenenti amianto.
La legge 24 dicembre 2007 n. 244 (legge finanziaria 2008) all’art. 1, commi 241-244, istituisce presso l’INAIL un fondo (triennio 2013-2015 presenta una dotazione di 22 milioni di euro annue), che eroga una prestazione aggiuntiva alle altre riconosciute per legge, per le vittime dell’amianto, delle vittime che hanno contratto patologie asbesto-correlate per esposizione all’amianto e alla fibra fiberfrax, e, in caso di premorte, in favore degli eredi. Il finanziamento del Fondo è a carico, per un quarto, delle imprese e, per tre quarti, del bilancio dello Stato. L’onere a carico dello Stato è determinato in 30 milioni di euro per gli anni 2008 e 2009 e 22 milioni di euro a decorrere dall’anno 2010. Agli oneri a carico delle imprese si provvede con una addizionale sui premi assicurativi relativi ai settori delle attività lavorative comportanti esposizione all’amianto. L’organizzazione e il finanziamento del Fondo, nonché le procedure e le modalità di erogazione delle prestazioni, sono disciplinati dal D.M. 12 gennaio 2011, n. 30.
L’attenzione del legislatore ai temi della famiglia e dell’infanzia, valori riconosciuti anche dalla nostra Carta Costituzionale, ha trovato espressione, in primo luogo, nel riconoscimento di specifiche competenze istituzionali dedicate a tale settore. La famiglia infatti, oltre ad essere un attore sociale, può essere considerata una cellula economica fondamentale, nucleo primario di qualunque Welfare - cfr. Libro bianco sul futuro del modello sociale .
Sulle politiche per la famiglia, il decreto-legge n. 85/2008, ha mantenuto al Presidente del Consiglio dei ministri le funzioni di indirizzo e coordinamento, mentre ha attribuito alla Presidenza del Consiglio dei ministri le funzioni di competenza del Governo per l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza nonché la gestione delle risorse finanziarie dedicate alle politiche della famiglia e le funzioni concernenti il Centro nazionale di documentazione e di analisi per l’infanzia e l’adolescenza.
Sono state inoltre conferite, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 maggio 2008 , al Ministro delle politiche per i giovani, funzioni e compiti, ivi compresi quelli di indirizzo e di coordinamento di tutte le iniziative, anche normative, nelle materie concernenti le politiche giovanili.
Una particolare attenzione ai diritti dell’infanzia e alla loro tutela è riservata dalla legge n. 112/2011, recentemente approvata dal Parlamento (A.C. 2008 ed abb.), recante l’istituzione dell'Autorità garante per l’infanzia e per l’adolescenza, con compiti di promozione, consultazione, tutela, anche in attuazione della Costituzione e di alcune convenzioni internazionali. Inoltre, con la legge n. 219/2012, il Parlamento ha modificato le disposizioni del codice civile relative alla filiazione superando ogni distinzione tra figli legittimi e figli naturali; in particolare, la legge prevede nuove disposizioni, sostanziali e processuali in materia di filiazione naturale e relativo riconoscimento, ispirate al principio "tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico" e delega il Governo a modificare le disposizioni vigenti al fine di eliminare ogni discriminazione tra figli legittimi, naturali e adottivi. Su questi aspetti si rinvia al tema Diritto di famiglia .
Non si è invece concluso l'esame, in sede referente, presso le commissioni riunite I e XII di alcuni progetti di legge (A.C. 1151 e A.C. 2505), tra i quali un disegno di legge del Governo, diretti ad introdurre norme di promozione e di sostegno in favore delle comunità giovanili.
Al tema della partecipazione dei giovani alla vita della Nazione si riferisce poi il disegno di legge costituzionale A.C. 4358, di iniziativa del Governo, che prevede l’equiparazione dell’età per l’esercizio del diritto di voto passivo e attivo e il conseguente abbassamento dei limiti di età per l’eleggibilità a Camera e Senato. Il disegno di legge non ha tuttavia concluso il suo iter: approvato in prima deliberazione dalla Camera nel settembre 2011 è stato trasmesso al Senato ove, a causa della fine della legislatura, non ha completato il suo percorso. Su tali aspetti si fa rinvio al tema La partecipazione dei giovani alla vita della Nazione .
Ulteriori misure adottate dal Parlamento nel corso della XVI legislatura, sono state indirizzate a fronteggiare le difficoltà in cui sono venuti a trovarsi nuclei familiari e particolari categorie di soggetti, specie a seguito della crisi economica che ha investito in misura rilevante molti paesi europei.
In tal senso ha operato l’istituzione - da parte del decreto-legge n. 112/2008 - di un Fondo di solidarietà, per il soddisfacimento delle esigenze di natura alimentare, energetiche e sanitarie dei cittadini meno abbienti, per la concessione della Carta acquisti: una sperimentazione della Carta di durata non superiore a dodici mesi e nei comuni con più di 250.000 abitanti, per favorirne la diffusione tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno, è stata disposta dal decreto legge n. 5/2012 (art. 60), anche allo scopo di valutarne l'efficacia come strumento di contrasto alla povertà assoluta. Alla stessa finalità appaiono ispirate le misure contenute nel decreto-legge n. 185/2008, che ha previsto un bonus straordinario in favore dei nuclei familiari che hanno realizzato un basso reddito, e contiene norme per agevolare l’accesso al credito per le famiglie con un figlio nato o adottato nel periodo 2009-2011. A tale scopo viene istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, un apposito fondo rotativo denominato “Fondo di credito per i nuovi nati”, finalizzato al rilascio di garanzie dirette, anche fidejussorie, alle banche ed agli intermediari finanziari.
In tema di diritti per l'infanzia il Parlamento ha approvato la legge diretta ad istituire e a diciplinare l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, anche in attuazione della Costituzione, di convenzioni internazionali, e di norme europee e nazionali.
Il D.P.C.M. 13 dicembre 2011 ha affidato al Ministro per la Cooperazione internazionale e l'integrazione le deleghe sulle politiche giovanili, sulle politiche per la famiglia, sulle adozioni di minori italiani e stranieri, sull'Osservatorio nazionale sulla famiglia, sull'Osservatorio nazionale sull'infanzia e l'adolescenza, sul servizio civile e sull'ufficio nazionale antidiscriminazione.
L’Osservatorio Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza è stato istituito, insieme alla Commissione Parlamentare per l’infanzia, dalla legge n. 451/1997. Per lo svolgimento delle sue attività si avvale del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’infanzia e l’adolescenza che cura, insieme al Dipartimento politiche per la famiglia e al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Monitoraggio del Piano di sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia.
Il Terzo Piano biennale nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva è stato approvato con D.P.R. 21 gennaio 2011. Il Piano, valido per il biennio 2010-2011, prevede quattro direttrici di azione: consolidare la rete integrata dei servizi e il contrasto all’esclusione sociale; rafforzare la tutela dei diritti; favorire la partecipazione per la costruzione di un patto intergenerazionale; promuovere l’interculturalità. Particolare attenzione è dedicata alle modalità con cui i servizi rivolti ai minori devono essere erogati: si sottolinea che la loro struttura deve essere permanente e il metodo di lavoro integrato, riducendo le disparità di accesso tra gli utenti e le differenze di qualità sul territorio nazionale. Per quanto riguarda la tutela dei diritti, le indicazioni generali rilevano l'importanza che la normativa sull’infanzia e l’adolescenza si collochi all’interno della cornice internazionale del diritto, con una armonizzazione tra i sistemi di protezione elaborati sul piano delle politiche sociali, sanitarie e dell’istruzione. Nel Rapporto sugli esiti di monitoraggio del Piano, l'Osservatorio nazionale infanzia e adolescenza ha sottolineato quale elemento di forte criticità la progressiva riduzione delle risorse statali e regionali disponibili per il sistema del welfare, sottolineando che la stesura del prossimo Piano dovrebbe essere accompagnata dall’individuazione delle Azioni con l'avvio di un'analisi sistematica a ragionata delle risorse attivabili per la loro relizzazione.
La legge 28 agosto 1997, n. 285 ha istituito il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza suddiviso tra le Regioni (70%) e le 15 Città riservatarie (30%). Successivamente, la legge finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha disposto, all'articolo 1, comma 1258, che la dotazione del Fondo fosse limitata alle risorse destinate ai comuni riservatari, e venisse determinata annualmente dalla Tabella C della legge finanziaria. Il restante 70% per cento del Fondo per l'infanzia e l'adolescenza, destinato alle Regioni, continua a confluire, indistintamente, nel Fondo nazionale per le politiche sociali (per una analisi puntuale dei Fondi dedicati alle politiche sociali si rinvia alla scheda di approfondimento Fondi per le politiche sociali). Oggi le 15 Città riservatarie- Bari, Bologna, Brindisi, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Taranto, Torino, Venezia - rappresentano un laboratorio di sperimentazione in materia di infanzia e adolescenza. Il trasferimento delle risorse avviene con vincolo di destinazione, quindi i finanziamenti della legge 285 sono collegati alla progettazione dei servizi per l’infanzia e l’adolescenza. La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) destina 39,6 milioni di euro al Fondo , prevedendo quasi identici stanziamenti per il biennio 2014-2015.
La legge n. 112/2009, ha previsto che la Commissione parlamentare per l’infanzia assume la nuova denominazione di Commissione parlamentare per l’infanzia e per l’adolescenza, vengono stabilite limitate modifiche sulle modalità di espressione del parere sul piano nazionale di azione di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva ed ampliati i poteri di consultazione della Commissione con gli organismi operanti in materia di diritti dei minori, in Italia e all’estero.
Nel corso della XVI Legislatura, il Parlamento ha approvato la legge n. 112/2011 (A.C. 2008 ed abb.), recante l'istituzione dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza.
L’istituzione della figura dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, già presente in molti Paesi europei, viene prevista anche per dare attuazione alla Costituzione, ad una serie di convenzioni ed atti internazionali, quali la Convenzione sui diritti del fanciullo (fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva dalla legge 27 maggio 1991, n. 176), e la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e resa esecutiva dalla legge 20 marzo 2003, n. 77), nonché al diritto comunitario e a norme legislative vigenti. Inoltre diversi atti di indirizzo e risoluzioni del Parlamento europeo e del Consiglio d'Europa esortano gli Stati membri ad intervenire nel merito. Nel nostro Paese, dopo la ratifica della Convenzione di New York, si è svolto un lungo ed intenso lavoro di approfondimento e di riflessione che ha portato all'istituzione con carattere permanente della Commissione parlamentare per l'infanzia , dell'Osservatorio nazionale e del Centro nazionale di documentazione ed analisi per l'infanzia e l'adolescenza, creando un sistema integrato di competenze, ruoli e funzioni. Peraltro, diverse regioni italiane, sia pur con forme e modalità diverse, hanno istituito organismi di questo tipo.
L'iter del provvedimento è stato avviato nel febbraio 2009 con l’esame congiunto dei diversi progetti di legge su questo tema. Le commissioni riunite I e XII hanno successivamente adottato come testo base il disegno di legge di iniziativa governativa (A.C. 2008). L'esame in Assemblea è iniziato il 29 settembre 2009, ma si è reso necessario un ulteriore passaggio presso le Commissioni riunite per alcuni approfondimenti richiesti dall'Assemblea. La Camera ha approvato il progetto di legge il 16 marzo 2011 e lo ha trasmesso al Senato che lo ha approvato definitivamente nella seduta del 22 giugno 2011.
Dopo aver previsto l’istituzione dell'Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, con poteri autonomi di organizzazione, con indipendenza amministrativa e senza vincoli di subordinazione gerarchica, stabilito che essa dura in carica quattro anni e che il suo mandato è rinnovabile una sola volta e averne rimesso la nomina ad una determinazione adottata d’intesa dai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato, il provvedimento attribuisce al garante una serie di compiti, funzioni e poteri (artt. 3, 4 e 6), tra i quali vanno ricordati la facoltà di proporre l'adozione di iniziative per assicurare la tutela dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza con particolare riferimento al diritto alla famiglia, all'educazione, all'istruzione, alla salute, la competenza ad esprimere un parere sul piano nazionale di azione prima della sua trasmissione alla Commissione parlamentare per l'infanzia, la competenza ad esprimere osservazioni circa l'individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali relativi all'infanzia e all'adolescenza, e a vigilare in merito al rispetto degli stessi, la collaborazione con gli altri organismi nazionali e internazionali aventi competenze sull’infanzia e con i garanti regionali già istituiti, la facoltà di esprimere pareri sui disegni di legge, sugli atti normativi del Governo e sui progetti di legge all'esame del Parlamento in materia di tutela dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Significativa appare la competenza dell'Autorità garante a determinare, fatte salve le funzioni dei servizi territoriali, le procedure e le modalità con cui ogni singolo soggetto può segnalare ad essa i casi di violazione ovvero situazioni di rischio di violazione dei diritti dei minori. Viene poi istituito l'Ufficio dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza (art. 5) composto da dipendenti del comparto Ministeri o appartenenti adaltre amministrazioni pubbliche, in posizione di comando obbligatorio, nel numero massimo di dieci unità. La sede e i locali destinati all'Ufficio sono messi a disposizione della Presidenza del Consiglio senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica.
Per quanto riguarda la dotazione finanziaria, la legge istitutiva dell'Autorità, ha stabilito per il Garante una indennità fissa pari a 200.000 euro, e al comma 1, euro 750.000 per l'anno 2011 e 1.500.000 a decorrere dal 2012, per le spese di espletamento delle competenze assegnate e per le attività connesse e strumentali, nonché per il funzionamento dell'Ufficio dell'Autorità garante. La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), all'articolo 1, comma 259, ha incrementato per il 2013 di un milione di euro le risorse a disposizione dell’Autorità Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza.
Il Garante nazionale per l'infanzia e l'adolescenza
Modifica dei compiti e della denominazione della Commissione parlamentare per l'infanzia
Politiche sociali per l'infanzia e l'adolescenza
L’articolo 13, co. 3, della L. 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), nel garantire nelle scuole di ogni ordine e grado l’attività di sostegno mediante l'assegnazione di docenti specializzati, conferma, ai sensi del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, l'obbligo degli enti locali di fornire l’assistenza per l'autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici o sensoriali.
Per quanto concerne il riparto delle competenze istituzionali ed, in particolare, l’individuazione dell’ente al quale fa capo l’obbligo di fornire la necessaria assistenza agli alunni disabili, va preliminarmente osservato che il citato D.P.R. 616/1977 ha originariamente attribuito ai comuni le funzioni amministrative relative all’assistenza scolastica, ossia quelle concernenti le strutture, i servizi e le attività destinate a facilitare, mediante erogazioni e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali o collettivi, a favore degli alunni di istituzioni scolastiche pubbliche o private, anche se adulti, l'assolvimento dell'obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi, la prosecuzione degli studi. Le funzioni suddette concernono, tra l'altro, gli interventi di assistenza medico-psichica e l'assistenza ai minorati psico-fisici (articoli 42 e 44 del D.P.R. 616/1977).
Successivamente, il decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9, ha restituito alla competenza delle province le funzioni assistenziali, che sono esercitate, direttamente o in regime di convenzione con i comuni, già di loro competenza alla data di entrata in vigore della L. 8 giugno 1990, n. 142.
A seguito del trasferimento di funzioni operato dall’articolo 139, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali), i servizi di supporto organizzativo (nei quali rientra quindi anche l’assistenza educativa) del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio sono stati demandati alle province, in relazione all'istruzione secondaria superiore, e ai comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di scuola.
Questo riparto di competenze sembra confermato dalla delibera 5/2008 della Corte dei conti (Sezione regionale di controllo della Lombardia), che include nell’ambito della nozione di “supporto organizzativo” anche il trasporto degli alunni portatori di handicap dall’abitazione alla sede scolastica. Ad analoghe conclusioni sono pervenuti sia il Consiglio di Stato, con il parere del 20 febbraio 2008, n. 213, sia il TAR della Campania (Sez. I), con la sentenza 22 febbraio 2006, n. 167, i quali hanno riconosciuto nella provincia l’ente tenuto ad assicurare il trasporto gratuito dei disabili che frequentino le scuole secondarie superiori (vedi anche l’ordinanza del TAR di Catania del 6 novembre 2002, n. 2112).
Per completare il quadro normativo, è utile ricordare che l’articolo 6, co. 2, lett. b) della legge 8 novembre 2000, n. 328 (legge quadro sui servizi sociali), pur senza modificare esplicitamente il sistema di competenze sin qui descritto, ha attribuito ai comuni le competenze relative all’erogazione di tutti i servizi sociali nonché delle attività assistenziali già di competenza delle province, individuando quindi nel comune l’ente intestatario delle funzioni amministrative in materia di interventi sociali e di servizi alla persona.
Con l’articolo 14 della legge 328/2000 ai comuni è stata affidata anche la realizzazione di progetti individuali per le persone disabili per la realizzazione della piena integrazione nell’ambito familiare e sociale nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica, professionale o del lavoro.
Analoghe previsioni sono state dettate dall'articolo 13 del D.Lgs. 18 ottobre 2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), il quale stabilisce che spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità.
In tale contesto, è opportuno evidenziare che l’articolo 13, co. 1, lett. a) della L. 104/1992 prevede che l'integrazione scolastica della persona handicappata nelle sezioni e nelle classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado e nelle università è destinata a realizzarsi in gran parte attraverso la conclusione di accordi di programma tra gli enti locali, gli organi scolastici e le aziende sanitarie locali ai fini della programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite da enti pubblici o privati.
L’esigenza di coordinamento è stata recentemente ribadita dalla nota prot. 3390 del 30 novembre 2001 del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, nella quale è stato sottolineato che, anche dopo il trasferimento di funzioni al sistema dei governi territoriali di cui al D.Lgs. 112/1998, gli accordi di programma costituiscono lo strumento più efficace per “un'attività coordinata e finalizzata a garantire la realizzazione di progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione”. In particolare, la suddetta nota distingue l’assistenza per l’autonomia e la comunicazione di cui alla L. 104/1992 in due segmenti: il primo, riferito all’assistenza di base, è di competenza degli istituti scolastici; il secondo, concernente l’assistenza specialistica, è assicurato dagli enti locali.
Non va trascurato poi che, a seguito della riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, la materia è in larga misura soggetta alla legislazione regionale.
La puntuale regolamentazione delle attività di assistenza agli alunni con disabilità può essere infatti ricondotta al comparto dei servizi sociali, ora confluito nella competenza residuale delle regioni, nonché – considerata la finalità di assicurare il diritto allo studio ai soggetti con handicap e le relative implicazioni sull’organizzazione delle attività scolastiche – alla materia dell’ “istruzione”, assegnata dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione alla potestà legislativa concorrente.
Tra le novità di rilievo in ordine alla presa in carico dell’alunno con disabilità si segnala la recente intesa del 20 marzo 2008 n.39, siglata in sede di Conferenza unificata, che riorganizza l’assegnazione dei docenti di sostegno. L’intesa prescrive che gli insegnanti specializzati per il sostegno, anziché essere titolari presso un’istituzione scolastica, siano in carico ad un’unica scuola polo del territorio per essere assegnati ai singoli istituti, salvaguardando possibilmente la continuità didattica.
Quanto alla normativa regionale, si può constatare che non tutte le regioni hanno definito la competenza degli enti locali in merito all’assistenza educativa utilizzando il criterio dell’ordine di scuola (come previsto dall'articolo 131 del D.Lgs. 112/1998). Per esempio, la legge della regione Veneto 13 aprile 2001, n. 11 fa riferimento alla tipologia di disabilità, demandando alle province i servizi per l’integrazione dei minorati sensoriali (non vedenti e audiolesi) nelle scuole di ogni ordine e grado (articolo 34 della LR del Veneto 17 gennaio 2001, n. 2).
La XVI legislatura si è caratterizzata per l'approvazione della legge 219/2012, volta ad eliminare dall'ordinamento le residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali, affermando il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli. Non hanno invece concluso l'iter parlamentare le proposte di legge in tema di riduzione dei tempi di scioglimento del matrimonio e di attribuzione del cognome ai coniugi ed ai figli.
Con la legge 10 dicembre 2012 n. 219, il Parlamento ha modificato le disposizioni del codice civile relative alla filiazione, superando ogni distinzione tra figli legittimi e figli naturali. La riforma (per la cui analisi si rinvia a Legge 219/2012 - Riforma della filiazione) prevede:
Il Parlamento nel corso della XVI legislatura ha affrontato altri temi legati al diritto di famiglia, tra i quali si segnalano proposte di legge in tema di divorzio, riconoscimento delle c.d. unioni civili, affidamento dei figli, creazione di tribunali specializzati in materia di famiglia, modalità di attribuzione del cognome ai coniugi ed ai figli. Nessuno di questi provvedimenti, dei quali si dà di seguito sinteticamente conto, è stato approvato.
Il c.d. divorzio breve. In particolare, la Commissione Giustizia della Camera ha approvato il 29 marzo 2012 un testo unificato di numerose proposte di legge (A.C. 749, A.C. 1556, A.C. 2325 e A.C. 3248) che, intervenendo sulla legge sul divorzio (n. 898/1970), mirava a ridurre da tre anni ad un anno la durata della separazione necessaria per poter presentare domanda di divorzio; il termine era raddoppiato (due anni) in presenza di figli minori. Inoltre, con una modifica dell'art. 191 del codice civile, il provvedimento anticipava lo scioglimento della comunione dei beni tra marito e moglie (che attualmente consegue al passaggio in giudicato della sentenza di separazione) al momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati (ulteriori elementi di documentazione sul quadro normativo vigente e sul contenuto del testo unificato possono essere rinvenuti nei dossier del Servizio Studi). Il provvedimento, pur inserito nel calendario dei lavori dell'Assemblea, non è stato approvato dalla Camera dei deputati.
Il riconoscimento delle unioni di fatto. Anche in questa legislatura l'esigenza di una disciplina organica della convivenza e di un riconoscimento esplicito della famiglia di fatto si è posta all'attenzione della Camera dei deputati che ha esaminato in Commissione Giustizia una ampia serie di proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 1065, A.C. 1631, A.C. 1637, A.C. 1756, A.C. 1858, A.C. 1862, A.C. 1932, A.C. 3841), il cui contenuto è analizzato nel dossier del Servizio studi, che contiene anche una ricostruzione di diritto comparato. La Commissione non ne ha concluso l'esame.
Il cognome dei coniugi e dei figli. Nel corso della legislatura la Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha avviato anche l'esame di proposte di legge di iniziativa parlamentare volte a modificare la disciplina di attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli (A.C. 36 e abbinate). Le proposte prevedevano in taluni casi l’assunzione del cognome di entrambi i genitori (secondo criteri differenti), in altri del cognome dell’uno o dell’altro genitore. Nonostante l’elaborazione di un testo di sintesi, la Commissione non ha concluso l’esame delle proposte. Nello stesso periodo peraltro, la Commissione è stata chiamata ad esprimere un parere su uno schema di regolamento del Governo volto a modificare il regolamento sullo stato civile (D.P.R. 396/2000) in tema di procedure per ottenere il cambiamento del nome o del cognome. L’emanazione del D.P.R. 54/2012 (come più ampiamente descritto dalla scheda di approfondimento), ha prodotto una semplificazione delle procedure, attribuendo ogni competenza alle prefetture ed evitando il coinvolgimento del Ministero dell’Interno.
L'adozione da parte delle famiglie affidatarie. Nell'ultimo anno di legislatura la Commissione giustizia ha esaminato alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 3459, A.C. 3854, A.C. 4077, A.C. 4279 e A.C. 4326) volte a valorizzare il rapporto che, grazie all’istituto dell’affidamento, si instaura tra il minore e la famiglia affidataria che lo accoglie in un momento di estremo bisogno, sostanzialmente prevedendo una corsia preferenziale per l’adozione a favore della famiglia affidataria, laddove risulti impossibile ricostituire il rapporto del minore con la famiglia d’origine. Nonostante l'approvazione di un testo base il 15 dicembre 2012, l'anticipata chiusura della legislatura non ha consentito la prosecuzione dei lavori.
I provvedimenti che hanno interrotto l'iter al Senato. Tra i provvedimenti che non hanno concluso l'iter in Commissione giustizia al Senato si ricordano alcuni disegni di legge volti a modificare la disciplina sull'affidamento condiviso (AS. 957 e abbinati) e una delega al Governo per l'istituzione presso i tribunali e le Corti d'appello delle sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia (AS. 3323).
Con riguardo agli aspetti del diritto di famiglia con implicazioni transnazionali, merita segnalare che l’Italia ha aderito, insieme ad altri 14 Stati membri UE (Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna e Ungheria) ad una cooperazione rafforzata, nel settore del diritto applicabile in materia di divorzio e di separazione legale (decisione del Consiglio 2010/405/CE ).
Ai sensi dell’articolo 331 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la cooperazione rafforzata è lo strumento che consente a un gruppo di almeno nove Stati membri di attuare misure qualora non sia raggiunto un accordo da parte di tutti i 27 Stati membri. Gli altri paesi dell’UE conservano il diritto di aderire quando lo desiderino.
Dal 21 giugno 2012 si applica pertanto all’Italia il regolamento attuativo della cooperazione (regolamento (UE) n. 1259/2010, cd. regolamento ROMA III) che contiene norme dettagliate sulla scelta del diritto applicabile ai divorzi internazionali. La maggiore innovazione riguarda la facoltà che il regolamento riconosce alle coppie internazionali di convenire in anticipo la legge applicabile al loro caso. I coniugi, in particolare, potranno scegliere tra:
Il regolamento stabilisce altresì criteri comuni a disposizione delle autorità giurisdizionali per determinare la legge nazionale applicabile in mancanza di accordo delle parti.
Si segnala inoltre che è attualmente all’esame delle istituzioni dell’Unione europea un pacchetto legislativo comprendente due proposte di regolamento rispettivamente relative alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di regime patrimoniale tra coniugi (COM(2011)126) e di effetti patrimoniali delle unioni registrate (COM(2011)127). Il pacchetto di proposte persegue i seguenti comuni obiettivi:
Nel corso della XVI legislatura la Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha avviato l'esame di proposte di legge presentate da deputati sia di maggioranza sia d’opposizione volte a modificare la disciplina di attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli (A.C. 36 e abbinate).
Nello stesso periodo il Governo - previa acquisizione dei pareri delle competenti commissioni parlamentari - ha emanato il D.P.R. 54/2012, di modifica del regolamento sullo stato civile (D.P.R. 396/2000) in tema di procedure per ottenere il cambiamento del nome o del cognome.
Il diritto al nome trova riconoscimento a livello costituzionale nell'art. 22 della Costituzione, secondo cui «nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome», da leggersi in combinazione con l'art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce in via generale i diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali è pacificamente annoverato il diritto all'identità personale. Il nome, secondo la Corte costituzionale, “assume la caratteristica del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione (...) accanto alla tradizionale funzione del cognome quale segno identificativo della discendenza familiare” (sent. n. 13/1994).
