Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento lavoro
Titolo: L'attività delle Commissioni nella XVI legislatura - XI Commissione Lavoro
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 1    Progressivo: 11
Data: 22/03/2013
Organi della Camera: XI-Lavoro pubblico e privato

La documentazione di inizio legislatura - accessibile dalla home page della Camera dei deputati - dà conto delle principali politiche pubbliche e delle attività svolte dalle Commissioni parlamentari nella XVI legislatura, suddivise in Aree tematiche, a loro volta articolate per Temi e Approfondimenti. L'accesso è disponibile per Commissione ovvero per Area tematica.

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Indice

Occupazione, lavoro e professioni 1
Ammortizzatori sociali 5
Ammortizzatori sociali in deroga 8
Nuova disciplina degli ammortizzatori sociali 15
Ulteriori strumenti di tutela del reddito 24
Apprendistato 30
Apprendistato: quadro normativo 33
Assunzioni obbligatorie 37
Collocamento dei disabili: quadro normativo 39
Il "collegato lavoro" (legge 183/2010) 42
La riforma del mercato del lavoro 45
Indagine conoscitiva sul mercato del lavoro 47
Lavoro a progetto (co.co.pro.) 48
La contrattazione collettiva 51
Indagine conoscitiva su relazioni industriali e contrattazione collettiva 54
La tassazione delle persone fisiche (IRPEF) 55
Il rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali 61
Lavoro a termine 72
Lavoro a tempo determinato: quadro normativo 75
Lavoro accessorio 79
Lavoro accessorio: quadro normativo 82
Le iniziative UE sull'occupazione 86
Licenziamenti individuali 88
Il contrasto al fenomeno delle dimissioni in bianco 91
Impugnazione dei licenziamenti individuali 94
Pari opportunità 96
La legge sul riequilibrio della rappresentanze di genere negli enti locali 101
Sicurezza sui luoghi di lavoro 104
Indagine conoscitiva su lavoro nero e caporalato 107
Tutela contro gli infortuni e le malattie professionali - Quadro normativo 109
Tutela della salute e della sicurezza sul lavoro - Quadro normativo 116
Pubblica amministrazione e pubblico impiego 138
Assenze per malattia 141
Contrattazione nella Pubblica Amministrazione 143
Dirigenza pubblica 146
Legge 190/2012 - Misure anticorruzione nella p.a. 153
Lavoro flessibile nella P.A. 171
Precari della scuola 173
Previdenza nel pubblico impiego 176
Sentenza della Corte di giustizia UE sull'età pensionabile delle dipendenti pubbliche 179
Riduzione degli organici e limitazioni del turn-over 181
Personale delle Università e degli Enti di ricerca 183
Personale degli enti locali 186
Riforma del lavoro pubblico 189
Il decreto legislativo 150/2009 (c.d. decreto Brunetta) 192
Indagine conoscitiva su relazioni industriali e contrattazione collettiva 208
La disciplina transitoria sulla valutazione nel D.L. 95/2012 209
Trattamento economico 210
Il parametro massimo del trattamento economico nella P.A. 212
Assistenza e previdenza 213
Casse professionali 218
La privatizzazione delle Casse di previdenza 220
Cumulo tra pensione e redditi da lavoro 222
Enti previdenziali pubblici 223
Riorganizzazione dell'INPS 226
Età pensionabile 229
La riforma delle pensioni 232
Nuovi limiti alle pensioni di reversibilità 253
Perequazione dei trattamenti pensionistici 255
Totalizzazione, ricongiunzione e cumulo di periodi assicurativi 258
I fondi per le politiche sociali 262
L'assistenza sociale 265
Fondi per le politiche sociali 282
Asili nido e servizi socio-educativi per la prima infanzia 293
La non autosufficienza 297
Welfare locale 301
Politica regionale di sviluppo - Piano azione coesione 303
La questione degli esodati 307
Lavori usuranti 309

XI Lavoro

Occupazione, lavoro e professioni

In materia di lavoro il legislatore è intervenuto a più riprese e, in alcuni casi, con provvedimenti ad ampio spettro (come nel caso del c.d. collegato lavoro ) e con finalità di riforma strutturale di importanti istituti  (come con la legge di riforma del mercato del lavoro , che ha rivisto le forme contrattuali flessibili, la flessibilità in uscita e il sistema degli ammortizzatori sociali).

Nella prima parte della legislatura gli interventi sono in buona misura riconducibili all’esigenza di affrontare le conseguenze occupazionali della crisi economica internazionale.

Per quanto concerne le misure di sostegno al reddito, il Governo, dopo aver accantonato l’ipotesi di una riforma complessiva del sistema degli ammortizzatori sociali (che avrebbe potuto utilizzare un’ampia delega ereditata dalla precedente legislatura, i cui termini erano stati nel frattempo riaperti) è intervenuto con una serie di decreti-legge incidenti su istituti di sostegno al reddito vigenti, con l’obiettivo di prorogarne la fruibilità oltre i limiti temporali previsti e di estenderne il campo di applicazione a settore esclusi (ammortizzatori “in deroga”).

Un grande sforzo è stato rivolto, quindi, al reperimento delle ingenti risorse necessarie a dare copertura finanziaria ai nuovi interventi, cui si è provveduto attraverso un’attività di intensa collaborazione tra livelli istituzionali, che ha consentito di convogliare sull’ “emergenza” degli ammortizzatori sociali in deroga risorse di competenza comunitaria, statale e regionale.

In tale contesto particolare rilevanza assumono l'Accordo Stato-Regioni del 12 febbraio 2009 , con il quale sono stati reperiti 8 miliardi di euro e l'Accordo Stato-Regioni del 20 aprile 2011, che ha prorogato gli interventi al biennio 2011-2012.

 

Per quanto attiene alla contrattazione collettiva e al sistema delle relazioni industriali (oggetto di un’ampia ed articolata indagine conoscitiva della XI Commissione della Camera dei deputati, conclusasi con un documento ove si delineano le possibili linee evolutive dello storico Protocollo tra Governo e parti sociali del luglio 1993), partendo dall’esigenza di superare la tradizionale configurazione centralistica del sistema (ritenuto non più idoneo alle esigenze di un’economia aperta e in rapida evoluzione), le politiche legislative sono state indirizzate a una complessiva ridefinizione del sistema dei rapporti tra legge e fonti contrattuali, valorizzando il ruolo delle fonti pattizie (in molti casi peraltro facendo salvo l’intervento suppletivo della fonte pubblica) e, in particolare, della contrattazione di secondo livello (c.d. contrattazione di prossimità).

Tale indirizzo ha trovato attuazione attraverso l’importante filone normativo della tassazione agevolata dei contratti di produttivita' , introdotta nel 2008 (originariamente in via transitoria e con carattere sperimentale) con l’obiettivo di legare crescenti componenti dei redditi da lavoro dipendente (nel solo settore privato) all’andamento economico delle imprese e agli incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa realizzati a livello aziendale (o territoriale). Il beneficio fiscale, consistente nell’applicazione sulle remunerazioni oggetto di agevolazione di una imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali in misura pari al 10%, è stato prorogato, di anno in anno (sebbene secondo parametri e soglie di reddito diverse, che ne hanno in alcuni anni depotenziato gli effetti) fino al 2014.

In tale contesto l'intervento normativo di maggiore portata è tuttavia  rappresentato dall'articolo 8 del D.L. 138/2011 che (andando per certi versi oltre quanto definito in materia, poco prima dell’entrata in vigore della norma, dalle parti sociali con l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 ) ha posto le basi per un mutamento strutturale del sistema di relazioni sindacali nel nostro Paese. Ribaltando il tradizionale rapporto tra fonti in ambito lavoristico (legge - contratto collettivo nazionale - contratti aziendali), tale norma ha infatti configurato la possibilità di stipulare intese a livello aziendale (o territoriale), sottoscritte dai sindacati più rappresentativi o dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, anche in deroga ai contratti collettivi nazionali e a norme di legge.

Per quanto concerne la sicurezza sui luoghi di lavoro , la materia ha trovato compiuta sistemazione attraverso l’esercizio di un’ampia delega ereditata dalla precedente (XV) legislatura. L’esigenza di riformare e razionalizzare la normativa di settore, anche al fine di tradurre nell’ordinamento interno una disciplina comunitaria in continua evoluzione, ha tratto spinta dal crescente allarme sociale generato dal fenomeno degli infortuni sul lavoro. Il nuovo quadro normativo definisce un innovativo sistema di prevenzione e sicurezza a livello aziendale, basato sulla partecipazione attiva, con ruoli e responsabilità diverse, di una serie di soggetti chiamati a collaborare con l’obiettivo comune di pervenire alla definizione di un ambiente di lavoro sicuro e salubre. Dopo l’attuazione della delega in avvio di legislatura, l’impianto normativo che ne è scaturito è stato oggetto di successive messe a punto (anche alla luce dell’esperienza applicativa nel frattempo emersa) con appositi e circoscritti interventi correttivi, principalmente volti ad alleggerire il carico burocratico per le imprese (soprattutto di minori dimensioni), contrastare la pratica dei ribassi d’asta nell’ambito delle gare di appalto realizzati attraverso una riduzione delle spese per la sicurezza, adeguare l’apparato sanzionatorio, prevenire i rischi derivanti dal rinvenimento di ordigni bellici inesplosi nei cantieri interessati da attività di scavo. Nell’ambito del processo di accorpamento e razionalizzazione del sistema degli enti pubblici nazionali si è provveduto, invece, all’accorpamento di ISPESL e IPSEMA all’interno dell’INAIL, configurando un polo amministrativo unitario della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Un momento centrale dell’azione politica del Governo (Berlusconi) in materia di lavoro è costituito dall’esame parlamentare del collegato lavoro (disegno di legge governativo collegato alla manovra di finanza pubblica 2009-2013). Nel più generale quadro delle politiche volte a deflazionare il contenzioso giudiziale, il provvedimento reca una disposizione che consente l’apposizione di clausole compromissorie all’interno dei contratti individuali di lavoro, con le quali le parti si impegnano a devolvere ad un arbitro, chiamato a decidere secondo equità, le future controversie aventi ad oggetto il rapporto di lavoro. L’ampiezza dell’ambito applicativo della norma, che nel suo testo originario si estendeva fino alle controversie relative al recesso dal contratto, suscitava un ampio (e, in alcune circostanze, aspro) dibattito tra le forze politiche e sociali, alcune delle quali vedevano in tale misura il tentativo di aggirare le tutele apprestate dalla legge a favore del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo . Dopo un lungo esame parlamentare e il rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, la portata innovativa della norma è stata significativamente circoscritta, escludendo in particolare che possano essere devolute ad arbitri le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro.

L’importanza del provvedimento si collega, poi, al conferimento al Governo di alcune ampie deleghe (in materia di ammortizzatori sociali, lavori usuranti, apprendistato, occupazione femminile, enti vigilati), alcune delle quali peraltro non esercitate. In particolare, l’attuazione della delega sull’ apprendistato (e il successivo intervento della legge di riforma del mercato del lavoro) ha portato ad un ampia riforma dell’istituto (al quale entrambi i Governi succedutisi nell’ambito della legislatura hanno guardato come a un fondamentale volano di ripresa occupazionale, che tuttavia non sembra ancora esprimere appieno le proprie potenzialità), che ruota attorno alla semplificazione e all'unificazione della regolamentazione normativa, economica e previdenziale del contratto (applicabile a tutti i settori pubblici e privati), a un più sostanziale coinvolgimento delle parti sociali (attraverso il rinvio, per molti profili, alla disciplina di derivazione contrattuale) e all’incremento numerico degli apprendisti occupabili da uno stesso datore di lavoro.

 Altre misure di rilievo contenute nel “collegato” lavoro riguardano la conciliazione nell’ambito delle controversie di lavoro (non più obbligatoria), il contrasto del lavoro sommerso (con un inasprimento delle sanzioni), la certificazione dei contratti di lavoro (che viene rafforzata ed estesa, anche al fine di circoscrivere la discrezionalità giudiziale), i termini di impugnazione dei licenziamenti (notevolmente ridotti), la mobilità del personale pubblico.

 

Con l’aggravarsi della crisi occupazionale e l’entrata in carica del nuovo Governo (Monti), riprende slancio (anche a seguito dei solleciti di autorevoli istituzioni internazionali) il dibattito sull’esigenza di un intervento di modernizzazione del mercato del lavoro, che da un lato contrasti fenomeni di precarizzazione (soprattutto giovanile), dall’altro garantisca la flessibilità (anche in uscita) richiesta dai processi produttivi di una economia aperta alla globalizzazione, il tutto all’interno di un rinnovato e più inclusivo quadro di strumenti di sostegno del reddito in caso di disoccupazione.

La parte terminale della legislatura è quindi contrassegnata dalla discussione e dalla approvazione (nonché dalla successiva manutenzione, attraverso puntuali e circoscritti interventi normativi) della L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro , che interviene sulle forme contrattuali flessibili, sulle conseguenze del licenziamento illegittimo (con la modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) e sugli ammortizzatori sociali(con l'introduzione dell'ASpI).

Nell’ambito di una razionalizzazione delle tipologie contrattuali esistenti, la legge configura il contratto a tempo indeterminato quale contratto prevalente, disincentivando il ricorso ai contratti a tempo determinato. Si delinea l’apprendistato quale contratto tipico per l’accesso al mercato del lavoro (nonché per l’instaurazione di rapporti a tempo indeterminato), ampliandone le possibilità di utilizzo (si innalza il rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a 3/2) e valorizzandone il ruolo formativo. Si procede verso una redistribuzione delle tutele dell’impiego, da un lato contrastando l’uso improprio degli elementi di flessibilità relativi a talune tipologie contrattuali, dall’altro adeguando la disciplina dei licenziamenti ,collettivi ed individuali). Con riferimento ai licenziamenti individuali, in particolare, si interviene operando importanti modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (che reca la cd. tutela reale, consistente nella reintegrazione nel posto di lavoro). Più specificamente, lasciando inalterata la disciplina dei licenziamenti discriminatori (ove si applica sempre la reintegrazione), si modifica il regime dei licenziamenti disciplinari (mancanza di giustificato motivo soggettivo) e dei licenziamenti economici (mancanza di giustificato motivo oggettivo): queste ultime due fattispecie presentano un regime sanzionatorio differenziato a seconda della gravità dei casi in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento, il quale si concretizza nella reintegrazione (casi più gravi) o nel pagamento di un’indennità risarcitoria (casi meno gravi). Infine, si introduce uno specifico rito per le controversie giudiziali aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti.

La legge opera, poi, un’ampia revisione degli strumenti di tutela del reddito, attraverso la creazione di un unico ammortizzatore sociale (Aspi – Assicurazione sociale per l’impiego) in cui confluiscono l’indennità di mobilità e l’indennità di disoccupazione.

Infine, la legge introduce strumenti volti al rafforzamento delle politiche attive del lavoro e del ruolo dei servizi per l’impiego, nonché  incentivi per accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per il sostegno dei lavoratori anziani.

