XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 758 di lunedì 13 marzo 2017

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROBERTO GIACHETTI

La seduta comincia alle 10,05.

PRESIDENTE. La seduta è aperta.

Saluto gli studenti e i docenti dell’Istituto comprensivo “Frascati 1” di Frascati, che seguono i nostri lavori dalle tribune.

Invito il deputato segretario a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

RAFFAELLO VIGNALI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 10 marzo 2017.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Gioacchino Alfano, Amendola, Amici, Baldelli, Bellanova, Bernardo, Dorina Bianchi, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell’Acqua, Boschi, Matteo Bragantini, Bratti, Bressa, Brunetta, Bueno, Caparini, Capelli, Casero, Caso, Castiglione, Causin, Centemero, Antimo Cesaro, Ciprini, Cirielli, Costa, D’Alia, Dambruoso, De Micheli, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Faraone, Fedriga, Ferranti, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Franceschini, Garofani, Gentiloni Silveri, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Laforgia, Locatelli, Lorenzin, Losacco, Lotti, Lupi, Madia, Manciulli, Marazziti, Marcon, Migliore, Orlando, Pisicchio, Portas, Ravetto, Realacci, Rigoni, Rosato, Domenico Rossi, Rughetti, Sanga, Sani, Scalfarotto, Sottanelli, Valeria Valente e Velo sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.

I deputati in missione sono complessivamente ottantuno, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza, che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna).

Colleghi, dovremmo ora passare alla discussione sulle linee generali del decreto-legge in materia di sicurezza, tuttavia non è presente il rappresentante del Governo…ecco…

GENNARO MIGLIORE, Sottosegretario di Stato per la Giustizia. Presidente, non ero io…

PRESIDENTE. Mi rendo conto, onorevole Migliore, la Presidenza ovviamente non è tenuta a sapere chi del Governo deve essere presente. La seduta è convocata alle 10; mi dispiace che sia lei qui, ma dobbiamo stigmatizzare che alle 10,10 il Governo non era ancora presente. La ringrazio ovviamente di essere presente, immagino che non fosse lei la persona che doveva essere presente qui.

Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto?-?legge 20 febbraio 2017, n. 14, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città (A.C. 4310?-?A) (ore 10,10).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge n. 4310-A: Conversione in legge del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 4310-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle, Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista e Partito Democratico ne hanno chiesto l’ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell’articolo 83, comma 2, del Regolamento.

Avverto, altresì, che le Commissioni I (Affari costituzionali) e II (Giustizia) si intendono autorizzate a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire il relatore per la maggioranza per la I Commissione, onorevole Emanuele Fiano.

EMANUELE FIANO, Relatore per la maggioranzaper la I Commissione. La ringrazio, signor Presidente, colleghi, sottosegretario Migliore in rappresentanza del Governo. Mi permetterà, Presidente, di consegnare agli atti l’intera relazione sul provvedimento. Vorrei però qui, rapidamente, citare solo alcune disposizioni che sono mutate nel corso della discussione in Commissione.

Il provvedimento, che riguarda i temi della sicurezza integrata, è articolato in più parti, in particolare in due capi dedicati alla collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana (Capo I) e le disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano (Capo II). Illustrerò qui brevemente le modifiche che sono intercorse nelle disposizioni del Capo I, nonché agli articoli 12, 12-bis e 14, sapendo che la collega, onorevole Morani, riferirà a quest’Aula di ciò che invece riguarda il Capo II, in quanto relatrice per la II Commissione.

In particolare, vorrei qui citare alcune significative novità che sono state introdotte dall’attività emendativa del dibattito in Commissione. Nel corso dell’esame in sede referente è stato previsto che concorrono alla promozione della sicurezza integrata anche gli interventi per la riqualificazione urbana e per la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia, finanziati con il Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese. Ci tengo a sottolineare questo aspetto - peraltro anche il sottosegretario ne è a conoscenza - perché il provvedimento intende - anche per il lavoro che i colleghi hanno svolto in fase emendativa, oltre che per il testo che abbiamo ricevuto come decreto-legge dal Governo - dare un’accezione ampia del principio, del concetto di sicurezza urbana, che non è riferibile unicamente alle politiche sicuritarie, ma anzi accentua il proprio impegno sugli aspetti relativi al complesso della riqualificazione urbana, con una specifica sottolineatura degli aspetti sociali, degli aspetti riqualificativi del territorio - in particolare di quello periferico - e fa riferimento, attraverso la legge n. 232 del 2016, articolo 1, comma 140, la legge di bilancio per il 2017, esattamente al Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese.

Questo Fondo - ricordo che è istituito con legge di bilancio per il 2017 - ha una dotazione di 1.900 milioni di euro per il 2017, 3.150 per il 2018, 3.500 per il 2019, 3.000 per il 2020 fino al 2032, per assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese, anche al fine di pervenire alla soluzione delle questioni oggetto di procedure di infrazione da parte dell’Unione europea. In questo ambito, proprio nell’articolo 2 del provvedimento in esame si individuano le linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata e proprio il tema dell’integrazione tra vari atti di politica complessiva riguarda il percorso dell’intero provvedimento. La Sezione II del Capo I, gli articoli 4, 5 e 6 intervengono in materia di sicurezza urbana, che viene definita bene pubblico - è la prima volta che così la definiamo nel nostro Paese - afferente alla vivibilità e al decoro della città, riprendendo in buona parte la definizione già prevista dal decreto 5 agosto 2008. L’articolo 4 prende in considerazione le aree di intervento - come dicevo poc’anzi - che sono volte a promuovere la sicurezza urbana, e quindi la riqualificazione anche sociale, culturale e urbanistica - come abbiamo specificato nel corso dell’esame in sede referente - il recupero delle aree e dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità ed esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, relative a reati ad alto tasso di allarme sociale, la promozione della cultura del rispetto della legalità - espressione modificata nel corso dell’esame in sede referente - l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e di convivenza civile.

Tra i principali strumenti per la promozione della sicurezza nelle città, il provvedimento in esame indica i patti per l’attuazione della sicurezza urbana, sottoscritti tra il prefetto ed il sindaco, che, incidendo su specifici contesti territoriali, individuano concretamente gli interventi da mettere in campo per la sicurezza urbana. I patti sono sottoscritti e, come integrato nella sede referente, tenendo conto di eventuali indicazioni e osservazioni acquisite da associazioni di categoria comparativamente più rappresentative. Dunque, nel dibattito referente, si è inteso non solo allargare il campo di intervento degli strumenti pattizi, ma anche far sì che questi strumenti siano frutto non solo delle decisioni prese dagli organi preposti dal nostro ordinamento, sindaco e prefetto, ma anche dal confronto e dall’ascolto delle associazioni di categoria più rappresentative.

Tra le aree di intervento in materia di sicurezza urbana, di cui all’articolo 4 citato, il provvedimento ne individua tre da perseguire con i patti per la sicurezza urbana: la prevenzione - anche qui trattasi di elementi integrati nel corso della referente - e il contrasto alla criminalità diffusa e predatoria, attraverso servizi e interventi di prossimità, a vantaggio in particolare delle zone maggiormente interessate dai fenomeni di degrado. È stata richiamata la possibilità di installazione di sistemi di videosorveglianza e le relative spese non rilevano per i comuni ai fini del Patto di stabilità e sono state quantificate con una certa cifra a decorrere dal 2017 con relativa copertura finanziaria; la promozione del rispetto della legalità, da perseguire anche attraverso iniziative di dissuasione delle condotte illecite quali l’occupazione arbitraria di immobili e lo smercio di beni contraffatti e falsificati e dei fenomeni che comunque turbano o limitano il libero utilizzo dello spazio pubblico; la promozione del rispetto del decoro urbano, valorizzando anche in questo caso forme di collaborazione interistituzionale tra le varie amministrazioni competenti, anche al fine di coadiuvare l’ente locale nell’individuazione di aree urbane su cui insistano luoghi da sottoporre a particolare tutela. L’elenco di tali luoghi è stato integrato in fase referente: plessi scolastici e sedi universitarie, musei, aree e parchi archeologici e complessi monumentali, istituti e luoghi della cultura, o comunque luoghi interessati da consistenti flussi turistici ovvero adibiti a verde pubblico e da sottoporre a particolare tutela, ai sensi dell’articolo 9, comma 3 di questo stesso testo. Quest’ultima previsione affida ai regolamenti di polizia urbana l’individuazione delle aree alle quali applicare, appunto, le misure del decoro previste dal medesimo articolo 9 e la previsione di sanzioni amministrative e pecuniarie e l’ordine di allontanamento dal luogo - provvedimento abbastanza caratteristico proprio di questo testo - in cui è stato commesso il fatto, nel caso di condotte limitative della libera accessibilità e fruizione delle infrastrutture per il trasporto.

A seguito di un emendamento approvato nella sede referente è stato aggiunto un altro obiettivo, che attiene alla promozione dell’inclusione della protezione della solidarietà sociale mediante azioni e progetti per l’eliminazione dei fattori di marginalità, anche in questo caso valorizzando collaborazioni interistituzionali.

All’articolo 7, per garantire il necessario sostegno logistico e strumentale alla realizzazione di questi obiettivi, possono essere coinvolti enti pubblici e soggetti privati. Si badi, tengo a sottolinearlo con un’aggiunta, perché sia chiaro e rimanga a verbale: noi non stiamo parlando di soggetti privati che partecipano al sistema della sicurezza; non stiamo parlando in alcun modo, con questo testo, né nel testo presentato dal Governo, né nell’attività emendativa svolta in sede referente, di soggetti privati che affianchino o sostituiscano le forze dell’ordine, in quanto siamo fedeli sostenitori del principio costituzionale secondo il quale l’esercizio della tutela della sicurezza pubblica è delegato in toto allo Stato. Ma, secondo le disposizioni contenute nell’articolo 6-bis del decreto-legge n. 93 del 2013, in materia di accordi territoriali di sicurezza integrata per lo sviluppo, resta ferma la finalità pubblica dell’intervento. Si parla qui, in generale, di altre collaborazioni di soggetti privati, ovviamente verificati, che possano partecipare complessivamente ai progetti di riqualificazione.

Lo strumento degli accordi territoriali di sicurezza integrata per lo sviluppo è stata appunto introdotta dal legislatore nel 2013 al fine di rafforzare i presidi di legalità, sempre nel quadro dei rapporti di collaborazione tra istituzioni.

In sede referente, è stata altresì introdotta l’applicabilità, ove possibile, anche delle previsioni di cui all’articolo 119 del testo unico degli enti locali, legge n. 267 del 2000, in base al quale gli enti locali possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a fornire consulenze e servizi aggiuntivi.

Vado verso la conclusione, Presidente. L’articolo 8 introduce modifiche al TUEL, prima citato, la legge n. 267 del 2000, in relazione al potere del sindaco di adottare ordinanze in materia di sicurezza, di natura contingibile, che ovviamente è la norma vigente, o anche non contingibile con particolare riferimento ad una materia, quella degli orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche.

Un primo gruppo di disposizioni interviene sul potere di ordinanza del sindaco, modificando l’articolo 50 del testo unico degli enti locali, ai commi 5 e 7. Sono ampliate così le ipotesi in cui il sindaco può adottare ordinanze contingibili e urgenti, finora limitate dal testo unico al caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale. Aggiungendo un periodo alla disposizione che ho citato, si prevede che il sindaco possa adottare ordinanze extra ordinem, qualora vi sia urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria, di degrado, di pregiudizio del decoro, della vivibilità urbana e con riferimento particolare alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti. In sede referente, si è estesa questa previsione alla necessità anche di superare situazioni di degrado dell’ambiente e del patrimonio culturale. La disposizione specifica, Presidente, in particolare, che il sindaco può intervenire anche in materia di orari di vendita anche per asporto e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche.

In relazione a queste citate materie, il successivo comma 2 stabilisce che i comuni possano adottare regolamenti, ai sensi delle norme del testo unico, perché - come è noto - anche sotto il profilo costituzionale, a norma dell’articolo 117 della Costituzione, c’è una potestà regolamentare in capo alle amministrazioni locali di disciplinare l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro attribuite.

In secondo luogo, la novella aggiunge una nuova disposizione anche al comma 7 dell’articolo 50 del TUEL, che attualmente attribuisce al sindaco il compito di coordinare e riorganizzare, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine di armonizzarne l’espletamento dei servizi con le esigenze dei cittadini.

In virtù di questa nuova disposizione, si riconosce esplicitamente in capo al sindaco il potere di adottare anche ordinanze di ordinaria amministrazione, non contingibili e urgenti, in questo caso; quindi, stiamo nella novella, per disporre limitazioni in materia di orari di vendita e anche trasporto e somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche. Questo strumento è ammesso solo e unicamente al fine di assicurare l’esigenza di tutela della tranquillità e di riposo dei residenti e per la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale in particolari aree della città, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi.

C’è poi tutta la specifica delle caratteristiche che devono avere tali ordinanze e ovviamente il confronto con la giurisprudenza costituzionale in ordine all’attribuzione ai sindaci di tale potere.

Infine, l’articolo 8 interviene sul potere di ordinanza del sindaco, modificando, in questo caso, l’articolo 54 del TUEL: viene integralmente sostituita la previsione del comma 4-bis dell’articolo 54, che rinviava, nella versione vigente, ad un decreto del Ministro dell’interno la disciplina dell’ambito di applicazione delle disposizioni.

La nuova formula circoscrive a livello di norma primaria le ipotesi in cui il sindaco può adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana ed in qualità di ufficiale del Governo, ai sensi dell’articolo 54. La nuova formulazione del 4-bis è finalizzata a ricondurre il potere di ordinanza extra ordinem del sindaco in qualità di ufficiale del Governo a situazioni che, per la loro natura e il loro contesto, sono considerate più contigue all’esigenza di tutela della sicurezza primaria.

Vado verso la conclusione, Presidente: l’articolo 12 - citerò gli ultimi articoli, il 12 e il 14 - stabilisce che nelle ipotesi di reiterata inosservanza delle ordinanze di cui parlavamo prima, emanate ai sensi dell’articolo 50 del testo unico, il questore può disporre la sospensione dell’attività per un massimo di quindici giorni.

Al comma 2, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista, in caso di vendita di bevande alcoliche ai minori e anche nell’ipotesi di loro somministrazione, salvo che il fatto non costituisca reato, è quella del pagamento di una somma compresa tra 250 e 1.000 euro.

Ulteriore modifica in sede referente: il comma 2-bis stabilisce che, se il fatto è commesso più di una volta, l’applicazione della sanzione pecuniaria da 500 a 2.000 euro può diventare sospensione dell’attività commerciale per tre mesi. La sospensione può essere disposta per un periodo che va da quindici giorni a tre mesi.

Ovviamente non verrà meno la comprensione che tutto ciò serve a limitare il fenomeno dell’abuso delle sostanze alcoliche, soprattutto da parte dei giovani, che può determinare in aree della città interessata da aggregazioni notturne, episodi ricorrenti connotati da condotte violente contro il patrimonio, le persone o di particolare gravità per la sicurezza urbana.

In base alla normativa vigente - e concludo - per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto, che si esplicita in tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio. Quindi ciò che caratterizza la somministrazione è l’esistenza di strutture logistiche atte a consentire l’assunzione del consumo in loco.

In sede referente, è stato introdotto l’articolo 12-bis che, modificando l’articolo 100 del TULPS, il testo unico sulla pubblica sicurezza, estende il potere del questore di revocare e sospendere le licenze dei pubblici esercizi per motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza.

Infine, come dicevo, l’ultimo articolo riguarda l’istituzione, già prevista e già attuata in alcune regioni, del numero unico europeo 112 e consentirà alle regioni in situazione di pareggio di bilancio di bandire concorsi per l’assunzione di personale per utilizzare le attività connesse al numero unico europeo 112 e quindi per potenziare le strutture di prima istanza che rispondono alla chiamata su questo numero.

Sotto il profilo normativo, l’articolo 8 della legge n. 124 del 2015 ha già previsto - come dicevo - l’istituzione del numero unico europeo 112 su tutto il territorio nazionale, prevedendo il finanziamento delle spese.

In sede referente - ultima modifica che riferisco della sede referente - è stato introdotto il comma 1-bis, che subordina, per questo specifico profilo, le procedure concorsuali delle regioni finalizzate alle nuove assunzioni alla verifica dell’assenza di personale in mobilità o in esubero nell’ambito della stessa amministrazione, con caratteristiche professionali adeguate alle mansioni richieste.

PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire la relatrice per la maggioranza per la II Commissione, onorevole Morani.

ALESSIA MORANI, Relatrice per la maggioranzaper la II Commissione. Grazie, Presidente. Come ha annunciato il relatore per la Commissione affari costituzionali, Fiano, mi soffermerò sulle parti di competenza della Commissione giustizia, in particolare sulle disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano. Sono gli articoli da 9 a 18 del capo II, ad eccezione degli articoli 12 e 14, che sono direttamente connessi agli ambiti di competenza della Commissione affari costituzionali e su cui è già stato riferito.

L’articolo 9 prevede la contestuale irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 300 euro e di un ordine di allontanamento dal luogo della condotta illecita nei confronti di chiunque, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, limiti la libera accessibilità e fruizione di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime, di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze.

Nella relazione illustrativa si evidenzia che questi comportamenti, pur non integrando necessariamente delle violazioni di legge, compromettono la fruibilità di luoghi particolari, rendendone difficoltoso il libero utilizzo e la normale e sicura fruizione degli spazi pubblici, con profili di rischio anche per la sicurezza relativamente ad alcuni ambiti a vario titolo legati ad una rilevante mobilità.

Voglio rassicurare chi, nel corso dell’esame in Commissione, ha paventato che questa norma sia una norma anti-povertà: la disposizione in esame non è diretta a colpire i clochard, che si riparano dal freddo nelle stazioni, ma colpisce coloro che, nei luoghi indicati dal comma 1, vengono trovati in stato di ubriachezza, compiono atti contrari alla pubblica decenza, esercitano il commercio abusivo o, come previsto dalle Commissioni riunite, esercitano l’attività di parcheggiatore o guardia macchine abusivo.

La competenza all’adozione dei provvedimenti è del sindaco del comune interessato e i proventi delle sanzioni sono destinati ad interventi di recupero del degrado urbano.

Sostanzialmente, l’ordine di allontanamento imposto dal sindaco, quale autorità locale di pubblica sicurezza, sembra configurare una forma di “mini Daspo”. La relazione illustrativa del disegno di legge di conversione precisa che, per infrastrutture fisse e mobili, si intende il complesso di opere secondarie e complementari alla struttura di base, necessarie affinché quest’ultima possa funzionare; ad esempio, del servizio metropolitano è considerata infrastruttura non solo la rete dei binari, ma anche i vagoni dei convogli, mentre la stazione e le vie di accesso rientrano nel concetto di pertinenza.

Il comma 3 prevede, tramite lo strumento dei regolamenti di polizia urbana, l’ampliamento dell’ambito di applicazione delle misure previste dall’articolo 1 ad aree urbane dove si trovino musei, aree monumentali archeologiche o altri luoghi di cultura interessati da consistenti flussi di turismo, ovvero adibiti a verde pubblico. Le Commissioni riunite hanno ampliato il campo di applicazione alle scuole, ai plessi scolastici e ai siti universitari e hanno precisato che, per gli altri luoghi già previsti, si scinde dalla presenza di consistenti flussi turistici. L’ordine di allontanamento ha una durata di 48 ore.

L’articolo 10 ha per oggetto il cosiddetto Daspo urbano. La disposizione detta le modalità esecutive della misura dell’allontanamento dalle aree relative alle infrastrutture di trasporto e dalle loro pertinenze, come indicato dall’articolo 9. Nello specifico, si stabilisce, al comma 1, che: l’ordine di allontanamento, in forma scritta, è rivolto al trasgressore dall’organo che accerta le condotte illecite; la validità temporale della misura inibitoria, cioè 48 ore dall’accertamento del fatto; la violazione dell’ordine comporta il raddoppio della sanzione amministrativa pecuniaria originaria, cioè quella prevista dall’articolo 9, comma 1, e la trasmissione del provvedimento al questore competente nonché, se necessario, alle competenti autorità socio-sanitarie locali.

La recidiva nelle condotte illecite di cui all’articolo 9, limitatamente alla libera accessibilità delle infrastrutture di trasporto, ubriachezza e di commercio abusivo, ove ne derivi un pericolo per la sicurezza comporta la possibile adozione di un divieto di accesso ad una o più delle aree espressamente indicate per un massimo di sei mesi.

Il provvedimento, adeguatamente motivato, è adottato dal questore, che ne individua le più opportune modalità esecutive compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del trasgressore. Tale ultima misura è modellata sul Daspo nelle manifestazioni sportive, di cui all’articolo 6 della legge n. 401 del 1989. Una durata maggiore del divieto di accesso, da sei mesi a due anni, è prevista dal comma 3, quando le condotte vietate sono commesse da un condannato negli ultimi cinque anni, con conferma della sentenza almeno in secondo grado - la cosiddetta “doppia conforme” - per reati contro la persona e il patrimonio. Viene, quindi, previsto direttamente dalla legge un aumento della durata del divieto nei confronti dei soggetti già condannati.

Se l’interessato è un minore, va data notizia della misura alla procura presso il tribunale dei minorenni.

Il comma 4 prevede l’applicazione, ove compatibile, della disciplina del Daspo, di cui all’articolo 6 della legge n. 401 del 1989, in materia di notifica del provvedimento, obbligo di presentazione agli uffici di polizia, ricorribilità in Cassazione. Ne consegue, anche per la maggiore invasività della misura inibitoria, il controllo dell’autorità giudiziaria ai fini della convalida.

L’articolo 10 prevede, inoltre, la possibilità che la concessione della sospensione condizionale della pena, in caso di condanna per reati contro la persona o contro il patrimonio commessi nelle aree ferroviarie, aeroportuali, marittime e del trasporto pubblico locale, sia subordinata all’imposizione del divieto di accedere nei luoghi e aree pubbliche specificamente individuate. Infine, viene demandata ad un decreto del Ministro dell’interno la determinazione, a risorse invariate, dei criteri generali per il rafforzamento della cooperazione tra le forze dell’ordine e i corpi di polizia municipale.

Le Commissioni riunite hanno poi inserito il comma 6-bis, con il quale hanno ripristinato, fino al 30 giugno 2020, l’efficacia della disciplina sull’arresto in flagranza differita e sull’applicazione delle misure coercitive nei confronti degli imputati di reati commessi in occasione di manifestazioni sportive. Si tratta di una misura necessaria per situazioni in cui, come avviene sugli spalti degli stadi, vi è spesso l’impossibilità concreta della presenza delle forze di polizia nel luogo in cui si commette il reato.

L’articolo 11 ha per oggetto le occupazioni arbitrarie di immobili. Il fenomeno, fonte di forti tensioni sociali e di situazioni di illegalità, è particolarmente esteso nelle grandi città. La relazione al disegno di legge di conversione riporta che solo nel territorio di Roma capitale vi sono più di 100 immobili abusivamente occupati.

La disposizione è volta a contemperare l’esigenza di dare esecuzione dei provvedimenti giudiziari di sgombero di edifici abusivamente occupati con le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, nonché con quelle di garanzia dei diritti fondamentali della persona normativamente affidati al prefetto, che può impartire apposite disposizioni per assicurare l’equilibrio di tutti i valori in gioco. Nello specifico, l’articolo 11 intende meglio definire i percorsi attraverso i quali l’autorità di pubblica sicurezza, sentito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, può mettere a disposizione la forza pubblica per procedere allo sgombero in esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Si dispone cosi che il prefetto debba impartire modalità esecutive dei provvedimenti del giudice sulle occupazioni abusive di immobili, sia per prevenire, in relazione al numero di immobili da sgomberare, possibili turbative all’ordine e alla sicurezza pubblica, sia per assicurare il concorso della forza pubblica alle operazioni di sgombero.

Il comma 2 prevede che l’impiego della forza pubblica per lo sgombero deve tener conto delle seguenti priorità: situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica nei territori interessati; rischi per l’incolumità e la salute pubblica; diritti dei proprietari degli immobili; i livelli assistenziali che regioni ed enti locali possono assicurare agli aventi diritto.

Viene precisato, nel comma 4, che l’eventuale annullamento del provvedimento del prefetto da parte del giudice amministrativo può comportare, escluso il caso di dolo o di colpa grave, soltanto il risarcimento in forma specifica, che, nel caso di specie, consiste nell’obbligo dell’amministrazione di attivarsi per far cessare l’occupazione abusiva.

L’articolo 13 ha per oggetto il contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici, aperti al pubblico o di pubblici esercizi, prevedendo il ricorso alla misura del Daspo per un periodo da uno a cinque anni per chi vende o cede sostanze stupefacenti o psicotrope in questi luoghi.

Il questore potrà, infatti, disporre per motivi di sicurezza, nei soggetti condannati in via definitiva o con doppia conforme che nell’ultimo triennio siano stati condannati per reati di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope, articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, il divieto di accesso nei locali pubblici o aperti al pubblico o nei pubblici esercizi in cui sono stati commessi gli illeciti. Tale divieto, che può durare da uno a cinque anni, può riguardare anche lo stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi locali. Si ricorda come, in relazione alla disciplina del Daspo, che può essere emesso non necessariamente dopo una condanna penale, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 512 del 2002, ha inquadrato la misura del Daspo tra le misure di prevenzione, che possono, quindi, essere inflitte indipendentemente dalla commissione di un reato accertato in via definitiva.

Ulteriori misure di durata massima di due anni, mutuate dalla disciplina del Daspo, saranno adottabili nei confronti dei condannati con sentenza definitiva negli ultimi tre anni per i reati previsti dal citato Testo unico stupefacenti. Obbligo di presentazione presso gli uffici di polizia o dei carabinieri, obbligo di rientro nella propria abitazione entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata, divieto di allontanarsi dal comune di residenza, obbligo di presentazione alla polizia negli orari di entrata e di uscita degli istituti scolastici: queste ulteriori misure potranno essere erogate dal questore, singolarmente o cumulativamente. Anche per tali misure si fa rinvio alla possibile applicazione di alcune delle disposizioni sul Daspo di cui all’articolo 6, commi 2-bis, 3 e 4 della legge n. 401 del 1989.

I divieti e le misure dettate dell’articolo 13 sono adottabili anche nei confronti di minori ultra quattordicenni con notifica del provvedimento ai genitori o a chi esercita la relativa potestà. La disposizione riprende quella identica in vigore per il Daspo nelle manifestazioni sportive dettata dalla legge n. 401 del 1989. Il comma 6 punisce con la sanzione pecuniaria amministrativa da 10 mila a 40 mila euro e la sospensione della patente da sei mesi a un anno la violazione delle misure adottate dal questore previste dai commi 1 e 3. Spetta al prefetto adottare i relativi provvedimenti. Secondo quanto indicato dalla relazione illustrativa, la clausola di salvezza introdotta al comma 6 sarebbe diretta a evitare il ne bis in idem e a consentire l’applicazione del principio di specialità, dato che l’illecito potrebbe ricadere nell’ambito di applicazione dell’articolo 650 del codice penale, che sanziona con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro l’inosservanza di un provvedimento dell’autorità dato per ragioni di giustizia o sicurezza pubblica.

Il comma 7, infine, reca una disposizione analoga a quella del comma 5 dell’articolo 9, ossia la possibilità che la concessione della sospensione condizionale della pena per i reati in materia di stupefacenti di cui al primo comma sia subordinata all’imposizione del divieto di accesso a locali pubblici o aperti al pubblico specificamente individuati. L’articolo 15 prevede la possibilità di utilizzare il cosiddetto braccialetto elettronico nei confronti dei destinatari della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza che a ciò abbiano prestato, naturalmente, esplicito consenso. Tale disposizione troverà applicazione, naturalmente, nei limiti della disponibilità degli strumenti tecnici di controllo e comunque nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. Si ritiene, nella relazione, che la proposta consenta una maggiore efficacia delle misure di prevenzione e un presumibile significativo abbattimento dei costi legato alla possibilità di verificare da remoto il rispetto delle prescrizioni imposte al prevenuto dall’autorità giudiziaria.

Inoltre, consente una migliore dislocazione delle pattuglie sul territorio ai fini del controllo dell’ordine pubblico, consentendo di recuperare, a tali fini, le pattuglie che si sarebbero dovute utilizzare per controllare il sorvegliato speciale, il quale ora potrà essere controllato a distanza. Sempre nella relazione si legge che attualmente i braccialetti disponibili sono 2 mila, di cui 200 dotati di un dispositivo GPS, e la loro utilizzazione può essere sostenuta con le risorse disponibili a legislazione vigente. L’articolo 16, relativo all’articolo 639, deturpamento e imbrattamento di cose altrui, del codice penale, prevede che il giudice possa disporre il ripristino o la ripulitura dei luoghi, ovvero l’obbligo alla rifusione delle spese derivanti dal risarcimento del danno per chi deturpa o imbratta beni immobili o mezzi di trasporto pubblici o privati.

L’articolo 17 assicura la neutralità finanziaria dell’intero decreto-legge, precisando che l’attuazione del provvedimento non comporta nuovi o maggiori oneri a carico della finanza, posto che, comunque, dall’attuazione del decreto-legge si attendono nuove entrate, non ancora quantificabili, legate all’introduzione delle nuove fattispecie sanzionatorie.

PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il relatore di minoranza, onorevole Cristian Invernizzi.

CRISTIAN INVERNIZZI, Relatore di minoranza. Grazie, signor Presidente. Noi, come gruppo di minoranza, in particolare io come relatore di minoranza, guardo al presente decreto con un occhio anche benevolo, perché rappresenta, innanzitutto, un’inversione di tendenza - ormai, diciamo, crepuscolare, ormai al termine dell’esperienza di Governo, al termine, probabilmente, anche della legislatura, questo auspichiamo il prima possibile, comunque nell’ultima parte - dell’attuale maggioranza, dell’attuale Governo, erede, nonché figlio, nonché fotocopia di quello che l’ha preceduto, su uno dei versanti più importanti, uno dei più delicati e sicuramente più trascurati dall’azione di Governo negli ultimi quattro anni, possiamo anche dire cinque anni, vale a dire proprio quello della sicurezza.

Per troppo tempo, in quest’Aula, quando soprattutto la minoranza e soprattutto la Lega Nord e altri gruppi si alzavano per chiedere interventi efficaci, interventi urgenti, interventi non più procrastinabili dal punto di vista del cittadino, dal punto di vista della sua legittima aspettativa di essere tutelato da colui che istituzionalmente ne ha il compito, vale a dire lo Stato, troppe volte ci siamo sentiti dire che era il populismo che parlava e che, soprattutto, vi era la volontà di lucrare elettoralmente su pochi sporadici episodi, soffiando sulla paura, parlando alla pancia della gente, eccetera, eccetera. Prendiamo atto che, dopo ormai quattro anni di legislatura, questi appelli non sono stati probabilmente lanciati a sproposito o inutilmente. Finalmente, il Governo Gentiloni prende atto di una questione, in particolare il Ministro Minniti, che segna, questo sì, unico Ministro, un punto di discontinuità rispetto al precedente, e non ci voleva neanche molto.

Appena insediato, pone molto, dall’inizio di questo suo Ministero, cui auguriamo, ovviamente, il massimo della fortuna, perché è interesse di tutti, l’accento proprio su un concetto fondamentale: sicurezza, sicurezza integrata, ruolo dei sindaci, ruolo degli enti locali, piccoli reati che sappiamo tutti da chi vengono commessi e che rappresentano, nella stragrande maggioranza dei casi, il motivo principale per cui uno non si sente neanche più sicuro a casa sua, non si sente più sicuro nel suo quartiere.

Motivo per il quale vengono anche resi noti dalla cronaca, secondo alcuni in modo eccessivo, in modo irresponsabile, tutta una serie di reazioni che all’interno comunque della nostra società, delle nostre comunità, si stanno determinando. Si tratta in alcuni casi, o sono volutamente considerati, di piccoli fenomeni, che, però, incidono pesantemente sulla qualità dalla vita delle persone. Si tratta di quelle azioni criminali e delittuose che molte volte aumentano quella che qualcuno considera, con un termine che a me non è mai piaciuto, l’insicurezza percepita, come se fosse un qualcosa di non reale, come se fosse un sentimento irrazionale, come se i cittadini percepissero qualcosa che non corrisponde, comunque, alla realtà. Per cui, ci fa piacere vedere che finalmente una maggioranza di più o meno centrosinistra valuta con attenzione questi problemi e, nel fare ciò, recupera come protagonisti principali proprio i sindaci, vale a dire quei sindaci che, quando un altro Ministro dell’interno, qualche anno fa, elaborò e fece approvare proprio il piano sicurezza - mi riferisco, ovviamente, al Ministro Maroni -, sia dalla minoranza di allora che dalla stampa non certo filogovernativa, o meglio, non certo filocentrodestra, si cominciò subito a definire i sindaci “sindaci sceriffi”.

Quindi, come una piccola caricatura di queste persone che, non riuscendo a capire che il ruolo del sindaco non è quello di mettersi una stella di latta al petto, di rispondere al bisogno ai cittadini, ma, come qualcuno probabilmente pensa, di ergersi a sacerdote laico di una nuova religione, che impone il buonismo, l’accoglienza a tutti i costi, eccetera, eccetera, come ruolo istituzionale.

Ecco, proprio quelle persone oggi vengono richiamate, con il ruolo dell’ordinanza, così come si fa proprio esplicitamente in questo disegno di legge, all’assunzione di una responsabilità chiara: noi sappiamo - e lo sapete anche voi - che oggi il sindaco è colui che ricopre quel ruolo istituzionale e che, proprio per la sua singolarità - anzitutto perché viene eletto direttamente e, in secondo luogo, perché parliamo dell’Italia, di 8 mila campanili, la stragrande maggioranza dei comuni costituiti da comunità che faticano, in alcuni casi, a superare le poche migliaia di abitanti -, è colui che viene riconosciuto per strada, che viene conosciuto da una vita, colui che si incontra al bar; è colui che non soltanto riceve i cittadini nei momenti, nei luoghi istituzionali, ma che molte volte viene visitato dai cittadini che vanno a casa a suonargli il campanello per dirgli che ci sono tutti i problemi che tutti noi conosciamo. Quindi, oggi il sindaco viene rivalutato e a noi questo fa piacere.

Quello che ci piace anche in questo disegno di legge è il porre l’accento, con l’aggravio di alcune pene, su quelli che sono considerati reati minori, ma che, secondo noi, rappresentano l’indice del degrado. Inversione di tendenza anche in questo caso, mi consenta, Presidente, di dire, perché abbiamo assistito in questi anni a tutta una sorta di depenalizzazioni forzate, a tamburo battente, finalizzate probabilmente ad un’idea di sicurezza che vede nella repressione quasi il rischio di ottenere l’effetto contrario: per cui da scongiurare, la repressione intesa come repressione penale, limitiamola a sanzione amministrativa. Bene, anche in questo caso finalmente si capisce che nelle società moderne, purtroppo, non si può arretrare di un millimetro. Se lo si fa, quartieri che, fino a un paio d’anni prima, sembravano immuni da tutti i reati, da tutti i crolli di vivibilità che conosciamo, poi affrontano proprio queste situazioni: diventano quartieri non più vivibili, i cittadini si lamentano, i sindaci non sanno cosa fare, si sbatte la testa, eccetera, eccetera.

Cosa manca? Anche questa è, purtroppo, un’occasione mancata. Innanzitutto non manca, ma è presente, la clausola di neutralità finanziaria. Non si riesce a capire come mai, tra tutti i beni suscettibili di protezione e valorizzazione legislativa, la sicurezza sia quella che viene concepita, soprattutto da una parte politica, come necessariamente da perseguire gratuitamente: come se fosse da fascisti dire che la sicurezza effettivamente costa. Sì, costa, la sicurezza, non è gratis: la sicurezza è un bene come la salute e nessuno si scandalizza quando si dice che la salute costa, per cui bisogna investire nella salute.

La sicurezza è un bene pubblico, la sicurezza va pagata, la sicurezza va incentivata, nella sicurezza bisogna investire; e soprattutto, permettetemi di dire, oltre a quei casi che diventano quasi di scuola per chiunque faccia opposizione: ogni volta che si fa in opposizione, si accusa il Governo di non garantire alle gazzelle, alle volanti, alle pantere di riuscire a fare il pieno di benzina alla macchina, insomma di fermarsi in autostrada quando fanno inseguimenti. Quindi, proprio nel comparto della pubblica sicurezza, che è gestita dallo Stato, in questo caso non si è dato il peso necessario a quella… Non le chiamo forze di polizia, perché non lo sono, nel senso proprio del termine, e dico “purtroppo”, ma rappresenterebbero secondo noi un presidio importante dal punto di vista della sicurezza integrata: mi riferisco alla Polizia locale, rappresentata da decine di migliaia di agenti, che oggi, caso probabilmente unico nel panorama occidentale, rappresentano un ibrido sostanziale, un ibrido tra un agente di pubblica sicurezza e un impiegato del catasto.

Non si capisce di preciso che cosa sia la Polizia locale! E io dico purtroppo, sulla Polizia locale non si investe, sulla Polizia locale non si vuole - perché manca la volontà politica, non dico soltanto in questa legislatura, ma anche nella precedente - approvare una legge per il riordino di questo ruolo, che sia organica e razionale.

Giace in Commissione affari costituzionali ormai da tempo tutta una serie di proposte di legge (cito soltanto quella a firma Naccarato), che sembrano indirizzate - questo mi spiace dirlo - sulla via della decadenza per mancata volontà di affrontarle: questo spiace, perché gli agenti di Polizia locale sono persone che girano in divisa, girano armate. Noi abbiamo decine di migliaia di persone che girano armate e che giustamente non possono sparare un colpo di pistola. Non si ha notizia che un agente di Polizia locale spari: ci mancherebbe altro, e per fortuna; ma non accade perché appunto, ripeto, purtroppo l’agente di Polizia locale oggi è un ibrido, non si capisce bene che cosa faccia.

L’agente di Polizia locale non viene addestrato per i compiti che dovrebbe avere. Noi, quando mandiamo sulle strade agenti in divisa, dovremmo anche pensare, innanzitutto, alla loro incolumità, dovremmo pensare al fatto che secondo alcuni… E purtroppo i casi di cronaca ce lo hanno confermato: penso al caso di Milano di 3-4 anni fa, dove quell’agente di Polizia locale venne investito e purtroppo ucciso durante un controllo. Ecco, ci sono in giro persone che vedono nella divisa di per sé una minaccia (ovviamente parlo di criminali) e, quando vedono un agente di Polizia locale, in alcuni casi lo considerano una minaccia al pari di un carabiniere o di un agente di pubblica sicurezza e si scagliano verso queste persone con la stessa determinazione che usano con i soggetti che ho citato prima, carabinieri oppure agenti di pubblica sicurezza, che però hanno quantomeno la fortuna non di essere pagati di più (perché questo è un antico problema, che magari un giorno affronteremo), ma di essere addestrati meglio. Gli agenti di Polizia locale non sono addestrati meglio, anzi sono addestrati peggio! Gli agenti di Polizia locale vengono visti molte volte anche dagli apparati dallo Stato come coloro che devono solo fare le multe e nient’altro, perché rischiano, se no, di complicare la situazione.

Ecco, quindi, per esempio - e arrivo al punto - il discorso dell’equo indennizzo, che noi ci aspettiamo: è una spesa irrisoria rispetto al bilancio dello Stato, è una spesa veramente che non può non essere affrontata anche in un periodo di crisi come questo; è una questione di giustizia, è una questione di dignità nei confronti di persone che indossano una divisa. Per cui ci aspettiamo che, quantomeno nel prosieguo dell’esame di questo decreto-legge, la questione dell’equo indennizzo possa essere affrontata e risolta una volta per tutte.

Ci sarebbero tante altre questioni che riguardano gli enti locali e che poi avremo fortunatamente in questo caso - perché pare che almeno stavolta ci sia la volontà di non porre la fiducia, e quindi di rispettare il ruolo del Parlamento, dei parlamentari e dei gruppi di opposizione - la possibilità di parlare e affrontare con dovizia di particolari una questione così importante, per cui, nel corso del prosieguo dalla discussione, affronteremo tutti i vari aspetti che non ci piacciono.

Ci piace il discorso del Daspo: il Daspo, secondo noi, è una bella iniziativa. Il Daspo rappresenta la presa di coscienza del fatto che molte volte con alcune persone è inutile parlare: molte volte alcune persone che causano quello che è un fortissimo disquilibrio all’interno di quella che possiamo considerare la vivibilità di un territorio; non sono povere vittime della società, che in qualche modo la società deve avere a cuore; non sono vittime della globalizzazione o del colonialismo; sono persone che vanno allontanate da determinati posti, perché li occupano e fanno da padroni e usano una violenza, in alcuni casi, non soltanto morale, ma anche fisica, nei confronti degli strati più esposti delle nostra comunità.

Mi riferisco alle persone anziane, mi riferisco ai minorenni, alle donne non accompagnate. Il Daspo è il primo punto di un concetto che a noi piace, che è quello che se un determinato spazio è pubblico significa che non è il territorio di conquista di nessuno; è pubblico non perché ancora nessuno ci ha messo le mani, ma perché deve essere goduto da chiunque. Per cui, alcuni aspetti di questo disegno di legge a noi paiono andare nella direzione giusta.

Purtroppo, per ora parliamo solo di direzione, perché non sappiamo se effettivamente l’attività del Ministro Minniti sia soltanto la foglia di fico di una maggioranza che sente avvicinarsi con passo deciso le elezioni ed è cosciente del fatto che, appunto sul piano della sicurezza, non soltanto integrata ma generale, sicuramente qualcosa da farsi perdonare dagli elettori ce l’ha; quindi non sappiamo se l’attività del Ministro Minniti sarà effettivamente voluta dalla maggioranza e sarà accompagnata dalla determinazione di porre in essere quanto in questo decreto è scritto.

Però, dicevo che ci piace anche il fatto che in coppia con questo decreto c’è quello attualmente in discussione al Senato, sull’immigrazione, che pone tutta un’altra serie di rilievi, secondo noi, importanti, che, in combinato disposto con il presente decreto, fanno capire sostanzialmente una cosa: non è vero che quello che abbiamo fatto in questi anni aveva l’unica finalità di offrire risposte facili, risposte semplici alla pubblica opinione, finalizzate a lucrare in modo elettorale. No, i problemi che ponevamo, signor Presidente, sono problemi che, purtroppo, ogni giorno sono destinati a crescere se dall’altra parte, dalla parte che si contrappone a quella della delinquenza, non vi è un’organizzazione statale che, in tutte le sue componenti, quindi a partire dallo Stato per arrivare ai comuni, si ponga come un unico corpo e un unico obiettivo, che secondo noi deve essere sempre e sostanzialmente uno, cioè quello di porre in primo piano la difesa del cittadino onesto; di porre in primo piano il suo diritto a vivere in modo pacifico, non soltanto all’interno dalla propria abitazione - anche se capisco che ciò per qualcuno già rappresenta un assurdo quasi ideologico -, ma vivere anche in modo tranquillo nella sua strada, vivere in modo tranquillo nel suo quartiere, essere sostanzialmente tranquillo di potere godere della propria città, senza che qualcuno o qualcosa glielo impedisca, semplicemente per lucrare, sì, in questo caso, su pochi o tanti euro. Infatti, ricordiamo che, dietro a tutta una serie di fenomeni, c’è anche il fenomeno del racket, che non si sconfigge certamente con moduli antiquati e ormai sconfitti che chiamiamo sinteticamente “buonismo”.

PRESIDENTE. Prendo atto che il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.

È iscritto a parlare l’onorevole Gregorio Fontana. Ne ha facoltà.

GREGORIO FONTANA. Presidente, colleghi, era il 23 luglio 2008 quando il Parlamento approvò in via definitiva il cosiddetto “pacchetto sicurezza” varato dal Governo Berlusconi.

Il quadro che presentava allora il nostro Paese era altamente inquietante: Roma era ancora sconvolta dai terribili scontri di piazza fomentati dai BlackBloc nel corso della Marcia per la pace; imperversava una criminalità organizzata diffusa sul territorio ramificata e stratificata. Il Governo Berlusconi, proprio allora, stava lavorando a quegli accordi con i Paesi del fronte africano che avrebbero arginato, per alcuni anni, l’arrivo dei flussi migratori, che fino a quel momento stavano mettendo in ginocchio il nostro Paese e che oggi si ripresentano con ancora maggiore drammaticità. Era un quadro inquietante, ma noi non ci facemmo spaventare dall’enorme mole di lavoro che ci aspettava nell’eradicazione della criminalità, né demotivare da questa sinistra faziosa e buonista, che criticava il “pacchetto sicurezza” con slogan propagandistici.

Andammo avanti, accusati forse di avere un pugno troppo di ferro, ma forti delle nostre idee a presidio dei cittadini; andammo avanti senza alcun pregiudizio ideologico, ripartendo da quel “pacchetto Amato”, che, solo per tensioni, queste sì, di carattere sicuramente ideologico, interne alla passata maggioranza, non aveva avuto pratica attuazione, nonostante il fattivo ruolo dell’opposizione.

Intervenimmo in tutti i settori, individuando norme che garantissero maggiore celerità nella celebrazione dei processi, maggiore certezza per quanto riguarda la pena in concreto inflitta, misure più deterrenti che contenessero il fenomeno dell’immigrazione clandestina, che fatalmente si salda in modo inscindibile alla microcriminalità diffusa.

I successivi Governi hanno provato a smantellare quanto di buono venne fatto allora e oggi ci troviamo davanti a un provvedimento che in un certo senso cerca di ricalcare le orme tracciate in materia di sicurezza dal Governo di centrodestra, ma lo fa senza spina dorsale, senza impiegare fondi per le forze dell’ordine, senza prevedere, ad uso della magistratura e degli amministratori delle città, norme sanzionatorie che servirebbero da deterrente; senza ascoltare le reali esigenze dei sindaci, imbrigliati nei vincoli di bilancio, che non riescono più a sostenere i costi per la tutela del territorio; senza dare spiraglio ad una giustizia troppo ingolfata, che non è più in grado di dare risposte sanzionatorie in tempi ragionevoli. Ma specialmente, un provvedimento cieco dinanzi ad una microcriminalità sempre più legata ai fenomeni dell’immigrazione clandestina, che ormai soffoca le nostre città, destabilizzando e procurando insicurezza e profondo disagio ai cittadini. Un provvedimento che riscrive, senza reali necessità, norme di definizione e ribadisce provvedimenti già scritti. Mi limiterò qui solo a una breve disamina.

Una definizione completa di sicurezza urbana venne già fornita in maniera chiara e compiuta dal “decreto Maroni” del 2008, mentre i patti per la sicurezza prescritti da questo decreto si stipulano già dal 1997. Grazie al decreto del 2008 del Governo Berlusconi, se ne è estesa la possibilità di predisposizione anche ai comuni minori e alle forme associative sovracomunali, per potenziare la capacità di intervento della polizia locale nelle attività ordinarie.

E ancora, sempre con provvedimento dell’agosto 2008 del Governo Berlusconi, già oggi i sindaci possono intervenire per prevenire e contrastare l’incuria e il degrado e l’occupazione abusiva di immobili, ovvero le situazioni che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico.

Ed è sempre per quei provvedimenti dell’agosto 2008 del Governo Berlusconi se già oggi, in capo al sindaco, è riconosciuto il potere di intervenire per prevenire e contrastare lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con l’impiego di minori disabili e i fenomeni di violenza legati anche all’abuso di alcol.

Potremmo continuare, ma è evidente che questo decreto in discussione oggi non fa altro che ricalcare senza innovare. Ma la criminalità e la microcriminalità sono fenomeni che si modellano al mutare della società e oggi assistiamo all’affacciarsi di nuove realtà criminogene, acuite dalla crisi economica, che ha determinato un esacerbarsi dei fenomeni di violenza nelle città.

Dobbiamo poi fare i conti con le nuove problematiche connesse al fenomeno immigratorio, con gli estremisti, espressione di rapidi processi di radicalizzazione o reduci dal conflitto siro-iracheno, con le nuove organizzazioni straniere operanti in Italia sul versante della contraffazione, che tanto ledono il nostro madeinItaly.

Eppure, il Governo si è mostrato fino ad oggi sordo ai suggerimenti migliorativi, che andrebbero apportati, per far fronte alle nuove necessità del Paese, dettate dai nuovi profili di criminalità. Riprova di questo atteggiamento è l’accelerazione impressa all’iter del provvedimento nelle Commissioni I e II: un esame rapidissimo, sfrenato, che non ha concesso reali margini di ragionamento sulle proposte emendative presentate a miglioramento del testo.

Ringrazio ovviamente i relatori per il lavoro svolto con grande professionalità; probabilmente anche le loro sensibilità avranno avvertito quanto sarebbe stato necessario un ragionamento più approfondito e non limitato a un solo pomeriggio da dedicare a un argomento così delicato e di attualità.

Forza Italia naturalmente continuerà a proporre gli emendamenti che reputa migliorativi al testo, ma non solo. Il fine settimana appena trascorso ha visto grande adesione alle iniziative organizzate in centinaia di piazze italiane per la promozione del Security Day da parte di Forza Italia. Siamo stati e saremo fra la gente, ascoltando i sindaci, raccogliendo proposte, verificando la giustezza delle nostre intenzioni e l’urgenza di attuarle quanto prima, perché sono i cittadini italiani che ci chiedono sicurezza per le loro famiglie, sono i commercianti che vogliono maggiori tutele dalla microcriminalità, sono i sindaci che chiedono gli adeguati mezzi per poter aiutare il territorio, sono le forze dell’ordine, ormai al collasso, a chiedere di poter servire il loro Paese in maniera dignitosa. Le iniziative di Forza Italia nelle piazze italiane continueranno fino a quando continuerà la discussione in Parlamento del pacchetto sicurezza. Vogliamo fungere da monito, da presidio, da picchetto pacifico, per ricordare che tanto c’è da fare, ma niente di nuovo da inventare.

Abbiamo le proposte giuste sulla sicurezza, semplicemente perché di sicurezza ci occupiamo da anni. Io personalmente ho presentato nel corso del tempo numerose proposte di legge sul tema, i cui principi sono stati poi trasposti in proposte emendative, e così tanti altri colleghi di Forza Italia da sempre impegnati in prima linea sui temi della tutela del territorio, dei cittadini, nonché delle condizioni di lavoro dei cittadini in divisa.

L’esigenza prioritaria, alla quale è necessario provvedere, è quella di fornire adeguati strumenti alle forze dell’ordine e dare reale voce ai sindaci e agli amministratori locali in materia: non slogan, ma stanziamenti economici, non norme bandiera, ma strumenti efficaci di deterrenza sanzionatoria. Mi limiterò a fare solo qualche esempio.

Siamo fermamente convinti che sia necessario dotare le forze dell’ordine degli strumenti necessari per arginare la paura fortemente percepita dai cittadini. Che nel flusso dei migranti si nascondano militanti jihadisti, intenzionati a seminare il terrore nelle nostre città, è una questione sicuramente reale. Attualmente le forze dell’ordine dispongono appena di ventiquattro ore per procedere all’identificazione di chi viene fermato, che spesso si rifiuta di farsi identificare. Si tratta di un tempo del tutto insufficiente, in base all’esperienza di questi anni. È possibile aumentare questo tempo a 72 ore, rispondendo a un’esigenza fatta presente da diversi esponenti delle forze dell’ordine auditi.

La mancata identificazione di gran parte dei migranti richiedenti asilo contribuisce a rendere più confuso e opaco il quadro nel quale le forze dell’ordine devono operare per difendere il nostro Paese dalla minaccia terroristica. È quindi necessario concedere più tempo per l’identificazione di un fermato, senza ledere le garanzie costituzionali, ma rafforzando strumenti in mano alle forze dell’ordine per svolgere il loro compito.

Le cronache di questi giorni confermano poi la necessità di dotare al più presto le nostre forze di polizia anche di strumenti efficaci e moderni di difesa non letale, ma che consentano di bloccare i delinquenti. Ultimo in ordine di tempo è uno spiacevole episodio, grave episodio, successo proprio a Lecco, dove un agente, il mese scorso, è morto tragicamente per evitare di usare l’arma di ordinanza.

Le nostre forze dell’ordine devono essere messe in condizione di usare queste pistole a impulsi elettrici, cosiddetti taser, come del resto tutti i loro colleghi d’Europa fanno, tutti i loro colleghi del mondo già utilizzano da anni.

Sarebbe poi opportuno: introdurre un’anagrafe centralizzata dei migranti, gestita dalle prefetture, per esonerare i comuni da questo gravoso compito in termini sia economici che funzionali; dare la possibilità alle prefetture di gestire i profili burocratici del fenomeno migratorio, in particolare per quel che riguarda la gestione delle pratiche di residenza.

Bisogna anche prevedere una disciplina più stringente ed efficace della legittima difesa. L’aumento dei fenomeni di criminalità ordinaria comporta uno sforzo crescente da parte delle forze dell’ordine, che devono essere poste in condizione di fronteggiarli adeguatamente. Tragedie, come quella avvenuta a Lodi nei giorni scorsi, sono un fallimento dello Stato, che non è in grado di svolgere il suo compito fondamentale in un sistema liberale: proteggere la vita, l’incolumità e la proprietà dei cittadini. La responsabilità non può essere scaricata sulle spalle di chi difende se stesso, i propri cari, le proprie cose: responsabile è l’aggressore e responsabili sono anche le istituzioni, se non sono in grado di prevenire e impedire l’aggressione. Bisogna passare dalla legittima difesa al diritto alla difesa, che è un diritto naturale per ogni cittadino, quando lo Stato non arriva a farlo (Applausi del deputato Brunetta).

In definitiva, bisognerebbe inserire norme di buon senso. Per esempio, di buonsenso era la proposta emendativa presentata da Forza Italia che avrebbe permesso ai sindaci di utilizzare quota del gettito di imposta municipale per finalità di accoglienza e assistenza ai minori stranieri non accompagnati e dare diritti a tutti, senza sottrarli a chi è più indifeso. Mentre lo Stato non fa nulla, ci sono comuni che, pur di far fronte all’emergenza legata ai minori stranieri non accompagnati, stanno andando in dissesto economico. Troppo comodo scaricare sui comuni, sui sindaci, sui cittadini, doveri e responsabilità che spettano allo Stato, specialmente su temi così sensibili.

Infine, un pensiero va alle nostre forze dell’ordine, trattate da questo Governo un giorno da eroi, quando se ne vuole giustamente premiare il coraggio nelle situazioni di emergenza, come quelle verificatesi a seguito dei tragici eventi del terremoto, e il giorno dopo come zavorra su cui scaricare le incombenze lavorative, senza dotarli di mezzi e di strumenti idonei.

Questo è un Governo che non provvede nemmeno ad attivarsi per revocare la cittadinanza italiana ai foreign fighters e a tutti i terroristi neo jihadisti - noi crediamo che la cittadinanza debba venire revocata a chiunque abbia partecipato, a qualunque titolo, ad azioni riconducibili a Daesh, in generale al terrorismo di matrice jihadista -, con il risultato, quanto meno bizzarro, che non solo non si premiano adeguatamente i nostri eroi, fedeli servitori dello Stato presenti sulle nostre strade tutti i giorni, per tutelare con i pochi mezzi noi e le nostre famiglie, ma si mantiene la cittadinanza italiana in capo a chi è diventato eroe agli occhi di assassini sanguinari.

L’articolo 52 della Costituzione recita: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”, ma è sacro dovere anche dello Stato, del Governo e del Parlamento.

Ci auguriamo, come rappresentanti di Forza Italia, che in quest’Aula il Governo rifletta, ritorni sui suoi passi e decida di approfondire le nostre proposte, eviti di imporre il voto di fiducia su argomenti che stanno a cuore ai cittadini italiani, dando a tutte le forze politiche la possibilità di confrontarsi con le reali necessità del Paese (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia-Il Popolo della Libertà-Berlusconi Presidente).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Giuliani. Ne ha facoltà.

FABRIZIA GIULIANI. Presidente e signori del Governo, come già hanno approfonditamente illustrato il relatore della I Commissione e la relatrice della II, il decreto oggi in discussione riguarda una serie organica di misure di sicurezza, un concetto sul quale credo occorra misurarsi ancora, anche alla luce della discussione che stiamo registrando.

Ora, io non mi soffermerò appunto sui singoli articoli - sono stati già più che ampiamente illustrati - ma ho chiesto di poter intervenire per invece motivare e argomentare alcuni principi alla base del decreto in esame, che reputiamo particolarmente rilevanti. In primis, il principio della sicurezza integrata: nella relazione illustrativa si è evidenziato come il modello sviluppato, anche in attuazione del principio di coordinamento legislativo tra lo Stato e le regioni, di cui all’articolo 118, terzo comma, della Costituzione ammetta l’esistenza di uno spazio giuridico orizzontale, nel quale interagiscono soggetti diversi, con strumenti e legittimazioni distinte, uniti dalla consapevolezza che la cooperazione tra i diversi livelli di governo possa garantire maggiori e più adeguati livelli di sicurezza, laddove quest’ultima - e questo è il punto - non va solo più identificata con la sfera della prevenzione e della repressione dei reati - una posizione, io credo, Presidente, questa davvero da superare - e quindi con la sfera della sicurezza primaria, ma sia intesa anche come attività volta al perseguimento di fattori di equilibrio e di coesione sociale, di vivibilità e di prevenzione situazionale, connesse ai processi di affievolimento della socialità nei territori delle aree metropolitane.