L'art. 6 del codice civile specifica che ogni persona ha diritto al nome – definito come l'insieme di prenome e cognome - che le è per legge attribuito e che non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità indicati dalla legge. Ai sensi dell'art. 7 c.c., la persona alla quale si contesti il diritto all'uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall'uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento del danno. L'art. 8 c.c. stabilisce poi che le azioni previste dall'art. 7 c.c. possono essere promosse anche da chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un interesse fondato su ragioni familiari degne di essere protette. Le medesime azioni possono infine essere esperite a tutela dello pseudonimo, usato da una persona in modo che abbia acquisito l'importanza del nome (art. 9 c.c.).
Le disposizioni normative che, ai sensi dell'art. 6 c.c., disciplinano l'attribuzione del cognome (in via diretta o come conseguenza dell'attribuzione di un particolare status familiae) sono contenute nel codice civile, in alcune leggi speciali e nel D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127).
Ai sensi dell’art. 143-bis c.c. (introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975), la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze.
A tal proposito, la Corte di cassazione (sent. 17 luglio 2004, n. 13298) ha osservato che: "la normativa codicistica vigente prima della riforma del diritto di famiglia, nel regolare soltanto, nell'ambito della famiglia legittima, il cognome della moglie, disponeva all'art. 144 c.c., in piena coerenza con il riconoscimento al marito - nella stessa norma sancito - della qualità di capo della famiglia, che la moglie ne assumesse il cognome, così chiaramente ponendo il cognome dell'uomo quale elemento identificativo del nucleo familiare. La legge di riforma n. 151 del 1975 ha sostituito tale disposizione con l'art. 143-bis c.c., ai sensi del quale la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito. Nonostante l'apparente incisività della nuova formulazione, essa deve considerarsi di modesto spessore (...) tenuto conto da un lato che anche nel vigore della precedente normativa la giurisprudenza di questa Suprema Corte aveva ravvisato il diritto della moglie a conservare il proprio cognome, aggiungendo ad esso quello del marito (...), considerato d'altro lato che anche la disposizione novellata evidenzia, sia pure in termini attenuati rispetto al passato, l'opzione del legislatore verso il cognome del marito come identificativo della nuova famiglia costituita, in quanto unico cognome comune, così rimarcando una posizione di evidente disparità tra i coniugi".
L’art. 156-bis c.c. stabilisce che il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito, quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall’uso possa derivarle grave pregiudizio.
Ai sensi dell’art. 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), una volta pronunciato con sentenza lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio. Tuttavia il tribunale, con la sentenza suddetta, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela. Tale decisione può essere modificata con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti.
Per esclusive ragioni descrittive si fa di seguito riferimento alle categorie dei figli legittimi e naturali. La legge 219/2012 ha infatti affermato il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli.
L’art. 262 c.c. prevede che il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio naturale assume il cognome del padre. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre. Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l'assunzione del cognome del padre.
La Corte costituzionale, con sentenza 18-23 luglio 1996, n. 297, in relazione ad un ricorso diretto ad ottenere l'accertamento del diritto di un figlio naturale di anteporre al cognome, derivatogli dall'(unico) riconoscimento della madre naturale intervenuto oltre quaranta anni dopo il parto, il precedente cognome attribuito dall'ufficiale di stato civile, ha dichiarato l'illegittimità del presente articolo, nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale.
Con sentenza n. 12641 del 26 maggio 2006, la Corte di cassazione ha chiarito che, in caso di riconoscimento del figlio da parte del padre - successivamente a quello già compiuto dalla madre, della quale il figlio ha assunto il cognome - l'acquisto del cognome paterno non è automatico, e anzi deve escludersi ove nel frattempo il figlio abbia acquistato una sua precisa individualità col cognome materno e come tale sia conosciuto.
Ai sensi dell'art. 280 c.c., la legittimazione, che può avvenire o per susseguente matrimonio dei genitori del figlio naturale o per provvedimento del giudice, attribuisce a colui che è nato fuori del matrimonio la qualità di figlio legittimo. L’attribuzione del cognome al figlio legittimato è disciplinata dall’art. 33 del citato D.P.R. 396/2000, secondo cui il figlio legittimato ha il cognome del padre, ma egli, se maggiore di età alla data della legittimazione, può scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne viene a conoscenza, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a sua scelta, quello del genitore che lo ha legittimato. Uguale facoltà di scelta è concessa al figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché al figlio naturale di ignoti riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entrambi. Le dichiarazioni precedenti sono rese all'ufficiale dello stato civile del comune di nascita dal figlio personalmente o con comunicazione scritta. Esse vengono annotate nell'atto di nascita del figlio medesimo.
Si richiama anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 6098/2001, secondo la quale se il minore figlio naturale riconosciuto prima dalla madre (della quale ha assunto il cognome) e poi dal padre (del quale ha assunto il cognome) viene legittimato per provvedimento del giudice, l’attribuzione del cognome paterno non avviene in via automatica; in tale fattispecie, si applica per analogia il sopra richiamato art. 262, sicché il giudice, nel decidere sulla richiesta del padre di attribuzione al figlio del proprio cognome, dovrà valutare esclusivamente l’interesse del minore, avuto riguardo al diritto dello stesso all’identità personale fino a quel momento goduta nell’ambiente in cui è vissuto, nonché ad ogni altro elemento di valutazione presente e rilevante nella fattispecie.
Non esiste nell'ordinamento italiano una specifica disposizione diretta ad attribuire ai figli legittimi il cognome paterno. Ciononostante, al figlio legittimo viene automaticamente attribuito il cognome del padre ed è costantemente negata ai genitori la possibilità di optare per il cognome materno o il doppio cognome. Il fondamento giuridico di tale circostanza è individuato da una parte della dottrina e della giurisprudenza nella lettura sistematica delle disposizioni in tema di filiazione legittima e naturale. Secondo una tesi minoritaria, invece, opererebbe nel campo una fonte consuetudinaria (i termini del dibattito sono esposti in Cass. 13298/2004).
Di tale questione è stata investita già nel corso degli anni '80 la Corte costituzionale, la quale ha dichiarato in due occasioni, con le ordinanze nn. 176 e 586 del 1988, manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale (nella prima pronuncia) degli artt. 71, 72 e 73 del r.d. n. 1238 del 1939 (successivamente abrogato ad opera del D.P.R. 396/2000), nonché (nella seconda pronuncia) dell’art. 73 del suddetto r.d. 1238/1939 e degli artt. 6, 143-bis, 236, 237, comma 2, e 262, comma 2, c.c., nella parte in cui non prevedono la facoltà dei genitori di determinare il cognome del proprio figlio legittimo mediante l’imposizione di entrambi i loro cognomi, né il diritto di quest'ultimo di assumere anche il cognome materno. In tali pronunce la Corte costituzionale ha rilevato che l’interesse alla conservazione dell’unità familiare tutelato dall’art. 29, secondo comma, Cost. sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia, così da essere non già imposto dai genitori ai figli, ma esteso ope legis; allo stesso tempo la Corte ha riconosciuto come del tutto compatibile con il quadro costituzionale, ed anzi maggiormente aderente all’evoluzione della coscienza sociale, una sostituzione della regola vigente con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi ed idoneo a conciliare i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., ritenendo tuttavia tale innovazione normativa, anche per la pluralità delle soluzioni adottabili, di esclusiva competenza del legislatore.
In considerazione del lungo periodo trascorso dalle suddette pronunce della Corte costituzionale, del maturarsi di una diversa sensibilità nella collettività e di diversi valori di riferimento, connessi alle profonde trasformazioni sociali frattanto intervenute, nonché degli impegni imposti da convenzioni internazionali e delle sollecitazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 13298/2004, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 143-bis, 236, 237, comma 2, 262, 299, comma 3, c.c., nonché 33 e 34 del D.P.R. 396/2000, nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre, anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi. La Corte costituzionale, con sentenza 6 febbraio 2006, n. 61, ha dichiarato l'inammissibilità di tale questione di legittimità costituzionale. Il giudice delle leggi ha sottolineato che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento, con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna e con i vincoli e gli stimoli provenienti dalle fonti di diritto internazionale. Tuttavia, la Corte ha concluso che l’intervento che si invocava con la ordinanza di rimessione richiedeva una operazione manipolativa esorbitante dai propri poteri, posto che lasciava aperta tutta una serie di opzioni, che vanno da quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente alla volontà dei coniugi – con la conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello stato civile dovrebbe attenersi in caso di mancato accordo – ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare ad una regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi.
Per quanto riguarda il figlio adottivo, ai sensi dell’art. 27 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), per effetto dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. La Corte costituzionale (ordinanza n. 586 del 1988) ha chiarito che "analogamente ai figli legittimi, l'adottato assume il cognome determinato dalla legge come segno distintivo dei membri della famiglia legittima costituita dai genitori adottivi col matrimonio, cioè, secondo l'ordinamento vigente, il cognome del marito".
Se l'adozione è disposta nei confronti della moglie separata, ai sensi dell'art. 25, comma 5, della medesima legge (secondo cui, se nel corso dell'affidamento preadottivo interviene separazione tra i coniugi affidatari, l'adozione può essere disposta nei confronti di uno solo o di entrambi, nell'esclusivo interesse del minore, qualora il coniuge o i coniugi ne facciano richiesta), l'adottato assume il cognome della famiglia di lei.
Per quanto riguarda invece l'adozione di persone maggiori di età, ai sensi dell’art. 299 c.c. l'adottato assume il cognome dell'adottante e lo antepone al proprio. In particolare, se l'adozione è compiuta da coniugi l'adottato assume il cognome del marito. Se l'adozione è compiuta da una donna maritata, l'adottato, che non sia figlio del marito, assume il cognome della famiglia di lei. La Corte costituzionale, con sentenza 7-11 maggio 2001, n. 120, ha affermato che la precedenza del cognome dell’adottante non appare irrazionale, così come non può costituire violazione del diritto all’identità personale il fatto che il cognome adottivo preceda o segua quello originario. La lesione di tale identità è ravvisabile nella soppressione del segno distintivo, non certo nella sua collocazione dopo il cognome dell’adottante.
Il primo periodo del secondo comma dell'art. 299 c.c. stabilisce tuttavia che l'adottato che sia figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori assume solo il cognome dell'adottante. La ratio di tale previsione risiede nella volontà di far scomparire il cognome imposto dall'ufficiale di stato civile, ritenuto rivelatore di origine illegittima e dunque generatore di stigma sociale. La Corte costituzionale, con la suddetta sentenza 120/2001, ha dichiarato l'illegittimità del presente comma, nella parte in cui non prevede che, qualora sia figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori, l'adottato possa aggiungere al cognome dell'adottante anche quello originariamente attribuitogli. Secondo la Corte tale scelta “risulta in contrasto con l’invocato art. 2 della Costituzione, dovendosi ormai ritenere principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello per cui il diritto al nome – inteso come primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale – costituisce uno dei diritti inviolabili protetti dalla menzionata norma” ed è, inoltre, “priva di razionale giustificazione, sicché risulta violato l’art. 3 della Costituzione", alla luce della riforma dell’adozione di cui alla menzionata legge n. 184 del 1983., con la quale si é compiuta una netta distinzione fra l’adozione di minori e quella di maggiorenni, regolata dal codice civile, posto che “se la ratio della prima é, almeno in linea di massima, quella di fornire al minore una famiglia che sia idonea a consentire nel modo migliore il suo sviluppo (..) l’obiettivo della seconda evidentemente non é il medesimo, poiché tale adozione (art. 300 cod. civ.) non crea alcun vincolo di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante, tanto che il primo conserva tutti i propri precedenti rapporti, specie quelli con la famiglia di origine”.
Per quanto riguarda l'attribuzione del cognome, a livello internazionale si deve richiamare la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con legge 14 marzo 1985 n. 132). L’articolo 16 della Convenzione ha impegnato gli Stati aderenti a prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari, ed in particolare ad assicurare, in condizioni di parità con gli uomini, gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome (lett. g).
Si segnala, inoltre, che con le raccomandazioni n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998 (e ancor prima con la risoluzione 37/1978), il Consiglio d'Europa ha affermato che il mantenimento di previsioni discriminatorie tra donne e uomini riguardo alla scelta del nome di famiglia non è compatibile con il principio di eguaglianza sostenuto dal Consiglio stesso, ha raccomandato agli Stati inadempienti di realizzare la piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei loro figli, di assicurare la piena eguaglianza in occasione del matrimonio in relazione alla scelta del cognome comune ai due partners, di eliminare ogni discriminazione nel sistema legale per il conferimento del cognome tra figli nati nel e fuori del matrimonio.
Nella giurisprudenza europea, si richiama Corte di giustizia UE 2 ottobre 2003 (caso C-148/02, Carlos Garcia Avello c. Belgio), che ha affermato che costituisce discriminazione in base alla nazionalità (e dunque violazione degli artt. 12 e 17 del Trattato) il rifiuto da parte dell'autorità amministrativa di uno Stato membro di consentire che un minore avente doppia nazionalità possa essere registrato allo stato civile col cognome cui avrebbe diritto secondo le leggi applicabili nell'altro Stato membro (nel caso di specie, i minori in questione - aventi nazionalità belga e spagnola - erano stati registrati dall'ufficiale di stato civile belga con il doppio cognome del padre, in ottemperanza alla legge belga che attribuisce ai figli lo stesso cognome del padre, invece che col primo cognome del padre seguito dal cognome della madre, come previsto dalle leggi e dalle consuetudini spagnole. Conseguentemente, detti minori risultavano chiamarsi Garcia Avello in Belgio e Garcia Weber in Spagna, con conseguenti problemi di carattere pratico, oltre che personale).
In applicazione di tale sentenza, il Tribunale di Bologna, con decreto del 9 giugno 2004, ha affermato che "la doppia cittadinanza del minore legittima i suoi genitori a pretendere che vengano riconosciuti nell'ordinamento italiano il diritto e la tradizione spagnoli per cui il cognome dei figli si determina attribuendo congiuntamente il primo cognome paterno e materno: solo così sono garantiti al minore il diritto ad avere riconosciuta nell'ambito dell'Unione una sola identità personale e familiare e ad esercitare tutti i diritti fondamentali attribuiti da ciascuna delle normative nazionali, spagnola ed italiana, cui egli è legato da vincoli di pari grado e intensità".
Anche alcune recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome (16 febbraio 2005, affaire Unal Tekeli c. Turquie; 24 ottobre 1994, affaire Stjerna c. Finlande; 24 gennaio 1994, affaire Burghartz c. Suisse).
Quanto al diritto comparato, il dossier del Servizio Biblioteca della Camera dei deputati offre una panoramica della disciplina applicabile in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.
Le proposte di legge esaminate dalla Commissione giustizia della Camera individuavano regole diverse per l’attribuzione del cognome ai figli, prevedendo in taluni casi l’assunzione del cognome di entrambi i genitori (secondo criteri differenti), in altri del cognome dell’uno o dell’altro genitore.
Il relatore del provvedimento in Commissione ha elaborato un testo di sintesi, del quale la Commissione non ha concluso l'esame. In base a quel testo i figli assumono il cognome di entrambi i genitori. Al figlio legittimo è attribuito il doppio cognome secondo l’ordine concordemente deciso con dichiarazione resa allo stato civile (in mancanza di accordo, vale l’ordine alfabetico); il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto e, nel caso di riconoscimento contemporaneo, si applica la disciplina prevista per il figlio legittimo. In relazione ai coniugi, il testo stabilisce il diritto di ogni coniuge alla conservazione del proprio cognome, da cui deriva che la moglie non dovrebbe più aggiungere al proprio il cognome del marito.
Le procedure per modificare il nome o il cognome sono definite dal titolo X del DPR n. 396 del 2000 che nel corso della legislatura è stato sul punto modificato dal D.P.R. 54/2012.
Originariamente, infatti, gli articoli 84 e seguenti del Regolamento sullo stato civile delineavano un procedimento in tre fasi che coinvolgeva le competenze del Ministero dell’Interno. In particolare, il Titolo X prevedeva: 1) presentazione dell’istanza di modifica del nome o del cognome al prefetto territorialmente competente, che ne cura l’istruttoria. Il prefetto valuta se la questione sia di sua esclusiva competenza (come nel caso di richiesta di cambiamento del cognome che appaia ridicolo o riveli l’origine naturale) trasmettendo, in caso negativo, gli atti al Ministero dell’Interno (competente a decidere sulla richiesta di cambiamento nei casi in cui si renda necessario ponderare l’interesse pubblico con quello privato); 2) acquisizione della documentazione da parte del Ministero che può chiedere integrazioni ovvero inoltrare alla prefettura una relazione ed un decreto provvisorio del quale dovrà essere assicurata pubblicità; 3) decorso il termine per la pubblicità il Ministero dell’interno adotta il decreto finale e lo invia alla prefettura per la registrazione presso gli uffici dello stato civile.
Nel corso degli anni, a seguito della costante crescita delle domande di modifica del cognome, soprattutto legate a richieste di aggiunta del cognome materno al cognome paterno, ha determinato un notevole allungamento nei tempi della decisione. Ciò ha indotto il Governo - previa acquisizione dei pareri delle competenti commissioni parlamentari - a semplificare la procedura attribuendo ogni competenza alle prefetture ed evitando il coinvolgimento diretto del Ministero dell’Interno.
Il Ministero dell’interno, emanando la circolare n. 14 del 21/05/2012, ha non soltanto chiarito la portata innovativa del DPR 54/2012, ma ha anche enunciato i principi fondamentali che le prefetture devono seguire per rispondere alle domande, così da garantire un’uniforme applicazione della normativa in tutto il Paese. La circolare interpretativa del Ministero delinea il seguente procedimento:
Il Prefetto può assumere le seguenti decisioni:
- se ritiene che la domanda non sia meritevole di accoglimento, ne informa per iscritto l'interessato, indicando con precisione i motivi, invitandolo a proporre controdeduzioni. Ricevute le controdeduzioni dell'interessato, o decorso inutilmente il termine assegnato, il Prefetto provvederà ad emettere formale provvedimento di diniego, dettagliatamente motivato ovvero a proseguire nell'iter per l'accoglimento della domanda;
- se il Prefetto ritiene la domanda meritevole di accoglimento, emette un decreto con il quale il richiedente viene autorizzato a fare affiggere per 30 giorni un avviso contenente il sunto della domanda nel comune di residenza attuale e nel comune di nascita; con il decreto di autorizzazione della pubblicazione il Prefetto può anche prescrivere che il richiedente provveda a notificare a determinate persone il sunto della domanda. Questa dovrà avvenire quando, dalle motivazioni della domanda ovvero dall'istruttoria effettuata, emerga l'esistenza di terzi che possano avere un interesse contrario all'accoglimento della medesima. Sarà cura dell'istante fornire prova dell'avvenuta esecuzione delle affissioni e della loro durata nonché, se richieste, della esecuzione delle notifiche.
Se la domanda è stata notificata a terzi, questi potranno presentare (con atto notificato al prefetto) opposizione entro 30 giorni. Trascorso il termine per la proposizione delle opposizioni il Prefetto, dopo aver accertato la regolarità delle affissioni, la regolarità delle notifiche se richieste, nonché il contenuto delle eventuali opposizioni, provvederà ad emettere, a mezzo decreto, il provvedimento finale di concessione o diniego.
Quanto ai criteri che le prefetture dovranno applicare nell'assumere la decisione, la circolare ministeriale ricorda che per costante giurisprudenza l'ordinamento dello stato civile prevede un «ampio riconoscimento della facoltà di cambiare il proprio cognome, a fronte del quale la sfera di discrezionalità riservata alla Pubblica Amministrazione deve intendersi circoscritta alla individuazione di puntuali ragioni di pubblico interesse che giustifichino il sacrificio dell'interesse privato del soggetto al cambiamento del proprio cognome, ritenuto anch'esso meritevole di tutela dall'ordinamento» (Consiglio di Stato 26 aprile 2006, n. 2320) e che pertanto «Il provvedimento ministeriale negativo debba essere specificamente e congruamente motivato» (Consiglio di Stato 26 giugno 2002, n. 3533).
Per quanto riguarda le ipotesi più ricorrenti, di richiesta di aggiunta di cognome materno a quello paterno o di sostituzione del cognome materno a quello paterno, la Circolare in particolare afferma che:
L'emanazione del D.P.R. 54/2012 non ha dunque determinato il venire meno dell'esigenza di un intervento del legislatore in quanto la novella al regolamento sullo stato civile ha esclusivamente interessato un aspetto procedurale del mutamento di cognome. Anche a seguito del DPR resta infatti ferma la disciplina che rimette ad una valutazione amministrativa discrezionale la decisione sulla domanda di mutamento del cognome (anche in caso di richiesta di aggiunta del cognome materno).
Il Parlamento ha approvato la legge 10 dicembre 2012, n. 219, che elimina dall'ordinamento le residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali, affermando il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli. In particolare, la legge:
Le principali modifiche al codice civile sono apportate dall'articolo 1 della legge 219/2012 che:
Sempre allo scopo di eliminare ogni discriminazione tra i figli, l'articolo 2 della legge 219/2012 conferisce una delega al Governo per la modifica delle disposizioni in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità. Il termine di esercizio della delega è stabilito in 12 mesi dall'entrata in vigore dalla legge (comma 1), e dunque entro il 1° gennaio 2014. I numerosi princìpi e criteri direttivi dettati dal comma 1 per l’esercizio della delega (lettere da a) a p)) prevedono:
L'articolo 3 della legge 219/2012 novella l’art. 38 delle Disposizioni di attuazione del codice civile sottraendo una serie di procedimenti alla competenza del tribunale dei minorenni. Per effetto del confermato secondo comma dell'art. 38, che vuole attribuiti al tribunale ordinario «i provvedimenti per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria», la sottrazione di competenze al tribunale per i minorenni comporta l'espansione delle competenze del tribunale ordinario.
Il primo comma del nuovo art. 38 sottrae al tribunale dei minorenni la competenza per i seguenti provvedimenti:
La disposizione conferma la competenza del tribunale per i minorenni per i provvedimenti in caso di condotta del genitore pregiudizievole ai figli (ex art. 333 c.c.), purché non sia in corso tra le parti un giudizio di separazione o divorzio o relativo all’esercizio della potestà genitoriale ex art. 316 c.c. In tali casi, infatti «per tutta la durata del processo la competenza […] spetta al giudice ordinario».
Il secondo comma del nuovo art. 38 attribuisce ogni restante provvedimento relativo a minori alla competenza del tribunale ordinario specificando che nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano le disposizioni sui procedimenti in camera di consiglio (ex art. 737 c.p.c.), in quanto compatibili.
Il terzo comma afferma:
Normativa previgente |
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Disposizioni di attuazione del Codice civile |
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Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 171, 194, secondo comma 250, 252, 262, 264, 316, 317-bis, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché nel caso di minori dall'articolo 269, primo comma, del codice civile. |
Sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all'articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario. |
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. |
Sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. |
In ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio sentito il pubblico ministero.
Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni. |
Fermo restando quanto previsto per le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga diversamente. Quando il provvedimento è emesso dal tribunale per i minorenni, il reclamo si propone davanti alla sezione di corte di appello per i minorenni |
Come detto, l'articolo 1, comma 3, della legge 219/2012, novella l'art. 251 del codice civile in tema di riconoscimento dei figli incestuosi.
La nuova previsione codicistica, rubricata Autorizzazione al riconoscimento, stabilisce ora che «Il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all'interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.
Il riconoscimento di una persona minore di età è autorizzato dal tribunale per i minorenni».
Su questa disposizione - introdotta nel corso dell'esame del provvedimento in Senato, e confermata nella seconda lettura alla Camera - si è sviluppato un acceso dibattito, per comprendere il quale pare utile descrivere il quadro giuridico in vigore fino all'approvazione della legge.
Il codice civile definisce “figli incestuosi” come i figli nati da persone tra le quali esiste un vincolo di parentela, anche soltanto naturale, in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado.
Prima della novella dell'art. 251 c.c., i figli incestuosi non potevano essere riconosciuti per atto volontario del genitore, benché potessero essere dichiarati giudizialmente figli naturali riconosciuti.
Ciò a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 494 del 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 278, primo comma, nella parte in cui escludeva che potessero essere compiute indagini sulla paternità o sulla maternità - finalizzate ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale ai sensi dell'art. 269 c.c. - nei casi in cui, a norma dell'art. 251, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato. La Corte ha dunque affermato che il figlio incestuoso può agire per la dichiarazione di maternità o paternità naturale (art. 269, 1° co., c.c.), anche in casi in cui il riconoscimento non è ammesso; peraltro, la Corte costituzionale ha precisato che non vale l'inverso: che, cioè, il riconoscimento sia effettuabile in tutte le ipotesi in cui vi possa essere la dichiarazione giudiziale, mantenendo i limiti al riconoscimento imposti dall'art. 251 c.c.
L'ordinamento ha posto pesanti limitazioni alla riconoscibilità dei figli incestuosi. La ragione può essere rinvenuta sia nella protezione dell'interesse del figlio - da un riconoscimento che, per un verso potrebbe indicarne, inequivocabilmente, le origini incestuose, e, per altro verso, costituirebbe il rapporto giuridico parentale con soggetti che, avendo dato luogo ad un'unione tanto riprovevole, hanno, per ciò solo, denunziato inidoneità alla delicata funzione genitoriale - sia nel comminare una sanzione ai responsabili dell'incesto.
Una funzione, almeno parzialmente, sanzionatoria sembrerebbe confermata, sebbene non esplicitamente, dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 494 del 2002, con la quale la Consulta, dopo avere dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 278, e, dunque, l'illegittimità della limitazione alla dichiarabilità giudiziale della paternità e della maternità naturale degli incestuosi, non si è spinta ad affermare anche l’illegittimità della non riconoscibilità di tali soggetti: in altri termini, per la Corte i figli incestuosi non possono essere riconosciuti per atto volontario del genitore, benché possano essere dichiarati giudizialmente figli naturali riconosciuti.
La sentenza della Corte costituzionale è stata accolta con favore dalla dottrina che ha peraltro rilevato come la distinzione individuata dal Giudice delle leggi, tra la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, quale atto emesso nell'interesse del figlio, e il riconoscimento, che, viceversa, risponderebbe ad un interesse del genitore, sarebbe scorretta, poiché il riconoscimento, benché atto del genitore, ugualmente realizzerebbe un interesse del figlio all'accertamento formale del suo stato, e si è, pertanto, auspicato un definitivo intervento della Consulta, che dichiari l'illegittimità costituzionale anche dell'articolo 251.