Per quanto riguarda le professioni, si ricorda, in primo luogo, che le professioni ordinistiche sono state interessate da un’organica opera di delegificazione, nel segno della liberalizzazione del settore. Sul punto si rinvia all’area tematica Diritto e Giustizia . Inoltre, per la prima volta, il Parlamento ha dettato una disciplina organica delle professioni non regolamentate , diffuse in particolare nel settore dei servizi, che non necessitano di alcuna iscrizione ad un ordine o collegio professionale per poter essere esercitate.

Ammortizzatori sociali

Con l'aggravarsi della crisi finanziaria ed economica sono stati realizzati una serie di interventi volti a fronteggiare l'emergenza occupazionale, in primo luogo attraverso il finanziamento del sistema degli ammortizzatori sociali. In tale contesto particolare rilevanza assumono l'Accordo Stato-Regioni del 12 febbraio 2009, con il quale sono stati reperiti 8 miliardi di euro e l'Accordo Stato-Regioni del 20 aprile 2011, che ha prorogato gli interventi al biennio 2011-2012. Da ultimo, con la legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, la materia degli strumenti di sostegno al reddito è stata complessivamente ridefinita.

Nella prima fase della legislatura l’attività legislativa è stata caratterizzata dal progressivo ampliamento  delle misure di sostegno al reddito già previste per le situazioni di crisi aziendale e da un'estensione del campo di applicazione degli ammortizzatori sociali, al fine di affrontare le crisi produttive e i problemi occupazionali che hanno investito numerosi settori produttivi. In particolare, al reperimento delle ingenti risorse necessarie a dare copertura finanziaria agli interventi si è provveduto attraverso un’attività di intensa collaborazione tra livelli istituzionali, che ha consentito di convogliare sull’ “emergenza” degli ammortizzatori sociali in deroga risorse di competenza comunitaria, statale e regionale.

L'accordo Stato-Regioni del 12 febbraio 2009

Un primo fondamentale passaggio è costituito dall’Accordo Stato-Regioni del 12 febbraio 2009 sancito nella riunione della Conferenza Stato-Regioni del 26 febbraio 2009 , con cui sono stati destinati 8 miliardi di euro, nel biennio 2009-2010, per azioni di sostegno al reddito e di politica attiva del lavoro. L’intervento, rivolto ai lavoratori destinatari degli ammortizzatori sociali “in deroga”, è connotato da un contributo nazionale, impiegato per il pagamento dei contributi figurativi e per la parte maggioritaria del sostegno al reddito, e da un contributo regionale, a valere sui programmi regionali FSE, impiegato per azioni formative o di politica attiva governata dalla Regione. In particolare, gli stanziamenti sono stati ripartiti tra un intervento statale, per una somma di 5.350 milioni di euro, e contributi regionali, pari a 2.650 milioni di euro, a valere sui programmi regionali del Fondo Sociale Europeo (FSE). Le risorse statali sono state coperte:

L’intesa sullo schema di accordo per l’utilizzo del FSE è stata raggiunta l’8 aprile 2009.

L'accordo Stato-Regioni del 20 aprile 2011

Successivamente, con l'Accordo Stato-Regioni del 20 aprile 2011 è stata disposta la proroga, per il biennio 2011-2012, del precedente Accordo del 12 febbraio 2009 (in vigore per il biennio 2009-2010). L'accordo si arricchisce anche di una sezione specifica dedicata alle misure di politica attiva per un più rapido e mirato ricollocamento dei lavoratori e per evitare il formarsi di bacini di disoccupazione di lunga durata. Viene confermata ed estesa al 2011-2012 l’intesa del 17 febbraio 2010 sulle linee guida per la formazione. L'Accordo conferma lo stanziamento previsto dalla legge di stabilità di 1 miliardo di euro per gli interventi a sostegno del reddito, a cui si aggiungono 600 milioni di residui del biennio 2009-2010. Le Regioni concorrono con la parte non utilizzata dello stanziamento di 2,2 miliardi di euro, fino al suo esaurimento. La proporzione di utilizzo delle risorse tra politiche passive e attive viene modificata da 70-30 a 60-40. L'Accordo, inoltre, prevede l'attribuzione di un ruolo precipuo ai Servizi per l’impiego nei processi di riqualificazione e di ricollocazione dei lavoratori; il ricorso ai Fondi Interprofessionali e agli enti bilaterali nelle politiche attive, nella formazione e nelle azioni di sostegno al redditi; misure per assicurare l'utilizzo più rigoroso degli strumenti di sostegno al reddito, al fine di evitare situazioni di cronica dipendenza ed usi impropri degli stessi; il sostegno offerto dalle risorse del Fondo sociale europeo (FSE).

Gli interventi normativi

Sul piano legislativo sono stati adottati, in successione, numerosi provvedimenti (in particolare, il D.L. 185/2008, il D.L. 5/2009, che ha tradotto normativamente l’Accordo Stato-regioni del 12 febbraio 2009, il D.L. 78/2009, la L. 220/2010 e la L. 183/2011) con i quali sono stati realizzati, innanzitutto, una serie di interventi “in deroga” alla disciplina generale, attraverso specifici stanziamenti finalizzati alla proroga  della durata dei trattamenti oltre i limiti temporali previsti e/o all’estensione del loro campo di applicazione (ammortizzatori “in deroga”). Altre misure hanno riguardato, in particolare, i collaboratori in regime di monocommittenza e i contratti di solidarietà. 
Ai fini di un complessivo riordino della materia, l'articolo 46, comma 1, lettera a), della L. 183/2010 (cd. "collegato lavoro"), aveva altresì disposto il rinnovo del termine per l'esercizio della delega finalizzata alla revisione della disciplina degli ammortizzatori sociali già contenuta nella L. 247/2007 (articolo 1, comma 28), portandolo al 24 novembre 2012; la delega tuttavia non è stata esercitata.
L'intera materia degli ammortizzatori sociali è stata quindi rivista dalla L. 92/2012 (Riforma del mercato del lavoro) con la creazione di un nuovo ammortizzatore sociale (l'ASpI - Assicurazione sociale per l'impiego) in cui confluiscono l'indennità di mobilità e l'indennità di disoccupazione. Il nuovo ammortizzatore amplia il campo soggettivo dei beneficiari (attraverso l’estensione a categorie prima escluse, principalmente apprendisti) e i trattamenti, prevedendo una copertura assicurativa per i soggetti che entrano nella prima volta nel mercato del lavoro (principalmente giovani) e per i soggetti che registrano brevi esperienze di lavoro. La vigente disciplina della la Cassa integrazione ordinaria (CIG) viene sostanzialmente confermata, mentre vengono modificate le norme relative alla della Cassa integrazione straordinaria (CIGS). Si prevede, inoltre, la creazione di un nuovo strumento di sostegno del reddito per i lavoratori ultracinquantenni.

Infine, limitate modifiche alla L. 92/2012 (in particolare, viene prorogato a tutto il 2014 il regime transitorio dell’indennità di mobilità) sono state successivamente introdotte dall’articolo 46-bis del D.L. 83/2012.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Documenti e risorse web

Approfondimento: Ammortizzatori sociali in deroga

Introduzione

Nelle ultime legislature l'attività legislativa in materia di politiche del lavoro è stata caratterizzata dal progressivo ampliamento delle misure di sostegno al reddito già previste per le situazioni di crisi aziendale e da un'estensione del campo di applicazione degli ammortizzatori sociali, per affrontare le crisi produttive e i problemi occupazionali che hanno investito alcuni settori produttivi.

Questo processo non ha però assunto una natura organica, dal momento che l'intervento legislativo si è posto per lo più in rapporto di deroga rispetto alla disciplina dettata dalla L. 223/1991, con la quale si era tentato di ricondurre ad un quadro organico la normativa sugli interventi nelle situazioni di crisi aziendale (cassa integrazione guadagni straordinaria, mobilità): ci si è così orientati a prorogare la durata dei trattamenti oltre i limiti temporali ordinariamente previsti oppure ad estenderne il campo di applicazione, ricomprendendo situazioni che altrimenti sarebbero rimaste escluse.

Di seguito si fornisca una sintesi dei principali interventi realizzati, fino alla riforma del mercato del lavoro (L. 92/2012) che ha complessivamente ridefinito la materia.



Gli interventi nel 2008

L’articolo 19 del D.L. 185/2008 ha disposto una serie di interventi in materia di ammortizzatori sociali, stabilendo, per quanto attiene alla concessione di ammortizzatori sociali “in deroga”:

Successivamente, la L. 203/2008 (legge finanziaria per il 2009), all’articolo 2, commi 36-38, ha rinnovato, anche per l’anno 2009, la possibilità di concessione “in deroga” dei trattamenti di integrazione salariale straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale subordinatamente alla realizzazione di programmi finalizzati alla gestione di crisi occupazionali definiti con specifici accordi in sede governativa. In particolare, è stata prevista l’erogazione, nel limite complessivo di spesa di 600 milioni di euro a carico del Fondo per l’occupazione ed entro il 31 dicembre 2009, dei trattamenti di integrazione salariale straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale (anche senza soluzione di continuità), a specifiche condizioni, e cioé

Infine, è stata prevista (comma 37), dal 1° gennaio 2009, la concessione, in deroga alla normativa vigente, dei trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, per una durata massima di 24 mesi, e di mobilità a favore del personale dipendente dalle società di gestione aeroportuale e dalle società derivate da queste ultime, con uno stanziamento massimo complessivo di 20 milioni di euro, a carico del Fondo per l’occupazione, a condizione che siano intervenuti specifici accordi in sede governativa, entro il 15 giugno 2009, di recepimento di intese stipulate in sede territoriale e inviate al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, entro il 20 maggio 2009. Oltre a ciò è stato stabilito l’obbligo, per le richiamate imprese, del pagamento, sempre a decorrere dal 1° gennaio 2009, dei contributi previsti in materia di CIGS e di mobilità.



Gli interventi nel 2009

L' Accordo tra Stato e Regioni del 12 febbraio 2009, ed il D.L. 5/2009, sua traduzione normativa, hanno rappresentato un intervento congiunto tra Stato e Regioni per far fronte all'eccezionalità della crisi economica, che ha permesso di assemblare e sbloccare risorse per circa 8 miliardi di euro. In particolare, l’articolo 7-ter del D.L. 5/2009 ha recato le misure urgenti a tutela dell’occupazione, che hanno tradotto appunto sul piano normativo il richiamato Accordo.

Con il D.L. 78/2009 è stato inoltre previsto (articolo 1):

Successivamente, l’articolo 2, commi 136-140, della L. 191/2009 (legge finanziaria per il 2010) ha recato ulteriori disposizioni in materia di ammortizzatori sociali. In particolare, il comma 136 ha prorogato per il 2010 alcuni interventi di sostegno al reddito già previsti, per il 2009, dall’articolo 19 del richiamato D.L. 185/2008.Si tratta delle seguenti disposizioni:

In particolare, il comma 138 ha dettato norme sugli ammortizzatori sociali in deroga, al fine di consentire l’intervento in settori scoperti dalla normativa vigente e di prorogare per l’anno 2010 gli interventi in deroga già disposti per il 2009. In primo luogo, per l’anno 2010, è stata disposta la facoltà, per il Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, di disporre, nei limiti delle risorse di cui al successivo comma 140[2], sulla base di specifici accordi governativi per periodi non superiori a 12 mesi, in deroga alla normativa vigente, la concessione, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti di CIG, di mobilità e di disoccupazione speciale, anche con riferimento a settori produttivi e ad aree regionali. In secondo luogo, si prevede che nell’ambito delle risorse finanziarie destinate per il 2010 agli interventi in deroga, i trattamenti in deroga già previsti per il 2009 (di cui all’articolo 2, comma 36, della L. 203/2008 e all’articolo 19, comma 9, del D.L. 185/2008) fossero prorogati al 2010, con la riduzione del 10% nel caso di prima proroga, del 30% nel caso di seconda proroga e del 40% nel caso di proroghe successive. Nel caso di proroghe successive alla seconda, i trattamenti sono erogati esclusivamente nel caso di frequenza di specifici programmi di reimpiego, anche miranti alla riqualificazione professionale, organizzati dalla regione.

Il comma 139, infine,ha riprodotto testualmente le disposizioni contenute nell’articolo 7-ter, comma 6, del D.L. 5/2009, che ha esteso ai lavoratori destinatari della CIG e della mobilità in deroga l’applicazione dei requisiti richiesti per l’accesso ai trattamenti a regime.



Gli interventi nel 2010

L’articolo 1, commi 30-32, della L. 220/2010 (legge di stabilità per il 2011), ha disposto ulteriori interventi in deroga.

In particolare, il comma 30 ha previsto la concessione, per il 2011, di trattamenti di cassa integrazione guadagni, di mobilità e di disoccupazione speciale, anche senza soluzione di continuità e con riferimento a settori produttivi e ad aree regionali. Gli interventi vengono disposti, nel limite di specifiche risorse, in deroga alla normativa vigente, sulla base di specifici accordi governativi e per periodi non superiori a dodici mesi.

La norma ha disposto, poi, la proroga dei trattamenti concessi ai sensi dell’articolo 2, comma 138, della L. 191/2009, sempre sulla base di specifici accordi governativi e per periodi non superiori a dodici mesi. Tale proroga avviene nell'ambito delle risorse finanziarie destinate alla concessione, in deroga alla normativa vigente, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti di cassa integrazione guadagni, di mobilità e di disoccupazione speciale. Come accennato, la misura di tali trattamenti viene ridotta progressivamente del 10% nel caso di prima proroga, del 30% nel caso di seconda proroga e del 40% nel caso di proroghe successive. In tali casi l’erogazione avviene esclusivamente sulla base della frequenza di specifici programmi di reimpiego, anche miranti alla riqualificazione professionale, organizzati dalla regione.

Il comma 31, al fine di garantire criteri omogenei di accesso a tutte le forme di integrazione del reddito, prevede l’applicazione ai lavoratori destinatari della cassa integrazione guadagni in deroga e della mobilità in deroga, rispettivamente, dell’articolo 8, comma 3, del D.L. 86/1988 e dell’articolo 16, comma 1, della L. 223/1991.

Viene poi modificato l’articolo 7-ter del D.L. 5/2009:

  1. al comma 3 viene prorogata al 2011 l’autorizzazione all’INPS, concessa in via sperimentale (per gli anni 2009-2010), ad anticipare i trattamenti di integrazione salariale in deroga con richiesta di pagamento diretto sulla base della domanda corredata dagli accordi conclusi dalle parti sociali e dell’elenco dei beneficiari, conformi agli accordi quadro regionali ed entro gli specifici limiti di spesa previsti;
  2. al comma 7 viene prorogata all’anno 2011 l’erogazione, da parte dell’INPS, di un incentivo per i datori di lavoro, le cui aziende non siano interessate da trattamenti di CIGS, che assumano lavoratori destinatari di ammortizzatori sociali in deroga, che siano stati licenziati o sospesi da imprese non rientranti nella disciplina della L. 223/1991, a seguito della cessazione, parziale o totale, dell’attività o per intervento di procedura concorsuale.