A tal fine, si prevede che lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano possano concludere specifici accordi per la promozione della sicurezza integrata, anche diretti a disciplinare gli interventi a sostegno della formazione e dell’aggiornamento professionale del personale - questo della formazione è un capitolo rilevante - anche sulla base di questi accordi e regioni e province possano sostenere, nell’ambito delle proprie competenze e funzioni, iniziative e progetti volti ad attuare interventi di promozione della sicurezza integrata nel territorio di riferimento, inclusa l’adozione di misure di sostegno finanziario a favore di comuni maggiormente interessati a fenomeni di criminalità diffusa.

Altro punto fondamentale del decreto è quello relativo alla sicurezza urbana, che viene definita all’articolo 4 appunto come bene pubblico. Il medesimo articolo provvede anche ad individuare alcune aree di intervento volte a promuovere tale sicurezza: la riqualificazione, l’eliminazione di fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, la prevenzione della cultura del rispetto della legalità, come modificato nel corso dell’esame in sede referente, l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile. Io credo davvero che oggi sia necessario evitare di replicare in modo statico, di ripetere categorie concettuali maturate in altri tempi ed in altre società: l’opposizione tra repressione e libertà, repressione e prevenzione. La sicurezza è un bene comune oggi ancora più importante, è un prerequisito dell’esercizio della libertà, soprattutto per chi oggi ne è escluso. Oggi la sicurezza non è di tutti. Le nostre geografie urbane disegnano realtà molto diversificate, che non riescono a garantire autonomia, libertà di movimento, sicurezza e cura a tutti. E questo non è accettabile, non è accettabile e va tutelato esattamente chi si trova in una posizione di debolezza, in una posizione di difficoltà. Occorre garantire e perseguire a questo fine appunto un principio di giustizia adeguato alle necessità dell’oggi e abbandonare vecchie categorie ideologiche.

Voglio solo portare ancora qualche dato per ricordare come la criminalità nelle grandi aree urbane abbia appunto necessitato approfondimenti. Dalle relazioni che abbiamo avuto modo di vedere, emerge un quadro di decisamente allarmante che io credo debba essere alla base di qualsiasi riflessione in materia di sicurezza. Stando ai dati del rapporto del 2015, nelle aree di città come Torino, Milano o Genova, è stato commesso il 22 per cento dei furti consumati al nord. Ad Ancona, Firenze e Roma è stato commesso il 43,65 per cento dei delitti specifici del centro Italia. Nelle aree di Bari, Napoli e Palermo, il 19 per cento dei furti al sud.

Anche in virtù di questi dati, ritengo importante la disposizione dell’articolo 8, che prevede che il sindaco possa appunto adottare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana, volte a prevenire e contrastare situazioni che favoriscano l’insorgere di fenomeni criminosi e di illegalità, fenomeni di abusivismo come quelli già menzionati nella discussione da parte dei miei colleghi. Mi sembra importante sottolineare come ad una disposizione che può sembrare marginale, come l’introduzione del numero di emergenza unico europeo 112, sia collegata la possibilità da parte delle regioni di poter utilizzare i risparmi derivanti dalle cessazioni di servizio previste per l’annualità 2017-2018 e 2019, per assumere a tempo indeterminato personale di qualifica non dirigenziale.

Vorrei chiudere sottolineando ancora una volta come il provvedimento, pur riguardando appunto un tema fondamentale come quello della sicurezza delle città, vada a rafforzare e appunto non vada ad opporsi a misure di prevenzione. La coesistenza di queste due direttrici a mio avviso è il tratto decisivo di questo decreto ed è un approccio che condivido e reputo fondamentale per le sfide che oggi abbiamo davanti e mi auguro davvero che la discussione si affranchi sempre più da argomenti già ascoltati, da contrapposizioni - come abbiamo avuto modo di illustrare - davvero superate, e proceda senza intoppi anche nell’Aula del Senato.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole D’Attorre, il quale, tuttavia, non è presente in aula, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Daniele Farina. Ne ha facoltà.

DANIELE FARINA. Grazie, Presidente. Noi abbiamo da molti anni denunciato che la legislazione speciale introdotta in ambito di manifestazioni sportive avrebbe finito coll’esondare nella società e infatti eccoci qua. Provvedimenti corruttivi delle libertà costituzionalmente garantite, in nome della tutela di un nuovo bene giuridico, la sicurezza urbana.

Si introducono, insomma, norme e dispositivi, si istituiscono patti, nuovi comitati, si distribuiscono poteri. È la continuazione aggravata della linea sostanziata dalla legge n. 125 del 2008 dell’allora Ministro Maroni e smontata dalla Corte costituzionale nell’aprile del 2011 per fortuna. Questo è in sostanza il “decreto Trump-Minniti”. Da qui in avanti, per brevità, così lo definiremo.

Un enorme potere è attribuito ai sindaci, un potere di ordinanza, anche molto oltre le condizioni di gravità e urgenza, senza possibilità di immediata tutela giurisdizionale e pure motivazione, pensate voi. Qualche collega, direi buontempone, in sede di espressione del parere in Commissione, ha messo per iscritto - poi qui qualcuno l’ha detto a voce - l’apprezzamento per la scelta di un approccio integrato ai temi della sicurezza. Penso che evidentemente girano dei decreti diversi in quest’Aula, perché di integrato qua dentro, a parte la sintassi, io non ho trovato nulla, noi non abbiamo trovato nulla. Pure misure di prevenzione, antichissimi dispositivi di polizia, mescolati con qualche chiacchiera sulla perdurante crisi economica e il degrado delle periferie.

Quando però si va a stringere, si scopre che di oneri aggiuntivi per la finanza pubblica non se ne prevede alcuno e quindi resta la sostanza, il nucleo duro di pubblica sicurezza, il questore di ferro e il sindaco-sceriffo, piacerà non piacerà, ma è così.

La sicurezza non è di destra, né di sinistra. Credo che il Ministro lo abbia detto anche al Lingotto in quest’ultimo fine settimana, però per sapere dove svolta, basta seguirla, la sicurezza. Questo decreto si diceva che ha un precedente all’epoca del Ministro Maroni, che, se definito di sinistra, il Ministro Maroni certamente metterebbe mano alla pistola. Da lì, ha preso origine una raccapricciante stagione di ordinanze di sindaci stellati. Anche questo decreto Trump-Minniti è una sorta di legge-delega ai sindaci. Di quella ingloriosa stagione, l’ANCI ha sviluppato un poderoso studio sulle ordinanze: con quale oggetto, a chi rivolte, eccetera. Quasi il 45 per cento di queste ordinanze, che noi resuscitiamo per intero, si rivolge ai rom, ai senza fissa dimora, alla movida e agli immigrati. Sono i fatti concreti di quegli anni.

Quindi ci risiamo: quello di Maroni era e questo di Minniti è un provvedimento contro i poveri. Capisco l’iniziale sconcerto e l’agitazione dei colleghi della Lega, nettamente scavalcati dal testo di questo decreto e alla ricerca di una rotta di navigazione più estrema nella sfida “dell’impiccalo più in alto”. Purtroppo, siamo già nelle acque del Ventennio e forse col “decreto Trump-Minniti” quella rotta cercata non esiste più. E infatti, avendola cercata, abbiamo sentito il relatore di minoranza della Lega che ha appena espresso benevolenza nei confronti di questo decreto - e ci mancherebbe - dal loro punto di vista. Ma è inutile scomodare Benito, Rocco e il suo codice; possiamo tranquillamente guardare al codice penale sardo del 1859, ben oltre un secolo e mezzo fa, e sostituire “l’ozioso - ed è tutto virgolettato - il vagabondo, il sospetto” di allora con gli odierni rom, ubriaco, tossicofilo e disturbatore, categorie a cui applicare istituti di polizia preventiva, principalmente amministrativi. Oggi come allora! Infatti, poc’anzi parlavo di provvedimenti e di dispositivi antichi, anzi antichissimi. Cosa è la destra e cosa è la sinistra dunque, caro Minniti, caro Gentiloni? Probabilmente ne sapeva di più Giorgio Gaber.

Ma vediamo qualche dettaglio perché, a fronte di una stragrande maggioranza di ottimi sindaci degli oltre 8 mila comuni italiani, nel periodo a cui possiamo guardare, cioè quello del “decreto Maroni”, abbiamo avuto: è vietato l’ingresso ai migranti privi di certificato (sono tutte ordinanze plurime, tra l’altro, e non una); vietati i panni sul balcone; i massaggi alla schiena; i baci in automobile; i castelli di sabbia; il kebab; il riso durante i matrimoni; girare a torso nudo; gli zoccoli ai piedi; il chewing-gum; i tuffi; rovistare nei cassonetti. Poi, ci sono le ordinanze anti-mendicante, i muri anti-lucciole, l’obbligo della lingua italiana nelle cerimonie religiose e si potrebbe andare avanti all’infinito perché stiamo parlando di questo. Ora, associamo ai temi i luoghi e a questi sindaci attribuiamo anche il potere di disporre l’allontanamento, senza possibilità di ricorso giurisdizionale né, dicevo, motivazione alcuna. Normale amministrazione per qualcuno.

Tutti garantisti - vedo - in quest’Aula, in questa nostra Camera dei Deputati e anche al Senato della Repubblica, ovviamente, quando però si parla di Ministri, perché quando, invece, si parla di questi soggetti, a cui vengono applicati gli effetti del decreto, siamo in assenza di sentenza di magistrato alcuno o in presenza di una condanna non definitiva, e questo mi sembra un garantismo abbastanza strano, diciamo, o quanto meno a senso unico alternato.

Vi è poi un cameo, un cameo nero direi: si chiama articolo 13 nel testo che andiamo a convertire, ma il suo vero nome è articolo 75-bis del testo unico degli stupefacenti. Dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 94 del 2016, lo ritroviamo qui, monumento allo stato di polizia e rotto nuovamente dai cassetti del “Ministero dell’inferno”. Oltre 200 deputati hanno firmato una proposta di legge per la legalizzazione della cannabis. In quel progetto di legge si prevedeva di cancellare quell’articolo 75-bis; oggi temo che una parte di loro voterà per reintrodurlo nell’ordinamento. Tra l’altro, se quel progetto di legge fosse stato approvato, buona parte di questo decreto, in conversione, sarebbe stato inutile. Si chiamano strategie alternative per la sicurezza dei cittadini, ma evidentemente si vuole andare in una direzione diversa. Infatti, questo decreto non casualmente procede in coppia: al Senato si discute la parte sull’immigrazione ed è pessimo anche quel provvedimento, ovviamente. Entrambi trasudano paura; la scienza del governo dei corpi nel territorio, banalmente la biopolitica, ha paura.

Avete paura dei flussi di immigrati, per cui non c’è Mago Merlino, e della perdurante crisi economica. È un combinato disposto certamente esplosivo. Occorrerebbero strategie nuove in Italia e in Europa, ma la paura non è mai una buona consigliera e qui ne abbiamo la palese dimostrazione.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Sannicandro. Ne ha facoltà.

ARCANGELO SANNICANDRO. Signor Presidente, signori deputati, un ennesimo decreto-legge. Non so a che numero siamo arrivati, ma un ennesimo decreto-legge palesemente incostituzionale perché è evidente e palese che manca il requisito della straordinaria necessità ed urgenza. Quando il costituente ha fissato questo requisito per la emanazione dei decreti-legge, non si riferiva certamente alle urgenze indotte dalla negligenza dei legislatori o dei governanti, ma si riferiva e prevede che possa essere emanato quando insorgono delle situazioni di emergenza, straordinarie quindi. Invece, in questo caso noi abbiamo una serie di norme, all’interno di una sorta di orgia di parole vuote che si ripetono, che incidono strutturalmente, modificandolo, sul nostro ordinamento. Si modifica anche il codice penale e si modifica anche la relazione di alcune sanzioni amministrative con il codice penale, senza alcun coordinamento e come per dire: nulla di urgente, ma purtroppo tutto profondamente modificativo dell’attuale ordinamento che, però, era indispensabile affrontare con maggiore oculatezza. È stato riferito, appunto, che si è proceduto anche in Commissione con una certa velocità.

Ma questa normativa che si introduce, soddisfa gli operatori del settore? Abbiamo fatto numerose audizioni: abbiamo ascoltato le forze di polizia, numerosi sindacati di polizia, abbiamo ascoltato i rappresentanti dei vigili urbani, della polizia locale, abbiamo ascoltato giuristi. Ebbene, tutti quanti, sia pur dopo aver profferito parole di circostanza circa la bontà del provvedimento, si sono dilungati nella elencazione di numerosissime carenze. Ne è venuto fuori un quadro di omissioni da parte del Governo in questi anni veramente impressionante e qualcuno ha detto: “Noi vogliamo approfittare di questa occasione per tentare di rimettere in gioco tutte quelle questioni che sono state disattese per tanti anni”, e da qui tutta una serie copiosa di emendamenti che sono stati suggeriti dai vari soggetti auditi.

Io personalmente feci presente che queste aspettative sarebbero state ancora una volta deluse perché, con tutta la disinvoltura con cui il Governo adotta questi decreti-legge, non è pensabile che in sede di conversione si aggiri ulteriormente il dettato costituzionale e si affrontino problemi come quelli dello status giuridico della polizia locale o della strumentazione di cui la Polizia di Stato deve essere dotata e tante altre questioni che, invece, dovrebbero essere affrontate in modo dettagliato e tranquillo in un corpo di norme separato.

Ora, questa normativa in ogni caso viene incontro ed è compatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Prima di entrare nel merito, faccio presente che la stessa documentazione che ci hanno fornito gli uffici della Camera mette in discussione questo punto ed esprime perplessità. Infatti, sono citati alcuni principi che qui, con la prudenza che si addice ad un organo interno della Camera, sembrerebbero disattesi. In particolare, ci si riferisce alla genericità con cui alcune sanzioni sono previste per gli autori di eventuali illeciti amministrativi.

Infatti, l’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce il principio nullum crimen sine lege, e, sotto questo profilo, ritiene che questa norma dovrebbe essere ridescritta, cioè la norma dell’articolo 9, dell’articolo 10 e dell’articolo 13 del decreto-legge, perché - ve lo leggo - l’articolo 9 di questo decreto legge si esprime in questa maniera: fatto salvo quanto previsto dalla vigente normativa a tutela delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti - e, quindi, chiunque compie questo illecito - è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300. Contestualmente alla rilevazione della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalità di cui all’articolo 10, l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto.

Cioè, qui, praticamente, si mette in discussione il diritto alla libera circolazione di un cittadino all’interno del territorio nazionale, ma non si capisce bene questa persona chi dovrebbe essere. Una norma chiaramente generica, che contrasta con i principi generali del nostro ordinamento e anche con i principi giuridici della giurisprudenza europea, e che, come tale, è stata, appunto, criticata anche dai due giuristi che in Commissione sono stati auditi.

Ora, è stato già detto da qualcuno: in verità, si tratta in una certa misura di un decreto-legge che mira a fare propaganda, a mostrare i muscoli da parte del Governo, mentre è una norma inquietante, una normativa inquietante sotto altri profili.

Ripeto, si tratta di norme che già esistono sostanzialmente nel nostro ordinamento, i sindaci già possono intervenire in materia di decoro urbano, in materia di sicurezza urbana. Storicamente, il decoro, la parola “decoro” è usata nei regolamenti comunali già dagli inizi del Novecento, già le commissioni edilizie si chiamavano commissioni per il decoro urbano, e questa espressione è rimasta in questo secolo, nella giurisprudenza, nella normativa degli enti locali. Quindi, nulla di nuovo sotto il sole: è evidente che il decoro urbano è qualcosa che è un valore, indubbiamente; non è che l’hanno scoperto gli attuali governanti, è un valore antico, tante norme del codice civile, del codice urbanistico in materia di lavori pubblici, in materia di ambiente, in materia di igiene urbana, sono tutte norme che vogliono assicurare la vivibilità in un certo territorio, in un contesto urbano, e anche il decoro urbano.

Ora, ma qual è la novità in questo decreto? La novità è data dal fatto che si dispone, in alcune ipotesi già previste, la possibilità di allontanare il soggetto dal luogo in cui l’infrazione, l’illecito amministrativo sarebbe stato commesso, o, addirittura, l’allontanamento, il divieto di accesso in quelle aree. Questa è la novità vera di questo provvedimento, perché, se noi leggessimo i primi sei articoli, sono articoli che fanno un uso eccessivo della lingua italiana, ma senza alcun costrutto.

Posso fare anche qualche esempio. Articolo 1, oggetto e definizione della sicurezza integrata: si scrive nientepopodimeno che “Ai fini del presente decreto, si intende per sicurezza integrata l’insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle regioni, dalle province autonome, dagli enti locali, nonché da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali”.

Queste espressioni e queste parole le troveremmo, se facessimo una ricerca, in decine e decine di provvedimenti, di leggi attinenti alla materia delle forze di Polizia, dei compiti della Polizia di Stato, dei carabinieri e via discorrendo. E poi si continua, linee generali per la promozione della sicurezza integrata, e si ripetono gli stessi concetti, aggiungendo semplicemente un qualcosa che dimostra, appunto, come sia incostituzionale il decreto, perché non è che entra in vigore immediatamente, non è che sono norme operative, di immediato impatto, perché bisognerebbe attendere che questo coordinamento venga disciplinato da alcune linee generali che il Ministro dell’interno deve proporre alla Conferenza unificata, così come avviene per altri esempi. Poi l’articolo 3 parla degli strumenti di competenza dello Stato: e quali sono questi strumenti?

L’accordo possibile tra polizia locale e Polizia di Stato, in buona sostanza, tra regioni, province e via discorrendo; quindi, quello che ha detto sinteticamente l’articolo 1. E lo stesso schema è ripetuto a proposito della sicurezza urbana, definita come bene comune che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città. Ma questa non è una novità, questa è una ovvietà, se mi sia consentito di dire. E questa ovvietà la si ritrova in decine e decine di regolamenti. Così, per mio diletto, ho letto l’altro giorno il regolamento per l’igiene urbana e il decoro urbano del comune di Milano, l’ultimo è del 2006, se non ricordo male. Beh, tutto quello di cui stiamo parlando, dal decoro dei cassonetti al posizionamento dei cassonetti, a come devono essere fatti e prodotti, alle carcasse degli animali, ai rifiuti dispersi per strada, insomma, non c’è nulla che non sia stato contemplato in quel regolamento.

Quello è uno, ma ogni comune italiano ha un regolamento per l’igiene e il decoro urbano. E, anche qui, come si persegue la vivibilità dell’ambiente e la sicurezza urbana? Anche qui, è detto attraverso patti tra il prefetto, il sindaco e le forze dell’ordine. Poi arriviamo, sostanzialmente, alla parte più dolente, che è l’articolo 8. Il collega Farina ha parlato di delega in bianco: appunto, l’articolo 8 non è altro che una sorta di cambiale in bianco, di delega in bianco affidata ai sindaci. Si dice, praticamente, che il sindaco, al di là delle tradizionali forme di intervento con ordinanze, può tranquillamente spaziare a seconda della sua fantasia, e il collega che mi ha preceduto ne ha dato un lungo elenco. In effetti, c’è una ricerca dell’ANCI, fatta qualche anno dopo la legge Maroni, che ha analizzato come si è proceduto.

E si è proceduto, in effetti, nei confronti di chi? Quali sono i cittadini, i soggetti destinatari di queste norme? È inutile che giriamo intorno. Ora, chi può impedire l’accesso, o meglio, limitare l’accesso, per esempio, alle stazioni ferroviarie? Chi può limitare? Certamente, se uno va alla sera alla stazione Termini, qui a Roma, noterà che c’è molta gente, dei senzatetto, i quali dispongono, stendono le loro povere e misere masserizie, fanno, con cartoni, con tendaggi, un ricovero, e lì cercano di ripararsi dal freddo, dalle intemperie, comunque di raggiungere un meritato riposo. Ma se uno va a San Pietro, su via della Conciliazione, fate l’esperienza, io l’ho fatta personalmente, fate l’esperienza su via della Conciliazione, recatevi proprio nella parte conclusiva, quella che poi si affaccia sul piazzale, sul colonnato del Bernini, e voi vedrete che c’è una sorta di camerata di gente che la sera dispone lì il suo materasso improvvisato e dorme.

Ora, la norma si rivolge a quelli, perché sarebbero degli occupatori di spazio pubblico che impediscono la vivibilità o il decoro dell’ambiente, e su quelli si dovrebbe intervenire. Questi sono i destinatari, così come gli sfrattati, coloro che non hanno neanche un tetto sotto cui ripararsi, e quindi, molto spesso, sono costretti a occupare degli immobili abbandonati. Sono coloro i quali rovistano nei cassonetti di indumenti usati, sono quelli.

I parcheggiatori, anche qui, sono ritenuti sic et simpliciter terminali della camorra, della criminalità organizzata, il che voi sapete benissimo che non è vero, talvolta è così, ma non sempre; e poi i venditori ambulanti, praticamente tutto quel mondo che si arrangia, diciamo così. Perché la verità è che c’è la povertà, ci sono i poveri, ci sono i miseri, c’è una umanità sfortunata; e verso questa umanità noi che cosa facciamo? Questo è il punto!

Allora faccio una domanda a proposito di sicurezza: è stato ucciso, bruciato un senzatetto che dormiva sotto un portico. Ora, la sicurezza la guardiamo dal punto di vista di quella persona che è stata assassinata, o la guardiamo dal punto vista di quello che lo ha assassinato? Questa è la questione! Quindi, quel senzatetto ha diritto di essere tutelato o meno? E non c’entrano le norme repressive! Ora, questa è una strada, una traccia, che molti Stati seguono: se voi andate in Sudamerica, voi notate per esempio che ci sono dei Paesi in cui, come disse una volta un imprenditore, qui su 100 milioni di abitanti 50 producono e consumano, altri 50 né producono e né consumano; per cui la mattina, quando questi si svegliano e vanno in giro in città, devono vedere come devono mangiare. Una cosa molto semplice: come devono mangiare. E di qui nasce il problema, appunto: il furto, il saccheggio, la rapina e tutti i reati connessi. Ma se non si incide lì, se non si incide sulle condizioni esistenziali di queste persone, come potrete immaginare di arginare questi fenomeni?

Questa normativa non viene affatto incontro effettivamente al bisogno di ridare, se volete chiamiamolo decoro, di ridare sicurezza ai cittadini; altrimenti dovremmo ritenere che man mano che la crisi economica si rafforza, man mano che il divario tra ricchi e poveri aumenta, noi dovremmo porci il problema di quante carceri costruire. Alla fin fine, perché non dimentichiamo che io in Commissione ho ascoltato delle teorie aberranti, che son state anche messe per iscritto, da parte dell’ANCI, e non soltanto da parte dell’ANCI in verità, perché si è venuto a proporre che si trasformi in sanzione penale quella che è una sanzione amministrativa perché il povero non ha la possibilità di pagare la multa, l’ammenda o la sanzione economica. Allora, siccome ci sono dei poveri che non potranno mai essere colpiti da un punto di vista economico, noi ci mettiamo il carcere, trasformiamo la norma in norma penale. Ora, questa dottrina per cui il debitore che non può pagare i debiti, in questo caso nei confronti dello Stato, deve finire in galera, è una dottrina che pensavo fosse ormai superata da qualche secolo; e invece tranquillamente riemerge nel dibattito istituzionale, con tanto di determinazione, dimenticando che c’è una Costituzione che queste dottrine le ha semplicemente condannate.

Ora, alla luce di questo, alla luce da un lato della inefficacia della norma, a proposito dell’allontanamento dei senzatetto, che gli dici? Alzati, prendi le tue cose e vai via di qua? Allora andranno via da Via della Conciliazione e andranno a Porta Cavalleggeri. Che cosa si farà? Però se lo fanno ancora, se lo ripetono, si aggrava la situazione e potrà essere impedito a costoro di attraversare via della Conciliazione. Questo dice la norma. Parlo dei senzatetto, potrei parlare anche di chi non ha una casa.

Io ieri sono stato a visitare l’esito della distruzione del ghetto di Rignano Garganico; che poi non è Rignano, sarebbe semmai più San Severo. Lì lo Stato è intervenuto, hanno raso al suolo l’accampamento, le fiamme lo hanno devastato completamente. Che cosa è successo? Che quelle persone si sono spostate di 50 metri, e stavano tranquillamente recuperando il materiale di risulta dalle discariche, da qualche altra parte, per farsi un ricovero; perché non è che è stato dato a queste persone un luogo dove rifugiarsi: anzi, è stata proprio la scusa di aver trovato qualche ambiente per un certo numero di persone, però tutti gli altri (e sono centinaia e centinaia di lavoratori migranti), a questi non è stata data alcuna risposta. E quindi il fenomeno si sta ripetendo tranquillamente!

Andando proprio sul campo della vita reale, ci si renderebbe conto che queste sono norme inutili; e nella parte in cui sono incisive, sono norme soltanto che mirano a limitare la libertà dei cittadini. Non è su questo campo: alla sicurezza di cui si parla, bisogna sostituire la sicurezza sociale, e bisogna fare degli interventi in tale direzione; altrimenti noi faremo altre grida manzoniane. Ne abbiamo tante, perché non è che se aggiungiamo norma a norma, sanzione penale a sanzione penale, risolviamo i problemi: i problemi si risolvono se si va all’origine; ma qui pare che questa non sia l’intenzione dell’attuale Governo.

Quindi una norma inaccettabile, che ripete strade antiche; e soprattutto una norma inefficace, che non assicura quella sicurezza che i cittadini hanno pur bisogno di sentire intorno a sé, nelle loro città (Applausi dei deputati del gruppo Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - A.C. 4310-A)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare, se lo ritiene, il relatore di minoranza, onorevole Invernizzi: ha due minuti. No, rinuncia.

Il relatore per la maggioranza per la I Commissione, Fiano, rinuncia anch’egli.

La relatrice per la maggioranza per la II Commissione, Morani, rinuncia anch’ella.

Intende replicare il Governo, oppure rinuncia? Rinuncia anche il Governo.

Il seguito del dibattito è rinviato alla seduta di domani.

Discussione della proposta di legge: Turco: Modifiche alle disposizioni per l'attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale (A.C. 1063?-?A) (ore 11,55).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge n. 1063-A: Modifiche alle disposizioni per l'attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato nell’allegato A al resoconto stenografico della seduta del 10 marzo 2017 (Vedi l’allegato A della seduta del 10 marzo 2017).

Comunico che tutti i deputati firmatari della proposta di legge, ad eccezione del deputato Turco, hanno ritirato la propria sottoscrizione dopo la conclusione dell’esame in sede referente.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 1063-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto che il presidente del gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle ne ha chiesto l’ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell’articolo 83, comma 2, del Regolamento.

Avverto, altresì, che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire il relatore per la maggioranza, deputato Stefano Dambruoso.

STEFANO DAMBRUOSO, Relatore per la maggioranza. Presidente, il testo approvato in Commissione di questo disegno di legge, che reca le disposizioni concernenti la determinazione e il risarcimento del danno non patrimoniale, propone l’individuazione dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del diritto alla salute e del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale o di tipo familiare, fortemente ispirati a quelli che stanno alla base delle cosiddette tabelle di Milano, oggi adottate dalla gran parte dei tribunali d’Italia e che hanno ricevuto l’avallo della Corte di cassazione.

L’individuazione ex lege di tali criteri è stata ritenuta particolarmente importante, soprattutto nell’ottica di garantire la parità di trattamento su tutto il territorio nazionale dei cittadini vittime di tali tipologie di danni non patrimoniali. Cosa propone il testo? Il testo propone, pertanto, di introdurre nelle disposizioni l’attuazione del codice civile, cioè l’articolo 84-bis che, al primo comma, prevede che il danno non patrimoniale, derivante dalla lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica e il danno non patrimoniale derivante dalla perdita dei rapporti di tipo parentale, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa in base alle tabelle A e B allegate alle disposizioni per l’attuazione del codice. Al secondo comma, invece, prevede che l’ammontare del danno liquidato ai sensi del primo comma può essere aumentato dal giudice in misura non superiore al 50 per cento, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato.

Il secondo comma dell’articolo, inoltre, prevede che alle disposizioni per l’attuazione del codice civile sono allegate le tabelle A e B, di cui agli allegati 1 e 2 alla legge. L’allegato 1 contiene delle tabelle che riproducono le tabelle di Milano per la liquidazione del danno da lesione del diritto alla salute, tranne che per l’ultima colonna di tali tabelle, deputate alla personalizzazione del danno in casi eccezionali, che non è stata riprodotta invece nell’allegato A. Tale personalizzazione è comunque prevista dal comma 2 del capoverso, articolo 84-bis.

L’allegato 2 contiene tabelle che riproducono le tabelle di Milano per la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, riviste alla luce dell’entrata in vigore della legge sulle unioni civili. Quanto alla disciplina transitoria, è prevista l’applicabilità delle nuove disposizioni a tutte le fattispecie in cui il risarcimento del danno non è stato già determinato in via transattiva, ovvero non è stato ancora liquidato dal giudice con sentenza, anche non passata in giudicato, alla data di entrata in vigore della legge. Infine, è previsto l’aggiornamento annuale, con decreto del Ministro della salute, degli importi indicati nelle tabelle, in misura corrispondente alle variazioni dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati accertata dall’ISTAT.

Sotto il profilo dell’introduzione dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione di diritto alla salute e del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale o di tipo familiare, il testo mantiene quanto proposto dal testo base adottato dalla Commissione all’esito dell’attività istruttoria, con delle lievi differenze.

Per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del diritto alla salute, il testo approvato in Commissione si differenzia dal testo base in quanto: il richiamo ai criteri di liquidazione (contenuti nell’allegato 1 del ddl che, secondo quanto proposto, diverrebbe l’allegato A delle disposizioni per l’attuazione del codice civile) è contenuto soltanto nel testo dell’articolo 84-bis che si intende introdurre nelle disposizioni per l’attuazione del codice civile; nel testo base, invece, il richiamo di tali criteri era contenuto nell’articolo nel testo dell’articolo 2059-bis che si intendeva introdurre nel codice civile.

Si è ritenuto di non riprodurre la disposizione che nell’ambito dell’introduzione dell’articolo 2059-bis del codice civile, al secondo comma, prevedeva la liquidazione dell’aspetto del danno non patrimoniale costituito da sofferenza morale in una percentuale del danno biologico da determinare equitativamente da parte del giudice, in quanto le tabelle proposte al testo base, così come quelle di Milano del 2013, già comprendono nel valore “punto danno non patrimoniale”, oltre al danno biologico in senso stretto (punto biologico) anche la componente morale del danno non patrimoniale da lesione dei diritti alla salute, normalmente correlata alla tipologia di lesioni che determinano uno specifico punto di invalidità standard (punto biologico al 2008 rivisto al 2013, più aumento percentuale, uguale danno non patrimoniale al 2013).

Terzo punto: è stato quindi approvato un criterio che consente la personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale non soltanto sul piano della sofferenza fisica e morale, ma anche per le peculiari e straordinarie possibili conseguenze sul piano dinamico relazionale, adottando la stessa terminologia usata nella disposizione di cui all’articolo 139 del codice delle assicurazioni, che ha superato il vaglio di costituzionalità. Ciò in quanto l’allegato 1 del disegno di legge si differenzia dalle tabelle di Milano solo per non essere riprodotta l’ultima colonna, che consente la personalizzazione del danno per casi di conseguenze non ordinariamente scaturenti da lesioni dell’entità considerata, sia in ordine agli aspetti dinamico-relazionali che in ordine alla sofferenza morale.

Sempre sotto il profilo dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, anche per quanto concerne il danno da perdita del rapporto parentale o di tipo familiare, si sono mantenute le tabelle allegate al disegno di legge, ritenendo però più corretto sotto il profilo tecnico che le stesse, analogamente a quanto previsto al testo base per le tabelle per la liquidazione del danno biologico, vengano legate alle disposizioni di attuazione del codice civile e siano richiamate dall’articolo 84-bis delle disposizioni per l’attuazione.

Per il danno da perdita del rapporto parentale, si è ritenuta inoltre opportuna una formulazione più corretta sotto il profilo tecnico dell’articolo 84-bis, disposizione d’attuazione del codice civile e delle tabelle, che tiene conto anche delle unioni civili.

Il testo approvato in Commissione, quindi, si differenzia molto da quello adottato come testo base, in primo luogo per la soppressione delle modifiche che il testo base proponeva di introdurre al codice civile, sostituendo l’articolo 2059, e inoltre introducendo gli articoli 2059-bis e 2059-ter.

Nonostante gli autorevoli apprezzamenti su tali disposizioni espressi in sede di audizioni, si è ritenuto inopportuno operare qualsiasi intervento sul codice civile in materia di danno non patrimoniale, per l’elevatissimo rischio di riapertura di contrasti interpretativi che richiederebbero molti anni per essere composti, con conseguente incertezza del diritto e nuova emersione del fenomeno della proliferazione dei danni risarcibili e connessi a rischi di overcompensation.

Infatti, l’interpretazione di cui all’articolo 2059 e la materia dei casi e dei limiti della risarcibilità del danno non patrimoniale sono state oggetto per moltissimi anni di rilevanti contrasti, dottrinali e giurisprudenziali, e attualmente l’interpretazione di cui all’articolo 2059 del codice civile e la materia dei casi e dei limiti della risarcibilità del danno non patrimoniale, dopo l’intervento delle sezioni unite del 2008, ha finalmente iniziato a trovare un assetto equilibrato, in punto di danni risarcibili, e soddisfacente sotto il profilo della certezza del diritto.

Si è ritenuto pertanto di non introdurre l’articolo 2059-bis nel codice civile, che nel testo base recava la definizione di danno da lesione del diritto alla salute, poiché tale modifica non innoverebbe sul piano della risarcibilità di tale danno, ormai pacificamente ammesso in giurisprudenza in ragione del fatto che la definizione di danno biologico, oggi contenuta nel testo unico delle assicurazioni, è oggetto delle modifiche proposte con il disegno di legge “concorrenza”, per cui non è apparso opportuno darne un’ulteriore definizione in questa sede. Parimenti si è ritenuto di non introdurre l’articolo 2059-ter al codice civile, che detta disposizioni in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione di altri diritti, cioè di diritti della persone diversi dal diritto alla salute, condividendo le indicazioni circa la sua superfluità emerse nel corso delle audizioni.

Inoltre, sono state eliminate le disposizioni di difficile interpretazione che l’articolo 2, capoverso articolo 84-bis, commi 2 e 3, del testo base proponeva di introdurre, in quanto, come rilevato nel corso delle audizioni, sono formulati in modo da non comprendersi neppure se siano dettate in tema di danno biologico iuresuccessionis oppure di danno da morte.

Quanto all’introduzione di una norma che riconosca la risarcibilità del danno da morte, si è ravvisata la mancanza di un fondamento giuridico per le ragioni espresse dalla Corte costituzionale e nel recente intervento delle sezioni unite della Corte di cassazione, ma anche per la grave inopportunità, in considerazione dell’effetto che una tale disposizione produrrebbe nel mercato assicurativo - in particolare nei settori dell’assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile da circolazione de i veicoli e sulla responsabilità civile da attività sanitaria - con prevedibile consistente aumento dei premi delle polizze. Tale aumento dei premi ricadrebbe direttamente su tutti i cittadini in materia di assicurazione per la responsabilità civile da circolazione dei veicoli; nella materia di assicurazione per la responsabilità civile da attività sanitaria avrebbe effetti gravemente negativi, seppure indiretti, su una fascia debole della popolazione, cioè quella danneggiata da errori sanitari, in quanto renderebbe più difficoltosa la stipula delle polizze obbligatorie per medici e strutture sanitarie ed esporrebbe pertanto i soggetti che abbiano riportato gravi danni alla salute al grave rischio di non poter ottenere i risarcimenti dovuti, in caso di mancanza di copertura assicurativa.

È stata eliminata anche la disposizione di cui all’articolo 2, capoverso 84-bis, comma 4, del testo base, volta all’istituzione, a cura del Ministero della giustizia, di una banca dati della giurisprudenza di merito, ritenuta superflua perché tale banca dati è già prevista dall’articolo 7 del decreto ministeriale 1° ottobre 2015.

Infine, per quanto riguarda l’articolo 3 del testo base, che dettava, oltre ai criteri di liquidazione e definizione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, si è ritenuto di sopprimerlo, in ragione delle criticità presentate dalla definizione proposta, che non teneva conto del rapporto derivante dalle unioni civili, mantenendo però i criteri di liquidazione proposti dal testo base, attraverso la modifica, introdotta con gli emendamenti approvati in Commissione, dell’articolo 2, capoverso articolo 84-bis.

È stato soppresso anche l’articolo 4 del testo base, che proponeva di estendere i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale introdotti con il disegno di legge anche nel settore dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione di veicoli e dell’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile da attività sanitaria, mediante la modifica degli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni, sia perché le medesime disposizioni sono oggetto di modifica da parte del disegno di legge “concorrenza”, all’esame del Senato, sia in considerazione dell’effetto negativo che una tale disposizione produrrebbe nel mercato assicurativo - nei settori delle assicurazioni sulla responsabilità civile da circolazione dei veicoli e sulla responsabilità civile da attività sanitaria - con prevedibile consistente aumento dei premi delle polizie.

Tale aumento dei premi, si ribadisce, ricadrebbe direttamente su tutti i cittadini in materia di assicurazione per la responsabilità civile da circolazione dei veicoli; nella materia di assicurazione per la responsabilità civile da attività sanitaria, invece, avrebbe effetti gravemente negativi, seppure indiretti, su una fascia debole della popolazione, cioè quella danneggiata da errori sanitari, in quanto renderebbe, come si è detto, più difficoltosa la stipula delle pozze obbligatorie per medici e strutture sanitarie, ed esporrebbe pertanto i soggetti che abbiano riportato gravi danni alla salute al rischio di non poter ottenere i risarcimenti dovuti, in caso di mancanza di copertura assicurativa. In conseguenza della soppressione dell’articolo 3, sono stati soppressi i commi 1 e 2 dell’articolo 5 del testo base.

PRESIDENTE. La ringrazio. Ha facoltà di intervenire il rappresentante del Governo. Prendo atto che si riserva di intervenire del prosieguo della discussione.

È iscritta a parlare l’onorevole Giuliani. Ne ha facoltà.

FABRIZIA GIULIANI. Grazie, Presidente. La proposta di legge in esame oggi interviene sul diritto al risarcimento del danno non patrimoniale e, rispetto alla proposta iniziale dell’onorevole Bonafede, è stata modificata in modo sostanziale nel corso dell’esame in Commissione.

Nel nostro ordinamento il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale trova la sua corrispondenza nell’articolo 2059 del codice civile, il quale tuttavia si limita a prevedere che il danno non patrimoniale debba essere risarcito nei soli casi previsti dalla legge. L’articolo in questione non fornisce, inoltre, una precisa definizione del danno non patrimoniale, che la giurisprudenza ha considerato a lungo un danno solo morale, per poi accedere a interpretazioni più articolate, come la distinzione tra danno biologico, considerato come danno alla salute in senso stretto, danno morale, danno esistenziale e così via.

Per questo risarcimento il quadro normativo si è rivelato insufficiente a garantire la certezza del diritto, rimandandolo, in generale, alla legge concernente i singoli ambiti.

Alcune incertezze sono inoltre derivate dall’applicazione dell’articolo 1226 sulla valutazione equitativa del danno da parte del giudice, quando tale danno non può essere provato nel suo preciso ammontare. La liquidazione del danno non patrimoniale infatti, che, in quanto equitativa, si presta ontologicamente a interpretazioni difformi, oltre che dalla difficoltà di individuare una precisa definizione delle diverse sofferenze suscettibili di risarcimento è stata da sempre caratterizzata da una notevole diversità dei criteri di valutazione da parte degli uffici giudiziari sul territorio: una difformità che ha prodotto un’estrema incertezza nell’individuazione di parametri oggettivi di riferimento e, in definitiva, un’applicazione della legge lesiva della parità di trattamento tra i cittadini - questo è il punto -, che si sono spesso visti riconosciuti diversi risarcimenti per casi analoghi.

Il percorso della giurisprudenza di legittimità, avviato nel 2008, è culminato con la sentenza della Cassazione, III sezione, 7 giugno 2011, che, ribadendo il criterio dell’onnicomprensività del danno non patrimoniale risarcibile, già sancito con la sentenza della Cassazione 2008, ha introdotto il principio della necessità di applicare su tutto il territorio nazionale un unico criterio di liquidazione da ritenersi equo, costituito dalle cosiddette tabelle di Milano, adottato come tale dalla giurisprudenza della Corte, e del danno non patrimoniale in termini di dolore e sofferenza soggettiva. Si tratta dunque della liquidazione congiunta dei danni liquidati a titolo di danno biologico e di danno morale.

Le tabelle di Milano, rivalutate secondo gli indici ISTAT nel 2014, incrociando fasce di età del danneggiato e punti di invalidità, individuano i valori monetari medi di tale liquidazione onnicomprensiva, nonché percentuali di aumento personalizzate, laddove il caso presenti provate peculiarità. Solo in casi eccezionali si prevede una valutazione del giudice in deroga ai valori minimi e massimi.

Tale quadro normativo-giurisprudenziale va inoltre integrato con le previsioni del codice delle assicurazioni private, il cui articolo 138 prevede che il Governo addotti un regolamento che in termini di sinistri stradali, secondo una serie di principi e criteri, provveda alla predisposizione di una tabella unica nazionale per la quantificazione del danno biologico, per le lesioni di non lieve entità.

Tornando al provvedimento in esame, dopo le modifiche attuate in Commissione, il ddl consta di due articoli, attraverso i quali sono state allegate alle disposizioni di attuazione del codice civile due tabelle, che dovranno essere utilizzate dai giudici come parametri per la liquidazione con valutazione equitativa del danno non patrimoniale. Al giudice - sempre secondo il dettato del provvedimento - è consentito di aumentare il risarcimento fino al 50 per cento della misura prevista dalle tabelle, in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato.

Il provvedimento è da considerarsi, quindi, come un passo avanti importante, soprattutto se associato al ddl in materia di concorrenza, attualmente in esame al Senato, che interviene in materia omogenea rispetto alle modifiche introdotte presso la Commissione giustizia. La ringrazio.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - A.C. 1063-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore per la maggioranza, onorevole Dambruoso, non intende replicare.

Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo. Prego, sottosegretario Migliore.

GENNARO MIGLIORE, Sottosegretario di Stato per la Giustizia. Grazie, signor Presidente. Vorrei, in una breve replica, ribadire alcuni dei concetti che sono stati qui riferiti in corso del dibattito generale.

Si tratta sicuramente di un’interessante avanzamento dei nostri dispositivi legislativi in relazione ad una materia che fino ad oggi ha avuto una applicazione differenziata sul territorio nazionale.

Il risarcimento del danno non patrimoniale è certamente una delle materie più delicate dal punto di vista dell’interesse dei cittadini e della possibilità che essi abbiano un concreta soddisfazione di un torto subito, dal punto di vista della parametrazione, che nel corso degli anni è stata stabilita di volta in volta da una giurisprudenza che si legava in particolare ad ogni ufficio, con variazioni spesso non esattamente congruenti.

Il pregio di aver avanzato l’adozione di un provvedimento di questa natura - e io ringrazio in questo anche il MoVimento 5 Stelle che l’aveva inizialmente proposto - era quello di richiedere un’applicazione parametrica più omogenea e di intervenire anche su alcuni principi generali. Il senso della modifica, che poi è intervenuta, dal nostro punto di vista, in senso migliorativo, all’interno nella discussione della Commissione, tiene conto però di alcuni aspetti, che, a nostro giudizio, hanno una rilevanza non secondaria.

Il primo è che non si è inteso modificare il codice civile per gli articoli che prevedevano già la determinazione di questa fattispecie del danno non patrimoniale, cioè la possibilità che ci potesse essere una consolidata - cosa che c’è - giurisprudenza in materia, che potesse configurare effettivamente la natura specifica da realizzare nel corso dell’adozione di questi provvedimenti all’atto della pronuncia delle sentenze. Quindi, la necessità di non modificare l’articolo del codice civile ci ha condotto, in una discussione che è stata ampia e riccamente corroborata da autorevolissimi interventi nell’ambito delle nostre audizioni, delle audizioni della Commissione, verso una interpretazione che adottasse, invece, la parte relativa alle tabelle cosiddette di Milano, che avranno il pregio di uniformare in maniera più generale il pronunciamento delle singole sentenze.

Dall’altro lato, è importante anche riconoscere una contestualità all’interno della discussione, che non riguarda solamente quest’Aula e questo ramo del Parlamento, e cioè che una parte della disciplina che qui viene trattata è analogamente discussa anche all’interno del provvedimento all’esame del Senato sulla concorrenza, in particolare l’articolo 8, e che questo ha indotto anche la possibilità di non intendere proseguire una discussione che avrebbe comportato una distonia di interventi sul piano normativo e che, invece, va ricondotta ad una norma unica e omogenea. Quindi, l’avanzamento, per come è stato anche descritto qui dagli interventi del relatore del gruppo del Partito Democratico, è certamente positivo.

L’intenzione ha aperto una discussione, che io penso meriti di essere chiusa con l’adozione di questo provvedimento, così come modificato dalla Commissione; l’intento, che il Governo mantiene e vuole portare avanti, così come in tutti i nostri provvedimenti, è quello di mettere al centro la possibilità di una giustizia certa e prevedibile per i cittadini perché di questo si tratta quando noi adottiamo norme che possono configurare un’adozione precisa e anche omogenea sul territorio nazionale di ciò che ai nostri concittadini è dovuto a seguito di sentenza.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Colleghi, siccome oggi la giornata sarà abbastanza lunga, farei una pausa tecnica. Sospendo la seduta, che riprenderà tra pochi minuti.

La seduta, sospesa alle 12,15, è ripresa alle 12,45.

PRESIDENTE. La seduta è ripresa. Saluto gli studenti e i docenti dell’Istituto comprensivo “San Tommaso d’Aquino” di Priverno, in provincia di Latina, che assistono ai nostri lavori (Applausi).

Discussione del disegno di legge: S. 2036 ?-? Ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Slovenia sulla linea del confine di Stato nel tratto regimentato del torrente Barbucina/Cubnica nel settore V del confine, fatto a Trieste il 4 dicembre 2014 (Approvato dal Senato) (A.C. 4109).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato, n. 4109: Ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Slovenia sulla linea del confine di Stato nel tratto regimentato del torrente Barbucina/Cubnica nel settore V del confine, fatto a Trieste il 4 dicembre 2014.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell’Assemblea (Vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali – A.C. 4109)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto che il presidente del gruppo parlamentare de MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l’ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell’articolo 83, comma 2, del Regolamento.

Avverto, altresì, che la III Commissione (Affari esteri) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire, in sostituzione del relatore, onorevole Gianni Farina, il presidente della Commissione affari esteri, onorevole Cicchitto.

FABRIZIO CICCHITTO, Presidente della III Commissione. Chiedo al Presidente di essere autorizzato a depositare il testo.

PRESIDENTE. E’ assolutamente autorizzato. Presidente, la ringrazio.

Ha facoltà di intervenire la rappresentante del Governo. Prendo atto che rinunzia.

Non essendovi iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali, avvertendo che non si darà luogo alle repliche.

Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione del testo unificato delle proposte di legge: Mantero ed altri; Locatelli ed altri; Murer ed altri; Roccella ed altri; Nicchi ed altri; Binetti ed altri; Carloni ed altri; Miotto ed altri; Nizzi ed altri; Fucci ed altri; Calabrò e Binetti; Brignone ed altri; Iori ed altri; Marzano; Marazziti ed altri; Silvia Giordano ed altri: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (A.C. 1142?-?1298?-?1432?-?2229?-?2264?-?2996?-?3391?-?3561?-?3584?-?3586?-?3596?-?3599?-?3630?-?3723?-?3730?-?3970?-?A) (ore 12,47).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del testo unificato delle proposte di legge nn. 1142?-?1298?-?1432?-?2229?-?2264?-?2996?-?3391?-?3561?-?3584?-?3586?-?3596?-?3599?-?3630?-?3723?-?3730?-?3970?-?A: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato nell’allegato A al resoconto stenografico della seduta del 10 marzo 2017 (Vedi l’allegato A della seduta del 10 marzo 2017).

(Discussione sulle linee generali – A.C. 1142-A ed abbinate)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico ne hanno chiesto l’ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell’articolo 83, comma 2, del Regolamento.

Avverto, altresì, che la XII Commissione (Affari sociali) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire la relatrice per la maggioranza, onorevole Donata Lenzi.

DONATA LENZI, Relatrice per la maggioranza. Grazie, Presidente. Il disegno di legge oggi all’attenzione dell’Aula e dell’opinione pubblica è di grande importanza e per molti aspetti straordinario. Dopo un anno di lavori in Commissione e molti anni di attesa, approda in Aula una proposta di esclusiva iniziativa parlamentare nata dalla faticosa, ma sfidante opera di costruzione di un testo base, partendo da sedici progetti di legge, che ha visto il Governo porsi esplicitamente al di fuori del dibattito - e di questo va ringraziato - e riconoscere la piena autonomia del Parlamento a legiferare in materia.

Questo che affrontiamo oggi (consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento) non è tema da trattative di partito, di confronto su maggioranze chiamate a governare o a esprimere un Esecutivo. È tema squisitamente parlamentare: il Parlamento è chiamato nella sua funzione fondamentale di legislatore e ognuno di noi è chiamato ad assumere responsabilmente e singolarmente una decisione difficile in un clima che, mi auguro, sia di ascolto reciproco e di serio confronto.

Iniziai il 4 febbraio del 2016, da relatore, chiedendo ai colleghi di staccare la mente dal clamore del caso Englaro; analogo sollecito rivolgo a tutti noi ora. La durezza della realtà, la tragicità degli eventi sono davanti ai nostri occhi, ma la buona legge non è mai quella sul caso singolo, ma è quella che è fatta con la testa oltre che con il cuore. La complessità della materia è tale che la mia relazione è inevitabilmente più lunga dei venti minuti che mi sono stati assegnati.

Lascio quindi - e chiedo al Presidente di poterlo fare - la relazione completa perché sia allegata al resoconto di seduta. Mi appresto quindi a farne una sintesi.

La legge rientra in una visione mite del diritto, cioè è legge di principi, non è un’elencazione puntuale di situazioni, scelta consapevole nella convinzione che sia estremamente difficile l’elencazione di tutte le fattispecie possibili e volendo lasciare ampio spazio di autonomia al medico e all’organizzazione sanitaria che ha, nel vuoto legislativo, agito in modo quasi sempre ampiamente condivisibile. Piuttosto, si vuole dare alla loro azione certezze e cogliere il meglio delle prassi in atto in questo anno (si pensi al recepimento previsto dalla pianificazione delle cure all’articolo 4).

Questa proposta di legge attua, dopo settant’anni, il dettato costituzionale dell’articolo 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. È vero che la giurisprudenza l’ha reso immediatamente attuativo, ma è altrettanto vero che la giurisprudenza ha più volte sollecitato l’intervento del legislatore nazionale.

L’articolo 1 ha per oggetto il consenso informato, posto a base della relazione di cura tra medico e paziente. Ci si riferisce a tutti i casi in cui si procede a un esame, a una terapia, a un intervento chirurgico e non solo all’ipotesi di fine vita; ci si riferisce a persone capaci di intendere e di volere e non a persone in stato di coma.

È possibile che la discussione parlamentare ci porti a prevedere un esplicito passaggio sul paziente in fase terminale, ma al momento la proposta sottoposta alla nostra attenzione non lo prevede. Siamo stati chiamati…

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Lenzi. Prego.

DONATA LENZI, Relatrice per la maggioranza. …a una mediazione alta tra principi costituzionali di pari rango, quelli della vita e della salute, intesa nel senso moderno di benessere psicofisico, e della libertà personale. È una mediazione da cercare con metodo laico, come ci dice la Corte costituzionale. Mediazione e non gerarchia tra valori e mi rivolgo sia a chi ritiene che il bene vita vada difeso a prescindere persino dalla volontà della persona titolare, quasi che ci sia un obbligo a vivere, e a chi, viceversa, ritiene che la libertà di autodeterminazione si estenda fino all’eutanasia.

Il consenso è posto a base della relazione di cura tra medico e paziente o, meglio, tra il medico e gli operatori sanitari e la persona malata e i suoi familiari ed amici. Ricordo che la sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale afferma che il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’articolo 2, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 della Costituzione.

La Corte ben sottolinea come il consenso informato venga ad avere funzione di sintesi tra autodeterminazione e salute e sia requisito intrinseco della legittimità dell’atto sanitario. Questo ci collega alla legge recente sulla responsabilità professionale in materia di sanità e questa proposta di legge che proponiamo oggi va vista in collegamento, anzi a completamento, della legge sulla sicurezza delle cure e la responsabilità professionale. Se in quella l’attenzione era concentrata sulla responsabilità professionale del medico, qui il baricentro è la persona malata. Si cura la persona malata, non la patologia; non il tumore, ma la persona malata di tumore, con le proprie idee, le proprie convinzioni religiose, la propria esperienza di vita, la propria capacità di sopportazione del dolore e, insieme, con la sua rete di familiari ed amici. E come per tutti i diritti di libertà, il consenso si può dare, si può negare, si può ritirare. Posso dire di sì, posso dire di no, posso dire: adesso basta.

I doveri costituzionali di solidarietà tra di noi non possono giungere fino al punto di annullare il diritto all’autodeterminazione, cioè fino ad annullare la personalità di chi si vuole tutelare, e la nostra, lo ricordo, è una Costituzione incardinata sul valore e sul significato della persona. È il principio previsto al comma 5 della proposta di legge: si prevede il diritto di rifiutare le cure, di revocare il consenso, anche con la conseguenza di interrompere le cure, mettendo a rischio la propria vita, e il rifiuto delle cure non può comportare, in automatico, l’abbandono: “Firmi le dimissioni e mi lavo le mani di quello che succede”.

Nel caso di persone in fase terminale, in particolare, deve essere garantita l’applicazione della legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative e, negli altri casi, almeno la comunicazione al medico di famiglia.

Nelle situazioni di emergenza, il medico assicura l’assistenza sanitaria e, solo se è possibile, rispetta la volontà del paziente, dato che sappiamo cosa significa dover operare in situazioni di emergenza e di urgenza. Il medico rispetta, invece, la decisione del paziente di rifiutare le cure; forse la vivrà come una propria sconfitta personale, ed è comprensibile, ma cura una persona e ne rispetta il proprio sistema di valori. D’altronde, non potrebbe legittimamente intervenire senza il consenso dello stesso e ovviamente, di conseguenza a ciò, il rispetto della decisione del paziente rende il medico esente da responsabilità civili e penali. Era la conclusione a cui già era giunta la giurisprudenza nel caso Welby.

Ma anche la libertà del paziente incontra dei limiti. Se è vero che il suo consenso è indispensabile, la sua libertà non si spinge fino a pretendere dal medico comportamenti contrari a norme di legge e alle buone pratiche clinico-assistenziali, termine che abbiamo già usato nella legge sulla responsabilità professionale e che significa il complesso del sapere medico-professionale del medico o contrarie alla deontologia professionale. Quest’ultima affermazione ha provocato allarme in chi ritiene che al medico vada chiesta una funzione di mero esecutore delle volontà del paziente e tende a non riconoscere, oltre all’autonomia professionale, anche la dimensione etica della professione. Si tratta delle preoccupazioni conseguenti anche alla difficile esperienza applicativa della legge n. 194, che ci porta ora a diffidare di qualsiasi spazio lasciato alla dimensione etica delle professioni sanitarie. Eppure, in realtà invito i colleghi che lo pensano a riflettere: sono professioni nelle quali tale dimensione non è eliminabile e nella gran parte dei casi essa è a vantaggio del paziente e della componente umana e relazionale della cura. Piuttosto, dobbiamo agire sul piano formativo e culturale per sostenere l’evoluzione positiva del rapporto medico-paziente conseguente all’allargamento del concetto di salute propugnato dall’OMS e al ruolo sempre più attivo della persona malata, persona e non paziente.

Non è possibile ignorare che la previsione esplicita della possibilità di interrompere le cure su richiesta della persona malata, prevista al comma 5, susciti allarme in chi ritiene che si rientri così nella fattispecie dell’eutanasia passiva e che susciti allarme la previsione che l’interruzione riguardi anche la nutrizione e l’idratazione artificiali. Vorrei ricordare che il contesto in cui ci muoviamo è quello di una medicina che, grazie agli straordinari progressi realizzati nel corso del XX secolo, ha acquisito la capacità di esercitare un vero e proprio controllo sulla morte, modulandone i tempi e i modi attraverso un’ampia gamma di metodiche e di strategie di intervento a più o meno elevato tasso tecnologico funzionali alla protrazione della sopravvivenza, comportando un’articolazione degli scenari del morire che poco o nulla hanno a che fare con la natura, dipendendo, invece, dagli interventi della medicina.