Cfr. in merito C.M. Bianca, La Corte costituzionale ha rimosso il divieto di indagini sulla paternità e maternità di cui all'art. 278, comma 1, c.c. (ma i figli irriconoscibili rimangono), in Giurisprudenza costituzionale, 2002, fasc. 6, pagg. 4068-4074; G. Di Lorenzo, La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale dei figli nati da rapporto incestuoso, in Giurisprudenza costituzionale, 2003, fasc. 1, pagg. 446-457; G. Ferrando, La condizione dei figli incestuosi: la Corte costituzionale compie il primo passo, in Familia, 2003, fasc. 3, pagg. 848-856, pt. 2; Id., I diritti negati dei figli incestuosi, in Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, Milano, 2006, 222; Ambanelli, La filiazione non riconoscibile, in Tratt. Bonilini, Cattaneo, III, Filiazione e adozione, 2a ed., Torino, 2007, p. 236.
Per il combinato disposto degli articoli 251 e 278 del codice civile, il riconoscimento del figlio incestuoso è autorizzabile solo nelle ipotesi tassativamente elencate dall'articolo 251 del codice civile.
In base all’art. 35 delle disposizioni di attuazione del codice civile, il riconoscimento è autorizzato dal tribunale per i minorenni se il figlio da riconoscere è minore.
Il figlio incestuoso può agire per ottenere il mantenimento, l'educazione e l'istruzione, o, se maggiorenne, gli alimenti (art. 279), e, in caso di morte del genitore, partecipa alla sua successione (artt. 580 e 594).
Il nuovo art. 251 c.c. amplia la possibilità di riconoscimento dei figli incestuosi. La norma, ora rubricata “Autorizzazione al riconoscimento”, elimina, per i genitori, il requisito della inconsapevolezza - al momento del concepimento - del legame parentale tra loro esistente nonché la necessità della dichiarazione di nullità del matrimonio da cui deriva l’affinità. La riforma ribalta la situazione precedente, consentendo il riconoscimento in generale purché questo soddisfi l’interesse del minore, la cui valutazione è sempre affidata al giudice.
La disposizione precisa che se il riconoscimento riguarda un minore l’autorizzazione compete al tribunale dei minorenni (come peraltro già affermato dall’art. 35 delle disposizioni di attuazione del codice civile).
I fondi destinati a finalità di carattere sociale rappresentano uno strumento indispensabile della politica socio-assistenziale del nostro Paese. Nel corso della XVI Legislatura si è registrata una diminuzione delle risorse stanziate dalle manovre finanziarie annuali per i fondi dedicati al welfare, con conseguente riduzione della spesa sociale dei livelli decentrati di governo
Nei Fondi nazionali dedicati all'assistenza socialedevono essere ricompresi anche il Fondo nazionale per le politiche per la famiglia, il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza e il Fondo nazionale per le politiche giovanili, dei quali si dà conto nelle sezioni dedicate a Misure a sostegno della famiglia e Politiche giovanili. Per una trattazione unitaria si rinvia alla Scheda di approfondimento sui Fondi per le politiche sociali.
Nel Fondo nazionale per le politiche sociali (FNPS), istituito dalla legge 449/1997 (legge finanziaria per il 1998), sono contenute le risorse che lo Stato stanzia annualmente con la legge finanziaria per la promozione e il raggiungimento degli obiettivi di politica sociale. La legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (legge 328/2000) ha delineato un sistema articolato di Piani Sociali Regionali e Piani Sociali di Zona che descrivono, per ciascun territorio, una rete integrata di servizi sociali e socio-sanitari finanziati attraverso il FNPS. Alcuni recenti provvedimenti normativi hanno ridotto gli interventi finanziati a valere sul Fondo. In particolare, le risorse del Fondo per l’infanzia e l’adolescenza – istituito dalla legge 285/1997 – inizialmente allocate nel FNPS, a decorrere dall’anno 2008 sono determinate dalla legge finanziaria, limitatamente alle risorse destinate al finanziamento degli interventi nei 15 Comuni riservatari indicati dalla legge istitutiva. Le rimanenti risorse del Fondo nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza confluiscono indistintamente nel FNPS. Per quanto riguarda le somme destinate al finanziamento degli interventi costituenti i diritti soggettivi (assegno al nucleo familiare con tre figli minori, per la maternità, agevolazioni disabili e lavoratori talassemici), la legge finanziaria per il 2010 ha disposto che siano finanziati attraverso appositi capitoli iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Le risorse del FNPS, ripartite annualmente fra le regioni, le province autonome, i comuni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali d’intesa con la Conferenza Stato-regioni, sono assegnate con decreto interministeriale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del MEF.
La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Con Decreto Interministeriale del 17 giugno 2011, sono stati ripartiti 218 milioni di euro, di cui 39,5 milioni di euro al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) ha destinato al FNPS 69,954 milioni di euro. Il decreto 16 novembre 2012 ha ripartito le risorse finanziarie realmente afferenti al Fondo, ammontanti ad euro 42.908.611, destinando euro 32.033.310 al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Infine la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), all'articolo 1, comma 271, incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del FNPS. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.
Il Fondo per le non autosufficienze è stato istituito dall'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006 (legge finanziaria 2007) presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Le risorse sono finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell'assistenza socio-sanitaria e sono aggiuntive rispetto alle risorse già destinate alle prestazioni e ai servizi a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni, nonché da parte delle autonomie locali. Nel 2010, le risorse assegnate al Fondo, ripartite con decreto, erano pari a 400 milioni di euro. Per il 2011, il Decreto interministeriale 11 novembre 2011 ha assegnato al Fondo risorse per 100 milioni di euro, stanziate dall'art. 1, comma 40, della legge 220/2010 (legge di stabilità 2011), finalizzate fra l'altro ad interventi integrati socio-sanitari per i malati di sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Successivamente, il decreto legge 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che una quota del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, da definire con D.P.C.M., fosse destinata al finanziamento del Fondo per le non autosufficienze, in particolare per il sostegno dell'assistenza domiciliare di persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di SLA. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo di interventi urgenti e indifferibili, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), è stato interamente definanziato. In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da SLA. Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.
La carta acquisti, o social card, è stata istituita dall’articolo 81, comma 29, del decreto legge 112/2008 che ha disposto la creazione di un Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti. Il Decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 ha individuato i titolari e l'ammontare del beneficio unitario nonché le modalità di fruizione dello stesso, prevedendo la stipula di convenzioni tra i ministeri interessati ed il settore privato. In base a tali criteri, la Carta acquisti viene concessa, con onere a carico dello Stato, ai richiedenti residenti con cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, ovvero ai cittadini nella fascia di bisogno assoluto, di età uguale o superiore ai 65 anni o con bambini di età inferiore ai tre anni. La Carta, utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche, vale 40 euro al mese e viene caricata ogni due mesi con 80 euro, sulla base degli stanziamenti disponibili. In ultimo, l’articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha dato avvio a una fase di sperimentazione della Carta, della durata non superiore ai dodici mesi nei comuni con più di 250.000 abitanti, sottolineando l’obiettivo di utilizzare la carta acquisti come strumento di contrasto alla povertà assoluta tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno. Per le risorse necessarie alla sperimentazione si è provveduto, nel limite massimo di 50 milioni di euro. Le modalità attuative, sono determinate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il MEF. Il decreto, varato l'11 gennaio 2013 e in attesa di pubblicazione sulla G.U., identifica fra l'altro i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari, per il tramite dei Comuni, con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell'Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e l'ammontare della disponibilità sulle singole carte acquisto, in funzione del nucleo familiare.
Il sistema di protezione sociale italiano, articolato nei settori della previdenza, dell'assistenza e della sanità, è governato dall’azione di diversi livelli di governo secondo le competenze che la legge assegna a ciascuno.
La presente analisi si concentra sugli aspetti di natura legislativa, economica e sociale del solo settore assistenziale, inteso come complesso degli interventi previsti, per gli anziani, i disabili, i minori, le famiglie, gli emarginati, le persone dipendenti da alcol o sostanze stupefacenti, gli immigrati e la riabilitazione.
Per servizi sociali, generalmente, s’identificano le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, con esclusione di quanto assicurato dal sistema previdenziale statale (INPS), per le varie indennità di invalidità civile, per i non vedenti e i non udenti, e dal sistema sanitario.
All'indomani dell'intervento costituzionale del 2001 (L.3/2001), con cui è stato modificato il Titolo V, parte II, della Costituzione (nello specifico, l'articolo 117 della Costituzione), alle Regioni sono assegnate le competenze residuali e concorrenti, rispettivamente, per le materie dei servizi sociali e della sanità, nel rispetto della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), quale competenza esclusiva e trasversale assegnata allo Stato (articolo 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione), idonea ad investire una pluralità di materie, ed intesa a determinare gli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto (sentenza Cost. 50/2008).
Da ciò consegue che lo Stato, quando alla Regione spetta la competenza legislativa residuale, come avviene per i servizi sociali, non ha alcuna competenza legislativa, ad esclusione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che tuttavia devono essere stabiliti in accordo con le autonomia territoriali. Infatti, detta peculiare competenza comporta "una forte incidenza sull'esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni" (sentenza Cost. 8/2011 e sentenza 88/2003), tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione, salvo che ricorrano ipotesi eccezionali, in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) "non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità [...] di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana", tanto da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali, senza adottare forme di leale collaborazione con le Regioni (sentenza Cost.10/2010, a proposito dell’istituzione della social card). Proprio in ragione di tale impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore statale, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di assistenza sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle Regioni (nella forma dell'intesa) a salvaguardia delle competenze di queste (sentenza Cost. 297/2012).
Come per altri settori di intervento delle politiche legislative di natura concorrente e residuale, anche per i servizi sociali, il finanziamento previsto dalla legge incontra un preciso limite che il legislatore statale deve rispettare sulla modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie territoriali. Non sono, infatti, consentiti finanziamenti a destinazione vincolata in materie di competenza regionale concorrente ovvero residuale, in quanto ciò si risolverebbe in uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza Cost. 423/2004).
Quelle citate sono solo alcune delle sentenze che nel tempo la Corte Costituzionale ha pronunciato, al fine di ristabilire gli equilibri tra i diversi poteri dello Stato in materia assistenziale; a sottolineare, con troppa evidenza, proprio all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, una perdurante "difficoltà" dello Stato e della Regione a legiferare sulla materia rimanendo nei propri ambiti, senza travalicare le altrui competenze, che tuttavia risultano ancora troppo poco definite, soprattutto, per la perdurante assenza della previsione dei livelli essenziali a livello statale.
In Italia, i servizi sociali per il sostegno delle persone bisognose sono realizzati attraverso un complesso di normative nazionali, regionali e comunali, e rivestono le forme della prestazione economica e/o del servizio alla persona, finanziati, principalmente, dalla fiscalità generale (Ferrera M., Le politiche sociali, il Mulino, 2006, Bologna).
Per servizi sociali, si intendono, ai sensi dell’art. 128 del D.Lgs. 112/1998, tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
L’accesso agli interventi assistenziali, pur avendo, come per le prestazioni sanitarie, un carattere di universalità (art. 2 L. 328/2000), appaiono, generalmente, condizionati da una scala di accesso che presenta due elementi necessari: il bisogno fisico e la scarsità economica per provvedervi.
Il diritto alle prestazioni sociali, in particolare nella forma agevolata, e/o ai servizi di pubblica utilità, è subordinato alla verifica degli enti erogatori (Stato, Regioni e Comuni), secondo parametri anagrafici ed economici (reddito della singola persona, indicatore della situazione economica (ISE) e indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) – che permettono di valutare in maniera sintetica le condizioni economiche del nucleo familiare).
L’ISEE è lo strumento introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 109/98 per l’accesso alle seguenti prestazioni socio-assistenziali:
nazionali
locali
I beneficiari ISEE non vanno comunque identificati con le famiglie in condizione di bisogno economico, essendo l’ISEE usato anche per stabilire la compartecipazione al costo di servizi destinati non solo ai più poveri (si pensi alle prestazioni per il diritto allo studio universitario o agli asili nido) ed escluso invece per il diritto agli assegni sociali, destinati alle persone in povertà, o per altre prestazioni economiche fornite dallo Stato: integrazione al minimo, maggiorazione sociale delle pensioni, assegno e pensione sociale, altre prestazioni previdenziali, pensione e assegno di invalidità civile, indennità di accompagnamento e assimilate.
Durante la XVI legislatura è stato esaminato e non concluso un disegno di legge (A.C. 4566) recante la delega legislativa al Governo per la riforma fiscale e assistenziale.
La riforma della materia socio-assistenziale si poneva l’obiettivo di riqualificare e riordinare la relativa spesa, al fine di superare le sovrapposizioni e le duplicazioni di servizi e prestazioni, che rendono poco efficace e antieconomico il sistema, anche in conseguenza del fatto che la spesa per i servizi sociali è frammentata tra diversi soggetti concorrenti fra loro che gestiscono quote diverse di risorse suddivise tra il servizio sanitario nazionale, l'INPS e i comuni. In tale quadro, si prevedeva:
I risparmi dall'attuazione della legge di delega sarebbero stati quantificati non inferiori a 4 miliardi per l'anno 2013 ed a 20 miliardi annui a decorrere dall'anno 2014.
Non essendo stata approvata la legge delega, alcune misure sono state adottate con provvedimenti d’urgenza. L’art. 5 del D.L. 201/2011 ha stabilito l’introduzione dell’ISEE, per la concessione di agevolazioni fiscali e benefici assistenziali, e la modifica delle modalità di determinazione e dei campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), attraverso l’adozione di uno schema di regolamento del Governo, che non è stato emanato a causa del mancato raggiungimento dell’intesa in Conferenza Unificata, prevista successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale 297/2012.
Il nuovo ISEE avrebbe incluso nel reddito somme fiscalmente esenti, valorizzato di più il valore del patrimonio, introdotto il concetto di carico familiare, articolato i benefici concessi e rafforzato il sistema dei controlli (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto ISEE, Quaderni della ricerca sociale n.20, 2012, Roma).
Il sistema istituzionale degli interventi assistenziali è articolato in più livelli di governo; affida l’erogazione delle prestazioni ad una molteplicità di soggetti pubblici e privati; prevede una pluralità di fonti di finanziamento; impone il coordinamento degli interventi assistenziali tra politiche sanitarie e politiche sociali.
In particolare, i livelli di governo, come disegnati dalla legge quadro L. 328/2000 sul sistema integrato di interventi e servizi sociali, risultano essere tre: Stato, Regione e Comune.
La legge 328/2000 è stata emanata con lo scopo di avviare una complessiva riorganizzazione del sistema dei servizi sociali e sanitari, orientandoli verso un processo di progressiva integrazione e partecipazione di tutti i soggetti presenti sul territorio. Il comune ha il compito istituzionale, attraverso la programmazione prevista dal Piano di Zona, di garantire la rete dell’offerta sociale e l’attuazione dell’integrazione tra la programmazione sociale e la programmazione sociosanitaria. In tale perimetro altri soggetti sono chiamati ad intervenire: le Regioni, che dettano gli indirizzi della programmazione ed erogano servizi sociosanitari attraverso le ASL; le Province, che possono partecipare al finanziamento dei Piani di Zona; lo Stato, che determina i fondi nazionali destinati alle politiche sociali di anno in anno. Dal punto di vista dell’offerta di servizi sociali e socio-sanitari, entrano in gioco anche i produttori privati profit e no profit, ai quali spesso Comuni e ASL esternalizzano tali servizi (La programmazione sociale e sociosanitaria nelle reti interistituzionali: il caso Regione Lombardia, Oasi 2012, Cergas-Bocconi, Milano).
Dopo la riforma costituzionale del 2001 (L. 3/2001), l’assistenza sociale è diventata una competenza residuale disciplinata dalle Regioni e amministrata dal Comune. Allo Stato rimane la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), che devono essere emanati con modalità partecipative.
L’esigenza di adeguare l’ordinamento al nuovo assetto costituzionale è stata evidentemente alla base dell’approvazione dell’art. 46, comma 3, della L. 289/2002, che, al fine di predisporre uno strumento per l’adozione dei livelli essenziali delle prestazioni nella materia dei servizi sociali, ha disciplinato ex novola procedura per la loro approvazione, indicando i vincoli posti dalla finanza pubblica, il potere di proposta rimesso al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, e l’intesa con la Conferenza unificata. E’ stata così riformata la precedente regolamentazione prevista dalla L. 328/2000, dal momento che la natura della nuova competenza regionale, di tipo residuale e non più concorrente, risultava incompatibile con la previsione di un piano statale nazionale e con l’indicazione da parte dello Stato di principi ed obiettivi di politica sociale, nonché delle caratteristiche e dei requisiti delle prestazioni sociali comprese nei livelli essenziali (sentenza Cost. 296/2012).
Lo Stato svolge, attraverso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, una funzione informativa sulle politiche sociali e, con la collaborazione della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, presenta al Parlamento una Relazione sull'andamento del fenomeno dell'esclusione sociale, (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Commissione di indagine sull’esclusione sociale (CIES), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale - Anno 2011, Roma).
Allo Stato spetta altresì la definizione e la ripartizione di diversi Fondi speciali, come il Fondo nazionale per le politiche sociali, il Fondo per le politiche della famiglia, il Fondo per le non autosufficienze, il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, il Fondo per le politiche giovanili, nonché l’erogazione di pensioni e assegni sociali ed indennità assistenziali varie per gli invalidi civili, sordi e ciechi civili.
Le Regioni disciplinano con proprie leggi, i principi, gli indirizzi, l’organizzazione e l’erogazione, tramite i comuni, dei seguenti beni e servizi sociali:
La Regione, oltre a ripartire i finanziamenti statali agli enti locali, programma nel Piano sociale gli obiettivi di settore. Alcune Regioni presentano un Piano di tipo socio-sanitario dove sono previsti programmi sanitari, sociali e socio-sanitari (ad es. Basilicata, Emilia Romagna, Toscana).
Le prestazioni socio-sanitarie si distinguono, come indicato dal D.P.C.M. 14 febbraio 2001, in prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, erogate contestualmente ad interventi sociali, finalizzate al contenimento di esiti degenerativi, a carico dell’Azienda sanitaria locale; prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, finalizzate a sostenere la persona disabile o emarginata la cui condizione potrebbe avere esiti negativi sulla salute, a carico del Comune o del cittadino; prestazioni socio-sanitarie integrate per le aree materno infantile, disabili, anziani e non autosufficienti, dipendenze, patologie psichiatriche e da HIV, pazienti terminali, a carico delle ASL, garantite nell'allegato 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001 sui livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA).
Ai Comuni, che sono titolari della gestione, esercitata singolarmente o in forma associata, degli interventi e dei servizi socio-assistenziali, spetta la definizione del piano di zona, a cui partecipano soggetti istituzionali, terzo settore e, per gli interventi socio-sanitari, ASL, per individuare:
I Livelli essenziali dei diritti sociali, definiti in diversi modi, livelli essenziali delle prestazioni (LEP), livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) o livelli essenziali di assistenza sociale (LIVEAS), sono l’insieme degli interventi, dei servizi e delle risorse impegnate per la loro attuazione, inquadrati dall’art. 22, comma 2, della L. 328/2000, nel seguente modo:
L’identificazione dei livelli essenziali tiene conto anche di quanto indicato nell’allegato 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001, che definisce i livelli essenziali sanitari (LEA), in cui sono elencate le prestazioni socio-sanitarie, ovvero otto specifiche prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo attribuibile al SSN e all’utente o al Comune
Esse sono:
In definitiva, per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, lo Stato ha indicato i seguenti principi:
Diverse Regioni hanno individuato i livelli essenziali delle prestazioni sociali, seguendo lo schema proposto nel comma 4 dell’art. 22 della L. 328/2000, all’interno delle seguenti aree:
Nella definizione dei livelli essenziali pesa la mancata realizzazione del sistema informativo dei servizi sociali (SISS) previsto dalla L. 328/2000 (Pesaresi F., La normativa statale e regionale sui livelli essenziali, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni, a cura di E. Ranci Ortigliosa in Prospettive Sociali e Sanitarie, 2008); in particolare, i limiti dell’informazione disponibile sui servizi sociali sono rappresentati dalla scarsa quantità e qualità dei dati, che, tuttavia, quando esistono, sono difficilmente raccordabili gli uni con gli altri. Tale osservazione riguarda principalmente le informazioni disponibili a livello di comuni e regioni, raccolte molto spesso con definizioni e metodologie non comparabili. Un dato per tutti è l’assenza di una scheda di dimissioni dei ricoveri per le residenze sociali e sanitarie, come invece esiste per l’ospedalizzazione con la scheda di dimissione ospedaliera (SDO) (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per la garanzia dell’informazione statistica, L’informazione statistica sull’assistenza agli anziani in Italia, Rapporto di indagine 2005, Roma).
Nella sanità, la corretta progettazione e sviluppo del NSIS, il nuovo sistema informativo sanitario, che fornisce un patrimonio informativo e strumenti di lettura integrata dei dati sanitari, ha richiesto la disponibilità di un linguaggio comune che consentisse l'interscambio tra il sistema informativo e i sistemi sanitari regionali. Il NSIS rappresenta la più importante banca dati a livello nazionale a supporto della programmazione sanitaria nazionale e regionale.
Ulteriori fonti informative sono, ad esempio, la SDO, i modelli di rilevazione delle attività gestionali ed economiche di Asl e aziende ospedaliere, e il Programma nazionale esiti, che contiene la valutazione delle attività di assistenza di tutti gli ospedali italiani, pubblici e privati accreditati.
Il controllo sull’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizioni di appropriatezza e di efficienza nell’utilizzo delle risorse nel Servizio Sanitario Nazionale è inoltre assicurato da tre organi: il Comitato Livelli Essenziali Assistenza, il Tavolo di verifica degli adempimenti e la Struttura tecnica di monitoraggio (STEM).
Le risorse per le politiche sociali provengono da un finanziamento plurimo dei tre livelli di governo (Stato, Regioni e Comuni), secondo dotazioni finanziarie presenti nei rispettivi bilanci.
All’indomani della riforma del 2001, non sono, tuttavia, più ritenuti ammissibili finanziamenti statali a destinazione vincolata, in materie e funzioni la cui disciplina spetti alla legge regionale (sentenza Cost. 423/2004).
Rileva sottolineare, però, che lo Stato è legittimato ad intervenire con legge e con i suddetti fondi speciali, al fine di risolvere situazioni di estremo disagio nazionali, come è stato fatto con l’istituzione della Social Card nel 2008.
Tale prerogativa dello Stato è insita, come già detto, nella competenza - esclusiva e trasversale - di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali sul territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), allo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei medesimi diritti, tutelati dalla stessa Costituzione, per cui lo Stato è obbligato a predisporre le misure necessarie per attribuire a tutti i destinatari, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle, soprattutto, quando ciò sia reso imprescindibile, da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa (sentenza Cost. 10/2010).
La Corte costituzionale osserva, altresì, rilevando la “debolezza” intrinseca del nostro sistema di assistenza sociale, che una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, qual è quella oggetto delle disposizioni impugnate, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lettera m).
Le fonti di finanziamento (Conti economici della protezione sociale - Annuario statistico italiano 2012, Roma, ISTAT 2012) della protezione sociale (nel 2011 471,9 miliardi per sanità, previdenza e assistenza), per prestazioni in denaro e in natura, derivano principalmente da contributi sociali (52,9 per cento) e dalla fiscalità generale (46,2 per cento).
Lo Stato interviene con prestazioni in denaro fornite dagli enti previdenziali, in particolare dall’INPS.
Le Regioni svolgono principalmente funzioni legislative, stabiliscono principi e indirizzi, e coordinano interventi sul territorio da parte degli enti locali, a cui ripartiscono le risorse del Fondo sociale regionale, costituito da stanziamenti provenienti dai fondi speciali statali, integrati da stanziamenti di bilancio regionale. Le regioni possono, altresì, intervenire direttamente, con i voucher, i bonus famiglia, gli assegni di cura, i buoni socio-sanitari.
I Comuni svolgono le funzioni amministrative attuative dei servizi sociali e ricevono risorse dalle Regioni e dallo Stato (trasferimenti diretti e vincolati, come quelli della L. 285/1997, Fondo per l’infanzia e l’adolescenza), integrate da propri stanziamenti di bilancio.
A tali finanziamenti si aggiungono i Fondi strutturali europei, che costituiscono gli strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea, per rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale dei paesi aderenti EU, riducendo le disparità di sviluppo, come il Fondo sociale europeo (Fse), che ha il compito di prevenire e combattere la disoccupazione, migliorare il funzionamento del mercato del lavoro e investire nelle risorse umane, e il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fesr), che contribuisce al potenziamento della coesione economica e sociale, attraverso un sostegno allo sviluppo e l'organizzazione strutturale delle economie regionali.
Al finanziamento dei servizi sociali contribuisce la partecipazione dell’utenza privata, con il pagamento delle rette previste per gli asili nido o per le residenze assistite degli anziani.
Complessivamente, le risorse indicate realizzano gli obiettivi dei piani di zona, adottati secondo gli indirizzi dei piani regionali, come previsto dalla L. 328/2000.
Gli interventi di assistenza economica sono diretti a singoli e nuclei familiari che non dispongono di risorse sufficienti a garantire il soddisfacimento dei bisogni fondamentali o sono in temporanea situazione di emergenza.
L’INPS gestisce e fornisce le maggiori prestazioni sociali in denaro a livello nazionale. La parte più consistente è costituita dalle prestazioni pensionistiche, che a loro volta possono essere articolate in prestazioni previdenziali (prestazioni per le quali vi è una contribuzione per il finanziamento da parte dei datori di lavoro e dei lavoratori) e prestazioni assistenziali (pensioni, assegni e indennità varie ai minorati civili e di guerra), che non prevedono un finanziamento contributivo ma sono sostenute dai trasferimenti statali, a carico della fiscalità generale.
Un’altra voce rilevante per l’assistenza fornita dall’INPS è rappresentata dalle prestazioni temporanee, che hanno natura mista coperte da contribuzione sociale e da trasferimenti statali ed includono principalmente le prestazioni connesse allo stato di occupazione ed i trattamenti familiari e di maternità. All’interno degli ultimi due strumenti troviamo, a carico della fiscalità generale, specifici interventi temporanei e di sostegno del reddito familiare, erogati dall’INPS (bonus bebè periodo 2003-2006, assegni per il nucleo familiare con almeno tre figli concessi dai comuni, congedo per maternità alle lavoratrici non occupate concesso dai comuni, l’assegno di maternità dei comuni).