Infine, il comma 32 ha prorogato anche per il 2011 alcuni interventi di sostegno al reddito già previsti, per il 2009, dall’articolo 19 del D.L. 185/2008, e già prorogati, per il 2010, dall’articolo 2, commi 136 e 137, della legge finanziaria per il 2010 (L. 191/2009), in precedenza richiamati.



Gli interventi nel 2011

L’articolo 33, commi 21-25, della L. 183/2011 (legge di stabilità per il 2012) ha disciplinato la concessione dei cd. ammortizzatori sociali in deroga, nonché la proroga, per il 2012, di specifici interventi di tutela del reddito.

In particolare:



Gli interventi nel 2012

La L. 92/2012, di riforma del mercato del lavoro, all’articolo 2, commi 64-67, consente, per il periodo transitorio 2013-2016, prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina degli ammortizzatori prevista a partire dal 2017, la concessione di ammortizzatori sociali in deroga, in termini analoghi a quelli posti, per gli anni precedenti, da numerose disposizioni transitorie.

In particolare si prevede, al fine di garantire la graduale transizione verso il regime delineato dalla riforma degli ammortizzatori sociali nel provvedimento in esame, assicurando la gestione delle situazioni derivanti dal perdurare dello stato di debolezza dei livelli produttivi del Paese, che per gli anni 2013-2016 il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, possa disporre, sulla base di specifici accordi governativi e per periodi non superiori a dodici mesi, in deroga alla normativa vigente, la concessione, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti di integrazione salariale e di mobilità.

Tali trattamenti sono concessi, anche con riferimento a settori produttivi e ad aree regionali, nei limiti delle risorse finanziarie a tal fine destinate nell’ambito del Fondo sociale per occupazione e formazione, di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), del D.L. 185/2008, incrementato di 1.000 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013 e 2014, 700 milioni di euro per il 2015 e 400 milioni di euro per il 2016.

Allo stesso tempo, si prevede la proroga, nell’ambito delle risorse finanziarie destinate alla concessione, in deroga alla normativa vigente, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti di integrazione salariale e di mobilità, dei trattamenti concessi ai sensi dell’articolo 33, comma 21, della L. 183/2011, nonché ai sensi del precedente comma. Anche in questo caso, tali trattamenti possono essere prorogati sulla base di specifici accordi governativi e per periodi non superiori a dodici mesi, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

In ogni caso, la misura dei trattamenti di cui al periodo precedente è ridotta:

I trattamenti di sostegno del reddito, nel caso di proroghe successive alla seconda, possono essere erogati esclusivamente nel caso di frequenza di specifici programmi di reimpiego, anche miranti alla riqualificazione professionale. Tali corsi possono essere organizzati da più soggetti.

Inoltre, si dispone l’applicazione, al fine di garantire criteri omogenei di accesso a tutte le forme di integrazione del reddito, delle disposizioni di cui all’articolo 8, comma 3, del D.L. 86/1988 e di cui all’articolo 16, comma 1, della L. 223/1991, anche ai lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione salariale in deroga e di mobilità in deroga.

Da ultimo, è intervenuto in materia l’articolo 1, commi 253-255 della L. 228/2012, che in primo luogo ha previsto la possibilità di finanziare gli ammortizzatori sociali in deroga nelle Regioni, in relazione a misure di politica attiva e ad azioni innovative e sperimentali di tutela dell'occupazione, attraverso la riprogrammazione dei programmi cofinanziati dai Fondi strutturali 2007/2013 oggetto del Piano di Azione e Coesione. Oltre a ciò, è stato incrementato il Fondo sociale per l’occupazione e formazione di 200 milioni di euro per il 2013, in considerazione del perdurare della crisi occupazionale e dell’esigenza di assicurare adeguate risorse per gli interventi di ammortizzatori sociali in deroga a tutela del reddito dei lavoratori, in una logica di condivisione solidale fra istituzioni centrali, territoriali e parti sociali, in aggiunta a quanto previsto dall'articolo 2, comma 65, della L. 92/2012. E’ stato infine previsto il monitoraggio sull’andamento dei richiamati ammortizzatori, e nel caso in cui entro il 30 aprile 2013 le risorse siano considerate insufficienti, è stata prevista la facoltà, con specifico decreto interministeriale, di riassegnazione al Fondo sociale per l'occupazione e la formazione delle risorse derivanti dal 50% dell'aumento contributivo dovuto per l'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria dello 0,30% (di cui all'articolo 25, quarto comma, della L. 845/1978).

Approfondimento: Nuova disciplina degli ammortizzatori sociali



Le novità della legge 92/2012

Nell’ambito di una revisione complessiva del sistema degli ammortizzatori sociali, la L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, ha istituito dal 1° gennaio 2013 un nuovo istituto, l’Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASPI), che si concretizza nell’erogazione di un’indennità mensile ai lavoratori dipendenti del settore privato, compresi gli apprendisti ed i soci di cooperative di lavoro. Il nuovo ammortizzatore amplia sia il campo soggettivo dei beneficiari, sia i trattamenti, attraverso l’estensione a categorie prima escluse (principalmente apprendisti) e la copertura assicurativa per i soggetti che entrano nella prima volta nel mercato del lavoro (principalmente giovani) e per i soggetti che registrano brevi esperienze di lavoro. 

Allo stesso tempo, viene istituito un’ulteriore istituto di sostegno del reddito, denominato mini-ASPI, volto ad assicurare, dal 1° gennaio 2013, i lavoratori che non abbiano i requisiti per la fruizione dell’ASPI. La mini-ASPI va a sostituire l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, condizionandola alla presenza e permanenza dello stato di disoccupazione, e può essere concessa in presenza di almeno 13 settimane di contribuzione di attività lavorativa negli ultimi 12 mesi, e consiste in un’indennità di pari importo dell’ASPI.

Contestualmente viene disciplinata una fase transitoria, in attesa dell’entrata a regime dell’ASPI (prevista a decorrere dal 2017), per i nuovi eventi di disoccupazione involontaria determinatisi a decorrere dal 1º gennaio 2013 e fino al 31 dicembre 2015. In particolare, vengono stabilite le prestazioni (quantificate in mesi) erogate ai soggetti interessati dagli eventi di disoccupazione in relazione alla loro età anagrafica, prevedendo che la durata di tali trattamenti aumenti in misura proporzionale all’età dei beneficiari (distinguendo tra soggetti la cui età anagrafica sia inferiore a 50 anni; sia pari o superiore a 50 anni ma inferiore a 55 anni; infine, sia pari o superiore a 55 anni).

Infine, si provvede ad istituire fondi di solidarietà bilaterali per i settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale (ordinaria o straordinaria), al fine di assicurare ai lavoratori interessati una tutela nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per le cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria.



L'ASpI

L’ASpI si applica a tutti i lavoratori dipendenti, compresi gli apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito, con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata. Vengono invece esclusi dall’applicazione i dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 165/2001. Rientrano quindi nell’ambito dell’applicazione dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni con contratto di lavoro a tempo non indeterminato, per i quali trovava applicazione, nella disciplina previgente, l'indennità ordinaria di disoccupazione.

L’istituto, inoltre, non si applica nei confronti degli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato.

L’ASpI viene corrisposta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che siano in stato di disoccupazione (cioè soggetti privi di lavoro, che siano immediatamente disponibili allo svolgimento ed alla ricerca di una attività lavorativa secondo modalità definite con i servizi competenti) e possano far valere almeno due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione.

Sono esclusi dalla fruizione i lavoratori che siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni o per risoluzione consensuale del rapporto, fatti salvi specifici casi.

L’importo dell’ASpI è rapportato alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi due anni, comprensiva degli elementi continuativi e non continuativi e delle mensilità aggiuntive, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero 4,33.

In ogni caso, l’indennità mensile erogata viene rapportata alla retribuzione mensile ed è pari al 75% nei casi in cui la retribuzione mensile sia pari o inferiore nel 2013 all’importo di 1.180 euro mensili, annualmente rivalutato sulla base della variazione annuale dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente. Nel caso in cui la retribuzione mensile sia superiore a 1.180 euro mensili: in tal caso, l’indennità è pari al 75% del predetto importo più un ulteriore incremento pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e il predetto importo.

In ogni caso, l’indennità mensile non può superare l’importo mensile massimo pari all’100% della retribuzione che sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate nel caso di integrazione salariale straordinaria.

All’ASpI non si applica il prelievo contributivo del 5,84% per gli apprendisti, di cui all’articolo 26 della legge 41/1986 (legge finanziaria per il 1986).

E’ inoltre prevista una riduzione dell’importo erogato, pari al 15%, dopo i primi sei mesi di fruizione, nonché un’ulteriore decurtazione del 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione.

Durante i periodi di fruizione dell’ASPI, sono riconosciuti i contributi figurativi, nella misura settimanale pari alla media delle retribuzioni imponibili ai fini previdenziali degli ultimi due anni. I contributi figurativi sono utili ai fini del diritto e della misura dei trattamenti pensionistici ma non sono utili ai fini del conseguimento del diritto nei casi in cui la normativa richieda il computo della sola contribuzione effettivamente versata.

A decorrere dal 1º gennaio 2016 e in relazione ai nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dalla predetta data, è stato disposto che l’ASpI venga corrisposta:

L’ASpI può essere liquidata a decorrere dall’ottavo giorno successivo alla data di cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro, ovvero dal giorno successivo a quello in cui sia stata presentata la domanda.

La liquidazione dell’indennità avviene, a pena di decadenza, dietro presentazione, da parte dei lavoratori aventi diritto di un’apposita domanda, da inviare all’INPS esclusivamente in via telematica, entro due mesi dalla data di spettanza del trattamento. La fruizione dell’indennità è comunque condizionata alla permanenza dello stato di disoccupazione. L’erogazione dell’ASPI, infatti, può essere sospesa nei confronti dei soggetti assicurati con contratto di lavoro subordinato in caso di nuova occupazione. Nei casi di sospensione i periodi di contribuzione legati al nuovo rapporto di lavoro possono essere fatti valere ai fini di un nuovo trattamento nell’ambito dell’ASpI o della mini-ASpI.

Particolari obblighi sono a carico del soggetto fruitore nel caso in cui svolga un’attività lavorativa in forma autonoma, dalla quale derivi un reddito inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione

E’ infine prevista, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, la facoltà, per il lavoratore avente diritto alla corresponsione dell’ASpI, di richiedere la liquidazione degli importi del trattamento pari al numero di mensilità non ancora percepite, nel caso in cui lo stesso intraprenda un’attività di lavoro autonomo, ovvero per avviare un’attività in forma di auto impresa o di micro impresa, o per associarsi in cooperativa. Tale possibilità è riconosciuta nel limite massimo di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015.

Ai sensi dei commi 40 e 41 dell’articolo 2, si decade dalla fruizione dell’ASPI in seguito alla perdita dello stato di disoccupazione, per l’inizio di un’attività in forma autonoma senza che il lavoratore effettui la comunicazione all’INPS del reddito anno che si presume di avere dall’attività stessa, per il raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nonché per l’acquisizione del diritto all’assegno ordinario di invalidità, sempre che il lavoratore non opti per l’indennità erogata dall’ASPI. La decadenza si realizza dal momento in cui si verifica l’evento che la determina, con obbligo di restituzione dell’indennità che eventualmente si sia continuato a percepire.

L’articolo 2, comma 36, della L. 92/2012 prevede inoltre che, a decorrere dal 1º gennaio 2013, per gli apprendisti l'applicazione delle norme sulla previdenza e assistenza sociale obbligatoria venga estesa anche all’ASPI.

Inoltre, l’aliquota contributiva di finanziamento dell’ASPI non ha effetto nei confronti delle agevolazioni che rimandano, per l’identificazione dell’aliquota applicabile, alla contribuzione nella misura prevista per gli apprendisti.

Infine, l’ASpI viene aggiunta alle tipologie di assicurazioni spettanti ai lavoratori soci di società cooperative di lavoro.

Per quanto attiene al contenzioso, l’articolo 2, comma 42, della L. 92/2012 individua nel comitato provinciale dell’INPS l’organo chiamato a decidere in via definitiva i ricorsi avverso i provvedimenti dell'INPS concernenti anche le prestazioni dell’ASPI, mentre il successivo comma 43 prevede che il comitato amministratore della gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti possa decidere, in merito all’ASpI, in unica istanza sui ricorsi in materia di contributi dovuti alla gestione. Trovano altresì applicazione le disposizioni concernenti il termine per ricorrere al comitato (90 giorni dalla data dell’atto impugnato), trascorso il quale si può adire l’autorità giudiziaria.

Successivamente, il legislatore è tornato sulla materia con il D.L. 83/2012, che in particolare ha prorogato al 2014 il regime transitorio del trattamento di mobilità in attesa dell’ASpI e con la legge di stabilità per il 2013 (articolo 1, comma 250, della L. 228/2012) in relazione all’applicazione delle norme già operanti in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola per le prestazioni liquidate dall’ASpI per quanto non previsto dalla stessa L. 92/2012, nonché alla riduzione dell’erogazione del massimale ASpI (41% in luogo del 50%) in caso di interruzione dell’attività lavorativa.



La mini-ASpI

L’articolo 2, comma 20, della L. 92/2012 ha introdotto, sempre a decorrere dal 1º gennaio 2013, a favore di tutti i lavoratori dipendenti, compresi gli apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito, con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata, a condizione di aver versato almeno 13 settimane di contribuzione di attività lavorativa negli ultimi dodici mesi, attività per la quale siano stati versati o siano dovuti i contributi per l’assicurazione obbligatoria, il diritto alla fruizione di una specifica indennità, di importo pari a quello dell’ASpI, denominata mini-ASpI.

La mini-ASpI è corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione nell’ultimo anno, detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo.

La mini-ASpI sostituisce l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, con riferimento ai periodi lavorativi del 2012, nelle prestazioni liquidate a decorrere dal 1º gennaio 2013.

Alla mini-ASpI si applicano le disposizioni relative all’ASPI per quanto attiene all’individuazione dello stato di disoccupazione ed all’importo e alle modalità di calcolo, alle procedure per l’erogazione e alla sospensione.

Allo stresso tempo alla mini-ASpI si applicano i casi di esclusione previsti per l’ASpI (operai agricoli, a tempo indeterminato e determinato, dipendenti delle pubbliche amministrazioni a tempo indeterminato, lavoratori che siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni o per risoluzione consensuale del rapporto, salvo specifici casi).

Inoltre, analogamente a quanto previsto per l’ASpI, è prevista la sospensione d’ufficio dell’erogazione della mini-ASpI sulla base delle comunicazioni obbligatorie di cui all’articolo 9-bis, comma 2, del D.L. 510/1996 in caso di nuova occupazione del soggetto assicurato con contratto di lavoro subordinato, fino ad un massimo di cinque giorni. Al termine del periodo di sospensione l’indennità riprende a decorrere dal momento in cui era rimasta sospesa.