In sede di audizione è stato autorevolmente ricordato che nel mondo occidentale, privo di guerre, solo il 30 per cento delle morti sono improvvise o imprevedibili e che è in atto una continua medicalizzazione del processo della morte. È così irragionevole e incomprensibile che in questo contesto ci sia chi, capace di intendere e di volere, per proprie ragioni e convinzioni preferisca lasciare che la malattia progredisca o che nessun sostegno lo mantenga forzatamente perché è contro il suo volere in vita. La proposta all’esame si basa sulla profonda convinzione che ci sia differenza tra il sospendere la somministrazione di una cura e la somministrazione di una sostanza letale. Ricordo la Cassazione: “Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto, tale rifiuto, un atteggiamento di scelta che la malattia faccia il suo corso naturale”. Potrei ricordare la giurisprudenza della Corte di Strasburgo dal “caso Pretty” in avanti, ma vado alla sintesi. Ricordo che, all’articolo 1, ci si riferisce a persone capaci di intendere e di volere e mi limito a richiamare, per la nota questione sulla categoria a cui appartengono nutrizione e idratazione artificiale, il parere della società scientifica di riferimento, la Società italiana di nutrizione parentale ed enterale, SINPE, che, nelle sue precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale del gennaio 2007, ha ricordato che è da considerarsi a tutti gli effetti un trattamento medico fornito a scopo terapeutico preventivo e che non è una misura ordinaria di assistenza, come lavare o imboccare l’ammalato, e che essa ha, come tutti i trattamenti medici, indicazioni, controindicazioni, effetti indesiderati. Ma, a mio parere, anche per chi fosse di diverso avviso, vale in questo caso il principio costituzionale per cui la libertà personale è inviolabile, articolo 13, e non è quindi possibile ritenere che una persona capace debba obbligatoriamente essere tenuta attaccata a un sondino nasogastrico o con una PEG.

La perdita della capacità di agire non può comportare la perdita di un diritto quale quello di esprimere la propria volontà in merito al trattamento sanitario a cui potrei essere sottoposto in futuro. Se il consenso al trattamento sanitario è un diritto, e, come abbiamo visto, lo è, le disposizioni anticipate sono una modalità che cerca, con dei limiti, ovviamente, di garantire comunque l’esercizio di quel diritto. Quindi, l’articolo 3 prevede e disciplina le disposizioni anticipate di trattamento, che vengono definite come l’atto in cui ogni persona maggiorenne capace di intendere e di volere può, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari.

La scelta del termine “convinzioni e preferenze” è voluta per stare a significare che non si tratta di compilare un modulo, magari mettendo delle crocette, quanto piuttosto di esprimere la propria

visione, i propri desideri, la propria capacità di vedere il futuro.

Il dichiarante indica una persona di fiducia, e il ruolo del fiduciario è stato notevolmente rafforzato in conseguenza della discussione tra di noi, perché è il fiduciario quello al quale spetta il compito di attualizzare quelle direttive anticipate di trattamento, calandole nel caso concreto, nella malaugurata evenienza che questo sia necessario. Nel caso in cui, poi, l’indicazione del fiduciario non ci sia o sia venuto meno per difficoltà personali, le DAT conservano efficacia circa la proposta delle convinzioni e preferenze dell’esponente, ma viene rimessa al giudice la possibilità di nominare un amministratore di sostegno, ascoltando nel procedimento, come, peraltro, sempre avviene ed è già previsto dalla legge, i familiari. In caso di contrasto tra fiduciario e medico, anche in questo caso è previsto l’intervento del giudice tutelare. Viene, poi, fatto salvo, anche nelle DAT, il disposto del comma 7 dell’articolo 1, a cui prima facevo riferimento, rispetto agli obblighi dei medici e ai limiti posti alla libertà di scelta dei pazienti. L’articolo 4 prevede la possibilità di definire e fissare una pianificazione condivisa delle cure: si tratta di assorbire all’interno dell’ordinamento un’esperienza già effettivamente praticata soprattutto all’interno di hospice o di reti di cure palliative nelle quali il paziente, i suoi familiari, chi gli è vicino, possono, acquisite le informazioni sull’evolversi della patologia grave e infausta da cui il paziente è colpito, condividere insieme al medico curante un percorso che gli garantisca, da un lato, il rispetto delle sue volontà, ma, dall’altro, risponda alla sua preoccupazione di rischiare di venire abbandonato.

Vengono in ogni caso richiamate le norme di cui all’articolo 3, relative alle disposizioni anticipate di trattamento, per tutti gli aspetti non espressamente disciplinati. L’articolo 5, con una disposizione transitoria, sancisce l’applicabilità delle disposizioni della legge ai documenti contenenti la volontà del disponente depositati presso il comune o davanti a un notaio prima dell’entrata in vigore della legge stessa.

Sappiamo che rimane una questione organizzativa da chiarire, che ci è stata fatta osservare dalla Commissione per gli affari regionali, che riguarda la possibilità di garantire all’interno del sistema informatico della tessera sanitaria a tutti i cittadini, e non solo nelle regioni che abbiano più sviluppato l’informatica sanitaria, la possibilità di registrare, e di rendere, quindi, disponibili, le proprie disposizioni di trattamento.

È un tema di complessità organizzativa, ma sul quale esiste un ampio accordo, e che sarà quindi possibile affrontare in modo efficace all’interno della discussione della fase emendativa in Aula. Mi accingo a concludere, e lo faccio con una considerazione di carattere generale: il problema del fine vita e delle scelte conseguenti è il problema di una medicina tecnicamente avanzata, ma è anche il tema di sistemi sanitari pubblici in grado di garantire quelle cure oppure si tratta di persone la cui disponibilità economica sia in grado di attingere alle cure migliori in ogni Paese del mondo. In altri, molti Paesi, neanche cibo e istruzione sono garantiti e tanto meno esistono sistemi sanitari in grado di combattere malattie da noi sconfitte da decenni.

È il sistema sanitario nazionale, con tutti i suoi limiti, ma anche con le sue grandi opportunità, che ci permette di avere una vera libera scelta, ed è un miglioramento del sistema, e delle cure palliative in particolare, quello che garantirà, anche in futuro, che la scelta sia autenticamente libera (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il relatore di minoranza, onorevole Calabrò.

RAFFAELE CALABRO', Relatore di minoranza. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il provvedimento di legge che oggi quest’Aula inizia a discutere è il risultato di un percorso che ci ha visti su nastri di partenza molto distanti, ma, grazie anche al lavoro di mediazione della relatrice, onorevole Lenzi, ci sono stati miglioramenti che hanno accorciato le distanze, ma sono convinto che noi dobbiamo e possiamo fare di più. Esso si porta un po’ dietro la fretta imposta da un’insolita alleanza Partito Democratico-Sinistra Italiana-MoVimento 5 Stelle, accomunati dal desiderio di intestarsi una battaglia ideologica che considerano una vittoria progressista. Ma una legge che disciplina i momenti più delicati, complessi, sofferenti di un’esistenza umana, mi riferisco alla malattia grave, alla disabilità, alla morte, richiederebbe, oltre che cautela e prudenza, una maggiore condivisione e un maggior confronto da parte e tra tutte le forze politiche.

E poco c’entra l’onda emotiva dell’opinione pubblica che ha accompagnato la scelta di Dj Fabo di recarsi in Svizzera per porre fine a un’esistenza che non sentiva più sua, perché - vale la pena chiarirlo, lo diceva anche la relatrice - l’approvazione di questa legge non avrebbe comunque permesso nel nostro Paese l’iniezione letale a Fabiano. Onorevoli colleghi, vi chiedo oggi di fermarvi a riflettere su alcuni aspetti di questo testo, per poter consegnare all’altro ramo del Parlamento una proposta che può e deve essere migliorata. Vi chiedo di abbandonare lo stigma secondo il quale chi si oppone all’eutanasia omissiva o passiva che questa legge vuole in qualche modo introdurre nel nostro ordinamento sia un clericale, un retrogrado o un chierichetto al servizio della Chiesa. L’appello a licenziare una legge che sappia coniugare tutela della vita, libertà della persona e dignità umana è un richiamo profondamente laico che proviene dalla nostra Carta costituzionale.

Non stiamo semplicemente legiferando sulla corretta gestione di una patologia; oggi è in gioco la nostra capacità di coniugare libertà e diritto, di preservare i principi saldi del nostro ordinamento. Tutta la nostra civiltà e il nostro diritto positivo si basano sul principio che la libertà personale in un contesto sociale incontra inevitabilmente dei vincoli. È l’articolo 32 della Costituzione a parlare di autodeterminazione del soggetto, imponendo al medico l’obbligo di informare il paziente sui trattamenti più appropriati, facendo espressamente riferimento alla possibilità di rinunciare a determinate cure e trattamenti sanitari. È l’articolo 2 della Costituzione a disciplinare l’inviolabilità della vita, stabilendo che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

È proprio per questa ragione che è vietata ogni forma di eutanasia, di omicidio del consenziente, di assistenza o aiuto al suicidio, già peraltro sanzionati agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale.

Quanto al concetto di dignità, la domanda che vi pongo è: chi può dire che la dignità è sinonimo di capacità di produrre economicamente o di relazionarsi socialmente? Anche a costo di apparire cinico, vi chiedo: chi di voi avrebbe il coraggio di affermare che un bambino cerebroleso non abbia dignità di vita? Le persone che vivono una disabilità grave sono soltanto persone più fragili, bisognose di assistenza, persone che conservano la loro dignità e degne di continuare a vivere, che necessitano di quella solidarietà cui fa riferimento l’articolo 2 della nostra Costituzione. Vi chiedo di tenere bene a mente queste premesse e questi principi, prima di addentrarci ad analizzare gli aspetti positivi, e soprattutto le principali criticità che questo testo contiene, e che possiamo e dobbiamo superare.

Questa proposta ha senz’altro il merito di disciplinare il consenso informato, la pianificazione delle cure, la sacrosanta libertà di un soggetto di rifiutare determinati trattamenti sanitari. In nessun modo si vuole negare il diritto di decidere di non sottoporsi o di sospendere determinate terapie: anche se quella scelta gli costerà la vita, avrà pur sempre scelto di morire, ma lasciando fare alla patologia il suo decorso infausto. Ma ben altra situazione è quella prevista agli articoli 1 e 3 di questa legge, in cui si vuole elevare a diritto la pretesa che sia il Servizio sanitario a condurci alla morte, a prescindere dall’evoluzione di una patologia, sospendendo sostegni vitali quali sono idratazione e nutrizione artificiale. Si è liberi di rifiutare le cure, si è liberi di scegliere di vivere o di morire, ma non si è liberi di pretendere che sia lo Stato ad assisterci nel suicidio.

Onorevoli, questo provvedimento parte da una erronea premessa, ed ossia che nutrizione e idratazione artificiali siano trattamenti sanitari e non forme di sostegno vitale, necessarie e fisiologicamente indirizzate al sostentamento e ad alleviare le sofferenze di un paziente, la cui sospensione configurerebbe un’ipotesi di eutanasia passiva, omissiva. Noi vogliamo un Sistema sanitario che sappia accogliere, assistere fino alla fine nel miglior modo possibile, applicando le cure palliative, un paziente che vive una grave disabilità, e non legittimare l’eutanasia omissiva a carico dello Stato, che tra l’altro è contraria agli articoli, come dicevamo prima, 579, 575 e 580. Ecco perché noi riteniamo che idratazione e nutrizione artificiale possono essere sospese solo ed esclusivamente se veicoli di terapie farmacologiche, cioè se rappresentano cure.

Il testo disciplina le disposizioni anticipate di trattamento, ossia il diritto di una persona in grado di intendere e di volere di esprimere le proprie indicazioni sui trattamenti sanitari a cui vorrà o non vorrà essere sottoposto, in previsione di eventuale futura incapacità di autodeterminarsi. La dizione “disposizioni” conferisce ai desideri del paziente carattere di definitività, rigidità, freddezza: una dizione pericolosa sotto diversi aspetti, perché riduce il ruolo del medico a puro esecutore della volontà altrui, quasi fosse un notaio. La scelta di trasformare le “dichiarazioni”, come prevedeva il testo originario, in “disposizioni”, è un cambiamento non semplicemente di tipo linguistico, ma di sostanza. Questo testo dimentica che si tratta di indicazioni espresse ora per allora, finge di dimenticare la vulnerabilità della natura umana: ignora che spesso le nostre convinzioni sul senso della vita e della morte cambiano con il passare degli anni, che sono influenzate dallo stato emotivo e psicologico del presente, che è per definizione mutevole. Quello che noi viviamo oggi, il modo in cui ci vediamo oggi, è ineluttabilmente destinato a mutare. La storia di ogni uomo è il saper rimodellare la propria esistenza sulla base delle nuove esperienze.

Da medico, vi dico che è aberrante imporre al medico il rispetto delle DAT, chiedendo di seguire pedissequamente le indicazioni di un paziente con il quale non può più dialogare, anche se sono intervenuti nel frattempo nuovi farmaci e innovazioni chirurgiche. Non possiamo chiedere al medico di non agire più secondo scienza e coscienza professionale, che è cosa ben diversa dall’obiezione di coscienza; di andare contro il suo stesso codice deontologico, rivisto nel 2014 proprio per renderlo attuale e maggiormente rispondente alla medicina moderna, che all’articolo 38 prevede: “Il medico, nel tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto, e ispira la propria condotta al rispetto della dignità, della qualità di vita del paziente, dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria”. In nessun modo gli si può imporre di restare inerme di fronte all’evoluzione di una patologia che potrebbe essere contrastata. La DAT scritta ora per allora, in un momento storico particolare della vita personale del paziente, ha necessità di essere attualizzata: il medico deve riaprire il dialogo con un familiare, un fiduciario, una persona che lo rappresenti oggi in stato di incoscienza, per comprendere cosa avrebbe potuto decidere alla luce delle nuove conoscenze.

Il rapporto e l’alleanza tra il medico e il paziente, alla base di qualsiasi scelta, non si deve interrompere, deve continuare attraverso persone di sua fiducia.

Questa proposta di legge, in maniera assurda e superficiale, non indica quando le DAT acquistano efficacia, non facendo i dovuti distinguo tra condizioni cliniche differenti: tra perdita di coscienza transitoria e definitiva, tra patologie che esitano inevitabilmente verso la morte e quelle che, pur gravissime, possono essere definitivamente curate.

Ecco perché riteniamo che vada assolutamente specificato che la DAT si applica quando un soggetto si trovi in stato clinico irreversibile e quindi non sia più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e che, per tale motivo, non può assumere nuove decisioni che lo riguardano. Deve, insomma, trattarsi di un’incapacità permanente, per evitare il rischio altissimo che al paziente temporaneamente incapace di comunicare con il personale medico venga sospesa una cura salvavita.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

RAFFAELE CALABRO', Relatore di minoranza. Sono verso la fine.

PRESIDENTE. Ha un minuto, onorevole.

RAFFAELE CALABRO', Relatore di minoranza. Grazie.

Potremmo mai accettare che un paziente, colpito da shock anafilattico per la puntura di un’ape o di un calabrone, con conseguente perdita di coscienza e difficoltà respiratorie, non venga salvato grazie alla respirazione artificiale o a un’iniezione di cortisone, solo perché ha scritto che, in caso di incapacità di intendere e di volere, non vuole che gli venga effettuata nessuna terapia? Ma non voleva forse intendere ben altro? Configurare una situazione clinica ben diversa?

Colleghi, signor Presidente, c’è ancora tempo per migliorare questa legge, per introdurre tre punti nodali: si riveda la vincolatività delle DAT; si restituisca al medico il ruolo che gli è proprio: che il medico tenga conto, ragioni con il paziente e con il fiduciario, valuti con lui la migliore terapia; si stabilisca che le DAT trovano applicazione nel momento in cui il soggetto si trovi in una condizione clinica irreversibile e che alimentazione e idratazione artificiali possono essere interrotte…

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Calabrò.

RAFFAELE CALABRO', Relatore di minoranza. …esclusivamente se veicoli di terapia.

Area Popolare non voterà una legge che non contenga questi tre elementi per noi determinanti, non voterà una legge che non accetti i limiti della medicina, che non riconosce l’umiltà di asserire: in dubio pro infirmis.

PRESIDENTE. Ha facoltà intervenire la rappresentante del Governo, se lo ritiene. Si riserva, la sottosegretaria Amici.

Prima di dare la parola alla prima iscritta a parlare, che è l’onorevole Amato, do la parola all’onorevole Binetti, che per un disguido relativo al gruppo, e non alla Presidenza, non è iscritta a parlare. Però, diamo la parola per la consegna del testo.

PAOLA BINETTI. Presidente, consegno l’intervento.

PRESIDENTE. La ringrazio.

È iscritta a parlare l’onorevole Amato. Ne ha facoltà.

MARIA AMATO. Presidente, io li ho visti, come altri colleghi, gli occhi smarriti di chi, malato, si trova davanti un foglio da leggere e poi da firmare: un foglio in cui in genere c’è scritto che puoi morire, anche se di allergia, o che si complicano le cose, e poi sono guai. Conosco lo sguardo vuoto di chi, alla restituzione della diagnosi, si ferma alle prime parole: abbiamo trovato un nodulo, non sappiamo ancora, dobbiamo vedere meglio, forse un cancro, operare, chemioterapia. Molti di quelli con cui successivamente si costruisce una relazione raccontano di aver sentito - sentito, non capito - solo le prime parole.

Questa legge guarda al paziente, al suo diritto di un percorso di cura, di comprendere cosa accade intorno e sul suo corpo, con quale obiettivo, con quali rischi, e, dopo aver compreso, scegliere di intraprendere, interrompere o rinunciare alla cura. Le firme sotto il modulo di consenso informato sono del paziente, che ha compreso ed è d’accordo, e del medico, che ha dato informazioni e non lo lascerà solo.

Non si scrive in una legge, ma quanto è complicato questo passaggio, quanta empatia ci vuole nell’operatore sanitario, quanta cura nella scelta delle parole, quanto coraggio a dire la verità e a raccogliere paura e dolore, quanto rispetto a fermarsi di fronte al rifiuto di un trattamento: non solo un trattamento qualsiasi, ma quello che cambierà la vita! Tutto questo è già nella formazione dei medici e degli infermieri o degli altri operatori sanitari: una formazione che deve però fare ancora un salto di qualità, dando maggiore ruolo alle cure palliative; non solo per il fine vita, ma per la visione di intero rispetto alla parte, di persona rispetto alla malattia.

Questo è il rischio di un sistema sanitario troppo spinto verso il concetto di azienda e di produttività e di una scienza medica iperspecialistica: perdere di vista l’intero, perdere di vista la persona; e nell’articolo 1 si ribadisce il principio che il tempo del colloquio è tempo di cura, e che, se la persona malata ha diritto a poter interrompere un trattamento, lo Stato ha il dovere del non abbandono.

Abbiamo messo nel testo principi che migliorano il sistema, con pazienti più consapevoli, con il tempo che consente una relazione più solida tra operatore e persona malata, il non abbandono, elemento di fiducia oltre che di assistenza.

La maggior parte delle più recenti sentenze ha più volte riconosciuto l’intangibilità del proprio corpo, il fatto che nessuno può essere sottoposto, contro la sua volontà, a un trattamento sanitario. È nella nostra Costituzione, ma bisogna arrivare alle sentenze e non tutti hanno energia e tempo residuo per farlo, coraggio di portare la propria malattia fuori dall’intimità della propria famiglia.

In questo testo non c’è niente di eutanasico, niente suicidio assistito, che sono pratiche vietate in Italia. Nel diritto della persona malata non c’è la possibilità di esigere dal medico una pratica contro la legge, né un trattamento che non sia scientificamente validato. L’aloe e il veleno dello scorpione, per esempio, seppure in voga sui network, non sono una terapia validata per il cancro.

È un’arte anche questa: spiegare a chi è disperato e si attacca a qualsiasi speranza quello che è possibile, quello che è probabile, quello che è impossibile, la differenza tra farmaco e pozione, tra scienza e credenza popolare.

E se il diritto di accettare, rifiutare, interrompere e rinunciare a una cura o a un trattamento sanitario è apparentemente ovvio, quando il paziente è in grado di comunicare e di relazionarsi, seppure con l’utilizzo di nuove tecnologie informatiche - mi riferisco a pazienti con SLA o altra patologia degenerativa -, attualmente è materia di giudici la stessa decisione in una persona non più in grado di esprimere il suo consenso.

Le DAT servono a questo, a dire i propri orientamenti e i propri desideri rispetto alla cura, rispetto al proprio fine vita; affermarli ora per allora, con la forza di un documento, non un foglietto volante. Un documento vincolante e volontario, modificabile nel tempo, un documento a cui la presenza obbligatoria del fiduciario toglie quel carattere di pietra tombale descritto di recente in qualche articolo per dare corpo a paure o a false idee di pericolose derive. Il fiduciario, infatti, è la persona con cui interfacciarsi per il rispetto delle DAT o per le poche eccezioni alla vincolatività delle stesse, in particolare di fronte a progressi medici o in situazioni non previste o non prevedibili alla disposizione anticipata.

Cito un lavoro del 2003 del Comitato bioetico nazionale: si applica quando chi le ha descritte, maggiorenne e in grado di intendere e di volere, è privato delle facoltà cognitive e della stessa coscienza, trovandosi così a dipendere interamente dalla volontà di altri. Le DAT tendono a favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell’esistenza e ad evitare che il malato, per l’eventuale incapacità, non venga più considerata una persona con la quale concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto un corpo da sottoporre ad anonimo trattamento.

A tal fine è opportuno fornire a medici, al personale sanitario e ai familiari elementi conoscitivi che li aiutino a prendere decisioni che siano compatibili con la volontà e le preferenze della persona da curare. Un testo di “diritto mite”, secondo il linguaggio della legge, un testo delicato, come lo descriverei da medico, con l’attenzione all’equilibrio tra il diritto alla salute e quello dell’intangibilità del corpo, tra il dovere di curare e il diritto al rifiuto, tra l’obbligo di informare e il diritto a non voler sapere. La tutela del paziente e della sua volontà, anche in quella espressa ora per allora con le DAT, negli articoli 1 e 3, e la tutela degli incapaci inabili e minori ben dettagliata nell’articolo 2, col rispetto delle volontà possibili, informando dove si può, ribadendo che ogni scelta deve avere la finalità della salute della persona, perché abbiamo a cuore i fragili.

I bambini, i minori, vengono coinvolti nel percorso della loro malattia. Nelle audizioni abbiamo ascoltato come il dire ai minori quello che deve accadere, anche ai bambini, consenta un più sereno approccio ai trattamenti e anche a una più positiva reazione psicologica personale e familiare alle procedure e al decorso di malattia.

Si può già scegliere di rinunciare o di sospendere una terapia antibiotica, si sceglie di sospendere la chemioterapia, si sceglie di non andare più a dializzare, si firma contro il parere dei sanitari per lasciare l’ospedale, anche in condizioni critiche, e già così senza scalpore: si chiarisce oggi che si può fare per tutti i trattamenti sanitari, anche per l’idratazione e la nutrizione artificiale.

L’idratazione artificiale e la nutrizione artificiale sono atti sanitari, e l’idratazione, in particolare, non è solo la flebina di accompagnamento al farmaco, non il bicchiere d’acqua amorevolmente somministrato col cucchiaino o con la pezza bagnata, ma un farmaco con calcolo del fabbisogno idroelettrolitico con via d’accesso frequentemente invasiva, con catetere venoso centrale; e la nutrizione artificiale è con accessi chirurgici, come la PEG, che in linguaggio familiare è un buco nello stomaco; è la somministrazione di nutrienti attraverso un sondino o un sondino nasogastrico o le sacche per la nutrizione parenterale totale attraverso un accesso venoso centrale. Sono atti sanitari che necessitano di operatori esperti, atti che richiedono il consenso informato e per cui si ribadisce il diritto da parte del paziente alla sospensione o alla rinuncia del trattamento, così come è necessaria la volontà di sottoporcisi.

La legge n. 38 del 2010 e le cure palliative e la terapia del dolore hanno già cambiato l’assistenza, ma con una presenza non omogenea nel Paese. Il concetto del dolore inutile, con buona percentuale affrontato nella patologia oncologica, come documenta un recente lavoro di Cittadinanza attiva, rappresenta ancora uno scoglio però nel campo delle malattie croniche. Più diffusione delle cure palliative, dunque, perché il superamento del dolore, il trattamento del sintomo, la presenza di un’équipe preparata è cura per il paziente e sollievo per la famiglia, accompagna nel dolore globale del morente.

Tra le manovre palliative, elemento di discussione mediatica è la sedazione palliativa profonda, una procedura medica ben descritta nelle linee guida internazionali per la medicina palliativa, nelle raccomandazioni della società italiana di cure palliative, nei documenti del Comitato bioetico nazionale. La definizione è la stessa recentemente richiamata nell’aggiornamento del manuale degli operatori sanitari cattolici: la sedazione palliativa profonda e continua è una riduzione progressiva dello stato di coscienza, sedazione appunto con un farmaco sedativo, in genere oppioide, di fronte ad un sintomo refrattario ad ogni trattamento. Si fa previo consenso del paziente. Sedazione: i termini, in questo campo, devono essere corretti. Si chiama sedazione per l’obiettivo del trattamento e il tipo di farmaco usato.

Dunque, una legge che rispetta il paziente e le sue scelte. Abbiamo scelto l’equilibrio e il malato, perché, in molti casi, un corpo prigioniero di macchine, aghi, drenaggi, cateteri, sondini, farmaci, infermieri, medici e dolore, può volere, essendo consapevole, e può desiderare che il tempo della morte arrivi dignitosamente (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Amato. Mi scuso con i colleghi, ma ovviamente devo essere un po’ stringente quanto al riaspetto dei tempi.

È iscritto a parlare l’onorevole Palmieri. Ne ha facoltà.

ANTONIO PALMIERI. Presidente, volevo chiedere una cortesia preliminare, cioè se mi scampanella al ventesimo minuto.

PRESIDENTE. Lei ne ha diciotto, di minuti, onorevole.

ANTONIO PALMIERI. Avevo sul conto sui numeri del nostro gruppo…

PRESIDENTE. Onorevole Palmieri, io ho quello che mi è stato consegnato: sono 18 minuti. Mi dica lei quando…

ANTONIO PALMIERI. Staremo nei tempi…

PRESIDENTE. Bene, allora come tutti gli altri, a un minuto dalla fine, “sarà scampanellato”.

ANTONIO PALMIERI. Molte grazie. Presidente, colleghe e colleghi, affrontare un tema come questo non è certamente una cosa facile, non è una cosa che si può fare a cuor leggero, non è una cosa sulla quale ci si può confrontare a colpi di braccio di ferro, gli uni contro gli altri, armati, senza riconoscere agli altri la legittimità dei propri convincimenti, delle proprie intenzioni, delle proprie idealità. Per questo inizio rifiutando fin da subito la definizione o la descrizione di questo dibattito e delle settimane che ci occuperanno qui in Aula, con le votazioni degli emendamenti, come un derby tra coloro che vogliono far soffrire le persone gravemente malate o le persone rese disabili da gravi malattie e coloro i quali, invece, animati da una pietas, vogliono abbreviare le sofferenze di queste persone. Non è questo che è in discussione in questo momento, non è questo che sarà in discussione nelle prossime settimane.

Noi in Commissione abbiamo lavorato lealmente, portando emendamenti che miravano a migliorare il testo; la stessa cosa abbiamo fatto e faremo adesso con gli emendamenti che abbiamo presentato (quarantotto). Io credo che molti di questi emendamenti saranno accettati, perché concorrono a rendere il testo più comprensibile e più efficace. Sono fiducioso, ma non troppo per la verità, che invece siano anche accolti quelli che mirano ai punti culturali sostanziali di questo testo. Noi ci muoviamo su un equilibrio che è molto sottile: l’equilibrio tra due libertà, in un certo senso. Un equilibrio che poggia sul fatto che è un’evidenza che nessuno di noi si è dato la vita da solo e ciascuno di noi, di conseguenza, è il capitano di una nave sulla quale non ha scelto di stare, non ha scelto di costruire così come è fatta, e sulla quale non ha chiesto di navigare la propria esistenza, e al tempo stesso, il fatto che si è nella libertà di decidere come guidare la nave della propria esistenza. Dentro a questo equilibrio, si muove la posizione fin qui assunta dal gruppo di Forza Italia e dentro questo equilibrio continueremo a stare.

A nostro giudizio, non sarebbe stata necessaria una norma, perché che lo Stato entrasse a regolare anche quello spazio insondabile che separa la vita dalla morte: ci sembra un’invasione di campo della quale avremmo fatto e faremmo volentieri a meno. A noi ci sta a cuore che lo Stato faccia quello che deve fare per garantire protocolli medici accurati, per garantire che non ci sia alcuna forma di accanimento terapeutico, per garantire un leale e forte sostegno a coloro i quali chiedono la libertà di vivere e non quella di morire. Serve una legge, io credo, unicamente a coloro i quali - e non mi riferisco a chi è intervenuto prima di me - hanno a cuore di tendere, come obiettivo vero, a una legislazione eutanasica nel nostro Paese, perché la legge serve come primo passo in quella direzione, come dimostrano le esperienze avvenute in altri Paesi europei a noi vicini, cito per tutti il Belgio e l’Olanda.

Dentro questa preoccupazione che noi abbiamo, anche altre sono emerse nel corso del dibattito in Commissione, sempre di natura culturale e fondativa, perché ogni norma traduce in atto una visione di essere umano e, di conseguenza, di società; parte di questa norma sicuramente veleggia verso la direzione dell’avveramento di quella società dei desideri, per la quale ogni desiderio è, e deve diventare, un diritto garantito dallo Stato. Su questi punti abbiamo già abbondantemente legiferato, avete abbondantemente legiferato con questa maggioranza nel corso di questa legislatura e questa legge è un ulteriore tassello di questo disegno.

Una cosa dalla quale tutti dobbiamo astenerci - e su questo credo e spero che saremo tutti d’accordo - è il cadere nella trappola emotiva che i media hanno teso nelle scorse settimane approfittando della vicenda di dj Fabo e che, senza ombra di dubbio, torneranno a tendere nelle prossime settimane quando il provvedimento sarà in Aula, per costringere il Parlamento a legiferare sull’onda di un’emozione. Non si fanno le leggi sull’onda dell’emozione, così come non si fanno leggi per un caso singolo; una legge deve tendere a regolare una fattispecie di natura generale.

Un altro aspetto, che abbiamo sentito ricordare più volte in Commissione, è la tensione e l’attenzione sull’autodeterminazione assoluta della persona. Lasciatemi dire - anche qui sotto un aspetto di natura culturale che, in questo caso, è quanto mai politico - che l’autodeterminazione assoluta è una illusione, perché l’essere umano è fatto e costituzionalmente intriso di relazione. Non a caso nasciamo dalla relazione tra un uomo e una donna, non a caso restiamo nove mesi dentro la pancia di una donna, non a caso nei primi anni della vita e poi durante tutto il corso la nostra esistenza, noi abbisogniamo di essere accolti dentro una relazione e tante relazioni con altri esseri umani, perché la libertà diventa responsabilità di rispondere a quello che ci viene dato, diventa un compito, non è semplicemente la pura libertà di scelta.

Per questo ci preoccupano i contenuti di questa norma: perché tra le righe, per come è scritta la norma finora, si finisce per leggere una sentenza, in quanto per troppi aspetti (per quanto riguarda specialmente le DAT) è una norma ancora troppo generica.

Viene dipinto un quadro per il quale ci sarebbero vite che non sono utili, non sono degne di essere vissute, mentre altre vite sono degne di essere vissute. Questa deriva ci porterebbe dentro una definizione normativa per la quale, con riferimento a chi è produttivo, cioè chi è capace di realizzare una condizione di presunta normalità, è utile alla società, la società stessa e in questo senso lo Stato può investire su queste persone, viceversa, in altre condizioni, non vale la pena di investire su costoro. In questo modo, noi andiamo a contraddire due capisaldi della nostra cultura occidentale. Il primo che era nato ai tempi di Ippocrate, quando, per la prima volta, la malattia e la sofferenza furono considerati come eventi della natura, circostanza e concezione culturale che fu poi approfondita nel corso dei secoli e fu poi inverata dal cristianesimo nel momento in cui costruì luoghi per accogliere coloro i quali erano malati e gravemente malati. Potremmo presentare una lunga galleria di personaggi, che vanno dai primi tempi dell’era cristiana fino a Madre Teresa di Calcutta, per cui si è posta l’attenzione agli ultimi, agli emarginati, a coloro che erano disabili, gravemente malati, che erano inguaribili, ma non incurabili, coloro i quali potevano non guarire dalla loro malattia, ma per i quali si poteva comunque proporre una cura che rendeva onore alla loro umanità; ecco, si potrebbe fare un lungo elenco, ma non è questa la sede opportuna per farlo. È opportuno però capire, e concludo la prima parte del mio intervento per passare brevemente ai punti salienti della norma che non ci convincono, e l’ho detto all’inizio, che questo rischia di essere, con buona pace e al di là delle intenzioni di alcuni dei proponenti e delle proponenti, un piano inclinato, solamente un primo passo che poi ci porterà in una direzione che sappiamo come va a finire, come ricordavo poc’anzi: come in Belgio e in Olanda.

Presidente, noi, come dicevo, abbiamo svolto un approfondito lavoro in Commissione e mai di natura ostruzionistica: le settimane che abbiamo impegnato in Commissione non sono state momenti di ostruzionismo, sono state utili a rendere la legge, per quanto possibile, migliore. Questo è stato l’intendimento che ha animato i rappresentanti del nostro gruppo, e non solo i rappresentanti del nostro gruppo, e su queste intenzione, come ho detto, noi continueremo. Continueremo come Forza Italia, innestandoci in una tradizione, anche qui in una cultura, che ha portato, durante gli anni dell’ultimo Governo Berlusconi, a compiere quell’intervento forte che tutti ricorderete nei confronti della vicenda di Eluana Englaro, ha portato al compimento di una importantissima legge sulle cure palliative che già oggi consente ai malati terminali di non soffrire e di non essere sottoposti all’accanimento terapeutico; già oggi è possibile, come è già stato ricordato, attraverso la sedazione profonda. Noi su questo abbiamo presentato un emendamento perché sia chiaro, come ho detto all’inizio, che noi stiamo dalla parte dell’essere umano e non stiamo dalla parte della sofferenza. Già oggi è possibile, grazie a quella norma approvata nel 2010, porre fine alla vita dei malati terminali senza sofferenze inutili. Abbiamo anche il precedente della proposta di legge Calabrò nella scorsa legislatura, una proposta molto più equilibrata di quella uscita dalla Commissione che opportunamente restringeva il campo d’azione delle DAT, che opportunamente specificava meglio che cos’è il consenso informato (uno dei nostri emendamenti punta a definire che cosa è il consenso informato, perché all’articolo 1 di questa norma, che è quello che cerca di normare il nuovo consenso informato, questo non viene in alcun modo definito). Noi continueremo in questa in questa direzione. Certamente i punti salienti sono quelli che riguardano l’inclusione di idratazione e alimentazione come trattamenti rifiutabili all’interno del consenso informato e all’interno delle DAT. Due marcature, soprattutto quella all’interno del consenso informato, di chiaro orientamento culturale e, lasciatemelo dire, ideologico. Non c’era motivo alcuno di insistere su questo punto, se non di voler marcare un punto culturale e politico, di voler cercare su questa norma da parte del Partito Democratico di avere un consenso trasversale che andasse oltre le proprie disponibilità e andasse anche oltre i confini della propria maggioranza, che su questo punto e sulla legge in quanto tale sono - come è noto - divise. L’altro punto riguarda il ruolo del medico. Come ho detto, noi abbiamo lavorato con lealtà e voglio qui rendere merito alla relatrice, l’onorevole Lenzi, perché ha attuato una pratica di vero ascolto e, non a caso, grazie a questa pratica di vero ascolto, abbiamo migliorato il comma 7 dell’articolo 1, che riguarda il ruolo del medico. L’abbiamo migliorato, ma non è ancora sufficiente perché, per quanto riguarda la rinuncia alle terapie e le DAT, il medico è nuovamente ridotto a quel ruolo di esecutore testamentario, con il quale noi lo abbiamo battezzato durante i lavori in Commissione, un ruolo che contraddice l’alleanza tra paziente, famiglia e medico, che deve essere per noi la base di ogni atteggiamento di cura e di presa in carico. Su questo punto nuovamente noi abbiamo presentato nuovi emendamenti che vanno nella direzione di riequilibrare una situazione. Anche qui, in nome dell’autodeterminazione assoluta, in Commissione abbiamo sentito dire che vi sarebbe non solo una parità assoluta tra paziente e medico, ma addirittura il paziente viene prima del medico; certo che viene prima del medico perché è l’essere umano che si trova nelle condizioni di sofferenza, ma è altrettanto certo che il rapporto è, per sua natura, asimmetrico, per il semplice fatto che, nel momento in cui io sono malato, mi rivolgo a chi credo, e spero, ne sappia molto più di me per trovare una via d’uscita alla mia condizione e mi affido alla persona o alle persone con le quali mi trovo ad avere a che fare proprio perché sono fiducioso che, sapendone più di me, sappiano trarmi d’impaccio. Nuovamente, il punto - e mi avvio veramente alla conclusione - riguarda le DAT, per cui le DAT hanno, da un lato, subito quella modifica di natura lessicale, che lessicale non è, perché è una modifica di natura culturale e politica rispetto al titolo originario della legge, diventando non più semplicemente delle dichiarazioni, ma delle disposizioni e quindi nuovamente relegando il medico in quel ruolo di esecutore testamentario al quale ha fatto riferimento poc’anzi. Dicevo che appunto il testo sulle DAT è per sua natura, per come è stato concepito e per come siamo venuti a portarlo a compimento in Commissione, un testo volutamente generico, che lascia ampi spazi alla possibilità di andare in un’unica direzione, che è quella di una domanda alla quale io non ho avuto risposta in Commissione e che ripropongo qui in Aula, cioè a dire: nel momento in cui una persona è malata, ma non terminale, è disabile o è resa disabile grave a causa di una malattia e decidesse di rinunciare all’alimentazione e all’idratazione, comunque esse siano somministrate, che cosa accadrebbe di questa persona? Questa è la domanda alla quale non mi è stata data risposta in Commissione, ma la risposta in realtà è una sola: si andrebbe verso il suicidio assistito, perché non stiamo parlando di una persona con una malattia in stato terminale, ma stiamo parlando di una persona che potrebbe vivere ancora, unicamente se opportunamente curata, nel senso che dicevo prima, con la differenza fra “inguaribile” e “incurabile”, e ovviamente se idratata e alimentata. Noi, come ho detto prima, continueremo anche nell’Aula un’azione fondata non sul pregiudizio, non sulla volontà di imporre alcunché ad alcuno, ma sull’intendimento di portare a compimento una norma che sia la norma migliore possibile. Come ho detto all’inizio, se fosse dipeso da noi, questa norma non sarebbe arrivata in Aula proprio per il motivo che ho cercato di descrivere pochi minuti fa, cioè per il fatto che non c’era questa necessità e urgenza e che la cosa migliore appunto è che lo Stato resti fuori da quel sottile confine tra la vita e la morte, che è un mistero insondabile, come peraltro mistero insondabile è la vita stessa. Presidente, noi, come gruppo di Forza Italia, abbiamo detto che continueremo in questa direzione e abbiamo ribadito - e lo ribadisco qui pubblicamente - che vedremo l’andamento dei lavori per poi assumere una decisione con riferimento al nostro voto finale su questo provvedimento, perché siamo lealmente interessati a un dibattito vero e vogliamo - come ho detto e lo dico per l’ultima volta - migliorare realmente il testo. Ci aspettiamo però che non ci siano trucchi e trucchetti da parte di nessuno, in particolare del principale partito presente in quest’Aula perché già in Commissione abbiamo dovuto patire una situazione per la quale c’è stato sostanzialmente impedito di votare e discutere gli emendamenti sulla DAT e io spero realmente che nessuno vorrà approfittare delle pieghe del Regolamento in quest’Aula per comprimere i tempi del dibattito.

Non solo io lo spero, ma lo spera tutto il gruppo di Forza Italia perché questo sarebbe fare un grave torto a quella che è la responsabilità di ciascun parlamentare del Parlamento nella sua interezza, visto che su questa partita con saggezza il Governo ha scelto di seguire il precedente del Governo Berlusconi, quando votammo la legge sulla fecondazione assistita, cioè ha scelto di starne fuori e di rimettersi alla volontà dell’Aula. Allora è opportuno che l’Aula si prenda tutto il tempo che è necessario per fare il miglior lavoro possibile, incurante delle pressioni che riavremo nuovamente dall’esterno, incurante della trappola emotiva che ancora una volta sarà tesa ai nostri danni, avendo a cura semplicemente di fare nel modo migliore possibile il lavoro su un terreno delicato e molto, molto insidioso, come questa legge è, il lavoro che noi siamo qui chiamati a fare.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Marazziti. Ne ha facoltà.

MARIO MARAZZITI. Grazie, Presidente, colleghi, chiedo però alla Presidenza, nel caso in cui per stare nei tempi dovessi saltar delle parti, se posso consegnare poi un testo scritto. Un giornalista e scrittore svedese, Carl-Henning Wijkmark, alla fine degli anni Settanta, pubblicò un libretto corrosivo, La morte moderna, che racconta di un simposio di due giorni di immaginarie autorità scientifiche e politiche svedesi sul tema del crescente numero degli anziani, che rende insostenibile l’economia del Paese. Nel libretto si diceva che ci vorrebbero più morti. Ma come fare? Morire - diceva uno - è considerato innaturale, adesso più che mai, e si diceva che la radice del male non è in primo luogo che l’eutanasia sia illegale, ma che lo sia perché in così pochi chiedono l’eutanasia. Naturalmente c’era chi obiettava e anche la risposta. Non abbiate timori, non mi sono dimenticato di Hitler, non stiamo programmando nessuno sterminio di massa di anziani e handicappati e altre bocche inutili da sfamare. La conclusione: rendere la morte di nuovo attraente e desiderabile e la domanda di eutanasia spontanea, una via democratica.

In realtà il tema di oggi è un tema molto difficile, riguarda tutti noi, i nostri cari, i nostri nonni, padri, madri, fratelli, sorelle, i nostri figli e chi verrà dopo di noi. Tocca la vita, il senso della vita, come l’attraversiamo, le nostre idee sulla vita dentro una società in grande trasformazione: milioni di storie diverse e simili. Storie tutte diverse ma che sono state percepite come una unica grande storia. Per tanti queste storie tutte diverse che riguardano l’eutanasia, il suicidio assistito, gli stadi di coscienza o incoscienza acuta, il morire con dignità, il dolore, i modi per combatterlo, la medicina palliativa, la cultura dell’accompagnamento di chi vive e del morente rappresentano una forte, troppo semplificata, domanda di legge. Siamo su un confine sottile, non vogliamo sottrarci a questo compito. Siamo nella storia, in una storia che cambia rapidamente, cambia con il progresso scientifico e tecnologico, che arriva fino alle fasi ultime della vita, cambia nell’organizzazione sociale, cambia per le malattie che ci accompagnano negli ultimi decenni della nostra vita, tante croniche, nessuna decisiva perché abbiamo gli anni in più, la grande conquista, la più grande dell’umanità, questa età più lunga, cui le nostre società occidentali non sanno dare un senso e, da benedizione, rischia di essere un tempo di naufragio, non amato socialmente, e trasformarsi a volte in maledizione. Allora, quando lo diciamo, siccome cambia anche il linguaggio, sembra che sappiamo bene di che si parla, qual è il tema di questa legge, sembra che si sappia quando è che una vita ha qualità - si parla di qualità della vita, di dignità della vita e del morire - o quando la perde al punto da non essere più vita.

Grandi italiani, come Indro Montanelli o Umberto Veronesi, attribuivano alla capacità di ragionamento, eccezionale nel loro caso, un tratto distintivo della qualità e della vita stessa. Perdere l’autosufficienza, per tanti non essere in grado di controllare le proprie funzioni fisiologiche o l’uso delle proprie gambe è ritenuto non più dignità della vita. Per altri, tanti, questo tempo della vita in cui si dipende di più dagli altri, magari non vedendo, magari non sentendo, magari non camminando, se accompagnato con tenerezza acquista, invece, un sapore aggiuntivo di vita buona, dove tutto diventa relazione, calore e persino piacere o momento atteso perché più affettivo. Anche se tutti noi lottiamo per i diritti dei disabili anche gravi, come con la “legge sul dopo di noi”, di cui sono orgoglioso e di cui la nostra Commissione è orgogliosa, e se tutti noi lottiamo per le pari opportunità, però è difficile tracciare una linea. Come fare una legge che mentre tutela alcuni può diventare, anche involontariamente, uno strumento terribile a danno di altri e proprio dei più deboli? Sono domande dentro ognuno di noi.

La morte è diventata un tabù. Non solo ormai morire in solitudine è normale, ma non si può più neppure parlare della morte, dice qualcuno. Eutanasia, buona morte, morte dolce, “lasciatemi andare”, che è una frase così umana, “fatemi andare”: c’è una linea sottilissima. Noi abbiamo fatto, con questa proposta di legge, con il testo che abbiamo emendato in Commissione e che abbiamo raggiunto dopo un grande lavoro di un anno, una scelta che è una bussola: non vanno fatte leggi sui casi estremi - condivido questo con chi l’ha detto - ma leggi per tutti, evitando lacerazioni e di far prevalere solo un polo del problema. L’autodeterminazione e la libertà di scelta della persona, da un lato, la responsabilità medica, dall’altro, ad esempio; come ricostruire un’alleanza e non una concorrenza? Come evitare il paternalismo medico e valorizzare di nuovo la responsabilità sia della persona che del medico? Questa proposta di legge si muove in una società reale, non ideale. La nostra è una società frammentata, individualista e conflittuale, dove le solitudini e gli abbandoni sono molti, dove la desistenza terapeutica è più frequente, verso i poco autosufficienti e i non autosufficienti, rispetto all’accanimento terapeutico. Ma non è un popolo che ha voce. Se ne parla meno. È cresciuto, piuttosto, il senso forte delle libertà individuali. La nostra è una società con poche parole sulla malattia e sulla debolezza e molte parole sulla bellezza, sull’efficienza e sulla non dipendenza, in un mondo sempre più interdipendente. La vita è un bene relazionale o individuale o entrambe le cose. La via più semplice per il legislatore sarebbe stata e sarebbe una legge che sancisse, secondo lo spirito del tempo, il primato assoluto delle preferenze e scelte individuali, senza più responsabilità di altri, senza responsabilità nostra. Ma sarebbe una scorciatoia, perché stiamo facendo, invece, una legge per oggi e anche per domani. Dobbiamo, anche attraverso questo provvedimento, accompagnare nella debolezza, umanizzare il morire quanto si può, favorire la riduzione dell’isolamento e della disperazione, far crescere una cultura dell’accompagnamento. È quello che ci siamo sforzati di fare, un passo alla volta.

Si dice che l’Italia è arretrata ancora perché non è al passo con l’Europa dei diritti. La drammatica vicenda di Fabiano, dj Fabiano si è detto, conteneva un diritto negato, il diritto a morire. Ma c’è una differenza radicale tra desiderio e diritti: non ogni desiderio è un diritto, oppure ogni diritto, ogni desiderio, riguarda lo Stato. Fuori c’è chi reclama modernità in nome di dj Fabo. Ho osservato ieri su Avvenire quale contraddizione sia nel fatto che nel suicidio assistito di Fabiano sia stato usato il Pentobarbital, il farmaco che in questi giorni viene usato a ripetizione in Arkansas per otto esecuzioni capitali, proprio perché sta per essere vietato in tutte le esecuzioni capitali dopo che io personalmente, con la Comunità di Sant’Egidio e il Governo italiano, anche assieme a qualcuno di quelli che oggi accompagnano a morire con dignità in Svizzera, riuscimmo a bloccare, nel 2011, a mettere fuori legge e a eliminare il Pentothal. Ci fa orrore il Pentobarbital delle esecuzioni capitali e non fa orrore il Pentobarbital dei suicidi assistiti: sono contraddizioni radicali.

Abbiamo qui una proposta di legge sul consenso informato, le disposizioni anticipate di trattamento e la pianificazione condivisa delle cure. Non può e non deve essere la legge dei laici o dei cattolici, come recita la rappresentazione classica: da una parte, i fautori dei valori non negoziabili; dall’altra, una modernità inarrestabile e i diritti dell’individuo, quasi fossimo di fronte all’esito naturale della Rivoluzione francese e liberale nel XXI secolo. Non è così! Non è negoziabile il valore della vita, non è negoziabile neppure il rifiuto della guerra: è assoluto.

Vi è la necessità di non creare milioni di profughi, di vittime, di abusi della dignità e della vita delle persone; non è negoziabile non lasciar morire i bambini nel Mediterraneo o nelle foreste birmane o come in Iran o in India; non è negoziabile il diritto all’acqua, al cibo, ad avere accesso alle cure; la giustizia non è negoziabile. Quasi tutto quello che è giusto davvero non è negoziabile.

Poi, c’è la responsabilità della politica di costruire, nel dialogo, le soluzioni migliori e più praticabili per tutti, nel negoziato, nell’ascolto, nella fatica, nel dialogo nel Parlamento. È lo spazio del Parlamento, la nostra responsabilità che non può essere sostituita dagli umori della gente, dai giornali, dai blog o dalla piazza, dai libri sacri di ogni religione o delle religioni civili. Non ho nessuna intenzione di cedere su nessuno dei valori non negoziabili. Non mi sottrarrò, io personalmente, nel ruolo di presidente della Commissione affari sociali, e con il mio gruppo, Democrazia Solidale - Centro Democratico, a far sì che questo Parlamento, il Parlamento che mi ha assegnato questa responsabilità, fino alla fine possa aiutare a fare la migliore legge possibile per garantire che si sia meno soli nel morire, malati e famiglie, che si sia accompagnati, che la dignità delle scelte personali sia rispettata in maniera profonda. Né accanimento terapeutico, né abbandono terapeutico, né eutanasia.

Norberto Bobbio sul Corriere della Sera dell’8 maggio 1981 - era la vigilia di un’altra difficile scelta di legge che toccava la vita - chiedeva: “Quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il non uccidere? E mi stupisco, a mia volta, che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere”. Non è laici-cattolici; la sfida è quella della dignità, la dignità del vivere e anche del morire. Non c’è solo l’atto o l’attimo del morire. Siamo arrivati a questo dentro un’intera storia, la storia dell’Occidente; dalla morte come compagnia quotidiana, ma in un mondo ampiamente indifferente ai corpi, con fosse comuni e corpi consegnati alla Chiesa per la sepoltura, alla “morte addomesticata”, come la chiamava Philippe Ariès.

Poi l’umanesimo, la morte teatrale o barocca, affascinante, attraente, fino alla svolta romantica con la paura della morte e della morte apparente; la scienza, il positivismo che interviene a dire le modalità per evitare un errore nel valutare il momento della fine e della morte e poi della vita; e poi l’isolamento, gli spazi appositi, medicalizzati, ospedalizzati. E oggi Geoffrey Gorer dice che c’è una pornografia della morte, con il tabù della morte che ha preso progressivamente il posto del tabù sul sesso e della sessualità.

O la morte negata nelle maschere artistiche dei defunti americani, quasi a negare la frattura della morte stessa e a perpetuare l’illusione della vita. Vladimir Jankélévitch dopo la Seconda guerra mondiale, 50 anni fa in Francia, dopo la Shoah e una quantità inaudita di morte sul nostro continente, arrivava a dire che noi su questo tema rimaniamo sempre al di qua e che la morte stessa resta impensabile; in altre parole, che resta uno spazio e una soglia di mistero.

Noi ci muoviamo con questa proposta di legge in questo al di qua. Se c’è un tabù oggi è quello del dolore, da prendere invece sul serio. C’è a volte un legame tra la voglia di farla finita e il dolore che crea disperazione, come pure quella condizione di chi pensa che non ci sia più vita perché non ci si piace più o non si piace più o si è troppo soli.

Né rinuncia, dicevo, né abbandono, né accanimento. Occorre combattere contro solitudine e dolore, causa di disperazione e di perdita della dignità di ognuno di noi. Con questa legge stiamo cercando soluzioni semplici, ma non semplificate. La vita non è mai solo un bene individuale, è sempre anche relazionale.

Nei discorsi semplificati di questi giorni dipendere dagli altri è stato spesso indicato come un buon motivo per ritenere la vita non degna di essere vissuta, ma è la grande inconsapevole bugia dei nostri tempi, in una società che a volte è scientifica, scientista, ma crede tanto alle favole e anche all’astrologia, perché noi dipendiamo sempre da qualcuno, non solo da bambini, e questo ci fa crescere. Tutto quello che di meglio c’è al mondo e più di valore è sempre accompagnato da dipendenza: l’amicizia, l’amore, contare per qualcuno; cambiano i modi, l’intensità, le forme. Si potrebbe dire anche il contrario, che non dipendere mai da niente e da nessuno è una condanna terribile, una solitudine insopportabile, indegna di una società civile.

Allora, che legge abbiamo davanti? Penso sarebbe un errore una legge sull’eutanasia attiva o passiva e questo lo abbiamo voluto evitare fin dall’inizio. La comunità, se può, lo evita. La legge - ne do atto al lavoro della relatrice, ho lavorato perché potesse essere così - deve garantire su temi eticamente così rilevanti tutti i cittadini nel modo migliore, anche quando siano portatori di visioni filosofiche o religiose diverse, varie. È quanto la Costituzione rappresenta al meglio quando mette al centro dell’intera Carta la persona. E l’articolo 32 può recitare: nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti del rispetto della persona umana. Era viva la memoria degli esperimenti medici forzati, non solo sui disabili.

Questa legge deve tutelare la vita e la salute e aiuta a combattere dolore, sofferenze, isolamento, disperazione, accompagnando, nella maniera più dignitosa possibile, una persona a morire, quando è il tempo, nel rispetto profondo delle convinzioni e della volontà della persona stessa. Per questo è importante che il testo approvato in Commissione su questo punto abbia chiarito, migliorato, fin dall’articolo 1, al comma 1, il testo originario, quando oggi si citano gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione italiana e i primi tre articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Una salvaguardia dell’inviolabilità e della dignità della vita umana assoluta, che comprende anche il rifiuto della pena capitale, nel rispetto radicale della libertà della persona. Abbiamo fatto in Commissione la scelta - e ne do atto a tutti i membri della Commissione, a partire dalla relatrice - di una legge non onnicomprensiva, per un diritto mite, perché non può essere chiusa in una casistica la vita e la frontiera mutevole del fine vita. Un perimetro, una cornice meno incerta, che lascia troppo soli e troppo nella necessità di intervenire con la magistratura nei casi controversi, oggi. Abbiamo approvato da poco la legge che fornisce un quadro di maggiori certezze sul rischio clinico, lo ha ricordato chi è intervenuto prima di me; oggi entriamo sul terreno più difficile. Alcune formulazioni trovate assieme sono già un punto d’incontro positivo. Nel consenso informato il tempo dell’informazione del malato è tempo di cura e non di burocrazia e medicina difensiva.

L’accompagnamento e la cura sono al centro. L’equilibrio trovato tra libertà di scelta e rispetto della relazione medico-persona in maniera non contrapposta. La pianificazione condivisa delle cure, l’articolo 4. Quando c’è una patologia cronica invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, la pianificazione condivisa, quando si entra in quella malattia davvero, non quando si pensa che ci si entrerà, supera le Dat, in un quadro innovativo, che risolve in radice il possibile conflitto tra la volontà del malato e quella del medico su ciò che va intrapreso, fatto, non fatto o interrotto, anche sulla linea sottile. Era il centro del disegno di legge che portava la mia prima firma e quella di altri colleghi: è stato raccolto dalla relatrice e, nel Comitato ristretto, anche dall’opposizione; ne sono contento.

La vita dei disabili gravi, dei minori, delle persone interdette o inabilitate mi sembra tutelata nell’accompagnamento anche in circostanze dolorose o estreme.

Resta il problema, non piccolo, sul tema dell’idratazione e dell’alimentazione assistita; se sia, così come è scritto ora, una porta involontaria all’eutanasia passiva, almeno nelle interpretazioni di qualcuno, o se non lo sia. Ci sarà scontro, ma una via di incontro è possibile ed è doverosa.

In tal senso presenterò, presenteremo, emendamenti, abbiamo presentato emendamenti, che nulla vogliono togliere all’autodeterminazione, ma che non si accontentano di affermazioni lapidarie o a rischio di interpretazione, quando si facesse pendere la loro interpretazione tutta sul piano delle cure o tutta solo sul piano assistenziale.