Nell’ambito delle prestazioni economiche concesse dall’INPS, possiamo includere quanto previsto per l’assistenza ai disabili nel mondo del lavoro. La L. 104/92 prevede permessi orari o giornalieri a disposizione del disabile o del lavoratore dipendente che assiste un parente con disabilità. Tale legge sull’integrazione sociale, il sostegno, l’assistenza e i diritti delle persone disabili prevede agevolazioni per i lavoratori, così articolate: congedi o permessi orari per assistere neonati e bambini disabili fino a 3 anni, permessi giornalieri per accudire bambini o adulti non autosufficienti e, a scelta, permessi giornalieri oppure permessi che prevedono la riduzione giornaliera di due ore per il lavoratore stesso, con disabilità. In aggiunta a questi permessi, è previsto (dalla L. 388/2000 e dal D.L. 151/2001) un congedo straordinario di due anni nell’arco della vita lavorativa per assistere un congiunto con disabilità. Generalmente le giornate o le ore indennizzabili o i periodi di congedo straordinario sono retribuiti sulla busta paga, direttamente dal datore di lavoro, per conto dell’Inps. È previsto, però, il pagamento diretto per alcune categorie di lavoratori o nei casi in cui il datore di lavoro stesso non abbia predisposto il pagamento delle spettanze del dipendente.
In campo sociale, sebbene con discutibili esiti dal punto di vista della redistribuzione delle risorse e del loro impiego, si ricorda che lo Stato interviene direttamente, senza usare gli istituti di spesa (INPS, altri enti previdenziali, regioni e comuni), con la cosiddetta “tax-expenditure”, che corrisponde ad abbattimenti del debito di imposta imputabili a previsioni legislative: deduzioni, detrazioni, esclusioni, esenzioni, aliquote ridotte (definita anche tax breaks for social purposes).
Dal 2008, lo Stato inoltre è direttamente intervenuto con l’istituzione di un sostegno economico, la carta acquisti (social card), pari a 80 euro bimestrali, al fine di alleviare situazioni di disagio economico estremo. Nel corso del 2012 è stata approvata la sperimentazione di un nuovo tipo di social card (stanziamento di 50 milioni) per determinati comuni, con popolazione superiore ai 250.000 abitanti, al fine di fornire un beneficio mensile a famiglia.
Ritornando a quanto l’INPS attiva per le prestazioni assistenziali ricordiamo i seguenti interventi: la pensione sociale, (per un importo medio mensile di 390 euro), sostituita, a decorrere dall’1° gennaio 1996, dall’assegno sociale, concessa ai cittadini ultrasessantacinquenni, sprovvisti di redditi minimi e ai beneficiari di pensioni di invalidità civile e ai sordomuti al compimento dei 65 anni di età, finanziata dalla fiscalità generale (in sostanza è l’unica forma di reddito minimo garantito in Italia, riservato solo alle persone anziane), l’assegno o pensione di invalidità civile, pari a circa 260 euro mensili, erogata ai cittadini tra i 18 e i 65 anni, con redditi insufficienti e con una riduzione della capacità di lavoro o di svolgimento delle normali funzioni quotidiane pari o superiore al 74 per cento o al 100 per cento, e che non dispongono dei requisiti minimi contribuitivi per accedere alla pensione di inabilità, a cui si aggiunge l’indennità di accompagnamento per coloro che raggiungono il 100 per cento di invalidità, per un assegno di circa 480 euro, gli assegni al nucleo familiare (Anf), che però sono una prestazione di tipo previdenziale accessoria alla retribuzione spettante ai lavoratori dipendenti per le persone facenti parte del nucleo familiare, sulla base della composizione del nucleo e in possesso di un reddito familiare inferiore a fasce reddituali stabilite ogni anno dalla legge e costituito almeno per il 70 per cento da redditi da lavoro, l’assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori, pari a poco meno di 130 euro, prestazione invece di natura assistenziale, concesso dal Comune, ma pagato dall’INPS, per le famiglie con almeno tre figli minori e che hanno patrimoni e redditi limitati, l’assegno di maternità, pagato dall’INPS, che la madre non lavoratrice può chiedere al proprio Comune di residenza per la nascita del figlio oppure per l’adozione o l’affidamento preadottivo di un minore di età non superiore ai 6 anni (o ai 18 anni in caso di adozioni o affidamenti internazionali), e, dal 1 gennaio 2002, le maggiorazioni su tutti i trattamenti pensionistici, di natura contributiva o assistenziale, aumentate, in presenza di particolari requisiti di età e di reddito, fino a garantire un reddito personale minimo di euro 516,46 mensili, per tredici mensilità, la pensione e l’indennità per la cecità civile (parziale o assoluta) e la pensione e l’indennità di comunicazione per la sordità (erogazioni da 189 a 260 euro, condizionate dal reddito del beneficiario).
Le Regioni e i Comuni singoli o associati, escludendo le prestazioni in natura riguardanti l’offerta sanitaria (assistenza ospedaliera e sanitaria distrettuale, quest’ultima ripartibile in assistenza primaria, specialistica ed ambulatoriale), offrono prestazioni in natura:
servizi territoriali
servizi residenziali
prestazioni in denaro:
Per area di utenza (famiglia e minori, disabili, dipendenze, anziani, immigrati e nomadi, povertà disagio adulti e senza fissa dimora, multiutenza), sono istituiti:
L’assistenza di natura residenziale riguarda in particolare i ricoveri in presidi residenziali socio-assistenziali (Case di cura protette) e in presidi socio-sanitari (RSA, ad elevata integrazione sanitaria per 60-120 giorni), nel caso che l’ADI o l’ospedalizzazione a domicilio (OD) non siano possibili.
Conclusa la fase della RSA, l’anziano non autosufficiente è assistito in una Residenza protetta per anziani (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per la garanzia dell’informazione statistica, L’informazione statistica sull’assistenza agli anziani in Italia, Rapporto di indagine 2005, Roma).
Nel 2010 sono 12.808 e dispongono complessivamente di 424.705 posti letto (7 ogni 1.000 persone residenti). La componente prevalente dell'offerta residenziale è rappresentata dalle "unità di servizio" che svolgono una funzione di tipo socio-sanitario e sono destinate ad accogliere prevalentemente anziani non autosufficienti, con una disponibilità di oltre i due terzi dei posti letto (72 per cento). La restante quota dell'offerta è di tipo socio-assistenziale.
Nei presidi residenziali sono assistite 394.374 persone: circa 295 mila sono anziani con almeno 65 anni (il 75 per cento), poco più di 80 mila sono adulti tra i 18 e i 64 anni (20 per cento) e circa 19 mila sono minori con meno di 18 anni (5 per cento). La tipologia di disagio prevalente è legato alla disabilità o a patologie psichiatriche (circa il 69 per cento degli ospiti).Gli stranieri residenti nei presidi sono complessivamente 16.023 (il 4 per cento degli ospiti complessivi). Nel 70 per cento dei casi i titolari di queste strutture residenziali sono enti privati (I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari nel 2010, Roma - ISTAT 2012).
Per quanto riguarda l’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, nell'anno scolastico 2010-2011, risultano iscritti negli asili nido comunali 157.743 bambini tra zero e due anni di età, mentre altri 43.897 bambini usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti dell'offerta pubblica complessiva, per una spesa di circa 1,2 miliardi, al netto delle quote pagate dalle famiglie.
Nonostante il generale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003-2004 all'11,8 per cento del 2010-2011 (L'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia - Anno scolastico 2010-2011, Roma, ISTAT 2012).
Si ricorda in merito al minimo vitale per famiglie e individui bisognosi, la sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (RMI), introdotta dal D. Lgs. 237/1998 per il biennio 1999-2000, per 39 Comuni, con successive proroghe per il biennio 2000-2001, con una spesa complessiva nel secondo biennio di circa 400 milioni di euro (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Relazione al Parlamento 2007 sull’attuazione della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento e risultati conseguiti, 2007, Roma).
Dai dati nazionali (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma), la popolazione italiana è pari a 60,6 milioni e il numero di famiglie nel 2010-2011 (media) è pari a 24,6 milioni.
Nel 2010-2011, il 29,4 per cento delle famiglie è rappresentato da persone sole, incidenza in continua crescita e il 53,6 per cento ha oltre 60 anni e di queste il 67,4 per cento è costituito da donne. Le famiglie presentano una prevalenza della tipologia coppie con figli, pari al 54,4 per cento, mentre le coppie senza figli hanno un’incidenza del 31,4 per cento e i monogenitori del 14,2 per cento sul totale dei nuclei.
Nel 2011, in Italia, l’area della povertà coinvolge 2,8 milioni famiglie in condizione di povertà relativa (l’11,1 per cento delle famiglie residenti), pari a poco più di 8 milioni di individui, il 13,6 per cento dell’intera popolazione.
La stima dell’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie e persone povere) è calcolata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà), che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi. La soglia per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media mensile per persona nel Paese, che nel 2011 è risultata di 1.011,03 euro (+1,9 per cento rispetto al valore della soglia nel 2010). Pertanto, le famiglie di due persone che hanno una spesa mensile pari o inferiore a tale valore vengono classificate come povere. Per famiglie di ampiezza diversa il valore della linea si ottiene applicando un’opportuna scala di equivalenza che tiene conto delle economie di scala realizzabili all’aumentare del numero di componenti. L’incidenza della povertà assoluta, invece, viene calcolata sulla base di una soglia di povertà corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire il paniere di beni e servizi che è considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile. Sono classificate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia assoluta (che si differenzia per dimensione e composizione per età della famiglia, per ripartizione geografica e ampiezza demografica del comune di residenza).
Nel 2011, l’incidenza di povertà assoluta è pari al 5,2 per cento corrispondente a 1,3 milione di famiglie per un totale di 3,4 milioni individui (il 5,7 per cento dell’intera popolazione).
E’ quindi in 11,4 milioni di persone che si concentra l’area del disagio economico in Italia.
Per quanto riguarda un’altra area sensibile per le politiche socio-sanitarie, quella degli anziani, si stima che il 36 per cento delle famiglie, circa 8,8 milioni, ha in casa almeno un anziano e il 22,9 per cento, circa 5,6 milioni, è rappresentato da famiglie di soli anziani (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma).
Il 20,1 per cento delle famiglie ha almeno un anziano di 65-74 anni, il 14,8 per cento delle famiglie ha un anziano di 75-84 anni e il 5,4 per cento ha almeno un anziano di 80 anni e più. Nel 2012, in Italia, sono presenti due milioni di anziani in condizioni di disabilità che vivono in famiglia e oltre 300 mila anziani sono ospiti nelle strutture residenziali. Gli ultra anziani che superano gli 85 anni in Italia sono un milione e 600 mila e si prevede che tra 10 anni saranno 2 milioni e 400 mila (Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali, 2012).
Secondo i dati più recenti (La disabilità in Italia - ISTAT 2010) riguardanti l’area della disabilità, le persone disabili sono il 4,8 per cento della popolazione italiana di 6 anni e più (2,6 milioni di persone), e la disabilità è un problema che coinvolge soprattutto gli anziani: quasi la metà delle persone con disabilità (1,2 milioni), ha più di ottanta anni. Nella scuola (anno scolastico 2010-2011) gli studenti con disabilità sono 139.000 (il 3 per cento del totale alunni), di cui circa 78.000 nella scuola primaria (pari al 2,8 per del totale degli alunni) e poco più di 61.000 nella scuola secondaria di primo grado, pari al 3,4 per del totale degli alunni (L’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di primo grado statali e non statali, 2013 - ISTAT, Roma).
Un’altra area importante che incide sui bilanci sociali degli enti locali, è quella relativa ai servizi ai minori (L'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia - Anno scolastico 2010-2011, 2012, ISTAT). Come già detto in precedenza, nonostante il graduale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003-2004 all'11,8 per cento del 2010-2011, ancora distante dalla copertura del 33 per cento sull’utenza potenziale, che è l’obiettivo fissato dall’Agenda di Lisbona per il 2010.
Per quanto altre situazioni di disagio sociale (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma), nel 2008, gli utenti dei Servizi pubblici per le tossicodipendenze (Sert) sono risultati 167.674, mentre per quanto riguarda i disturbi psichici per abuso di alcol, nel 2010, sono state 15.320 le dimissioni ospedaliere a carico di individui che presentavano questa dipendenza, e sono state 7.112 per disturbi psichici a causa di abuso di droghe.
Nel 2009 sono state censite 1.679 strutture residenziali per la tutela della salute mentale, per un numero totale di posti pari a 19.299, ed una utenza di 30.375 individui. I Centri di Salute Mentale in Italia erano 1.387 ovvero poco più di 4 ogni 150.000 abitanti maggiorenni.
Per quanto riguarda, infine, le persone senza dimora (Le persone senza dimora - Anno 2011, ottobre 2012 - ISTAT), sono oltre 47.000 persone che tra novembre e dicembre 2011 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna in 158 comuni italiani.
Le prestazioni di protezione sociale (sanità, previdenza e assistenza) secondo l'evento, il rischiio e il bisogno per funzione e per tipo di prestazione per il 2011 ammntano a 417,8 miliardi di euro, come risulta dai dati pubblicati dall'Istat. Di seguito sono indicati alcuni dati macroeconomici di rilievo.
Nel Bilancio sociale INPS del 2011, le entrate complessive ammontano a 284,4 miliardi, di cui la parte corrente è divisa in contributi sociali per 150,8 miliardi e contribuzioni diverse, soprattutto trasferimenti statali, per 84,5 miliardi.
Nel 2011, il totale delle prestazioni sociali INPS è pari a 219,6 miliardi, di cui l'88,5 per cento sono le pensioni (194,4 miliardi), mentre le prestazioni temporanee coprono il restante 11,5 per cento (25,1 miliardi).
All’interno delle pensioni, il 77,4 per cento (169,9 miliardi) è rappresentato dalle pensioni previdenziali (vecchiaia, anzianità, invalidità da lavoro, inabilità, indirette e reversibilità), mentre l'11,2 per cento (24,6 miliardi, per oltre 4 milioni di trattamenti) dalle pensioni assistenziali (inclusi 2,8 miliardi per il Fondo dei coltivatori diretti, coloni mezzadri – CDCM ante 1989). All’interno dell’assistenza sono comprese i trasferimenti di invalidità civile, circa 16,2 miliardi, e 4,2 miliardi per le pensioni e assegni sociali (secondo determinati requisiti reddituali e anagrafici).
I pensionati INPS titolari di almeno un trattamento pensionistico INPS nel 2011 sono 13.941.802, in maggioranza donne. Circa il 74 per cento (pari a 10,3 milioni di individui) percepisce una sola pensione a carico dell’Istituto, poco più del 21 per cento ne percepisce due, il 5 per cento tre ed oltre. Il reddito pensionistico medio lordo, risultante dalla somma dei redditi da pensione (sia di natura previdenziale che assistenziale) percepiti nell’anno, erogati sia dall’Inps che da altri enti previdenziali e rilevati dal Casellario centrale dei pensionati gestito dall’Istituto, è di 1.131 euro mensili (per le donne 930 euro medi mensili a fronte di 1.366 euro per gli uomini).
Oltre la metà dei pensionati (52 per cento) riceve una pensione di vecchiaia o di anzianità senza godere di altri trattamenti pensionistici, percentuale che scende al 10 per cento e al 5 per cento, rispettivamente, per pensioni ai superstiti e di invalidità previdenziale. I percettori di sole pensioni assistenziali sono l'11 per cento del totale. Un ulteriore 10 per cento e 12 per cento si distribuisce tra coloro che ricevono, rispettivamente, un trattamento previdenziale associato ad una prestazione assistenziale ovvero più trattamenti di natura previdenziale.
Sotto il profilo dell’età, oltre il 75 per cento dei titolari ha 65 anni e oltre (gli ultra80enni sono il 25 per cento) e il 22 per cento circa si colloca in una fascia compresa tra i 40 e i 64 anni. Inoltre, quasi la metà dei percettori (6.915.733) si concentra nelle regioni settentrionali, mentre nel Meridione e al Centro risiedono, rispettivamente, il 31 per cento (4.292.312) ed il 19 cento (2.733.757) del totale con redditi pensionistici medi che oscillano da 920 euro mensili al Sud a 1.238 euro al Nord.
Nella distribuzione per classi di importo, il 52 per cento dei pensionati Inps (7,2 milioni di individui) presenta redditi pensionistici inferiori a 1.000 euro mensili e il 24 per cento (3,3milioni) si colloca nella fascia tra 1.000 e 1.500 euro mensili. Il 12,7 per cento riscuote pensioni comprese tra 1.500 e 2.000 euro mensili e il restante 11,2 per cento gode di un reddito pensionistico mensile superiore a 2.000 euro.
Per quanto riguarda le prestazioni temporanee (25,1 miliardi) le prestazioni connesse a stato di occupazione sono pari 10,8 miliardi, i trattamenti di famiglia (principalmente, assegno al nucleo familiare) e di maternità (comprendente la maternità obbligatoria, il congedo parentale facoltativo e il permesso retribuito per allattamento), rispettivamente, sono 5,6 e 3 miliardi.
Come si vede la struttura delle prestazioni sociali è fortemente caratterizzata dalla spesa pensionistica previdenziale e da quella assistenziale, mentre le spese per le prestazioni temporanee risultano alquanto ridotte, con il peso degli ammortizzatori sociali del 4,9 per cento di tutte le prestazioni, quello per la famiglia del 2,9 per cento, quello per maternità 1,4 per cento e quello per la malattia dello 0,9 per cento.
Consegue un dato di fatto difficilmente controvertibile: dai numeri mostrati, se consideriamo l’effetto di redistribuzione delle risorse provenienti dalle entrate contributive (imprese e lavoratori) e della fiscalità generale, si conferma una forte sperequazione di carattere generazionale e di svantaggio per le prestazioni connesse alla disoccupazione e per i trattamenti di famiglia e maternità.
La social card dello Stato è una carta di pagamento elettronico - 80 euro bimestrali, accreditati dall’INPS - per spese alimentari, presso gli esercizi commerciali convenzionati e per le utenze domestiche - gas ed elettricità - presso gli Uffici Postali. Secondo il luogo di residenza, è possibile ottenere integrazioni concesse dagli enti locali (Regioni, Comuni o Province) in aggiunta all’importo stabilito.
Nel 2011 il totale dei beneficiari, con il diritto ad almeno un accredito nel corso dell’anno, sono stati 535.412. Secondo il luogo di residenza, la concentrazione maggiore, il 71,4 per cento, è presente nella zona meridionale e insulare, il 16,3 per cento dei beneficiari vive nel Settentrione e il 12,3 per cento nell’Italia centrale. L’importo totale erogato nel 2011 è pari a 207 milioni, suddivisi in 2.589.517 accrediti effettuati nell’anno.
I comuni italiani spendono circa 7,2 miliardi per i servizi sociali, che corrispondono ad una spesa procapite media di circa 116 euro, pur con differenze molto significative tra diversi territori. La spesa sociale dei comuni rappresenta lo 0,46 per cento del Pil italiano e assume nel territorio nazionale una variabilità tale da oscillare tra la spesa media degli enti locali della Provincia di Trento (294,7 euro a cittadino), e quella della regione Calabria (25,5 euro a cittadino). Una prima caratteristica del welfare in Italia è infatti la forte diversità nelle politiche attivate in termini di risorse allocate e servizi resi alla collettività; il divario territoriale vede una netta contrapposizione tra regioni del nord e del sud, con queste ultime che registrano una spesa per abitante pari a poco meno di 51 euro e quelle del nord est e nord ovest che spendono circa 163 e 133 euro rispettivamente. In termini di interventi, prevalgono quelli che riguardano famiglia e minori, disabili e anziani, che assorbono mediamente l’80 per cento del totale della spesa sociale dei comuni italiani (39,8 per cento famiglia e minori, 20,4 per cento anziani, 21,6 per cento disabili). Il restante 19 per cento circa della spesa è ripartito a decrescere tra interventi destinati a povertà (8,3 per cento), multiutenza (6,3 per cento), immigrati (2,7 per cento) e dipendenze (0,9 per cento).
Tra le regioni emerge un ampio divario per risorse impegnate dai comuni in rapporto alla popolazione residente: la spesa per abitante nel 2009 varia da un minimo di 25,5 euro in Calabria a un massimo di circa 295 euro a Trento. Al di sotto del valore medio italiano si collocano tutte le regioni del Mezzogiorno (ad eccezione della Sardegna) ma anche Umbria, Marche e Veneto. Anche dal punto di vista del tipo di rischio o bisogno su cui si concentrano le risorse si mettono in luce alcune differenze regionali. Le regioni del Mezzogiorno hanno una maggiore quota di risorse assorbite dalle politiche di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale: il 10,8 per cento, contro il 7,6 per cento del Centro-Nord.
Se si considera la spesa dedicata ai servizi sociali in rapporto al Pil, la maggior parte delle regioni si colloca in una fascia intermedia che varia dallo 0,3 per cento allo 0,6 per cento del Pil regionale. Al di sotto dello 0,3 per cento vi sono la Calabria e il Molise, mentre fra le aree che impegnano le percentuali più alte di risorse vi sono la Sardegna, Trento e Bolzano, la Valle d'Aosta e il Friuli-Venezia Giulia (Noi Italia 2013 - ISTAT).
Il totale della spesa pubblica sociale (prestazioni in denaro e natura), al netto della malattia, previdenza e disoccupazione (ultima voce pari a 12,5 miliardi tra indennità di disoccupazione e assegno d’integrazione salariale), risulta di 52,9 miliardi, di cui 30,7 miliardi in denaro (settore assistenza: 24,3 miliardi di pensioni/assegni sociali, invalidità e altri assegni e sussidi, e 6,4 miliardi di assegni familiari), e 22,2 miliardi in natura (settore assistenza 8,5 miliardi e settore sanità 13,7 miliardi di prestazioni socio-sanitarie.
Considerando le persone in povertà assoluta, circa 3,4 milioni di persone, i 2,6 milioni di disabili (dai 6 anni in su), i 5,6 milioni di anziani soli, i minori che usano i servizi socio-educativi, e l’utenza a rischio di esclusione sociale, le prestazioni sociali in natura erogate dagli enti locali sono pari a 8,5 miliardi e rappresentano il 16 per cento del totale della spesa sociale.
L’offerta welfare è dunque caratterizzata da un netto sbilanciamento per l’elevatissima erogazione di prestazioni monetarie e la scarsa fornitura di servizi alla persona.
Il processo di invecchiamento demografico atteso nei prossimi decenni determinerà una marcata espansione della domanda di servizi socio-assistenziali. A fronte di questa emergenza, le risposte assistenziali e le risorse impiegate, di cui il monitoraggio a livello nazionale e locale non appare coordinato, risultano inadeguate, frammentate, estremamente diversificate per quantità e qualità (tra buone esperienze e assenza o quasi di servizi).
Il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali (FNPS) è lo strumento con cui, a livello statale, vengono finanziati annualmente, attraverso l’allegato C della legge finanziaria, gran parte degli interventi dedicati alla sfera del sociale. Il Fondo, istituito nel 1998 dall’articolo 59, comma 44, della legge 449/1997, è stato maggiormente definito e rafforzato dalla L. 328/2000 che ha ripartito annualmente le risorse tra le regioni, le province autonome, i comuni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali con decreto del Ministro della solidarietà sociale, sentiti i ministri interessati e d’intesa con la Conferenza Unificata Stato regioni e autonomie locali.
Gli interventi finanziati a valere sul FNPS sono stati ridotti da alcuni recenti provvedimenti normativi. In particolare, le risorse del Fondo per l’infanzia e l’adolescenza – istituito dalla legge 285/1997 – inizialmente allocate nel Fondo nazionale delle politiche sociali, a decorrere dall’anno 2008 sono determinate dalla legge finanziaria limitatamente alle risorse destinate al finanziamento degli interventi nei 15 Comuni riservatari indicati dalla legge istitutiva. Le rimanenti risorse del Fondo nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza confluiscono indistintamente nel Fondo nazionale delle politiche sociali.
Per quanto riguarda le somme destinate al finanziamento degli interventi costituenti i diritti soggettivi (assegno al nucleo familiare con tre figli minori, per la maternità, agevolazioni disabili e lavoratori talassemici), la legge 191/2009 ha disposto che, dal 2010, siano finanziati attraverso appositi capitoli iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dell’iniziale stanziamento, per effetto dell'art. 1, comma 13, della legge 220/2010, sono stati accantonati 55,8 milioni di euro in ragione dell’andamento dei proventi derivanti dalla cessione dei diritti d’uso delle frequenze per i servizi di comunicazione a banda larga. Tali accantonamenti sono stati resi definitivi dal decreto legge 98/2011. Con Decreto Interministeriale del 17 giugno 2011, sono stati pertanto ripartiti 218 milioni di euro, di cui 39,5 milioni di euro al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Nel Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 l’importo proposto per il 2012 è di 69,954 milioni di euro, per il 2013 e il 2014 gli importi sono invece pari a 44,590 milioni di euro. Tali stanziamenti sono stati poi confermati dalla Legge di stabilità 2012, come indicati nella tabella C.
Nella riunione del 25 luglio 2012, la Conferenza delle regioni e delle province autonome, ha espresso la mancata intesa sullo schema di decreto di riparto del FNPS per l’anno 2012 come trasmesso dal Governo, chiedendo, a fronte di una previsione relativa alla quota destinata alle Regioni e alle Province autonome, pari a 10,8 milioni di euro, e di un accantonamento di 32,8 milioni di euro per spese ministeriali giudicate indifferibili, l’interlocuzione con l’esecutivo per ridiscutere il finanziamento delle politiche sociali.
Successivamente, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nel Documento per una azione di rilancio delle politiche sociali del 6 ottobre, ha evidenziato alcune osservazioni in materia di politiche sociali, sottolineando al contempo l'impossibilità, per i livelli di governo territoriali, di garantire, nel corso del 2013, il sistema dei servizi sociali sul territorio. In tal senso, le Regioni, per ripristinare sicurezza nell'ambito delle politiche sociali, avanzano le seguenti proposte e richieste: 1) definizione degli Obiettivi di Servizio con indicazione di quelli da finanziare con priorità; 2) difesa dell'occupazione nel settore dei servizi alla persona: 3) superamento della frammentarietà dei finanziamenti, spesso di piccole entità, e allocazione di tutte le risorse dedicate al sociale in un unico Fondo non finalizzato; 4) istituzione di un tavolo di confronto composto dai Ministeri del Welfare/Salute e dalle Commissioni Politiche Sociali e Salute della Conferenza delle Regioni e P.A, che elabori proposte condivise e praticabili sulla non autosufficienza riconoscendola come un tema centrale all’interno delle politiche sociali.
In ultimo il decreto 16 novembre 2012, Ripartizione delle risorse finanziarie afferenti al Fondo nazionale per le politiche sociali , per l'anno 2012 ha ripartito le risorse finanziarie afferenti al Fondo, ammontanti ad euro 42.908.611, destinando euro 10.680.362,13 alle Regioni e euro 32.033.310 al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Contestualmente sono state assegnate una quota riferita alle Province autonome di Trento e Bolzano pari a euro 180.286,77 nonché una somma da restituire al Comune di Enna, a fronte di quanto versato ai sensi dell'art. 1, comma 1286 della legge 296/2006, n. 296 pari a euro 14.652,10.