I casi di decadenza sono identici a quelli relativi all’ASpI.



Finanziamento ASpI e mini-ASpI

Le modalità di contribuzione per il finanziamento del nuovo sistema di indennità (ASpI e mini-ASpI), in sostituzione delle aliquote oggi a carico dei datori di lavoro per gli strumenti di sostegno del reddito che verranno sostituiti a regime, sono definite dall’articolo 2, commi da 25 a 39, della L. 92/2012.

In particolare, si dispone l’applicazione di un’aliquota (pari all’1,31%) per i lavoratori a tempo indeterminato, nonché di un contributo addizionale (a carico del datore di lavoro), per ogni rapporto di lavoro subordinato diverso da quello a tempo indeterminato, pari all'1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, fatte salve specifiche eccezioni.

Inoltre, si prevede un ulteriore contributo, analogo al contributo stabilito per l’indennità di mobilità, a carico del datore di lavoro, in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni, intervenuti a decorrere dal 1º gennaio 2013.

Inoltre, si stabilisce che, con effetto sui periodi contributivi maturati a decorrere dal 1º gennaio 2013, al finanziamento dell’ASpI e della mini-ASpI concorrono i contributi integrativi dovuti per i salariati fissi e i giornalieri di campagna, Ad ogni modo continuano a trovare applicazione, in relazione ai contributi richiamati in precedenza, le eventuali riduzioni derivanti dai provvedimenti di riduzione del costo del lavoro operate dall’articolo 120 della L. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001), e dall’articolo 1, comma 361, della L. 266/2005 (legge finanziaria per il 2006), nonché le misure compensative di cui all’articolo 8 del D.L. 203/2005, relativo alla disciplina relativa alle forme di compensazione per i datori di lavoro che conferiscono il TFR maturando alle forme pensionistiche complementari.

E’ altresì prevista una decurtazione del contributo a favore dei lavoratori per i quali i contributi richiamati in precedenza non trovavano applicazione, e in particolare per i soci lavoratori delle cooperative di cui al D.P.R. 602/1970. La decurtazione è pari alla quota di riduzione di cui all’articolo 120 della legge finanziaria per il 2001 e all’articolo 1, comma 361, della legge finanziaria per il 2006, che non sia stata ancora applicata a causa della mancata capienza delle aliquote vigenti alla data di entrata in vigore delle citate leggi finanziarie.

In particolare, è stato previsto un allineamento alla nuova aliquota ASpI, con incrementi annui pari allo 0,26% per il periodo 2013-2016 e allo 0,27% per l’anno 2017, nel caso in cui ai lavoratori di cui al periodo precedente le richiamate quote di riduzione siano state già applicate.

L’allineamento è subordinato all’adozione annuale del decreto di rideterminazione delle aliquote previsto dall’ultimo periodo del presente comma, in assenza del quale le disposizioni transitorie richiamate successivamente non trovano applicazione.

Contestualmente, si prevede l’allineamento graduale, con incrementi pari allo 0,06% annuo, dell’aliquota del contributo destinato al finanziamento dei Fondi interprofessionali per la formazione continua. Allo stesso tempo, si prevede, a decorrere dal 2013 e fino al pieno allineamento alla nuova aliquota ASpI, la rideterminazione annuale delle prestazioni relative all’importo e alle modalità di calcolo dell’ASpI e della mini-ASpI, in funzione dell’aliquota effettiva di contribuzione.

Per quanto attiene ai contributi da versare, accennati in precedenza, con effetto sui periodi contributivi di cui al precedente comma 1, ai rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato si applica un contributo addizionale, a carico del datore di lavoro, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, fatte salve specifiche esclusioni.

Tale contributo addizionale non si applica:

  1. ai lavoratori assunti a temine in sostituzione di lavoratori assenti;
  2. ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento delle attività stagionali di cui al D.P.R. 1525/1963. E’ stato inoltre previsto che il contributo addizionale non si applichi anche, per i periodi contributivi maturati dal 1º gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, alle attività definite dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati entro il 31 dicembre 2011 dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più` rappresentative.

In caso di trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato, è prevista la restituzione al datore di lavoro del contributo, nei limiti delle ultime sei mensilità, successivamente al decorso del periodo di prova. La restituzione avviene anche qualora il datore di lavoro assuma il lavoratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato entro il termine di sei mesi dalla cessazione del precedente contratto a termine. In tale ultimo caso, la restituzione avviene detraendo dalle mensilità spettanti un numero di mensilità ragguagliato al periodo trascorso dalla cessazione del precedente rapporto di lavoro a termine.

E’ altresì previsto un contributo di licenziamento, erogabile in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sono inclusi anche i rapporti di apprendistato) appunto per cause diverse dalle dimissioni, intervenuti a decorrere dal 1º gennaio 2013, a carico del datore di lavoro.

Il contributo è pari al 50% del trattamento mensile iniziale dell’ASPI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni (sono quindi compresi i periodi di lavoro a termine). Nel computo dell’anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo determinato, se il rapporto e` proseguito senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione di cui al precedente comma.

Il contributo è dovuto anche per le interruzioni dei rapporti di apprendistato diverse dalle dimissioni o dal recesso del lavoratore, ivi incluso il recesso del datore di lavoro. Lo stesso contributo, invece, non è dovuto, fino al 31 dicembre 2016, nei casi in cui sia dovuto il contributo dovuto dal datore di lavoro per ogni lavoratore messo in mobilità,

Il contributo di licenziamento non è inoltre dovuto, per il periodo 2013-2015, nei seguenti casi:

a)   licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;

b)  interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere.

Infine, il contributo di licenziamento è moltiplicato per tre volte, a decorrere dal 1º gennaio 2017, nei casi di licenziamento collettivo in cui la dichiarazione di eccedenza del personale non abbia formato oggetto di accordo sindacale.



I Fondi di solidarietà

L’articolo 3, commi 4-13, della L. 92/2012 istituisce i fondi di solidarietà bilaterali per i settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale (ordinaria o straordinaria), al fine di assicurare ai lavoratori interessati una tutela nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per le cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria.

I commi da 14 a 18 dell’articolo 3 introducono un modello di costituzione dei fondi di solidarietà alternativo a quello dei fondi di solidarietà bilaterali previsto in precedenza.

Inoltre, è riconosciuta, in via sperimentale per il periodo 2013-2015, l’erogazione dell’ASpI (per un periodo massimo di 90 giorni da computare in un biennio mobile) ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali che siano in possesso di specifici requisiti, a condizione che ci sia un intervento integrativo da parte dei fondi bilaterali disciplinati dall’articolo medesimo (o dei fondi di solidarietà bilaterali) pari almeno alla misura del 20% dell’indennità stessa

L’articolo 3, commi 19-21, infine, prevede l’istituzione di un fondo di solidarietà residuale, per i settori in cui non siano stati attivati, entro il 31 marzo 2013, i fondi di solidarietà bilaterali.

In particolare, si stabilisce l’obbligo, al fine di assicurare la definizione, entro l’anno 2013, di un sistema inteso ad assicurare adeguate forme di sostegno per i lavoratori dei diversi comparti, per le organizzazioni sindacali e imprenditoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di stipulare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della L. 92/2012 (e cioè il 18 gennaio 2013), specifici accordi collettivi e contratti collettivi, anche intersettoriali, aventi ad oggetto la costituzione di fondi di solidarietà bilaterali (di seguito fondi) per i settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale. Tali fondi hanno lo scopo di assicurare ai lavoratori una tutela, in costanza di rapporto di lavoro, nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria.

Tali fondi devono essere costituiti presso l’INPS, con apposito decreto ministeriale, entro i successivi tre mesi. Tali fondi non hanno personalità giuridica e costituiscono gestioni dell’INPS; inoltre gli oneri di amministrazione di ciascun fondo sono determinati secondo i criteri definiti dal regolamento di contabilità dell’INPS.

E’ possibile apportare , con le medesime modalità richiamate in precedenza, modifiche agli atti istitutivi di ciascun fondo. In particolare, la norma prevede che le modifiche aventi ad oggetto la disciplina delle prestazioni o la misura delle aliquote siano adottate con decreto direttoriale dei Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dell’economia e delle finanze, sulla base di una proposta del comitato amministratore cui è demandata la gestione di ciascun fondo.

I decreti di costituzione dei fondi presso l’INPS determinano sulla base degli accordi, anche l’ambito di applicazione dei fondi stessi, con riferimento al settore di attività, alla natura giuridica dei datori di lavoro ed alla classe di ampiezza dei datori di lavoro. Il superamento dell’eventuale soglia dimensionale fissata per la partecipazione al fondo si verifica mensilmente con riferimento alla media del semestre precedente.

L’istituzione dei fondi è obbligatoria per tutti i settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale in relazione alle imprese che occupino mediamente più di 15 dipendenti. Le prestazioni e i relativi obblighi contributivi non si applicano al personale dirigente se non espressamente previsto.

I fondi possono perseguire ulteriori finalità in aggiunta a quelle espressamente individuate in precedenza, quali assicurare ai lavoratori una tutela in caso di cessazione dal rapporto di lavoro, integrativa rispetto all’ASPI; prevedere assegni straordinari per il sostegno al reddito, riconosciuti nel quadro dei processi di agevolazione all’esodo, a lavoratori che raggiungano i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nei successivi 5 anni; nonché contribuire al finanziamento di programmi formativi di riconversione o riqualificazione professionale, anche in concorso con gli appositi fondi nazionali o dell’Unione europea.

Per tali finalità, i fondi possono essere istituiti, con le medesime modalità richiamate per l’istituzione obbligatoria, anche in relazione a settori e classi di ampiezza già coperti dalla normativa in materia di integrazioni salariali. Per le imprese nei confronti delle quali trova applicazione la disciplina in materia di mobilità, gli accordi e contratti collettivi con le modalità di cui al comma 1 possono prevedere che il fondo di solidarietà sia finanziato, a decorrere dal 1º gennaio 2017, con un’aliquota contributiva pari allo 0,30% delle retribuzioni imponibili ai fini previdenziali.

E’ inoltre prevista, come accennato in precedenza, la facoltà, per le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, nei settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale, nei quali siano operanti consolidati sistemi di bilateralità nonché in considerazione delle peculiari esigenze dei predetti settori (quale quello dell’artigianato) di adeguare, in alternativa alla procedura in precedenza richiamata, le fonti istitutive dei rispettivi fondi bilaterali alla legge (entro il 18 gennaio 2013). L’adeguamento deve in ogni caso prevedere misure intese ad assicurare ai lavoratori una tutela reddituale in costanza di rapporto di lavoro, in caso di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, correlate alle caratteristiche delle attività produttive interessate.

E’ demandata agli accordi e ai contratti collettivi, per le finalità in precedenza richiamate, la definizione: di un’aliquota complessiva di contribuzione ordinaria di finanziamento non inferiore allo 0,20%; delle tipologie di prestazioni in funzione delle disponibilità del fondo di solidarietà bilaterale; dell’adeguamento dell’aliquota in funzione dell’andamento della gestione, ovvero la rideterminazione delle prestazioni in relazione alle erogazioni, anche in considerazione degli andamenti del relativo settore in relazione anche a quello più generale dell’economia, nonché l’esigenza dell’equilibrio finanziario del fondo medesimo; della possibilità di far confluire al fondo di solidarietà quota parte del contributo previsto per l’eventuale fondo interprofessionale; di criteri e requisiti per la gestione dei fondi.

E’ inoltre demandata ad un apposito decreto la determinazione di specifici parametri relativi ai fondi, quali i requisiti di professionalità e onorabilità dei soggetti preposti alla gestione dei fondi, i criteri e requisiti per la contabilità dei fondi, nonché le modalità volte a rafforzare la funzione di controllo sulla loro corretta gestione e di monitoraggio sull’andamento delle prestazioni (anche attraverso la determinazione di standard e parametri omogenei).

Inoltre, viene riconosciuta, in via sperimentale per il periodo 2013-2015 l’erogazione dell’ASPI ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali che siano in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 2, commi 4-5, a condizione che ci sia un intervento integrativo pari almeno alla misura del 20% dell’indennità stessa a carico dei fondi bilaterali di cui ai commi in esame, ovvero a carico dei fondi di solidarietà bilaterali. La durata massima del trattamento, in ogni caso, non può superare novanta giornate da computare in un biennio mobile. Il trattamento è riconosciuto nel limite delle risorse non superiore a 20 milioni di euro annui per il periodo 2013-2015.  

Infine, si prevede l’obbligo, per i settori, tipologie di datori di lavoro e classi dimensionali comunque superiori ai 15 dipendenti, non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale, di istituire un fondo di solidarietà residuale, nel caso in cui in tali settori, tipologie di datori di lavoro e classi dimensionali non siano stipulati, entro il 31 marzo 2013, accordi collettivi volti all’attivazione di fondi di solidarietà bilaterali. Tale fondo è istituito, con decreto non regolamentare del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, e ad esso contribuiscono i datori di lavoro dei settori identificati.

Il fondo di solidarietà residuale, finanziato con i contributi dei datori di lavoro e dei lavoratori dei settori coperti, secondo le aliquote definite con gli stessi decreti di istituzione dei fondi di solidarietà bilaterali e del fondo residuale stesso, deve comunque garantire le stesse prestazioni dei fondi di solidarietà bilaterali, per una durata non superiore a un ottavo delle ore complessivamente lavorabili da computare in un biennio mobile, in relazione alle causali di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa previste dalla normativa in materia di cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria

Alla gestione di tale fondo provvede un apposito comitato amministratore, avente gli stessi compiti del comitato amministratore dei fondi di solidarietà bilaterali.

Per quanto attiene ai criteri di ripartizione dei contributi di finanziamento dei fondi di solidarietà bilaterali e del fondo di solidarietà residuale, viene prevista la contribuzione a carico del datore di lavoro nella misura di 2/3 e a carico dei lavoratori nella misura di 1/3. Sono altresì previsti specifici contributi addizionali a carico del datore di lavoro in caso di erogazione degli assegni ordinari e straordinari di sostegno al reddito da parte dei fondi stessi, da calcolarsi in relazione alla misura delle prestazioni erogate.

La disciplina finanziaria dei fondi prevede, in particolare, l’obbligo del pareggio di pareggio; la impossibilità di erogare prestazioni in carenza di disponibilità finanziarie; l’obbligo di presentare bilanci di previsione a 8 anni basati sullo scenario macroeconomico definito dal Ministero dell’economia e delle finanze. Viene inoltre prevista la possibilità di modificare il regolamento del fondo in relazione all’importo delle prestazioni o alla misura dell’aliquota, anche in corso d’anno, con decreto direttoriale interministeriale, sulla base di una proposta del comitato amministratore. E’ prevista, infine, la possibilità di adeguamento dell’aliquota in caso di necessità di assicurare il pareggio di bilancio ovvero di far fronte a prestazioni già deliberate o da deliberare.