La vita e la fine della vita non sono bianco o nero; anche su questo, non si tratta di vincere, partito della vita contro partito della morte o partito della libertà di scelta contro il partito degli amanti, cosiddetti, del dolore. Possiamo e dobbiamo trovare un equilibrio che contempli la possibilità di rifiuto, rinuncia e interruzione anche dell’alimentazione o idratazione artificiali, quando si configurino come trattamenti inutili, troppo gravosi o sproporzionati, il cui effetto sia il solo mantenimento artificiale della condizione vitale; non sempre, non mai.

La terapia del dolore, ancora, e la sedazione profonda continua, quando la vita sia davvero verso una fine ravvicinata, accompagnata da dolori incomprimibili e refrattaria alle terapie, mi auguro verranno esplicitamente richiamate, come da emendamenti che ho presentato, anche se è già implicitamente previsto dalla legge 15 marzo 2010, n. 38, sulle cure palliative, ma questo aiuterà ad applicarle meglio, ad applicarle su tutto il territorio nazionale, ad applicarle tutte le volte che servono.

La fiducia del fiduciario, poi, che abbiamo introdotto, è chiave, quando non si è più in grado di intendere o di volere. Chi mi conosce più in profondità, un parente, un amico, una persona di cui mi fido.

A mio parere - vado verso la conclusione - il testo, che pure nella forma attuale ritengo migliorabile, e per questo ho depositato alcuni emendamenti, in particolare uno più esplicito sulla fine della vita, sull’ostinazione irragionevole delle cure e sulle cure palliative, per liberare il consenso informato dell’articolo 1 da qualche confusione possibile o da sovraccarico, è già migliorato nel lavoro di Commissione, con maggioranze diverse, cioè il lavoro del Parlamento, non delle ideologie. Andranno ancora perfezionate le circostanze limitate in cui le disposizioni anticipate potranno essere disattese, introducendo, oltre al caso, già previsto, di nuove terapie non conosciute all’atto dell’estensione delle DAT, anche quando le stesse DAT siano manifestamente non conformi alla condizione clinica della persona nel tempo in cui vengono prese in considerazione e quando vi siano fondati motivi per ritenere la perdita di coscienza del dichiarante, le sue capacità cognitive e anche l’efficienza di organi e funzioni citate nelle DAT conseguibile, come nel caso di uno shock anafilattico.

Una gabbia meno rigida allora, concludo davvero, che non tolga nulla all’autodeterminazione profonda della persona e che non comprima la professionalità del personale sanitario. Quindi, sono personalmente contento di avere permesso e contribuito all’approfondimento reale dei problemi, nel metodo di lavoro, con l’apporto di tutti. Sedici sedute prima di quella della votazione sugli emendamenti, 33 ore e mezza di votazioni su 288 emendamenti segnalati, nessuna compressione delle votazioni e del dibattito.

Dopo due legislature e sedici nuovi testi, non con prove muscolari, con un ultimo sforzo di ragionamento e di dialogo, penso che, senza campagne elettorali, potremo fare una buona legge, ancora migliorabile. Lo abbiamo già fatto; andiamo, adesso, in mare aperto, nel primato della coscienza e del bene comune.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mantero. Ne ha facoltà.

MATTEO MANTERO. Grazie, Presidente. Siamo finalmente arrivati in Aula; sono passati quasi quattro anni da quando abbiamo depositato la nostra proposta sul fine vita, che è stata la prima di questa legislatura, e a questa ne sono seguite altre quindici, a dimostrare quanto questo argomento sia sentito, seppur con le differenti sfaccettature, le differenti visioni, da molti colleghi e da molti gruppi politici.

I lavori di Commissione sono iniziati più di un anno fa e quindi non stiamo legiferando sull’onda di un’emozione, come diceva qualche collega poco fa, ma dopo un lavoro lungo ed approfondito. C’è stato un lungo percorso di audizioni, c’è stato un importante lavoro del Comitato ristretto e il testo unificato che è seguito, che è scaturito dal lavoro del Comitato ristretto - penso che sia importante ricordarlo -, è stato votato all’unanimità della Commissione. A questo è seguito poi un lungo dibattito sugli emendamenti, a tratti anche molto acceso, che ha portato ai numerosi rinvii che sappiamo.

Oggi finalmente il testo arriva in Aula per iniziare la parte conclusiva dei lavori. Ci sono ancora diversi punti di questa proposta che noi riteniamo possano essere migliorati e debbano essere migliorati; ma, comunque, quello da cui partiamo è un buon testo, un testo condiviso, e finalmente vediamo un traguardo importante a portata di mano. Per questo io penso che dovremmo provare a proseguire i lavori con un altro punto di vista, con un’altra ottica: non più guardandola con gli occhi del politico, ma con quelli di chi questa proposta la sta aspettando da troppo tempo.

In questi mesi ci siamo persi in definizioni e tecnicismi: cosa possa o non possa essere considerato trattamento sanitario, quando le volontà della persona debbano essere rispettate e quando no, se il medico debba avere una sua autonomia decisionale, anche quando questa è in contrasto con la volontà del paziente, quando inizi l’efficacia delle disposizioni anticipate di trattamento e se esse debbano essere considerate vincolanti od orientative. Ci siamo persi in dettagli e sul senso di singole parole, per carità importantissimi, in un testo come questo; ci siamo spesso fatti trascinare, non sempre, ma spesso, da ideologie e irrigiditi su posizioni precostituite, magari ereditate dal dibattito della scorsa legislatura, e a mio avviso abbiamo perso di vista le persone per cui stiamo scrivendo questa legge.

Questa, più di tutte le altre proposte, non dev’essere una legge scritta per i partiti: questa è una legge che dobbiamo approvare per le persone, persone malate che si avvicinano alla fine della loro vita, spesso con grandi sofferenze. Perché è di questo che stiamo parlando: del diritto delle persone di morire nella maniera che ritengono più dignitosa e senza soffrire.

Per troppi anni il Parlamento italiano si è sottratto alla responsabilità di dare una risposta a questi malati, perché questi temi sono divisivi, perché, come si è detto, non si può lavorare a caldo dell’onda emotiva dei fatti di cronaca. Così, per troppi anni, il legislatore ha delegato ad altri il suo compito, lasciando ai giudici la facoltà di concedere o negare un diritto; per troppi anni si sono anteposti gli equilibri politici di fragili maggioranze, posizioni ideologiche, l’inseguimento di un elettorato cattolico o laico, la necessità di darsi un’identità con anacronistiche battaglie di bandiera, ai diritti e alla dignità delle persone che si avvicinano alla morte.

Forse è superfluo ricordare quanto l’Italia è in ritardo, non solo rispetto all’Europa, ma rispetto al resto del mondo, per quanto riguarda il tema del fine vita: la prima legge sul biotestamento è stata approvata addirittura quarant’anni fa in California, nel 1976; nel 1995 è stata approvata la prima legge in Spagna; nel 2001 e 2002 rispettivamente in Olanda e in Belgio, poi in Francia, Svizzera, Norvegia, e così via.

Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Piergiorgio Welby, otto anni da quella di Eluana Englaro e ancora il nostro Parlamento non ha trovato il coraggio di approvare una legge sul fine vita. Penso che sia arrivato il momento: penso che sia il momento di spogliarsi di ideologie, di politicismi, di strategie e battaglie di bandiera, che hanno bloccato il Parlamento per tutti questi anni, e assumerci le nostre responsabilità.

In questi giorni ho sentito più volte invocare il rispetto di una maggioranza di Governo, ma una proposta come questa deve essere approvata dalla più ampia condivisione possibile e senza intromissione da parte del Governo o ricatti da parte dei partiti di maggioranza.

Ci dimentichiamo troppo spesso che l’Italia è una Repubblica parlamentare: è il Parlamento, e non il Governo che fa le leggi. Questa è la prima volta, da quando sono entrato in quest’Aula, che vedo il Parlamento riprendersi la sua dignità e fare il suo lavoro: non ratificare decreti, non dare deleghe in bianco, ma affrontare un’importante e urgente proposta d’iniziativa parlamentare con un’ampia maggioranza trasversale e un Governo che giustamente si astiene.

Ricordiamoci che non stiamo inventando nulla di nuovo, non saremo pionieri in questo campo: anche una volta approvato il biotestamento, lasceremo senza una risposta centinaia di persone che ci chiedono una legge sull’eutanasia; come hanno detto molti colleghi, il dj Fabo avrebbe comunque dovuto andare in Svizzera per chiedere di essere assistito nel suicidio.

Non possiamo continuare a tapparci gli occhi davanti alle loro richieste, non possiamo continuare a trattare questi malati come se fossero fuorilegge, costretti a lunghi e faticosi viaggi oltre frontiera per trovare un po’ di pace.

Con questa proposta stiamo semplicemente riconoscendo diritti che già esistono, sanciti dalla Costituzione e scritti in molte sentenze, ma che ancora non sono esigibili da tutti. Fino ad oggi abbiamo lasciato colpevolmente queste decisioni nelle mani dei giudici o di singoli medici, ma non tutti i malati hanno la forza, i mezzi economici e il tempo per rivolgersi ad un giudice o per cercare un medico che sia disposto ad accompagnarli anche nella parte finale della loro esistenza. Voglio citare una parte dell’articolo 3 della nostra Carta costituzionale, che recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E quando parliamo di pieno sviluppo della persona umana, dobbiamo pensare a tutta la vita della persona, a dare dignità alla persona umana anche nella parte finale della sua vita.

È quindi nostro compito come legislatori rimuovere gli ostacoli che impediscono ai malati di essere informati in maniera completa ed esaustiva sul loro stato di salute e sulle alternative terapeutiche, che gli impediscono di iniziare un trattamento sanitario e di interromperlo quando non sono più in grado di sopportare la loro condizione e le loro sofferenze. È nostro dovere rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono a chi soffre di avere accesso a cure palliative, di essere accompagnato fino alla fine con una sedazione palliativa profonda. È nostro dovere far sì che ogni persona veda rispettate le proprie volontà, anche quando non è più in grado di esigerle autonomamente.

Ognuno di noi qui dentro, in quest’Aula ha una sua etica, un credo religioso, una visione della vita e della morte ovviamente diversi da quelli di tutti gli altri, ma, in questo momento, noi siamo legislatori di uno Stato laico, ed è nostro compito lasciar fuori da quest’Aula i nostri preconcetti e i nostri valori morali. Nessuno si può arrogare il diritto di imporre la propria etica ad un altro; nessuno può costringere una persona a continuare a patire sofferenze insopportabili perché la nostra visione, e non la sua, ci dice che sarebbe giusto. Nessuno può costringere un paziente ad essere sottoposto ad un trattamento sanitario contro la sua volontà, con la forza: sarebbe una tortura, e penso che nessuno in quest’Aula sia veramente così crudele; ma continuando a rimandare l’approvazione di una proposta di legge sul fine vita, o tentando di svuotarla per renderla inefficace, state facendo esattamente questo: imporre la vostra etica ad altri, negare ai malati i loro diritti.

In Commissione abbiamo sentito toni molto accesi, accuse strumentali e fuori luogo, tentativi di perdere tempo per rimandare sine die l’arrivo in Aula della proposta. Mi auguro che il dibattito di oggi potrà essere invece costruttivo, e che tutti i gruppi vogliano partecipare, ognuno dal suo punto di vista, al miglioramento del testo. Ora ho visto che è stata presentata una pregiudiziale e tre richieste di sospensiva, quindi vedo già che stiamo partendo con il piede sbagliato; ma quello che spero sopra ogni altra cosa è che il dibattito sia rispettoso nei toni e nei contenuti, non tanto dei colleghi e del lavoro svolto, quanto delle persone che fuori da quest’Aula stanno aspettando di vedere garantiti i loro diritti.

Colleghi, il compito che ci aspetta non è così gravoso come potrebbe sembrare. Non siamo noi che dobbiamo decidere della vita e della morte degli altri: dobbiamo semplicemente dare ad ognuno gli strumenti per decidere per se stesso (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Nicchi. Ne ha facoltà.

MARISA NICCHI. Presidente, una legge sul consenso informato, sulle disposizioni anticipate di trattamento e la pianificazione condivisa delle cure era necessaria e direi urgente. Il colpevole ritardo con cui ci stiamo arrivando - io lo dico subito, anche sentendo il primo scorcio di discussione - chiama tutti noi, e in particolare il partito di maggioranza ad una responsabilità, che è quella di curare il lavoro che finora è stato sviluppato e che ha portato a questo testo. Chiama tutti noi a non dare adito, a non fornire pretesti per imboscate, dilazioni alle calende greche, dilazioni che sarebbero inspiegabili all’opinione pubblica. Una buona legge in questa materia la dobbiamo a chi, in questi anni, da diverse situazioni (perché in questa materia la parola “complessità” non va mai dimenticata), da diverse situazioni di estrema sofferenza ha combattuto per averla, sino all’ultimo istante della vita, con il proprio corpo e con tutta la propria dignità: Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Max Fanelli, Beppino Englaro per sua figlia, il DJ Fabo e tanti altri. È una legge doverosa, ed è possibile per la buona politica, se si pratica la buona politica. Noi stiamo praticando una buona politica, in questo momento di confronto parlamentare, perché non ci si può esentare dal prendersi le responsabilità proprie, appunto della buona politica, in questo caso di togliere tutti i margini di incertezza, tutte le lacune del nostro ordinamento, per rispettare i desideri legittimi dei pazienti, senza il rischio, da parte dei medici, di incorrere in problemi giudiziari. Lacune, si è detto, lacune del nostro ordinamento, malgrado non si sia all’anno zero, malgrado che il dettato costituzionale sia chiaro, malgrado la Convenzione sui diritti dell’uomo nella biomedicina e la Carta europea dei diritti fondamentali. È un passo necessario, quello che stiamo facendo, per colmare anche uno scarto esistente tra istituzioni e un movimento civile. Io voglio ricordare tutto il movimento e le azioni fatte dai comuni in assenza di una legislazione nazionale in questi anni, per uno scarto che c’è tra istituzioni e opinione pubblica, che è favorevole a questa iniziativa legislativa; un mondo sanitario che è pronto e, in larga parte, consenziente perché si vada in questa direzione.

Il testo in esame - è stato detto dal collega Mantero prima e anche dalla relatrice - ha il pregio politico di essere il frutto di un autonomo confronto costruttivo del Parlamento. Il Parlamento si è preso la sua autonomia, che praticheremo in questi giorni per il compimento di questo iter. È una prima positiva base che noi, come gruppo, vogliamo continuare a praticare con un confronto, da arricchire con alcuni selezionati nostri emendamenti, che sono orientati in due direzioni: per ancor meglio affermare la centralità della volontà del paziente rispetto al potere del terapeuta, anche nei casi di insorta incapacità di decidere, di poter far valere la propria volontà; e per garantire l’accesso alla sedazione continuativa profonda e alle cure palliative. La normativa in esame si muove - è stato detto anche questo, lo riprendo perché fa parte di un ragionamento che vorrei svolgere - lungo le linee di un diritto mite, che vuole garantire tutti i convincimenti morali - tutti! - nel rispetto del principio della laicità dello Stato, che ben delinea un confine tra legge, che obbliga tutti e tutte, e punti di vista morali, religiosi e culturali, che appartengono invece alla libertà di ciascuno. Con questa impostazione si interviene su un mutamento della coscienza sociale. Non siamo fermi, c’è una società in movimento che è attraversata da dilemmi, su temi che coinvolgono tutte le nostre convinzioni più profonde. Si parla di morire con dignità, di morire bene, di diritti del morente: sono tutte espressioni con le quali si descrive come ciascuno vaglia trascorrere, voglia pensare, immaginare di attraversare il tempo estremo della propria esistenza, tempo che i progressi biomedici e tecnologici hanno reso più governabile, differibile, dunque, a pieno diritto, parte di una sfera di autonomia delle proprie scelte, di una sfera che appartiene appunto alla soggettività e alle scelte libere. Vi è infatti una crescente consapevolezza del fatto che, se questi progressi hanno contribuito ad un miglioramento impensabile delle condizioni di vita e di salute, se hanno dato la possibilità di tenere sotto controllo malattie prima incurabili, questo non sempre ha coinciso e coincide con un livello accettabile di qualità della vita delle persone.

Anzi, nella discussione bioeticista si è parlato dell’emergere di una riflessione su una condizione particolare, che è stata chiamata una condizione di prigionia - è usata questa parola -, cioè una terapia che fa un dono di vita, che però non si ritiene più degna di essere vissuta. Ecco, se la morte appartiene alla natura, il morire è proprio della vita. È un radicale mutamento di prospettiva che chiama in causa la piena sovranità dei soggetti a decidere del destino da dare al proprio corpo, a partire dal principio del consenso informato. Tutto questo - è stato detto, lo richiamo - ha chiari e forti riferimenti nella nostra Costituzione: articoli 2, 13 e 32. L’articolo 32 stabilisce che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge, e aggiunge: la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Parole nette che i costituenti hanno scritto per mettere un limite invalicabile alla legge, per scongiurare la tentazione di cadere nell’onnipotenza della legge, nell’idea di uno Stato totalizzante, come lo disse bene Aldo Moro, che collaborò alla stesura della parte finale dell’articolo 32. Un limite invalicabile, che riportato ai temi che noi affrontiamo, ai temi della salute, vuol dire che il diritto alla scelta e al rifiuto o all’interruzione dei trattamenti sanitari non può essere disatteso nemmeno nel nome di un supposto dovere pubblico alla cura. Un supposto dovere pubblico alla cura viene dopo rispetto a quella sfera che è preclusa dalla legge, una sfera che è attribuibile e praticabile solo con la libera scelta della persona, una sfera indecidibile da altre autorità, nemmeno - ripeto - in nome di nessuna presunta ragione superiore.

Il passaggio chiarito dalla citata sentenza n. 438 della Corte Costituzionale afferma bene come il consenso informato sia la sintesi di due diritti fondamentali: il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla salute. È a questa linea costituzionale, che ha trovato conferma in tante sentenze del giudice ordinario, che dobbiamo rimanere vincolati, per chiudere definitivamente ogni pretesa proibizionista, per chiudere con ogni ambiguità paternalistica e pietistica della condizione della sofferenza umana, come se la sofferenza umana annientasse, cancellasse e annichilisse la soggettività, la possibilità di decidere per sé. Voglio sottolineare che porre alla base del testo il diritto all’autodeterminazione fondato sulla libertà di governare la propria vita mette ancora più in evidenza il diritto sacrosanto di chi intenda proseguire la propria vita con tutta l’assistenza necessaria, se consapevolmente scelta. Mette in risalto, cioè, il dovere del non abbandono, che è esplicitamente parte di questo testo, il diritto di accedere alle cure palliative, alla terapia del dolore, che sono diritti troppo spesso - c’è un impegno comune in tal senso - non garantiti in tutto il Paese. Le due possibilità di scelta devono essere tenute insieme, perché si deve evitare la doppiezza di chi, da una parte, vuole ideologicamente invadere sfere che appartengono alla scelta delle persone, però ignora i doveri assistenziali, se queste scelte sono liberamente espresse. Il testo, poi, affronta un’altra preoccupazione crescente molto importante, che riguarda un aspetto critico della medicina odierna: la sua disumanizzazione, la sua spersonalizzazione, gli ostacoli all’instaurarsi di un rapporto soddisfacente tra medico e paziente e le sua cerchia di relazioni.

Complice e causa di queste criticità sono l’influenza delle tecnologie, la crescente specializzazione della medicina e una standardizzazione delle prestazioni, pensate talvolta in modo autoritario e anche per ragioni difensive. Il testo in esame, invece, propone un cambio di paradigma; qualcuno nella discussione che abbiamo sviluppato in Commissione ha parlato di rivoluzione. È un paradigma che mette al centro una pratica terapeutica diversa, che rifonda il nesso inscindibile tra cura della malattia e il prendersi cura della persona nella sua globalità, a partire, per esempio, dalla sburocratizzazione del consenso informato e con l’introduzione di una pianificazione condivisa delle cure. Non ci può essere alleanza terapeutica senza la riscoperta e la riproposizione della centralità della persona e del rispetto, non retorico, della sua volontà e anche del suo giudizio su ciò che rende una vita degna di essere vissuta; solo la persona lo può decidere, lo può stabilire!

In questa prospettiva, si mette in luce, in tutta la sua fondamentale importanza, la discussione sul come e quando si muore, il fatto cioè che la vita possa finire tenendo il più possibile fede a come l’abbiamo voluta vivere, a ciò che abbiamo creduto, ai valori che hanno informato un’esistenza, tutto ciò che ha caratterizzato quella vita. E non ultimo, deve essere tenuto fede anche al ricordo che vogliamo lasciare del nostro passaggio sulla terra. Non ci può essere una negazione di questi valori della vita nel momento della morte.

Con queste convinzioni, il gruppo Democratico e Progressista continuerà a dare il contributo alla legge in discussione, legge che è stata voluta fortemente dalla sinistra e che se oggi è all’agenda parlamentare è anche per la nostra fondamentale determinazione (Applausi dei deputati del gruppo Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pagano. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO PAGANO. Presidente, grazie. Siamo nel 2017 e io desidero introdurre questo mio intervento facendo ricordare all’Assemblea che oggi, o meglio quest’anno, qualora dovesse completarsi l’ iter parlamentare con l’approvazione di questo provvedimento, di fatto, sarebbero passati trecento anni esatti da che è cominciato l’attacco antropologico nei confronti della concezione della vita, così come l’abbiamo vista.

Era, infatti, il 1717 quando a Londra, se non sbaglio, nacque la prima loggia massonica che sostanzialmente fu l’anticipatrice, la madre, della rivoluzione francese, quella rivoluzione francese che poi portò a definire in maniera molto chiara, per la prima volta rispetto una concezione della vita millenaria rispetto a quel momento, che Cristo rispetto all’orizzonte della vita non c’entrava più niente.

Era un passaggio banale quello? No, era un passaggio significativo perché significava che da quel momento in poi tutto sarebbe cambiato. E così, 200 anni dopo, arriva la rivoluzione bolscevica che fu il passaggio successivo: non solo l’eliminazione di Cristo, ma anche l’eliminazione di Dio dall’orizzonte della vita, anzi addirittura Dio non era morto, era inesistente, non c’era, non era mai esistito. Anche questo secondo step anticipa quello che sarebbe successo nel 1968 e che però trova il completamento oggi: una rivoluzione antropologica che vede l’eliminazione dell’uomo dall’orizzonte della vita.

In altre parole, la società, dopo essersi tolta di mezzo Cristo, dopo aver tolto di mezzo Dio, adesso ha come ultimo stadio l’eliminazione di se stessa strappandosi persino la pelle. Una visione quindi libertaria che porta l’uomo a definire il tutto in maniera diversa, a diventare lui il protagonista della storia, a diventare superuomo, un super Dio, capace di dare la vita e di toglierla, di portare avanti il suo progetto indipendentemente da quello che può essere la vita naturale, le cose naturali. E così comincia il Sessantotto, che però trova - ripeto - completamento nel 2017. La cultura del desiderio, del capriccio, che si sostituisce a quella naturale.

L’uomo che si sostituisce a Dio, quindi. Ecco perché quando sento negli interventi precedenti che questo è il momento in cui chiudere questa legge, e dopo tanti anni di dibattito, tre legislature, il Paese deve arrivare alla conclusione, mi viene da dire che questo è un errore filosofico, culturale, sociale prima ancora che politico e che è ovvio che se siamo arrivati a questo è perché ci sono 300 anni di rivoluzione, ma verrà un momento in cui la storia farà i conti, perché bisognerà capire che questi sono disastri. Tutto quello che ovviamente è innaturale, prima o dopo, produce disastri. Il comunismo, ora ce ne stiamo accorgendo, ha prodotto problemi di carattere economico, sociale, morti con centinaia di milioni di persone. Perché non pensate che tutto questo non debba accadere anche rispetto a questa rivoluzione antropologica? I conti li pagheremo tutti, fino alla fine, è questione di tempo, ma poi ripartirà di nuovo tutto.

Però oggi qualcuno ci viene a dire: abbiamo perso fin troppo tempo, è arrivato il momento di sbrigarsi, come se noi che siamo legati al rispetto della vita fossimo dei deficienti che sono qui ancorati a una prospettiva di tipo ideologico, quando in verità è esattamente il contrario. Ha ragione Chesterton a dire che verrà un momento in cui per dire cose ovvie bisognerà sguainare la spade. Siamo arrivati all’opposto: che l’ideologia è quella che portiamo avanti noi.

E per dire tutto questo, non hanno esitato, e continuano a non esitare a portare avanti bugie, casi pietosi, come se sull’eccezione si potesse costruire la regola; una vecchia tecnica cui il Partito Radicale ci ha abituato da sempre. Ce lo ricordiamo perfettamente nel 1978 come passò l’aborto: il caso pietoso, la donna violentata, l’aborto eugenetico, il rischio della donna che moriva nel parto, addirittura le bugie in cui morivano centinaia di migliaia di donne ogni anno da aborto clandestino. Ce le ricordiamo tutte queste cose, le abbiamo scritte, ma questo fa parte di quella tecnica della mistificazione che è tipica del pensiero unico. Quell’aborto che ha causato cinque milioni di bambini non nati, che oggi è il vero problema della nostra crisi economica. Cinque milioni di vite che dal Settantotto a oggi non sono nate, con cui sarebbe cambiato tutto. È una riflessione profonda che dobbiamo fare non solo da un punto di vista culturale e antropologico, ma anche economico.

Ebbene oggi la stessa tecnica viene portata qui. Il caso pietoso per ingannare il popolo. Il Partito Radicale, nel frattempo, è diventato Partito Radicale di massa, bene interpretato dal Partito Democratico che ha tradito ulteriormente i passaggi precedenti e che si somma al Movimento 5 Stelle, con cui si trovano perfettamente in sintonia e con cui trovano modalità comuni di ragionamento. Ma i casi pietosi, purtroppo, lo diciamo oggi perché un giorno la storia lo dimostrerà, sono esattamente il contrario. I casi pietosi sono coloro che hanno voglia di vivere, quelli che sono lì e che sono ancorati nel letto, a un polmone d’acciaio, oppure che sono usciti dal coma e che hanno detto: meno male che non avete staccato la spina, perché adesso sono qui a testimone la mia voglia di vivere; 3500 sono i casi in Italia censiti di persone che vogliono vivere e che portano avanti il loro progetto di vita, nonostante tutto e tutti.

Max Tresoldi che si è svegliato dal coma dopo dieci anni - cito un caso fra le migliaia che potrei citare – è una testimonianza straordinaria di una persona che ha dimostrato e ho voluto dimostrare che significa voler vivere. Però, peccato che Max Tresoldi nessuno lo va a cercare. Per dj Fabo invece erano tutti lì a portare avanti questo caso. Oggi è assolutamente chiaro: il progetto è un progetto di morte, la tecnica è quella che viene chiamata del “piano inclinato”, stiamo partendo così e non si sa dove si va a finire. Questa legge - dobbiamo chiamarla con nome e cognome - qualora dovesse passare, sarà una vera e propria eutanasia omissiva e non è vero quello che ho sentito dire in qualche intervento che c’è una dignità nella morte – il collega 5 Stelle poco fa ha sostenuto proprio questo - e che bisogna lasciar morire ognuno come meglio crede e vuole. Ma le persone che vogliono morire lo vogliono perché sono lasciate sole nella loro solitudine, nel loro dramma, nella loro disperazione, altrimenti non chiederebbero la morte. Basta andare a vedere quello che succede in Svezia, il kit messo a disposizione di una popolazione che ormai al 65 o al 66 per cento vive da sola e che, ovviamente, vivendo da sola a una certa età, rischia la depressione. E allora non è valida la tesi di chi dice che bisogna far morire. La società deve venire incontro alle persone, così come è una bugia clamorosa anche quella che viene raccontata da quanti dicono che ci sono delle morti atroci. Ma che bugia veramente clamorosa! Oggi la scienza della medicina palliativa ha raggiunto livelli così alti che non si può nemmeno più sostenere questo. Eppure, nonostante tutto questo, noi siamo stati forti, il nostro gruppo, la Lega, è stato forte per dire “no”, ma non lo ha detto per principio, ha detto “no” per principio e per ragionamento. Rifiutiamo le tesi di chi dice che facciamo “ostruzionismo”. Ma quale ostruzionismo? La ricchezza di dibattito in Commissione che ha fornito il fronte pro life, pro vita - perché così lo dobbiamo chiamare - perché c’è stato un partito trasversale pro vita, in cui certamente la Lega è stata orgogliosa di essere in prima fila, e un partito trasversale pro morte. La ricchezza del dibattito che abbiamo saputo fornire, noi del pro life, non è paragonabile rispetto a quello che abbiamo ascoltato dagli altri. Sono lì i verbali a testimoniarlo, sintetici - perché sappiamo che in Commissione sono di sintesi -, però sono lì a testimoniare che abbiamo fatto un lavoro serio, a dimostrazione che abbiamo gli argomenti. Ecco perché vogliamo ascoltare in Aula il dibattito. Non si può tacere, Presidente, tutto questo. È inaccettabile la volontà di coloro che dicono che dobbiamo comprimere il dibattito, ma quale comprimere? Qui le cose le dobbiamo raccontare, le dobbiamo lasciare alla storia e le dobbiamo lasciare anche al dibattito perché non può essere mai che un dj Fabo, col massimo rispetto della persona, debba essere oggetto di un’attenzione mediatica incredibile e nessuno può portare avanti ragionamenti di tipo diverso. Qui abbiamo il dovere di parlarne perché è inaccettabile una tesi di tipo diverso, il nascondimento, oppure peggio ancora dobbiamo fare la legge presto e veloce perché altrimenti ci penseranno i giudici a legiferare. Un Parlamento che non legifera non è un Parlamento fermo. Questo è un Parlamento che ha una produzione spaventosa di leggi - ne facciamo fin troppe. Se uno che va a leggere i verbali delle passate legislature capirà che significa il confronto fra tesi diverse. Qui non è accaduto, ecco perché siamo convinti della bontà delle nostre tesi e vogliamo parlarne apertamente in quest’Aula, nelle prossime giornate e vogliamo spiegare a tutto il Paese che questa legge, qualora passasse, sarebbe ancora più dura della prima legge olandese. In Olanda sono arrivati alla terza legge e oggi sono arrivati a livello altissimo eutanasico, ma la prima legge era più morbida della nostra, o meglio della nostra qualora dovesse uscire così. E siamo contenti che in parte sia stata migliorata. Onore al merito anche alla relatrice, che ha saputo anche fare propri alcuni emendamenti, non certamente quelli della Lega, perché noi siamo visti come coloro che hanno le posizioni più forti, però almeno nel dibattito siamo serviti a tenere alta l’asticella e a portare avanti un ragionamento che, nell’ambito della costruzione, ha trovato una sintesi.

Almeno questo ci può restare come consolazione. È inaccettabile, comunque, che una legge passi sotto la pressione dei media e di chi manovra i media, perché è chiaro che vi è una manovra da parte di soggetti che hanno questo tipo di dominio e di capacità di orientamento. È inaccettabile anche dire che questa è una legge di civiltà. Ma quale civiltà? Qui c’è la volontà e la libertà del superuomo, che decide cosa fare della propria vita. Attenzione: se passa il principio della propria vita, passa il principio della vita in senso assoluto, oggi la propria, domani un’altra. Ce l’abbiamo sotto gli occhi e sul web il caso della donna francese, o belga che fosse - adesso non ricordo - trattenuta dai familiari e che pur non volendo veniva trattata e veniva portata alla eutanasia. Il principio della distruzione e della dissoluzione antropologica è sotto gli occhi di tutti: aborto, suicidio assistito, eutanasia e nel mezzo - perché no? - anche degrado umano del proprio ethos, liberalizzazione del gioco d’azzardo, sterilizzazione di massa, liberalizzazione delle droghe. Sono ben chiari questi progetti, che sono chiaramente utili per rendere sempre più la persona inerme e quindi oggetto delle nuove dittature e dei nuovi totalitarismi. Sulle unioni civili abbiamo assistito ad un fatto assolutamente grave: il Governo che è intervenuto e ha dato il proprio assenso con la fiducia. Almeno in questo caso ci è stato evitato e desideriamo che rimanga così, che il Governo rimanga neutrale in questa fase. Ma entriamo negli ultimi minuti, dopo questo ragionamento politico, anche un po’ in merito alla legge. Certo, si discuterà degli emendamenti e quindi in quel caso avremo modo di realizzare un processo virtuoso - questo è il nostro augurio - di spiegazione, però qualche passaggio va detto anche qui in discussione sulle linee generali. Primo: perché, se prima erano dichiarazioni, ora sono diventate disposizioni? È la conferma puntuale di una volontà totalitaristica di questa legge, perché si voleva portare - e così è stato fatto - non ad una dichiarazione, ma ad una disposizione, cioè ad un elemento vincolante, cioè ad una direttiva. Le DAT non sono un consenso informato, nel senso che la dichiarazione fatta allora per oggi non ha alcun senso. Quando uno è nel massimo della forma biologica, quando uno è nel massimo della forma fisica e psicologica è chiaro che ha una visione molto distaccata di quella che potrebbe essere la problematica della morte, “va al massimo”, come dice una canzone molto famosa. È diverso invece quando uno è malato e lì si vede la natura vera dell’uomo, la fragilità psicologica. Ecco perché, da un punto vista biologico, clinico, familiare e relazionale, non va assolutamente eliminato il circuito virtuoso paziente-famiglia-medico. La dichiarazione di oggi rispetto a quando era in forma, è cosa ben diversa. Con questa legge, questo elemento viene ad essere fortemente menomato. Le DAT mai - ripeto: mai - possono essere vincolanti per il medico. Il medico ha studiato per salvare le vite, il medico è cultore della vita, il medico è lì perché è l’angelo capace di risolverti i tuoi problemi e quindi, proprio per questo motivo, la sua deve essere l’ultima parola. Ecco perché, se il medico è nelle condizioni di poter dare un orientamento, deve essere ascoltato. Con questa legge, il medico non vale niente. Felicemente è stata usata una espressione dall’onorevole Palmieri: “esecutore testamentario” che rende proprio l’idea di cosa è diventato il medico: da angelo della vita ad angelo della morte, a soggetto che deve ubbidire alle decisioni prese da qualcuno, nel massimo della sua forma, qualche anno prima. Eh no, non funziona così, questo per noi è inaccettabile, non solo per noi della Lega, ma per noi uomini di buona volontà, persone che sono coscienti della ricchezza dell’umanità e della vita stessa. E non ci può essere un medico che può dire cose diverse e, se non lo dice, sta violentando se stesso e il giuramento di Ippocrate a cui evidentemente si è sottoposto. Ecco perché oggi ci aspettiamo nel dibattito - non dico solo oggi ma anche nei prossimi giorni - che soprattutto i medici, in qualsiasi parte essi militino, si alzino e dicano che questo non è possibile, non è materialmente possibile. E, poi, da quando parte la decisione…

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Pagano. Colleghi, per favore dovreste abbassare la voce. Onorevole Murer, onorevole Sannicandro, onorevole Nicchi. Colleghi, dovreste abbassare la voce, perché il deputato non riesce a parlare. Prego.

ALESSANDRO PAGANO. E, poi, da quando inizia l’interruzione di una cura da parte di un paziente? Se uno entra in coma e il medico è lì a dire: “Uscirà dal coma”, no, non lo potrà dire più con questa legge; dovrà soltanto obbedire a quella che è una volontà testamentaria. E poi da quando parte? Proviamo ad immaginare anche questo. Dal primo giorno? Uno entra in coma, ha avuto un incidente; che si fa? Immediatamente si dice: “Da questo momento in poi finiamo con le cure”. Oppure, dopo quando? Dopo un mese, dopo un anno? E a parte l’esperienza del medico, ma da quando parte l’interruzione della cura? Ma ci rendiamo conto che ci sono degli aspetti che sono straordinariamente complessi e che sono stati affrontati con una superficialità spaventosa? O è superficialità spaventosa o è ideologia spaventosa! Tuttavia, in entrambi i casi, fa spavento. Senza dimenticare, poi, tutti i passaggi che sono legati all’aspetto più legale. Con questo provvedimento passa il principio che gli articoli 579 e 580 del codice penale, istigazione al suicidio e istigazione all’omicidio, non esisteranno più, perché, a questo punto, possono essere anche chiari i riflessi di questo genere.

Il codice deontologico medico è tutto basato sulla vita, dicevamo poc’anzi. Ebbene, mi chiedo che cosa succede quando questa legge passerà e verrà meno il principio su cui è fondata l’alleanza terapeutica? L’articolo 9 del Trattato di Oviedo sulla biomedicina dice espressamente che il paziente può manifestare i propri desideri, ma qui c’è una bella differenza tra desiderio e volontà. I proprio desideri non vincono la decisione del medico; sono, appunto, per definizione desideri. Cioè, il mio orientamento è questo, però poi decide il medico. Che succede, invece, se tutto questo non potrà accadere? Intanto, l’articolo 9 è chiarissimo: volontà e decisione sono una cosa, desiderio è altro. È evidente, quindi, che, con questa legge, verrà meno un elemento basilare: verrà meno l’alleanza terapeutica tra medico e paziente su cui è fondata qualsiasi cosa ragionevole, su cui è fondato qualsiasi elemento che è base del rapporto fiduciario.

E, ancora, c’è una figura inquietante che si viene a creare con questa legge che è quella del fiduciario che, consentitemi, evidentemente è il vero dominus e avrà il potere di vita o di morte su un soggetto. Quindi, viene esautorata la figura professionale del medico e viene messa nelle mani di qualcuno, che è appunto il fiduciario, i cui fini potrebbero essere anche - consentitemi - terzi. Non è che vi siano fiduciari che sono tutti lungimiranti, positivi e aperti alla vita; possono esserci anche degli aspetti inquietanti. Io penso che sia doveroso, da questo punto di vista, sottolineare questo. Però, è stato detto: “Ma nel caso di contrasto tra fiduciario e medico ci potrebbe essere l’intervento del giudice”. Me lo vedo questo aspetto burocratico in un momento drammatico della propria esistenza: l’abbiamo visto tutto! Già abbiamo sotto gli occhi il caso di Terri Schiavo che, nel 2005, proprio negli Stati Uniti d’America - e fu il primo caso clamoroso di questo genere -, vide il contrasto tra un marito, appunto il signor Schiavo che voleva la morte della moglie e dei parenti, che invece non la volevano: i genitori, la mamma e il papà non la volevano far morire.

Lo abbiamo ben chiaro tutto questo, cioè come il giudice è intervenuto.

Ecco perché siamo proprio di fronte a tutta una serie di valutazioni che lasciano perplessi. Per questo, tale dibattito non poteva e non doveva essere compresso in Commissione e se c’è stata la compressione è perché, evidentemente, c’è una volontà politica/ideologica per portare avanti un risultato. Nessuno ce lo toglierà dalla mente. La realtà è un’altra: la Bibbia della medicina, l’Harrison, dice che - clinica medica - l’uomo è un concentrato di acqua (e io banalizzo, perché ovviamente non sono un medico). Il 90 per cento di noi è acqua e oggi questa legge, qualora appunto dovesse diventare tale, ci dice che il sostegno vitale dell’acqua, sia pure artificiale, verrà meno.

Questo è il sistema più ipocrita per dire che questa è un’eutanasia; non ti faccio l’iniezione e ti sopprimo la vita: ti tolgo l’elemento vitale, che è un altro degli spunti su cui dobbiamo ragionare e riflettere, perché idratazione e alimentazione, sia pure artificiali, sono elementi vitali. Eppure, oggi questo provvedimento consente - con il comma 5 dell’articolo 1 e poi con il successivo articolo 3 - di intervenire pesantemente in questo senso, cioè l’eliminazione di elementi vitali per la vita della persona stessa. Come detto, sono tutti aspetti che devono far riflettere, che sono gravi perché ovviamente sono legati a una concezione complessiva della vita stessa. Lo ritengo un fatto di una gravità assoluta e quando dico “ritengo” significa che parlo anche a nome del mio gruppo ma penso anche di interpretare la maggior parte del popolo italiano, perché, quando questi argomenti vengono trattati con la correttezza del caso e spiegando bene tutti gli argomenti, è evidente che prevale la ragione. Noi oggi invece non stiamo facendo prevalere la ragione, perché questo Parlamento è fortemente sbilanciato rispetto a posizioni che non coincidono con quelle del Paese reale. Abbiamo il dovere di dichiarare e di denunciare queste cose e di continuare in ogni sede, per quanto ci sarà possibile, questa nostra battaglia.

PRESIDENTE. Onorevole Pagano, io ovviamente non l’ho interrotta perché lei ha fatto un discorso molto importante e riconosco e conosco perfettamente la sua onestà intellettuale. Credo che ci aiuterebbe nel dibattito e, quindi, non mi permetto di fare nessun commento. Io so perfettamente e ho compreso il modo con cui lei intendeva separare il partito della vita dal partito della morte. Ci aiuterebbe sicuramente considerare questo dibattito, dove legittimamente ci sono delle posizioni. Ma so che lei - e in questo è d’accordo con me - che dire che c’è un partito della morte è un’espressione un pochino… ma era chiaro. Era chiaro! Questo volevo solo precisarlo e la ringrazio comunque delle sue parole.

È iscritto a parlare l’onorevole Cicchitto. Ne ha facoltà.

FABRIZIO CICCHITTO. Signor Presidente, in premessa voglio dire che, pur avendo posizioni totalmente diverse dalle sue nel merito di questo provvedimento, condivido l’osservazione fatta dall’onorevole Palmieri a proposito di polemiche che contro il Parlamento si sono sviluppate dopo la morte per eutanasia di Fabo avvenuta qualche giorno fa. L’accusa era quella di lungaggini. No, qui non si tratta di lungaggini! Si tratta di un confronto che il Parlamento deve fare su una materia assai delicata e, quindi, il tempo che il Parlamento si è preso rientra nella serietà del dibattito del Parlamento e del lavoro fatto per arrivare ad una mediazione.

Prima di esprimere le mie valutazioni di fondo, che sono in dissenso da quelle del mio gruppo, voglio esprimere il mio rispetto e la mia comprensione per chi ha posizioni diverse dalla mia su tutto, sia sull’eutanasia sia sulla valutazione di merito su questa proposta di legge. Insomma, non contrappongo al manicheismo dell’amico onorevole Pagano un manicheismo di opposto segno. A questo proposito, prendo come punto di riferimento il bellissimo libro di Socci su sua figlia: c’è la scelta, insieme personale, etica e culturale, di resistere malgrado tutto, di resistere con il sacrificio e la voglia di vivere della persona colpita, con l’abnegazione dei familiari, di resistere, malgrado il dolore, alla menomazione del corpo, al blocco di una parte dei sensi e della stessa capacità espressiva. Questa scelta di resistere malgrado tutto ha il mio massimo rispetto, ma si deve avere altrettanto rispetto, a mio avviso, per le scelte culturali ed esistenziali di vita nei confronti della malattia, del dolore, della menomazione che siano di segno del tutto diverso, sia sul piano del comportamento personale sia sul piano culturale. Sul piano culturale siamo di fronte a posizioni di fondo che sono molto diverse. C’è la posizione di chi ritiene, sulla base del proprio credo religioso, che la vita dell’uomo abbia una sacralità che le deriva da Dio, per cui la sua etica considera come assoluto principio la non disponibilità della vita. Sulla base di questo principio, si contesta alla radice l’eutanasia e, nelle versioni più integrali di questa posizione, che qui abbiamo sentito esprimere sia da parte del relatore di minoranza sia da altri interventi, anche le dichiarazioni anticipate di volontà ai fini del trattamento sanitario di fine vita, che è cosa del tutto diversa dall’eutanasia. Invece, secondo la concezione laica, nella quale io mi riconosco e che non deriva dal 1968, c’è un’alta considerazione dell’individuo, della persona, e si ritiene che di questa dignità della vita umana faccia parte anche la libertà di poter disporre della propria esistenza nel caso in cui si ritenga di non poter più sopportare il dolore fisico e psichico determinato da una deriva della propria vita.

Ora, so bene che il tema dell’eutanasia non è presente in questo disegno di legge, ma voglio cogliere questa occasione per dare la voce a chi, dentro il Parlamento e fuori di esso, sostiene che a questa scelta è auspicabile che prima o poi venga dato un riconoscimento giuridico. Voglio richiamare sul merito quello che ha scritto Umberto Veronesi: “Non posso condannare - egli scrive - chi ricorre al suicidio perché pensa che la vita gli sia diventata un peso troppo gravoso a causa di una malattia che provoca dolore e disabilità. Questo non vuol dire che io sia a favore del suicidio; rivendico il diritto della persona di disporre della propria vita, se la giudica intollerabile. Il principio assoluto di non disponibilità della propria vita da parte degli esseri umani sequestra la libertà individuale”. Così Veronesi.

Se si pensa, poi, alle forme cruente e violente attraverso le quali si esprime il suicidio in assenza di un’eutanasia che lo consenta legalmente, si ha la misura di come si accentua, a mio avviso per ragioni ideologiche, una sofferenza che già di per sé è molto profonda. Fino al 2010 l’Istat dava conto del movente dei suicidi; ebbene, ogni anno circa mille di essi erano provocati dalla malattia. Dietro questa tematica, però, c’è qualcosa di profondo che attiene al fondamento della civiltà occidentale, della quale do un’interpretazione fondata sul principio di contraddizione, sulla dialettica fra la cultura giudaico-cristiana e la cultura dell’Illuminismo. Sulla concordia discors di queste culture sono fondate la nostra storia e la nostra civiltà, la civiltà occidentale. Orbene, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, redatta in Francia nel 1789, all’articolo 4 si afferma che cos’è la libertà individuale.

“La libertà consiste nel poter far tutto ciò che non nuoce ad altri. L’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento degli stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalle leggi”. Qualche anno fa, un mese prima della sua morte, Indro Montanelli scrisse sul Corriere della Sera: “Io non mi sono mai sognato di contestare alla Chiesa il suo diritto di restare fedele a se stessa, cioè ai comandamenti che le vengono dalla dottrina. La dottrina, cioè il verbo attribuito al Signore, prescrive che l’uomo debba ignorare il giorno della propria morte. È più che naturale, e non vedo come potrebbe essere altrimenti, ma che si pretenda di imporre questo comandamento anche a me, che non ho la fortuna - e la prego di fare attenzione alle mie parole - dico e ripeto, non ho la fortuna di essere un credente - cercando in ogni modo di travasarlo nella legge civile, in modo che diventi obbligatorio anche per noi non credenti, le sembra giusto? A me no”. Così Montanelli.

So bene che questa tematica è estranea alla parte normativa della legge di cui stiamo discutendo, ma questo, che per altri è un pregio o una giustificazione di essa, per me è un limite. Quanto a questa legge, illustrata con obiettività dalla relatrice Lenzi, essa non dovrebbe suscitare reazioni neanche nei cattolici, se si tiene conto di tante cose, alcune esplicitate poco fa dal presidente Marazziti, ma anche, con maggiore autorità ecclesiale della sua, dalla risposta che papa Pio XII dette nel 1957 a un gruppo di medici che gli avevano chiesto: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici è permessa dalla religione e dalla morale cattolica al medico e al paziente, anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita?” E papa Pacelli rispose: “Se non esistono altri mezzi e se nelle date circostanze ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali, sì”.

Nella legge oggi in discussione si riconosce ad ogni individuo la libertà di scelta per quando non sarà più in grado di farlo. Siamo di fronte a una dichiarazione di volontà a futura memoria; ovviamente, il medico è tenuto al rispetto della DAT. Mi sembra ragionevole, invece, chiedere che la DAT risalga a un numero limitato di anni precedenti, perché si può sempre cambiare parere. Tutto ciò vuol dire che le DAT vanno gestite con grande equilibrio nel rapporto fra il medico, il malato, il fiduciario, la famiglia. Non mi sembra, quindi, che in questa legge ci sia una sottovalutazione del ruolo del medico, ma le cose rimarrebbero esattamente come sono adesso, se non ci fosse il vincolo costituito dal rispetto della dichiarazione della DAT.

In sostanza, a mio avviso, ci troviamo di fronte a una legge assai equilibrata, frutto di quella che chiamerei una mediazione creatrice. Sulla base di queste valutazioni, esprimo il mio giudizio favorevole alla legge e mi congratulo con la relatrice Lenzi e con il presidente della Commissione, Marazziti, per l’equilibrio, le capacità tecniche e la disponibilità alla mediazione con cui hanno essi condotto questo così difficile lavoro legislativo, che nobilita il lavoro del Parlamento.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Monchiero. Ne ha facoltà.

GIOVANNI MONCHIERO. Grazie, Presidente. Mi dispiace che la scarsità di voli da Torino non mi abbia consentito di ascoltare gli interventi che mi hanno preceduto, ma in quello del collega Cicchitto ci sono già moltissimi spunti, non ultimo quello delle aspettative. Forse l’opinione pubblica ha esagerato con le aspettative, ritenendo che questa fosse una legge interamente dedicata al fine vita, e che, quindi, venisse ad affrontare temi che sono sotto gli occhi di tutti, anche per fatti di cronaca che non abbiamo mai rimosso, anche quando risalgono ad alcuni anni fa, e che il recente caso di Dj Fabo ha riproposto di scottante attualità. Ma ogni volta che noi affrontiamo questo argomento, quello della fine della nostra vita, noi veniamo presi da una miscela di repulsione e di timore. Nella cultura della nostra società la morte è stata rimossa e alla medicina è stato assegnato il compito, forse è meglio dire l’obbligo, di ottenere la guarigione.

Molte delle richieste risarcitorie rivolte a medici e strutture sanitarie nascono dalla pretesa della guarigione perfetta e dalla delusione per il mancato raggiungimento del risultato atteso. La morte, però, è correlata alla natura umana, semplicemente inevitabile, e, di fronte all’ineluttabile, scatta un meccanismo psicologico di rifiuto. Non si accetta il destino e gli si oppone la volontà dell’individuo di essere lui a decidere l’ora della propria fine, in una sorta di sfida titanica contro il fato o la divinità. Tema, questo, delicatissimo, che investe le convinzioni più profonde e l’etica del singolo e della società; tema, però, che non vedrei in una distinzione di etiche religiose o non religiose.

Mi sembra che sia l’etica illuminista sia l’etica cristiana risentano moltissimo del pensiero aristotelico e della tradizione culturale greco-romana. È in questo caso che il rispetto della vita assume una valenza non solo religiosa, ma una valenza di valore fondante del consorzio civile. Detto tutto questo, però, è anche vero che a un certo punto un limite definitivo, un qualcuno chiamato a dire l’ultima parola ci deve pur essere, e la nostra cultura oggi ci dice che quest’ultima parola non può che spettare all’individuo come singolo, e non allo Stato come surrogatore ed interprete della sua volontà.

Quello in esame è un testo d’iniziativa strettamente parlamentare, e molto opportunamente il Governo, in ogni fase del procedimento, si è rimesso all’autonoma decisione del Parlamento, chiamato a pronunciarsi su una molteplicità di proposte anche apertamente contrastanti, che la Commissione XII ha tradotto in un testo unificato. Si è formata nel Comitato ristretto e in Commissione una maggioranza anomala, che non trova il riscontro in questa legislatura nell’iter di altre proposte di legge, maggioranza nella quale personalmente mi sono riconosciuto fin dal primo momento. Ma prima di evidenziare i tratti salienti del provvedimento, devo precisare che il gruppo Civici e Innovatori lascia come molti altri gruppi, come diceva poc’anzi anche il collega Cicchitto, libertà di coscienza ai propri componenti, come immagino avverrà in gran parte del Parlamento.

Entrando nel vivo dell’argomento, io vorrei richiamare tutti ad attenersi al contenuto del provvedimento, senza costruire bersagli polemici astratti, magari sotto lo stimolo di fatti di cronaca o sotto la spinta dell’opinione pubblica non ben informata. Non è davvero il caso di alimentare artificiosamente guerre di religione che non hanno motivo di esistere, perché su questo tema sensibilità laica e sensibilità religiosa non sono così lontane. Ricordava poc’anzi Cicchitto l’intervento di Pio XII, che era un pontefice certamente non accusabile di progressismo, e che 60 anni fa (perché la dichiarazione che lui ha citato risale a 60 anni fa) affermava sostanzialmente il diritto del malato alla rinuncia dell’accanimento terapeutico e ad avere una adeguata terapia antalgica. Ora, la terapia antalgica da allora ad oggi ha fatto enormi progressi in avanti; e visto che siamo su questo tema, io vorrei ricordare l’esempio di altri Papi: Papa Giovanni XXIII morì sedato, come ricorda nelle sue memorie il suo segretario personale; e Papa Giovanni Paolo II ci ha dato un esempio ancora più significativo, quando lasciò il Policlinico e andò a morire nel suo ufficio, a casa sua, come ognuno di noi oggi può serenamente auspicare, di fronte ad una malattia degenerativa, conclamata e dall’esito certo. È chiaro che in caso di emergenza ognuno si augura di essere curato adeguatamente, ma quando il decorso della malattia è certo, il ritorno a casa, anche sotto il profilo psicologico, purché adeguatamente assistito sotto l’aspetto tecnico, è per tutti noi una risorsa, una speranza, una volontà che abbiamo il diritto di manifestare.

Ora, la legge che vorrei chiamare Lenzi, in onore della relatrice che con disponibilità e pazienza ha saputo ricondurre ad unità e coerenza proposte che già ricordavo antitetiche, non disciplina l’eutanasia, né pretende di regolamentare per legge il suicidio assistito, tema estremamente delicato a mio parere, e anche molto difficile da definire per legge. Molto più modestamente e, ritengo, efficacemente, si propone di intervenire con una normazione leggera sul tema della programmazione delle cure: tema della programmazione nella quale trovano ovviamente spazio anche le disposizioni anticipate di trattamento. E abbiamo deliberatamente utilizzato il termine “disposizioni”, e non “dichiarazioni”, proprio perché volevamo dare forza a questa manifestazione di volontà, fondata sulla relazione medico-paziente. La programmazione delle cure non è definitiva, si evolve e si cementa nel corso della malattia, alla ricerca della soluzione più appropriata ai bisogni della persona sofferente: di questo si tratta! Non è un caso che la legge disciplina all’articolo 1 il consenso informato: che parta di lì, perché tutto nasce lì.

Il consenso informato è stato introdotto nel nostro ordinamento da parecchi anni, ma spesso nella prassi viene ridotto ad adempimento burocratico, svolto con frettolosa superficialità. Con questa legge, invece, il consenso informato diventa l’elemento fondante della relazione medico-paziente, all’interno della quale si concordano tutte le scelte terapeutiche, comprese le cure palliative, fino alla pianificazione condivisa delle cure anche nella fase terminale dell’esistenza: anche! Ma voglio sottolineare che il consenso informato riguarda tutte le terapie alle quali, nel corso della propria esistenza, il paziente può venire sottoposto; e che nel mondo della sanità, negli ultimi anni, si è aperto, in varie forme e con vari toni, un dibattito piuttosto vivace sul tema dell’umanizzazione delle cure: a molti operatori sanitari appariva che l’eccesso di tecnicismo che caratterizza la medicina attuale, con un’iperspecializzazione, facesse perdere di vista il malato e concentrasse ogni sforzo sulla malattia. Ora, l’aver disciplinato con un articolo ampio e molto dettagliato il consenso informato, secondo me concorre, più di ogni altra misura adottata in questi anni, a ricostituire l’alleanza medico-paziente, a dargli un significato attuale, a dargli un valore; e di lì nascono tutte le altre scelte che medico e paziente faranno in seguito, nell’interesse del paziente e secondo la competenza del medico.

Negli articoli 2 e 3 la legge affronta le situazioni nelle quali il paziente non può autonomamente esprimere la propria volontà. Detta quindi norme a tutela di minori e incapaci, e riconosce a tutti i maggiorenni capaci la facoltà di disporre per l’avvenire, nella presunzione che possa accadere un giorno che, di fronte ad una richiesta di consenso informato, il singolo, io, la persona che fa le DAT, non sia più in grado di esprimere la propria volontà; a questo fine viene prevista la possibilità di rilasciare una dichiarazione scritta, di affidare le proprie volontà ad un fiduciario, e soprattutto una normativa che ritengo assolutamente puntuale e precisa, utile, quella che noi auspicavamo da tempo.

Non è questa la sede per anticipare problematiche di dettaglio e che saranno discusse esaminando le proposte emendative. Nei limiti del possibile, io credo che il testo possa anche essere limato, che qualche dettaglio possa essere migliorato, che i contributi di tutti possano essere accolti, se vanno in questa direzione; mentre credo sarebbe un grave errore stravolgere la norma, cambiarne la prospettiva. Penso che la prospettiva di questo testo, breve ma molto significativo, meriti di essere condivisa e difesa. Concluderei quindi con un invito ad evitare polemiche ideologiche fuorvianti, e ad attenersi ad un ragionevole ed umano pragmatismo. Quanto più riusciremo, in quest’Aula, in questa sede, a formulare soluzioni normative concretamente praticabili, tanto più agevoleremo gli operatori sanitari nel rendere, in ogni fase della vita, un servizio migliore a tutti i cittadini (Applausi dei deputati del gruppo Civici e Innovatori).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Roccella. Ne ha facoltà.