Per l’anno 2013, l’articolo 1, comma 271, Legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del Fondo nazionale per le politiche sociali. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.
Fondo nazionale politiche sociali (in migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale politiche sociali come risultante dal decreto di riparto |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto |
2009
|
1.311.650 Nel fondo erano ancora allocate le risorse destinate al finanziamento degli interventi costituenti diritti soggettivi, pari a euro 842.000.000,00. |
1.420.580
|
518.226 |
25/11/2009 |
2010
|
1.169.258 Di cui euro 854.000.000,00 destinate al finanziamento degli interventi costituenti diritti soggettivi e riportati in tabella C |
435.257 Ai sensi dell’articolo 2, comma 3, della legge 191/2009 la quale stabilisce che, a decorrere dal 2010, gli oneri relativi ai diritti soggettivi sono finanziati da appositi capitoli di spese obbligatorie iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dagli stanziamenti del Fondo, come riportati in Tabella C, sono state pertanto sottratte le risorse destinate al finanziamento dei diritti soggettivi. |
380.222 |
4/10/2010 |
2011
|
273.874 |
218.084 |
178.500 |
17/06/2011 |
2012
|
69.950 |
42.208 |
10.680 |
16/11/2012 Mancata Intesa |
2013 |
344.178 |
|
|
|
L'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) ha istituito il Fondo per le non autosufficienze presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, configurandolo essenzialmente come un contributo alle politiche regionali in materia, per la realizzazione di prestazioni, interventi e servizi assistenziali nell'ambito dell'offerta integrata dei servizi socio-sanitari in grado di garantire i livelli essenziali delle prestazioni assistenziali a favore delle persone non autosufficienti. Le risorse, aggiuntive rispetto a quelle già destinate alle prestazioni e ai servizi a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni, nonché da parte delle autonomie locali, sono state finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell'assistenza socio-sanitaria. Le risorse assegnate al Fondo per il 2010, ripartite con decreto, erano pari ad euro 400 milioni.
Il decreto 4 ottobre 2010 ha ripartito fra le regioni le risorse del fondo utilizzando criteri basati, nella misura del 60 per cento, su indicatori relativi alla popolazione residente, per regione, d'età pari o superiore a 75 anni e per il restante 40 per cento sui criteri utilizzati per il riparto del Fondo nazionale per le politiche sociali come individuati dall’articolo 20, comma 5, della legge 328/2000.
Per il 2011 e il 2012, non è stato previsto il rifinanziamento organico del Fondo.
Si rileva tuttavia che l'articolo 1, comma 40, della Legge di stabilità 2011, dispone che la dotazione del Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili, sia incrementata di 924 milioni di euro per l'anno 2011 e che una quota di tali risorse, pari a 874 milioni di euro per l'anno 2011, sia ripartita, con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri per le finalità indicate nell’elenco 1 allegato alla stessa legge. Tra le finalità indicate nell'elenco sono stati fra gli altri indicati interventi in tema di sclerosi laterale amiotrofica per ricerca e assistenza domiciliare dei malati, ai sensi dell'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, per un ammontare nel 2011 pari a 100 milioni di euro.
Il decreto 11 novembre 2011 ha attribuito tali risorse alle regioni sulla base dei criteri utilizzati per il riparto del Fondo nazionale per le politiche sociali.
Successivamente, il D.L. 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che la dotazione del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, sia incrementata di 658 milioni di euro per l'anno 2013 e ripartita con D.P.C.M., per incrementare fra l’altro la dotazione del Fondo non autosufficienti, finalizzato al finanziamento dell'assistenza domiciliare prioritariamente nei confronti delle persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), ha subito un definanziamento di 631,7 milioni; la dotazione finanziaria del Fondo risulta pertanto interamente decurtata, residuando al Fondo soltanto 263 euro per l’anno 2013.
In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.
L’articolo 1, comma 83, della legge di stabilità 2013 prevede che l'INPS, per il periodo 2013-2015 - nell'ambito dell’ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari nei confronti dei titolari di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, realizzi un piano di 150.000 verifiche straordinarie annue, aggiuntivo rispetto all'ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, nei confronti dei titolari di benefici di invalidità civile, cecità civile, sordità, handicap e disabilità. Per quanto concerne le risorse derivanti dall’attuazione del suddetto piano straordinario di verifiche, sono destinate ad incrementare il Fondo per le non autosufficienze sino alla concorrenza di 40 milioni di euro annui.
Fondo nazionale per le non autosufficienze (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale per le non autosufficienze |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto/Intesa |
2009 |
400.000 |
400.000 |
399.000 |
Decreto 6 agosto 2008 |
2010 |
400.000 |
400.000 |
380.000 |
Decreto 4 ottobre 2010 |
2011 L.220/2010 Art. 1,co. 40 |
- |
100.000 dal Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili |
100.000 |
Decreto 11 novembre 2011 |
2012 D.L. 95/2012 Art. 23,co. 8 |
- |
Somma, da definire con D.P.C.M., dal Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili. Si rileva che il Fondo è stato completamente definanziato dalla legge di stabilità 2013. |
- |
- |
2013 Legge di stabilità 2013 Art. 1, co. 83 Art. 1, co. 151 |
- |
Fino alla concorrenza di 40.000 275.000 |
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|
La legge 28 agosto 1997, n. 285 ha inizialmente sollecitato e sostenuto la progettualità orientata alla tutela e alla promozione del benessere di bambini e ragazzi attraverso l’istituzione di un Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza suddiviso tra le Regioni (70%) e le 15 Città riservatarie (30%), chiamando gli enti locali e il terzo settore a programmare insieme e diffondere una cultura e pratiche di progettazione concertata e di collaborazione interistituzionale. Successivamente, la legge finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha disposto, all'articolo 1, comma 1258, che la dotazione del Fondo, limitatamente alle risorse destinate ai comuni riservatari, sia determinata annualmente dalla Tabella C della legge finanziaria e ne ha indicato, a decorrere dal 2008, una diversa allocazione, prevedendo uno stanziamento autonomo. Le rimanenti risorse del Fondo per l'infanzia e l'adolescenza continuano a confluire, indistintamente, nel Fondo nazionale per le politiche sociali.
Oggi le 15 Città riservatarie - Bari, Bologna, Brindisi, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Taranto, Torino, Venezia - costituiscono una sorta di nucleo fondante per le politiche della legge 285 e rappresentano un laboratorio di sperimentazione in materia di infanzia e adolescenza. Il trasferimento delle risorse avviene con vincolo di destinazione, quindi i finanziamenti della legge 285 sono collegati alla progettazione dei servizi per l’infanzia e l’adolescenza. Tra gli strumenti promossi dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per la buona riuscita della sperimentazione 285, vi è il Tavolo di coordinamento tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali e Città riservatarie e la Banca dati dei progetti. La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) destina al Fondo, per il 2013, 39,6 milioni di euro, prevedendo quasi identici stanziamenti per il biennio successivo.
Fondo nazionale per linfanzia e l'adolescenza (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza |
Decreto riparto/Intesa |
2009 |
43.892 |
43.751 |
17 settembre 2009 |
2010 |
39.964 | 39.964 |
11 marzo 2010 |
2011 |
39.204 | 35.188 |
25 maggio 2011 |
2012 |
39.960 |
39.960 |
24 febbraio 2012 |
Il Fondo istituito ai sensi dell'art. 19, comma 1, del decreto-legge 223/2006, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato ridisciplinato dalla finanziaria 2007 che ha fra l’altro istituito l’Osservatorio nazionale sulla famiglia. Le risorse destinate nel loro complesso alle politiche familiari sono assegnate mediante un apposito decreto di ripartizione. Dal 2010 le risorse afferenti al Fondo sono ripartite fra interventi relativi a compiti ed attività di competenza statale (cap. 858) ed attività di competenza regionale e degli enti locali (cap. 899).
La materia politiche per la famiglia, nella strutturazione del bilancio statale, è ricompresa nella Missione 24 Diritti sociali, solidarietà sociale e famiglia, nello specifico Programma 24.7 "Sostegno alla famiglia" – Centro di responsabilità 15 "Politiche per la famiglia”. Dal 2010 i Capitoli di riferimento sono il cap. 858, “Fondo per le politiche per la famiglia", del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri e il cap. 899, titolato “Somme da destinare ad interventi per attività di competenza statale relative al Fondo per le politiche per la famiglia”, dello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nell’ultimo quinquennio, gli stanziamenti finalizzati alle politiche di sostegno alla famiglia hanno registrato una considerevole riduzione. Nel 2011 il Fondo ha subito un forte ridimensionamento, legato, secondo quanto affermato dal MEF, alla necessità di alimentare il costituendo Fondo per il federalismo, con conseguente azzeramento dei trasferimenti di risorse al sistema delle autonomie. Per quanto riguarda il 2010, a seguito dell’Intesa del 29 aprile 2010 in sede di Conferenza unificata, il decreto del 20 luglio 2010 ha stabilito il riparto delle risorse del Fondo per il 2010, ammontanti nel complesso ad 185.289.000 euro. Per quanto riguarda le attività di competenza regionale e degli enti locali, i 100 milioni di risorse disponibili sono stati ripartiti con l’intesa in sede di Conferenza unificata del 7 ottobre 2010 che li ha destinati in via prioritaria, al proseguimento dello sviluppo ed al consolidamento del sistema integrato di servizi socio-educativi per la prima infanzia e alla realizzazione di altri interventi a favore delle famiglie, assicurando che ad essi accedano prioritariamente le famiglie numerose o in difficoltà, sulla base della valutazione del numero e della composizione del nucleo familiare e dei livelli reddituali.
I finanziamenti per il 2011, risultano pari a 52,5 milioni di euro, mentre nel Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 gli importi proposti sono: 52,535 milioni di euro per il 2012 e 31,391 milioni di euro per il 2013 e il 2014. Tali importi non sono stati confermati dalla Legge di stabilità 2012 (L. 183/2011), che, come indicato nella tabella C, per il Fondo per le politiche della famiglia, indica per il 2012 31,994 milioni di euro, per il 2013 stanzia 21,184 milioni di euro, mentre per il 2014 indica 23,280 milioni.
Per quanto riguarda le risorse 2011, non ripartite con decreto, la dotazione iniziale è stata successivamente e in più occasioni ritoccata in diminuzione dai tagli derivanti dal D.L. 78/2010, rispettivamente per euro 21.075.110 e euro 991.000, e dai tagli, per euro 21.440, apportati dal decreto-legge 225/2110, e dagli accantonamenti così detti per la “banda larga” pari a euro 5.316.167, che hanno determinato una consistenza effettiva di 25.062.434 euro.
Per quanto riguarda il 2012, il 2 febbraio 2012 è stata sottoscritta un’Intesa in sede di Conferenza unificata sull’utilizzo di risorse da destinare al finanziamento di azioni per le politiche a favore della famiglia. I fondi, pari a 25 milioni di euro, spostati da precedenti capitoli di competenza statale e resi disponibili sui capitoli di pertinenza regionale e degli enti locali, sono stati messi a disposizione per garantire la continuità degli obiettivi di servizio relativi a: diffusione servizi per l’infanzia e presa in carico degli utenti dei servizi per l’infanzia (bambini 0-3 anni) e incremento della percentuale degli anziani beneficiari dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) dall’1,6 per cento al 3,5 per cento. Ai sensi dell’articolo 4 dell’Intesa, l’utilizzo delle risorse è monitorato da un Gruppo paritetico composto da rappresentanti del Dipartimento per le politiche della famiglia, MEF, regioni e PA, ANCI e UPI. Successivamente, nel corso della Conferenza unificata del 19 aprile 2012 sono state sancite tre Intese in materia di famiglia: sul Piano nazionale sulla famiglia; sul riparto per il 2012 delle risorse del Fondo per le politiche della famiglia; sull’utilizzo di risorse da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’ultima delle Intese ha stabilito i criteri di ripartizione delle risorse disponibili a valere sui capitoli di pertinenza Politiche della famiglia del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per complessivi 45 milioni di euro, da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e ad azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’Intesa stabilisce le modalità di attuazione, i tempi di realizzazione degli interventi e il monitoraggio. Le Regioni concorreranno ai finanziamenti secondo le rispettive disponibilità. Le risorse saranno ripartite previa sottoscrizione con ogni Regione di un accordo della durata di 24 mesi con l’indicazione dei servizi socio educativi e le azioni da finanziare in favore degli anziani e della famiglia, individuate dalle Regioni in accordo con le Autonomie Locali. I decreti di riparto del 9 maggio 2012 ripartiscono fra le regioni i complessivi 70 milioni. Quanto alla procedura per l'erogazione dei finanziamenti, l'intesa del 2 febbraio prevede che le risorse siano trasferite, in unica soluzione, alle Regioni a seguito di specifica richiesta, nella quale sono indicate le azioni da realizzare. L'intesa del 19 aprile prevede, invece, che le risorse siano erogate in due tranches, rispettivamente del 60% e del 40%, a seguito della sottoscrizione di accordi attuativi tra il Dipartimento per le politiche della famiglia e le singole Regioni e previa approvazione di specifici programmi regionali di intervento e relativo assenso dell'Anci.
Come rinvenibile nella legge di bilancio 2013 (legge 229/2012), le risorse allocate nel Fondo per le politiche della Famiglia hanno una dotazione per il 2013 pari a 21 mln euro (nel 2012 era pari a 31,9 mln euro), 22,9 mln euro per il 2014, e 22,6 mln euro nel 2015.
L'analisi complessiva del Fondo resa dalla Corte dei Conti nella Relazione sul Fondo per le politiche della famiglia (Deliberazione n. 2/2012/G) indica, per un contesto di particolare complessità e rilevanza quale quello delle politiche per la famiglia, la forte esigenza di privilegiare un'ottica strutturale e non più frammentata dei bisogni della persona. La Corte rileva la mancanza di un'ottica “Top down”, in grado di indirizzare appropriatamente i progetti a finalità diffuse e, come tali, da portare a sistema, ai quali è stata preferita l'ottica “bottom up”, rivelatasi di scarsa incisività, sia per le dimensioni degli interventi nonché per la loro gestibilità a fattor comune. La Corte sottolinea inoltre la carenza di un sistema di valutazione effettiva dei progetti, laddove esso appare imprescindibile in un contesto politico ed economico come quello attuale italiano, in cui gli obiettivi urgenti da raggiungere sono pesantemente condizionati dalla limitatezza delle risorse a disposizione. Aspetti critici sono stati rilevati per l'attività dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia, in un contesto nel quale si è ancora in attesa del varo del Piano Nazionale della Famiglia.
Fondo nazionale per le politiche della famiglia (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale politiche per la famiglia |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto |
2009 |
186.571 |
186.571 |
100.000 |
3/02/2009 |
2010 |
185.289 |
174.288 |
100.000 |
20/20/2010 |
2011 |
52.446 |
25.062 |
- |
- |
2012 |
31.391 |
70.000 |
70.000 |
Intese 2 febbraio e 19 aprile 2012 |
Il Fondo per le politiche giovanili è stato istituito ai sensi dell’articolo 19, comma 2, del decreto-legge 223/2006, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una dotazione di 3 milioni di euro per l’anno 2006 e di dieci milioni di euro a decorrere dall’anno 2007. L’articolo 1, comma 1290, della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006) incrementa il Fondo di 120 milioni di euro per gli anni 2007, 2008 e 2009. Successivamente l’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 78/2010 ha disposto dal 2011 una riduzione lineare del 10 per cento delle dotazioni finanziarie iscritte a legislazione vigente nell’ambito delle spese rimodulabili di cui all’articolo 21, comma 5, lettera b) della L. 196/2009.
Il Fondo è istituito al fine di promuovere il diritto dei giovani alla formazione culturale e professionale e all'inserimento nella vita sociale, anche attraverso interventi volti ad agevolare la realizzazione del diritto dei giovani all'abitazione, nonché per facilitare l'accesso al credito per l'acquisto e l'utilizzo di beni e servizi ed è destinato a finanziare azioni e progetti di rilevante interesse nazionale, nonché le azioni ed i progetti destinati al territorio, individuati di intesa con le Regioni e gli Enti Locali. Il decreto del 18 ottobre 2010 ha ripartito le risorse del Fondo per il 2010, pari a 81,087 milioni di euro, destinando alle azioni e ai progetti di rilevante interesse nazionale la somma di 33.181.019,40 euro e una quota di 47.905.980,60 euro al finanziamento delle azioni e dei progetti destinati al territorio, di cui 37.421.650,50 euro da ripartirsi fra le Regioni secondo i criteri indicati nell'Intesa sottoscritta nella Conferenza unificata del 7 ottobre 2010. I rimanenti 10.484.330,10 euro sono destinati a cofinanziare interventi proposti da Comuni e Province.
Per il 2011 il Fondo risulta ridotto legislativamente. Come illustrato nelle premesse del decreto 4 novembre 2011 di riparto del Fondo, al capitolo n. 853 del bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei Ministri denominato Fondo per le politiche giovanili inizialmente viene assegnata una dotazione finanziaria di 32,909 milioni di euro. Successivamente il Fondo viene ridotto di 20,122 milioni di euro risultando pari, per il 2011; a 12, 787 milioni di euro, di cui 10,941 milioni di euro destinati alle azioni e ai progetti sul territorio.
Per il 2012, la legge di stabilità 2012 ha assegnato al Fondo risorse pari a circa 8,2 milioni di euro, incrementate successivamente di circa 1,6 milioni di euro. Nel giugno 2012 sono stati trasferiti alle regioni 6,7 milioni di euro. Il decreto 7 novembre 2012 destina pertanto poco meno di 4 milioni di euro - di cui quota parte risultanti dalle economie derivanti dall'esercizio 2011 - a progetti e azioni di rilevante interesse nazionale.
Come rinvenibile nella Legge di bilancio 2013 (legge 229/2012), le risorse allocate nel Fondo per le politiche della gioventù risultano avere una dotazione per il 2013 corrispondente a 6,2 mln euro (nel 2012 era pari a 8,2 mln euro), 6,8 mln euro per il 2014 e 6,7 mln euro nel 2015.
Fondo nazionale per le politiche giovanili (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale politiche giovanili |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto/Intesa |
2009 |
Finanziaria 2007 130.000 |
130.000. |
- |
- |
2010 |
81.087 |
81.087 |
37.421 |
Intesa 7/10/2010 |
2011 |
32.909 |
12.787 |
10.941 |
Decreto riparto 4/11/2011 |
2012 |
8.180 |
+ 1.661 assegnate con decreto del MEF n. 21910 del 24 maggio 2012; ; + 0, 849 quota parte delle economie risorse 2011 |
-6.783 trasferiti alle regioni con decreto n. 39761 in data 1° giugno 2012; 0,849 trasferiti alle province con il decreto di riparto |
Decreto riparto 7/11/2012 |
La carta acquisti, o social card, è stata istituita dall’articolo 81, comma 29, del decreto-legge 112/2008 che ha disposto la creazione di un Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti.
Ai sensi dell’articolo 81, comma 30, del decreto legge 112/2008, il Fondo è alimentato: a) dalle somme riscosse in eccesso dagli agenti della riscossione, ovvero dalla restituzione dei pagamenti effettuati in eccesso dai debitori dell’obbligazione tributaria iscritti a ruolo; b) dalle somme conseguenti al recupero dell’aiuto di Stato dichiarato incompatibile dalla decisione C(2008)869 def. dell’11 marzo 2008 della Commissione che riguarda gli incentivi fiscali a favore di taluni istituti di credito oggetto di riorganizzazione societaria; c) dal 5 per cento dell'utile netto annuale delle cooperative a mutualità prevalente; d) con trasferimenti dal bilancio dello Stato; e) con versamenti a titolo spontaneo e solidale effettuati da chiunque, ivi inclusi in particolare le società e gli enti che operano nel comparto energetico. Inoltre, l’articolo 61, comma 27, del D.L. 112/2008 inserisce nel corpo dell’articolo 1 della legge finanziaria 2006, il comma 345-bis che prevede che una quota parte del Fondo alimentato dall'importo dei conti correnti e dei rapporti bancari definiti dormienti all'interno del sistema bancario nonché del comparto assicurativo e finanziario sia destinata al Fondo Carta Acquisti. Il D.L. 155/2008 inserisce nel corpo dell’articolo 1 della legge finanziaria 2006 il comma 345-undecies che versa nel Fondo speciale Carta acquisti le somme derivanti dal recupero degli aiuti di Stato di cui alla decisione della Commissione europea del 16 luglio 2008, relativa all'aiuto di Stato C42/2006 (concernente benefici a favore delle attività bancarie di Poste Italiane Spa). Successivamente l’articolo 24, comma 29, della legge 88/2009, ridetermina il Fondo, integrandolo di 6 milioni di euro per l’anno 2009 e di 15 milioni di euro a decorrere dall’anno 2010. In ultimo, le risorse del Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti, sono state nuovamente integrate, ai sensi dell’articolo 24, comma 1, della legge 99/2009, con le risorse non impegnate al termine dell'esercizio finanziario 2008 e mantenute per l’anno 2009 nella disponibilità del fondo finalizzato ad iniziative a vantaggio dei consumatori, a sua volta costituito con le somme delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ex articolo 148 della legge 388/2000. Le risorse del Fondo affluiscono in un apposito conto corrente infruttifero presso la Tesoreria centrale dello Stato.
Il Decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 ha individuato i titolari del beneficio, l’ammontare del beneficio unitario e le modalità di fruizione dello stesso, prevedendo la stipula di convenzioni tra i ministeri interessati ed il settore privato. In base a tali criteri, la Carta acquisti viene concessa, con onere a carico dello Stato, ai richiedenti residenti con cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, ovvero ai cittadini nella fascia di bisogno assoluto, di età uguale o superiore ai 65 anni o con bambini di età inferiore ai tre anni.
Per effetto delle disposizioni normative che regolano la Carta Acquisti, gli importi di reddito e l'indicatore ISEE che regolano l'accesso al contributo, per il 2013, sono perequati al tasso di inflazione ISTAT. Pertanto, a partire dall'1 gennaio 2013, il limite massimo del valore dell'indicatore ISEE e dell'importo complessivo dei redditi comunque percepiti sono così rideterminati:
La Carta, utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche, vale 40 euro al mese e viene caricata ogni due mesi con 80 euro, sulla base degli stanziamenti disponibili. L’articolo 19, comma 18, del decreto-legge 185/2008, ha inoltre riconosciuto, ai soggetti beneficiari della Carta acquisti, nel limite di spesa di 2 milioni di euro per l'anno 2009, l'accredito di un importo aggiuntivo mensile (pari a 25 euro) a titolo di concorso alle spese occorrenti per l'acquisto di latte artificiale e pannolini. In ultimo, è stato disposto, con decreto, l’accredito di un importo aggiuntivo mensile di 10 euro per i titolari della Carta Acquisti che siano utilizzatori, sul territorio nazionale, di gas naturale o GPL.
Per incrementare gli stanziamenti dedicati, il decreto-legge 98/2011 ha previsto che una quota pari al 3 per cento delle spese annue per la pubblicità dei prodotti di gioco, a carico dei concessionari relativamente al gioco del lotto, alle lotterie istantanee ed ai giochi numerici a totalizzatore, sia destinata al rifinanziamento della Carta acquisti.
Nel 2011 hanno beneficiato della carta acquisti oltre 535mila persone, per un importo complessivamente erogato pari a oltre 207 milioni di euro e 2.500 accrediti effettuati. Distinguendo la platea nelle sue due componenti di anziani (65 anni e oltre) e bambini (minori di 3 anni), nel complesso, i primi costituiscono circa il 49 per cento del totale, 419 mila soggetti a fronte di 438 mila bambini sotto i tre anni.
In ultimo, l’articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha ribadito l’avvio di una fase di sperimentazione, della durata non superiore ai dodici mesi nei comuni con più di 250.000 abitanti, sottolineando l’obiettivo di utilizzare la carta acquisti come strumento di contrasto alla povertà assoluta tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno. Per le risorse necessarie alla sperimentazione si è provveduto, nel limite massimo di 50 milioni di euro. I comuni destinatari della sperimentazione, Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Venezia, Verona, Genova, Bologna, Bari, Catania e Palermo, potranno integrare le risorse loro assegnate vincolando l’utilizzo dei propri contributi a usi specifici, da definire con apposito protocollo d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Anche i soggetti privati che effettuerano versamenti a titolo spontaneo e solidale sul Fondo potanno vincolare l’utilizzo dei propri contributi a specifici utilizzi anche a supporto della Sperimentazione.
La nuova Carta acquisti sperimentale, rispetto alla Carta ordinaria, che continuerà comunque ad operare, è pensata e rimodellata per le famiglie numerose con una situazione economica estremamente difficile (ISEE in corso di validità inferiore o uguale a 3000 euro, conclamato disagio lavorativo e minori a carico).
Le modalità attuative, fra cui la decorrenza della sperimentazione, devono essere determinate da un decreto interministeriale che definirà i criteri di identificazione, per il tramite dei Comuni, dei beneficiari della social card con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell'Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo nonché l'ammontare, in funzione del nucleo familiare, della disponibilità sulle singole carte acquisto.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha varato l'11 gennaio 2013, il Decreto Interministeriale attuativo della carta acquisti 2013, ora all'esame della Corte dei Conti, in attesa pertanto di essere pubblicato sulla G.U..
Il decreto interministeriale dopo aver ribadito i criteri di identificazione, per il tramite dei Comuni, dei beneficiari della social card, stabilisce che gli stessi comuni, responsabili della selezione dei beneficiari dovranno stilare a tal fine, entro 120 giorni dall’entrata in vigore del decreto, una graduatoria. Gli enti locali, responsabili della selezione dei beneficiari, potranno utilizzare la nuova social card integrandola con gli interventi e i servizi sociali ordinariamente erogati, coordinandola in rete con i servizi per l’impiego, i servizi sanitari e la scuola.