Le prestazioni erogate dai fondi di solidarietà bilaterali consistono, in primo luogo, in un assegno ordinario di importo pari alla integrazione salariale, di durata non superiore a 1/8 delle ore complessivamente lavorabili nell’ambito di un biennio (mobile), in relazione alle causali previste dalla normativa in materia di CIG e CIGS. Sono altresì stabilite ulteriori tipologie di prestazione che possono essere erogate dai fondi, quali prestazioni integrative (per importi o durate) rispetto all’ASPI; assegni straordinari di sostegno al reddito in favore di lavoratori che raggiungono i requisiti per il pensionamento nei successivi cinque anni e che siano interessati da processi di agevolazione all’esodo. Infine, alla gestione dei fondi di solidarietà bilaterali provvede un comitato amministratore per ciascun fondo.

Approfondimento: Ulteriori strumenti di tutela del reddito

Di seguito sono riportati alcuni istituti di sostegno del reddito ulteriori agli ammortizzatori sociali più noti cui si è fatto ricorso nella XVI Legislatura.



Contratti di solidarietà

Per contratti di solidarietà difensivi si intendono quelli collettivi aziendali, stipulati tra imprese industriali e le rappresentanze sindacali, che, a norma dell'articolo 1 del D.L. 726/1984, stabiliscano una riduzione dell'orario di lavoro, al fine di evitare, in tutto o in parte, la riduzione o la dichiarazione di esubero del personale. In relazione a tale riduzione d'orario, di cui sia stata accertata la finalizzazione da parte dell'Ufficio regionale del lavoro, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali concede il trattamento d'integrazione salariale il cui ammontare è determinato in una specifica misura percentuale del trattamento retributivo perso a séguito della riduzione d'orario.

La richiamata percentuale, stabilita originariamente al 60% dall'articolo 6, comma 3, del D.L. 510/1996, è stata successivamente elevata all’80% del trattamento perso a seguito della riduzione dell’orario, in via sperimentale per il biennio 2009-2010, dall’articolo 1, comma 6, del D.L. 78/2009, e prorogata da diversi provvedimenti, fino ad essere, da ultimo, protratta per tutto il 2013 dall’articolo 1, comma 256, della legge di stabilità per il 2013 (L. 228/2012).

Sempre in materia di contratti solidarietà si rammenta l’articolo 19, comma 14, del D.L. 185/2008, con il quale è stato prorogato al 31 dicembre 2009 il termine entro il quale le imprese non rientranti nell'ambito ordinario di applicazione della disciplina dei richiamati contratti potevano stipulare tali contratti, beneficiando di determinate agevolazioni, ai sensi dell'articolo 5, commi 5 e 8, del D.L. 148/1993. Successivamente posticipato di anno in anno, da ultimo tale termine è stato prorogato per il 2013 dall’articolo 1, comma 405, della L. 228/2012.

Un ulteriore intervento si è avuto con l’articolo 7-ter, comma 9, del D.L. 5/2009, con il quale è stato stabilito che le imprese stipulanti contratti di solidarietà non possano concludere tale operazione solamente al fine di evitare o ridurre le eccedenze di personale derivanti da licenziamenti collettivi ai sensi dell’articolo 24 della L. 223/1991, bensì anche al fine di evitare licenziamenti plurimi individuali per giustificato motivo oggettivo.

Sono inoltre definiti contratti di solidarietà espansivi (disciplinati dall’articolo 2 del D.L. 726/1984) gli accordi collettivi che prevedono una riduzione stabile dell’orario di lavoro e della retribuzione dei dipendenti contestualmente all’effettuazione di nuove assunzioni al fine di incrementare l’organico. Le nuove assunzioni devono essere a tempo indeterminato, e non devono causare una riduzione della percentuale della manodopera femminile rispetto a quella maschile, oppure di quest’ultima qualora risulti inferiore. Il datore di lavoro che stipula tali contratti può ottenere, alternativamente, specifiche agevolazioni, consistenti nell’erogazione di in un contributo, per ogni mensilità corrisposta ai nuovi assunti, pari a determinate percentuali per determinati periodi temporali (rispettivamente 15% per i primi 12 mesi, 10% dal 13° al 24° mese e 5% dal 25° al 30° mese). Nel caso in cui i neo assunti abbiano un’età compresa tra i 15 e i 29 anni, il contributo sarà pari alla misura prevista per gli apprendisti in aziende con più di 9 dipendenti (10%).  



Istituto sperimentale per i lavoratori a progetto

Con l’articolo 19, comma 2, del D.L. 185/2008 è stato introdotto, in via sperimentale per il triennio 2009-2011 (successivamente prorogato al 31 dicembre 2012 dall’articolo 6, comma 1, del D.L. 216/2011), nei limiti di specifiche risorse, il riconoscimento di una somma liquidata in un'unica soluzione pari al 10% del reddito (aumentato al 20% dall’articolo 7-ter, comma 8, del D.L. 5/2009, che ha contestualmente introdotto il comma 2-bis allo stesso articolo 19) percepito l'anno precedente, ai lavoratori a progetto - ad esclusione dei soggetti titolari di redditi di lavoro autonomo di cui all’articolo 53 del TUIR - possessori dei seguenti requisiti:

-      operare in regime di monocommittenza;

-      conseguimento, nell'anno precedente al periodo di riferimento, di un reddito superiore a 5.000 euro e pari o inferiore al minimale di reddito di cui all'articolo 1, comma 3, della L. 233/1990, nonché accreditamento presso la predetta Gestione separata nell’anno precedente di un numero di mensilità non inferiore a tre;

-      accreditamento, nell’anno di riferimento, presso la predetta Gestione separata, di un numero di mensilità non inferiore a tre;

-      non risultino accreditati nell'anno precedente almeno due mesi presso la richiamata Gestione separata.

Successivamente, con l’articolo 2, comma 130, della L. 191/2009  (legge finanziaria per il 2010) sono stati ampliati i requisiti e la misura dell’istituto sperimentale in precedenza richiamato.

In particolare, è stata incrementata la misura dell’intervento in un’unica soluzione per i richiamati soggetti, in via sperimentale per il biennio 2010-2011, con una percentuale pari al 30% del reddito percepito l’anno precedente e comunque non superiore a 4.000 euro, nei limiti di 200 milioni di euro annui.

Inoltre sono stati introdotti, in aggiunta a quelli in precedenza richiamati, nuovi requisiti ai fini della fruizione dell’istituto. In particolare, i soggetti fruitori:

Lo stesso comma 130, infine, ha salvaguardato i requisiti di accesso e la misura del trattamento vigenti alla data del 31 dicembre 2009 per coloro che abbiano maturato il diritto entro tale data.

Successivamente, l’articolo 6, comma 1, del D.L. 216/2011 (cd. proroga termini) h prorogato al 2012 tale istituto.

Da ultimo, l’articolo 2, commi 51-56, della L. 92/2012, di riforma del mercato del lavoro, ha disposto, disciplina, a decorrere dal 2013, una specifica indennità una tantum per i collaboratori coordinati e continuativi in regime di monocomittenza, iscritti in via esclusiva alla gestione pensionistica INPS separata e non titolari anche di reddito di lavoro autonomo, in quanto esclusi dall’ambito di applicazione dell’ASPI

In particolare, si prevede, nei limiti delle risorse di cui all’articolo 19, comma 1, del D.L. 185/2008, l’erogazione di un’indennità ai lavoratori a progetto, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata presso l’INPS di cui all’articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, con esclusione di specifici soggetti, a condizione che vengano soddisfatti congiuntamente i seguenti presupposti:

L’indennità è pari a una somma del 5% del minimale annuo di reddito di cui all’articolo 1, comma 3, della L. 233/1990, moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione.

Tale somma viene liquidata in un’unica soluzione se di importo pari o inferiore a 1.000 euro, ovvero in importi mensili di importo pari o inferiore a 1.000 euro se superiore.

Per i soggetti che abbiano maturato il diritto alla fruizione dell’indennità previgente entro la data del 31 dicembre 2011 ai sensi dell’articolo 19, comma 2, del richiamato D.L. 185/2008, restano fermi i requisiti di accesso e la misura del trattamento vigenti entro la medesima data.

Infine, in via transitoria per il triennio 2013-2015:

a)  il requisito minimo di almeno quattro mensilità di contribuzione nell’anno precedente alla gestione separata INPS, ai fini della fruizione dell’indennità una tantum, è ridotto a tre mesi;

b)  l’indennità viene elevata dal 5% al 7% del minimale annuo di reddito richiamato in precedenza;

c)  vengono integrate le risorse finanziarie a copertura della concessione della richiamata indennità nella misura di 60 milioni annui di euro per il citato triennio a valere, per l’anno 2013, sulla dotazione del Fondo per gli interventi urgenti ed indifferibili di cui all’articolo 7-quinquies, comma 1, del D.L. 5/2009, come integrato dall’articolo 33, comma 1, della L. 183/2011 e, per gli anni 2014 e 2015, sull’autorizzazione di spesa relativa al Fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’incremento in termini quantitativi e qualitativi dell’occupazione giovanile e delle donne di cui all’articolo 24, comma 27, del D.L. 201/2011.



Trattamento sperimentale integrativo per gli apprendisti

Tale nuovo trattamento, introdotto dall’articolo 19, comma 1, lettera c), del D.L. 185/2008 in via sperimentale per il triennio 2009-2011 (successivamente prorogato al 31 dicembre 2012 dall’articolo 6, comma 1, del D.L. 216/2011) e subordinatamente a un intervento integrativo pari almeno alla misura del 20% a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva, opera in caso di sospensione per crisi aziendali o occupazionali ovvero in caso di licenziamento ed è pari all'indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti normali per i lavoratori assunti con la qualifica di apprendista alla data di entrata in vigore del D.L. 185/2008 (29 novembre 2008) e con almeno tre mesi di servizio presso l'azienda interessata da trattamento, per una durata massima di novanta giornate nell'intero periodo di vigenza del contratto di apprendista.

Il successivo comma 1-bis dello stesso articolo 19 ha individuato una specifica procedura al fine della fruizione dei richiamati istituti da parte delle categorie di lavoratori individuati in precedenza.

In particolare, si prevede l’obbligo di comunicazione, da parte del datore di lavoro (con apposita dichiarazione da inviare ai centri per l’impiego e alla sede dell'INPS territorialmente competente) della sospensione della attività lavorativa nonché delle relative motivazioni e dei nominativi dei lavoratori interessati.

L’efficacia di tale istituto sperimentale, con un limite di spesa pari a 12 milioni di euro, è stata prorogata al 2012 dall’articolo 6, comma 1, del D.L. 216/2011



Programmi di formazione per lavoratori destinatari di ammortizzatori

L’articolo 1, commi 1-4-bis del D.L. 78/2009 ha previsto la facoltà, da parte delle aziende, di attivare programmi di formazione per i lavoratori destinatari di ammortizzatori sociali, destinando gli stessi ad un’attività produttiva finalizzata all’addestramento, erogando nel contempo ai richiamati lavoratori una retribuzione pari alla differenza tra trattamento di sostegno al reddito e retribuzione.

Più specificamente, si prevede, da parte dell’impresa di appartenenza, la possibilità di utilizzare, in via sperimentale per il biennio 2009-2010, i lavoratori destinatari di trattamenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro, in progetti di formazione o riqualificazione che possono includere attività produttiva connessa all'apprendimento.

Al lavoratore spetta un trattamento economico, erogato dai datori di lavoro, pari alla differenza tra il trattamento di sostegno al reddito e la retribuzione.

L'inserimento del lavoratore nelle attività formative può avvenire sulla base di uno specifico accordo stipulato in sede di Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, stipulato dalle medesime parti sociali che sottoscrivono l'accordo relativo agli ammortizzatori.



Incentivi per inizio di attività di impresa

L’articolo 1, commi da 7 a 8-ter, del D.L. 78/2009 ha introdotto particolari benefici per i lavoratori destinatari di trattamenti di sostegno al reddito che intraprendano attività di impresa, lavoro autonomo o si associno in cooperativa.

Più specificamente, è stata disposta l’erogazione dell’incentivo per i datori di lavoro introdotto dal comma 7 dell’articolo 7-ter del D.L. 5/2009 (si tratta di un incentivo per i datori di lavoro, le cui aziende non siano interessate da trattamenti di CIGS, che assumano lavoratori destinatari, per il 2009-2010, di ammortizzatori sociali in deroga, che siano stati licenziati o sospesi da imprese non rientranti nella disciplina della L. 223/1991 a seguito della cessazione, parziale o totale, dell’attività o per intervento di procedura concorsuale, a favore di aziende che assumano lavoratori destinatari, per il 2009-2010, di ammortizzatori sociali in deroga, che siano stati licenziati o sospesi da specifiche imprese, erogato, su richiesta, anche al lavoratore destinatario del trattamento di sostegno al reddito, a condizione che il medesimo intraprenda un’attività di lavoro autonomo, avvii un’attività auto­imprenditoriale o una micro impresa o si associ in cooperativa.

Tale beneficio è cumulabile con le provvidenze per il credito alla cooperazione di cui all’articolo 17 della L. 49/1985.

L’incentivo è pari all’indennità spettante al lavoratore, nel limite di spesa autorizzato e escludendo quanto dovuto per contributi figurativi, per il numero di mensilità di trattamento non erogate.

Si prevede l’obbligo, per il lavoratore che sia titolare di trattamenti di cassa integrazione in deroga, o in caso di sospensione di lavoro ai sensi dell’articolo 19, comma 1, del D.L. 185/2008, di presentare le dimissioni dall'impresa di appartenenza nel periodo tra l'ammissione al beneficio e dell'erogazione del medesimo.

Il successivo comma 8 ha disposto, in via sperimentale per il biennio 2009-2010, la liquidazione, su richiesta, a favore di determinate categorie di lavoratori, del trattamento di integrazione salariale straordinaria per un numero di mensilità pari a quelle deliberate non ancora percepite.

I lavoratori interessati sono quelli già percettori del trattamento di cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria.

Lo stesso comma ha stabilito, in caso di crisi aziendale a seguito di cessazione totale o parziale dell'impresa, di procedura concorsuale o comunque nei casi in cui il lavoratore sospeso sia stato dichiarato in esubero strutturale, la liquidazione, nel caso in cui il medesimo lavoratore abbia diritto, ai sensi dell’articolo 16, comma 1, della L. 223/1991, all’indennità di mobilità, del trattamento di mobilità per 12 mesi al massimo.

Come per l’incentivo di cui al comma 7, la liquidazione viene erogata a condizione che il lavoratore intraprenda una attività di lavoro autonomo, per l’avviamento di attività autoimprenditoriale o di micro impresa o per associarsi in cooperativa in conformità alle norme vigenti

Anche in questo caso, per poter fruire dei richiamati benefici, sussiste l’obbligo di dimissioni da parte del lavoratore dall'impresa di appartenenza nel periodo tra l’ammissione al beneficio e l'erogazione del medesimo.