EUGENIA ROCCELLA. Presidente, questa è una legge che richiederebbe un ampio tempo d’intervento e di dibattito per approfondire le contraddizioni, ma soprattutto per chiarire le differenze, che spesso sono molto sottili, sia fra le opzioni, sia fra le condizioni della persona che fa il testamento biologico: per esempio, malato terminale, disabile, una persona in situazione cronica. Nel tempo che ho a disposizione posso solo limitarmi a fare una valutazione e una considerazione di ordine generale.

La valutazione: questa è nel testo attuale una legge aperta, forse addirittura spalancata all’eutanasia. Il varco, il punto decisivo in questo senso è la possibilità di sospendere idratazione e nutrizione assistite, considerate come terapie, mentre sono semplicemente sostegni vitali, visto che, comunque siano fornite, tramite atti medici o no, col sondino o col cucchiaino per essere chiari, non curano nessuna patologia, e, se sospese, portano alla morte non per la patologia di cui si soffre, ma per disidratazione e denutrizione. L’Aula può intervenire e cambiare anche profondamente tutto questo, e potremo valutare solo alla fine se, come afferma la presidente dell’Associazione Coscioni (non cito i Papi e cito invece l’Associazione Coscioni), questa legge costituirà la via italiana all’eutanasia.

La considerazione che voglio fare è sul principio che è al fondo del provvedimento, su cui tutto ruota: il principio di autodeterminazione. Ma la scelta di vivere o morire non riguarda solo l’individuo, e nemmeno riguarda soltanto le persone che gli vogliono bene, la sua famiglia, le relazioni di cui già è stato detto, riguarda e interpella l’intera comunità, la società. Qual è l’atteggiamento della nostra società di fronte al suicida? Deve rimanere inerte, neutrale, perché le sofferenze e le scelte di morte sono solo affari dell’individuo e non coinvolgono noi? Il rischio è costruire una cultura dell’indifferenza, una società per cui il suicidio è solo una persona autodeterminata che ha fatto la sua scelta libera e consapevole. Il rischio è costruire una società in cui la solidarietà nei confronti di chi è solo, fragile, spaventato, malato, e il senso di fratellanza umana tenderanno a scomparire, e già lo abbiamo visto in alcuni casi di cronaca, per esempio nel suicidio di un giovane migrante che si è buttato in acqua, e nessuno si è buttato a salvarlo. Questo è il diritto a morire. Il rischio è costruire una società in cui le scelte di vita o di morte sono equivalenti, in base solo al principio di autodeterminazione.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Casati. Ne ha facoltà.

EZIO PRIMO CASATI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, in questi anni i progressi medico-scientifici ed una diversa sensibilità dell’opinione pubblica sul delicato tema del fine vita hanno impegnato e responsabilizzato il Parlamento italiano ad un serio dibattito. Siamo oggi giunti, dopo un lungo lavoro in Commissione, ad una proposta sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento. Si tratta di un lavoro approfondito, serio, una proposta che la Camera si trova oggi a dibattere che pone in essere strumenti equilibrati e non ideologici in grado di tutelare la volontà e soprattutto la dignità delle persone malate in situazioni drammatiche, dolorose, sulle quali la prospettiva di vita sembra non dare speranze. Il testo, che parte con gli obiettivi della legge di ribadire ciò che recitano gli articoli 2, 3, 13 e 32 della nostra Costituzione e gli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, parla sia del diritto alla vita sia della responsabilità diretta dei soggetti, quindi un insieme di norme che già nel dettato costituzionale trovano una linea. Il testo è equilibrato, leggero, che parla di consenso informato non come un atto burocratico volto soltanto a riempire un modulo, ma che parla della dichiarazione anticipata di trattamento come di una volontà, che può essere leggera, quando è espressa molto tempo prima del momento in cui chi la esprime si trova nella malattia più profonda, e che invece è data magari in maniera più dettagliata, accompagnati dal medico, nel momento più vicino alla fine. Però sono due atti che portano con sé la consapevolezza di non essere lasciati soli, ma di camminare lungo un percorso della vita che prevede anche l’arrivo alla morte in maniera informata. Io non sono catalogato né tra chi sostiene di essere l’esercito della vita né tra chi sostiene di essere l’esercito della morte: penso di tutelare quella cultura che porta con sé la pienezza della vita, come una persona che ha la consapevolezza che bisogna concepire la vita come un bene ineludibile e non come un bene finto.

Troppe volte, negli anni, dal dramma di Eluana Englaro fino al più recente caso del dj Fabo, gli italiani hanno rimproverato alla politica e alle istituzioni di essere in ritardo, di non essere all’altezza, di non essere in grado di esprimere una normativa in grado di tutelare le volontà ultime della persona nei terribili momenti nei quali il dolore e le terapie non offrono alcuna possibilità di ripresa. Si tratta, a mio avviso, di sgomberare il campo da diversi equivoci: la normativa sul consenso informato e sulle DAT non presuppone alcun riferimento agli esiti di eutanasia. Questo è il primo elemento da valutare. Non stiamo legiferando sull’eutanasia o sul suicidio assistito, non credo che lo Stato potrà mai arrogarsi il diritto di decidere sulla morte di un suo cittadino, nemmeno in casi estremi, nemmeno con il consenso dello stesso cittadino.

Non esiste, dal punto di vista storico e giuridico, nel contesto dello Stato moderno di diritto, la capacità dello Stato di decidere o di delegare ad altri la morte anticipata delle persone. Lo Stato moderno, democratico, liberale e sociale impone, invece, la tutela costituzionale della vita e della dignità dei suoi cittadini. Ogni uomo viene difeso costituzionalmente nel suo diritto ad esistere, vivere in salute e contribuire al benessere collettivo.

Permettetemi di riprendere alcune riflessioni del cardinal Martini, che rilasciò nel 2007 a Il Sole 24 Ore. Alla vigilia dei suoi ottant’anni, il cardinal Martini riflette sulla vita e la malattia e chiarisce che l’eutanasia non va confusa con il rifiuto all’accanimento terapeutico: c’è l’esigenza di elaborare norme che consentano di respingere le cure per stabilire se un intervento medico sia appropriato; non ci sono regole generali e non può essere trascurata la volontà del malato e della malattia.

La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz’altro il progresso medico è assai positivo, ma nello stesso tempo le nuove tecnologie, che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano, richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti, quando ormai non giovino più alla persona.

È di grandissima importanza, in questo contesto, distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. Il primo si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte; il secondo consiste nella rinuncia all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Evitando l’accanimento terapeutico non si vuole procurare la morte, si accetta di non poterla impedire, assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale.

Occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare, non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete, anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite, di valutare se le cure che gli vengono proposte in tali casi di eccezionale gravità siano effettivamente proporzionate.

Del resto, questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizioni di isolamento nella sua valutazione e nella sua decisione, secondo una concezione del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. Anzi, è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina: la sedazione del dolore, le cure infermieristiche. Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.

Dal punto di vista giuridico rimane aperta l’esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto informato delle cure, in quanto ritenute sproporzionate dal paziente, dall’altra, protegga il medico da eventuali accuse, come quello di essere condiscendente, quindi ci sia un aiuto al suicidio, senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia.

La realtà è molto più complessa di come la descriviamo. Ogni situazione, ogni persona malata, ogni fine vita sono diversi e complessi. Una cosa è certa: ogni persona ha dentro un’irriducibile forza vitale che lo spinge ad andare avanti a sperare, a tentare con ogni sforzo di aggrapparsi alla vita.

Anche nei drammatici casi ai quali abbiamo assistito recentemente c’era un doloroso grido alla vita e alla dignità della persona, un irriducibile e doloroso richiamo alla tutela della persona umana. È sbagliato, è fuorviante, a mio modesto parere, pensare che in questa materia esistano

solo due alternative opposte, antitetiche: soffrire senza speranza o, all’opposto, chiedere di morire. Chiedere la morte per le troppe incurabili sofferenze è sempre doloroso e non credo possa iscriversi nella tradizione della libertà personale. Chiedere di alleviare le sofferenze, di ridurre il dolore, chiedere di evitare cure inutili e non risolutive è invece doveroso come non comprendere l’accanimento terapeutico.

Vorrei chiudere il mio intervento richiamandomi ad un documento elaborato recentemente dalle commissioni etico-teologiche della Chiesa cattolica lo scorso febbraio. Nella sezione del morire viene considerato l’atteggiamento davanti al malato nella fase terminale della malattia luogo di verifica della professionalità e della responsabilità etica degli operatori sanitari. In questo ambito un aspetto molto attuale e considerato dalla Carta, oggetto di questi giorni di molte discussioni nel Parlamento italiano, è il riferimento all’espressione di anticipo da parte del paziente alle sue volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso della sua malattia, a causa dei traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso. La Carta afferma che non è comunque un mero esecutore…

PRESIDENTE. Concluda.

EZIO PRIMO CASATI. Tema ugualmente rilevante è quello della nutrizione e dell’idratazione anche artificialmente somministrata.

PRESIDENTE. Grazie.

EZIO PRIMO CASATI. Concludo proprio in dieci secondi. Considerate che le cure sono dovute al morente quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio. Ci si aspetta quindi che siamo chiamati ad un compito impegnativo…

PRESIDENTE. Deve concludere.

EZIO PRIMO CASATI. …ma sono convinto che sapremo assolverlo con la giusta saggezza.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Russo. Ne ha facoltà.

PAOLO RUSSO. Grazie, Presidente. Che cosa rappresentano la nutrizione, l’alimentazione, l’idratazione nella cultura occidentale: un elemento che in sé è indispensabile alla vita o piuttosto non rappresentano un elemento valoriale che supera la funzione stessa? Quindi non solo fisiologia dell’atto, ma anche socialità, anche condivisione, anche affettività, anche solidarietà sono scritte dietro la nutrizione e l’idratazione e comprendo le ragioni, per quanto talvolta speciose, di chi sia sul piano tecnico-giuridico, quindi su quello del diritto, sia su quello più squisitamente medico, ritengono la nutrizione e l’idratazione non autonomi, ma piuttosto elemento di un percorso terapeutico.

Ma veniamo alla sostanza della questione, veniamo cioè a cercare di comprendere qual è il dilemma in cui è posto il medico nell’esercizio della sua funzione, della sua attività professionale. Il primo aspetto: deve provare a fare del bene; il secondo aspetto che deve misurare è che deve evitare di fare del male.

Vi è un terzo aspetto rispetto a quel paziente terminale: provare a rappresentare e a tutelare la volontà di quel paziente, una volontà che sia informata, autentica e attuale. Prescindo da come sia utile che quella volontà davvero sia frutto di informazione, frutto di autentica espressione e soprattutto che quella volontà, magari espressa qualche decennio prima, sia ancora attuale. Ma il tema che vorrei qui porre alla vostra attenzione e alla sensibilità dei colleghi è qual è l’elemento di prevalenza in questa triplicità di valutazioni o, piuttosto, se non sia necessario che nessuno dei tre elementi sia prevalente e quindi ci sia la necessità di una valutazione che sia multifattoriale, che sia integrata, che sia laica, che sia aperta, che sia del momento.

E, quando dico “del momento”, non è soltanto in ragione della specificità delle condizioni cliniche dell’individuo, ma anche in ragione delle conoscenze e delle opportunità scientifiche del momento. Tutti atti che sono naturalmente affidati a chi? Sono affidati a chi con questa norma proviamo ad escludere. Avrebbero dovuto essere affidati a chi ha conoscenza, a chi ha esperienza, a chi ha competenza, al medico che interpreta questo sentimento e ragiona, quindi, su quei tre punti a cui facevo inizialmente riferimento provando, anche nella consapevolezza che l’efficacia va misurata sempre rispetto al beneficio, ad essere attento e accorto alla dignità del paziente. Qui nessuno pone in discussione che il calo ponderale del paziente non ha a che vedere sempre con l’alimentazione, che la sete non ha a che vedere sempre con l’idratazione, che la malnutrizione ha diverse cause, che la secchezza delle fauci ha una complementarietà non assoluta con la sete: tutte questioni assunte e certe. Ma un tema vorrei che si ponesse con chiarezza: è vero o non è vero sul piano più squisitamente scientifico che, in carenza di idratazione, più frequenti sono i fenomeni di allucinazione, mioclonia, stati di irrequietezza, stati confusionali, vere e proprie condizioni di delirio? Dunque, mi pongo una domanda rispetto ad una norma che ha evidentemente un profilo surrettizio, una norma che vuole fare entrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Guardate, lo dico con atteggiamento laico: io sarei pronto a discuterne anche in modo approfondito e non sarei lontano dal comprendere le ragioni di chi crede l’eutanasia la strada maestra, ma è quella semmai la strada maestra, non il tentativo surrettizio di utilizzare l’idratazione e l’alimentazione per giungere ad un medesimo risultato, non avendo il coraggio di affrontare quella questione. Con questa norma, poveretto, quel medico a doversi affacciare al capezzale del paziente nel caso di una demenza avanzata, nel caso di un neoplastico terminale, nel caso di un portatore di gravi handicap fisici e motori. Rispetto a queste tre condizioni l’approccio è lo stesso? È evidente che con questa norma è assolutamente lo stesso, privo di quella specificità valutativa che è propria del medico. Dunque, se ragionassimo non sul principio che omologa, che rende tutti uguali, che prova a rendere uguali gli uguali che non sono tali, che prova a rendere il medico esecutore testamentario e praticamente impone al medico l’abiura delle sue conoscenze, lo obbliga all’atarassia clinica, lo obbliga cioè a non avere alcuna capacità valutativa, lo obbliga cioè a non comprendere le ragioni della clinica, le ragioni della prospettiva terapeutica, le ragioni del buonsenso e se, invece, provassimo - capisco le difficoltà nel cogliere questo elemento di novità - a misurare di volta in volta le necessità? Son qui a dire che l’idratazione in alcuni casi rappresenta addirittura un aggravamento delle condizioni cliniche del paziente ma in altri è necessaria anche e proprio, per esempio, per le cure palliative. E allora una malattia degenerativa ingravescente e non suscettibile di miglioramento è evidente che è un caso; altra è la condizione acuta, magari temporanea, auspicabilmente suscettibile di taluno miglioramento. Nel primo caso, sospendere l’idratazione non sarebbe evidentemente la causa della morte; nel secondo, probabilmente, sì. Allora, dovreste e dovremmo avere il coraggio di affrontare un tema più vasto, che è quello dell’eutanasia, magari inserito in un quadro più ampio: abbandono terapeutico o accanimento terapeutico? Esplicito riferimento alla sedazione profonda o non esplicito riferimento? Insomma, avere la forza e anche l’onestà intellettuale di affrontare il tema fino in fondo. In modo surrettizio, viceversa, stiamo introducendo un modello italiano all’eutanasia.

Io sarei pronto a discutere di questo e sarei pronto a discutere di questo sul piano etico, sul piano morale, sul piano clinico, sul piano scientifico, sul piano deontologico, sul piano culturale e anche sul piano sociale, ma è altra cosa, non è la vicenda di cui oggi proviamo a ragionare introducendo elementi distorsivi in quel rapporto straordinario tra il medico e il paziente. La sospensione dell’idratazione è talvolta necessaria, ma quasi mai - quasi mai - garantisce una fine nel rispetto di quella dignità auspicata; quasi mai riesce ad ottenere il risultato della dignità del paziente stesso. Per queste ragioni, questo testo così com’è, rifiutando gli emendamenti che abbiamo proposto, non mi convince.

Per questa ragione, ritengo la valutazione che andate facendo più una finzione ideologica che nulla ha a che vedere, ovviamente, con i casi mediatici delle ultime settimane. Qui stiamo, state dividendo sull’onda di un presunto scientismo, in realtà assolutamente contro ogni evidenza scientifica, che in sé, naturalmente, racchiude la diversità, il dubbio, la specificità. Voi provate, viceversa, a tagliare con un machete, con l’accetta, una norma che, senza avere il coraggio di affrontare il tema dell’eutanasia, sottende, allude, fa l’occhiolino.

Per questo non ci sto, perché sarebbe un errore e sarebbe e sarà un errore non per chi è più forte: sarebbe e sarà un errore per chi è più debole, per chi è meno consapevole, perché si sottrae al medico quel necessario libero arbitrio che, da solo, rappresenta la garanzia dell’autonomia e del rispetto del codice deontologico. Voi provate, viceversa, a ragionare in chiave dicotomica tra vita e morte e, peggio, stirate da una parte la buona vita e la morte infame. Io proverei piuttosto a lasciare a quel medico il giudizio e la valutazione necessaria.

Ovviamente, da laico, non mi sottraggo ad un confronto sul resto, su quello che dovrebbe venire prima, sull’eutanasia, sul fine vita, sulla morte dolce. Un modo per consentire di sottrarre l’idratazione ora per allora è davvero un sistema che non funziona.

Immaginate la promessa di sottrazione di questa idratazione e provate a calare questa specificità in varie condizioni cliniche: vi accorgerete come, spesso, questa dichiarazione ben si attaglia ad una condizione, ma per la sua naturale genericità, per la sua naturale universalità, rappresenterà in molti casi un nocumento straordinario alla dignità del paziente e, soprattutto, alla libertà del medico.

Per ragioni di profilo squisitamente scientifico, per ragioni di profilo squisitamente medico, mi permetto di sollecitare la riflessione e che questa riflessione possa andare nel segno e nella direzione di una maggiore comprensione della centralità di quel medico capace di interpretare segni clinici ed opportunità terapeutiche, nel rispetto del paziente, nel rispetto di quella dignità del paziente da tutti invocata e, ovviamente, anche nel rispetto della volontà del paziente.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Menorello. Ne ha facoltà.

DOMENICO MENORELLO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono l’ultimo arrivato in questo Parlamento e con questa particolare consapevolezza vorrei portare il mio apporto a questa delicatissima discussione con la massima umiltà possibile. I relatori - l’onorevole Lenzi, che ringrazio per il grande impegno profuso e l’onorevole Calabrò, che ringrazio per la lucidità del giudizio, che sento integralmente anche come il mio - hanno ben rappresentato il tenore delle scelte che il legislatore ha deciso di assumere, così che in questa sede di discussione generale appare innanzitutto necessario dialogare sui significati culturali e sociali che potranno derivare dalle prossime decisioni dell’Aula, lasciando al dibattito sui singoli articoli gli specifici aspetti connessi all’esatto articolarsi della normativa.

Primo punto: che cosa non è in discussione? Viene certamente in rilievo il tema della vita e della morte, ma non dal punto di vista dei percorsi e delle decisioni che ciascuna persona ha il diritto di compiere nell’ambito della sua sacra autonomia. Non è, dunque, in discussione la libertà del singolo. Su questa autonomia di ciascuna persona il potere pubblico non può e non deve incidere; su questa autonomia non vi deve nemmeno essere, a mio modo di vedere, alcun giudizio personale, anzi, in circostanze di grave sofferenza, la testimonianza miracolosa resa da alcuni, così come i gesti più tragici decisi da altri suggeriscono, piuttosto, di inginocchiarsi di fronte al mistero della storia di ciascuna persona.

Similmente, non è in discussione la necessità che i trattamenti sanitari siano praticati con il consenso del paziente, giacché nessuno intende discostarsi dai precetti giustissimi del comma secondo dell’articolo 32, né sono in discussione l’utilità delle terapie antalgiche o il rigetto dell’accanimento terapeutico, che si voleva anzi, e si spera ancora, vedere disciplinato in questa normativa perché sia inibita una inopportuna prassi, a volte, esistente ancora nella nostra sanità.

Secondo punto: qual è, allora, l’oggetto della decisione del Parlamento? Oggi siamo chiamati piuttosto a decidere con una legge sul ruolo dello Stato e del Servizio sanitario nazionale di fronte a situazioni di sofferenza, di disabilità, di apparente inutilità delle persone. La legge - spiega Tommaso d’Aquino - non è che una prescrizione della ragione in ordine al bene comune promulgata dal soggetto alla guida della comunità. La legge ha, dunque, come proprio compito quello di indicare un bene comune, un obiettivo al quale rendere funzionali le strutture dello Stato, come è il Servizio sanitario nazionale.

La legge, dunque, incide nella cultura di un Paese per cui ciò che indica non è mai neutrale. Questa proposta ha, dunque, l’ambizione di indicare, per legge, il bene di fronte alla malattia, anche a quella grave, incurabile, cronica, dunque, di fronte alla disabilità o a esiti infausti dell’esistenza. In tali frangenti, è bene avere cura della vita o anticipare anche fattivamente la morte? La risposta che darà il legislatore non sarà senza conseguenze sul piano dei contenuti culturali che verranno indicati al Paese.

Terzo: il punto, la chiave di volta, delle scelte che stiamo per compiere sta, a mio modo di vedere, proprio nel nome della clinica in cui qualche giorno fa è spirato Fabiano, Dignitas. Molte volte, nel lavoro di questi mesi su questa proposta di legge, abbiamo sentito esporre la necessità di riconoscere il diritto a una vita dignitosa. Attorno a questa suggestione, sono stati modellati non pochi passaggi contenuti, più o meno implicitamente, più o meno esplicitamente, in tutti gli articoli della proposta di legge in esame. Esplicitamente, ad esempio, all’articolo 4, il paziente è direttamente provocato ad esprimere i propri intendimenti futuri - sono citazioni - dopo che il medico ha illustrato, non appena, lo stato e le prospettive di salute, ma anche che cosa ci si possa “realisticamente attendere in termini di qualità della vita a fronte di patologie croniche e invalidanti”. Più implicitamente, vari passaggi dell’articolo 3 e degli articoli 2 e 1, promuovono indicazioni personali rese in momenti anche di salute, per momenti in cui potranno sopravvenire condizioni di vivibilità compromesse o molto ridotte. Indicazioni che, stante la lettera attuale degli articoli proposti, potranno persino impedire ai medici di intervenire anche solo per recuperare momentanee situazioni di incoscienza, con concreti rischi esiziali. È difficile, mi pare, negare il presupposto e l’orizzonte possibili di tali locuzioni normative.

Di fronte a una disabilità, a una cronicità patologica, in vista di “un’evoluzione con prognosi infausta”, la norma ipotizza anche la possibilità che i medici del Servizio sanitario nazionale cooperino acriticamente a esiti negativi o fatali per la salute, ad esempio, interrompendo i trattamenti, o omettendo interventi di emergenza e urgenza, condizionanti la sopravvivenza stessa in certe circostanze, persino - è stato ricordato più volte - suggerendo la sospensione delle funzioni vitali del mangiare e del bere.

Dunque, il concetto di dignità sotteso ad alcuni passaggi della proposta di legge è connesso alla capacità del soggetto di performare, di essere utile per la società. Si tratta di una concezione di dignità che è in mano alla mentalità dominante e ai poteri soprattutto economici e mediatici che la condizionano. Chi è inabile, chi non ha utilità economica e sociale, chi soffre non ha per questa mentalità una evidente dignità. Assistiamo a una sorta di mutazione genetica del diritto alla vita che diviene pieno solo come diritto a una vita dignitosa, al contrario permettendo che chi non avrebbe questa dignità possa non essere curato.

Vi è però una prospettiva antropologica diversa, efficacemente scolpita dal monito di Giovanni Paolo II, che ci chiede di non essere signori della vita, né conquistatori della morte (è il suo discorso la Pontificia Accademia delle scienze del 1985). È una prospettiva che rigetta quel concetto di dignità detto sopra, legato cioè alla capacità di corrispondere utilmente alle attese della società contemporanea. Vi è, dunque, una dignità legata alla presenza della vita in quanto tale perché si riconosce che, qualsiasi sia la condizione di vita, essa è assoluta, pienamente rispettabile. In questa prospettiva, la sofferenza, l’imperfezione, il dolore, non spengono, ma anzi acuiscono, per chi si trova in questa situazione, ma anche per tutti coloro che sono a fianco di queste persone, il desiderio di significato della propria vita, né la sofferenza può essere considerata un accidente dell’esistenza da espungere. Efficacemente Paul Claudel avverte che la pace, chi la conosce, sa che la gioia e il dolore in parti eguali la compongono, e il desiderio di significato, la domanda di verità, di bellezza, di giustizia, che albergano e si accendono nel cuore di ogni uomo, anche e soprattutto nel dolore, sono il proprium dell’umano, ciò che lo rende grande, ciò che fa ritenere ugualmente dignitosi un sovrano e un mendicante, un campione e un disabile. Sono tante le testimonianze di persone che, nelle situazioni più gravi, mostrano una bellezza di vita che confuta una dignità ridotta ai parametri della performanza sociale, ed è la prospettiva assunta, si crede, anche dalla Carta costituzionale agli articoli 2, 3 e 32.

Quale direzione sceglierà di indicare con legge allora il Parlamento, pur nel ribadito rispetto delle scelte personali di tutti? La direzione di una possibilità di vita sempre riempita da una pubblica e indomita domanda di significato, anche soprattutto nelle condizioni di inabilità e di sofferenza, o la direzione di una dignità possibile della vita solo se essa sia conforme ai canoni della mentalità consumistica dominante? Una dignità, dunque, in questo secondo caso, non legata al cuore misterioso dell’uomo e questo in virtù di una mentalità che ha bisogno prospetticamente di allontanare, di eliminare, la sofferenza, il dolore, l’inabilità?

“La mia vita non ha più senso” ha lasciato scritto Fabiano. Nel tremore e nell’assoluto rispetto per una simile vertigine umana, non può essere questo, si crede, il messaggio del legislatore italiano. Un messaggio per cui il senso della vita sarebbe proporzionale al successo personale. Il vero desiderio di significato non può essere negato per via legislativa, perché non corrisponde al reale, nessun uomo smette mai di urlare questa domanda.

Se invece si volesse negare questo indelebile tratto dell’umano, si aprirebbe una breccia nell’ordinamento e nella società che porterà a ulteriori derive, spostando indefinitamente e sulla spinta della cultura dominante il confine della vita dignitosa, al di là del quale si suggerirà, con toni progressivamente espliciti, una prospettiva di morte, come è già accaduto nella storia.

Gli emendamenti che sono stati presentati dimostrano che è accesa, più che mai, la volontà di dialogare, punto per punto, su queste domande e su queste questioni tanto essenziali. Volontà che ha condotto in alcuni tratti la Commissione a migliorare effettivamente il testo e ciò grazie a molti colleghi, al presidente e alla relatrice.

Rimaniamo perciò speranzosi e desiderosi che questo dialogo continui, senza pregiudizi, nei prossimi giorni, proprio come ha opportunamente chiesto a tutti l’onorevole Lenzi.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Silvia Giordano. Ne ha facoltà.

SILVIA GIORDANO. Grazie, Presidente. Finalmente siamo arrivati in Aula, finalmente il testamento biologico è approdato in Aula. Eh sì perché di come sia stato lungo e in parte travagliato l’iter di questa così delicata proposta di legge lo sappiamo tutti, ormai. Dopo circa un anno di lavori in Commissione, sarebbe dovuta arrivare in Aula il 30 gennaio, poi rimandata al 15 febbraio, poi di nuovo al 27 e infine al 13 marzo, oggi.

Ammettiamolo, al di là delle motivazioni che ognuno vuole dare e che sono convinta crede essere anche legittime, dobbiamo essere sinceri: non è stato un bel messaggio quello che abbiamo dato al Paese, ai cittadini e alle persone che ci chiedevano una risposta e una presa di responsabilità.

Più volte qualcuno ha detto che non bisogna seguire l’emotività portata dagli ultimi eventi tristemente noti, che tutti noi abbiamo conosciuto attraverso i media e i vari appelli. Ed è questo un principio che potrei anche condividere, se avessimo iniziato a lavorare in seguito a tali eventi, ma, visto come sono andate le cose, penso, in realtà, che tutti noi, nessuno escluso, ne usciamo un po’ sconfitti. Sì, perché avendo iniziato il nostro lavoro molto tempo prima, è demoralizzante, ancora una volta, non riuscire a dare risposte tempestive, anzi, a garantire diritti a coloro che di sofferenze nella propria vita ne hanno già vissute tante e vorrebbero solo poter decidere di se stessi. Ed è ancora più demoralizzate se si pensa che, in realtà, si sta parlando di questo tema non solamente da un anno con i lavori in Commissione, ma da decenni nella società e da legislature in Parlamento.

È anche per questo che, appena eletti, abbiamo deciso di presentare subito una proposta di legge sul fine vita. È stata la prima proposta di legge a riguardo di questa legislatura, presentata il 4 giugno del 2013, a prima firma Mantero. Nonostante questo, abbiamo comunque voluto continuare ad approfondire e a confrontarci ulteriormente con esperti, medici, associazioni e cittadini, dando così vita ad una seconda proposta di legge firmata da tutti i deputati del MoVimento 5 Stelle, l’ultima in ordine cronologico, quasi a voler chiudere un cerchio.

Non vi nascondo che, quando abbiamo iniziato la discussione in Commissione, provavo un senso di emozione e paura. Emozione perché, indipendentemente da come andrà a finire, avere l’opportunità di parlare di questi temi così delicati e sentiti è sempre un onore e una responsabilità. Più il testo di legge prende forma e più pensi che, sì, forse questo è il momento giusto e percepisci l’importanza storica e sociale di quello che stai facendo; dall’altra, invece, la paura, la paura non solo di assistere, ma anche di essere protagonista di una discussione, in realtà già stabilita, perché chiusa in preconcetti, dove ogni persona ha già una sua idea o è rappresentante di un’ideologia rigida, che non ti permette di ascoltare ed evolvere.

Beh, che dire? È stata una vera sorpresa ed un vero piacere essere contraddetta. Quando abbiamo iniziato i lavori in comitato ristretto, con l’intento di unire ben sedici proposte di legge diverse presentate sul tema e dare così origine al testo base, il clima è stato ottimale e, a mio avviso, degno dell’argomento che si stava trattando e per questo, ancora una volta, ringrazio tutti i colleghi che ne hanno preso parte, perché purtroppo non tutti hanno voluto parteciparvi.

Anzi, Presidente, mi scusi per la piccola digressione, ma vorrei ricordare a tutti cosa sia un comitato ristretto. Riprendo proprio il Regolamento della Camera, all’articolo 79, comma 9: la Commissione può nominare un comitato ristretto composto in modo da garantire la partecipazione proporzionale delle minoranze, al quale affida l’ulteriore svolgimento dell’istruttoria e la formulazione delle proposte relative al testo degli articoli. So, Presidente, che può sembrare superfluo, soprattutto perché ormai tutti noi lo dovremmo sapere, ma, visto che c’è stato anche chi ha voluto dichiarare, in risposta ai comitati ristretti e all’importante lavoro che vi è stato svolto, che le leggi si fanno in Commissione e poi in Aula, non in conventicole ristrette dove una super maggioranza PD-5 Stelle fa e disfa la tela sulla vita delle persone, mi sembrava giusto, al di là della posizione politica, rammentare di cosa parliamo e come lavorano le Commissioni, anche se chi ha affermato ciò è una persona che ha molta più esperienza di me, come il collega Pagano della Lega, e sono convinta che abbia avuto in quel momento solo un piccolo momento di confusione che capita a tutti.

Purtroppo, però, è stato proprio questo atteggiamento di chiusura da parte di alcuni che non ha permesso di mantenere lo stesso livello di dibattito che, con i colleghi di più parti politiche, a prescindere dalla posizione, eravamo invece riusciti ad ottenere fin dall’inizio, nonostante le differenti posizioni. Non mi riferisco al botta e risposta più volte sentito e riportato dai media se all’interno della Commissione affari sociali si sia fatto o meno ostruzionismo o se si sia voluto o meno prendere più tempo, rallentare i lavori e puntare al rinvio dell’approdo in Aula del progetto di legge. Ogni singolo deputato ha il sacrosanto diritto di agire come ritiene più opportuno, in base alle proprie convinzioni, ma una cosa è avere un’idea diversa e una cosa è fare della Commissione il proprio show, dando così vita a discorsi alquanto folcloristici. Infatti, Presidente, affermare - e leggo il resoconto della seduta della Commissione di giovedì 19 gennaio - che “tali atteggiamenti, quelli che hanno portato poi al testo base, sono conseguenza di un progetto globale, quasi una sorta di complotto finalizzato a destrutturare antropologicamente l’umanità, che si intende realizzare distruggendo economicamente il ceto medio e promuovendo droghe, aborto, eutanasia, sterilizzazioni di massa, libertà di gioco e prostituzione” - che dire?

Ovviamente, sì, i miei genitori mi hanno fatto nascere proprio per dare adito e far continuare questo progetto globale, hanno fatto un piccolo sbaglio cronologico, perché mi hanno fatto nascere otto anni dopo l’approvazione della proposta di legge sull’aborto, però - che dire? - nessuno è perfetto. Beh, Presidente, certi interventi avremmo potuto chiaramente risparmiarceli, ma evidentemente non era nella volontà di tutti farlo, purtroppo.

Ma torniamo ad argomenti seri, torniamo alla legge. Lo ripetiamo anche qui: alcune cose possono sicuramente essere migliorate ed alcune tolte, tra cui il riferimento alla deontologia professionale, ma avrò modo, discutendo degli emendamenti, di far capire perché affermo ciò. Ma a noi questa legge convince. Abbiamo votato l’adozione del testo base al termine del comitato ristretto, abbiamo votato il mandato al relatore al termine della votazione degli emendamenti in Commissione e siamo pronti e convinti a votarlo favorevolmente anche in Aula, se restano chiari e definiti determinati paletti: libertà di poter scegliere del proprio corpo, nutrizione e idratazione artificiali quali trattamento sanitario - e ripeto: nutrizione e idratazione “artificiale” quali trattamenti sanitari - vincolatività delle volontà del paziente. Questi i punti per noi principali.

Poi è ovvio, altre cose vorremmo modificarle e a nostro avviso migliorarle e ci proveremo con gli emendamenti in Aula, ma va data ai cittadini una legge degna di un Paese civile, che dia risposte e garanzie ed è per questo che ripetiamo che, se i paletti restano formulati così come lo sono nel testo - non parliamone poi se vengono anche migliorati - che approda in Aula, noi ci siamo e mi dispiace deludere alcuni deputati che non vedono l’ora di ripetere nuovamente: “Ecco la nuova maggioranza”! “Alleanza sottobanco PD-MoVimento 5 Stelle”, o ancora - questa mi è piaciuta particolarmente - la nuova sigla PDM5S, che in realtà vuol dire partito della morte a cinque stelle.

Mi dispiace deludere questi colleghi, ma il “noi ci siamo” non è un messaggio - non me ne voglia - per il PD, non è un messaggio politico, ma è un messaggio di responsabilità che rivolgo ai cittadini, a tutti quei cittadini che sono stanchi di aspettare che arrivi al Governo la giusta coalizione che sarà unanimemente d’accordo sui diritti, ed anche a tutti quei cittadini che sono stanchi di vedere cambiamenti di posizione dei loro rappresentanti politici solo perché seguono l’onda dei sondaggi.

Non è più il momento per perdere un’occasione di questa portata, quindi smettiamola di nasconderci tra linee di partito e voti segreti, ma soprattutto smettiamola di nasconderci dietro la religione. Non è la religione ad essere responsabile di questo ritardo tutto italiano, non è colpa della religione se le persone sono costrette a fare viaggi della morte altrove, non è colpa della religione se le persone che sanno che non potranno più poter scegliere del proprio corpo preferiscono direttamente non iniziare nessuna terapia. È colpa nostra, è colpa del fatto che utilizziamo la religione per campagna elettorale, facciamo della sfera privata per antonomasia un manifesto pubblico che a volte usiamo come arma e a volte come scudo, dimenticandoci che personalmente possiamo essere di qualunque religione, ma che lo Stato che rappresentiamo è uno Stato laico.

In più, Presidente, stamattina in vari telegiornali si è sentito un po’ di tutto e si fa molta confusione. Forse non ci siamo spiegati bene, ma cerco di utilizzare questi minuti che ho ancora a disposizione per chiarire alcuni punti, o comunque rispondere ad alcune domande. Ad esempio, una delle domande che viene più volte fatta ed è stata in parte anche oggi ripetuta è: può lo Stato regolamentare anche il fine vita? Il discorso è che, per la nostra posizione, la risposta è del tutto negativa: “no”, non può lo Stato regolamentare il fine vita ed è per questo che dobbiamo lasciare la libertà ai cittadini di scegliere del proprio corpo e di se stessi perché è proprio non facendo una legge che permetta ai cittadini di scegliere autonomamente della propria vita che si rischia di regolamentare il fine vita e di intrometterci anche nella parte finale della loro vita; perché non facendo una legge del genere, si costringe la persona o a rifiutare in anticipo le cure, qualunque tipo di cura, o ad essere costretta a mantenersi in uno stato di pseudo vita che non accetta più. Quindi no, lo Stato non si può prendere la briga di regolamentare il fine vita, deve scegliere la singola persona.

E, in più, per quanto concerne l’accelerazione sull’onda emotiva, penso che l’abbiamo più volte chiarita e, se lo dicono i media, sono, a mio avviso caduti in confusione, ma se lo dice qualche deputato che siamo andati sull’onda emotiva, ebbene o non ha partecipato ai lavori di Commissione, o vuole approfittare e creare ancora più confusione in chi purtroppo non può seguire giorno per giorno i nostri lavori.

Mi dispiace molto sentire soprattutto i medici o comunque persone che dichiarano che con questa legge il medico diventa un mero esecutore, perché in realtà – e su questo devo dare adito al presidente Marazziti - l’articolo 4 l’abbiamo fatto proprio per evitare che il medico venga visto in tale modo; anzi, il medico assume un’importanza che in nessuna legge gli viene data, come in quella che stiamo facendo adesso. C’è una pianificazione condivisa delle cure: il medico non è colui che è in contrapposizione al paziente, ma è colui che lo affianca, che lo informa e l’aiuta a superare - e comunque a fronteggiare - un momento delicatissimo della vita del malato ed è una cosa diversa dalle DAT, eppure qui andarle a confondere non è un atto molto intelligente.

E, poi, l’abbandono terapeutico: tutti dicono che si abbandona il paziente, nel momento in cui il paziente decide di non voler continuare le cure, o di volerle interrompere. L’abbiamo chiaramente disciplinato, all’articolo 1, comma 6, quando diciamo che “Il rifiuto del trattamento sanitario indicato dal medico o la rinuncia al medesimo non possono comportare l’abbandono terapeutico. Sono quindi sempre assicurati il coinvolgimento del medico di famiglia e l’erogazione delle cure palliative, di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38”.

In più, Presidente, nutrizione e alimentazione artificiale: è, secondo me, di cattiva fede sentir dire ogni volta che stiamo parlando di acqua e cibo, perché non stiamo parlando di quello: nutrizione e alimentazione artificiali vengono date per prescrizione medica e spesso sono preparati medici.

In più, non mettiamoci solo dalla parte del medico. Io capisco che in questa proposta di legge è importante ogni volta iniziare la discussione dicendo: “E lo dico da medico e lo affermo da medico”, ma incominciamo a metterci un attimo dalla parte del paziente che è un po’ la ratio che abbiamo cercato di mantenere nel dibattito in Commissione. Andiamo a chiederlo al paziente che ha avuto la PEG, come ha detto giustamente la collega Amato prima, che nel gergo è il buco allo stomaco, oppure che continua ad essere alimentato artificialmente attraverso un sondino, se considera tali trattamenti come trattamenti sanitari o meno, se li considera come se stesse andando a sedersi a tavola a mangiare la pasta al sugo o se, invece, li vede come un trattamento sanitario a tutti gli effetti e che spesso, Presidente, non solo può essere rischioso ma comporta comunque nella quotidianità determinati effetti collaterali che il paziente considera come trattamenti sanitari.

E, poi, concordo con quanto affermato dalla relatrice Lenzi all’inizio: in ogni caso, il dettato costituzionale ci permette e ci dà il diritto di rifiutare anche tali trattamenti, indipendentemente da come vogliono essere dichiarati e classificati.

Infine, Presidente, per noi è un punto importante la sedazione continua palliativa profonda. Su questo c’è stato molto dibattito. Chiariamo: non si parla di eutanasia. Non si parla di eutanasia, così come non se ne parla in tutto il testo della proposta di legge. Comunque, per sedazione palliativa profonda continua si intende la somministrazione di farmaci che riducono, fino ad annullarla, la coscienza del paziente, allo scopo di alleviare il dolore e il sintomo fisico o psichico refrattario e intollerabile per il paziente. La sedazione profonda non è un trattamento che abbrevia la vita. Infatti, dalla letteratura medica risulta che la durata media della sopravvivenza dei pazienti sedati in fase terminale non differisce da quella dei pazienti non sedati e, in uno studio del 2003, è risultato che i pazienti sedati per un periodo superiore alla settimana prima del decesso, in condizioni di tranquillità e posti da un punto di vista fisiologico in una condizione di maggiore stabilità, sono sopravvissuti più a lungo rispetto a quelli non sedati. È stata pubblicata sulla Cochrane Review in tema di sedazione profonda palliativa una revisione sistematica che conferma che i pazienti così sedati non hanno una sopravvivenza minore rispetto ai pazienti non sedati e la stessa Pontificia accademia per la vita, già precedentemente richiamata, con una dichiarazione del 9 dicembre 2000 ha distinto tra procurare la morte e permettere la morte. La tutela della vita e della dignità umana impongono il rifiuto dell’accanimento terapeutico e, nell’imminenza della morte, l’autorità ecclesiastica afferma la liceità della decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita.

Presidente, su questo punto c’è stato un grande dibattito anche perché, pur se nella stessa direzione, c’è chi afferma che è superfluo ripeterlo perché è già nella legge n. 38 del 2010, che appunto ne parla, e chi invece, come noi, pensa che, visto che nella legge del 2010 sulle cure palliative non c’è un riferimento esplicito, sarebbe meglio poterlo esplicitare in questo provvedimento, perché si permette così al paziente un’esigibilità del diritto che, altrimenti, non è permessa; e, così, bisogna stare al buonsenso del medico che si trova e, a questo punto, non sono convinta che possa sempre rispettare la volontà e la direzione che si sta prendendo.

Infine, Presidente, concludo affermando che oggi in una trasmissione televisiva ho ascoltato un medico che affermava che è giusto rispettare le volontà del paziente anche quando questi, purtroppo, non è più capace d’intendere e di volere ma se, ad esempio, questo paziente all’improvviso non è più capace d’intendere e di volere e prima aveva richiesto di non essere sottoposto in alcun modo ad alcun trattamento sanitario e poi il medico si ritrova a doverlo lasciare andare davanti ai parenti, questo non è rispettoso nei confronti dei parenti. Quindi, la conclusione è che bisogna rispettare i parenti, bisogna rispettare la volontà del medico, bisogna rispettare la scienza, bisogna rispettare la religione, bisogna rispettare tutti ma non la volontà del paziente. Quindi, questa per noi è una posizione inaccettabile, Presidente, ma penso che lo sia per tutti, in realtà, anche se ogni tanto qualcuno la vuole mascherare per una campagna elettorale prossima. Tuttavia, il nostro compito è quello di rispettare finalmente la volontà del malato e far capire che il Parlamento è finalmente pronto a prendersi questa responsabilità (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Scopelliti. Ne ha facoltà.

ROSANNA SCOPELLITI. Grazie, Presidente. Colleghi, l’importanza e la delicatezza del tema che stiamo trattando oggi e su cui veramente in punta di piedi mi accingo a discutere credo non abbia uguali e riempie ciascuno di noi di responsabilità di cui dovremmo sempre avere il coraggio di rispondere ai cittadini e alle nostre coscienze.

Per questo l’argomento di cui stiamo ragionando non va affrontato con superficialità o sull’onda emotiva che fatti di cronaca recente e meno recente hanno suscitato. Poter legiferare, ascoltando esclusivamente il proprio cuore sarebbe bellissimo, ma il nostro dovere è lavorare, cercando di mantenere quel distacco emotivo capace di renderci lucidi, pur salvaguardando la nostra umanità. Il nostro compito qui oggi non è discutere e approvare un testo di legge pieno di numeri o tecnicismi, come spesso capita; noi oggi stiamo ragionando su un testo che tocca ciò che di più caro abbiamo, la vita, ed è compito di ciascuno rispettare le sensibilità di ognuno, comprenderle, farle proprie e, una volta capiti davvero i diversi punti di vista, trovare insieme - e mi permetto di ripetere: insieme - una linea comune che non offenda nessuna sensibilità, soprattutto quelle che sentiamo più distanti dal nostro modo di essere. Questo è il dovere del legislatore e questo è il dovere del Parlamento.

Su temi così importanti personalmente mi rifiuto di inseguire facili consensi o di farmi influenzare da scelte che siano di per sé radicali, estreme o dettate da preconcetti. Preferisco ascoltare le diverse testimonianze, studiare, concentrarmi sui testi in esame con empatica umanità, perché - e lo ricordo soprattutto a me stessa - stiamo discutendo di un testo di legge che incide e determina la vita e la morte. L’unica certezza che noi oggi abbiamo e che sento davvero mia è che di questa legge c’è bisogno e che su questa sia necessaria una massima condivisione. Ad essere al centro del nostro dibattito sono i malati, i più fragili, persone che non hanno più voce e che soffrono e che lo Stato deve rispettare, tutelandone la dignità e mettendoli in condizione di poter scegliere del proprio destino. Su questo oggi dobbiamo discutere laicamente, attenendoci al testo che abbiamo sottomano e per questo va detto, con chiarezza, che la volontà dell’individuo è centrale e la scelta di rinunciare a terapie di qualsiasi natura non può essere, però, l’unico elemento al quale vincolare l’affermazione della disponibilità indiscussa della propria vita. Chi si trova nella condizione di cui trattiamo ha il diritto di affrontare liberamente le conseguenze del male che lo ha colpito, accettando il naturale corso degli avvenimenti. Possiamo non condividere, ma lo Stato ha il dovere di tutelare la volontà dei malati.

Più complesso - e vedo che anche oggi ha fatto discutere - è il tema relativo all’interruzione delle pratiche di nutrizione e idratazione. Idratare ed alimentare il malato costituisce un elemento di assistenza basilare, naturale e difficilmente confutabile, a patto, però, che esso non sia veicolo di trattamenti che vanno contro le volontà espresse dal paziente. Peraltro, in una nuova carta degli operatori sanitari, presentata in Vaticano lo scorso 6 febbraio, si enuncia che la sospensione di nutrizione e idratazione non giustificata è obbligatoria nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare idratazione e nutrimento al paziente. Riguardo alle espressioni in anticipo da parte del paziente delle sue volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o no essere sottoposto, nel caso in cui nel decorso della sua malattia o a causa di traumi improvvisi non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso, la carta afferma che deve essere sempre rispettata la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente. Ma il medico non è comunque un esecutore, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi dalla propria coscienza. Tutto questo, onestamente, non mi pare fuori dal mondo e, nell’ottica di rispetto reciproco, non si può prescindere dal rispetto delle singole coscienze. Riflettiamoci, colleghi, e io lo dico veramente con umiltà: io non lo so, ma siamo sicuri che equiparare idratazione e nutrizione agli altri trattamenti sanitari sia eticamente corretto? Io ho dei dubbi. Mi conforta quello che è emerso dal dibattito e mi confortano le certezze di alcuni di voi; ma siamo sicuri che non siano solo di facciata? Anche qui, però, resta fondamentale la scelta del paziente.

Penso che ciò che deve prevalere nel testo debba essere la salvaguardia della dignità umana, dell’autodeterminazione dell’individuo, del rispetto della professione del medico e della deontologia che la regola. La Carta costituzionale, la Carta europea dei diritti, convenzioni internazionali, non ultima quella di Oviedo, sostengono e difendono la dignità dell’uomo. Le nostre convinzioni, le nostre ideologie e i nostri credo debbono confrontarsi con una legislazione che segue tali linee, le loro stesse indicazioni. Per questo motivo e nella missione di approvare una legge il più possibile condivisa e che tenga conto delle diverse sensibilità, il gruppo di Area Popolare, analogamente a quanto ha poc’anzi illustrato il collega Calabrò, richiede che siano tenuti in considerazione e discussi con attenzione e scevri da preconcetti ed estremismi di sorta alcuni punti importanti: definire che idratazione e nutrizione non vengano sospesi, salvo che svolgano funzioni di veicolo di terapie necessarie alla cura della patologia specifica, il rafforzamento della figura del medico e l’inizio dell’efficacia delle DAT, e attenzione, su questo si chiede semplicemente una più specifica regolamentazione. Ed è proprio su questo, su questa apertura e su questa volontà ancora di dialogare, per poter veramente raggiungere un testo che tenga presente le sensibilità di ognuno e che abbia, però, come figura centrale quella del malato, quella del paziente, che io ho apprezzato e mi fa ben sperare, per un confronto davvero franco in quest’Aula, la disponibilità della relatrice ad aprire una nuova e proficua fase di discussione.

Non affrettiamoci troppo, non perdiamo tempo, questo assolutamente no, perché fuori i cittadini ci stanno aspettando già da parecchio tempo, però cerchiamo veramente di metterci ognuno una mano sulla coscienza e diamo a questo Paese una legge che sia veramente importante e condivisa (Applausi dei deputati del gruppo Area Popolare-NCD-Centristi per l’Europa).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Stella Bianchi. Ne ha facoltà.

STELLA BIANCHI. Grazie, Presidente. Non si fanno le leggi sull’onda dell’emozione, è risuonato molte volte in quest’Aula e io sono perfettamente d’accordo, e non si fanno le leggi su un singolo caso specifico. Le leggi si fanno con la testa e con il cuore, ci diceva la relatrice Lenzi; le leggi si fanno ascoltando e provando a mettersi nei panni degli altri. È sempre difficile farlo, in qualche caso è particolarmente difficile farlo. Mettersi nei panni di un uomo malato di SLA, che è perfettamente vigile, solo che è completamente immobilizzato nel suo corpo, che è diventato ormai uno scafandro, e comunica con l’esterno solo perché gli rimane un occhio del quale riesce a battere le palpebre, e con quello, con un sintetizzatore, riesce a parlare, mettersi nei panni di Max Fanelli è particolarmente difficile, ed era molto difficile ascoltarlo mentre parlava in quel modo, come mettersi nei panni di Piergiorgio Welby. E vorrei usare le parole di Piergiorgio Welby, nella lettera aperta che ha scritto al Presidente della Repubblica Napolitano nel 2006.

Welby scriveva al Presidente: io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso; morire mi fa orrore. Purtroppo, ciò che mi è rimasto non è più vita; è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio. O ancora, mettersi nei panni di Fabiano Antoniani, lo abbiamo conosciuto tutti in questi giorni come Dj Fabo, ragazzo di quarant’anni - un ragazzo si dice, in questi tempi, di un quarantenne -, reso cieco e tetraplegico da un incidente.

Io ho solo sentito per radio un filo di voce che gli usciva in modo davvero stentato, e chissà quanta fatica faceva per far uscire quel filo di voce. Allora, noi facciamo le leggi, provando a metterci nei panni delle persone per le quali facciamo le leggi, e sono questi i panni. Noi non stiamo esaminando una legge sull’eutanasia, l’eutanasia non c’entra nulla con questa legge; stiamo esaminando una legge sul consenso informato, sulle disposizioni anticipate di trattamento, sulla pianificazione delle cure. È un progetto di legge importante, che è frutto di una mediazione importante, che abbiamo grazie al lavoro attento e a un dibattito ampio che si è svolto nella Commissione affari sociali e per il quale penso dobbiamo ringraziare tutti i componenti del Comitato ristretto, prima, della Commissione tutta, dopo, e, in particolare, il presidente della Commissione e, ancora più in particolare, la relatrice Donata Lenzi, che davvero ha avuto un ruolo di straordinario equilibrio e ascolto.

È una legge che è resa necessaria dai progressi della medicina, dalle possibilità crescenti, ed è un bene, naturalmente, che siano crescenti, ma dalle possibilità crescenti di mantenere funzioni vitali e attive nel nostro corpo con ogni tecnica, inclusa l’idratazione e nutrizione artificiale, e davvero, Presidente, faceva sorridere quel collega che le definiva come momenti di socialità e condivisione, la nutrizione e l’idratazione artificiale. Davvero, non rendersi conto di che cosa si sta parlando!

Questi progressi della medicina, dei quali siamo tutti orgogliosi, rendono sempre più urgente dare riconoscimento ad un diritto fondamentale, consentire l’esercizio di un diritto fondamentale, che è il diritto al proprio corpo, il diritto ad autodeterminarsi, il diritto a scegliere liberamente, con la propria personale valutazione, su cosa è sopportabile, su qual è il mio livello di sopportazione al dolore, su dove è la soglia della dignità personale che io voglio vedere rispettata, quando so che non c’è nessuna speranza di guarigione, senza imporre nulla a nessuno. A nessuno sarà imposta una decisione, neppure se presentare o meno una disposizione anticipata di trattamento. A nessuno sarà imposto nulla, e c’è un compito fondamentale per lo Stato, per il legislatore, e non è decidere per qualcuno, ma è esattamente questo: riconoscere un diritto, consentire l’esercizio di un diritto, cioè esattamente dare al Paese una legge come quella che stiamo esaminando da oggi nell’Aula della Camera.

Usciamo, Presidente, finalmente da quello che il Presidente Napolitano aveva scritto in risposta alla lettera aperta a Piergiorgio Welby nel 2006: il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento. E lo abbiamo fatto con un dibattito attento, lo faremo ancora con la massima attenzione e con la massima umiltà; e lo faremo garantendo ad ognuno un diritto al consenso informato, il diritto a decidere del proprio corpo quando non c’è possibilità di guarigione, riconoscendolo alla luce del sole, come ostinatamente ha voluto Beppino Englaro per sua figlia Eluana. Ed ecco perché, Presidente, è così importante la legge che stiamo esaminando, perché si tratta di riconoscere un diritto fondamentale, di farlo alla luce del sole, senza imporre nulla a nessuno. Ed è il diritto al proprio corpo, all’autodeterminazione, alla possibilità di scegliere quando la propria vita è ancora dignitosa, se non c’è più possibilità di guarigione (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Burtone. Ne ha facoltà.

GIOVANNI MARIO SALVINO BURTONE. Presidente, arriva in Aula un provvedimento che in Commissione è stato ampiamente dibattuto. Ci sono stati anche momenti duri nel confronto, siamo andati avanti e stasera continua questo dialogo. L’auspicio, che facciamo come Partito Democratico, è che si voti alla Camera questa legge, che poi vada al Senato, dove continui il dibattito, ma che si arrivi a definire una legge. Una legge tanto attesa nell’opinione pubblica, una legge che eviterà le decisioni della magistratura, una legge che eviterà che nel fine vita si vada avanti soltanto per azioni caritatevoli, conosciute non soltanto nelle strutture sanitarie. Noi abbiamo lavorato in Commissione con spirito d’apertura, e per questo non abbiamo fatto prevalere uno dei due diritti, il diritto alla vita sul diritto all’autodeterminazione. C’è stato un equilibrio, che ha dato la possibilità di definire una legge dal diritto lieve, non infiltrante nella parte finale della vita.

E, per fare questo, abbiamo tentato di armonizzare la norma partendo dal primo pilastro, il consenso informato; non più uno step burocratico, la possibilità di dare il consenso o meno ad un esame strumentale invasivo, ma l’avvio di un percorso terapeutico, di un percorso di cura. Al medico è affidata, quando avvia l’analisi anamnestica dell’ammalato, la funzione di comunicare qual è la malattia, quali possono essere le evoluzioni, quali terapie vengono indicate; e, costituzionalmente, al paziente spetta la possibilità di decidere di accettare alcune terapie o meno.

Il secondo pilastro è determinato dalla disposizione anticipata di trattamento, che noi abbiamo voluto strettamente legato al primo, perché la DAT non è altro che una definizione di consenso informato quando si è nella capacità di intendere e di volere, da utilizzare quando non ci sono queste condizioni. Tutto ciò è affidato ad un fiduciario, una persona di fiducia. Si deve avere rispetto di coloro i quali vogliono poter definire un impegno, un consenso per il futuro. È un atto emotivamente forte quello di chiedere questo, perché probabilmente si conosce la prognosi della propria malattia, l’evoluzione, e si hanno esempi di vita che toccano profondamente. Quindi la legge va avanti tenendo conto di tutto ciò, e per noi la DAT è impegnativa. Noi non facciamo un atto di ipocrisia: nel momento in cui si va verso la legge, deve essere piena, deve essere nelle condizioni di dare risposte alle comunità che la richiedono.

Certo, qualcuno avanza delle perplessità, noi le rispettiamo; però nella disposizione anticipata di trattamento noi riteniamo che si debbano comprendere tutte le decisioni che il cittadino prende quando è capace di intendere e di volere: quindi compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiale. È stato detto: non abbiamo da dare cibo e acqua, ma prodotti che vengono forniti dall’industria farmaceutica, che vengono somministrati dietro prescrizione medica, con cautela, con un dosaggio che deve essere particolarmente controllato; e sappiamo tutti che attuare questa terapia significa invadere, a volte in maniera significativa, sul corpo, e quindi ci dev’essere una disponibilità di chi deve ricevere questa cura.