In attesa della riforma dell’indicatore ISEE, i requisiti concernenti la condizione economica dei nuclei familiari beneficiari prevedono fra l’altro: un ISEE, in corso di validità, inferiore o uguale a euro 3.000; per i nuclei familiari residenti in abitazione di proprietà, valore ai fini ICI della abitazione di residenza inferiore a euro 30.000; patrimonio mobiliare, come definito ai fini ISEE, inferiore a euro 8.000; valore complessivo di altri trattamenti economici, anche fiscalmente esenti, di natura previdenziale, indennitaria e assistenziale, a qualunque titolo concessi dallo Stato o da altre pubbliche amministrazioni a componenti il nucleo familiare, inferiore a 600 euro mensili. Nessun componente il nucleo familiare deve inoltre risultare in possesso di autoveicoli immatricolati nei 12 mesi antecedenti la richiesta, ovvero in possesso di autoveicoli di cilindrata superiore a 1.300 cc, nonché motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati nei tre anni antecedenti. Le famiglie beneficiarie dovranno contare almeno un componente di età minore di 18 anni e la precedenza per l'accesso al beneficio sarà assegnata, a parità di condizioni, ai nuclei in condizioni di disagio abitativo, accertato dai competenti servizi del Comune nonché alle famiglie costituite esclusivamente da genitore solo e figli minorenni, con tre o più figli minorenni o con uno o più figli minorenni con disabilità. Per quanto riguarda i requisiti concernenti la condizione lavorativa, la Carta sperimentale viene assegnata in assenza di lavoro per i componenti in età attiva del nucleo familiare o per avvenuta cessazione di un rapporto di lavoro dipendente o autonomo. Ulteriori requisiti possono essere definiti dai comuni d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il MEF.
La carta è modulata sulla base della numerosità del nucleo familiare. Il beneficio parte da un valore minimo di 231 euro al mese per nuclei con due persone, sale a 281 euro per quelli con tre persone, a 331 euro per quattro persone e a 404 euro se la famiglia ha cinque o più componenti.
Il decreto impegna i comuni a predisporre, per almeno metà e non oltre i due terzi dei nuclei familiari beneficiari, un progetto personalizzato di presa in carico, finalizzato al superamento della condizione di povertà, al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale. I comuni provvedono alla realizzazione dei progetti personalizzati con risorse proprie, nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziare disponibili a legislazione vigente e nell'ambito degli equilibri di finanza pubblica programmati. Il progetto di presa in carico è predisposto mediante la partecipazione dei componenti del nucleo familiare che lo sottoscrivono per adesione. La mancata sottoscrizione del progetto è motivo di esclusione dal beneficio.
Il Piano straordinario di interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi, approvato il 26 settembre 2007 in Conferenza Unificata, ha previsto un piano di finanziamenti, nel triennio 2007-2009, per conseguire entro il 2010 l'obiettivo comune europeo della copertura territoriale del 33 per cento per la fornitura di servizi per l’infanzia (bambini al di sotto dei tre anni), come fissato dall’Agenda di Lisbona. Il Piano, varato con la finanziaria 2007, ha previsto un finanziamento statale pari a 446 milioni di euro per l'incremento dei posti disponibili nei servizi per i bambini da zero a tre anni, a cui si sono aggiunti circa 281 milioni di cofinanziamento locale, per un totale di 727 milioni di euro stanziati. Con riferimento al Piano nidi triennale, risultano erogate il 96 per cento delle risorse statali stanziate per il Piano, ovvero 429 milioni dei 446 stanziati. L’attuazione del Piano è sottoposta a un monitoraggio semestrale a cura del Dipartimento per le politiche della famiglia e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che, attraverso il Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza e l’Istat predispongono rapporti e statistiche in materia.
Il 2 febbraio 2012 è stata sottoscritta un’Intesa in sede di Conferenza unificata sull’utilizzo di risorse da destinare al finanziamento di azioni per le politiche a favore della famiglia. I fondi, pari a 25 milioni di euro, spostati da precedenti capitoli di competenza statale del Fondo per le politiche familiari sono stati resi disponibili sui capitoli di pertinenza regionale e degli enti locali e messi a disposizione per garantire la continuità degli obiettivi di servizio relativi a: diffusione servizi per l’infanzia e presa in carico degli utenti dei servizi per l’infanzia (bambini 0-3 anni) e incremento della percentuale degli anziani beneficiari dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) dall’1,6 per cento al 3,5 per cento. Le regioni concorrono al finanziamento per quanto nelle loro disponibilità. Ai sensi dell’articolo 4 dell’Intesa, l’utilizzo delle risorse è monitorato da un Gruppo paritetico composto da rappresentanti del Dipartimento per le politiche della famiglia, MEF, regioni e PA, ANCI e UPI.
Il 19 aprile 2012 è stata sancita, in sede di Conferenza unificata, una Intesa sull’utilizzo di risorse da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e azioni in favore degli anziani e della famiglia che ha stabilito i criteri di ripartizione delle risorse disponibili a valere sui capitoli di pertinenza Politiche della famiglia del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per complessivi 45 milioni di euro, da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e ad azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’Intesa stabilisce le modalità di attuazione, i tempi di realizzazione degli interventi e il monitoraggio. Le Regioni concorreranno ai finanziamenti secondo le rispettive disponibilità. Le risorse saranno ripartite previa sottoscrizione con ogni Regione di un accordo della durata di 24 mesi con l’indicazione dei servizi socio educativi e le azioni da finanziare in favore degli anziani e della famiglia, individuate dalle Regioni in accordo con le Autonomie Locali.
Gli asili nido comunali rientrano nella gamma dei servizi a domanda individuale resi dal Comune a seguito di specifica domanda dell’utente. Nel caso degli asili nido, il livello minimo di copertura richiesta all’utente è del 50 per cento, ma le rette variano sensibilmente da comune a comune poiché la misura percentuale di copertura dei costi di tutti i servizi a domanda individuale da parte dell’utenza viene definita al momento dell’approvazione del Bilancio di previsione comunale. Le rette sono determinate nel 75 per cento dei casi in base all’Isee, nel 20 per cento dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5 per cento la retta è unica.
L’indagine dell’Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva del novembre 2012, prende in considerazione una famiglia composta da tre persone (genitori più un bambino di 0-3 anni) che percepisce un reddito lordo annuo pari a 44.200 euro. Oggetto della ricerca sono state le rette applicate al servizio di asilo nido comunale per la frequenza a tempo pieno (in media 9 ore al giorno) e, dove non presente, a tempo breve (in media 6 ore al giorno), per cinque giorni a settimana. Secondo tale analisi, una famiglia italiana spende circa 302 euro al mese per mandare il proprio bambino all’asilo nido comunale. Sebbene la spesa media annua a livello nazionale sia rimasta invariata rispetto all’anno precedente, si registrano invece numerose variazioni, in aumento ed in diminuzione, nelle varie aree territoriali del Paese. I costi medi più elevati appurati nell’anno scolastico 2011/12, si registrano nelle città settentrionali, con un aumento di oltre il 16 per cento rispetto all’anno precedente. Segue il Centro con un aumento del 6 per cento circa, mentre nelle aree meridionali si registra una diminuzione delle tariffe di oltre il 20 per cento. La regione mediamente più economica è la Calabria (114 euro) e quella più costosa è la Valle d’Aosta (413 euro) seguita dalla Lombardia (403 euro).
Per quanto riguarda le liste di attesa, dall’analisi di dati in possesso al Ministero degli Interni e relativi al 2009, emerge che il numero degli asili nido comunali ammonta a 3.424 (-0,4 per cento rispetto al 2008) con una disponibilità di 141.210 posti (+0,8 per cento rispetto al 2008). In media il 25 per cento dei richiedenti rimane in lista d’attesa.
Secondo quanto riportato dall’Istat, nell'anno scolastico 2010/2011 risultano iscritti agli asili nido comunali 157.743 bambini tra zero e due anni di età, mentre altri 43.897 bambini usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti dell'offerta pubblica complessiva.
Nel 2010 la spesa impegnata per gli asili nido da parte dei Comuni o, in alcuni casi, da altri Enti territoriali delegati dai Comuni, è di circa 1 miliardo e 227 milioni di euro, al netto delle quote pagate dalle famiglie.
Gli asili nido e gli altri servizi socio-educativi per la prima infanzia rappresentano una componente importante dell’offerta pubblica di servizi sociali per i cittadini. Infatti, i Comuni spendono per questi servizi circa il 18 per cento delle risorse dedicate al welfare locale, per un totale di circa 1 miliardo e 273 milioni di euro nel 2010 (al netto delle quote pagate dalle famiglie).
Anche i cittadini concorrono al funzionamento del servizio, sostenendo una parte dei costi. Il contributo delle famiglie, sotto forma di rette versate ai Comuni, ammonta a 275 milioni di euro. Si rilevano inoltre circa 352 mila euro come compartecipazione alla spesa da parte del Servizio Sanitario Nazionale, per un totale di circa 1 miliardo e 502 milioni di spesa impegnata a livello locale.
Fra il 2004 e il 2010 la spesa corrente per asili nido, al netto della compartecipazione pagata dagli utenti, ha mostrato un incremento complessivo del 44,3 per cento, che scende al 26,9 per cento se calcolato a prezzi costanti. Nello stesso periodo è aumentato del 38 per cento (oltre 55 mila unità) il numero di bambini iscritti agli asili nido comunali o sovvenzionati dai Comuni.
Il rapporto fra la spesa sostenuta nell’arco di un anno e il numero degli utenti al 31 dicembre dello stesso anno fornisce un’indicazione approssimativa dei costi sostenuti dagli enti pubblici e dalle famiglie per questo tipo di servizio. in media, per ciascun utente, si ottiene una spesa di 6.086 euro a carico dei comuni e di 1.362 euro da parte delle famiglie, per un totale di 7.448 euro impegnati per bambino nel 2010.
La spesa per asili nido comprende anche i contributi e le integrazioni alle rette pagati dai Comuni per gli utenti di asili nido privati, convenzionati o sovvenzionati dal settore pubblico. In questo caso la spesa media per utente è decisamente inferiore rispetto ai costi di funzionamento delle strutture comunali.
La percentuale di Comuni che offrono il servizio di asilo nido, sotto forma di strutture comunali o di trasferimenti alle famiglie che usufruiscono delle strutture private, ha registrato un progressivo incremento: dal 32,8 per cento del 2003/2004 al 47,4 per cento del 2010/2011. Di conseguenza, i bambini tra zero e due anni che vivono in un Comune che offre il servizio sono passati dal 67 per cento al 76,8 per cento (indice di copertura territoriale). E’ da sottolineare che entrambi gli indicatori mostrano una lieve riduzione nell’ultimo anno.
Nonostante il generale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003/2004 all'11,8 per cento del 2010/2011.
All'offerta tradizionale di asili nido si affiancano i servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia, che comprendono i "nidi famiglia", ovvero servizi organizzati in contesto familiare, con il contributo dei Comuni e degli enti sovracomunali. Nel 2010/2011 il 2,2 per cento dei bambini tra zero e due anni ha usufruito di tale servizio, quota che è rimasta pressoché costante nel periodo osservato. Questi servizi non sono particolarmente diffusi sul territorio nazionale, ma rappresentano una realtà significativa in alcuni contesti, come nella Provincia di Bolzano, dove si trovano i livelli più alti di utilizzo di queste strutture in termini di presa in carico degli utenti (13,4% dei bambini fra 0 e 2 anni). Per quanto riguarda la loro distribuzione territoriale, i Comuni che hanno attivato servizi integrativi si riducono drasticamente passando dal Nord-est (26,9%) alle Isole (10,7%). Complessivamente, dunque, risulta pari al 14 per cento la quota di bambini che si sono avvalsi di un servizio socio-educativo pubblico e al 55,2 per cento quella di Comuni che offrono asili nido o servizi integrativi per la prima infanzia.
A livello comunale, nonostante i segnali di miglioramento che caratterizzano la diffusione sul territorio dell’offerta pubblica di servizi per la prima infanzia, permangono forti disparità nelle opportunità di accesso ai servizi a seconda della regione di residenza.
Il Nord-est mantiene livelli superiori rispetto al resto d’Italia, con un incremento continuo dell’offerta comunale che porta l’indicatore di presa in carico al 16,8% nel 2010/2011. L’Emilia-Romagna, in particolare, conserva il primato per la diffusione degli asili nido in termini di numerosità degli utenti (pari al 25,4% dei bambini tra zero e due anni), mentre, con il Friuli-Venezia Giulia e la Valle D’Aosta, è fra le regioni in cui è maggiormente presente il servizio in termini di percentuale di comuni coperti.
Nelle regioni del Centro si è registrato un aumento considerevole dell’offerta, dovuto prevalentemente all’Umbria e al Lazio. Nel primo caso la crescita è significativamente elevata a partire dal 2008 in conseguenza del potenziamento dei contributi erogati dai comuni per l’abbattimento delle rette, consentendo alla regione di conseguire uno dei più alti indicatori di presa in carico (22,3%). Il Lazio, invece, mostra un incremento graduale negli anni osservati. In termini di bambini iscritti su 100 residenti fra zero e due anni, i comuni del centro Italia oltrepassano dal 2004/2005 la media del Nord-ovest e nel 2010/2011 raggiungono valori molto vicini alla media del Nord-est.
Permangono decisamente inferiori alla media nazionale i parametri riscontrati per le regioni del Sud e per le Isole, dove il lievissimo ma continuo incremento dell’offerta osservato a partire dal 2003/2004 sembra subire un arresto nell’ultimo anno.
Nella maggior parte delle regioni nel 2010/2011 si registra una diminuzione della quota di bambini iscritti in rapporto ai residenti (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria). La Sicilia e la Campania mostrano invece variazioni di segno positivo ma di poco rilievo, mantenendo quindi livelli di presa in carico molto contenuti (5,2% e 1,9% rispettivamente). La Sardegna, con un ulteriore incremento della presa in carico degli utenti (da 10,9% a 13,6%), si distanzia decisamente dai valori osservati nel resto del Mezzogiorno.
Dal punto di vista dell’assetto organizzativo, l’offerta degli asili nido è gestita quasi interamente dai Comuni singoli (97,7%); la gestione in forma associata fra Comuni limitrofi riguarda quindi il 2,3% della spesa impegnata complessivamente. Fra le forme associative che concorrono all’erogazione dei servizi sul territorio vi sono le Unioni di Comuni, gli Ambiti e i Distretti sociali, le Comunità montane, le ASL, i Consorzi di Comuni e altre forme associative, con modelli organizzativi variabili a livello regionale.
Rispetto al resto d’Europa, l’Italia si distingue per una serie di fattori combinati: la bassa natalità, il forte invecchiamento della popolazione, l’età più avanzata a cui si arriva al matrimonio e anche al primo figlio nonché la permanenza dei figli, già adulti, all’interno della famiglia d’origine.
Al 1° gennaio 2012, la struttura per età della popolazione italiana ci parla di un paese con un elevato livello di invecchiamento: la fascia di età compresa tra 0-14 anni è pari al 14 per cento, quella fra i 15-64 anni al 65,3 per cento, mentre la fascia di età dei 65 anni e oltre risulta pari al 20,6 per cento. I dati del 2009 e del 2010 confermano che è nuovamente in atto una fase di calo delle nascite: circa 15 mila in meno in due anni.
In base ai dati forniti dall’Istat, nel sito dedicato Disabilità in cifre , nel 2005 le persone in condizione di disabilità assistite in famiglia erano circa 2.600.000 (pari al 4,8 per cento della popolazione), cui si aggiungevano 200.000 disabili minori di 6 anni, mentre erano 192.000 i disabili o gli anziani non autosufficienti ospiti nei presidi residenziali socio-assistenziali, facendo ritenere che complessivamente in una famiglia su dieci vivesse almeno un componente con problemi di disabilità.
Secondo stime più recenti, Fondazione Cesare Serono e Censis , nel 2010, la quota di persone con disabilità sul totale della popolazione risulta pari al 6,7%: circa 4,1 milioni di persone. Applicando a questo dato il tasso di crescita della popolazione disabile previsto dall’Istat, si prevede che nel 2020 le persone disabili arrivino a 4,8 milioni (7,9% della popolazione), e che il numero raggiunga i 6,7 milioni nel 2040 (10,7%).
Se si considera la correlazione fra invecchiamento e non autosufficienza, l’Indagine Istat del 2005, Condizione di salute e ricorso ai servizi sanitari , ha poi rilevato che il 18,5% degli ultra 65enni (2,1 milioni di persone) riporta una condizione di totale mancanza di autosufficienza per almeno una delle funzioni essenziali della vita quotidiana.
Per arrivare a rilevazioni più recenti, può essere utile riferirsi all’indagine Istat Inclusione sociale delle persone con limitazioni dell’autonomia personale del dicembre 2012. Lo studio rileva che nel 2011 circa 4 milioni di persone di 11-87 riferiscono difficoltà nelle funzioni motorie, sensoriali o nelle attività essenziali della vita quotidiana. La maggior parte di esse riferisce di avere limitazioni gravi (52,7%), ovvero il massimo grado di difficoltà, in almeno una delle funzioni della mobilità e della locomozione legate agli atti necessari a determinare un autonomo svolgimento della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, spogliarsi, mangiare, ecc) o della comunicazione (vedere, sentire, parlare). Oltre la metà (51,5%) ha più di 75 anni.
Attualmente, la spesa pubblica rivolta agli anziani e ai disabili non autosufficienti, nota anche come spesa per Long Term Care (LTC), include la componente sanitaria, la spesa per indennità di accompagnamento e la spesa per gli interventi socio-assistenzialierogati prevalentemente in natura a livello locale dai comuni singoli o associati a favore degli anziani non autosufficienti, dei disabili, dei malati psichici e delle persone dipendenti da alcool e droghe.
Nel 2011, la spesa pubblica complessiva per LTC ammonta all’1,8per cento del PIL, di cui circa due terzi erogata a soggetti con più di 65 anni. In termini relativi, la componente sanitaria della spesa totale per LTC rappresenta il 46 per cento del totale contro quasi il 43 per cento della spesa per indennità di accompagnamento. Le altre prestazioni assistenziali coprono, invece, circa il 11 per cento.
Nelle previsioni di medio lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, la Ragioneria generale dello Stato fornisce indicazioni circa il volume della spesa dedicata alla componente sanitaria della spesa per LTC comprendente l’insieme delle prestazioni sanitarie erogate a persone non autosufficienti che, per senescenza, malattia cronica o limitazione mentale, necessitano di assistenza continuativa. La componente sanitaria della spesa pubblica per LTC dell’anno 2011 è pari allo 0,85% del PIL, che corrisponde a circa il 12% della spesa sanitaria complessiva.
La Ragioneria generale evidenzia come nei modelli previsionali la componente demografica costituisca un fattore di forte espansione del rapporto fra spesa sanitaria per LTC e PIL. L’invecchiamento della popolazione, ed il conseguente aumento degli anziani, si traduce infatti in un maggior consumo di prestazioni riconducibili all’aggregato LTC.
La componente sanitaria della spesa per LTC comprende l’insieme delle prestazioni sanitarie erogate a persone non autosufficienti che, per senescenza, malattia cronica o limitazione mentale, necessitano di assistenza continuativa. In Italia, tale componente include, oltre all’assistenza territoriale rivolta agli anziani e ai disabili (disarticolata in assistenza ambulatoriale e domiciliare, assistenza semi-residenziale ed assistenza residenziale), l’assistenza psichiatrica, l’assistenza rivolta agli alcolisti e ai tossicodipendenti e l’assistenza ospedaliera erogata in regime di lungodegenza.
Oltre alla spesa per la componente sanitaria, viene considerata la spesa per un insieme di prestazioni eterogenee accomunate solo sotto il profilo della finalità perseguita. Una misura della dimensione di tale componente di spesa, indicata come altre prestazioni LTC, può essere dedotta dai conti della protezione sociale della contabilità nazionale. In particolare, le principali poste contabili attribuibili a queste prestazioni si collocano nella funzione “Assistenza” in corrispondenza dei due eventi/bisogni “Invalidità” e “Vecchiaia”.
Le prestazioni in natura erogate prevalentemente in natura a livello locale dai comuni singoli o associati a favore degli anziani non autosufficienti, dei disabili, dei malati psichici e delle persone dipendenti da alcool e droghe possono essere di tipo residenziale o semiresidenziale. Le prime vengono erogate in istituti quali le residenze socio sanitarie per anziani o le comunità socio-riabilitative, le seconde si riferiscono alle prestazioni erogate in strutture semiresidenziali come i centri diurni e i centri di aggregazione o direttamente presso l’abitazione dell’assistito (assistenza domiciliare).
Per il 2011, la spesa pubblica relativa all’insieme delle prestazioni per LTC, di natura non sanitaria e non riconducibili alle indennità di accompagnamento, viene stimata intorno a 3,3 miliardi di euro (0,2 per cento in termini di PIL), di cui il 60 per cento è riferibile a prestazioni di natura non-residenziale, il 23 per cento a prestazioni di natura residenziale ed il rimanente 17 per cento a trasferimenti in denaro.
I trasferimenti in denaro possono essere sia i contributi economici erogati direttamente agli utenti, sia i contributi erogati ad altri soggetti perché forniscano servizi con agevolazioni sui ticket, sulle tariffe o sulle rette a particolari categorie di utenti. Rientra in questa sezione anche l’integrazione (o il pagamento per intero) delle rette per prestazioni residenziali o semiresidenziali in strutture di cui il comune non sia titolare. Pertanto sono una quota, peraltro residuale, dei trasferimenti in denaro corrisponde a prestazioni sociali in denaro, in quanto la parte preponderante afferisce a prestazioni sociali in natura.
La carenza di servizi pubblici rivolti agli anziani fragili ha molto spesso determinato l’assegnazione alle famiglie del carico assistenziale e di cura necessario per la sopravvivenza dell’anziano non autosufficiente. Sono ancora le donne, nonostante molte di loro lavorino, ad assumersi la responsabilità di provvedere a tutte le funzioni necessarie per il soddisfacimento dei bisogni primari (igiene personale, alimentazione, sostegno nel movimento) del parente od affine spesso nemmeno convivente. Il Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno sottolinea come “un sistema di welfare basato prevalentemente sulle reti familiari, sull’aiuto tra generazioni di madri e figlie, e sul lavoro gratuito delle donne, che supplisce alle debolezze del welfare pubblico, sia nel lungo periodo improponibile”.
Il quadro demografico evidenzia pertanto la necessità di porre particolare attenzione alle politiche dedicate alla non autosufficienza, sia sotto il profilo sanitario che dell’integrazione sociosanitaria e prettamente sociale.
Lâ€articolo 22, comma 2, della legge quadro 328/2000 di riforma del sistema integrato di servizi ed interventi sociali indica gli interventi che costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale. Ferme restando le competenze del SSN in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, per la non autosufficienza vengono indicate: misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio e interventi per favorire la permanenza a domicilio o, per coloro che non siano assistibili a domicilio, interventi per l'inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l'accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali. In relazione a quanto indicato, le leggi regionali hanno previsto per ogni ambito territoriale l'erogazione delle prestazioni riferibili all’assistenza domiciliare e alle strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti fragili.
Per un analisi più puntuale delle varie componenti della rete di servizi per l'autosufficienza si rinvia all'Indagine pilota sull’offerta dei servizi sociali per la non autosufficienza.
Il Rapporto annuale Istat 2012, ci fornisce una fotografia puntuale dell’assistenza domiciliare integrata (Adi), ovvero della presa in carico di pazienti a domicilio per prestazioni di medicina generale, di medicina specialistica, per prestazioni infermieristiche e riabilitative, ma anche per prestazioni di assistenza sociale. Le cure domiciliari sono particolarmente utilizzate e considerate efficaci in persone compromesse nel grado di autonomia per malattia o disabilità: i pazienti post-acuti dimessi dall’ospedale che corrono rischi elevati di una nuova ospedalizzazione, i pazienti cronici, i pazienti oncologici, gli adulti affetti da gravi patologie e, naturalmente, gli anziani. Gli anziani sono la tipologia numericamente più consistente di pazienti in carico, considerato che da studi longitudinali è emerso che il 75% dei pazienti è di età superiore ai 74 anni. D’altra parte, il numero di anziani trattati per 100 residenti di 65 anni e oltre è andato fortemente aumentando nel tempo, passando da 2,0 nel 2001 a 4,1 nel 2010.
Le prestazioni residenziali sono individuate dal D.P.C.M. 14 febbraio 2001, atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie, e dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 di determinazione dei Livelli essenziali di assistenza, che nell’allegato 1.C evidenzia, per le singole tipologie erogative di carattere socio sanitario, accanto al richiamo alle prestazioni sanitarie anche quelle sanitarie di rilevanza sociale ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo a carico del SSN non inferiore al 50% del costo globale della prestazione. La restante quota rimane a carico dell'utente o del Comune.
La recente indagine dell’Istat sui Presidi socio-assistenziali e socio sanitari fotografa la situazione italiana nel 2010. A quella data, i presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari sono 12.808, per complessivi 424.705 posti letto (7 ogni 1.000 persone residenti). La componente prevalente dell'offerta residenziale è rappresentata da "unità di servizio" che svolgono una funzione di tipo socio-sanitario e sono destinate ad accogliere prevalentemente anziani non autosufficienti, che occupano oltre i due terzi dei posti letto (72%). La restante quota dell'offerta è di tipo socio-assistenziale.
Come avviene per i servizi socio-educativi, si riscontrano forti differenze nella diffusione territoriale, con le regioni del Nord in cui si colloca il 66% dei posti letto complessivi, con un tasso di 10 posti letto ogni 1.000 residenti; e il Sud dove la quota di offerta è pari a 3 posti letto ogni mille residenti.
Nei presidi residenziali sono assistite 394.374 persone: circa 295 mila sono anziani con almeno 65 anni (il 75%), poco più di 80 mila sono adulti tra i 18 e i 64 anni (20%) e circa 19 mila sono minori con meno di 18 anni (5%).
Gli anziani hanno, nella metà dei casi, oltre 85 anni, mentre il 74% degli ospiti anziani risulta in condizioni di non autosufficienza. Molto sbilanciato il rapporto tra generi: su circa 295 mila anziani ospiti dei presidi residenziali, oltre 220 mila sono donne.
Nel 70% dei casi i titolari di queste strutture residenziali sono enti privati. In oltre i due terzi delle residenze sono gli stessi titolari a gestire direttamente il presidio. I titolari pubblici che non gestiscono direttamente le strutture si affidano più frequentemente ad altre istituzioni pubbliche nel Nord (53% dei casi), mentre nel Centro e nel Mezzogiorno affidano la gestione più spesso al settore privato (rispettivamente nel 54% e nell'83% dei casi).
Nel 2009 i Comuni italiani, in forma singola o associata, hanno destinato agli interventi e ai servizi sociali 7,2 miliardi di euro, un valore pari allo 0,46 per cento del Pil nazionale.
Il seguente paragrafo è una sintesi del Capitolo 4.3.2 del Rapporto annuale 2012 dell’Istat , dedicato agli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati nel 2009. La spesa per gli interventi e per i servizi sociali offerti dai Comuni singolarmente o in forma associata, viene calcolata al netto delle quote pagate dagli utenti per i servizi fruiti e della quota, erogata dal Servizio Sanitario Nazionale, per la componente sanitaria dell’assistenza fornita dai Comuni. Per ottenere l’ammontare complessivo della spesa corrente a livello locale per il funzionamento della rete territoriale dei servizi, si devono quindi sommare ai 7,2 miliardi di euro a carico dei Comuni (o degli enti gestori da loro delegati), le spese a carico degli utenti e le quote di compartecipazione pagate dall’SSN.