Anche tale beneficio è cumulabile con le provvidenze per il credito alla cooperazione di cui all’articolo 17 della L. 49/1985.

Inoltre, il comma 8-bis ha demandato ad un apposito decreto interministeriale le modalità e le condizioni per l'applicazione di quanto previsto dai commi 7 e 8.

Infine, il comma 8-ter, al fine di rendere efficiente e flessibile l’utilizzo delle risorse complessive destinate ad interventi per gli ammortizzatori sociali per il 2009, ha previsto che l’ulteriore somma di 100 milioni di euro previsti dall’articolo 19, comma 2-bis, del D.L. 185/2008, per l’istituto sperimentale di tutela del reddito per i lavoratori a progetto in possesso di determinati requisiti, possa essere, alternativamente rispetto a quanto disposto dallo stesso comma 2-bis, destinata parzialmente o totalmente, previo specifico versamento all’entrata del bilancio dello Stato, ad incrementare per il 2009 le risorse del Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, istituito dall’articolo 18, comma 1, lettera a), del D.L. 185/2008.

Apprendistato

Il decreto-legge 112/2008 ha dapprima introdotto norme volte a promuovere il ricorso all'apprendistato professionalizzante e all'apprendistato finalizzato all'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione. Un'ampia delega per la riforma dell'intera disciplina dell'istituto è stata conferita dall'articolo 46 della legge 183/2010 (Collegato lavoro), attuata con il decreto legislativo 167/2011, su cui è successivamente intervenuta la legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro.

Il decreto-legge 112/2008

L’articolo 23 del D.L. 112/2008, convertito dalla L. 133/2008, ha disposto che la durata del contratto di apprendistato professionalizzante, prevista nei contratti collettivi stipulati dalle associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o regionale, non possa essere superiore a sei anni, eliminando in tal modo il precedente limite minimo di durata di due anni.
Inoltre, in caso di formazione esclusivamente aziendale, i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero agli enti bilaterali.
Nell’apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione vengono compresi i dottorati di ricerca tra i soggetti, di età tra i diciotto anni e i ventinove anni, che possono essere assunti con contratto di apprendistato per il conseguimento di un titolo di studio di livello secondario, di titoli di studio universitari e della alta formazione, nonché per la specializzazione tecnica superiore.
Infine, in caso di assenza di regolamentazioni regionali, l'attivazione dell’apprendistato di alta formazione è rimessa ad apposite convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le università e le altre istituzioni formative.

La riforma dell'istituto (decreto legislativo 167/2011)

La L. 183/2010 (cd. "collegato lavoro") ha riaperto (articolo 46) il termine per l'esercizio della delega volta al riordino della disciplina dell’apprendistato (delega già contenuta nella L. 247/2007 e non esercitata a causa della scadenza della legislatura).
Con una disposizione immediatamente precettiva, invece, è stato previsto che l'obbligo di istruzione si intende assolto anche nei percorsi di apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (articolo 48, comma 8).
In attuazione della delega è stato adottato il D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167. Il provvedimento definisce l’apprendistato come un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani, ribadendo l’articolazione dell’istituto in tre diverse tipologie contrattuali (che vengono peraltro ridenominate). Tra i principali elementi di novità vi è, innanzitutto, l'unificazione della regolamentazione normativa, economica e previdenziale del contratto (applicabile a tutti i settori pubblici e privati), in precedenza strutturata per ciascuna delle tre tipologie contrattuali, garantendo la semplificazione dell’istituto e l’uniformità di disciplina a livello nazionale. Inoltre, si afferma il coinvolgimento pieno delle parti sociali, attraverso il rinvio alla disciplina attuativa recata da appositi accordi interconfederali o da contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale. La disciplina pattizia deve muoversi nel rispetto di una serie di principi, in parte mutuati dalla legislazione vigente e in parte nuovi. In particolare, tra gli elementi di novità si segnala l’estensione della forma scritta al piano formativo individuale, che deve essere definito (anche su appositi formulari elaborati contrattualmente) entro 30 giorni (non più quindi contestualmente) dalla stipulazione del contratto. Per quanto riguarda la retribuzione dell’apprendista, si specifica invece che i due sistemi previsti (sottoinquadramento o percentualizzazione) devono intendersi alternativi tra loro. 
Di grande rilievo sono anche il rafforzamento dell’apparato ispettivo e sanzionatorio (al fine di evitare usi distorti e abusi del contratto di apprendistato); la possibilità di assumere come apprendisti i lavoratori in mobilità; il mantenimento dei benefici contributivi per un anno dalla prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di formazione.
Gli standard formativi sono stati definiti con il D.M. 26 settembre 2012. Gli standard professionali sono definiti nei contratti collettivi nazionali di categoria o, in mancanza, attraverso intese specifiche da sottoscrivere a livello nazionale o interconfederale. Viene altresì specificato che ai fini della verifica dei percorsi formativi in apprendistato professionalizzante e in apprendistato di ricerca, i profili di riferimento debbano essere legati a quelli definiti nei contratti collettivi.
Restano confermate, infine, le norme vigenti riguardanti il referente aziendale, la registrazione della formazione effettuata nel libretto formativo, la possibilità di riconoscere all’apprendista una qualifica professionale ai fini contrattuali e le competenze acquisite ai fini del proseguimento degli studi, i limiti quantitativi per le assunzioni di apprendisti e la tutela previdenziale e assicurativa.

Le modifiche della legge di riforma del mercato del lavoro (legge 92/2012)

La L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (articolo 1, commi 16-19) è intervenuta a modificare la disciplina generale dell'apprendistato. Le modifiche dispongono, in particolare, che la disciplina posta dagli accordi interconfederali o dai contratti collettivi nazionali preveda una durata minima del rapporto di apprendistato non inferiore a sei mesi (fatte salve le attività stagionali); con riferimento alle assunzioni a decorrere dal 1° gennaio 2013, si incrementa il numero massimo di apprendisti che possono essere (contemporaneamente) alle dipendenze di un medesimo datore di lavoro (direttamente o mediante ricorso alla somministrazione di lavoro), passando dal precedente limite del 100% (ossia un rapporto di 1 a 1), a un rapporto di 3 a 2 nelle imprese con più di 10 dipendenti; per i datori di lavoro che occupano almeno 10 dipendenti, l'assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro, al termine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro (la percentuale è tuttavia stabilita al 30% nei primi 36 mesi successivi all'entrata in vigore della legge).

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Documenti e risorse web

Approfondimento: Apprendistato: quadro normativo

Con il D.Lgs. 167/2011 è stato approvato il Testo unico dell’apprendistato.

Il provvedimento (come modificato dalla L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro) definisce l’apprendistato come un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani, articolato in tre diverse tipologie contrattuali: apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale; apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere e apprendistato di alta formazione e ricerca.

Il provvedimento, inoltre, unifica all’interno di una sola disposizione (articolo 2) la regolamentazione normativa, economica e previdenziale del contratto, garantendo la semplificazione dell’istituto e l’uniformità di disciplina a livello nazionale.

In particolare, la disciplina del contratto è rimessa totalmente alle parti sociali, attraverso il rinvio alla disciplina attuativa recata da appositi accordi interconfederali o da contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, nel rispetto di una serie di principi:

Per gli apprendisti è prevista l’estensione delle norme sulla previdenza e assistenza sociale obbligatoria (comma 2). Si segnala, al riguardo, che l’articolo 2, comma 36, della L. 92/2012, con effetto sui periodi contributivi a decorrere dal 1° gennaio 2013, ha disposto un contributo addizionale per il finanziamento dell'ASPI pari all'1,31% della retribuzione imponibile, posto a carico dei datori di lavoro per gli apprendisti artigiani e non artigiani.

 

Infine, si conferma che il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere con contratto di apprendistato, direttamente o indirettamente per il tramite di agenzie di somministrazione, non possa superare rapporto di 3 a 2 (come specificato dall’articolo 1, comma 16, della L. 92/2012) in luogo del precedente rapporto di 1 a 1 (100%), delle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il datore di lavoro stesso. Tale rapporto si applica esclusivamente ai datori di lavoro che occupano fino a 10 dipendenti. Specifiche disposizioni inoltre sono previste per i datori alle cui dipendenze non ci siano lavoratori qualificati o specializzati, e per le imprese artigiane (comma 3).

Inoltre, è in ogni caso esclusa la possibilità di assumere in somministrazione apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato. Infine, una particolare clausola prevede che nel caso in cui il datore di lavoro non abbia alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o specializzati, o che comunque ne abbia in numero inferiore a 3, possa assumere apprendisti in numero non superiore a 3. Le richiamate disposizioni non si applicano alle imprese artigiane (per le quali trovano applicazione le disposizioni di cui all'articolo 4 della legge 443/1985).

 

E’ stata inoltre introdotta (nuovo comma 3-bis dell’articolo 2, aggiunto dall’articolo 1, comma 16, della L. 92/2012) la previsione che, per i datori di lavoro che occupino almeno 10 dipendenti, l'assunzione di nuovi apprendisti sia subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro, al termine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro (la percentuale è tuttavia stabilita al 30 % nei primi 36 mesi successivi all'entrata in vigore della legge). Dal computo della percentuale sono esclusi i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa. Qualora non sia rispettata la predetta percentuale, è consentita l’assunzione di un ulteriore apprendista rispetto a quelli già confermati, ovvero di un apprendista in caso di totale mancata conferma degli apprendisti pregressi. Gli apprendisti assunti in violazione dei suddetti limiti sono considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione del rapporto. Tali disposizioni non si applicano nei confronti dei datori di lavoro che occupano alle loro dipendenze un numero di lavoratori inferiore a 10 unità (comma 3-ter).

 

L’articolo 3 disciplina l’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale. Tale contratto è inteso alla stregua di un titolo di studio del secondo ciclo di istruzione e formazione (così come definito dal D.Lgs. 226/2005), la cui regolamentazione dei profili formativi è rimessa alle Regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano, previo accordo in Conferenza Stato-Regioni (comma 2). Possono essere assunti con tale contratto i soggetti con un età compresa tra 15 e 25 anni. La durata massima del contratto è di 3 anni, elevabili a 4 nel caso di diploma quadriennale regionale (comma 1).

La regolamentazione dei profili formativi di tale istituto è rimessa alle regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano, previo accordo in Conferenza Stato-Regioni secondo specifici criteri e principi direttivi (definizione della qualifica o diploma professionale; previsione di un monte ore di formazione, esterna od interna alla azienda, congruo al conseguimento della qualifica o del diploma professionale; rinvio ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale per la determinazione delle modalità di erogazione della formazione aziendale nel rispetto degli standard generali fissati dalle regioni)

Con l’Accordo Stato-Regioni del 15 marzo 2012, sono state attuate le richiamate disposizioni.

L’articolo 4 disciplina l’apprendistato professionalizzante (o contratto di mestiere). Tale istituto si applica si applica ai settori di attività pubblici e privati (comma 1). Possono essere assunti con tale contratto i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni (a partire dai 17 anni per i soggetti in possesso di una qualifica professionale). La durata e le modalità di erogazione della formazione per l'acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche sono stabiliti dagli accordi interconfederali e i contratti collettivi, in ragione dell'età dell'apprendista e del tipo di qualificazione contrattuale da conseguire, nonché in funzione dei profili professionali stabiliti nei sistemi di classificazione e inquadramento del personale. Agli stessi accordi e contratti è rimandata la durata, anche minima, del contratto che, per la sua componente formativa, non può comunque essere superiore a 3 anni (5 anni per le figure professionali dell'artigianato individuate dalla contrattazione collettiva di riferimento) (comma 2). E’ inoltre prevista l’integrazione della formazione di tipo professionalizzante e di mestiere, svolta sotto la responsabilità della azienda, da parte della offerta formativa pubblica (comma 3), nonché la possibilità, per le Regioni e i sindacati dei datori di lavoro, di definire le modalità per il riconoscimento della qualifica di maestro artigiano o di mestiere (comma 4). Infine, sono previste specifiche modalità di svolgimento dell’apprendistato per le lavorazioni in cicli stagionali (comma 5).

 

L’articolo 5 disciplina l’apprendistato di alta formazione e ricerca. Possono essere assunti (comma 1) in tutti i settori di attività, pubblici o privati, con tale contratto (compresi i dottorati di ricerca, per la specializzazione tecnica superiore di cui all'articolo 69 della L. 144/1999, con particolare riferimento ai diplomi relativi ai percorsi di specializzazione tecnologica degli istituti tecnici superiori di nonché il praticantato per l'accesso alle professioni ordinistiche o per esperienze professionali) i soggetti di età compresa tra i 18 ed i 29 anni (a partire dai 17 anni per i soggetti in possesso di una qualifica professionale). La regolamentazione e la durata dell’istituto sono rimesse alle Regioni e, per i soli profili che attengono alla formazione, in accordo anche con altre istituzioni di ricerca (comma 2). In assenza di regolamentazioni regionali l'attivazione dell'istituto è rimessa ad apposite convenzioni stipulate dai singoli datori di lavoro o dalle loro associazioni con le Università, gli istituti tecnici e professionali e le istituzioni formative o di ricerca, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (comma 3).

 

L’articolo 6 disciplina le procedure di definizione degli standard formativi e professionali. In particolare, tali standard sono definiti mediante un apposito decreto interministeriale da emanare entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento, nel rispetto delle competenze delle Regioni e delle Province autonome e di quanto stabilito nella richiamata intesa Stato-regioni del 17 febbraio 2010. Gli standard professionali sono definiti nei contratti collettivi nazionali di categoria o, in mancanza, attraverso intese specifiche da sottoscrivere a livello nazionale o interconfederale. Viene altresì specificato che ai fini della verifica dei percorsi formativi in apprendistato professionalizzante e in apprendistato di ricerca, i profili di riferimento debbano essere legati a quelli definiti nei contratti collettivi (commi 1 e 2). Al fine di armonizzare le diverse qualifiche professionali acquisite, inoltre, si prevede che il repertorio delle professioni (già istituito) presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sia predisposto sulla base dei sistemi di classificazione del personale previsti nei contratti collettivi di lavoro e (in coerenza con quanto previsto nella richiamata intesa del 17 febbraio 2010) da un apposito organismo tecnico, composto dal MIUR, dai sindacati comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni (comma 3). Infine, si stabilisce che la certificazione delle competenze acquisite dall’apprendista venga effettuata secondo specifiche modalità definite dalle Regioni e dalle Province autonome (comma 4).

Con l’ Accordo della Conferenza Stato-Regioni del 19 aprile 2012, recepito con il D.M. 26 settembre 2012, è stato definito un sistema nazionale di certificazione delle competenze acquisite in apprendistato.