Vado verso due considerazioni finali. Una prima: non c’è dubbio, la scienza, la medicina hanno fatto tanti passi in avanti; oggi attraverso alcune terapie, ma anche l’utilizzazione di strumentazione biomedicale, è possibile allungare questa fase di trapasso finale dalla vita alla morte. Ora, ci sono tanti cittadini che chiedono al sistema sanitario di avere l’opportunità di poter utilizzare alcune terapie mediche, strumentali, anche strumenti biomedicali invasivi, e vanno rispettati, vanno aiutati. Però ci sono cittadini che questo non vogliono, che sentono una sofferenza ad avere queste macchine, e chiedono di non utilizzarle quando sono in condizioni di intendere e di volere, e lo possono esprimere, ma anche quando, scrivendolo, non saranno più in queste condizioni. Questi non saranno abbandonati, perché c’è il terzo pilastro della legge, che stabilisce che vanno seguiti anche quando rifiutano l’intervento delle terapie, con, è stato detto, le cure palliative, ma anche con altre terapie per gli opportuni interventi predisposti secondo linee guida di alcune attività scientifiche. È questa la cosa che noi riteniamo di voler sottolineare!

E concludo dicendo che non c’è una sola norma che fa pensare a pratiche eutanasiche. Nessuna norma che dice che si può determinare la morte, nessuna norma per l’eutanasia; ma ci sono alcune norme che abbiamo voluto comporre con umiltà, cercando di porre alcune norme che dovranno permettere di morire con dignità (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Miotto. Ne ha facoltà.

ANNA MARGHERITA MIOTTO. Presidente, stiamo discutendo di uno fra i temi più delicati di cui un’Aula parlamentare si possa e si debba occupare. Siamo consapevoli che attorno al tema del fine vita e della libertà di accettare o rifiutare un trattamento sanitario si intrecciano visioni religiose, etiche, filosofiche contraddistinte da mille sfumature, talvolta radicalmente diverse.

Inoltre i profili giuridici, le condizioni di contesto di natura tecnico-scientifica in cui si è sviluppata in questi anni la richiesta di un intervento legislativo, appaiono dense di una complessità che suggerisce la necessità, oltre che l’opportunità, di affrontare queste questioni all’insegna del diritto mite, come è stato già detto dai miei colleghi. In particolare, la forza dell’innovazione scientifica e tecnologica, che ha creato uno spazio nuovo di vita artificiale, che ha scomodato i giuristi, ma interpella la coscienza delle persone.

In questa complessità, siamo chiamati a prendere decisioni facendo lo sforzo di evitare il facile rischio di normare su singoli casi, subendo l’influenza di specifici fatti di cronaca e del carico emotivo che essi determinano nell’opinione pubblica. Né facciamo un buon servizio al Paese se utilizziamo categorie standardizzate a priori, se elenchiamo situazioni specifiche da prendere in considerazione, una varia casistica, condizioni patologiche particolari. Dobbiamo bensì fermarci sulla soglia di una regola che rispetti l’identità e la libertà di ciascuno, indicando gli strumenti affinché si possa esprimere.

È la scelta che compie il testo che la collega Lenzi ci ha presentato qui oggi, all’insegna del diritto mite, suggerito da molti esperti che ci hanno dato utili suggerimenti in fase di audizione, ma che contraddistingue anche alcune proposte di legge fra le numerose presentate (modestamente anche la mia), che raccoglie in larga parte l’esperienza tedesca, che ha avuto il pregio di ridurre al minimo le distanze fra visioni etiche altrove molto distanti.

Facciamo una scelta che rispetta il bilanciamento fra la volontà della persona e la responsabilità del medico, che - ricordiamo - si ispira nella sua azione al principio primum non nocere. Del resto, è l’impianto costituzionale che si fonda sull’equilibrio fra il rispetto dell’autonomia e della volontà del singolo e le esigenze della società, ferma restando la preoccupazione di porre il corpo della persona al riparo da interferenze esterne. È l’equilibrio fra il diritto sociale ad essere curati (articolo 32) e la libertà di rifiutare le cure o interrompere le cure intraprese. Preferisco valorizzare il dato dell’equilibrio invece che il termine “mediazione”: anch’essa nobile arte in politica, sia chiaro, ma in questa circostanza io ritengo che il lavoro sin qui compiuto abbia avuto il merito anche di far convergere culture diverse, ma non solo: soprattutto di mettere al centro dell’attenzione la persona e il principio di uguaglianza.

La volontà della persona si esprime nel consenso informato, allorché condivide il piano condiviso delle cure, oppure quando affida la sua volontà alla disposizione anticipata di trattamento, sulla base delle sue personali convinzioni, certamente, nell’eventualità che non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso. La disposizione anticipata di trattamento, in verità, potrebbe essere vista come una modalità per evitare che la perdita di coscienza determini anche la perdita di un diritto fondamentale della persona. Teniamolo ben presente: nulla si può fare senza il consenso della persona malata.

A questo proposito, i richiami fatti qui da alcuni colleghi su presunti cedimenti ad un approccio ideologico francamente sconcertano e temo che nascondano, forse, un interesse di posizionamento politico che non giova alla discussione che dobbiamo affrontare, anche con eventuali chiarimenti ulteriori da apportare al testo in quest’Aula. Spero di sbagliarmi, naturalmente, in questa mia prima interpretazione di alcune delle critiche che, con particolare enfasi, sono emerse oggi; anche perché devo dire che questi stessi colleghi, quando hanno avuto responsabilità di maggioranza (e c’erano) o di Governo (e c’erano), ben si sono guardati da avanzare proposte di modifica della legge n. 194 del 1978, per esempio, oggi così aspramente criticata.

Dicevo che l’attenzione della relatrice evidenzia l’ancoraggio costituzionale del testo, ma, allo stesso tempo, tende a farsi carico dell’evoluzione giurisprudenziale intervenuta, nonché delle nuove istanze indotte dei mutamenti sociali, in particolare dalla tendenza, che reputo giustissima, di non soffrire più, di non morire tra sofferenze e dolori, peraltro inutili e perciò da evitare.

C’è da chiedersi se abbiamo fatto tutto il possibile per far sapere che esiste la legge n. 38 del 2010, che il Parlamento approvò in una fase in cui il tema era stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica in coincidenza con i drammatici fatti che hanno seguito la vicenda Englaro e che, grazie all’ostinazione della capogruppo del PD in XII Commissione, l’onorevole Turco, e del gruppo intero, è stata portata in Aula e ha ottenuto il via libera del Parlamento prima di affrontare il testo che il collega Calabrò aveva presentato, che peraltro poi non è stato approvato.

Quanto incide la solitudine di fronte a una diagnosi infausta? Quanto incide la preoccupazione di pesare con carichi assistenziali eccessivi sui propri cari? Quanto incide il timore umanissimo di sofferenze fisiche che appaiono insopportabili, vissute già nel contesto familiare o amicale? Quanto influisce tutto ciò nella decisione, talora disperata, di farla finita? Queste situazioni ci interpellano sull’effettiva applicazione della legge n. 38 sulle cure palliative e le terapie contro il dolore ed è necessario e indispensabile non far mancare mai - mai! - la necessaria assistenza prevista da una norma ritenuta da tutti come una delle migliori esistenti.

Ma, accanto a queste circostanze, sappiamo che ci sono altre situazioni che ci interpellano: coloro che pensano giusta per sé la fine naturale della vita e rifiutano un prolungamento artificiale. Si può imporre un trattamento sanitario che la persona ritiene lesivo della propria dignità sulla base delle sue convinzioni etiche? No, certamente. In tal caso, c’è la consapevolezza che la sospensione del trattamento sanitario lasci spazio al decorso della malattia e sopraggiunga la morte come un evento naturale. È questo il diritto a morire? No.

Dobbiamo essere chiari: questo sì, se venisse sancito, implicherebbe la legalizzazione dell’aiuto al suicidio o dell’omicidio del consenziente, due fattispecie che definiscono l’eutanasia, ma questa legge non consente ciò. È, invece, una legge che permette di lasciarsi morire e questo è un diritto.

La discussione, che in queste settimane e anche in quest’Aula oggi è stata contraddistinta da alcune preoccupazioni che il dibattito parlamentare spero aiuterà a capire, si è concentrata sul rischio di una possibile deriva eutanasica. L’ha detto già il collega Burtone: non è così. Con la DAT, con il consenso informato, con la pianificazione delle cure, la persona compie una scelta, talvolta proiettata anche nel futuro, fondata sul diritto di accettare o rifiutare un trattamento sanitario. È una persona consapevole, che sa che il suo rifiuto può quasi certamente mettere a rischio la sua sopravvivenza.

Con l’eutanasia, invece, una persona chiede che un terzo, normalmente un medico, somministri una sostanza letale che provoca la morte. Somministrare un farmaco che provoca la morte, colleghi, lo sappiamo, non è un trattamento sanitario. In tal caso, la morte è ascrivibile alla somministrazione del farmaco, non alla scelta di rinunciare a un trattamento sanitario.

C’è una seconda questione quasi premissiva che viene avanzata, che riguarda la necessità o meno di una legge. L’argomento ha un suo rilievo, perché la Convenzione di Oviedo e la nostra Carta costituzionale definiscono già i profili per attribuire validità al consenso informato e alle DAT, ma la giurisprudenza variegata, perché indotta da singoli casi, ci chiama alla responsabilità, invece, di una scelta normativa che indichi i cardini essenziali della disciplina sul consenso, sulle DAT e sulla pianificazione che valga per tutti.

Peraltro, un recente documento - che è già stato citato - del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari, che ha divulgato la nuova Carta degli operatori sanitari, a differenza del precedente, afferma, a proposito del morire con dignità e della rinuncia ai trattamenti sanitari, che ciò può voler dire il rispetto della volontà del morente.

PRESIDENTE. Concluda, onorevole.

ANNA MARGHERITA MIOTTO. Evito tutta la citazione, che non faccio e che consegno agli atti. C’è una citazione che, peraltro, si completa con il morire in dignità, perché ho sentito richiami, secondo me preoccupanti, anche da questo punto di vista, che vengono citati nel testo.

Vi debbo dire che con pudore cito questi testi, perché per i credenti dovrebbero ispirare la propria azione politica, non dettare i nostri emendamenti. Dovrebbero lasciare alla responsabilità di ciascuno di noi il dovere del confronto con chi si muove da visioni della vita diverse, orientamenti filosofici diversi, con approccio laico, che impone, in una società pluralista, e come ci guida l’impianto costituzionale, a trovare una sintesi alta, se possibile, se rinunciamo a sventolare bandiere di natura, ahimè, propagandistica. Ma questa è l’ambizione che dobbiamo sentire, perché su questi temi dobbiamo andare anche oltre i nostri schieramenti di partito (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico eArticolo 1-Movimento Democratico e Progressista).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - A.C. 1142-A ed abbinate)

PRESIDENTE. Non vedo in Aula l’onorevole Lenzi, così come l’onorevole Calabrò: presumo che i relatori non intendano replicare. Prendo atto che la rappresentante del Governo non intende replicare.

Colleghi, prima di proseguire, vorrei semplicemente condividere con voi questo rilievo: stanno girando sul web e anche su siti di autorevoli testate dei video che mostrano l’Aula non piena di deputati, essendo ovviamente in sede di una discussione sulle linee generali. Questa è una cosa che si verifica sempre. Noi abbiamo sempre spiegato che le discussioni sulle linee generali coinvolgono, oltre al Governo e i membri della Commissione, coloro che sono direttamente chiamati ad intervenire; poi ci sono delle fasi successive del procedimento legislativo, come l’esame del complesso degli emendamenti, l’esame di questioni pregiudiziali e sospensive, nelle quali ovviamente c’è un coinvolgimento dell’Aula.

Vorrei però dire, sottolineare e condividere con voi che comunque nella giornata di oggi ci sono stati venti colleghi, tra cui ovviamente il rappresentante del Governo e i relatori, che sono intervenuti in un dibattito che è durato quasi quattro ore. Al netto del lungo lavoro che è stato fatto in Commissione e, per quanto mi riguarda - ma ovviamente è una valutazione di carattere personale e che faccio semplicemente per consegnarla alla nostra consapevolezza -, al di là dell’assoluta libertà di stampa e anche di cronaca parlamentare, forse oggi il dibattito, anche giornalistico, avrebbe meritato di concentrarsi di più sulla qualità di quello che è stato discusso qui dentro, al di là del contorno, delle forme, del fatto che fossimo parecchi o meno (Applausi). Penso che una traduzione esclusivamente numerica delle presenze in Aula non renda premio alla qualità di un dibattito civile che si è svolto in quest’Aula, nella quale si sono confrontate posizioni diverse, che peraltro si sono già manifestate in Commissione e che sono anche all’origine del fatto che c’è stato una travaglio politico-parlamentare. Penso che una volta tanto forse si poteva cogliere di questo dibattito il valore di una discussione che probabilmente il Paese aspetta e che, con tutte le difficoltà che nascono dalle divergenze politiche, ha trovato una sintesi almeno nella discussione sulle linee generali che abbiamo realizzato.

(Annunzio di questioni pregiudiziali e sospensive - A.C. 1142-A ed abbinate)

PRESIDENTE. Avverto che, a norma dell’articolo 40, comma 1, del Regolamento, prima dell’inizio della discussione sulle linee generali, sono state presentate le questioni pregiudiziali di costituzionalità Calabrò ed altri n. 1 e Pagano ed altri n. 2, e le questioni sospensive Gigli ed altri n. 1, Fedriga ed altri n. 2 e Pagano n. 3. È stata altresì presentata, nel corso della discussione generale, la questione sospensiva Rampelli ed altri n. 4.

Le questioni pregiudiziali di costituzionalità e le questioni sospensive saranno esaminate e poste in votazione prima di passare all’esame degli articoli del provvedimento.

Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della mozione Dell'Aringa ed altri n. 1-01319 concernente iniziative in materia di politiche attive del lavoro, con particolare riferimento al potenziamento dei centri per l'impiego (ore 16,50).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Dell'Aringa ed altri n. 1-01319 (Nuova formulazione) concernente iniziative in materia di politiche attive del lavoro, con particolare riferimento al potenziamento dei centri per l'impiego (Vedi l'allegato A).

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione della mozione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell’Assemblea (Vedi calendario).

Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Cominardi ed altri n. 1-01533, Palese ed altri n. 1-01534, Sberna ed altri n. 1-01535 e Placido ed altri n. 1-01538, che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all’ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione (Vedi l’allegato A).

Avverto, inoltre, che la mozione Dell’Aringa ed altri n. 1-01319 (Nuova formulazione) è stata sottoscritta anche dal deputato Palladino, che, con il consenso degli altri presentatori, ne diventa il secondo firmatario.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.

È iscritta a parlare l’onorevole Venittelli, che illustrerà anche la mozione n. 1-01319 (Nuova formulazione), di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

LAURA VENITTELLI. Grazie, signor Presidente. Signor Presidente, pregiatissime colleghe, pregiatissimi colleghi, rappresentanti del Governo, com’è noto tra gli obiettivi strategici della nuova riforma del mercato del lavoro previsti dalla legge n. 183 del 2014, riforma che è nata con l’obiettivo di rilanciare l’economia produttiva e i livelli occupazionali del Paese, vi è il potenziamento delle politiche attive del lavoro, politiche che in Italia non hanno mai rappresentato un elemento fondante dei provvedimenti dei vari Governi, ragion per cui oggi abbiamo l’esigenza di rafforzare questo tipo di scelta fatta dal Governo Renzi con il cosiddetto Jobs Act. Per tale ultima ragione, anche alla luce della necessità di coordinare le politiche attive svolte nelle varie regioni, è stata istituita l’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, con una funzione di cabina di regia su tutto il territorio nazionale della rete dei servizi e dei soggetti pubblici e privati operanti nell’area delle politiche attive, che comunque sono rimasti nel quadro di una competenza concorrente tra Stato e regioni dopo il no al referendum del 4 dicembre.

Tale referendum, se avesse ottenuto un risultato diverso, avrebbe consentito, con l’approvazione della riforma, il trasferimento allo Stato della competenza esclusiva in materia e all’Agenzia nazionale per le politiche attive di poter gestire direttamente i centri per l’impiego. Il quadro con il no al referendum è cambiato, ma non per questo l’Agenzia ha perso la sua mission di coordinare le politiche attive nelle varie regioni al fine di ottenere uno standard uniforme di gestione delle attività dei numerosi centri per l’impiego. Ciò che va decisamente evitato è infatti che le politiche attive siano confinate, come è stato fino ad oggi, all’interno del recinto dell’intervento di ognuno dei circa 500 centri per l’impiego nazionali con le disparità sino ad oggi conosciute per la gestione dei centri del nord e la gestione dei centri del sud e con la frammentazione dei tanti sistemi regionali.

Il dopo referendum ha riproposto con maggior vigore anche il problema del futuro dei quasi 7.000 dipendenti degli oltre 500 centri per l’impiego pubblici sia per la fase di transizione conseguente allo svuotamento delle province previsto dalla legge Delrio destinati ora a rimanere in capo alle regioni, sia per l’auspicata standardizzazione degli interventi per ricollocare i disoccupati, standardizzazione che abbisogna della presenza nelle varie strutture territoriali dei centri per l’impiego di personale stabile e qualificato.

L’Italia oggi, in attesa dell’emanazione dei decreti attuativi della riforma nel mercato del lavoro nello specifico delle politiche attive, mostra ancora criticità per i servizi pubblici per chi è in cerca di occupazione. Le politiche attive cioè gli interventi per favorire il reinserimento di disoccupati nel mercato del lavoro sono cruciali per fare incontrare domanda ed offerta. Quanto l’Italia sia indietro in questo campo lo dimostrano gli ultimi dati ISTAT, stando ai quali, l’83 per cento dei richiedenti non si rivolge ai canali ufficiali, mentre meno del 4 per cento dei nuovi occupati si è rivolto al collocamento pubblico.

A ciò si aggiunge che le nuove disposizioni contenute nel Jobs Act (il proseguimento del programma Garanzia giovani, l’assegno di ricollocazione nonché le nuove misure nazionali e regionali a supporto delle fasce deboli) possono far correre il rischio non solo di aumentare il già elevato numero degli utenti presi in carico dai servizi per l’impiego, ma soprattutto la disparità e frammentazione delle politiche attive su tutto il territorio nazionale. Ciò accade in un momento in cui il processo di riorganizzazione dei servizi per il lavoro non si è ancora concluso sia in termini di competenze istituzionali sia di risorse e pertanto anche la vicenda dei lavoratori a termine dei servizi per il lavoro è confinata in un perdurante limbo normativo e di attribuzioni, fonte ogni anno di problematiche circa il rinnovo dei contratti e per tali motivazioni sono state già perse le competenze e le esperienze di numerosi operatori lasciati indietro. Le forti criticità di tale situazione sono state evidenziate anche nel volume Rapporto ISFOL di monitoraggio sui servizi del lavoro 2015, pubblicato nel 2016, per il quale l’elevato tasso di precarietà del personale incide direttamente sulla stabilità del sistema complessivo indebolendo in prospettiva le capacità di erogazione dei servizi.

Inoltre, una elevata quota di personale precario rende meno efficiente l’organizzazione del lavoro soprattutto se vista in un’ottica di medio periodo. E ancora, sempre dal Rapporto ISFOL, emerge che le regioni che risultano essere più esposte in termini di personale alla precarietà sono anche quelle che rischiano di perdere in modo corrispondente gli operatori più istruiti. Si pone quindi non soltanto una questione di adeguatezza numerica e di stabilizzazione del personale operativo presso i centri per l’impiego ma anche quello del rinnovamento e del potenziamento delle risorse umane che in molti casi provengono ancora dal vecchio sistema del collocamento del 1998.

Sono tutti aspetti che, come già accennato, mal si conciliano con la precarietà contrattuale ed il turnover ad essa conseguente.

In tutto ciò con il decreto “mille proroghe” si è intervenuti solo per prorogare i contratti a tempo determinato già in scadenza al 31 dicembre 2016 fino a tutto il 2017, ma la situazione di incertezza prosegue così come prosegue l’incertezza nella erogazione dei servizi e la grave difficoltà per gli operatori dei centri per l’impiego, sia dal punto di vista professionale sia umano, atteso che - giova ribadirlo e ricordarlo - questi lavoratori hanno dato un notevole contributo nella gestione delle politiche attive del lavoro che hanno riguardato circa un milione di giovani NEET nell’ambito del programma Garanzia giovani.

Ora l’auspicio è che si intervenga ulteriormente a favore di tutti coloro che hanno operato nel corso dell’anno 2016 e che il decreto “mille proroghe” possa essere utilizzato anche per quei lavoratori dei centri per l’impiego che, come è accaduto in alcuni territori, non hanno avuto la possibilità di concludere il loro servizio al 31 dicembre 2016 a causa dell’ingorgo creatosi attorno alle attribuzioni di competenze, che a tutt’oggi risulta irrisolto.

Quanto sino ad ora detto è a dimostrazione della necessità di rafforzare i servizi al pari degli altri Stati europei, che vedono quote molto più significative di risorse ed operatori impiegati, che in Italia non può tradursi esclusivamente con il potenziamento dei servizi per l’impiego con un contingente di ulteriori mille nuovi contratti sempre a tempo determinato, senza che siano stati al contempo messi in atto, come è avvenuto in altri settori come la scuola, il comparto pubblico, la sanità, soluzioni per il superamento di una situazione di precariato per gli attuali operatori, precariato che è addirittura ultradecennale.

Giova ricordare che, quando l’economia è in crisi, il ruolo sociale dei centri per l’impiego è fondamentale. Queste agenzie pubbliche, finalizzate a favorire l’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, devono funzionare al meglio per dare un reale servizio ai disoccupati e anche alle aziende. Per questi motivi, noi abbiamo il dovere di garantire a tutti, in particolare ai tanti giovani in cerca di occupazione, il funzionamento efficace ed efficiente dei centri per l’impiego, la gestione equa degli stessi su tutto il territorio nazionale e la piena attività di Anpal, in modo da rendere funzionante e omogeneo il sistema generale dei servizi per il lavoro. Abbiamo inoltre anche il dovere di garantire la presenza di personale stabile all’interno dei centri per l’impiego, superando il precariato degli operatori ultradecennali, che non fa bene al lavoro e non fa bene all’Italia.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cominardi, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01533. Ne ha facoltà.

CLAUDIO COMINARDI. Grazie, Presidente. Oggi, in Italia, abbiamo circa il 40 per cento di disoccupazione giovanile, che si attesta oltre il 60 per cento in alcuni Paesi del sud. Se invece parliamo dei NEET, ovvero quei ragazzi che non studiano e non lavorano, secondo l’ISTAT che tiene conto dei ragazzi che vanno dai 15 ai 34 anni di età, sono circa 3,7 milioni. Quindi, è proprio una guerra silenziosa, una strage dei disoccupati e degli inoccupati.

Pertanto, le politiche attive hanno un ruolo fondamentale in questo senso. I centri per l’impiego dovrebbero rappresentare lo strumento attraverso cui il Governo centrale e quelli regionali territoriali garantiscono i servizi pubblici per l’impiego. Ad essi, a seguito della riforma operata con decreto legislativo n. 276 del 2003, sono state affiancate le agenzie per il lavoro di natura privata, che progressivamente negli anni sembrano di fatto aver assorbito gran parte delle attività relative all’incontro tra domanda e offerta di lavoro, senza però apportare significativi miglioramenti nelle dinamiche di ricollocazione lavorativa.

In Italia sono oggi presenti 550 centri pubblici e circa 4.200 agenzie private per il lavoro, quindi il rapporto appare leggermente sbilanciato, per così dire. Il rapporto tra disoccupati e operatori in Italia è di un addetto ogni 300; nel resto d’Europa il rapporto oscilla invece su numeri a due cifre: in Germania circa 1 a 24, nel Regno Unito circa 1 a 30; in Francia poco meno di 1 a 65. Nel 2015 il numero di operatori italiani di centri pubblici si attesta a meno di 9.000 circa 12 per cento dei quali con un rapporto di lavoro temporaneo, tempo determinato e collaborazioni. Appena il 27 per cento degli operatori ha un’istruzione di tipo universitario, oltre il 57 per cento un’istruzione secondaria di secondo grado e poco meno del 13 per cento un’istruzione secondaria di primo grado. Quindi, c’è anche un tema legato alla formazione e, quindi, al grado di istruzione dei soggetti dei centri per l’impiego.

Stando ai dati Eurostat del 2015, circa il 28 per cento dei disoccupati in Italia si è rivolto ai servizi pubblici per l’impiego, registrando per il quinto anno consecutivo un trend negativo, a fronte di oltre il 16 per cento di quanti si sono rivolti alle agenzie private per il lavoro; numeri che si sbilanciano in maniera rilevante a favore del servizio pubblico nella media europea: oltre il 48 per cento per i centri per l’impiego e poco più del 20 per cento per quelli privati.

Su tutto grava un dato: quello di quanti, per trovare lavoro, si rivolgono principalmente ad amici e parenti, quindi attraverso canali informali, che si attesta poco oltre l’84 per cento. Questa è un’anomalia tutta italiana.

In linea con quanto premesso finora, anche sul piano finanziario, i centri per l’impiego e, più in generale, i servizi per il lavoro hanno subito una politica di Governo minimale, con percentuali di spesa sul PIL di gran lunga inferiori rispetto ad altre realtà europee. A titolo esemplificativo, nel 2013, in Italia, appena lo 0,03 per cento del PIL - 0,03 per cento - è dedicato a questi servizi, mentre, nello stesso anno, la Germania supera lo 0,35 per cento (quindi, vuol dire dieci volte tanto).

In termini di spesa pro capite impegnata per disoccupati, il rapporto è di meno di 100 euro in Italia, di oltre mille euro in Francia e di quasi 3 mila euro in Germania.

Stante il ridotto numero di risorse umane impiegate a vario titolo nei servizi pubblici per l’impiego in Italia - circa 9 mila -, nel resto d’Europa si rilevano cifre ben più importanti: circa 100 mila in Germania (anche qui, il rapporto è di un o a dieci), oltre 70 mila nel Regno Unito e 50 mila in Francia, laddove, rispetto ai circa 60 milioni di abitanti in Italia, si registra un numero di abitanti, rispettivamente, pari a circa 80 milioni, 64 milioni e 66 milioni.

I centri per l’impiego, a differenza di quanto si rileva in realtà, dovrebbero essere strutture dotate delle migliori competenze per garantire che il percorso di accoglienza, profilazione, orientamento, formazione e ricollocamento dei disoccupati e di quanti ricercano un’occupazione venga svolto nel migliore dei modi, come peraltro previsto dalla raccomandazione del Consiglio europeo dall’8 luglio 2014, con la quale si sottolinea la necessità per l’Italia di progredire rapidamente con i piani di miglioramento dei servizi di collocamento, rafforzando i servizi pubblici per l’impiego.

Ora è inevitabile parlare, ovviamente, anche di reddito di cittadinanza, perché, per quanto riguarda la nostra proposta di tipo politico, il reddito di cittadinanza non è qualcosa che è legato ad un bonus oppure ad un reddito di sussistenza, ma è una riforma economica ed è una riforma del lavoro: infatti, noi, a volte, lo denominiamo anche come una forma di riattivatore sociale, perché al suo interno sono previste la riorganizzazione dei centri per l’impiego e la valorizzazione di questo tipo di strumento.

Quindi, considerato ciò, il reddito di cittadinanza rappresenta una misura economicamente e finanziariamente sostenibile volta a contrastare concretamente la povertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, nonché a garantire il diritto al lavoro e alla libera scelta del lavoro, contribuendo alla ridistribuzione della ricchezza.

In un’ottica di sistema organico di sostegno ai cittadini e di garanzia e promozione dei loro diritti, con il reddito di cittadinanza i centri per l’impiego assumerebbero, finalmente, un ruolo fondamentale, insieme e più di altri soggetti istituzionali a livello nazionale e territoriale, nella gestione del mercato del lavoro che avrebbe, di conseguenza, una caratterizzazione non solo economica e produttiva, ma, soprattutto e concretamente, sociale. Una gestione non assistenziale né sterile, come avviene in taluni casi ancora oggi.

Il personale dei centri per l’impiego, in tal senso, sarà chiamato a prendere in carico il soggetto, avviando in questo modo il percorso di bilancio delle competenze finalizzato ad individuare le attitudini di chi cerca lavoro, per poi stabilire i passi successivi, tra cui l’inserimento lavorativo o l’inizio di percorsi formativi o la partecipazione a progetti per la nascita di nuove realtà imprenditoriali o a progetti partecipati da comuni e regioni per condividere finalità, competenze e risorse.

I centri per l’impiego dovranno rappresentare anche il terminale ultimo della mediazione tra domanda e offerta di lavoro, ai quali si rivolgeranno le agenzie per il lavoro e quelle per la somministrazione di lavoro.

Secondo quest’ottica, i centri per l’impiego sarebbero adeguati anche per attività riguardanti settori particolari nel mondo del lavoro, quali, ad esempio, quello agricolo, quello marittimo e portuale e quello edile, superando le problematiche insite in questi ambiti non solo in termini di sfruttamento di lavoro nero, ma, soprattutto, in termini di lentezza amministrativo-operativa che spesso, con fare strumentale, è stata sollevata a giustificazione dell’esclusione dei servizi pubblici per il lavoro dalla gestione dei lavoratori e dei disoccupati di tali settori.

Quindi, le nostre proposte politiche in questo senso riguardano il fatto di predisporre una pianificazione di potenziamento dei centri per l’impiego corredata di un puntuale cronoprogramma finalizzato a: incrementare il numero di centri per l’impiego sul territorio nazionale, identificando gli stessi come strumenti centrali dei servizi per il lavoro e prioritari rispetto alle agenzie private e al fine di meglio intercettare e soddisfare le esigenze di potenziamento delle politiche attive del lavoro, individuando a tal fine nuovi e più idonei parametri non solo meramente demografici, ma coerenti con il grado di sviluppo sociale ed economico dei singoli territori per l’istituzione di nuovi centri; identificare e definire idonei standard minimi di prestazione dei servizi da erogare, nonché dare una chiara definizione delle competenze che il personale dei centri per l’impiego deve possedere per erogare servizi orientati alla persona, affinché tali specifici servizi siano svolti esclusivamente da personale in possesso di idonee competenze; adeguare i livelli formativi e prevedere specifici percorsi di formazione continua del personale operante presso i centri per l’impiego, al fine di garantire il possesso delle competenze e delle esperienze necessarie per l’efficacia dell’azione di ricollocamento nel mercato del lavoro; provvedere al superamento dell’ANPAL quale cabina di regia centralistica e nazionale, stante la vigente struttura istituzionale di decentramento regionale, affinché si definisca un sistema governabile tra centro e periferie, ma, soprattutto, sostenibile economicamente e finanziariamente con lo stanziamento di risorse certe e stabilite in una programmazione pluriennale e coerente con le attività programmate, al fine di evitare rinnovi di accordi e convenzioni tra Governo e regioni, come, da ultimo, quello del dicembre 2016 richiamato in premessa.

In sintesi, si vuole ridare centralità ai centri per l’impiego, levare quello che è il predominio monopolistico - perché di fatto sembra proprio questo - da parte delle agenzie per il lavoro private. Sappiamo bene che, spesso, ricevono anche finanziamenti di carattere pubblico: un esempio recente che mi viene in mente è quello legato ai finanziamenti della youth guarantee, della garanzia giovani, in ordine a cui queste agenzie interinali, solo per lo sforzo - definiamolo così - di incontrare dei ragazzi in cerca di lavoro e, quindi, di fare con loro una breve chiacchierata che si può definire forma di orientamento, riuscivano ad ottenere questi finanziamenti europei, che sono ovviamente soldi delle nostre tasse. Effettivamente, quindi, per non svolgere un servizio - quello, cioè, di ricollocare un giovane, un ragazzo, una persona in cerca di lavoro - ricevevano finanziamenti di questo tipo.

Sono cose che noi vorremmo che non si verificassero più e che i finanziamenti o, quanto meno, le risorse pubbliche, andassero soprattutto nella direzione di un servizio vero e proprio. Infatti, sappiamo che dietro queste agenzie private ci sono molti interessi di carattere economico, perché più contratti si riescono a piazzare - concedetemi questa espressione -, meglio è per l’agenzia perché, ovviamente, ne ha un ricavo in termini di introiti, in termini economici. Quindi, non c’è l’interesse di stabilizzare il ragazzo e trovargli un lavoro decente e continuativo, anzi, se questo ragazzo riesce ad avere più contratti nello stesso anno - quindi, vivere costantemente una precarietà - questo, è un paradosso, ma crea convenienze a queste agenzie.

Quindi, è necessario ripensare tutta la struttura legata alle politiche attive e, soprattutto, all’incrocio tra la domanda e l’offerta, che sicuramente è qualcosa assolutamente da tenere come punto di riferimento. Purtroppo vediamo che, in taluni casi, i centri per l’impiego vengono sempre più snobbati dai nostri ragazzi, che frequentano sempre meno, perché con questo servizio non vedono che gli vengono prospettati dei posti di lavoro nel breve termine e, quindi, molti lasciano perdere e rientrano in questa nota categoria ormai sulla bocca di tutti, cioè quella Neet, dei giovani che non lavorano e non studiano più perché purtroppo anche in alcuni centri per l’impiego può capitare che ti dicano: in Italia non è che abbiamo una grande speranza, ti possiamo fare un corso per compilare un curriculum e magari farlo in lingua inglese in modo tale da poterti proporre anche fuori dall’Italia.

Questi sono i fenomeni, purtroppo, che si vengono a creare e i numeri parlano chiaro: nel 2015, 115 mila italiani sono emigrati all’estero, la maggior parte per cercare lavoro e la maggior parte di questi sono dei giovani.

Quindi, noi riteniamo importante che insieme alla proposta nostra, che è quella del reddito di cittadinanza, ci sia una riforma legata ai centri per l’impiego, perché è determinante avere un discorso di orientamento, un discorso di collegamento anche tra centri per l’impiego, imprese e pubblica amministrazione, in modo tale da avere un sistema che garantisca una serie di servizi a chi perde lavoro, che non rimanga abbandonato a se stesso, e non gli venga nemmeno dato un reddito così, senza fornirgli delle altre opportunità.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Palese, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01534. Ne ha facoltà.

ROCCO PALESE. Grazie, signor Presidente. Non c’è dubbio che i dati in riferimento all’inserimento al lavoro di tutte le persone che sono costrette a passare per i centri per l’impiego depongono per un totale fallimento e pertanto occorre, per forza, una riforma profonda in riferimento ai centri per l’impiego. Una riforma profonda che non può che partire da un coinvolgimento pieno della parte più giovane, con le scuole, con la pubblica amministrazione, le università e soprattutto con le imprese.

Presidente, non ho lo spaccato preciso di come funzionano e di come sono messi in essere i centri per l’impiego all’interno di tutto il territorio nazionale, sta di fatto, però, che non c’è dubbio per quello che riguarda il Sud, in particolare, ad esempio, nella mia regione, che uno dei primi problemi fondamentali che dovrebbe essere affrontato sono le competenze e la qualificazione di chi sta dentro, di chi lavora ai centri per l’impiego. Molto probabilmente, molti di questi, non per colpe loro, ma per chi ce li ha messi, per come sono arrivati, avrebbero bisogno, loro, di formazione e di orientamento.

Non c’è dubbio che quello che è stato pensato con il decreto legislativo n. 150 del 2015, che ha riorganizzato il sistema delle politiche attive del lavoro (pensato come una rete orizzontale tra Ministero del lavoro, regioni, imprese private, agenzie per il lavoro, terzo settore, poi coordinate dall’Agenzia nazionale), non funziona e che andrebbe rivisto profondamente, visto che i dati di chi passa o chi si rivolge ai centri per gli impieghi, sia in prima occupazione e sia soprattutto per un’eventuale riqualificazione e ricollocamento, sono proprio a indici bassissimi, dell’1 per cento. Ahimè, il tutto è gestito in maniera dissennata soprattutto dalle regioni e in particolare da ciò che è rimasto dalle province. È in quell’ambito che avvengono tutte queste situazioni. C’è una enorme spreco e dissipazione di risorse, si pensi per esempio - poco fa ne faceva riferimento il collega Cominardi - a come è stata utilizzata negli altri Paesi la risorsa della “garanzia giovani” che, invece, qui da noi è stata un fallimento totale. C’è qualcuno che si chiede perché “garanzia giovani” dappertutto in Europa ha funzionato benissimo e qui da noi, invece, ha funzionato malissimo? Spesso e ben volentieri la responsabilità è delle regioni e in questo caso voglio esimere il Governo centrale dalle responsabilità. Hanno avuto assegnazioni per 1,6 miliardi di euro e poi che cosa hanno fatto? Hanno continuato a erogare queste risorse agli enti che già non fanno chiaramente formazione professionale, ma fanno tutt’altro con i fondi europei, avendo poi un totale fallimento e occupazione zero, con la situazione che ci sono migliaia e migliaia di giovani che sono costretti poi a andare all’estero per potersi qualificare, addirittura per poter trovare lavoro.

Allora, la situazione va sicuramente ripensata. Lo scopo di queste mozioni, ho visto che ce ne sono già diverse, è cercare di dare una svolta in riferimento a questo, anche perché le risorse ci sono. Ci sono per la gente che ha perso il lavoro, ma soprattutto ci sono le risorse del Fondo sociale europeo gestito dalle regioni, in particolare dalle regioni obiettivo 1 che sono 200 e passa milioni di euro all’anno per ogni regione, avendo poi un risultato, anche qui, di zero occupazione. Sembra essere tutto un settore alimentato solo ed esclusivamente da stipendifici che servono per i formatori e per gli enti quando le cose, signor Presidente, sono trasparenti. Poi, le cose vengono gestite anche (soprattutto nelle regioni obiettivo 1) con scandali continui, che ci sono oggi, in un contesto di ruberie, di sprechi che sono enormi. Per questo motivo, ritengo e spero che il Governo faccia tesoro di questi stimoli che vengono attraverso queste mozioni, per cercare di dare una svolta, perché è uno dei pochi casi in cui le risorse ci sono e però vengono utilizzate malissimo e i risultati sono addirittura disastrosi.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

Prendo atto che il Governo si riserva di intervenire successivamente.

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione sulle linee generali della mozione Santerini ed altri n. 1-01435 concernente iniziative volte all'identificazione dei migranti deceduti nella traversata del Mediterraneo (ore 17,16).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Santerini ed altri n. 1-01435 concernente iniziative volte all'identificazione dei migranti deceduti nella traversata del Mediterraneo (Vedi l'allegato A).

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell’Assemblea (Vedi calendario).

Avverto, inoltre, che sono state altresì presentate le mozioni Altieri ed altri n. 1-01536 e Molteni ed altri n. 1-01537 (Vedi l'allegato A) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all’ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.

Avverto, altresì, che l’onorevole Cimbro, sottoscrittrice della mozione Santerini ed altri n. 1-01435, con il consenso degli altri presentatori, ne diventa la seconda firmataria.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.

È iscritta a parlare l’onorevole Santerini, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01435. Ne ha facoltà.

MILENA SANTERINI. Grazie, Presidente. Questa mozione rappresenta un dovere, un dovere verso i morti nel Mediterraneo, ma anche verso i vivi. Io non vorrei qui richiamare i numeri che come sapete sono cifre che ci hanno fatto parlare del “cimitero Mediterraneo”, però si calcola che veramente in circa quindici anni quasi 30 mila persone siano morte in quel braccio di mare, in quella traversata, e soprattutto i numeri tendono ad aumentare. Abbiamo avuto un 2015 record, e poi un 2016, ed ora, nei pochi mesi del 2017, ben 571 morti. Il nostro impegno - credo - politico deve essere quello di dare un nome a queste vittime.

Quando si perde qualcuno, quando c’è un dramma o una tragedia del mare, quando scompare qualcuno, noi, la comunità, la società civile, la collettività, non ci diamo pace finché non si ritrova quanto meno il corpo di chi è scomparso, perché sappiamo benissimo quanto conta poter piangere qualcuno e potere anche sapere, pur avendo la certezza della morte, dove sono sepolti i nostri cari. Questo non avviene purtroppo per troppe persone. Quindi io vorrei parlare, non tanto di un compito umanitario, quanto di un diritto, di un diritto fondamentale. Un diritto fondamentale che è quello di dare degna sepoltura alle vittime e il diritto fondamentale dei familiari di sapere chi è scomparso, quando e in che circostanze. Quindi, è un atto di umanità, certamente, ma è soprattutto, io dico, un dovere politico. È tutto il diritto internazionale, dalla Convenzione di Ginevra in poi, nei protocolli e così via, è il Consiglio d’Europa che ci ha dato delle norme che ci fanno considerare principio fondamentale, per il rispetto della dignità umana, anche quello di garantire alle persone scomparse un nome e anche una degna sepoltura. Potremmo dire che è un trattamento degradante nei confronti dei familiari dover restare in quel limbo angoscioso di chi non sa; certo immagina, pensa che i propri cari non torneranno più, ma non ne hanno la certezza. Noi sappiamo che questo è causa di veri e propri disordini mentali; chiunque di noi si identifichi in questo tipo di dramma, che può capitarci, ne capisce la portata.

Vorrei, appunto, citare il Consiglio d’Europa, perché a più riprese ha messo in luce la necessità di risposte adeguate, in particolare attraverso la Corte europea dei diritti dell’uomo, che riconosce ai familiari il diritto di conoscere la sorte dei loro cari. Anticipando qualche polemica politica, che, ahimè, potrà esserci anche su questo tema - spero di no, ma temo ci potrà essere -, vorrei dire anche che questo compito di riconoscimento è un compito che è utile anche a prevenire possibili meccanismi di sfruttamento, ci aiuta a riconoscere e a ricostruire i percorsi e gli atti degli scafisti. Ci aiuta, in qualche modo, a impedire che i documenti di persone annegate possano essere utilizzati da altre persone, magari con delle finalità criminali. Quindi, ci sono anche, direi, se non ci bastassero le motivazioni di ordine politico, giuridico e umanitario, legate ai diritti fondamentali, anche delle ragioni di sicurezza. Come continuare in questo lavoro che l’Italia ha già intrapreso? Vorrei dire che in questo triste campo c’è un modello, un protocollo di intervento che abbiamo già sperimentato.

In particolare, faccio riferimento a quella sorta di task force che è composta dal Ministero dell’interno, dove, ricordo, c’è un ufficio per le persone scomparse, dalla Marina militare, dalla Difesa, dalla Guardia costiera e dalle università italiane, e ci sono anche altri partner che ora qui non cito. Che tipo di collaborazione hanno intrapreso tutti questi enti, collaborando veramente molto bene insieme? Hanno intrapreso l’elaborazione di un vero e proprio modello di intervento, che ha avuto come sperimentazione principale il riconoscimento dei morti del barcone del naufragio del 18 aprile 2015. Come ricorderete, nel barcone del 18 aprile morirono circa tra le 800 e le 900 persone. In modo davvero equo, il Governo ha intrapreso il recupero del barcone, che alla base NATO di Melilli ha visto il lavoro di questo gruppo di persone.

La maggior parte dei corpi ritrovati dopo parecchi mesi sono stati identificati, ed ecco che emerge un modello di intervento, che era stato preceduto nel settembre 2014 da un protocollo d’intesa tra il Ministero dell’interno e l’Università degli Studi di Milano in materia di riconoscimento e identificazione dei corpi senza identità appartenenti a cittadini stranieri recuperati nei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013. Ricordo che il 3 ottobre 2013 è la data che abbiamo qui in Parlamento stabilito come giorno della memoria delle vittime del mare.

Ecco l’esempio, quindi, di come ci sia una collaborazione virtuosa tra le istituzioni e tra le università proprio per mettere a frutto quelle competenze scientifiche che ci permettono di individuare e di identificare le vittime; però questo non basta.

Per questo la mozione e spero e credo anche le mozioni dei colleghi hanno uno scopo: hanno lo scopo di sostenere questo lavoro, di sostenere questo lavoro della task force, di sostenere questo grande lavoro di collaborazione tra le istituzioni per la raccolta dei dati. Non possiamo lasciare che più della metà dei 30 mila morti di questi anni rimangano senza nome; da qualche parte c’è qualcuno che li aspetta e dobbiamo facilitare la raccolta dei dati post mortem sui cadaveri delle vittime per raccogliere tutte le informazioni utili a portare a un’identificazione. Questo è un lavoro scientifico: vorrei citare qui, per esempio, in particolare il Labanof, cioè il laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’Università di Milano, che, con la dottoressa Cristina Cattaneo, fa questo lavoro egregio da molti anni.

Chiediamo, quindi, di promuovere questa raccolta di dati ante mortem e post mortem, chiediamo di sostenere il lavoro del commissario per le persone scomparse presso il Ministero dell’interno e chiediamo di sviluppare soprattutto la cooperazione internazionale con l’Unione europea e con il Consiglio d’Europa, proprio perché questa rete, questa banca dati così utile, possa essere condivisa e permettere l’identificazione del maggior numero di persone.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Palese, che illustrerà la mozione n. 1-01536, di cui è cofirmatario.

ROCCO PALESE. Grazie, signor Presidente. Non c’è dubbio che, tra i tantissimi problemi che comporta il fenomeno dei flussi migratori, dell’immigrazione clandestina, dell’immigrazione dei rifugiati e quant’altro, le tragedie che noi riscontriamo continuamente per la scomparsa, le morti all’interno stesso delle barche, con tutti gli scafisti che li portano via, tutti quelli che vengono recuperati in mare e quant’altro, c’è anche la parte prettamente umana per poter dare un’identificazione, una sepoltura e quant’altro, in un contesto estremamente complesso. Infatti, noi possiamo fare tutti gli sforzi di questo e dell’altro mondo, ma parliamo spesso e ben volentieri di persone che anche all’interno del loro territorio non hanno un’identificazione precisa. Anche all’interno del territorio non si sa quando effettivamente molti sono nati, quando non sono nati.

Detto questo, però, c’è un ulteriore tassello che va fatto e va fatto perbene, nella maniera che poco fa la collega ci ha illustrato, perché ci sono anche delle sperimentazioni. È comunque necessario, per poter sostenere e facilitare le operazioni di identificazione delle vittime di tragedie e di naufragi, promuovere anche una raccolta di dati ante mortem degli scomparsi, anche e soprattutto potenziando, da parte del Governo - si chiede nell’impegno, signor Presidente, senza dubbio - l’ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse.

Ma si chiede anche di assumere iniziative in sede europea per condividere l’opera e i costi dell’identificazione tra i Paesi membri. Qui il problema, signor Presidente, è molto più complesso in riferimento all’Europa, perché noi saremo costretti a convivere con il problema dei flussi migratori; anzi, sarebbe pure ora che l’Europa lo affrontasse in maniera seria, in maniera pertinente, perché io sono tra quelli - molto probabilmente sbaglierò - che ritengono che in merito al problema dell’immigrazione, finora l’Occidente ma soprattutto noi, come Europa e come Italia, siamo stati semplicemente fortunati come quantità di sbarchi. Rispetto al sottosviluppo in cui, in pratica, vivono queste persone, dove c’è un grandissimo numero di persone che muore di malattie infettive, di malaria, di AIDS, muoiono di tutto, e altri di sete, di fame e quant’altro, esse poi spesso e ben volentieri riescono a vedere, tramite Internet e i sistemi di comunicazione e digitalizzazione, che in Occidente, in particolare nel nostro Paese, noi facciamo la pubblicità di ciò debbono mangiare i gatti, di come debbono essere puliti i cani, e quant’altro. È fin troppo evidente che, davanti alla certezza della morte, questi, al di là dei conflitti bellici, al di là delle situazioni, in via naturale, peraltro con anche la gestione molto delinquenziale da parte degli scafisti eccetera, tentano, davanti alle condizioni pietose del luogo in cui risiedono, in tutti i modi, in tutte le maniere di venire qui in Europa e in Italia, pensando che qui poi ci sia il paradiso, cosa che purtroppo non è.

Detto questo, non c’è dubbio che si necessita anche dell’apporto dell’Europa per poter realizzare quanto si propongono tutte le mozioni e, in particolare, per arrivare alla giusta identificazione, alla giusta sepoltura e al riconoscimento: perché è giusto pure intervenire in maniera completa, perché i diritti umani vanno assolutamente salvaguardati e sono prioritari rispetto a tutto.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Beni. Ne ha facoltà.

PAOLO BENI. Signor Presidente, la mozione oggi all’ordine del giorno della collega Santerini (ma con l’occasione di questo intervento preannuncio anche una mozione del nostro gruppo, del Partito Democratico, sullo stesso tema) affronta una problematica a sé stante, dentro la grande questione dei flussi migratori che negli ultimi anni hanno investito l’Europa; soprattutto direi che ripropone all’attenzione di quest’Aula una tragedia di dimensioni enormi, che chiama in causa la responsabilità morale del nostro Paese, dell’Europa, dell’intera comunità internazionale, e di chiunque abbia a cuore il valore della dignità umana.

Nella vicenda drammatica delle decine di migliaia di esseri umani che affrontano la traversata del Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna, pur di fuggire alla miseria, alle guerre, alle violenze, c’è la tragedia di chi non ce la fa, dei morti annegati, dei tanti dispersi sui fondali del Mediterraneo. Sono migliaia ogni anno: quasi 5.000 l’anno scorso, già 522 alla settimana scorsa, dal 1° gennaio di quest’anno; un’ecatombe, insomma. Molti corpi non è stato possibile recuperare e giacciono in fondo al mare: quel Mare Nostrum che era stato ponte fra le grandi civiltà sorte sulle sue sponde, e che oggi è diventato il più grande cimitero del mondo.

Dai dati raccolti - veniva già ricordato - dalle organizzazioni non governative, anche incrociando diverse metodologie di indagine, si stima più o meno che siano state circa 30.000 negli ultimi vent’anni le persone annegate nel tentativo di raggiungere le nostre coste. Si tratta di stime, appunto, perché dati ufficiali non ce ne sono; spesso neppure le testimonianze dei sopravvissuti o dei soccorritori consentono di ricostruire con precisione l’accaduto, come sappiamo, e dopo ogni naufragio assistiamo impotenti alla disperazione dei familiari, dei parenti, che vagano anche per mesi, a volte, senza sapere a chi rivolgersi per avere notizie sui propri cari, che dovevano essere su quell’imbarcazione ma non si trovano più. A volte li rintracciano, spesso li rintracciano già morti e sepolti, magari in un comune diverso da quello dove è avvenuto lo sbarco, e non è più possibile l’identificazione: nella maggior parte dei casi restano ufficialmente dispersi. Si calcola che siano almeno il 60 per cento le vittime di questa tragedia che restano senza un nome.

Per questo già due anni fa, in occasione di un question time in quest’Aula, proponevo al Governo, al Ministro Alfano, di istituire una banca dati, in cui raccogliere appunto nomi, provenienze, età di quanti vengono segnalati dispersi; un archivio a cui potesse accedere chi deve denunciare la scomparsa di qualcuno o chi cerca informazioni, un database in cui convogliare tutte le informazioni disponibili sulle persone decedute o disperse nel Mediterraneo, anche grazie appunto alla collaborazione con organizzazioni non governative, che già da tempo operano nella raccolta di questi dati, allo scopo di favorire sia il ritrovamento dei dispersi che il riconoscimento dei cadaveri recuperati.

Ora, è stato già spiegato dalla collega Santerini molto bene: dare un’identità certa ai migranti morti o dispersi nel Mediterraneo non solo è un doveroso atto di umana pietà, ma attiene anche al dovere istituzionale di garantire ad ogni persona il proprio nome, che è un diritto soggettivo inalienabile sancito dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti umani; poi si tratta di garantire una condizione essenziale per la tutela dei parenti delle vittime, per esempio su questioni relative a ricongiungimenti, all’eredità.

Inoltre - e non è da sottovalutare questo aspetto - una simile banca dati può diventare uno strumento utilissimo a fornirci informazioni su quanto avviene nel Mediterraneo, a ricostruire i percorsi migratori, le rotte e le strategie adottate dai trafficanti, dagli scafisti; diviene un fattore essenziale della strategia di difesa e di sicurezza nazionale e internazionale, ad esempio impedendo che i documenti e le identità delle persone annegate possano essere utilizzati da altri, magari con finalità criminali o terroristiche.

L’allora Ministro Alfano mostrò di condividere queste ragioni, le ragioni umanitarie della nostra proposta, e confermò che il Governo avrebbe fatto tutto il possibile per facilitare la restituzione delle salme alle famiglie e garantire alle vittime, a tutte le vittime una sepoltura dignitosa. Il Governo avrebbe anche valutato con interesse, pur con le cautele necessarie nel trattare informazioni così delicate, l’istituzione della banca dati, coinvolgendo il Commissario straordinario per le persone scomparse, che già dal 2007 fu istituito e che ha competenza rispetto alla tenuta del registro nazionale dei cadaveri non identificati.

Va detto che, in effetti, da allora si sono fatti molti passi avanti: a cominciare dal protocollo di intesa sottoscritto dal commissario straordinario con l’Università di Milano e con il Dipartimento libertà civili del Ministero dell’interno; la sinergia fra amministrazione pubblica e centri di ricerca, come il Laboratorio di antropologia e odontologia forense Labanof dell’Università di Milano, ha consentito, per esempio, di mettere a punto procedure e metodologie all’avanguardia nell’identificazione delle vittime in mare. Si sono definite procedure per fornire supporto e risposte a quanti chiedono notizie dei familiari scomparsi, con avvisi che vengono diramati nei Paesi di partenza dei migranti, grazie alla collaborazione con la Croce rossa internazionale, l’Interpol, la Marina militare e la Guardia costiera.

La determinazione del nostro Governo ha consentito un risultato significativo anche sul piano simbolico, come il recupero dei resti del peschereccio inabissatosi il 18 aprile 2015 al largo della Libia, nel naufragio in cui morirono 800 migranti, forse la più grande tragedia avvenuta nel Mediterraneo; e proprio a Milano dovrebbe sorgere il polo scientifico museale destinato ad ospitare quel relitto.

Quindi, sono passi avanti, eccellenze che fanno onore al nostro Paese anche nella sperimentazione scientifica, ma che rischiano di essere vanificate dalle carenze organizzative. Questo è il problema: a fronte di 10.000 fascicoli aperti, centinaia di cadaveri ancora da identificare, decine di migliaia di segnalazioni di scomparsi su cui fare ricerche, la struttura del commissario straordinario può contare su una dotazione di personale palesemente insufficiente; e la stessa carica del commissario è, ci risulta, scaduta e in attesa di rinnovo.

Le carenze e la precarietà della struttura non facilitano la programmazione, di cui invece ci sarebbe bisogno per portare a compimento le ricerche intraprese, per dar vita ad una nuova banca dati efficiente, in grado di facilitare appunto la ricerca degli scomparsi e fornire alle amministrazioni competenti informazioni preziose.

Per questo chiediamo al Governo di valutare iniziative di riforma che garantiscano il potenziamento del commissario straordinario per le persone scomparse, tanto sul piano ordinamentale quanto su quello della dotazione finanziaria necessaria. Auspichiamo un più efficace coordinamento nel trasferimento delle informazioni fra le diverse competenze istituzionali coinvolte, onde evitare sovrapposizioni e garantire la centralizzazione dei dati relativi ai flussi migratori nel Mediterraneo, anche nell’ottica di un raccordo necessario fra il nostro Paese, gli altri Stati europei e i Paesi di origine.

Chiediamo al Governo di operare ogni sforzo, anche col concorso delle Nazioni Unite - dell’UNHCR, ad esempio - e con il sostegno del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea - sostegni che vanno ricercati - per intensificare la raccolta dei dati che ci consentano di identificare tutti i corpi ancora senza nome dei migranti morti nel Mediterraneo. Pensiamo che queste scelte siano utili e, come cercavo di spiegare, anche necessarie alla sicurezza del nostro Paese, ma soprattutto che sia un doveroso atto di civiltà e di rispetto nei confronti di migliaia di esseri umani che sono morti, in fondo, solo perché avevano l’unica colpa di inseguire la speranza di una vita migliore.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

Prendo atto che il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 14 marzo 2017, alle 9,30:

1. Svolgimento di una interpellanza e interrogazioni.

(ore 11,30)

2. Seguito della discussione del disegno di legge:

Conversione in legge del decreto?-?legge 20 febbraio 2017, n. 14, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città. (C. 4310?-?A)

Relatori: FIANO (per la I Commissione) e MORANI (per la II Commissione), per la maggioranza; INVERNIZZI, di minoranza.

3. Seguito della discussione della proposta di legge:

TURCO: Modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale. (C. 1063?-?A)

Relatori: DAMBRUOSO, per la maggioranza; BONAFEDE, di minoranza.

4. Seguito della discussione del disegno di legge:

S. 2036 ?-? Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Slovenia sulla linea del confine di Stato nel tratto regimentato del torrente Barbucina/Cubnica nel settore V del confine, fatto a Trieste il 4 dicembre 2014 (Approvato dal Senato). (C. 4109)

Relatore: GIANNI FARINA.

5. Seguito della discussione del testo unificato delle proposte di legge (previo esame e votazione delle questioni pregiudiziali di costituzionalità e delle questioni sospensive presentate):

MANTERO ed altri; LOCATELLI ed altri; MURER ed altri; ROCCELLA ed altri; NICCHI ed altri; BINETTI ed altri; CARLONI ed altri; MIOTTO ed altri; NIZZI ed altri; FUCCI ed altri; CALABRO’ e BINETTI; BRIGNONE ed altri; IORI ed altri; MARZANO; MARAZZITI ed altri; SILVIA GIORDANO ed altri: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. (C. 1142?-?1298?-?1432?-?2229?-?2264?-?2996?-?3391?-?3561?-?3584?-?3586?-?3596?-?3599?-?3630?-?3723?-?3730?-?3970?-?A)

Relatori: LENZI, per la maggioranza; CALABRÒ, di minoranza.