Rispetto al 2008, la spesa è aumentata del 5,1 per cento, ma con forte differenze nelle macro aeree del Paese: è diminuita dell’1,5 per cento al sud, mentre le variazioni in tutte le altre zone del paese sono state di segno positivo (6,0 per cento nel Nord-est, 4,2 per cento nel Nord-ovest e 5,0 per cento al Centro). Inoltre, mentre i comuni del Centro-Nord finanziano le politiche sociali principalmente con risorse proprie, nel Mezzogiorno il welfare locale risulta finanziato in misura maggiore dai trasferimenti statali e regionali per le politiche sociali.
La spesa media pro capite ammonta a 116 euro con forti differenze territoriali. La spesa per abitante varia da un minimo di 26 euro in Calabria (30 euro nel 2008) a un massimo di 295 euro nella provincia autonoma di Trento (280 euro nel 2008). Nel corso del 2009 i comuni del Sud hanno speso mediamente, per i servizi sociali, meno di un terzo di quanto hanno speso i comuni del Nord-est e meno della metà rispetto a tutte le altre ripartizioni, comprese le Isole. La Sardegna è l’unica regione del Mezzogiorno che fa eccezione, presentando livelli di spesa pro capite (199 euro) paragonabili a quelli delle regioni del Nord con spesa più elevata.
Come già detto, i Comuni possono rispondere in maniera molto diversa ai bisogni sociali dei cittadini. L’Istat , tenendo conto dei livelli di spesa e della varietà dei servizi, ha individuato quattro profili principali rispetto alle modalità di spesa ed intervento:
Le differenze di spesa osservate sono marcate anche in riferimento ai tipi di utenza.
Un disabile usufruisce di servizi e contributi da parte dei comuni per una spesa annuale di quasi 2.700 euro; con un minimo per i disabili residenti al Sud di 667 euro l’anno; circa otto volte meno di quanto si spende al Nord-est (5.438 euro l’anno). Nell’ambito dell’assistenza ai disabili prevalgonole spese per interventi e servizi (circa il 51 per cento): in questo caso, la principale voce di spesa è il sostegno socio-educativo scolastico, con oltre 5.300 euro per utente in un anno; seguono i servizi a carattere domiciliare e il trasporto sociale. La rimanente spesa per le persone disabili si divide quasi equamente tra contributi economici e spese di funzionamento delle strutture. L’offerta di strutture di tipo residenziale per persone con disabilità è presente nel 58 per cento dei comuni, con una copertura del 97 per cento nel Nord-est a fronte del 14 per cento nel Sud. La spesa pro capite per l’assistenza e gli aiuti alle persone con disabilità al Sud ammonta al 14 per cento di quella impegnata al Nord, nonostante che nelle regioni meridionali si registri un tasso di disabilità superiore del 66 per cento.
La spesa media dei comuni italiani per l’assistenza agli anziani è di 117 euro l’anno per ciascun residente di età superiore a 65 anni, con un minimo di 52 euro pro capite al sud (sette euro pro capite in meno rispetto al 2008) e un massimo di 164 euro al Nord-est. Le risorse destinate agli anziani sono in gran parte destinate a interventi e servizi (circa il 52 per cento), il più rilevante dei quali è l’assistenza domiciliare. Vi sono poi diversi tipi di contributi economici (pari al 27 per cento della spesa per gli anziani), la maggior parte dei quali riferibile al pagamento di rette per l’accoglienza in strutture residenziali. Il rimanente 20 per cento della spesa per gli anziani è destinato al finanziamento di strutture, principalmente a carattere residenziale. Anche in questo caso la spesa pro capite al sud è più bassa di quella del nord (meno di un terzo), pur a fronte di un maggior numero di anziani in cattiva salute e una speranza di vita più bassa.
Nell’area dell’assistenza a famiglie e minori, su cui confluisce quasi il 40 per cento della spesa sociale dei comuni, prevalgono le risorse destinate al funzionamento di strutture, principalmente gli asili nido per bambini da zero a due anni. Negli ultimi anni l’ampliamento dell’offerta di nidi pubblici è stata oggetto di importanti politiche di sviluppo volte a incentivare la creazione di nuovi posti in strutture socio-educative per la prima infanzia nelle regioni del mezzogiorno, tradizionalmente e fortemente svantaggiate dal punto di vista della diffusione territoriale dei servizi.
Come sottolineato dal Rapporto annuale Istat per il 2012, negli anni della recente crisi, permane e si aggrava il forte differenziale Nord-Sud. Nel Mezzogiorno, le opportunità lavorative per le donne e i giovani sono minori e forti differenziali si rilevano anche nella dotazione dei servizi sociali erogati dai comuni, quali gli asili nido e l’assistenza fornita ai non autosufficienti.
In tale contesto, si è ritenuto che la politica regionale di sviluppo, a cui fa riferimento il Quadro Strategico Nazionale (QSN), previsto formalmente dall’art. 27 del Regolamento Generale sui Fondi strutturali europei, possa dare un forte contributo alla riduzione della persistente sottoutilizzazione di risorse del Mezzogiorno.
La politica regionale di sviluppo è specificatamente diretta a garantire che gli obiettivi di competitività siano raggiunti da tutti i territori regionali, anche e soprattutto da quelli che presentano squilibri economico-sociali ed è cofinanziata da fondi, comunitari e nazionali, provenienti, rispettivamente, dal bilancio europeo per la politica di coesione (Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR), Fondo sociale europeo (FSE) e Fondo di coesione) e nazionali (Fondo per le aree sottoutilizzate. ora sostituito dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC) ).
Nel corso del 2011 è stata avviata, di intesa con la Commissione Europea, l'azione per accelerare l'attuazione dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013. Dopo la prima fase, varata il 15 dicembre 2011, relativa ai fondi gestiti dalle Regioni (3,7 miliardi di riprogrammazione a favore di istruzione, ferrovie, formazione, agenda digitale e occupazione di lavoratori svantaggiati), è stata predisposta la Fase II che ha impegnato le amministrazioni centrali e locali a rilanciare i programmi in grave ritardo, garantendo una forte concentrazione delle risorse su alcune priorità. In totale, le risorse impegnate, già iscritte in bilancio, sono pari a 2,3 miliardi di euro. La riprogrammazione ha riguardato primariamente quattro Regioni Convergenza (Calabria, Campania, Sicilia, Puglia), per le quali il Quadro Strategico nazionale 2007-2013 prevede Programmi operativi nazionali e interregionali.
La riprogrammazione dei fondi comunitari ha previsto il definanziamento degli interventi con criticità di attuazione e il finanziamento di interventi rivolti all'inclusione sociale e alla crescita, rispondendo in tal senso anche agli impegni contenuti nelle Mozioni concernenti iniziative per favorire gli interventi produttivi e l'occupazione nel mezzogiorno approvate a larga maggioranza dalla Camera dei Deputati il 28 marzo 2012.
La riallocazione delle risorse si è fra l’altro concentrata sulla cura dell’infanzia (400 milioni) e degli anziani non autosufficienti (330 milioni). L’intervento intende ampliare l’offerta della rete dei servizi e degli interventi sociali nel sud del paese, migliorando al contempo la qualità di quelli già presenti. Il programma è stato costruito sulla base di metodi, requisiti e filiere di attuazione (con un ruolo centrale degli enti locali, nonché del privato sociale e del privato) già sperimentati ed è coerente con gli indirizzi nazionali nei campi sanitario e sociale. Obiettivi e risultati sono misurati dagli obiettivi del QSN 2007-2013, che, per quanto riguarda i servizi di cura per l’infanzia e gli anziani, indicano come obiettivo prioritario l’aumento del numero dei servizi di cura alla persona, l’alleggerimento dei carichi familiari e la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Per i giovani sono previsti una serie di interventi combinati. Per l’inclusione sociale si è scelto di intervenire con azioni per la legalità in aree a elevata dispersione scolastica (77 milioni di euro) e con progetti promossi da giovani del privato sociale per l’offerta di servizi collettivi e la valorizzazione di beni pubblici (37,6 milioni). Per la crescita sono stati destinati 50 milioni di euro all’autoimpiego e auto imprenditorialità, ulteriori 50 milioni per l’apprendistato e 5,3 milioni di euro per la promozione di metodi applicati di studio/ricerca nelle Università attraverso ricercatori italiani all’estero.
La terza e ultima fase di riprogrammazione, pari a 5,7 miliardi di euro, riguarda, per l’area Convergenza, i Programmi regionali di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Mentre nella prima e seconda riprogrammazione si sono privilegiati obiettivi di riequilibrio strutturale (scuola, reti ferroviarie e digitali, servizi di cura, etc.), nella terza si è posta l’attenzione, su sollecitazione delle parti economiche e sociali, a misure anticicliche e misure rivolte alla salvaguardia di singoli progetti in ritardo, ma meritevoli di finanziamento. Agli interventi indirizzati all’aiuto alle persone con elevato disagio sociale sono stati destinati 143,7 milioni di euro. L’intervento originario, proposto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, intendeva estendere a tutte le Regioni Convergenza la sperimentazione della nuova social card . Solo la Regione Siciliana ha deciso di utilizzare questo strumento; la Calabria rifinanzierà i bandi per case accessibili, centri antiviolenza, centri accoglienza immigrati; la Campania e la Puglia invece sosterranno le persone con elevato disagio sociale attraverso l’erogazione di voucher per l’acquisto di servizi di conciliazione vita-lavoro (prima infanzia e non autosufficienze).
L’accordo politico raggiunto nel febbraio 2013 dal Consiglio europeo in merito al Bilancio (Quadro Finanziario Pluriennale) europeo 2014-2020 offre una prima base di riferimento finanziaria per avviare la programmazione dei fondi per la politica di coesione per l’Italia. L’utilizzo dei Fondi comunitari per la coesione e del relativo cofinanziamento nazionale avverrà sulla base di un “Accordo di partenariato” e di Programmi operativi da concordare con la Commissione Europea. Il 27 dicembre 2012 il Ministro per la Coesione Territoriale, d’intesa con i Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha presentato il documento Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2012-2020 che intende avviare il confronto pubblico per preparare l’Accordo e i Programmi, secondo la proposta di percorso trasmessa alla Conferenza Stato Regioni nel giugno 2012. Il testo illustra le 7 innovazioni relative al metodo di valutazione pubblica aperta, le 3 opzioni strategiche su Mezzogiorno, città e aree interne, oltre a proposte di metodo per ognuna delle 11 aree tematiche europee.
La parte del documento dedicata all'Inclusione sociale e lotta alla povertà propone le seguenti azioni per promuovere l'inclusione sociale e combattere la povertà:
Per promuovere servizi integrati a sostegno dei senza dimora si propone:
Per il potenziamento del sistema informativo delle prestazioni sociali, ritenuto di grande importanza per la mappatura e il futuro sviluppo dei servizi sociali, si prevede:
Per promuovere l’economia sociale e le imprese sociali si intende proseguire quanto già sperimentato con il Piano di Azione Coesione attraverso:
Per promuovere l’economia sociale e il terzo settore si propone:
Il documento ricorda inoltre come le persone a rischio di povertà, la proporzione di persone in situazione di grave deprivazione materiale e di quelle che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa siano drammaticamente aumentate in questi anni di severa crisi economica. Il Rapporto Caritas 2012 su povertà ed esclusione sociale in Italia fotografa l’estensione dei fenomeni di impoverimento ad ampi settori di popolazione, non sempre coincidenti con i poveri del passato. Nell'ottobre 2012, l'Istat ha stimato in 47.648 le persone senza dimora che nei mesi di novembre-dicembre 2011 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l'indagine Le persone senza dimora.
In tale panormana, il Regolamento 121/2012 ha ribadito l'importanza della fornitura di beni alimentari alle fasce di popolazione indigente da realizzarsi nel territorio dell'Unione. In Italia, l'articolo 58 del decreto legge 83/2012 ha istituito, presso l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, il Fondo per la distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti, alimentato da risorse pubbliche e private, mediante erogazioni liberali e donazioni. Il decreto 17 dicembre 2012 ha reso attuative tali disposizioni. A tal fine ha disposto il potenziamento del sistema di aiuti alimentari, incrementando i volumi e le tipologie di derrate alimentari già oggi rese disponibili per il tramite delle Organizzazioni caritatevoli e non profit. Per ottimizzare il cordinamento tra i soggetti coinvolti, è stato istituito, presso il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, un Tavolo permanente di coordinamento tra Istituzioni, Organizzazioni caritatevoli e operatori della filiera agroalimentare. Per rendere più funzionale la distribuzione delle derrate, è stato anche istituito un sistema informativo e un sistema di riconoscimento per i soggetti donatori.
Nel corso della XVI Legislatura si è registrata una diminuzione degli stanziamenti dedicati alle politiche familiari, con conseguente contrazione delle risorse dedicate al sostegno dell'infanzia e della non autosufficienza. Nel giugno 2012 è stato approvato il primo Piano nazionale per le politiche familiari che ha delineato una serie di azioni ed interventi da attuarsi all'interno dei piani e programmi regionali e locali per la famiglia, secondo le risorse disponibili. Fra le misure previste dal Piano anche la revisione dell'Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE), che, l'articolo 5 del D.L. 201/2011 (c.d. Salva Italia) ha demandato ad un regolamento governativo. Per fronteggiare la severa crisi economica, il D.L. 112/2008, ha istituito la Carta acquisti che prevede benefici destinati ai nuclei familiari in difficoltà. Successivamente è stata prevista una fase sperimentale della Carta, anche al fine di valutarne l'uso come strumento di contrasto alla povertà assoluta
Il decreto-legge 85/2008 ha confermato l’attribuzione al Presidente del Consiglio dei ministri delle funzioni di indirizzo e coordinamento in materia di politiche a favore della famiglia, di interventi per il sostegno della maternità e della paternità, di conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura, nonché delle funzioni di indirizzo e coordinamento concernenti l'Osservatorio nazionale sulla famiglia. Nel 2009 è stato istituito il Dipartimento per le politiche della famiglia, i cui compiti sono stati ulteriormente definiti nel 2011. La Presidenza del Consiglio gestisce altresì le risorse dedicate, concentrate nel Fondo politiche per la famiglia. In ultimo, il D.P.C.M. 13 dicembre 2011 ha affidato al Ministro per la Cooperazione internazionale e l'integrazione le deleghe sulle politiche giovanili, sulle politiche per la famiglia, sulle adozioni di minori italiani e stranieri, sull'Osservatorio nazionale sulla famiglia, sull'Osservatorio nazionale sull'infanzia e l'adolescenza, sul servizio civile e sull'ufficio nazionale antidiscriminazione.
Il Piano, previsto dall'articolo 1, comma 1251, della legge finanziaria 2007 (legge 296/2006), è stato approvato per la prima volta il 7 giugno 2012. Per quanto riguarda le priorità, il Piano Nazionale di politiche familiari, individua tre aree di intervento urgente: le famiglie con minori, in particolare le famiglie numerose; le famiglie con disabili o anziani non autosufficienti; le famiglie con disagi conclamati sia nella coppia, sia nelle relazioni genitori-figli, e bisognose di sostegni urgenti. Le azioni previste, fra cui si ricordano la revisione dell'ISEE, il potenziamento dei servizi per la prima infanzia, dei congedi e dei tempi di cura nonché interventi sulla disabilità e non autosufficienza, saranno adottate all'interno dei piani e programmi regionali e locali per la famiglia, secondo le risorse disponibili. Non vengono infatti finalizzati finanziamenti specifici alla realizzazione delle azioni previste.
Il Fondo istituito ai sensi dell'art. 19, comma 1, del decreto-legge 223/2006, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato ridisciplinato dalla legge 296/2006. Il Fondo può essere ricompreso a tutti gli effetti fra i Fondi dedicati alle politiche sociali. Nel 2010, le risorse del Fondo erano pari a circa 185 milioni di euro. Dal 2011 il Fondo ha subito un forte ridimensionamento, legato, secondo quanto affermato dal MEF, alla necessità di alimentare il costituendo Fondo per il federalismo, con conseguente azzeramento dei trasferimenti di risorse al sistema delle autonomie. Per il 2011, la dotazione iniziale di 52,5 milioni di euro è stata ritoccata in diminuzione in più occasioni, determinando una consistenza effettiva del Fondo pari a circa 25 milioni di euro. Tali risorse non sono state ripartite con decreto. Al contrario, nel 2012, l'importo del Fondo, pari a circa 32 milioni di euro, è stato incrementato, arrivando a 70 milioni di euro. Come rinvenibile nella legge di bilancio 2013 (legge 229/2012), le risorse allocate nel Fondo per le politiche della Famiglia per il 2013 hanno una dotazione pari a 21 mln euro, per il 2014 a 22,9 mln euro e per il 2015 a 22,6 mln euro.
Il decreto legge n. 185/2008, articolo 4, comma 1 e 1-bis, ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Fondo di credito per i nuovi nati, finalizzato al rilascio di garanzie dirette, anche fidejussorie, alle banche ed agli intermediari finanziari. L'art. 12 della L. 183/2011 (legge di stabilità 2012) lo ha rinnovato fino al 2014. Il Fondo garantisce, per il 50 per cento dell'importo, prestiti fino a 5.000 euro, con tasso fisso agevolato, a famiglie nelle quali sia nato o sia stato adottato un bambino. La dotazione iniziale del Fondo, pari a 75 milioni, nel 2009 è stata integrata di 10 milioni di euro per la corresponsione di contributi in conto interessi in favore delle famiglie di nuovi nati, o con bambini adottati, portatori di malattie rare.
Il Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto per la prima casa, istituito ai sensi dell’art. 2, comma 475 e seguenti, della legge finanziaria 2008 (L. 244/2007) è stato rifinanziato di 10 milioni per gli anni 2012 e 2013 dall'art. 13, comma 20, del D.L. 201/2011. La misura è rivolta a famiglie con un mutuo non superiore a 250.000 euro e con un indicatore ISEE inferiore a 30.000 euro. Fra le agevolazioni previste, la sospensione del pagamento delle rate.
La Carta acquisti (per la cui analisi puntuale si rinvia alla scheda dedicata ai I Fondi per le politiche sociali), istituita dal decreto legge 112/2008, ha previsto agevolazioni per le spese essenziali per i residenti con cittadinanza italiana i nella fascia di bisogno assoluto di età uguale o superiore ai 65 anni o con bambini di età inferiore ai tre anni. La Carta è utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche e vale 40 euro al mese.
La XVI Legislatura è coincisa con anni di severa crisi economica, in cui la proporzione di persone a rischio di povertà e in situazione di grave deprivazione materiale, e di coloro che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa, è drammaticamente aumentata. Il Rapporto Caritas 2012 su povertà ed esclusione sociale in Italia fotografa l’estensione dei fenomeni di impoverimento ad ampi settori di popolazione, non sempre coincidenti con i poveri del passato. Nell'ottobre 2012, l'Istat ha stimato in 47.648 le persone senza dimora che nei mesi di novembre-dicembre 2011 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l'indagine Le persone senza dimora. Conseguentemente, l'articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha configurato una nuova carta acquisti prevedendo una sperimentazione, di durata non superiore ai dodici mesi e nei comuni con più di 250.000 abitanti, per favorirne la diffusione tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno, anche al fine di valutarne l’uso come strumento di contrasto alla povertà assoluta. Per le risorse necessarie alla sperimentazione si è provveduto, nel limite massimo di 50 milioni di euro. Le modalità attuative, sono determinate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. Il decreto, varato l'11 gennaio 2013 e in attesa di pubblicazione sulla G.U., identifica fra l'altro i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari, per il tramite dei Comuni, con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell'Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e l'ammontare della disponibilità sulle singole carte acquisto, in funzione del nucleo familiare.
Come previsto dalla Legge quadro sull’assistenza (legge 328/2000), ai comuni compete la gestione degli interventi e dei servizi sociali, la cui programmazione è in capo alle regioni. Molti degli interventi dedicati alla non autosufficienza e allo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi sono infatti gestiti dagli enti locali, che impegnano, nell'area dedicata all'assistenza alle famiglie e ai minori, quasi il 40 per cento della spesa sociale.
L'erogazione di molti degli interventi e servizi sociali è legata, nella misura o nel costo, alla situazioni economica dei richiedenti, ponderata attraverso l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE). L’articolo 5 del D.L. 201/2011 (c.d. Salva Italia) ha demandato ad un D.P.C.M., proposto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’ISEE. Il decreto dovrà inoltre individuare le agevolazioni fiscali e tariffarie, nonché le provvidenze di natura assistenziale che non potranno essere più riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia individuata dallo stesso decreto. Nel corso del 2012, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha elaborato lo schema di D.P.C.M. contenente la revisione dell'indicatore. In seguito alla pronunzia 297/2012 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevedeva un intesa in sede di Conferenza Unificata, la disposizione è stata rinviata all'esame della stessa Conferenza, dove si è registrata la mancata Intesa. Il Governo ha pertanto ritenuto di non procedere all'approvazione del decreto, lasciando il compito della revisione dell'ISEE al prossimo esecutivo.
La normativa in materia di conciliazione è recata dalla legge 53/2000 che, oltre a introdurre i congedi parentali, favorendo un maggior coinvolgimento dei padri nella cura dei figli, ha focalizzato l'attenzione delle regioni e degli enti locali sull'importanza di riorganizzare i tempi delle città. L'articolo 9 della legge, che promuove la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione sul luogo di lavoro, è stato in ultimo modificato dall'articolo 38 della legge 69/2009, che ha ampliato la platea dei potenziali beneficiari ed aggiornato il novero degli interventi finanziabili, rendendo necessaria la stesura di un nuovo regolamento di attuazione.
L’articolo 4, commi 24-26, della legge di riforma del mercato del lavoro (L. 92/2012) ha previsto misure sperimentali, per gli anni 2013-2015, in materia di maternità e paternità. Entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, i padri lavoratori dipendenti potranno godere di un giorno di astensione obbligatoria e di ulteriori due giorni di congedi facoltativi. La madre lavoratrice invece potrà utilizzare, in alternativa al congedo parentale, voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting o un contributo per fare fronte agli oneri della rete pubblica o privata dei servizi per l'infanzia. Il decreto 22 dicembre 2012 ha stabilito la misura del beneficio per le madri lavoratrici in 300 euro mensili, per un massimo di sei mesi. I benefici sono riconosciuti nel limite di 20 milioni di euro annui per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015, a carico del Fondo per il finanziamento di interventi a favore dell'incremento in termini quantitativi e qualitativi dell'occupazione giovanile e delle donne (al proposito si rinvia al tema politiche giovanili).Per accedere al beneficio, la madre lavoratrice dovrà presentare domanda tramite i canali telematici e secondo le modalità stabilite in tempo utile dall'I.N.P.S. Il beneficio è riconosciuto nei limiti delle risorse annuali indicate. Per i dipendenti della pubblica amministrazione, l'applicazione delle disposizioni è subordinata all'approvazione di apposita normativa del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione.
L’articolo 8, comma 2, del decreto legge 39/2009 ha previsto, a valere sulle risorse per il 2009 del Fondo per le politiche della famiglia, nei limiti di una spesa pari a 12 milioni di euro, l'adozione di interventi per la costruzione e l'attivazione di servizi socio-educativi per la prima infanzia, la costruzione e l'attivazione di residenze per anziani, la costruzione e l'attivazione di residenze per "nuclei monoparentali madre bambino".
Il decreto legge 185/2008 (art. 1) ha previsto, solo per l’anno 2009, un bonus straordinario in favore dei nuclei familiari che, nel 2008, hanno realizzato un basso reddito. L’ammontare del bonus è fissato per scaglioni di reddito e in base alla numerosità del nucleo familiare, e varia da un minimo di 200 euro ad un massimo di 1.000 euro.
Il bonus straordinario in favore dei nuclei familiari
Interventi per le famiglie colpite dal sisma della regione Abruzzo
La Carta acquisti
Le competenze istituzionali
Famiglie
Infanzia ed adolescenza
Non autosufficienza
In tema di politiche giovanili vanno ricordate le specifiche norme sulle competenze istituzionali nonché sui fondi e le risorse stanziate in tale ambito.
A seguito del riordino di competenze istituzionali, operato dal decreto legge 85/2008, sono state attribuite al Presidente del Consiglio dei Ministri le funzioni di indirizzo e coordinamento in materia. Con il D.P.C.M. 13 giugno 2008 sono state conferite al Ministro della gioventù le deleghe ad esercitare le funzioni e i compiti, ivi compresi quelli di indirizzo e coordinamento, di tutte le iniziative, anche normative, nelle materie concernenti le politiche giovanili. Successivamente, il D.P.C.M. 13 dicembre 2011 ha attribuito al Ministro per la cooperazione internazionale e l'integrazione la delega di funzioni in materia di politiche giovanili e servizio civile.
Si ricordano una serie di istituti ed organismi finalizzati a svolgere un'azione di sostegno in favore dei giovani.
Gli stanziamenti finalizzati alle politiche di incentivazione e sostegno alla gioventù hanno registrato nell’ultimo quinquennio una notevole contrazione (per una analisi puntuale dei Fondi dedicati alle politiche sociali si rinvia alla scheda dedicata). Di seguito elenchiamo i fondi esistenti:
Infine, l'articolo 24, comma 27, del decreto-legge 201/2011, ha istituito, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’incremento in termini quantitativi e qualitativi dell’occupazione giovanile e delle donne con un limite di spesa di 196 milioni di euro per il 2012 e di 36 milioni di euro per il 2013. Le risorse del Fondo sono finalizzate alla promozione di interventi finalizzati alla creazione di rapporti di lavoro stabili, ovvero di maggiore durata. I contributi riguarderanno i rapporti di lavoro stabilizzati oppure attivati entro il 31 marzo 2013 con giovani fino a 29 anni e donne, indipendentemente dalla loro età anagrafica.
Nel corso della XVI Legislatura è stato avviato, ma non concluso, l'esame, in sede referente, da parte delle commissioni riunite I Affari costituzionali e XII Affari sociali, di alcuni progetti di legge - tra i quali un disegno di legge del Governo - che, partendo dal riconoscimento del valore sociale delle comunità giovanili, quale strumento di crescita civile e culturale della popolazione, dettano norme dirette ad agevolare la nascita di nuove comunità e a rafforzare quelle già esistenti, mediante la previsione di incentivi, anche economici e attraverso la disciplina dei principali aspetti di esse (A.C. 1151 e A.C. 2505).