 

L’articolo 7 detta una serie di disposizioni finali.

In primo luogo, è presente un apposito apparato ispettivo e sanzionatorio (commi 1 e 2), operante in caso di inadempimento nella erogazione della formazione di cui sia esclusivamente responsabile il datore di lavoro e che sia tale da impedire la realizzazione delle finalità di cui ai precedenti articoli 3, 4 e 5. In tali casi il datore di lavoro è tenuto a versare la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100%, con esclusione di qualsiasi altra sanzione per omessa contribuzione. Ulteriori disposizioni concernono gli inadempimenti nella erogazione della formazione prevista nel piano formativo individuale e le violazioni delle disposizioni contrattuali collettive attuative di determinati principi di cui all'articolo 2, comma 1.

Tranne specifiche eccezioni, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti (comma 3).

Si dispone inoltre la possibilità di assumere come apprendisti i lavoratori in mobilità (comma 4). Per tali soggetti trovano applicazione le disposizioni in materia di licenziamenti individuali (di cui alla L. 604/1966), nonché il regime contributivo agevolato di cui all’articolo 25, comma 9, della L. 223/1991 (aliquota contributiva agevolata del 10% per i primi 18 mesi) e l’incentivo di cui all’articolo 8, comma 4, della stessa L. 223/1991 (concessione di un contributo mensile, a favore del datore di lavoro che assume a tempo pieno e indeterminato i lavoratori iscritti nella lista di mobilità, pari al 50% dell’indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore). 

Assunzioni obbligatorie

In materia di assunzioni obbligatorie il Parlamento è intervenuto dapprima con misure a favore delle vittime del terrorismo e dei loro familiari e, successivamente, con una legge di interpretazione autentica volta a risolvere i problemi emersi con riferimento alle quote di riserva per i disabili. Infine, con la legge di riforma del mercato del lavoro si è ampliata la base di computo aziendale, inserendovi categorie di lavoratori in precedenza escluse.

Vittime del terrorismo, del dovere e loro familiari

La L. 25/2011 (di interpretazione autentica) si è resa necessaria al fine di chiarire il quadro normativo venuto a determinarsi a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 5, comma 7, del decreto-legge 102/2010 e degli effetti che esso ha prodotto, nella concreta prassi amministrativa, in materia di assunzioni obbligatorie.

Al fine di meglio chiarire la complessa vicenda normativa, si ricorda in primo luogo che  l’articolo 1, comma 2, della L. 407/1998, ha previsto il diritto al collocamento obbligatorio a favore delle vittime del terrorismo, del dovere e delle altre categorie ad esse equiparate, nonché dei familiari (coniuge e figli superstiti, ovvero fratelli conviventi e a carico qualora siano gli unici superstiti) dei soggetti deceduti. Tale obbligo è stato successivamente specificato dall’articolo 18, comma 2, della L. 68/1999, con cui è stata prevista (peraltro in attesa di una disciplina organica della materia), limitatamente alle aziende (pubbliche e private) con più di 50 dipendenti, una quota di riserva pari all’1% dei lavoratori impiegati (e ad un'unità per i datori di lavoro che occupano da 51 a 150 dipendenti). Su tale disposizione è intervenuto, quindi, l’articolo 5, comma 7, del D.L. 102/2010, che ha stabilito la non applicazione della quota di riserva per le assunzioni di tali categorie di lavoratori.

Per effetto di tale disposizione, interpretata in via amministrativa nel senso di consentire le assunzioni anche oltre la prevista quota di riserva dell’1%, tali categorie di lavoratori hanno cominciato ad essere assunte a valere anche sulla quota di riserva prevista a favore dei lavoratori disabili dall’articolo 3 della L. 68/1999 (7%), suscitando le rimostranze delle associazioni rappresentative di quest’ultimi.

A tale riguardo si ricorda che la L. 68/1999, ai fini dell’inserimento o il reinserimento nel mondo produttivo delle persone portatrici di handicap, ha disposto, da un lato, per le imprese di maggiori dimensioni, una riduzione (dal 15% al 7%) della quota di riserva da assegnare ai disabili in relazione al totale dei posti di lavoro; dall’altro, una estensione della platea delle imprese destinatarie degli obblighi di assunzione, comprendendo sia i datori di lavoro pubblici che privati, aventi un numero di dipendenti compreso tra 15 e 35. In particolare l’articolo 3 impone ai datori di lavoro con più di 14 dipendenti di avere alle proprie dipendenze una certa percentuale (o numero) di lavoratori disabili (pari al 7% se i dipendenti sono più di 50; pari a 2 lavoratori se i dipendenti sono compresi tra 36 e 50; pari a 1 lavoratore se i dipendenti sono compresi tra 15 e 35).

Sul quadro normativo venutosi a determinare per effetto di quanto stabilito dall’articolo 5, comma 7, del D.L. 102/2010, la L. 25/2011 è intervenuta a precisare che tale disposizione deve interpretarsi nel senso che il superamento della quota di riserva dell’1% (prevista, come detto, a favore delle vittime del terrorismo del dovere e delle altre categorie ad esse equiparate, nonché dei familiari dei soggetti deceduti), deve in ogni caso avvenire, per le amministrazioni pubbliche, nel rispetto dei limiti delle assunzioni consentite dalla normativa vigente per l'anno di riferimento e che resta comunque ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 3 della L. 68/1999, in materia di assunzioni obbligatorie e quote di riserva, trattandosi di norme ad esclusivo beneficio dei lavoratori disabili.

Quote di riserva e base di computo

L’articolo 4, comma 27, della L. 92/2012 (riforma del mercato del lavoro) ha modificato, con l'obiettivo di favorire il più ampio inserimento e l’integrazione nel mondo del lavoro delle persone con disabilità, i criteri di computo della quota di riserva (di cui all’articolo 4, comma 1 della L. 68/1999). prevedendo che, di norma, vengano inseriti nella base di computo aziendale tutti i lavoratori con contratto di lavoro subordinato.  Dalla base di computo restano esclusi i soci di cooperative, i dirigenti, i lavoratori assunti per attività da svolgersi all’estero, i lavoratori socialmente utili, i lavoratori a domicilio e quelli aderenti al programma di emersione (di cui all’articolo 1, comma 4-bis della L. 383/2001) i lavoratori con contratto di inserimento e, infine, quelli occupati con contratto di somministrazione presso l’utilizzatore.

La legge prevede, poi, che la disciplina sui procedimenti relativi agli esoneri parziali (dagli obblighi di assunzione), sui criteri e le modalità per la loro concessione e la definizione di norme volte al potenziamento delle attività di controllo, venga ridefinita con un regolamento ministeriale finalizzato ad evitare abusi nel ricorso all’istituto dell’esonero e a garantire il rispetto delle quote di riserva (il decreto, che doveva essere emanato entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge, non risulta fin qui adottato).

Da ultimo, sui crieri di calcolo della base di computo è intervenuto, in senso restrittivo, l'articolo 46-bis del D.L. 83/2012, che ha escluso i lavoratori con contratto a tempo determinato di durata fino a 6 mesi.

 

Approfondimenti

Documenti e risorse web

Approfondimento: Collocamento dei disabili: quadro normativo

La L. 12 marzo 1999, n. 68, ha introdotto una nuova disciplina per il diritto al lavoro dei disabili.

I lavoratori disabili, considerata la comprovata difficoltà di rendersi “appetibili” sul mercato del lavoro, usufruiscono di uno speciale regime di collocamento obbligatorio, in base al quale ai datori di lavoro viene imposto di assumere un certo numero di lavoratori disabili, i quali devono tuttavia possedere una (anche solo minima) capacità lavorativa residua.

Le principali categorie di lavoratori disabili coinvolti dal collocamento obbligatorio sono:

Le condizioni di disabilità vengono accertate attraverso apposita visita medica effettuata da commissioni mediche istituite presso le ASL.

I datori di lavoro, pubblici e privati, hanno l’obbligo di impiegare un certo numero o una certa quota di lavoratori disabili (quote di riserva):

Per quanto concerne, in particolare, l’avviamento al lavoro, l’articolo 7 prevede che i datori di lavoro inoltrino la richiesta di avviamento ai centri per l’impiego, oppure procedano alla stipula di una convenzione avente ad oggetto la determinazione di un programma mirante al conseguimento degli obiettivi occupazionali fissati dalla legge.

L’articolo 8 prescrive che i lavoratori disabili disoccupati devono iscriversi agli speciali elenchi presso i centri per l’impiego, i quali provvedono a predisporre una graduatoria sulla base di criteri che tengano conto dell’anzianità, dei carichi di famiglia, delle condizioni economiche.

Ai sensi dell’articolo 9 i datori di lavoro devono presentare la richiesta di assunzione entro 60 giorni dal momento in cui sono obbligati all'assunzione dei lavoratori disabili. La richiesta si intende presentata anche attraverso l'invio da parte dei datori di lavoro agli uffici competenti dei prospetti informativi. I centri per l’impiego determinano procedure e modalità di avviamento mediante chiamata con avviso pubblico e con graduatoria limitata a coloro che aderiscono alla specifica occasione di lavoro; tale chiamata può essere definita anche per singoli ambiti territoriali e per specifici settori. Nella norma si precisa che in caso di impossibilità di avviare lavoratori con la qualifica richiesta, gli uffici competenti avviano lavoratori di qualifiche simili, secondo l'ordine di graduatoria e previo addestramento o tirocinio (da svolgere anche attraverso le convenzioni di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formative). I disabili psichici sono avviati su richiesta nominativa mediante le convenzioni con il datore di lavoro, il quale beneficia di un contributo per l’assunzione.

I datori di lavoro sono inoltre tenuti ad inviare in via telematica agli uffici competenti un prospetto dal quale risultino il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, il numero ed i nominativi dei lavoratori computabili nella quota di riserva, nonché i posti di lavoro e le mansioni disponibili per i lavoratori disabili. Ove l'inserimento richieda misure particolari, il datore di lavoro può fare richiesta di collocamento mirato agli uffici competenti, sempre che non sia stata stipulata un’apposita convenzione d'integrazione lavorativa.

Nel caso di rifiuto all'assunzione del lavoratore invalido da parte del datore di lavoro, la direzione provinciale del lavoro redige un verbale che trasmette agli uffici competenti ed all'autorità giudiziaria.

Ai sensi dell’articolo 10, al lavoratore disabile si applica il trattamento economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi; il datore di lavoro non può chiedere al disabile stesso una prestazione non compatibile con le sue minorazioni (articolo 10). Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell'organizzazione del lavoro, il disabile – come anche il datore di lavoro nelle stesse ipotesi - può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute.

Uno specifico filone normativo riguarda le vittime del terrorismo, del dovere e delle altre categorie ad esse equiparate, nonché i loro familiari.

L’articolo 1, comma 2, della L. 407/1998, ha disposto il diritto al collocamento obbligatorio a favore delle vittime del terrorismo, del dovere e delle altre categorie ad esse equiparate, nonché dei familiari (coniuge e figli superstiti, ovvero fratelli conviventi e a carico qualora siano gli unici superstiti) dei soggetti deceduti, con assunzione per chiamata diretta per i profili professionali del personale contrattualizzato del comparto Ministeri, con precedenza rispetto ad ogni altra categoria e preferenza a parità di titoli.

Nelle disposizioni transitorie di cui all’articolo 18, comma 2, della L. 68/1999 viene attribuita, in attesa di una disciplina organica del diritto al lavoro degli orfani e dei coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, ovvero in conseguenza dell'aggravarsi dell'invalidità riportata per tali cause, nonché dei coniugi e dei figli di soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di guerra, di servizio e di lavoro e dei profughi italiani rimpatriati, in favore dei soggetti richiamati, una quota di riserva, sul numero di dipendenti dei datori di lavoro pubblici e privati che occupano più di 50 dipendenti, pari all’1% e determinata secondo specifica disciplina. La richiamata quota è pari ad un'unità per i datori di lavoro, pubblici e privati, che occupano da 51 a 150 dipendenti. Lo stesso articolo, infine, ha disposto, fino al 31 dicembre 2004, che gli invalidi del lavoro ed i soggetti appartenenti alle forze di polizia, forze militari e della protezione civile invalidi per servizio, che alla medesima data risultino iscritti nelle liste delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private di cui alla L. 482/1962, siano avviati al lavoro dagli uffici competenti senza necessità di inserimento nella graduatoria dei disabili disoccupati.

Inoltre, in materia è intervenuto l’articolo 5, comma 7, del D.L. 6 luglio 2010, n. 102, il quale (aggiungendo un ulteriore periodo all’articolo 1, comma 2, della L. 407/1998) ha stabilito la non applicazione della quota di riserva di cui all’articolo 18, comma 2, dellaL. 68/1999 per le assunzioni di cui all’articolo 1, comma 2, della richiamata L. 407/1998.

Da ultimo, la L. 25/2011 ha fornito un’interpretazione autentica del quarto periodo del richiamato articolo 1, comma 2, della L. 407/1998, stabilendo che resta comunque ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 3 della L. 68/1999.

Per un quadro sullo stato di attuazione della L. 68/1999 si rinvia alla relazione che il Ministro del lavoro è tenuto a presentare al Parlamento ogni 2 anni, entro il 30 giugno, ai sensi dell’articolo 21 delle legge medesima (Doc. CLXXVIII, n.3, relativa agli anni 2010 e 2011, trasmesso alle Camere il 1° agosto 2012).

Il "collegato lavoro" (legge 183/2010)

La L. 183/2010, provvedimento collegato alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2009-2013, è intervenuta in vari ambiti del settore lavoristico, conferendo al Governo alcune ampie deleghe (in materia di ammortizzatori sociali, lavori usuranti, apprendistato. occupazione femminile, enti vigilati), in larga parte non esercitate. II 31 marzo 2010 il Presidente della Repubblica ha rinviato il provvedimento alle Camere, con messaggio motivato, ai sensi dell'articolo 74 Cost.. A seguito del rinvio presidenziale il provvedimento è stato nuovamente approvato, con modifiche, dal Parlamento.

I contenuti del provvedimento

La L. 183/2010 è un importante provvedimento collegato alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2009-2013, che nel corso del lungo e articolato iter parlamentare si è andato progressivamente arricchendo di nuovi e più ampi contenuti. Il provvedimento reca alcune ampie deleghe al Governo e varie disposizioni che intervengono in diversi settori della materia lavoristica.
Le nuove deleghe legislative riguadano:

Il provvedimento ha disposto, poi, la proroga dei termini per l'esercizio delle deleghe in materia di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato e di occupazione femminile, già conferite ai sensi dell’articolo 1, commi 28, 30 e 81, della L. 247/2007 (di attuazione del Protocollo sul welfare). La sola delega sull'apprendistato è stata attuata con il D.Lgs. 167/2011.
Altre misure previste dal provvedimento riguardano, in particolare, il contrasto del lavoro sommerso, la sicurezza sul lavoro, la conciliazione e l'arbitrato nelle controversie di lavoro, la certificazione dei contratti di lavoro, la liberalizzazione delle Agenzie del lavoro, il lavoro a termine, l'apprendistato, il lavoro a progetto, la somministrazione di lavoro, i termini di impugnazione dei licenziamenti, la mobilità del personale pubblico, il personale delle università, della sanità, della difesa e delle Forze dell'ordine.