6. Seguito della discussione delle mozioni Dell’Aringa, Palladino ed altri n. 1-01319, Cominardi ed altri n. 1-01533, Palese ed altri n. 1-01534, Sberna ed altri n. 1-01535 e Placido ed altri n. 1-01538 concernenti iniziative in materia di politiche attive del lavoro, con particolare riferimento al potenziamento dei centri per l’impiego.

7. Seguito della discussione delle mozioni Santerini, Cimbro ed altri n. 1-01435, Altieri ed altri n. 1-01536 e Molteni ed altri n. 1-01537 concernenti iniziative volte all’identificazione dei migranti deceduti nella traversata del Mediterraneo.

La seduta termina alle 17,40.

TESTI DEGLI INTERVENTI DI CUI È STATA AUTORIZZATA LA PUBBLICAZIONE IN CALCE AL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA ODIERNA: Emanuele Fiano (A.C. 4310?-?A)

EMANUELE FIANO, Relatore per la I Commissione. (Relazione di maggioranza). Le Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia hanno deliberato, nella seduta del 9 marzo 2017, di conferire ai relatori mandato a riferire in Assemblea favorevolmente sul testo del decreto legge n. 14 del 2017, sulla sicurezza urbana, come risultante dagli emendamenti approvati nel corso dell’esame in sede referente.

Il decreto-legge n. 14 del 2017 si articola in due Capi dedicati, rispettivamente, alla collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana (Capo I ) e alle disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano (Capo II).

Come relatore per la I Commissione illustrerò all’Assemblea le disposizioni del Capo I nonché gli articoli 12, 12-bis e 14, dando altresì conto delle modifiche approvate dalle Commissioni. Proseguirà quindi la relatrice per la II Commissione.

Gli articoli da 1 a 3 recano disposizioni in materia di “sicurezza integrata”, definita, dall’art. 1, comma 2, come l'insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle regioni, dalle province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali, nonché da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell'ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all'attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali.

Nella relazione illustrativa si evidenzia in proposito che “il modello sviluppato, anche in attuazione del principio del coordinamento legislativo tra lo Stato e le regioni di cui all'articolo 118, terzo comma, della Costituzione, ammette l'esistenza di uno spazio giuridico orizzontale nel quale interagiscono soggetti giuridici diversi, con strumenti e legittimazioni distinte, nella consapevolezza che la cooperazione tra i diversi livelli di governo possa garantire – in un'ottica multifattoriale e poliedrica – maggiori e più adeguati livelli di sicurezza, laddove quest'ultima non è più soltanto da identificarsi con la sfera della prevenzione e della repressione dei reati (e, quindi, con la sfera della sicurezza «primaria»), ma è intesa anche come attività volta al perseguimento di fattori di equilibrio e di coesione sociale, di vivibilità e di prevenzione situazionale connessi ai processi di affievolimento della socialità nei territori delle aree metropolitane e di conurbazione.

L’ambito di applicazione della sezione I – riguardante la sicurezza integrata - è individuato (dall’art. 1, comma 1) nella disciplina delle modalità e degli strumenti di coordinamento tra Stato, regioni e province autonome di Trento e Bolzano ed enti locali in materia di politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata.

Il testo richiama a tal fine, l'articolo 118, terzo comma, della Costituzione, che demanda alla legge statale la disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regione nelle materie dell’immigrazione e dell’ordine pubblico e sicurezza (materie di cui all’art. 117, secondo comma, lettere b) e h), Cost.).

Nel corso dell’esame in sede referente è stato previsto che concorrono alla promozione della sicurezza integrata gli interventi per la riqualificazione urbana e per la sicurezza nelle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia finanziati con il fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese di cui all’art. 1, comma 140, L. 232/2016. Ricordo che tale fondo è stato istituito dalla legge di bilancio 2017 con una dotazione di 1.900 milioni di euro per l'anno 2017, di 3.150 milioni di euro per l'anno 2018, di 3.500 milioni di euro per l'anno 2019 e di 3.000 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2020 al 2032, per assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese, anche al fine di pervenire alla soluzione delle questioni oggetto di procedure di infrazione da parte dell'Unione europea, ed è rivolto a diversi settori e ambiti di intervento, tra cui la riqualificazione urbana. L'utilizzo del fondo è disposto con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con i Ministri interessati, in relazione ai programmi presentati dalle amministrazioni centrali dello Stato. Gli schemi dei decreti sono trasmessi alle Commissioni parlamentari competenti per materia, le quali esprimono il proprio parere. Con tali decreti sono individuati gli interventi da finanziare e i relativi importi.

L’art. 2 individua quindi il “primo livello” di programmazione e determinazione delle competenze, costituito dalle “linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata”. Nel corso dell’esame in sede referente sono stati specificati i settori di intervento, individuati nello: scambio informativo tra polizia locale e forze di polizia presenti sul territorio (per gli aspetti di interesse); interconnessione, a livello territoriale, delle sale operative della polizia locale con quelle delle forze di polizia; regolamentazione per l’uso comune di sistemi di sicurezza tecnologica per il controllo delle aree e delle attività a rischio; aggiornamento professionale integrato per operatori di polizia locale e forze di polizia.

Nel corso dell’esame in sede referente è stato altresì specificato che le Linee generali tengono conto della necessità di migliorare la qualità della vita e del territorio e di favorire l’inclusione sociale e la riqualificazione socio-culturale delle aree interessate.

Tali Linee generali sono adottate, su proposta del Ministro dell'interno, con accordo sancito in sede di Conferenza Unificata e sono rivolte, prioritariamente, a coordinare, per lo svolgimento di attività di interesse comune, l'esercizio delle competenze dei soggetti istituzionali coinvolti, anche con riferimento alla collaborazione tra le forze di polizia e la polizia locale.

In attuazione delle Linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata (definite con accordo in sede di Conferenza) si prevede che lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano possano concludere specifici accordi per la promozione della sicurezza integrata, “anche” diretti a disciplinare gli interventi a sostegno della formazione e dell'aggiornamento professionale del personale della polizia locale (art. 3, comma 1).

Si prevede inoltre (art. 3, comma 2) che, anche sulla base di tali accordi, le regioni e le province autonome possano sostenere, nell'ambito delle proprie competenze e funzioni, iniziative e progetti volti ad attuare interventi di promozione della sicurezza integrata nel territorio di riferimento, ivi inclusa l'adozione di misure di sostegno finanziario a favore dei comuni maggiormente interessati da fenomeni di criminalità diffusa.

Al contempo, lo Stato, nelle attività di programmazione e predisposizione degli interventi di rimodulazione dei presidi di sicurezza territoriale, anche finalizzati al loro rafforzamento nelle zone di disagio e di maggiore criticità, come specificato nel corso dell’esame in sede referente, tiene conto delle eventuali criticità segnalate in sede di applicazione dei predetti accordi (art. 3, comma 3).

Infine, si prevede che gli strumenti e le modalità di monitoraggio dell'attuazione dei predetti accordi siano individuati dallo Stato e dalle regioni e province autonome, anche in sede di Conferenza unificata (art. 3, comma 4).

La sezione II del capo I (articoli 4, 5 e 6) interviene in materia di sicurezza urbana che viene definita quale bene pubblico afferente “alla vivibilità e al decoro delle città”, riprendendo in gran parte la definizione recata dal D.M. 5 agosto 2008.

L’articolo 4 del provvedimento in esame provvede ad individuare altresì alcune aree di intervento volte a promuovere la sicurezza urbana, quali: la riqualificazione – anche sociale, culturale e urbanistica, come specificato nel corso dell’esame in sede referente ?-? e il recupero delle aree o dei siti degradati; l'eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale; la prevenzione della criminalità ed in particolare di tipo predatorio (c.d. “street crime”, relativa a reati ad alto tasso di allarme sociale quali furti e rapine); la promozione della cultura del rispetto della legalità, come modificato nel corso dell’esame in sede referente; l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile.

Com’è noto, tutte le istituzioni repubblicane, Stato, regioni e enti locali, ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze e funzioni, concorrono, anche con azioni integrate, alla realizzazione della sicurezza urbana.

Tra le principali strumenti per la promozione della sicurezza nelle città il provvedimento in esame indica i patti per l’attuazione della sicurezza urbana sottoscritti dal prefetto e il sindaco, che, incidendo su specifici contesti territoriali, individuano concretamente gli interventi da mettere in campo per la sicurezza urbana (articolo 5). I patti sono sottoscritti – come previsto in sede referente – anche tenendo conto di eventuali indicazioni o osservazioni acquisite da associazioni di categorie comparativamente più rappresentative.

I patti hanno come base fondante, oltre alle linee generali per la promozione della sicurezza integrata (adottate in sede di Conferenza unificata), come definite dall’articolo 2 del presente provvedimento, specifiche linee guida adottate con accordo sancito in sede di conferenza Stato-città e autonomie locali, su proposta del Ministro dell’interno (comma 1).

Tra le aree di intervento in materia di sicurezza urbana di cui all’articolo 4, il provvedimento in esame ne individua tre, quali obiettivi prioritari da perseguire con i patti per la sicurezza urbana (comma 2).

Si tratta dei seguenti obiettivi: la prevenzione e – come specificato nel corso dell’esame referente – il contrasto della criminalità diffusa e predatoria, attraverso “servizi e interventi di prossimità”, in particolare a vantaggio delle zone maggiormente interessate da fenomeni di degrado. Nel corso dell’esame referente è stato previsto anche il coinvolgimento, mediante appositi accordi, delle reti territoriali di volontari, per la tutela e la salvaguardia dell’arredo urbano, delle aree verdi e dei parchi cittadini. E’ stata inoltre richiamata la possibilità di installazione di sistemi di videosorveglianza; le relative spese non rilevano per i comuni ai fini del patto di stabilità interno e sono state quantificate in 15 milioni di euro a decorrere dal 2017, cui è definita, nel testo, la relativa copertura finanziaria; la promozione del rispetto della legalità, da perseguire anche attraverso iniziative di dissuasione delle condotte illecite (quali l'occupazione arbitraria di immobili e lo smercio di beni contraffatti o falsificati) e dei fenomeni che turbano e limitano il libero utilizzo degli spazi pubblici; la promozione del rispetto del decoro urbano, anche valorizzando forme di collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti, al fine di coadiuvare l'ente locale nell'individuazione di aree urbane (su cui insistono plessi scolastici e sedi universitarie, come specificato nel corso dell’esame in sede referente, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico) da sottoporre a particolare tutela ai sensi dell'articolo 9, comma 3. Tale ultima previsione affida ai regolamenti di polizia urbana l’individuazione delle aree alle quali applicare le misure a tutela del decoro previste dal medesimo articolo 9, ai commi 1 e 2, che prevedono una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 100 a euro 300 e l’ordine di allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto nel caso di condotte limitative della libera accessibilità e fruizione delle infrastrutture per il trasporto, delle relative pertinenze e aree interne.

A seguito di un emendamento approvato in sede referente è stato aggiunto un altro obiettivo che attiene alla promozione dell’inclusione della protezione e della solidarietà sociale mediante azioni e progetti per l’eliminazione di fattori di marginalità, anche valorizzando la collaborazione con enti o associazioni operanti nel privato sociale, in coerenza con le finalità del piano nazionale per la lotta alla povertà e l’esclusione sociale.

Per la tutela della sicurezza nelle grandi aree urbane il provvedimento in esame istituisce uno specifico organismo: il Comitato metropolitano dedicato all’analisi, la valutazione e il confronto sulle tematiche di sicurezza urbana relative al territorio della città metropolitana (articolo 6).

Ciascun comitato metropolitano è “co-presieduto” dal prefetto e dal sindaco metropolitano, e vi fanno parte, oltre al sindaco del comune capoluogo, qualora non coincida con il sindaco metropolitano, i sindaci dei comuni interessati.

Possono inoltre essere invitati a partecipare alle riunioni del comitato i soggetti pubblici o privati dell'ambito territoriale interessato.

La disposizione fa esplicitamente salve le competenze del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, organismo che insiste sullo stesso ambito territoriale del comitato metropolitano coadiuvando il prefetto in materia di pubblica sicurezza.

Infine, si prescrive che la partecipazione alle riunioni del comitato metropolitano è dovuta a titolo completamente gratuito (inclusi i rimborsi spese) (comma 2).

L’articolo 7 prevede che, nell’ambito delle linee guida sulle politiche di sicurezza (di cui all’articolo 2) e dei patti locali per la sicurezza urbana (di cui all’articolo 5), possono essere individuati obiettivi specifici, destinati all’incremento dei servizi di controllo del territorio e alla valorizzazione del territorio.

Per garantire il necessario sostegno logistico e strumentale alla realizzazione di tali obiettivi possono essere coinvolti enti pubblici (economici e non) e soggetti privati, secondo le disposizioni contenute nell’art. 6-bis del decreto-legge n. 93/2013 (L. 119/2013), comma 1 (come specificato in sede referente) in materia di accordi territoriali di sicurezza integrata per lo sviluppo (comma 1). Nel corso dell’esame in sede referente, è stato altresì specificato che, in ogni caso, resta ferma la finalità pubblica dell’intervento.

Ricordo brevemente che lo strumento degli accordi territoriali di sicurezza integrata per lo sviluppo è stato introdotto dal legislatore nel 2013 al fine di rafforzare i presidi di legalità nel quadro di un rapporto di collaborazione fra istituzioni in attuazione di politiche integrate e di governo della sicurezza, anche attraverso gli strumenti pattizi.

Pertanto, all’inizio della legislatura, l'art. 6-bis, comma1, del citato D.L. 93/2013 ha stabilito per le aree interessate da iniziative di sviluppo territoriale che gli accordi tra il Ministero dell’interno e regioni ed enti locali, possono avere la contribuzione anche di altri soggetti pubblici, sia pur non economici, e di soggetti privati, finalizzata al sostegno strumentale, finanziario e logistico delle attività di promozione della sicurezza dei cittadini, del controllo del territorio e del soccorso pubblico.

Tale contribuzione può essere prevista per le aree interessate da insediamenti produttivi o infrastrutture logistiche ovvero da progetti di riqualificazione e riconversione di siti industriali o commerciali dismessi o da progetti di valorizzazione dei beni di proprietà pubblica o da altre iniziative di sviluppo territoriale.

Il comma 2 dell’articolo 7 richiama l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 1, comma 439, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che attribuiscono la facoltà al Ministro dell'interno e, per sua delega, ai prefetti, di stipulare convenzioni con le regioni e gli enti locali che prevedano la contribuzione logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni e degli enti locali per la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la sicurezza dei cittadini. Si tratta dei c.d. patti per la sicurezza, su cui interviene anche l’articolo 5 dettando disposizioni per la sottoscrizione di patti per l’attuazione della sicurezza urbana.

In sede referente, è stata introdotta l’applicabilità, ove possibile, anche delle previsioni di cui all’art. 119 TUEL (D.Lgs. 267/2000), in base al quale gli enti locali possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a fornire consulenze o servizi aggiuntivi.

L’articolo 8 introduce alcune modifiche al Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), in relazione al potere del sindaco di adottare ordinanze in materia di sicurezza, di natura contingibile o non contingibile, con particolare riferimento agli orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche.

Un primo gruppo di disposizioni interviene sul potere di ordinanza del sindaco in qualità di rappresentante della comunità locale, modificando a tal fine l’articolo 50 del TUEL, ai commi 5 e 7. In particolare, sono ampliate le ipotesi in cui il sindaco può adottare ordinanze contingibili ed urgenti quale rappresentante della comunità locale, finora limitate dal TUEL al caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale (art. 50, co. 5).

Aggiungendo un periodo alla disposizione citata, si prevede che il sindaco possa adottare ordinanze extra ordinem qualora vi sia urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di: grave incuria; degrado del territorio; pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti. In sede referente, la previsione è stata estesa alla urgente necessità di superare situazioni di grave incuria o degrado anche dell’ambiente e del patrimonio culturale.

In particolare, la disposizione specifica che con tali ordinanze si può anche intervenire in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche.

In merito all’introduzione di nuove fattispecie di poteri di ordinanza extra ordinem, ricordo che da giurisprudenza costante e consolidata della Corte costituzionale deroghe alla normativa primaria, da parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza, sono consentite solo se «temporalmente delimitate» (ex plurimis, sentenze n. 127 del 1995, n. 418 del 1992, n. 32 del 1991, n. 617 del 1987, n. 8 del 1956) e, comunque, nei limiti della «concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare» (sentenza n. 4 del 1977).

In relazione alle richiamate materie, il successivo comma 2 dell’articolo in commento, stabilisce che i comuni possono adottare regolamenti ai sensi delle norme del TUEL medesimo. Com’è noto, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione, i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

In secondo luogo, la novella aggiunge una nuova disposizione al comma 7 del citato art. 50 TUEL, che attualmente attribuisce al sindaco il compito di coordinare e riorganizzare, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e nell'ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti.

In virtù della nuova disposizione introdotta, si riconosce esplicitamente in capo al sindaco il potere di adottare anche ordinanze di ordinaria amministrazione, non contingibili ed urgenti, per disporre limitazioni in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche.

Il ricorso a tale strumento è ammesso solo al fine di assicurare le esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti e, come precisato in sede referente, dell’ambiente e del patrimonio culturale in determinate aree delle città interessate da afflusso di persone di particolare rilevanza, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi.

Tali ordinanze devono disporre comunque per un tempo predefinito che, nel testo originario del decreto-legge, non deve essere superiore a sessanta giorni. Il testo approvato dalle Commissioni in sede referente riduce tale termine a trenta giorni.

Quanto all’attribuzione ai sindaci del potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione (che non possono derogare a norme legislative o regolamentari vigenti) nella giurisprudenza costituzionale è stata sottolineata l’imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Nella sentenza 115/2011 (con cui è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale del citato art. 54, comma 4, del TUEL) la Corte, a proposito della configurabilità del potere del sindaco di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, deve rispettare il principio di riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., il principio di imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., ed il principio di eguaglianza dell’art. 3, primo comma, Cost.

Infine l’articolo 8 interviene sul potere di ordinanza del sindaco in qualità di ufficiale del Governo, modificando a tal fine l’art. 54 TUEL.

In particolare viene integralmente sostituita la previsione dell’articolo 54, comma 4-bis, del TUEL, che nella versione (pre)vigente rinviava ad un decreto del Ministro dell'interno la disciplina dell'ambito di applicazione delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumità pubblica e alla sicurezza urbana. (art. 8, co. 1, lett. b)).

La nuova formulazione circoscrive, a livello di norma primaria, le ipotesi in cui il sindaco può adottare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana, in qualità di ufficiale del Governo, ai sensi dell’art. 54, co. 4, TUEL, stabilendo che tali provvedimenti devono essere diretti a prevenire e contrastare le situazioni che: favoriscono l'insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili; ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quale l'illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all'abuso di alcool o all'uso di sostanze stupefacenti.

In tale contesto, secondo la relazione illustrativa, la nuova formulazione del comma 4-bis è finalizzata a ricondurre il potere di ordinanza extra ordinem del sindaco in qualità di ufficiale del Governo “a situazioni che, per la loro natura o il loro contesto, sono considerate più contigue all’esigenza di tutela della sicurezza primaria”.

L’articolo 12, stabilisce che nelle ipotesi di reiterata inosservanza delle ordinanze emanate ai sensi dell'articolo 50, commi 5 e 7, del TUEL, come modificati dal decreto e testé illustrati, in materia di orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche, il questore può disporre la sospensione dell’attività per un massimo di quindici giorni.

Viene altresì estesa, al comma 2, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista attualmente dall’art. 14-ter, co. 2, L. 125/2001, in caso di vendita di bevande alcoliche ai minori di anni diciotto anche alle ipotesi di loro somministrazione. Ricordo che in base alla disciplina vigente, salvo che il fatto non costituisca reato, si applica una sanzione da 250 a 1.000 euro.

Con un’ulteriore modifica, introdotta in sede referente aggiungendo il comma 2-bis, viene novellata anche la seconda parte del citato art. 14-ter, co. 2, che stabilisce, se il fatto è commesso più di una volta, l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 2.000 euro con la sospensione dell'attività per tre mesi. In base alla novella la sospensione può essere disposta per un periodo compreso tra quindici giorni e tre mesi.

La relazione illustrativa del provvedimento sottolinea come tali misure sono tese “a limitare il fenomeno dell’abuso delle sostanze alcoliche, soprattutto da parte dei giovani, che può determinare, in aree della città interessate da aggregazione notturna, episodi ricorrenti connotati da condotte violente contro il patrimonio o la persona o di particolare gravità per la sicurezza urbana”.

In base alla normativa vigente (legge n. 287/1991, così come modificata dal D. Lgs. n. 59/2010) per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto che si esplicita in tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell'esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all'uopo attrezzati. Ciò che caratterizza la somministrazione è, quindi, l’esistenza di strutture logistiche atte a consentire l’assunzione e il consumo in loco di alimenti e bevande, caratteristica questa assente nel caso di esercizi deputati alla mera vendita dei suddetti prodotti. In tali esercizi, infatti, l’attività caratterizzante è quella di vendita/acquisto di alimenti e bevande, mentre è del tutto indifferente che l'acquirente, di sua iniziativa, consumi i prodotti acquistati immediatamente o in prossimità dei locali di vendita o produzione.

In sede referente è stato introdotto l’articolo 12-bis che, modificando l’articolo 100 del TULPS, estende il potere del questore di revocare e sospendere la licenza dei pubblici esercizi per motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza, anche agli esercizi di vicinato.

L’articolo 14, infine, detta disposizioni per favorire l’istituzione del numero unico europeo 112 nelle regioni.

Consente quindi alle regioni che hanno rispettato gli obiettivi del pareggio di bilancio di bandire, nell’anno successivo, procedure concorsuali finalizzate all’assunzione di personale con contratti di lavoro a tempo indeterminato da utilizzare per le attività connesse al Numero Unico Europeo 112 e alle relative centrali operative realizzate in ambito regionale in base ai protocolli d’intesa siglati ai sensi dell’art. 75-bis del Codice delle comunicazioni elettroniche.

Per le finalità indicate può essere assunto un contingente massimo commisurato alla popolazione residente in ciascuna regione, determinato in misura pari ad un’unità per trentamila residenti. A tal fine le regioni possono utilizzare integralmente i risparmi derivanti dalla cessazioni di servizio previste per le annualità 2016, 2017, 2018 e 2019, in deroga alla disciplina delle facoltà assunzionali delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 228, primo periodo, della L. 208/2015 (legge stabilità 2016).

Ricordo, in proposito, che il Numero Unico di Emergenza Europeo 112 è stato introdotto nel 1991 (direttiva 91/396/CEE) per mettere a disposizione un numero di emergenza unico per tutti gli Stati membri, in aggiunta ai numeri di emergenza nazionali, e rendere così più accessibili i servizi di emergenza, soprattutto per i viaggiatori. Dal 1998 la normativa dell'UE impone agli Stati membri di garantire che tutti gli utenti di telefonia fissa e mobile possano chiamare gratuitamente il 112. Dal 2003 gli operatori di telecomunicazioni devono fornire ai servizi di emergenza informazioni sulla localizzazione del chiamante per consentire loro di reperire rapidamente le vittime di incidenti. Gli Stati membri hanno inoltre il compito di sensibilizzare i cittadini sull'uso del 112.

Sotto il profilo normativo, da ultimo l’art. 8 della legge 124 del 2015, di riorganizzazione della p.a., ha previsto l’istituzione del numero unico europeo 112 su tutto il territorio nazionale, con centrali operative da realizzare in ambito regionale secondo modalità stabilite dai protocolli di intesa previsti dal Codice delle comunicazioni elettroniche. Al contempo ha autorizzato la spesa di 10 milioni di euro per il 2015, 20 milioni per il 2016 e 28 milioni annui a decorrere dal 2017 e fino al 2024.

In sede referente è stato introdotto il comma 1-bis, che subordina le procedure concorsuali finalizzate alle nuove assunzioni alla verifica dell’assenza di personale in mobilità o in esubero nell’ambito della stessa amministrazione con caratteristiche professionali adeguate alle mansioni richieste.

TESTI DEGLI INTERVENTI DI CUI È STATA AUTORIZZATA LA PUBBLICAZIONE IN CALCE AL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA ODIERNA: Fabrizio Cicchitto (A.C. 4109)

FABRIZIO CICCHITTO, Presidente della III Commissione. (Relazione). Onorevole Presidente, Onorevoli colleghi, rappresentante del Governo, l'Accordo di cui oggi iniziamo la discussione in Aula è stato siglato a modifica della vigente Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica di Slovenia per la manutenzione del confine di Stato", firmata a Roma il 7 marzo 2007 e ratificata con la legge n. 210 del 2010. Si tratta di un Accordo resosi necessario a causa della variazione della linea di confine di Stato tra le Parti firmatarie in corrispondenza del tratto regimato, la cui portata cioè è stata regolata con opere di tipo murario, del torrente Barbucina/Cubnica nel settore V del confine.

Ricordo l'articolo 80 della Costituzione secondo il quale gli accordi che importano modifiche territoriali sono autorizzate con legge di ratifica da parte delle Camera.

I lavori di regimazione del torrente sono stati effettuati di comune accordo fra i comuni limitrofi dei due Paesi, San Floriano del Collio in provincia di Gorizia e Obcina Brda. Tali lavori sono iniziati nel 1986 e sono stati conclusi nel 1993 determinando il venir meno del particolare morfologico che materializzava sul terreno la linea del confine di Stato.

In considerazione di tali circostanze e allo scopo di mantenere ben visibile il tracciato del confine di Stato, la Commissione mista per la manutenzione del confine di Stato ha predisposto lo schema dell'Accordo oggetto della ratifica per la revisione del confine di Stato comune. Ogni Parte ha immediatamente provveduto ad inoltrare il testo dell'Accordo, compresi gli allegati, ai rispettivi Ministeri degli affari esteri per l'avvio delle trattative.

Voglio ricordare a quest'Aula che, nel passato, il confine orientale è stato oggetto di drammatiche rivendicazioni. Già nel 1920, a seguito della Prima Guerra Mondiale, il Trattato di Rapallo aveva creato forti tensioni, con la rinuncia dell'Italia alla Dalmazia e alla città di Fiume e l'inclusione, invece, di territori in cui la maggioranza della popolazione era croata e slovena. Tale suddivisione ha fatto sì che la situazione andasse via via degenerando, arrivando a una tragica persecuzione etnica, prima, delle forze fasciste nei confronti di sloveni e croati e, poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, da parte della Repubblica socialista federale di Jugoslavia di Tito nei confronti degli italiani. Nonostante le forti tensioni del passato, oggi, a seguito della caduta del regime di Tito, a cui sono seguite le guerre jugoslave degli anni Novanta, e dell'ingresso della Slovenia nell'Unione europea nel 2004, Italia e Slovenia si trovano concordi rispetto alle questioni relative alla linea di confine comune.

Passando ad illustrare i contenuti dell'Accordo in esame, ricordo che esso si compone di quattro articoli, preceduti da un breve preambolo che richiama il comune intento di procedere alla rettifica della linea di confine. La rettifica richiede uno scambio di superfici equivalenti, pari a 1.746 metri quadrati. L'Accordo prevede che le parti provvedano ad eseguire i lavori necessari alla demarcazione dei termini di confine con lo spostamento di alcuni cippi. Inoltre, prevede anche che ulteriori variazioni del corso del torrente non avranno influenza sul tracciato come nuovamente definito.

L'Accordo non presenta profili di incompatibilità con altre normative e, anzi, risolve una questione, piccola ma comunque significativa, considerando che si tratta pur sempre dei confini dello Stato, che da qualche anno attendeva una soluzione.

In conclusione, auspico una rapida approvazione del disegno di legge di ratifica in esame, già approvato dall'altro ramo del Parlamento il 18 ottobre scorso.

TESTI DEGLI INTERVENTI DI CUI È STATA AUTORIZZATA LA PUBBLICAZIONE IN CALCE AL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA ODIERNA: Donata Lenzi; Paola Binetti; Mario Marazziti, Margherita Miotto (A.C. 1142 ed abb.)

DONATA LENZI, Relatrice per la maggioranza. (Relazione per la maggioranza). Presidente, colleghi, il disegno di legge oggi all’attenzione dell’aula e dell’opinione pubblica è di grande importanza e per molti aspetti straordinario.

Dopo un anno di discussione in commissione dopo 43 sedute di commissione di e soprattutto dopo anni di attesa approda in aula una proposta di esclusiva iniziativa parlamentare, avente ad oggetto il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento nata dalla faticosa ma sfidante opera di costruzione di un testo base partendo da 16 progetti di legge, che ha visto il governo porsi esplicitamente al di fuori del dibattito e riconoscere la piena autonomia del parlamento a legiferare in materia.

Questo non è tema da trattative di partito o di confronto su maggioranze chiamate a governare e a esprimere un esecutivo. Questo è tema squisitamente parlamentare. Il parlamento è quindi richiamato alla sua funzione fondamentale di legislatore e ognuno di noi è chiamato ad assumere responsabilmente e singolarmente una decisione difficile in un clima che, mi auguro, sia di ascolto reciproco e di serio confronto.

Iniziai il 4 febbraio del 2016 da relatore chiedendo i colleghi di staccare la mente dal clamore del caso Englaro, analogo sollecito rivolgo a tutti noi ora.

La durezza della realtà e la tragicità degli eventi sono davanti agli occhi ma la buona legge non è mai quella sul singolo caso, ma quella che è fatta con la testa oltre che con il cuore.

La complessità della materia è tale che la mia relazione è inevitabilmente più lunga dei 20 minuti che mi sono stati assegnati. Lascio quindi al resoconto di seduta la relazione completa di cui ora mi appresto a fare una sintesi.

La legge proposta rientra in una visione “mite” del diritto, è cioè legge di principi e non una elencazione puntuale di situazioni. Scelta consapevole nella convinzione che sia estremamente difficile l’elencazione di tutte le fattispecie possibili e volendo lasciare ampio spazio di autonomia al medico e agli operatori sanitari, all’organizzazione sanitaria che ha, nel vuoto legislativo, agito in modo quasi sempre ampiamente condivisibile. Piuttosto si vuole dare certezze alla loro azione e cogliere il meglio delle prassi nate in questi anni, si pensi al recepimento della pratica della pianificazione delle cure all’articolo 4.

Questa legge attua dopo 70 anni il dettato costituzionale che all’articolo 32 della carta costituzionale recita “ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività`, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può “in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Ritenuto dalla giurisprudenza immediatamente attuativo l’art.32 ha progressivamente supportato l’evoluzione della stessa giurisprudenza la quale però ha fortemente sollecitato l’intervento stabilizzatore del legislatore nazionale (da ultimo con la sentenza 262 del 2016).

L’articolo 1 ha per oggetto il consenso informato posto a base della relazione medico paziente.

Ci si riferisce a TUTTI i casi in cui si procede ad un esame o a una terapia o a un intervento chirurgico e non solo alle ipotesi di fine vita. Ci si riferisce a persone capaci di intendere e di volere e non a persone in stato di coma.

E’ possibile che la discussione parlamentare ci porti a prevedere un esplicito passaggio o comma sul paziente in fase terminale, al momento la proposta sottoposta alla attenzione dell’aula non lo prevede.

Al comma 1 sono riportati i riferimenti costituzionali agli articoli 2, 13 e 32 e agli articoli 1 (Dignità umana), 2 (Diritto alla vita) e 3 (Diritto all'integrità della persona) della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Salute libertà di scelta, vita: siamo chiamati a una mediazione alta tra principi costituzionali di pari rango quali quelli della vita, della salute, intesa nel senso moderno di benessere psico fisico, e della libertà personale. Mediazione da cercare costituzionalmente con metodo laico.

Mediazione e non gerarchia tra valori. E mi rivolgo sia a chi ritiene che il bene “vita” vada difeso a prescindere persino della volontà della persona titolare quasi che ci sia un obbligo a vivere, o a chi viceversa ritiene che la libertà di autodeterminazione si estenda fino all’ eutanasia.

Al comma 2 e 3 il consenso è posto a base della relazione di cura tra medico e paziente o meglio tra medico e operatori sanitari e la persona malata e i suoi familiari.

Ricordo che la sentenza 438 del 2008 della corte costituzionale afferma che : il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione.

La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, secondo comma, della Costituzione.

Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale.

E solo oggi la legislazione statale si è posta l’obiettivo di regolarne l’applicazione!

La corte ben sottolinea come il consenso informato venga a avere funzione di sintesi tra autodeterminazione e salute e sia requisito intrinseco di legittimità dell’atto sanitario. Tema questo collegato alla responsabilità professionale in sanità. Questa proposta di legge va vista in collegamento, anzi a completamento della legge sulla sicurezza delle cure e responsabilità professionale in sanità di recentissima definitiva approvazione.

Se in quella l’attenzione era concentrata sulla responsabilità professionale del medico e dei operatori sanitari qui il baricentro è la persona malata.

Si cura la persona malata e non la patologia. Non il tumore ma la persona malata di tumore con le proprie idee, le proprie convinzioni religiose o meno, la propria esperienza di vita, la propria capacità di sopportazione del dolore, e con famigliari ed amici.

Ampio spazio è dedicato alla completa informazione a cui il paziente ha diritto, al tempo da dedicare a questa funzione equiparato al tempo di cura (comma 9) alla possibilità di rifiutare di ricevere le informazioni e eventualmente indicare una persona di fiducia.

E come tutti i diritti di libertà il consenso si può dare, si può negare, si può ritirare. Posso dire di “si’, dire di “no”, dire “adesso basta”.

“Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. (Cassazione Sent.21748 del 2007).

I doveri costituzionali di solidarietà non possono giungere fino al punto di annullare il diritto all’autodeterminazione cioè fino ad annullare la personalità di chi si vuole tutelare.

E’ il principio previsto al comma 5 della proposta di legge, ove si prevede il diritto di rifiutare le cure, di revocare il consenso, anche con la conseguenza di interrompere le cure e mettere a rischio la propria vita.

Il rifiuto delle cure non può comportare in automatico l’abbandono. Firmi le dimissioni e me ne lavo le mani. Nel caso di persone in fase terminale deve essere garantita l’applicazione della legge sulle cure palliative, la legge 38 del 2010, e negli altri casi almeno la comunicazione al medico di famiglia.

Nelle situazioni di emergenza il medico assicura l’assistenza sanitaria e solo se possibile rispetta la volontà del paziente.

Il medico è tenuto invece a rispettare la decisione del paziente di rifiutare le cure, d’altronde non potrebbe legittimamente intervenire senza il consenso dello stesso, e trattandosi di rispetto di norma di legge è esente da responsabilità civili e penali. Era la conclusione a cui era giunta la giurisprudenza del caso Welby applicando l’articolo 51 del codice penale.

Anche la libertà del paziente incontra dei limiti. Se è vero che il suo consenso è indispensabile, la sua libertà non può spingersi fino a pretendere dal medico comportamenti contrari a norme di legge, alle buone pratiche clinico assistenziali, termine già usato nella legge sulla responsabilità professionale (art 6) che fa riferimento al sapere professionale del medico, o contrarie alla deontologia professionale. Questa ultima affermazione ha provocato allarme in chi ritiene che al medico vada chiesta una funzione di mero esecutore delle volontà del paziente e non riconosce oltre alla autonomia professionale la dimensione etica della professione. Si tratta delle conseguenze della difficile esperienza applicativa della legge 194 che ci porta ora a diffidare di qualsiasi spazio venga lasciato alla dimensione etica delle professioni sanitarie, quando in realtà sono professioni dalle quali tale dimensione non è eliminabile ed è, nella gran parte dei casi, a vantaggio del paziente e espressione umana e relazionale della cura. Piuttosto è sul piano formativo e culturale che bisogna procedere per sostenere l’evoluzione positiva del rapporto medico paziente conseguente all’allargamento del concetto di salute propugnato dall’OMS e al ruolo sempre più attivo di un paziente sempre meno “paziente”.

Non è possibile ignorare che la previsione esplicita della possibilità di interrompere le cure su richiesta del paziente prevista al comma 5 e l’obbligo per il medico di rispettarla susciti allarme in chi ritiene che si rientri così nella fattispecie dell’eutanasia passiva, e che allarme susciti la previsione che l’interruzione riguardi anche la nutrizione e l’idratazione artificiali.

Il contesto in cui ci muoviamo è quello di una medicina che, grazie agli straordinari progressi realizzati nel corso del ventesimo secolo e, soprattutto, nella sua seconda metà, ha acquisito la capacità di esercitare un vero e proprio controllo sulla morte, modulandone i tempi e i modi, attraverso un’ampia gamma di metodiche e strategie d’intervento, a più o meno elevato tasso tecnologico, funzionali alla protrazione della sopravvivenza (trattamenti di sostegno vitale), comportando un’articolazione degli scenari del morire che poco o nulla hanno a che fare con la natura, dipendendo strettamente dagli interventi della medicina. In sede di audizione è stato autorevolmente ricordato che nel mondo occidentale privo di guerre solo il 30% delle morti sono improvvise e imprevedibili e che è in atto una continua e forte medicalizzazione del processo di morte.

E’ così irragionevole e incomprensibile che in questo contesto ci sia chi, capace di intendere e di volere per proprie ragioni e convinzioni, preferisca lasciare che la malattia progredisca o che nessun sostegno lo mantenga forzatamente (perché contro il suo volere) in vita?

La proposta all’esame si basa sulla convinzione che ci sia una profonda differenza tra il sospendere la somministrazione di una cura e la somministrazione di una sostanza letale. Come dice la Cassazione “ il rifiuto delle terapie medico chirurgiche anche quando conduce alla morte non può essere scambiato per un ipotesi di eutanasia ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta a che la malattia faccia il suo corso naturale ( Cassazione 21748 del 2007)

Ricordato che all’articolo 1 ci si riferisce a persone capaci di intendere e di volere mi limito a richiamare per la nota questione sulla categoria a cui appartengono nutrizione e idratazione artificiali il parere della società scientifica di riferimento in Italia, la Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale (SINPE), nelle sue “Precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale del gennaio 2007”, ha definito appunto tale forma di nutrizione come “un complesso di procedure mediante le quali è possibile soddisfare i fabbisogni nutrizionali di pazienti non in grado di alimentarsi sufficientemente per via naturale”. La SINPE, che ha fatto propria la posizione di omologhe società internazionali, ha chiarito che “ è da considerarsi, a tutti gli effetti, un trattamento medico fornito a scopo terapeutico o preventivo” e che “ non è una misura ordinaria di assistenza (come lavare o imboccare il malato non autosufficiente)” poiché essa ha, come tutti i trattamenti medici, indicazioni, controindicazioni ed effetti indesiderati.

Ma a mio parere anche per chi fosse di diverso avviso vale in questo caso il principio costituzionale per cui “la libertà personale è inviolabile” articolo 13 e non è quindi possibile ritenere che una persona capace debba obbligatoriamente essere tenuta attaccata a un sondino naso gastrico o a una peg contro la sua volontà.

All’articolo 2 è regolata la situazione dei minori e degli incapaci.

Per quanto attiene al minore il consenso informato al trattamento sanitario è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore, tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo quale scopo la tutela della salute psicofisica e della vita della persona. Per l'interdetto - ai sensi dell'articolo 414 del codice civile -, il consenso è espresso o rifiutato dal tutore, sentito l'interdetto ove possibile, anche in tal caso avendo di mira la tutela della salute psicofisica e della vita della persona. Infine il consenso informato dell'inabilitato è espresso dal medesimo e dal curatore. Nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina prevede l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere. Viene infine previsto che in assenza di disposizioni anticipate di trattamento qualora il rappresentante legale del minore, dell'interdetto o dell'inabilitato oppure l'amministratore di sostegno rifiuti le cure proposte in contrasto con il parere del medico, che le ritenga appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.

La perdita della capacità di agire non può comportare la perdita di un diritto quale quello di esprimere la propria volontà in merito ai trattamenti sanitari a cui potrei essere sottoposto in futuro. Se il consenso al trattamento sanitario è un diritto, e abbiamo visto che lo è le disposizioni anticipate sono una modalità in cui si cerca di garantire nei limiti del possibile l’esercizio di quel diritto.

Quindi l'articolo 3 prevede e disciplina le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Queste vengono definite come l'atto in cui ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, ivi comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Il dichiarante indica una persona di fiducia - fiduciario - che ne faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le strutture sanitarie. Il fiduciario deve essere maggiorenne e capace di intendere e di volere: la sua accettazione della nomina avviene con la sottoscrizione delle DAT oppure con atto successivo che viene allegato a queste ultime. Il fiduciario può rinunciare alla nomina con atto scritto che viene comunicato al disponente; di converso il suo incarico può essere revocato dal disponente in qualsiasi momento, senza obbligo di motivazione e con le stesse modalità previste per la nomina. La figura del fiduciario è fondamentale per attualizzare le Dat. Il suo difficile compito è calare le “convinzioni e preferenze “contenute nelle Dat nella realtà concreta di malattia in cui il firmatario è venuto a trovarsi.

Qualora manchi l'indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto, o sia divenuto incapace, le DAT conservano efficacia circa le convinzioni e le preferenze del disponente. In caso di necessità sarà il giudice tutelare a nominare un fiduciario o ad investire di tali compiti l'amministratore di sostegno ascoltando, nel relativo procedimento, il coniuge o la parte dell'unione civile, o, in mancanza, i figli, o, in mancanza, gli ascendenti. Il medico è tenuto al rispetto delle DAT che possono essere disattese in tutto o in parte dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, solo quando sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione delle DAT capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

In caso di contrasto tra fiduciario e medico è previsto l'intervento del giudice tutelare. Viene poi fatto salvo il disposto del comma 7 dell'articolo 1, che, nel sancire l'obbligo del medico di rispettare la volontà espressa dal paziente e la conseguente esenzione da ogni eventuale responsabilità civile e penale, dispone anche che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Circa la forma con cui vengono espresse le DAT viene stabilito che esse debbano essere redatte per atto pubblico, o per scrittura privata, e sono esenti dall'obbligo di registrazione, dall'imposta di bollo, e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa. Analogamente a quanto previsto dall'articolo 1 per l'espressione del consenso informato, è previsto anche che qualora le condizioni fisiche del paziente non consentano di utilizzare la forma scritta, le DAT possono essere espresse anche attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le stesse forme, in qualsiasi momento, può avvenire il rinnovo, la modifica o la revoca delle DAT. Le Regioni che adottino modalità telematiche di gestione della cartella clinica, o il fascicolo sanitario elettronico, o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale, possono - con proprio atto - regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l'indicazione del fiduciario, e il loro inserimento in banca dati, lasciando in ogni caso al firmatario la libertà di scegliere se darne copia od indicare dove esse siano reperibili. Su questo punto il rilievo della commissione sugli affari regionali che sollecita l adozione di una modalità nazionale di tenuta delle Dat è meritevole di attenzione e mi auguro sia possibile risolverlo in fase emendativa.

L'articolo 4 prevede e disciplina la possibilità di definire, e di fissare in un atto, rispetto all'evolversi delle conseguenze di una patologia cronica ed invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente ed il medico, alla quale il medico è tenuto ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.

Si tratta di una procedura già in atto in alcuni hospice per le cure palliative e che ha dato buoni riscontri anche per la rassicurazione insita nel patto di non essere ne traditi nelle proprie aspettative ne abbandonati.

Il paziente e - con il suo consenso - i familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia, sono informati in modo esaustivo, ai sensi di quanto stabilito in tema di consenso informato in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, di quanto il paziente può attendersi realisticamente in termini di qualità della vita, delle possibilità cliniche di intervenire, delle cure palliative. Il paziente esprime il suo consenso rispetto a quanto proposto dal medico e i propri intendimenti per il futuro compresa l'eventuale indicazione di un fiduciario. Viene poi stabilito che il consenso del paziente e l'eventuale indicazione di un fiduciario, sono espressi in forma scritta ovvero, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentono alla persona con disabilità di comunicare e sono inseriti nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. L'atto di pianificazione delle cure può essere sempre modificato su richiesta del paziente, con le stesse forme di cui al periodo precedente. Vengono richiamate le norme di cui all'articolo 3, relative alle disposizioni anticipate di trattamento, per tutti gli aspetti non espressamente disciplinati dal presente articolo.

L'articolo 5, con una disposizione transitoria, sancisce l'applicabilità delle disposizioni della legge ai documenti contenenti la volontà del disponente circa i trattamenti sanitari depositati presso il comune di residenza o davanti ad un notaio prima dell'entrata in vigore della legge medesima, stabilendo quindi l'efficacia retroattiva della stessa.

Infine l'articolo 6 pone la clausola di invarianza degli oneri finanziari.

Mi accingo a concludere e lo faccio con una considerazione di carattere generale il problema del fine vita e delle scelte conseguenti, è problema di una medicina tecnicamente avanzata. Solo sistemi sanitari pubblici sono in grado di garantire quelle cure o in altri paesi solo poche persone con disponibilità economica sono in grado di attingere alle cure migliori per lunghi periodi di tempo. Nei molti paesi nel mondo dove neanche cibo e istruzione sono garantiti si muore per malattie da noi sconfitte da decenni. È il sistema sanitario nazionale con tutti i suoi limiti che ci permette di poter fare una scelta , ed è un miglioramento del sistema delle cure palliative quello che garantirà anche in futuro che la scelta sia autenticamente libera.

PAOLA BINETTI. (Intervento in discussione sulle linee generali). Come “risposta alla logica dello scarto e al calo demografico”, occorre portare avanti la “cultura della vita“. Lo ha affermato recentemente Papa Francesco, in occasione della giornata della vita. E questa è la premessa indispensabile del mio intervento. Si alla cultura della vita e no alla logica dello scarto: non ci sono vite a perdere e non ci sono livelli diversi di dignità nell’esistenza umana.

Non accadeva da tempo che una legge riuscisse ad interpellare la coscienza di tanta gente, coinvolgendo persone diversissime tra di loro, inguaribilmente separate da una diversa concezione della vita e della libertà, contrapposte in modo conflittuale ed inconciliabile. Non è semplice comprendere cosa realmente unisca e cosa separi gruppi e persone nell’attuale disegno di legge sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, nel frattempo divenute Disposizioni anticipate di trattamento, per accentuarne il carattere impositivo per il medico.

La legge raccoglie le disposizioni che una persona mette per iscritto per dire a chi un domani si prenderà cura di lei, in un momento in cui non sarà più in grado di esprimere con chiarezza la sua volontà in merito ai trattamenti che vorrebbe ricevere o rifiutare.

Per lasciar scritte le sue disposizioni la persona, nell’attuale ddl che stiamo per votare, non ha alcun bisogno di consultare il suo medico di fiducia; nonostante si parli di consenso informato, ciò che caratterizza questo atto assai più che l’informazione è il consenso. Conta il livello assoluto di autonomia, con cui dispone di se stessa, della sua vita e della sua morte, senza che ci sia alcuna effettiva garanzia che in quel momento si rendesse conto delle sue scelte e ne valutasse la portata. E’ la volontà soggettiva la chiave di volta dell’intero ddl, anche se la libertà con cui il soggetto si appresta ad assumere decisioni di questa portata è condizionata da stati d’animo, emozioni, sentimenti che preludono ad uno stato depressivo. Tale da farle vedere il suo orizzonte in una prospettiva pessimistica, che include anche solitudine ed abbandono.

Nel ddl che io stessa avevo presentato ad inizio legislatura le dichiarazioni del soggetto, non necessariamente paziente o malato al momento dell’elaborazione delle DAT, presupponeva un dialogo con il suo medico di fiducia. Con lui avrebbe parlato di vita e di morte, della possibilità di andare incontro ad una disabilità, che comprometteva la sua autonomia e in cui il suo stato di coscienza poteva diventare uno stato di minima coscienza. Su uno scenario del tutto virtuale avrebbero potuto fare delle ipotesi e prendere in considerazione tutte le eventualità che si sarebbero potute verificare. In un clima di conversazione amicale, dal momento che la legge stessa parla di alleanza. Un’alleanza con un obiettivo ben preciso: la relazione di cura.

Diritti individuali e interdipendenza tra le persone: il valore della relazione di cura reciproca: la sfida con cui oggi la nostra società è chiamata a misurarsi ha come oggetto specifico il rapporto tra la logica dei diritti individuali e il valore della responsabilità sociale. Diritti universali significa diritti di tutti, nessuno escluso, neppure in condizioni di estrema fragilità, come accade nella malattia: nessuno deve sentirsi escluso né come soggetto portatore di diritti, né come soggetto di responsabilità nei confronti dei diritti altrui. Tra l’universalità dei diritti individuali e tutta la responsabilità sociale che ne consegue occorre inserire la riflessione sull’interdipendenza che scaturisce tra le persone, considerate nella loro singolarità e la società considerata nel suo insieme. Il tema dell’interdipendenza tra le persone e tra le istituzioni è uno dei punti centrali nella riflessione attuale su questa legge sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Nella relazione di reciproca interdipendenza che sussiste tra gli uomini è fondamentale il rispetto della reciproca dignità, la salvaguardia degli spazi di autonomia personale e la valorizzazione della responsabilità reciproca.

La responsabilità sociale ha inizio nell’uomo e nella sua coscienza, e solo successivamente si estende alle strutture politico-economiche con cui è in costante e continua interazione. La prima responsabilità che l’uomo si assume nei confronti degli altri è quella di tutelarne i diritti come se fossero propri, riconoscendo nell’altro qualcuno altro da sé, ma uguale a sé; soggetto degli stessi diritti e degli stessi doveri. Se i diritti di cui si parla sono realmente universali, allora ogni soggetto può e deve reclamarli, e l’intero contesto sociale deve muoversi in modo solidale nei suoi confronti, perché ogni ferita, ogni possibile forma di indifferenza verso i diritti anche di una sola persona, rappresenta una condizione di rischio per i diritti di tutti. E’ proprio la dimensione universale di questi diritti che rappresenta la maggiore garanzia a livello individuale e il maggior livello di responsabilità a livello sociale

E’ il modo più semplice per tenere insieme libertà personale e responsabilità sociale, i diritti degli altri sono un mio dovere. Nella dialettica tra diritti e doveri c’è un interesse reciproco concreto e una comune tensione verso la realizzazione del bene comune, che è comune proprio in quanto è tuo e mio nello stesso tempo. Se diritti e doveri non facessero riferimento a una medesima realtà assunta come buona per entrambi, non potremmo parlare di qualcosa che rappresenta un bene comune e non potremmo porre come condizione un approccio condiviso e convergente, per garantirne la realizzazione.

Alla ricerca del senso della vita, quando la vita sembra aver perso di autonomia: se la vita è il primo dei diritti dell’uomo, dare senso alla vita, considerandola come dono e come compito, dovrebbe essere uno dei suoi primi doveri. Di fatto l’uomo cerca, più o meno consapevolmente, di dare senso alla propria vita, attraverso il proprio lavoro e il proprio rapporto con gli altri, ma per questo ha bisogno di sentirsi libero. È nella libertà che l’uomo esprime se stesso, la sua natura, ciò che ama e ciò che desidera, perché senza libertà non si può parlare né di un comportamento eticamente accettabile, né di un comportamento semplicemente umano. In alcune correnti del pensiero contemporaneo si è giunti a esaltare la libertà al punto di farne un assoluto, da cui dipenderebbero tutti gli altri valori, interrompendo il filo conduttore che lega vita e libertà, al punto da considerare il suicidio come il supremo atto di libertà dell’uomo. Recuperare il valore della relazione tra vita e libertà è una delle sfide educative più urgenti per il nostro tempo, ma nello stesso tempo è la vera sfida a cui una legge come questa dovrebbe dar risposta.

La cultura contemporanea sembra aver rimosso il senso del limite, lasciando supporre che tutto sia possibile, senza vincoli di sorta, perché tutto è manipolabile, a cominciare dal proprio corpo. Tutto può essere modificato a proprio piacimento. Il paradosso è che a questo delirio di onnipotenza corrisponde nell’uomo una sensazione di solitudine, da cui è difficile uscire e che rende incapaci di reagire: « Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza…. ci si è orientati a concedere alla coscienza dell’individuo il privilegio di fissare in modo autonomo i criteri del bene e del male e agire in conseguenza. Tale visione fa tutt’uno con un’etica individualistica, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri”.

Molto spesso il malato riesce a ritrovare il senso della vita, appannato dalla drammaticità di alcune circostanze in cui si imbatte, attraverso il colloquio con il suo medico. E’ un colloquio che può richiedere tempi più o meno lunghi, perché le domande poste al medico richiedono la capacità di immaginare le emozioni che nascono davanti alla prospettiva della grave disabilità cronica. Il medico sa di avere davanti una persona che sta immaginando come potrebbe vivere una possibile condizione di totale dipendenza dagli altri, in uno stato di non-coscienza o di minima coscienza, dove potrebbe sentire tutto senza essere capace di comunicare in modo chiaro con gli altri. Il medico sa che quest’uomo pur facendo delle scelte in apparente totale autonomia, in realtà deve elaborare una serie di condizionamenti emotivi, che attentano alla sua libertà, la irretiscono spingendola verso soluzioni che sembrano più facili ed accattivanti. L’uomo si trova ad un bivio in cui deve immaginare cosa vorrebbe fare in circostanze, che inevitabilmente gli appaiono ostili. Deve immaginare cosa farebbero i suoi familiari, di cui non ignora né la forza né la debolezza; ma deve anche provare ad immaginare cosa sarà in grado di fare la scienza in quel preciso momento. E’ un colloquio tutt’altro che formale quello che imbastisce con il suo medico di fiducia, una condizione che mette a nudo la sua anima, i suoi valori e le sue convinzioni, i suoi affetti e i suoi sentimenti. Probabilmente si chiede se i suoi vorranno prendersi cura di lui, nonostante sia diventato un peso o se invece lo abbandoneranno in qualche struttura, consegnandolo a mani estranee, forse altamente professionali, ma comunque prive di quel calore affettivo di cui nessuno può fare a meno.

Le informazioni che ci si scambia in questi momenti non sono i dati asettici del linguaggio della scienza. Si tratta di dati che richiedono una interpretazione in cui il medico si mette in gioco per aiutare il paziente a immaginare nuove ragioni per vivere in modo diverso rispetto a come è vissuto fino ad allora. La loro alleanza non si gioca solo sul piano del dire, ma anche sul piano di un possibile fare insieme. Il medico può raccontare esperienze, sollecitare ad andare a vedere, a misurarsi con orizzonti di vita imprevisti fino a quel momento, sapendo che possono offrire nuove modalità per comunicare, per comprendere e farsi comprendere, per amare e farsi amare.

Una buona legge sul fine vita può umanizzare tutta la medicina: la legge sul fine vita deve tener conto di tutto ciò e deve aiutare a cogliere il senso e la complessità di questa alleanza. La legge parla di solidarietà umana e di capacità di cura in contesti che non sono solo quelli professionali, mette in evidenza una dimensione particolare dell’esistenza, quando ci appare più fragile, valorizza la ricchezza dei rapporti umani e la loro forza.

Si tratta di una proposta di legge che cerca di archiviare le false soluzioni che una cultura individualistica e auto-referenziale si ostina a mostrare come le uniche plausibili. E’ una legge che dice un no chiaro e determinato all’eutanasia in tutte le sue forme, attive e passive, perché dice contestualmente un si forte ed appassionato alla relazione di cura, alla solidarietà umana che accetta di prendere su di sé la debolezza dell’altro per accompagnarlo per il tempo necessario fino al termine della sua vita. Senza anticipare la morte, ma senza neppure accanirsi ostinatamente per prolungare una vita che sembra giunta al suo capolinea.

Alcune problematicità delle Dichiarazioni anticipate di trattamento: si tratta di un tema la cui rilevanza è andata costantemente crescendo negli ultimi anni. Nella letteratura bioetica nazionale e internazionale, viene per lo più indicato con l’espressione inglese living will, variamente tradotta con differenti espressioni quali: testamento biologico, testamento di vita, direttive anticipate, volontà previe di trattamento ecc. Le diverse denominazioni fanno riferimento, in una prima approssimazione, a un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Per far acquisire rilievo pubblico a questi documenti si chiede che siano redatti per iscritto, che non possa sorgere alcun dubbio sulla identità e sulla capacità di chi li sottoscrive, sulla loro autenticità documentale e sulla data della sottoscrizione e che siano eventualmente controfirmati da un medico, che garantisca di aver adeguatamente informato il sottoscrittore in merito alle possibili conseguenze delle decisioni da lui assunte nel documento, fermo restando il diritto di revocare o parzialmente cambiare le sue disposizioni in qualsiasi momento.

Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) ha prodotto alcuni importanti riferimenti su questo tema. Di particolare interesse è la trattazione contenuta nel terzo capitolo del documento Questioni bioetiche sulla fine della vita umana, approvato dal CNB il 14 luglio 1995 oltre 20 anni fa. Tra queste va innanzi tutto segnalata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, da cui emerge come il consenso libero e informato del paziente all’atto medico non debba essere visto come un requisito di liceità del trattamento, ma vada considerato prima di tutto alla stregua di un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all’integrità della persona (titolo I. Dignità, art. 3. Diritto all’integrità personale). La ratifica della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (L. 28 marzo 2001, n. 145), già firmata a Oviedo il 4 aprile 1997, ribadendo la centralità della tutela della dignità e identità della persona all’art. 9 dà particolare rilievo ai desideri precedentemente espressi dal paziente, stabilendo che vadano presi in considerazione. Il principio dell’art. 9 era già stato accolto, nel 1998, dal Codice di deontologia medica italiano, che all’art. 34, sotto la rubrica Autonomia del cittadino, disponeva: “Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”. Il medesimo codice deontologico afferma all’art. 36 che “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare o favorire trattamenti diretti a provocarne la morte” e all’art. 35 abilita il medico a intervenire con l’assistenza e le cure indispensabili in condizioni di urgenza e in caso di pericolo di vita (“Allorché sussistano condizioni di urgenza e in caso di pericolo per la vita di una persona, che non possa esprimere al momento volontà contraria, il medico deve prestare l’assistenza e le cure indispensabili”).

Lo sfondo culturale che rende non più rinviabile una approfondita riflessione, non solo bioetica, ma anche biogiuridica, sulle dichiarazioni anticipate è rappresentato dalla esigenza di dare piena e coerente attuazione allo spirito della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, garantendo la massima tutela possibile alla dignità e integrità della persona in tutte quelle situazioni in cui le accresciute possibilità aperte dall’evoluzione della medicina potrebbero ingenerare dubbi, non solo scientifici, ma soprattutto etici, sul tipo di trattamento sanitario da porre in essere in presenza di affidabili dichiarazioni di volontà formulate dal paziente prima di perdere la capacità naturale. Anche nell’intento di rispettare il più fedelmente possibile il dettato normativo della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, è stata adottata l’espressione dichiarazioni anticipate di trattamento, per indicare le varie forme di autodeterminazione che possono essere ricondotte ad un atto compatibile con il modello etico e giuridico espresso dall’art. 9 della Convenzione.

Si può ben dire che le varie forme di dichiarazioni anticipate “si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente”. In realtà, le dichiarazioni non possono essere intese soltanto come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, ma hanno anche il compito, molto più delicato e complesso, di rendere ancora possibile un rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere. La finalità fondamentale delle dichiarazioni è, quindi, quella di fornire uno strumento per recuperare al meglio, nelle situazioni di incapacità decisionale, il ruolo che ordinariamente viene svolto dal dialogo informato del paziente col medico e che porta il primo, attraverso il processo avente per esito l’espressione del consenso (o del dissenso), a rendere edotto il medico di ogni elemento giudicato significativo al fine di far valere i diritti connessi alla tutela della salute e, più in generale, del bene integrale della persona. E’ come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non può più prendervi consapevolmente parte.

Le dichiarazioni anticipate non devono in alcun modo essere intese come una pratica che possa indurre o facilitare logiche di abbandono terapeutico, neppure in modo indiretto: infatti, le indicazioni fornite dal paziente, anche quando espresse (come è in parte inevitabile) in forma generale e standardizzata, non possono mai essere applicate burocraticamente e ottusamente, ma chiedono sempre di essere calate nella realtà specifica del singolo paziente e della sua effettiva situazione clinica. Pur essendo numerosi e complessi i problemi bioetici sollevati dalle dichiarazioni anticipate, sul piano etico non esistono radicali obiezioni di principio nei loro confronti. Possono essere avanzati vari dubbi e varie riserve in ordine alla struttura e alle modalità di attuazione delle dichiarazioni anticipate, che finiscono per assumere inevitabilmente una rilevante, ma anche differenziata, incidenza etica. Senza pretendere di esaurire l’ampia gamma di problematiche emerse in un dibattito ormai più che trentennale, occorre soffermarsi su alcune domande chiave per introdurre le dichiarazioni anticipate di trattamento nella prassi medica italiana: come evitare il carattere generico o eccessivamente imperativo delle dichiarazioni anticipate con le inevitabili “ambiguità” dovute al linguaggio con cui vengono formulate, in specie quando il paziente non si faccia assistere, nella loro redazione, da un medico o da altro soggetto dotato di specifica competenza? Quali indicazioni operative possono essere contenute in questi documenti e a chi vanno rivolte perché se ne faccia garante? Quale affidabilità si può e si deve riconoscere a tali documenti? Quale vincolatività devono possedere per il medico dal punto di vista deontologico e giuridico?

Le preoccupazioni per l’astrattezza delle DAT, dovuta alla distanza di tempo e di situazioni, possono essere mitigate dalla previsione che la persona può sempre revocare le sue precedenti volontà, o modificarle in riferimento agli eventuali mutamenti nella percezione della propria condizione esistenziale determinati dall’esperienza concreta della malattia. Le dichiarazioni anticipate possono assumere la forma nota come “pianificazione sanitaria anticipata” (advanced health care planning) o “pianificazione anticipata delle cure”. E’ evidente che per quanto una redazione meditata e consapevole delle dichiarazioni anticipate possa ridurne in modo significativo il carattere astratto, è comunque da escludere che questa astrattezza possa essere del tutto evitata. E’ questo già un primo e decisivo argomento (ma non certo l’unico) contro una rigida vincolatività delle dichiarazioni anticipate, che, anche se redatte con estremo scrupolo, potrebbero rivelarsi non calibrate sulla situazione esistenziale reale nella quale il paziente potrebbe venire a trovarsi.

Un ulteriore rilievo spesso avanzato nel dibattito sulle dichiarazioni anticipate riguarda il loro linguaggio e la competenza con cui vengono scritte. E’ difficile per il paziente definire in maniera corretta le situazioni cliniche in riferimento alle quali intende fornire le dichiarazioni, questa situazione può essere fonte di ambiguità nelle indicazioni e, quindi, di dubbi nel momento della loro applicazione. Questo rilievo tocca un problema particolarmente spinoso e, se venisse portato alle sue ultime conseguenze. Nessuno dovrebbe dimenticare l’antico avvertimento aristotelico, secondo cui non si dovrebbe mai esigere un grado di precisione maggiore di quello consentito dalla materia.

Altro grave problema, molto affine, ma non coincidente col precedente, è quello della concreta configurazione che a seguito dell’osservanza delle dichiarazioni acquisterebbe la decisione terapeutica del medico. Se tale decisione dovesse consistere in una fredda e formale adesione integrale alla lettera di quanto espresso nelle dichiarazioni, si verrebbe a determinare un automatismo che finirebbe per indebolire, se non vanificare, il valore non solo etico, ma anche medico-terapeutico, della prassi medica e per potenziarne il carattere burocratico.

La strategia individuata per risolvere queste difficoltà è stata quella della nomina da parte dell’estensore delle dichiarazioni di un curatore o fiduciario. Questa figura è presente in molti dei modelli di dichiarazioni anticipate proposti in Italia e all’estero, alcuni dei quali già hanno ottenuto riconoscimento legale in diversi Stati. In particolare negli Stati Uniti, la direttiva di delega (Durable power of attorney for health care nello Stato della California; Health care representative nello Stato dell’Oregon; Patient advocate for health care nello Stato del Michigan) costituisce la struttura portante di questi documenti. I compiti attribuibili al fiduciario possono essere molteplici, ma tutti riconducibili a quello generalissimo di operare, sempre e solo secondo le legittime intenzioni esplicitate dal paziente nelle sue dichiarazioni anticipate, per farne conoscere e realizzare la volontà e i desideri; a lui il medico dovrebbe comunicare le strategie terapeutiche che intendesse adottare nei confronti del malato, mostrandone la compatibilità con le sue dichiarazioni anticipate di quest’ultimo o – se questo fosse il caso – giustificando adeguatamente le ragioni per le quali egli ritenesse doveroso (e non semplicemente opportuno) discostarsi da esse. In sintesi, spetterebbe al fiduciario il compito di tutelare a tutto tondo la persona del paziente (a partire dalle dichiarazioni da questo formulate) prima ancora che quello di vigilare per la corretta e formale esecuzione dell’atto in cui le dichiarazioni trovino incarnazione (ma naturalmente non dovrebbe esistere alcuna difficoltà di principio a far convergere l’uno e l’altro impegno).

E’ indubbio che la figura del fiduciario crei sottili problemi, che è doveroso evidenziare. Essa appare, in prima battuta, modellata sul paradigma normativo che regola attualmente la protezione dei diritti e degli interessi del maggiorenne incapace. Tale riferimento è però inadeguato, poiché le misure di protezione (l’interdizione e l’inabilitazione e la successiva nomina di un tutore) previste dall’ordinamento per i maggiorenni incapaci rispecchiano una linea culturale più attenta alla cura del patrimonio e più funzionale agli interessi dei familiari o dei terzi che ai diritti e ai bisogni (non soltanto patrimoniali) della stessa persona incapace. Ciò spiega l’insistenza di chi sostiene che sia assolutamente necessaria una legge, per introdurre nel nostro ordinamento la figura del fiduciario, come fattispecie assolutamente nuova. Come per ogni valutazione bioetica, quella del fiduciario deve aspirare a possedere un’autorevolezza, più che un’autorità giuridicamente sanzionata, e i suoi compiti dovrebbero esclusivamente riassumersi nell’individuazione, in costante dialogo e confronto con i medici curanti, del miglior interesse del paziente divenuto incapace di intendere e di volere, a partire dalle indicazioni lasciate da costui nelle sue dichiarazioni anticipate. Spetterebbe quindi al fiduciario vigilare perché il medico non cada nella tentazione di praticare alcuna forma di accanimento e concordare col medico la via concreta da seguire, nell’eventualità che si prospettino diverse, legittime opzioni diagnostiche e terapeutiche. Resta comunque escluso che il fiduciario possa prendere decisioni che non avrebbero potuto essere legittimamente prese dal paziente stesso nelle proprie dichiarazioni anticipate

I contenuti delle dichiarazioni anticipate: se le dichiarazioni anticipate vanno collegate all’affermarsi di una cultura bioetica, che ha già efficacemente operato per l’introduzione del modello del consenso informato nella relazione medico-paziente, e per il superamento del paternalismo medico, il loro ambito di rilievo coincide con quello in cui il paziente cosciente può esprimere un consenso o un dissenso valido nei confronti delle indicazioni di trattamento che gli vengano prospettate. Il principio generale al quale il contenuto delle dichiarazioni anticipate dovrebbe ispirarsi può quindi essere così formulato: ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale. Da questa definizione appare subito evidente che questo principio esclude che tra le dichiarazioni anticipate possano annoverarsi quelle che siano in contraddizione col diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica, con la deontologia medica o che pretendano di imporre attivamente al medico pratiche per lui in scienza e coscienza inaccettabili. Per quanto concerne l’ordinamento giuridico italiano, è da ricordare la presenza di norme costituzionali, civili e penali che inducono al riconoscimento del principio della indisponibilità della vita umana. Di conseguenza, attraverso le dichiarazioni anticipate, il paziente non può essere legittimato a chiedere e ad ottenere interventi eutanasici a suo favore.

Si aggiunga il fatto che l’ambiguità con cui in alcuni paesi sono state redatte, o sono state interpretate in modo inaccettabilmente estensivo dai giudici leggi che hanno riconosciuto validità alle dichiarazioni anticipate, contribuisce a rendere estremamente complessa la corretta analisi del punto in questione e ha favorito in molti settori della pubblica opinione l’idea che il riconoscimento della validità delle dichiarazioni anticipate equivalga alla legalizzazione dell’eutanasia.

Tra i contenuti delle dichiarazioni anticipate già esistenti è possibile evidenziare alcuni punti: indicazioni sull’assistenza religiosa, sull’intenzione di donare o no gli organi per trapianti, sull’utilizzo del cadavere o parti di esso per scopi di ricerca e/o didattica; indicazioni circa le modalità di umanizzazione del percorso verso la morte (cure palliative, richiesta di essere curato in casa o in ospedale ecc.); indicazioni che riflettono le preferenze del soggetto in relazione al ventaglio delle possibilità diagnostico-terapeutiche che si possono prospettare lungo il decorso della malattia; indicazioni finalizzate ad implementare le cure palliative, secondo quanto indicato dalla legge 38 del 2010. indicazioni finalizzate a richiedere formalmente la non attivazione di qualsiasi forma di accanimento terapeutico, cioè di trattamenti di sostegno vitale che appaiano sproporzionati o ingiustificati; indicazioni finalizzate a richiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, che però non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi di accanimento; indicazioni finalizzate a richiedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale.

I primi due tipi di indicazioni non sollevano particolari problemi e possono essere formulate in modo sufficientemente preciso e tale da non ingenerare dubbi o difficoltà di sorta in coloro che dovranno dare ad esse esecuzione. Neppure il terzo tipo di indicazioni suscita specifiche difficoltà, in specie quando assume la forma della pianificazione anticipata delle cure e si mantiene nell’ambito delle opzioni diagnostico-terapeutiche prospettabili per il decorso di una specifica malattia. Nemmeno sul quarto e sul quinto tipo di disposizioni insistono controversie di ordine morale, dato l’unanime e condiviso auspicio alla massima diffusione delle terapie palliative e l’altrettanto unanime condanna dell’accanimento terapeutico.

Le ultime ipotesi sono invece ampiamente controverse e lo è in modo particolare l’ultima, in specie se si considerano i significati simbolici che si addensano sull’alimentazione e sull’idratazione, anche se artificiali. Alcuni sostengono che al paziente vada riconosciuta la facoltà di dare disposizioni anticipate circa la sua volontà di accettare o rifiutare qualsiasi tipo di trattamento e di indicare le condizioni nelle quali la sua volontà deve trovare attuazione; e sottolineano la necessità che la redazione di tali disposizioni avvenga (o comunque sia oggetto di discussione) nel contesto del rapporto medico-paziente, in modo che il paziente abbia piena consapevolezza delle conseguenze che derivano dall’attuazione delle sue volontà. Altri ritengono, invece, che il potere dispositivo del paziente vada limitato esclusivamente a quei trattamenti che integrino, in varia misura, forme di accanimento terapeutico, perché sproporzionati o addirittura futili. Non rientrerebbero, a loro avviso, in tale ipotesi interventi di sostegno vitale di carattere non straordinario, né l’alimentazione né l’idratazione artificiale che, quando non risultino gravose per lui, costituirebbero invece, atti eticamente e deontologicamente doverosi, nella misura in cui – proporzionati alle condizioni cliniche - contribuiscono ad eliminare le sofferenze del malato terminale e la cui omissione realizzerebbe una ipotesi di eutanasia passiva.

Affidabilità delle dichiarazioni anticipate: se sulla apprezzabilità morale delle dichiarazioni anticipate esiste un vasto consenso di principio, non altrettanto si può dire sul valore che a tali dichiarazioni sia da riconoscere dal punto di vista della deontologia medica e del diritto. Due sono i punti che vanno messi in discussione, strettamente connessi, ma analiticamente distinguibili: quello della affidabilità di scelte formulate in un momento anteriore a quello in cui devono attuarsi; “ora per allora”; quello del carattere per il medico vincolante o orientativo che a tali scelte debba o possa essere attribuito.

Sotto il primo profilo, si osserva che le dichiarazioni anticipate, non assicurano il requisito della loro attualità nel momento in cui concretamente si determineranno le condizioni per cui il medico debba intervenire. Per tale ragione esse vengono spesso considerate con diffidenza da parte della dottrina penalistica, dal momento che non garantiscono l’attuazione della reale volontà del paziente: il medico non avrebbe mai la certezza che le dichiarazioni pregiudizialmente espresse in determinate circostanze e condizioni personali (spesse volte di pieno benessere psico-fisico) corrispondano alle volontà che il paziente manifesterebbe, qualora fosse capace di intendere e di volere, nel momento in cui si rendesse necessaria la prestazione terapeutica.

Si possono fare due contro-argomentazioni. La prima è la seguente: ove un soggetto, pur debitamente invitato a riflettere sui rischi ai quali sopra si è accennato, al fatto cioè che tutte le decisioni anticipate di trattamento possiedono inevitabilmente un carattere precario, contingente ed incerto, confermasse comunque la sua ferma volontà di redigerle, con la sua firma egli manifesterebbe senza equivoci l’intenzione di assumersi personalmente e pienamente, almeno sul piano etico, tale rischio. Questo non crea difficoltà per la maggior parte dei pazienti, intenzionati a volersi affidare alla competenza e alla saggezza del medico curante e alle sue conseguenti, insindacabili decisioni. Ma ne crea invece di significative per quei pazienti, che ritengono inaccettabile qualsiasi modifica delle loro direttive. Da questa difficoltà si può uscire solo se si considera che il concetto dell’attualità esprime un requisito logico e non meramente cronologico-temporale. Si deve aggiungere che, nel caso delle dichiarazioni anticipate, come in quello di qualsiasi altra forma di espressione previa della volontà e più in generale di personali orientamenti, vale il principio secondo il quale la persona conserva il diritto di revocare o modificare la propria volontà fino all’ultimo momento precedente la perdita della consapevolezza.

L’art. 9 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina adotta le espressioni souhaits e wishes, che corrispondono al concetto di cosa desiderata, non di cosa imposta a terzi. La persona chiede che i suoi desideri siano rispettati, ma chiede che lo siano a condizione che mantengano la loro attualità e cioè solo nel caso che ricorrano le condizioni da lui stesso indicate: si può, infatti, ragionevolmente presumere che nessun paziente intenda incoraggiare attitudini di abbandono terapeutico, privandosi così della possibilità di godere dei benefici dei trattamenti che eventualmente si rendessero disponibili quando egli non fosse più in grado di manifestare la propria volontà. Questo carattere non (assolutamente) vincolante, ma nello stesso tempo non (meramente) orientativo, dei desideri del paziente non costituisce una violazione della sua autonomia, che anzi vi si esprime in tutta la sua pregnanza; e non costituisce neppure (come alcuni temono) una violazione dell’autonomia del medico e del personale sanitario. Si apre qui, infatti, lo spazio per l’esercizio dell’autonoma valutazione del medico, che non deve eseguire meccanicamente i desideri del paziente, ma anzi ha l’obbligo di valutarne l’attualità in relazione alla situazione clinica di questo e agli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica che possano essere avvenuti dopo la redazione delle dichiarazioni anticipate o che possa sembrare palese che fossero ignorati dal paziente. Questo è, del resto, il modo più corretto per interpretare il dettato dell’art. 9 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, come risulta chiaro dal punto 62 del Rapporto esplicativo:

Questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione. Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell’intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l’opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere soddisfatto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina”.

A tal proposito, conviene ricordare che in una precedente versione della Convenzione, i desideri del paziente venivano indicati come “determinanti”, un aggettivo che suscitò molte perplessità e riserve (tra le quali quelle del CNB): da un lato, infatti, tale aggettivo sembrava costituire una violazione dell’autonomia professionale del medico; dall’altro, non sembrava neppure corrispondere alle reali esigenze che – come si è osservato poco sopra - possono indurre un paziente a formulare dichiarazioni anticipate.

Tuttavia, il passaggio da “determinanti” a “tenuti in considerazione” non dovrebbe essere interpretato come passaggio da un carattere (assolutamente) vincolante a uno (meramente) orientativo. Se è corretto escludere la prima caratterizzazione, anche la seconda va esclusa quando venga intesa in senso talmente debole da coincidere con la restituzione al medico di una piena libertà decisionale ed operativa, che equivarrebbe a conferirgli un indebito potere paternalistico, che implicherebbe il completo svuotamento di senso delle dichiarazioni anticipate stesse. Queste osservazioni dovrebbero togliere mordente alla questione del carattere più o meno vincolante delle dichiarazioni anticipate. La valenza etica di queste dichiarazioni dipende esclusivamente dal fatto che esse conservino la loro attualità nel processo di autonoma valutazione, operato dal medico. Se il medico, in scienza e coscienza, si formasse il solido convincimento che i desideri del malato fossero non solo legittimi, ma ancora attuali, onorarli da parte sua diventerebbe non solo il compimento dell’alleanza che egli ha stipulato col suo paziente, ma un suo preciso dovere deontologico: sarebbe infatti un ben strano modo di tenere in considerazione i desideri del paziente quello di fare, non essendo mutate le circostanze, il contrario di ciò che questi ha manifestato di desiderare. E’ altresì ovvio che se il medico, nella sua autonomia, dovesse diversamente convincersi, avrebbe l’obbligo di motivare e giustificare in modo esauriente tale suo diverso convincimento, anche al fine di consentire l’intervento del fiduciario o curatore degli interessi del paziente.

Raccomandazioni bioetiche conclusive: in sintesi, le dichiarazioni anticipate sono legittime, hanno cioè valore bioetico, quando rispettino i seguenti criteri generali: abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale; non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza; ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato nel punto B, si auspica che esse siano compilate con l’assistenza di un medico, che può controfirmarle; siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione.

Due culture a confronto: nella legge in questione, al di là dell’articolato tecnico, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza, nonostante le numerose occasioni di incontro e di confronto che si sono svolte nel lavoro delle commissioni, in occasione di convegni e seminari o più semplicemente nei tanti incontri, formali e informali, che ci sono stati in questi anni.

Nella posizione laica di ispirazione cristiana, il valore della vita si affianca al valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell’uomo, strettamente collegata al senso della responsabilità, dal momento che non c’è vera libertà senza responsabilità. E’ una posizione che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, la considera degna di essere vissuta proprio in quanto vita umana, non per le sue capacità e le sue competenze. E chiede a tutti gli uomini di riconoscere questo valore e di sentirsi coinvolti nel tutelarla e nel proteggerla. In questa impostazione etica della responsabilità e etica della cura si intrecciano profondamente, come due facce di una unica medaglia che nella sua unità esprime il senso della nostra umanità. In questa concezione il valore della persona implica nello stesso tempo autonomia e relazionalità, interdipendenza e capacità di comunicazione, solidarietà e spirito di servizio.

Nella posizione laico-laicista, al centro c’è quel principio di autodeterminazione, che fa della libertà un valore assoluto, subordinando il valore della vita ad una serie di condizioni quali la percezione del benessere, la possibilità di agire in piena autonomia, definendo soggettivamente i parametri che rendono una vita più o meno degna di essere vissuta. E’ un approccio culturale in cui il bene viene filtrato attraverso un’ottica di tipo relativista, dal momento che ognuno deve poter dire cosa è buono e cosa non lo è; cosa reputa vero e cosa non lo sia. Al soggetto tutto deve essere consentito, anche il negare il valore della vita, se e quando questa perde qualcuna delle prerogative che lui reputa essenziali. Una posizione che si spinge fino al punto di considerare un diritto la possibilità di fissare i termini per la propria morte e quindi pretende dalle istituzioni l’aiuto necessario a tradurre in pratica questa volontà di morire, sia depenalizzando l’eutanasia, che arrivando addirittura a proporla come un bene, con dignità di cura.

Pur essendo a favore della possibilità che una buona legge aiuti a far chiarezza e garantisca alle persone un modo valido per far sentire la loro voce, nutro ancora fortissime perplessità nei confronti dell’attuale ddl che giunge oggi in Aula, Molto dipenderà quindi dal dibattito e dagli emendamenti che verranno o meno approvati.

In sintesi: nella legge in questione, al di là dell’articolato tecnico, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza, nonostante le numerose occasioni di incontro e di confronto che si sono svolte nel lavoro delle commissioni, in occasione di convegni e seminari o più semplicemente nei tanti incontri, formali e informali, che ci sono stati in questi anni.

Nella posizione laica di ispirazione cristiana, il valore della vita si affianca al valore della libertà, considerata come una delle caratteristiche principali dell’uomo, strettamente collegata al senso di responsabilità, dal momento che non c’è vera libertà senza responsabilità. E’ una posizione che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, la considera degna di essere vissuta proprio in quanto vita umana, non per le sue capacità e le sue competenze. E chiede a tutti gli uomini di riconoscere questo valore e di sentirsi coinvolti nel tutelarla e nel proteggerla. In questa impostazione etica della responsabilità e etica della cura si intrecciano profondamente, come due facce di una unica medaglia che nella sua unità esprime il senso della nostra umanità. In questa concezione il valore della persona implica nello stesso tempo autonomia e relazionalità, interdipendenza e capacità di comunicazione, solidarietà e spirito di servizio.

Nella posizione laico-laicista, al centro c’è il principio di autodeterminazione, che fa della libertà un valore assoluto, subordinando il valore della vita ad una serie di condizioni quali la percezione del benessere, la possibilità di agire in piena autonomia, definendo soggettivamente i parametri che rendono una vita più o meno degna di essere vissuta. E’ un approccio culturale filtrato attraverso un’ottica di tipo relativista, dal momento che ognuno deve poter dire cosa è buono per sé e cosa non lo è; cosa reputa vero e cosa non lo sia. Al soggetto tutto deve essere consentito, anche il negare il valore della vita, se e quando questa perde qualcuna delle prerogative che lui reputa essenziali. Una posizione che si spinge fino al punto di considerare un diritto la possibilità di fissare i termini per la propria morte e quindi pretende dalle istituzioni l’aiuto necessario a tradurre in pratica questa volontà di morire, sia rifiutando le cure, compresa la nutrizione e l’idratazione, sia depenalizzando l’eutanasia, che arrivando addirittura a proporla attraverso la sedazione profonda (cfr Nei soli casi in cui il paziente si trovi in condizioni gravi e irreversibili, refrattarie ai mezzi terapeutici e con prognosi negativa di sopravvivenza a breve termine, e sia espressa da parte sua la volontà di evitare ulteriori sofferenze fisiche e il prolungamento della vita attraverso mezzi terapeutici tanto insistenti quanto ormai inutili (ostination déraisonnable), può essergli praticato (anche a domicilio) un trattamento idoneo a indurne lo stato di sedazione profonda e continua fino a che sopraggiunga il decesso, in associazione alla somministrazione di analgesici e alla sospensione di ogni altra cura. Anche in questo caso, la relativa decisione sanitaria è adottata con procedura collegiale al fine di verificare che effettivamente ricorrano le condizioni per poterla esercitare.

Pur essendo a favore della possibilità che una buona legge aiuti a far chiarezza anche sul proprio fine vita e garantisca alle persone un modo valido per far sentire la loro voce, quando non potranno farlo, nutro ancora fortissime perplessità nei confronti dell’attuale ddl che giunge oggi in Aula. Molto dipenderà quindi dal dibattito e dagli emendamenti che verranno o meno approvati. Ne ho presentati una quarantina senza nessuna intenzione ostruzionistica. Tutti di merito. Si collocano lungo queste direttive

Il paziente, in pieno possesso delle sue capacità di intendere e volere, non deve essere depresso o condizionato da circostanze interiori ed esteriori che ne limitino la lucidità.

Le richieste del paziente non sono sempre, né del tutto vincolanti per il medico, che deve muoversi nel solco della legalità (art. 579-580 CP), della deontologia e della competenza clinica aggiornata.

La legge non può e non deve dare adito a nessuna interpretazione in chiave eutanasica, né permissiva (cfr sospensione nutrizione-idratazione) né attiva (cfr sedazione profonda).

Il rifiuto delle cure e il si alle cure palliative, non può strumentalizzare queste ultime convertendole in una forma surrettizia di eutanasia.

MARIO MARAZZITI. (Intervento in discussione sulle linee generali). Presidente, Colleghi deputati, un giornalista-scrittore svedese. Carl-Henning Wijkmark alla fine degli anni ’70 pubblicò un libretto corrosivo, La morte moderna, che racconta di un simposio di due giorni di immaginarie autorità scientifiche e politiche svedesi di fronte al tema: “il crescente numero di anziani”, che “rende insostenibile l’economia del Paese”. Nel libretto si diceva: “ci vorrebbero più morti”. “Ma come fare? Morire è considerato innaturale. Adesso più che mai”. Si diceva: “La radice del male non è in primo luogo che l’eutanasia sia illegale, ma che lo sia perché in così pochi chiedono l’eutanasia”. Naturalmente c’era chi obiettava. E anche la risposta: “Non abbiate timore, non mi sono dimenticato di Hitler, non stiamo programmando nessuno sterminio di massa di anziani e handicappati e altre bocche inutili da sfamare”. La conclusione è “rendere la morte di nuovo attraente, desiderabile, e la domanda di eutanasia spontanea”. La via democratica. Claudio Magris commentava a proposito di mancate vaccinazioni ai bambini down, destinandoli a una “pressoché sicura morte, ciò “ è sentito come un atto di misericordia verso i genitori…e la dipartita dell’anziano convinto ad andarsene viene programmata come una festa in suo onore e una sconfitta della solitudine della vecchiaia”. Siamo in questo tempo. Per questo quella che abbiamo davanti è una legge difficile.

Riguarda tutti noi, i nostri cari, nonni, padri, madri, fratelli, sorelle, amici, noi stessi, i nostri figli, chi verrà dopo di noi. Tocca la vita, il senso della vita, come la attraversiamo, le nostre idee sulla vita, dentro una società in grande trasformazione. Milioni di storie diverse e simili. E tutti noi, periodicamente, siamo stati immersi e sommersi nelle storie drammatiche delle decisioni difficili, alcune più famose di altre, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, oggi Fabiano Antoniani, altri. Storie tutte diverse, ma che sono state percepite come una unica grande storia. Per tanti queste storie tutte diverse, che riguardano l’eutanasia, il suicidio assistito, gli stati di coscienza acuta o di completa incoscienza, il morire con dignità, il dolore e i modi per combatterlo, la medicina palliativa, la cultura dell’accompagnamento di chi vive e del morente, rappresentano una, unica forte, troppo semplificata, domanda di legge.

Siamo su un confine sottile. Dignità del vivere e del morire. Ma non c’è una linea chiara. Dipende dalla cultura, dalle convinzioni personali e sociali, dalla storia personale, dagli incontri umani, che in qualunque momento possono farci cambiare idea anche rispetto a convinzioni profonde, in un senso o nell’altro.

E poi: siamo nella storia, in una storia che cambia rapidamente, cambia con il progresso scientifico e tecnologico, che arriva fino alle fasi ultime della vita. Cambia nell’organizzazione sociale. Cambia per le malattie che ci accompagnano negli ultimi decenni della nostra vita, tante croniche, nessuna decisiva. Perché abbiamo gli anni in più, la più grande conquista dell’umanità, questa età più lunga, cui le nostre società occidentali non sanno dare un senso: e da benedizione rischia di essere un tempo di naufragio, non amato socialmente, e trasformarsi in maledizione.

La legge che abbiamo davanti tocca tutte queste trasformazioni, ci sta dentro. Lo mostra la confusione del linguaggio e del dibattito pubblico. Perché il linguaggio, a volte, precede e non segue i comportamenti. Si parla spesso di “qualità” della vita e di “dignità “ della vita e del morire.

Quando lo diciamo sembra che sappiamo bene di che si parla, ma non è così. Quando è che una vita ha “qualità” o la perde al punto da non essere più vita? Grandi italiani, come Indro Montanelli, Umberto Veronesi, attribuivano alla capacità di ragionamento, non comune nel loro caso, un tratto distintivo della qualità e della vita stessa. Perdere l’autosufficienza, non essere in grado di controllare le proprie funzioni fisiologiche, o l’uso delle proprie gambe per alcuni lo ritengono non più “dignità della vita”. Per altri, tanti, questo tempo della vita, in cui si dipende di più dagli altri, se accompagnato con tenerezza, acquista invece un sapore aggiuntivo di vita buona, dove tutto diventa relazione, calore, persino piacere o momento atteso, perché più affettivo. Un limite, un handicap importante, non vedere più, non camminare più, non assaporare più aree della vita che caratterizzano con forza, piacere e vitalità gli anni giovanili, per alcuni suona insopportabile, un segno evidente che quella “non è più vita”. Anche se tutti lottiamo per i diritti dei disabili, anche gravi, come con la legge sul Dopo di noi, di cui sono orgoglioso. E le pari opportunità. Dove tracciamo la linea? Come fare una legge che mentre tutela alcuni può diventare – anche involontariamente - uno strumento terribile a danno di altri e proprio dei più deboli?

Domande che sono dentro ognuno di noi- “La morte è diventata un tabù. Non solo ormai è normale morire in solitudine ma non si può neppure più parlare della morte”. Eutanasia, buona morte, morte “dolce”. “lasciatemi andare”. “Fatemi andare”. Una linea sottilissima. Si può fare una legge su questa linea sottilissima? Il rischio di doverla allargare, perché troppo sottile, c’è stato, c’è. Lo dobbiamo evitare. C’è anche la richiesta, in condizioni particolari, di ricevere la morte, un suicidio assistito.

Abbiamo fatto una scelta, che è una bussola. Non vanno fatte leggi sui casi estremi. Ma leggi per tutti. Evitando lacerazioni e di fare prevalere solo un polo del problema.

L’autodeterminazione e la libertà di scelta della persona da un lato, la responsabilità medica dall’altro, ad esempio. Come ricostruire una alleanza e non una concorrenza, come evitare il paternalismo medico e valorizzare di nuovo la responsabilità, sia della persona che del medico? Medico come esecutore di volontà altrui? Disposizioni Anticipate, anche quando queste appaiano troppo rigide e non applicabili al caso concreto? Ho presentato un emendamento, su questo punto, ragionevole, che non intacca la libertà di scelte, per evitare però una gabbia troppo rigida.

Questa legge si muove in una società reale, non ideale. Una società frammentata, individualista, conflittuale, dove le solitudini e gli abbandoni sono molti. Dove la desistenza terapeutica è più frequente, verso i poco autosufficienti, dell’accanimento terapeutico. Ma se ne parla meno. E’ cresciuto il senso, forte, delle libertà individuali. Una società con poche parole sulla malattia e la debolezza e molte parole sulla bellezza, l’efficienza, la non dipendenza in un mondo sempre più interdipendente.

La vita è un bene individuale o relazionale? O tutti e due?

La via più semplice per il legislatore sarebbe una legge che sancisse, secondo lo spirito del tempo, il primato assoluto delle preferenze e scelte individuali. Ma sarebbe una scorciatoia, perché stiamo facendo una legge per oggi e anche per domani. Dobbiamo, anche attraverso questa legge, accompagnare nella debolezza, umanizzare il morire quanto si può, favorire la riduzione dell’isolamento e disperazione, fare crescere una “cultura dell’accompagnamento”.

Si dice: l’Italia è arretrata, ancora, perché non è al passo con l’Europa dei diritti. La drammatica vicenda di Fabiano, DJ Fabiano, si è detto, conteneva un diritto negato: quello di morire.

Ma c’è una differenza radicale tra desideri e diritti. Non ogni desiderio è un diritto. O riguarda lo Stato.

Una società che si fondi sulla giustapposizione dei tanti desideri individuali – macchine desideranti, diceva Michel Foucault - è destinata a sgretolarsi e smette di essere una società. Gran parte dei nostri desideri, anche se forti, sono indotti, in una società del consumo: erano le prime letture da adolescenti impegnati, forse se ne è persa memoria.

Fuori c’è chi manifesta per fare pressione. Penso che su questo, anche se milioni manifestassero, qui in Parlamento avremmo la responsabilità di una buona legge, perché ad alta voce non se ne fa mai una buona. Non è solo la folla di Gesù o Barabba, che sceglie male. Sono le folle che di fronte a delitti efferati chiedono linciaggio, pena di morte, sangue, rappresaglia, vendetta. Ma proprio per questo esistono le leggi. L’Europa ha nella sua Carta Fondamentale il rifiuto della pena di morte e così l’Italia, che l’ha cancellata dalla Costituzione. Proprio per i tempi in cui lo spirito del tempo parla per desideri e umori.

Ho osservato ieri su Avvenire quale contraddizione sia nel fatto che nel suicidio assistito di Fabiano sia stato usato il pentobarbital, il farmaco che in questi giorni viene usato a ripetizione in Arkansas per 8 esecuzioni capitali, proprio perché sta per essere vietato in tutte le esecuzioni capitali, dopo che io personalmente, con la Comunità di Sant’Egidio e il governo italiano, assieme a qualcuno di quelli che oggi accompagnano a morire con dignità in Svizzera riuscimmo a bloccare nel 2011, a mettere fuori legge, a eliminare il pentothal. Ci fa orrore il pentobarbital delle esecuzioni capitali e non fa orrore il pentobarbital dei suicidi assistiti. Contraddizioni radicali.

Abbiamo qui una legge sul Consenso Informato, le Disposizioni Anticipate di Trattamento e la Pianificazione Condivisa delle Cure.

No può e non deve essere la legge dei “laici” o dei “cattolici”, come recita la rappresentazione classica. Da una parte i fautori dei valori “non negoziabili” e dall’altra la modernità inarrestabile e i diritti dell’individuo, quasi fossimo di fronte all’esito naturale delle rivoluzioni francese e liberale nel XXI secolo. Non è così.

Non è negoziabile il valore della vita, non è negoziabile neppure il rifiuto della guerra, assoluto, la necessità di non creare milioni di profughi, di vittime, di abusi della dignità e della vita delle persone, non è negoziabile non lasciare morire i bambini nel Mediterraneo o nelle foreste birmane come i Rohingya. Non è negoziabile il diritto all’acqua, al cibo, ad avere accesso alle cure: la giustizia non è negoziabile. Quasi tutto è non negoziabile.

Poi c’è la responsabilità della politica, di costruire nel dialogo le soluzioni migliori, più praticabili per tutti. Nel negoziato. E’ lo spazio del Parlamento, la nostra responsabilità, che non può essere sostituita dagli umori della gente, dai giornali, dai blog o dalla piazza, dai libri sacri di ogni religione o delle religioni civili. Non ho nessuna intenzione di cedere su nessuno dei valori non negoziabili. Non mi sottrarrò, con il mio gruppo di Democrazia Solidale-Centro Democratico, io personalmente e nel ruolo di presidente della Commissione Affari Sociali che questo Parlamento mi ha assegnato, fino alla fine, per aiutare a fare la migliore legge possibile. Per garantire che si sia meno soli nel morire, malati e famiglie, che si sia accompagnati, che la dignità delle scelte personali sia rispettata in maniera profonda. Né accanimento terapeutico, né abbandono terapeutico, né eutanasia.

Norberto Bobbio sul Corriere della Sera l’8 maggio 1981 – era la vigilia di un’altra difficile scelta di legge che toccava la vita” – chiedeva. “ Quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il “non uccidere”. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore d affermare ch non si deve uccidere”.

La sfida è quella della dignità, la dignità del vivere, e anche del morire. Non c’è solo l’atto o l’attimo del morire. Siamo arrivati a questo dentro una intera storia dell’Occidente. Dalla morte come compagnia quotidiana, ma in un mondo ampiamente indifferente ai corpi, con fosse comuni o corpi consegnati alla Chiesa per la sepoltura, alla morte “addomesticata”, come la chiamava Philippe Aries. Poi l’umanesimo, la morte “teatrale” o “barocca”, affascinante, attraente, fino alla svolta romantica, con la paura della morte e della morte apparente, la scienza che interviene a dire le modalità per evitarlo, e poi l’isolamento, gli spazi appositi, medicalizzati, ospedalizzati.

E oggi? Geoffrey Gorer dice che c’è una “pornografia della morte”, con il tabù della morte che ha preso progressivamente il posto del tabù sul sesso e la sessualità. O “la morte negata”, nelle maschere dei defunti americani, artistiche, quasi a negare la frattura della morte stessa e a perpetuare “l’illusione della vita” . Vladimir Jankélevitch, invece, 50 anni fa, dopo la seconda Guerra Mondiale, dopo la Shoah, una quantità inaudita di morte sul nostro continente, arrivava a dire che noi su questo tema rimaniamo sempre “al di qua” e che la morte stessa resta “impensabile”, in altre parole, che resta uno spazio e una soglia di mistero.

In questo “al di qua” se c’è un tabù, oggi, è quello del dolore, da prendere invece sul serio. Il dolore a volte si impossessa di tutto il corpo e della mente e non rende più liberi: ma abbiamo una medicina del dolore, palliativa (il pallio è il mantello che protegge, come quello di San Martino) per spuntare le armi del dolore. C’è a volte un legame tra la voglia di farla finita e il dolore che crea disperazione, come pure quella condizione di chi pensa che non ci sia più vita perché no ci si piace più, o si è troppo soli.

“Né rinuncia, né abbandono, né accanimento”, e occorre combattere contro solitudine e dolore, causa di disperazione e di perdita della dignità di ognuno di noi. Con questa legge stiamo cercando soluzioni semplici ma non semplificate.

La vita non è mai solo un bene individuale, è, sempre, anche, relazionale. Nei discorsi semplificati di questi giorni dipendere dagli altri è stato spesso indicato come un buon motivo per ritenere la vita “non degna” di essere vissuta. Ma è la grande – inconsapevole - bugia dei nostri tempi, in una società, che a volte crede alle favole. Anche perché noi dipendiamo sempre da qualcuno, non solo da bambini, e questo ci fa crescere come l’indipendenza da imparare. Tutto quello che di meglio c’è al mondo e e più di valore è dipendenza: l’amicizia, l’amore, contare per qualcuno. Cambiano i modi, l’intensità, le forme. Si potrebbe dire il contrario. Che anche non dipendere mai da niente e da nessuno è una solitudine insopportabile, indegna di una vita civile.

Allora che legge abbiamo davanti?

Non abbiamo bisogno di una legge sull’eutanasia attiva o passiva. Lo stato non può entrare nel suicidio. La comunità, se può, lo evita e cerca di aiutare. Non a morire.

La legge deve garantire su temi eticamente così rilevanti tutti i cittadini nel modo migliore, anche quando siano portatori di visioni filosofiche o religiose diverse, varie. E’ quanto la Costituzione rappresenta al meglio, quando mette al centro dell’intera Carta la “persona”. E così l’art.32 può recitare: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti del rispetto della persona umana”. Era viva la memoria degli esperimenti medici forzati, non solo sui disabili.

Questa legge deve tutelala vita e la salute e aiuta a combattere dolore, sofferenza, isolamento, disperazione, accompagnando nella maniera più dignitosa possibile una persona a morire, quando è il tempo, nel rispetto profondo delle convinzioni e delle volontà della persona stessa. Per questo è importante il testo approvato in Commissione su questo punto: chiaro fin dall’art.1, al primo comma, quando si citano gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e i primi tre articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, una salvaguardia della inviolabilità e della dignità della vita umana assoluta, che comprende anche il rifiuto della pena capitale, nel rispetto radicale della libertà della persona.

Abbiamo fatto in Commissione la scelta – e ne do atto a tutti i membri della Commissione Affari Sociali, a partire dalla Relatrice – di una legge non onnicomprensiva, per un “diritto mite”, perché non può essere chiusa in una casistica la vita e la frontiera mutevole del “fine vita”.

Un perimetro, una cornice meno incerta, che lascia troppo soli e troppo nella necessità di intervenire attraverso la magistratura nei casi controversi. Abbiamo approvato da poco la legge che fornisce un quadro di maggiori certezze sul rischio clinico. Oggi entriamo sul terreno più difficile.

Alcune formulazioni trovate assieme sono già un punto di incontro positivo:

Nel consenso informato il tempo dell’informazione del malato, tempo di cura e non di burocrazia e medicina difensiva; l’accompagnamento e la cura al centro; l’equilibrio trovato tra libertà di scelta e rispetto della relazione medico-persona, in maniera non contrapposta; la “pianificazione condivisa delle cure”, l’art.4. Quando c’è una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta la “pianificazione condivisa” super le DAT, in un quadro innovativo, che risolve in radice il possibile conflitto tra la volontà del malato e quella del medico, su ciò che va intrapreso, fatto, non fatto o interrotto. Anche sulla linea sottile. Era il centro del disegno di legge che portava la mia prima firma e quella di altri colleghi. E’ stato raccolto dalla Relatrice e anche dall’opposizione. Ne sono contento; a vita dei disabili gravi, dei minori, delle persone interdette o inabilitate mi sembra tutelata nell’accompagnamento anche in circostanze dolorose o estreme.

Resta il problema, non piccolo, sul tema dell’idratazione e alimentazione assistita. Se sia, così com’è scritto ora, una porta involontaria all’eutanasia passiva. Ci sarà scontro. Ma una via di incontro è possibile. In tal senso presenterò e presenteremo emendamenti che nulla vogliono togliere all’autodeterminazione, ma che non si accontentano di affermazioni lapidarie e a rischio, quando si facesse pendere la loro interpretazione tutta sul piano delle cure o tutta solo sul piano assistenziale. La vita e la fine della vita non sono bianco e nero. Anche su questo non si tratta di vincere, partito della vita contro partito della morte, o partito della libertà di scelta contro partito degli amanti del dolore. Possiamo e dobbiamo trovare un equilibrio che contempli la possibilità di rifiuto, rinuncia e interruzione anche dell’alimentazione o idratazione artificiali quando si configurino come trattamenti inutili, troppo gravosi o sproporzionati, il cui effetto sia il solo mantenimento artificiale della condizione vitale. Non: “sempre” o “mai”.

La terapia del dolore e la sedazione profonda continua, quando la vita sia davvero verso una fine ravvicinata, accompagnata da dolori incomprimibili e refrattaria alle terapie, mi auguro verranno esplicitamente richiamate, come da emendamenti che ho presentato, anche se è già implicitamente previsto dalla legge 15 marzo 2010, n. 38, sulle cure palliative. La figura del “fiduciario” è chiave quando non si è più in grado di intendere o di volere.

A mio parere il testo, che pure nella forma attuale ritengo migliorabile e per questo abbiamo depositato alcuni emendamenti, in particolare uno più esplicito sulla fine della vita, sull’ostinazione irragionevole delle cure e sulle cure palliative, per liberare il consenso informato dell’art.1 da qualche confusione possibile o da sovraccarico, è già migliorato nel lavoro di Commissione. Con maggioranze diverse.

Andranno ancora perfezionate le circostanze, limitate, in cui le Disposizioni anticipate potranno essere disattese, introducendo oltre al caso, già previsto, di nuove terapie, non conosciute all’atto dell’estensione delle DAT, anche quando le stesse DAT siano manifestamente non conformi alla condizione clinica della persona, nel tempo in cui vengono prese in considerazione, e quando vi siano fondati motivi per ritenere la perdita di coscienza del dichiarante, le sue capacità cognitive, e anche l’efficienza di organi e funzioni citati nelle DAT conseguibile, che sono poi i casi di rischio improvviso di vita e perdita di coscienza temporanea, come può essere uno shock anafilattico. Una gabbia meno rigida, che non tolga nulla alla autodeterminazione profonda della persona. E che non comprima la professionalità del personale sanitario.

Sono personalmente contento di avere permesso e contribuito all’approfondimento reale dei problemi, nel metodo di lavoro, con l’apporto di tutti, come è stato sottolineato da maggioranza e opposizioni nel mandato alla Relatrice. 33 ore e mezza di votazioni su 288 emendamenti segnalati, 5 settimane di lavoro, dopo i primi 2800, in gran parte ostruzionistici, ammessi. Dopo due legislature, 16 nuovi testi di legge, un testo-base unitario di partenza elaborato da maggioranza e opposizione senza prove di forza, penso che questa legge è possibile. E che migliorala ulteriormente è possibile. Non con prove muscolari, ma con un ultimo sforzo di ragionamento e di dialogo. Senza campagne elettorali. Anche perché il Paese, i nostri concittadini, hanno diritto, ma anche bisogno di capire, e le cortine fumogene non aiutano. E’ quanto abbiamo già fatto, almeno nel metodo di lavoro in Commissione. Adesso andiamo in mare aperto. Nel primato della coscienza. E del bene comune.

ANNA MARGHERITA MIOTTO. (Intervento in discussione sulle linee generali). Presidente, stiamo discutendo di uno fra i temi più delicati di cui un’Aula parlamentare si possa e si debba occupare. Siamo consapevoli che attorno al tema del fine vita e della libertà di accettare o rifiutare un trattamento sanitario si intrecciano visioni religiose, etiche, filosofiche contraddistinte da mille sfumature, talvolta radicalmente diverse.

Inoltre i profili giuridici, le condizioni di contesto di natura tecnico-scientifica in cui si è sviluppata in questi anni la richiesta di un intervento legislativo, appaiono dense di una complessità che suggerisce la necessità, oltre che l’opportunità, di affrontare queste questioni all’insegna del diritto mite, come è stato già detto dai miei colleghi. In particolare, la forza dell’innovazione scientifica e tecnologica, che ha creato uno spazio nuovo di vita artificiale, ha scomodato i giuristi, ma interpella la coscienza delle persone.

In questa complessità, siamo chiamati a prendere decisioni facendo lo sforzo di evitare il facile rischio di normare su singoli casi, subendo l’influenza di specifici fatti di cronaca e del carico emotivo che determinano nell’opinione pubblica. Né facciamo un buon servizio al Paese se utilizziamo categorie standardizzate a priori, se elenchiamo situazioni specifiche da prendere in considerazione, una varia casistica, condizioni patologiche particolari. Dobbiamo bensì fermarci sulla soglia di una regola che rispetti l’identità e la libertà di ciascuno, indicando gli strumenti affinché si possa esprimere.

È la scelta che compie il testo che la collega Lenzi ci ha presentato qui oggi, all’insegna del diritto mite, suggerito da molti esperti che ci hanno dato utili suggerimenti in fase di audizione, ma che contraddistingue anche alcune proposte di legge fra le numerose presentate (modestamente anche la mia), che raccoglie in larga parte l’esperienza tedesca, che ha avuto il pregio di ridurre al minimo le distanze fra visioni etiche altrove molto distanti. Facciamo una scelta che rispetta il bilanciamento fra la volontà della persona e la responsabilità del medico, che - ricordiamo - si ispira nella sua azione al principio primum non nocere. Del resto è l’impianto costituzionale, che si fonda sull’equilibrio fra il rispetto dell’autonomia e della volontà del singolo e le esigenze della società, ferma restando la preoccupazione di porre il corpo della persona al riparo da interferenze esterne. È l’equilibrio fra il diritto sociale ad essere curati (articolo 32), e la libertà di rifiutare le cure o interrompere le cure intraprese. Preferisco valorizzare il dato dell’equilibrio invece che il termine “mediazione”: anch’essa nobile arte in politica, sia chiaro, ma in questa circostanza io ritengo che il lavoro sin qui compiuto abbia avuto il merito anche di far convergere culture diverse; non solo: soprattutto di mettere al centro dell’attenzione la persona e il principio di uguaglianza.

La volontà della persona si esprime nel consenso informato, allorché condivide il piano condiviso delle cure, oppure quando affida la sua volontà alla disposizione anticipata di trattamento, sulla base delle sue personali convinzioni, certamente, nell’eventualità che non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso. La disposizione anticipata di trattamento in verità potrebbe essere vista come una modalità per evitare che la perdita di coscienza determini anche la perdita di un diritto fondamentale della persona. Teniamolo ben presente: nulla si può fare senza il consenso della persona malata.

A questo proposito, i richiami fatti qui da alcuni colleghi su presunti cedimenti ad un approccio ideologico francamente sconcertano, e temo che nascondano forse un interesse di posizionamento politico che non giova alla discussione che dobbiamo affrontare, anche con eventuali chiarimenti ulteriori da apportare al testo in quest’Aula. Spero di sbagliarmi, naturalmente, in questa mia prima interpretazione di alcune delle critiche che con particolare enfasi sono emerse oggi; anche perché devo dire che questi stessi colleghi, quando hanno avuto responsabilità di maggioranza (e c’erano) o di Governo (e c’erano), ben si sono guardati da avanzare proposte di modifica della legge n. 194 del 1978, per esempio, oggi così aspramente criticata.

Dicevo che l’attenzione della relatrice evidenzia l’ancoraggio costituzionale del testo, ma allo stesso tempo tende a farsi carico dell’evoluzione giurisprudenziale intervenuta, nonché delle nuove istanze indotte dai mutamenti sociali, in particolare dalla tendenza, che reputo giustissima, di non soffrire più, di non morire tra sofferenze e dolori, peraltro inutili e perciò da evitare.

C’è da chiedersi se abbiamo fatto tutto il possibile per far sapere che esiste la legge n. 38 del 2010, che il Parlamento approva in una fase in cui il tema è stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica in coincidenza con i drammatici fatti che hanno seguito la vicenda Englaro, e che grazie all’ostinazione della capogruppo del PD in XII Commissione, l’onorevole Turco, e del gruppo intero è stata portata in Aula e ha ottenuto il via libera del Parlamento prima di affrontare il testo che il collega Calabrò aveva presentato, che peraltro poi non è stato approvato. Quanto incide la solitudine di fronte a una diagnosi infausta? Quanto incide la preoccupazione di pensare con carichi assistenziali eccessivi sui propri cari? Quanto incide il timore umanissimo di sofferenze fisiche che appaiono insopportabili, vissute già nel contesto familiare o amicale? Quanto influisce tutto ciò nella decisione, talora disperata, di farla finita? Queste situazioni ci interpellano nell’effettiva applicazione della legge n. 38 sulle cure palliative e le terapie contro il dolore, ed è necessario ed indispensabile non far mancare mai - dico mai! - la necessaria assistenza prevista da una norma ritenuta da tutti come una delle migliori esistenti.

Ma accanto a queste circostanze sappiamo che ci sono altre situazioni che ci interpellano: coloro che pensano giusta per sé la fine naturale della vita e rifiutano un prolungamento artificiale. Si può imporre un trattamento sanitario che la persona ritiene lesivo della propria dignità sulla base delle sue convinzioni etiche? No, certamente. In tal caso, c’è la consapevolezza che la sospensione del trattamento sanitario lasci spazio al decorso della malattia e sopraggiunga la morte come un evento naturale. È questo il diritto a morire? No. Dobbiamo essere chiari: questo sì, se venisse sancito, implicherebbe la legalizzazione dell’aiuto al suicidio o dell’omicidio del consenziente, due fattispecie che definiscono l’eutanasia, ma questa legge non consente ciò. È invece una legge che permette di lasciarsi morire, e questo è un diritto. La discussione, che in queste settimane e anche in quest’Aula oggi è stata contraddistinta da alcune preoccupazioni che il dibattito parlamentare spero aiuterà a capire, si è concentrata sul rischio di una possibile deriva eutanasica. L’ha detto già il collega Burtone: non è così. Con la DAT, con il consenso informato, con la pianificazione delle cure, la persona compie una scelta, talvolta proiettata anche nel futuro, fondata sul diritto di accettare o rifiutare un trattamento sanitario. È una persona consapevole che sa che il suo rifiuto può quasi certamente mettere a rischio la sua sopravvivenza. Con l’eutanasia, invece, una persona chiede che un terzo, normalmente un medico, somministri una sostanza letale che provoca la morte. E somministrare un farmaco che provoca la morte, colleghi, lo sappiamo, non è un trattamento sanitario. In tal caso la morte è ascrivibile alla somministrazione del farmaco, non alla scelta di rinunciare a un trattamento sanitario. C’è una seconda questione quasi ‘premissiva’ che viene avanzata e riguarda la necessità o meno di una legge. L’argomento ha un suo limitato rilievo, perché la Convenzione di Oviedo e la nostra Carta Costituzionale definiscono già i profili per attribuire validità al consenso informato ed alla D.A.T. – disposizioni anticipate di trattamento -, ma la giurisprudenza variegata perché indotta da singoli casi, ci chiama alla responsabilità di una scelta normativa che indichi i cardini essenziali della disciplina sul consenso informato, la pianificazione delle cure e la D.A.T..

Peraltro anche il recente documento del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari che ha divulgato la “Nuova carta degli operatori sanitari”, a differenza della precedente, afferma a proposito del Morire con dignità e della rinuncia ai trattamenti, che ciò “può voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle dichiarazioni o direttive anticipate di trattamento, escluso ogni atto di natura eutanasica. Il paziente può esprimere in anticipo la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o no essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso della sua malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso”

Ma il testo è significativo anche a proposito della dignità del morire, evocata poco fa in quest’aula con accenti che sembrano rimuoverla dalle aspirazioni delle persone, ed invece la predetta “Carta” afferma che in fase terminale la dignità della persona si precisa come diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che gli è dovuta. Tutelare la dignità del morire significa rispettare il malato nella fase finale della vita”. Ed ancora: “questo diritto è venuto emergendo alla coscienza esplicita dell’uomo d’oggi per proteggerlo, nel momento della morte, da un tecnicismo che rischia di divenire abusivo”.

Un testo chiaro che ci aiuta ad affrontare temi così delicati con la consapevolezza che una sintesi alta è possibile, nella misura in cui la vogliamo davvero costruire. Ho citato la Nuova Carta degli operatori sanitari del Pontificio Consiglio con pudore, perché se per i credenti come me può ispirare la nostra azione nelle aule parlamentari, so che non posso tradurla in emendamenti, so che è lasciato alla responsabilità di ciascuno di noi il dovere del confronto con chi è mosso da altre visioni della vita, da diversi orientamenti filosofici affinché con approccio laico, come impone una società pluralista e nel solco dell’impianto costituzionale sentiamo l’ambizione di trovare su questi temi un ampio consenso che superi anche gli orientamenti di partito.