Fondi a sostegno dei giovani
Il settore dell'assistenza sociale è quello in cui tipicamente concorrono, per competenze e risorse, lo Stato, le regioni e gli enti locali e nel quale non è semplice identificare e ripartire con nettezza le attribuzioni di ciascuno dei tre livelli di governo. Attualmente lo Stato non ha ancora definito i livelli essenziali delle prestazioni sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, anche se è spesso intervenuto in via diretta in tale ambito, sebbene, dopo la riforma costituzionale del 2001, l'art. 46, comma 3, della legge 289/2002 (legge finanziaria 2003) - tenendo conto della competenza legislativa residuale e non piú concorrente delle Regioni in materia di servizi sociali - ha introdotto una specifica procedura per la determinazione dei LIVEAS.
Le azioni delle regioni - che hanno rivendicato una competenza legislativa esclusiva in tema di assistenza - hanno riguardato settori diversi e si sono intersecate con le iniziative dello Stato e con quelle degli enti locali, principalmente i comuni, che tradizionalmente gestiscono i servizi sociali.
Nel corso della XVI Legislatura si è registrata una sensibile diminuzione dei finanziamenti destinati alle politiche sociali.
Nelle politiche di assistenza, il principale strumento per il finanziamento degli interventi e dei servizi sociali è il Fondo nazionale per le politiche sociali, le cui risorse, definite dalle manovre finanziarie annuali, sono ripartite con decreto ministeriale tra il Ministero del lavoro della salute e delle politiche sociali, l’INPS, le regioni, le province autonome e i comuni. Alcuni recenti provvedimenti normativi hanno ridotto gli interventi finanziati a valere sul Fondo. La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) ha destinato al FNPS 69,954 milioni di euro. Infine la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), all'articolo 1, comma 271, incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del FNPS. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.
Al fine di garantire l'attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale con riguardo alle persone non autosufficienti è istitutito, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali il Fondo nazionale per le non autosufficienze. Le risorse assegnate al Fondo per il 2010, ripartite con decreto, sono pari a 400 milioni di euro. Per il 2011, il Decreto interministeriale 11 novembre 2011 ha assegnato al Fondo risorse per 100 milioni di euro, stanziati dall'art. 1, comma 40, della legge 220/2010 (legge di stabilità 2011), finalizzati fra l'altro ad interventi integrati socio-sanitari per i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Successivamente, il D.L. 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che la dotazione del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, sia incrementata di 658 milioni di euro per l'anno 2013 e ripartita con D.P.C.M., per incrementare fra l’altro la dotazione del Fondo non autosufficienti, finalizzato al finanziamento dell'assistenza domiciliare prioritariamente nei confronti delle persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), ha subito un definanziamento di 631,7 milioni; la dotazione finanziaria del Fondo risulta pertanto interamente decurtata, residuando al Fondo soltanto 263 euro per l’anno 2013. In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.
Fra le misure di carattere più squisitamente sociale, si ricorda la Carta acquisti, istituita dal decreto legge 112/2008, che prevede benefici destinati a nuclei familiari in difficoltà. Il decreto legge 5/2012 ha configurato una nuova carta acquisti prevedendo una sperimentazione per favorirne la diffusione tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno.
E' stato infine esaminato e non concluso un disegno di legge (A.C. 4566) recante la delega legislativa al Governo per la riforma fiscale e assistenziale . La riforma della materia socio-assistenziale si poneva l’obiettivo di riqualificare e riordinare la relativa spesa, al fine di superare le sovrapposizioni e le duplicazioni di servizi e prestazioni, e, in particolare, ridefinire gli indicatori (ISEE) volti ad individuare la reale situazione economica dei singoli cittadini, con attenzione ai nuclei familiari. Al proposito, l'articolo 5 del decreto legge 201/2011 ha demandato ad un regolamento governativo, previa Intesa in sede di Conferenza Stato-regioni, la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’ISEE.
Alcune misure a tutela della disabilita sono contenute in provvedimenti approvati dal Parlamento o che non hanno potuto concludere il relativo percorso parlamentare. La legge 107/2010 è diretta al riconoscimento della sordocecità come disabilità specifica unica, sulla base degli indirizzi contenuti nella dichiarazione scritta sui diritti delle persone sordocieche del Parlamento europeo, e disciplina la percezione in forma unificata delle indennità spettanti ai soggetti citati nonché le modalità dell'accertamento della disabilità unica.
Altre misure sono contenute in proposte di legge il cui esame presso la XII Commissione affari sociali della Camera non si è concluso, tra le quali si ricordano le norme che estendono alle associazioni che operano per la tutela dei diritti delle persone disabili l’applicazione di alcune misure previste per gli istituti di patronato e di assistenza sociale, le disposizioni che intervengono sui criteri previsti al fine di ottenere determinate prestazioni economiche assistenziali a favore degli invalidi civili nonché le norme dirette a prevedere misure di assistenza in favore dei disabili gravi privi del sostegno familiare, vale a dire privi del nucleo familiare o con famiglie sprovviste dei mezzi necessari per assisterli o curarli.
Gli interventi nel settore previdenziale si inseriscono nella direzione tracciata con le riforme adottate nelle precedenti legislature, volte a garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico attraverso l’adeguamento dei requisiti per l’accesso ai trattamenti.
In tale contesto particolare rilievo assume, nella prima fase della legislatura (che ha visto, peraltro, anche la totale abolizione del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro) l’introduzione legislativa del principio dell'adeguamento periodico quinquennale ed automatico dell'eta' pensionabile sulla base dell'incremento della speranza di vita accertato dall'ISTAT. Raccomandata anche a livello internazionale come misura essenziale per assicurare l’autostabilità dei sistemi previdenziali, in quanto capace di sottrarre alla discrezionalità politica il progressivo innalzamento dei requisiti pensionistici imposto dall’invecchiamento della popolazione (fenomeno particolarmente avanzato in Italia), la norma ha inizialmente fissato al 2015 il primo adeguamento, con modalità tecniche demandate ad un apposito regolamento di delegificazione. Successivamente, la norma è stata ripetutamente rivista al fine di anticiparne gli effetti al 2013 (primo adeguamento di 3 mesi) e di fissare i successivi aggiornamenti al 2016 e 2019 (dopodiché gli aggiornamenti avranno cadenza biennale).
Con la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 13 novembre 2008, che ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, si apre nel Paese un ampio dibattito sulla previdenza nel pubblico impiego e, più in generale, sul ruolo femminile nel mondo del lavoro e sulla conciliazione tra tempi di lavoro e tempi familiari, fino ad investire la questione delle norme di “favore” per il pensionamento femminile (più “generose” in Italia rispetto ad altri Paesi europei). Sul piano legislativo la sentenza è stata recepita definendo un graduale e progressivo percorso di innalzamento della eta' pensionabile delle donne nel pubblico impiego , fino al raggiungimento dei 65 anni, a regime, nel 2018.
L’intervento sulle dipendenti pubbliche ha indotto il legislatore, di lì a poco, a intervenire anche sulle lavoratrici del settore privato, attraverso il progressivo adeguamento del requisito anagrafico per il pensionamento di vecchiaia (adeguamento successivamente accelerato dalla riforma Fornero).
L'aggravarsi della crisi economica internazionale porta, tra il 2000 e il 2011, all’adozione di un’altra misura di carattere strutturale per il contenimento della spesa previdenziale, consistente nel posticipo delle decorrenze dei trattamenti (c.d.finestre). Fermi restando i requisiti pensionistici previsti per legge, gli interventi hanno comportato di fatto il rinvio della decorrenza dei trattamenti di vecchiaia fino a 12 mesi per i lavoratori dipendenti e fino a 18 mesi per i lavoratori autonomi, con un ulteriore aggravio (da 1 a 3 mesi) per le pensioni di anzianità (ossia per i soggetti che, indipendentemente dall’età anagrafica, avessero raggiunto i 40 anni di contribuzione).
A fronte del sostanziale inasprimento dei requisiti previdenziali ottenuto con le nuove “finestre”, il legislatore appresta una disciplina speciale per il collocamento a riposo dei soggetti che hanno svolto lavori usuranti , garantendo ad essi, a determinate condizioni, l’applicazione di specifici benefici(volti a consentire l’accesso anticipato al pensionamento), che verranno peraltro significativamente ridotti dalla successiva riforma Fornero (dati recenti sull’attuazione delle norme segnalano, peraltro, un tasso di accoglimento delle domande significativamente più basso di quanto preventivato, dovuto con tutta probabilità ai gravosi oneri probatori previsti, soprattutto con riferimento ai periodi lavorativi più risalenti nel tempo).
Altre misure di contenimento della spesa previdenziale adottate in tale fase hanno portato all’introduzione di requisiti più stringenti per l'accesso alla pensione di reversibilita' (con l’obiettivo di arginare usi impropri dell’istituto) ad una disciplina più onerosa per le ricongiunzioni di periodi contributivi e alla riduzione dei trattamenti pensionistici piu' elevati .
A livello europeo, con la presentazione nel 2010 del Libro verde la Commissione europea ha avviato una riflessione sulla riforma dei sistemi pensionistici. Sul libro verde la XI Commissione (Lavoro) della Camera ha approvato il 10 novembre 2010 un documento finale . Successivamente, nel febbraio 2012 la Commissione europea ha presentato il Libro bianco nel quale, in particolare, propone di creare migliori opportunità per i lavoratori anziani; incoraggiare gli Stati membri a promuovere vite lavorative più lunghe, correlando l'età della pensione con la speranza di vita, limitando l'accesso al pre-pensionamento e eliminando il divario pensionistico tra gli uomini e le donne; sviluppare sistemi pensionistici privati complementari e potenziandone la sicurezza; rendere le pensioni integrative compatibili con la mobilità, varando leggi a tutela dei diritti pensionistici dei lavoratori mobili e promuovendo l'istituzione di servizi di ricostruzione delle pensioni in tutta l'UE.
All’interno di una più generale politica di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni (e, in qualche misura, in antitesi con i coevi interventi volti all’innalzamento dell’età pensionabile) si collocano invece le misure volte a precludere il prolungamento dell’attività lavorativa dei dipendenti pubblici con maggiore anzianità. A tal fine la permanenza in servizio per un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo (in precedenza configurata come diritto soggettivo del dipendente) è stata dapprima rimessa alla discrezionalità della PA di appartenenza (chiamata a valutare la presenza di specifiche esigenze organizzative) e, successivamente, di fatto esclusa (dalla riforma Fornero). Inoltre, viene riconosciuta alle PA la facoltà di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici con 40 anni di anzianità contributiva.
Nell’ambito delle politiche di contenimento della spesa pubblica, un importante filone di interventi ha investito il sistema degli enti previdenziali pubblici , con l’obiettivo di migliorare l'efficienza amministrativa complessiva del settore. In tale contesto si segnalano dapprima la soppressione di IPSEMA, IPOST ed ENAM (confluiti, rispettivamente, in INAIL, INPS ed INPDAP) e, successivamente, la soppressione di INPDAP ed ENPALS, con conseguente trasferimento delle funzioni all'INPS (oggetto di un ampio processo di riorganizzazione e, soprattutto, di misure di risparmio che passano attraverso puntuali obiettivi di contenimento delle spese di funzionamento e di personale).
Anche il sistema delle Casse previdenziali private (il cui equilibrio finanziario, in alcuni casi, appariva precario) è stato investito da un importante processo di riforma, che ha portato dapprima alla rimodulazione del contributo integrativo (rimesso alla definizione, entro una forchetta fissata per legge, di ciascuna Cassa ed utilizzabile, in parte, per l’incremento dei montanti individuali) e, successivamente (Governo Monti) all’adozione di misure volte (pena sanzioni e l’automatico passaggio al contributivo pro-rata) ad imporre alle Casse interventi idonei a garantire la sostenibilità finanziaria di lungo periodo (50 anni). Sotto la spinta del legislatore il sistema delle Casse si è prontamente attivato, adottando misure che portano a ritenere sostanzialmente conseguiti gli obiettivi di riequilibrio finanziario richiesti.
A seguito dell’aggravarsi della crisi del debito e delle sollecitazioni provenienti da autorevoli istituzioni internazionali, la materia previdenziale è stata oggetto di una complessiva riconsiderazione da parte del Governo Monti. La riforma previdenziale adottata con l’articolo 24 del DL 201/2011 (c.d. riforma Fornero), in particolare, ha introdotto il sistema di calcolo contributivo pro-rata per tutti; ha portato a 66 anni il limite anagrafico per il pensionamento di vecchiaia; ha velocizzato il processo di adeguamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato (66 anni dal 2018); per quanto concerne il pensionamento anticipato, ha abolito il previgente sistema delle quote, con un considerevole aumento dei requisiti contributivi (42 anni per gli uomini e 41 anni per le donne) e l’introduzione di penalizzazioni economiche per chi comunque accede alla pensione prima dei 62 anni; ha aumentato le aliquote contributive per commercianti, artigiani e lavoratori agricoli.
All’indomani dell’approvazione della riforma, che in molti casi aveva comportato uno spostamento in avanti dell’età di pensionamento anche di molti anni, si è tuttavia ben presto (e con forza) posta all’attenzione delle forze politiche e del Governo la questione dei soggetti prossimi all’età di pensionamento sulla base della disciplina previgente che, in quanto beneficiari di particolari istituti o sulla base di accordi aziendali, sarebbero fuoriusciti dal mercato del lavoro prima della maturazione dei nuovi requisiti. Per far fronte alla questione degli esodati , che accompagna (con una intensa attività parlamentare che ha visto protagonista la Commissione lavoro della Camera) gli ultimi mesi della legislatura, il legislatore è intervenuto a più riprese al fine di ampliare la platea dei beneficiari della disciplina transitoria prevista della riforma (consistente nel riconoscimento dei requisiti pensionistici previgenti) garantendo copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014).
Sul tema della tutela della disabilità il Parlamento ha approvato ed esaminato alcune proposte di legge contenenti specifiche misure a tutela dei disabili. Oltre alla legge che opera il riconoscimento della sordocecità quale disabilità specifica unica e alla revisione dei criteri per l'attribuzione del trattamento economico spettante agli invalidi civili, vanno ricordate le disposizioni dirette ad estendere alle associazioni a tutela dei disabili alcune norme applicabili agli istituti di patronato, nonché le norme che introducono specifiche forme di assistenza a tutela dei disabili gravi privi del sostegno familiare.
Misure diverse a tutela dei disabili
In tema di tutela della disabilità vanno segnalate alcuni provvedimenti, recanti misure diverse a tutela dei disabili, il cui esame è stato concluso o avviato dal Parlamento.
In tema di diritti delle persone sordocieche va ricordata la legge 107/2010 (A.C. 2713 e A.C. 1335), diretta al riconoscimento della sordocecità come disabilità specifica unica, distinta dalla sordità e dalla cecità, in conformità alle indicazioni contenute nella Dichiarazione scritta sui diritti delle persone sordocieche del Parlamento europeo, del 1° aprile 2004. Viene stabilita la percezione in forma unificata delle indennità spettanti alle persone sordocieche, vengono definiti i criteri per l'accertamento della disabilità unica e disciplinati gli interventi per l'integrazione e il sostegno sociale delle persone sordocieche.
Vanno poi ricordate alcuni progetti di legge il cui esame è stato avviato ma non concluso dalla XII commissione affari sociali della Camera.
Sull'aspetto dei trattamenti economici spettanti agli invalidi civili intervengono alcune proposte di legge (A.C. 1539 ed abb.) che, oltre ad incrementare l’ammontare del trattamento citato, intervengono ad eliminare od attenuare il limite di età attualmente previsto dalla normativa vigente.
Vanno poi ricordata le proposte di legge (A.C. 1732 e A.C. 3224) diretta ad estendere alle organizzazioni, federazioni e associazioni a carattere nazionale di persone disabili e dei loro familiari che, senza fini di lucro, operano per la tutela dei diritti delle persone disabili, l’applicazione di alcune disposizioni della legge 30 marzo 2001, n. 152, disciplinante gli istituti di patronato e di assistenza sociale. Dopo lo svolgimento di una parte dell'istruttoria legislativa presso la XII Commissione, a seguito del conflitto di competenza sollevato dalla XI Commissione - lavoro pubblico e privato -, i progetti di legge sono stati nuovamente assegnati in sede referente alle Commissioni riunite XI e XII, che ne hanno avviato l'esame, senza tuttavia concluderlo.
Vanno infine menzionate alcune proposte di legge (A.C. 2024 ed abb.) dirette a prevedere misure di assistenza in favore dei disabili gravi privi del sostegno familiare, vale a dire privi del nucleo familiare o con famiglie sprovviste dei mezzi necessari per assisterli o curarli.
Viene istituito uno specifico Fondo presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di cui viene anche disciplinato il funzionamento, prevista la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, vengono contemplate agevolazioni fiscali ed erogazioni liberali.
Per quanto riguarda il concetto di disabilità, nel maggio 2001, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha approvato l'International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF), con lo scopo di integrare sia il modello medico sia il modello sociale; pur non essendo una condizione esclusiva della popolazione anziana, la disabilità è prevalentemente osservabile nella fascia degli ultra settantacinquenni dove la cronicità, la morbilità, la compromissione funzionale, la polifarmacoterapia e le problematiche di tipo sociosanitario, giocano un ruolo determinante.
I trend demografici evidenziano un rilevante aumento assoluto e relativo del segmento della popolazione anziana ultrasettantacinquenne (+25%, pari a più di 1.400.000 persone nei prossimi 10 anni), con andamenti di grosso impatto soprattutto sulla prevalenza di molte patologie cronico degenerative; ad esempio, le demenze sono destinate ad un sostanziale raddoppio degli attuali malati (sono circa 450.000 nel 2007) entro il 2020.
Dall’indagine La disabilità in Italiaemerge che la famiglia è il soggetto che generalmente prende in carico la persona disabile. Circa il 10% delle famiglie ha almeno un componente con problemi di disabilità e, oltre un terzo di queste famiglie è composto da persone disabili che vivono sole. Quasi l’80% delle famiglie con persone disabili non risulta assistita dai servizi pubblici a domicilio ed oltre il 70% non si avvale di alcuna assistenza, né pubblica né a pagamento soprattutto nel Sud.
Le persone con disabilità sono 2 milioni 600 mila di cui l’80% hanno un’età superiore a 65 anni.
La disabilità è più diffusa tra le donne (6,1% contro 3,3% degli uomini). Le persone confinate nell’abitazione sono 1 milione 130 mila (2,1%); tra le persone anziane tale percentuale raggiunge 8,7%. Il 3,0% della popolazione di 6 anni e più presenta invece limitazioni nello svolgimento delle indispensabili attività di cura personali.
Il Sud e le Isole presentano tassi più elevati per le patologie croniche “gravi” e la disabilità. Si supera la percentuale del 14% dei cronici gravi contro il 12,4% del Nord-ovest e il 12,6% del Nord-est.
Per la disabilità nelle Isole si arriva al 6,2% e nel Sud al 5,8% contro il 4,1% del Nord-ovest e il 4,0% del Nord-est. Particolarmente critica la situazione delle donne anziane nel Sud, tra le quali la percentuale di disabili sfiora il 30% contro il 19,5% delle coetanee nel Nord Italia.
La definizione di disabilità cambia a seconda della rilevazione statistica e di chi la effettua; spesso si usano in modo impreciso termini come non autosufficiente, disabile, portatore di handicap, invalido e inabile.
In Italia, la tutela assistenziale del cittadino disabile si realizza in primis con l’istituto dell’invalidità civile (Decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5), creato nel nostro Paese negli anni Settanta, ed inizialmente orientato al collocamento mirato al lavoro di soggetti impossibilitati a lavorare per malattia (art. 38 della Costituzione), si è nel tempo trasformato in un sistema che - attivato per l’erogazione di indennità di natura economica – è stato utilizzato anche per la tutela dei soggetti anziani ultra sessantacinquenni o dei minorenni.
L’accertamento delle percentuali di invalidità civile avviene attraverso il DM 5 febbraio 1992, e successive modificazioni, che ha recepito, in forma limitata, alcune indicazioni elaborate dall’OMS nell’ambito della classificazione internazionale delle menomazioni “Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (ICIDH-1, 1980). Il sistema rimane legato all'analisi e alla misurazione percentuale di ciascuna menomazione anatomo-funzionale e dei suoi riflessi negativi sulla capacità lavorativa e molte infermità non risultano gabellate, tuttavia, è possibile valutarne il danno con un criterio analogico.
I cittadini che richiedono il riconoscimento dello stato d’invalidità, dopo l’esito positivo della visita, disposta dalla regione e dall’INPS (che è il soggetto istituzionale pagante), attraverso la Commissione medica di accertamento, hanno diritto a:
La legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) ha introdotto un nuovo modello di assistenza alle persone disabili che fa riferimento alla capacità della persona di espletare autonomamente (anche se con ausili) le attività fondamentali della vita quotidiana.
Come precedentemente anticipato, la definizione di disabilità non è universale. L’ISTAT, ad esempio, usa la nuova classificazione dell’OMS la “Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità” (ICF, 2001) che definisce non autosufficienti le persone con disabilità fisica, psichica, sensoriale, relazionale, accertata attraverso l’adozione di criteri uniformi su tutto il territorio nazionale. In particolare, la classificazione ICIDH-1 considera la disabilità come la conseguenza di una menomazione strutturale o funzionale al livello corporeo, l’ICF definisce la disabilità come risultato di una complessa relazione tra salute, fattori personali e ambientali e, conseguentemente, determina la necessità di un’integrazione tra l’intervento sanitario e quello sociale.
L’indennità di accompagnamento (Legge 11 febbraio 1980, n. 18 “Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili”) è un istituto che riguarda essenzialmente la disabilità e l’handicap dei minori e degli adulti, più che degli anziani, non considerati ancora, al momento dell’introduzione del nuovo istituto, una priorità sociosanitaria.
Nel corso del tempo, l’indennità di accompagnamento ha progressivamente mutato il proprio target, rivolto oramai alla non autosufficienza in generale, in particolare delle persone anziane, e strumento universalistico, per un’utenza in crescita, gli anziani non autosufficienti.
In Italia, secondo gli ultimi dati resi disponibili dell’ISTAT, si registrano ad oggi circa 2.600.000 persone non autosufficienti, ossia di persone che riferiscono una totale mancanza di autonomia per almeno una delle funzioni essenziali che permettono di condurre una vita quotidiana normale.
La legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), ha indicato i princípi fondamentali della materia (tra cui l'applicazione dell'ISEE per l'accesso al servizio integrato di servizi ed interventi sociali), ha istituito a fini di programmazione il piano nazionale triennale degli interventi e dei servizi sociali (approvato per il triennio 2001-2003 con D.P.R. 3 maggio 2001 e non seguíto da altri piani, a causa del mutato assetto delle competenze istituzionale, dopo la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione) ed ha precisato le aree in relazione alle quali il piano deve specificare gli interventi integranti i livelli essenziali delle prestazioni di assistenza sociale (LIVEAS).
Le principali attività del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sono indirizzate a:
L'Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità è un organismo istituito ai sensi dell’art. 3 della legge 3 marzo 2009, n. 18 e presieduto dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il Regolamento dell’Osservatorio è stato disciplinato con il Decreto Interministeriale del 6 luglio 2010 n. 167.
L’Osservatorio ha funzioni consultive e di supporto tecnico-scientifico per l’elaborazione delle politiche nazionali in materia di disabilità con particolare riferimento:
All’interno dell’Osservatorio è istituito un Comitato tecnico-scientifico con finalità di analisi ed indirizzo scientifico in relazione alle attività e ai compiti dell’Osservatorio. Il comitato è composto da un rappresentante del Ministero del Lavoro e da uno del Ministero della Salute, da rappresentante delle Regioni e da uno delle autonomie locali, da due rappresentanti delle associazioni nazionali maggiormente rappresentative delle persone con disabilità e da tre esperti facenti parte dell’Osservatorio.
Il primo Programma d’azione italiano per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità è stato approvato dall’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, a cui si deve anche il primo Rapporto italiano alle Nazioni Unite sulla implementazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità nel nostro Paese.
Il Programma d'azione, di durata biennale, individua le aree prioritarie verso cui indirizzare azioni e interventi per la promozione e la tutela dei diritti delle persone con disabilità, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi generali della Strategia europea sulla disabilità 2010-2020 e della Convenzione ONU ratificata dall’Italia nel 2009.
In particolare, le principali forme di aiuto economico riguardano: l’indennità di accompagnamento, erogata direttamente al disabile, all’anziano, e al non autosufficiente, senza alcun limite di reddito, per migliorare le sue condizioni di vita, e diverse agevolazioni fiscali riguardanti: i figli a carico portatori di handicap, in funzione del reddito e del numero dei figli stessi; l’acquisto di veicoli, mezzi di ausilio, sussidi tecnici e informatici; le spese per i cani dei non vedenti e di interpretariato per i non udenti; le spese per le realizzazioni di interventi di abbattimento delle barriere architettoniche; le spese mediche e quelle per l’assistenza personale e domestica.
Dal punto di vista sanitario, le persone disabili e non autosufficienti, possono ricevere, a richiesta, dalle strutture presenti nel luogo dove vivono, varie tipologie di assistenza sanitaria (medico, infermieristico, protesico, psichiatrico). Tali interventi possono essere erogati negli ambulatori pubblici, a domicilio, in strutture semiresidenziali o residenziali.
Per quanto concerne le prestazioni di carattere socio-assistenziale, lo Stato attraverso proprie leggi (legge n. 104 del 1992) garantisce l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate e dei loro familiari. In particolare, sono tutelati i diritti riguardanti l’inserimento scolastico - diritto all’insegnante di sostegno e agli ausili scolastici - e l’accesso al mondo del lavoro (legge n. 68/1999) - collocamento mirato e assunzioni obbligatorie -. Ai cittadini lavoratori, portatori di handicap grave, riconosciuto ai sensi dell’art. 3, comma 3 Legge 104/92 e ai loro familiari vengono concessi, in presenza di determinate condizioni, dei permessi retribuiti aventi come scopo la cura e l’assistenza del portatore di handicap.
Inoltre, per le persone disabili sono i comuni, singoli o associati, che nel territorio di appartenenza, intervengono con loro iniziative, che vanno dallo scuola bus per le persone non autosufficienti, alla consegna a domicilio di documenti o generi di prima necessità, al personale che assiste i minori che frequentano gli istituti dell’obbligo.
Per le finalità di natura socio-assistenzialele risorse necessarie vengono stanziate annualmente attraverso la legge finanziaria nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali e dal Fondo per le non autosufficienze, che possono essere integrati da proprie risorse regionali e comunali al fine di garantire ulteriori servizi.
Gli altri interventi di natura sanitaria, fiscale e del lavoro, sono a carico del Fondo sanitario nazionale, che si alimenta attraverso vari tributi e viene ripartito tra le Regioni, della previdenza e della fiscalità generale dello Stato.