Il rinvio presidenziale alle Camere

II 31 marzo 2010 il Presidente della Repubblica ha rinviato il provvedimento alle Camere, con messaggio motivato, ai sensi dell'articolo 74 Cost., chiedendo una nuova deliberazione.
Il messaggio presidenziale si sofferma, in particolare, sull'articolo 31, che modifica le disposizioni del Codice di procedura civile in materia di conciliazione e arbitrato nelle controversie individuali di lavoro, e sull'articolo 20, relativo alle responsabilità per le infezioni da amianto subite dal personale che presta la sua opera sul naviglio di Stato.
Per quanto attiene al primo profilo, pur ritenendo apprezzabile un indirizzo normativo teso all'introduzione di strumenti arbitrali volti a prevenire e accelerare la risoluzione delle controversie, il messaggio evidenzia la necessità di definire, in via legislativa, meccanismi meglio idonei ad accertare l'effettiva volontà compromissoria delle parti e a tutelare il contraente debole (ossia il lavoratore), soprattutto nella fase di instaurazione del rapporto di lavoro. Inoltre, la possibilità di pervenire a una decisione arbitrale "secondo equità" non può in ogni caso compromettere diritti costituzionalmente garantiti, o comunque non negoziabili, di cui è titolare il lavoratore; nel settore del pubblico impiego tale possibilità va altresì coniugata con il rispetto dei principi costituzionali di buon andamento, trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa.
Per quanto attiene al secondo profilo, il messaggio evidenzia la necessità di una riformulazione della norma volta ad assicurare, escludendo profili di rilevanza penale (in linea con gli adattamenti del resto previsti al riguardo dal testo unico in materia di sicurezza sul lavoro), l'effettiva sussistenza di un autonomo titolo di responsabilità sul quale fondare il diritto al risarcimento per i danni arrecati alla salute dei lavoratori impiegati sul naviglio di Stato.
A seguito del rinvio presidenziale il provvedimento è stato oggetto di un nuovo esame da parte della Camera dei deputati (AC 1441 quater-D), che lo ha nuovamente approvato, con modifiche, il 29 aprile 2010. Le modifiche hanno riguardato, in particolare, l'articolo 20, che è stato interamente riformulato al fine di meglio specificare l'ambito di esclusione da responsabilità e dare più sicuro fondamento giuridico alle azioni risarcitorie, nonchè l'articolo 31, modificato in più parti al fine di prevedere che:

Nel corso dell'esame al Senato il testo è stato ulteriormente modificato. In particolare, è stato stabilito che l’accertamento dell’effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie di lavoro deve essere verificata all’atto della sottoscrizione della clausola compromissoria e che questa può avere ad oggetto ad oggetto le controversie che dovessero successivamente insorgere dal rapporto di lavoro (non può cioè avere valore retroattivo).
Il 19 ottobre 2010 la Camera ha approvato definitivamente il provvedimento, senza ulteriori modifiche.
Per un esame puntuale del contenuto della legge 183/2010 si rinvia all'apposito dossier.

Dossier pubblicati

La riforma del mercato del lavoro

La legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro interviene sulle forme contrattuali flessibili, modifica la disciplina dei licenziamenti, rinnova il sistema di ammortizzatori sociali, rafforza le politiche attive del lavoro e detta norme per promuovere l'occupazione femminile e dei lavoratori anziani.

Le misure introdotte dalla L. 92/2012, di riforma del mercato del lavoro, sono sostanzilmente riconducibili a quattro aree di intervento.
Nell’ambito di una razionalizzazione delle tipologie contrattuali esistenti, la legge configura il contratto a tempo indeterminato quale contratto prevalente, disincentivando il ricorso ai contratti a tempo determinato. Si delinea l’ apprendistato quale contratto tipico per l’accesso al mercato del lavoro (nonché per l’instaurazione di rapporti a tempo indeterminato), ampliandone le possibilità di utilizzo (si innalza il rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a 3/2) e valorizzandone il ruolo formativo. Si procede verso una redistribuzione delle tutele dell’impiego, da un lato contrastando l’uso improprio degli elementi di flessibilità relativi a talune tipologie contrattuali; dall’altro adeguando la disciplina dei licenziamenti, collettivi ed individuali). Con riferimento ai licenziamenti individuali, in particolare, si interviene operando importanti modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (che reca la cd. tutela reale, consistente nella reintegrazione nel posto di lavoro). Più specificamente, lasciando inalterata la disciplina dei licenziamenti discriminatori (ove si applica sempre la reintegrazione), si modifica il regime dei licenziamenti disciplinari (mancanza di giustificato motivo soggettivo) e dei licenziamenti economici (mancanza di giustificato motivo oggettivo): queste ultime due fattispecie presentano un regime sanzionatorio differenziato a seconda della gravità dei casi in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento, il quale si concretizza nella reintegrazione (casi più gravi) o nel pagamento di un’indennità risarcitoria (casi meno gravi). Infine, si introduce uno specifico rito per le controversie giudiziali aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti.
La legge opera un’ampia revisione degli strumenti di tutela del reddito, in primo luogo attraverso la creazione di un unico ammortizzatore sociale (AspI – Assicurazione sociale per l’impiego) in cui confluiscono l’indennità di mobilità e l’indennità di disoccupazione (ad eccezione di quella relativa agli operai agricoli). Il nuovo ammortizzatore amplia sia il campo soggettivo dei beneficiari, sia i trattamenti: in particolare, oltre all’estensione a categorie prima escluse (principalmente apprendisti), fornisce una copertura assicurativa per i soggetti che entrano nella prima volta nel mercato del lavoro (principalmente giovani) e per i soggetti che registrano brevi esperienze di lavoro. Si prevede, quindi, l’introduzione di una cornice giuridica per l’istituzione di fondi di solidarietà settoriali. Inoltre, viene confermata l’attuale disciplina per la Cassa integrazione ordinaria, mentre vengono apportate modifiche alla disciplina della Cassa integrazione straordinaria. Infine, si prevede la creazione di un nuovo strumento di sostegno del reddito per i lavoratori ultracinquantenni
La legge introduce strumenti volti al rafforzamento delle politiche attive del lavoro e del ruolo dei servizi per l’impiego, per i quali vengono individuati livelli essenziali di servizio omogenei su tutto il territorio nazionale.
Infine, la legge prevede incentivi per accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro (con l’introduzione di norme di contrasto alle cd. dimissioni “in bianco” e misure per il sostegno della genitorialità) e per il sostegno dei lavoratori anziani.

Poco dopo la sua entrata in vigore, la riforma è stata in alcune parti (in particolare, somministrazione di lavoro, lavoro a termine, lavoro accessorio, "false" partite IVA, ASpI, fondi di solidarietà) corretta dal D.L 83/2012, dal D.L. 179/2012 e dal D.L. 228/2012.

Per un esame puntuale del contenuto della L. 92/2012, nel testo attualmente vigente, si rinvia all'apposito dossier.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Documenti e risorse web

Approfondimento: Indagine conoscitiva sul mercato del lavoro

Obiettivo dell’indagine è stato l’analisi dei fattori che concorrono all’incremento delle condizioni di occupabilità dei lavoratori ed a promuoverne l’inserimento lavorativo, anche attraverso forme di gradualità contrattuale. Muovendo dalla consapevolezza che un approccio moderno alle politiche del lavoro richiede di muoversi in ambiti più ampi rispetto a quelli tradizionali, che investono appieno anche i settori della formazione professionale, dell’educazione e dell’istruzione, la Commissione si è concentrata su tre aspetti fondamentali: la verifica dell’ampiezza dei fenomeni di non rispondenza della forza lavoro alle professionalità richieste dal mercato (job mismatch) e di obsolescenza professionale della forza lavoro (skill gap), anche analizzando la capacità del sistema formativo ed educativo di rispondere alle esigenze del mondo produttivo; la valutazione degli assetti della formazione professionale, settore in rapida trasformazione che sempre più assume un ruolo centrale nelle politiche attive del lavoro; l’analisi delle problematiche legate all’inserimento lavorativo dei giovani, con particolare attenzione alle forme contrattuali flessibili introdotte nel nostro ordinamento negli ultimi anni.

Nell’ambito dell’indagine, la XI Commissione ha svolto un articolato ciclo di audizioni: sono intervenuti rappresentanti dell’ISTAT, del CNEL, dell’UPI (province), degli enti istituzionalmente preposti alla politica della formazione (Formez e ISFOL), dei principali centri di studio e ricerca (CENSIS, EURISPES, SVIMEZ, oltre che il Consorzio interuniversitario Almalaurea), delle parti datoriali (ABI, Rete Imprese Italia, Confindustria e Confapi), delle organizzazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL e UGL), di associazioni rappresentative degli intermediari del lavoro (ASSOLAVORO) e del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, di associazioni e comitati esponenziali del mondo giovanile e del precariato (Forum Nazionale Giovani, Comitato 9 aprile e Repubblica degli stagisti). Il programma si è, quindi, esaurito con lo svolgimento delle audizioni del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, e del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Mariastella Gelmini.

Le audizioni sono state caratterizzate da un confronto costruttivo con i soggetti coinvolti, che ha consentito di acquisire i principali dati sulla materia, ponendo in luce anche un positivo contributo propositivo, in termini di idee e di interventi operativi per il futuro. Al contempo, è stata molto importante anche l’acquisizione – da parte dei soggetti che, per vari motivi, non sono direttamente intervenuti nell’ambito delle audizioni programmate – della documentazione scritta prodotta sui temi oggetto dell’indagine.

Nella seduta del 29 novembre 2011 la Commissione ha approvato il documento conclusivo dell'indagine, ove si da ampiamente conto delle posizioni emerse nel corso delle audizioni, senza peraltro esprimere valutazioni di indirizzo politico sui temi trattati (considerazioni conclusive recanti varie proposte di interventi normativi - non sottoposte al voto della Commissione - sono state proposte dalla presidenza e pubblicate unitamente al documento conclusivo).

Approfondimento: Lavoro a progetto (co.co.pro.)

Gli articoli 61-69 del D.Lgs. 276/2003 hanno introdotto una specifica disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative, il lavoro a progetto, applicabile al solo settore lavorativo privato, finalizzata a superare gli abusi che hanno condotto all’uso talvolta improprio di tale strumento contrattuale, per eludere la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Si tratta, secondo anche le intenzioni del “Libro Bianco”, di una reazione a prassi affermatesi negli anni precedenti, allorquando il ricorso alla collaborazione coordinata e continuativa spesso ha nascosto rapporti di lavoro subordinato, al fine di eludere i conseguenti costi e le garanzie ad esso connesse.

L’intenzione del legislatore non è stata solamente quella di proteggere il lavoratore, ma anche quella di limitare la distorsione della concorrenza tra imprese che sono determinate dall’utilizzo improprio delle collaborazioni e di garantire un incremento del gettito contributivo per l’I.N.P.S., a seguito dell’emersione del lavoro falsamente atipico.

Con la nuova fattispecie del lavoro a progetto è stato previsto l’obbligo (articolo 61 del D.Lgs. 276/2003) di ricondurre i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.

L’articolo 1, commi 23-25, della L. 92/2012 (di riforma del mercato del lavoro) ha apportato importanti modifiche alla disciplina del lavoro a progetto.

In particolare, il nuovo testo dell’articolo 61 (ferma restando la disciplina degli agenti e rappresentanti di commercio, nonché le attività di vendita diretta di beni e servizi realizzate attraverso call center "outbound", per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all'articolo 409, n. 3, c.p.c.) consente che il contratto di lavoro a progetto sia riconducibile unicamente a progetti specifici (e non più anche a “programmi di lavoro o a fasi di questi ultimi”, come previsto dalla normativa previgente), escludendo che il progetto possa consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente o nello svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi (questi ultimi possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.

Da tale previsione sono escluse le prestazioni meramente occasionali , cioè i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare ovvero, nell’ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, non superiore a 240 ore, con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5.000 euro (articolo 61, comma 2), i quali sono regolamentati dall’apposita disciplina contenuta nello stesso provvedimento. Pertanto vengono fissati due criteri alternativi, uno correlato alla durata della prestazione nei confronti dello stesso committente, l’altro correlato all’ammontare del corrispettivo, che servono a distinguere le prestazioni meramente occasionali dalle collaborazioni coordinate e continuative vere e proprie, che vengono disciplinate dalle disposizioni sul lavoro a progetto.

Sono altresì escluse dal campo di applicazione della disciplina del lavoro a progetto anche le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi. 

Tra gli elementi essenziali da indicare in forma scritta debba esservi anche il risultato finale che si intende conseguire attraverso il contratto di lavoro a progetto. 

Il corrispettivo, secondo quanto disposto dall’articolo 63 del D.Lgs. 276/2003 (come modificato dalla L. 92/2012) non può essere inferiore ai minimi stabiliti per ciascun settore di attività (eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati), dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria (ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati). In assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale dell'attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto (la formulazione previgente si limitava a richiedere che il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto dovesse essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto).

Ai sensi del successivo articolo 67 (anch’esso modificato dalla L. 92/2012), il lavoro a progetto si risolve al momento della realizzazione del progetto che ne costituisce l'oggetto. Le parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa, ed il committente può altresì recedere prima della scadenza del termine qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto. Il collaboratore può recedere prima della scadenza del termine, dandone preavviso, nel caso in cui tale facoltà sia prevista nel contratto individuale di lavoro.

 

L’articolo 69 del D.Lgs. 276/2003 disciplina la trasformazione del contratto a progetto, prevedendo che nel caso in cui i rapporti di lavoro siano instaurati senza individuare uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, siano considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla data di costituzione del rapporto (comma 1). Al riguardo, l’articolo 1, comma 24, della L. 92/2012, dettando una norma di interpretazione autentica (con effetto, quindi, retroattivo) dell’articolo 69, comma 1, ha chiarito che tale disposizione si interpreta nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

In seguito alle modificazione recate dalla L. 92/2012, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, vengono considerati rapporti di lavoro subordinato, sin dalla data di costituzione del rapporto, nel caso in cui l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe rispetto a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente (articolo 69, comma 2), fatte salve la prova contraria a carico del committente, nonché le prestazioni di elevata professionalità (le quali possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).

Qualora nel corso di un rapporto venga invece accertato dal giudice che il rapporto instaurato si configuri come un contratto di lavoro subordinato per difetto del requisito dell'autonomia, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti. 

Ulteriori disposizioni sull’istituto riguardano la possibilità, per il collaboratore a progetto, di svolgere l’attività nei riguardi di più committenti, anche se lo stesso non può svolgere attività concorrenziale nei confronti dei committenti stessi né può venire meno all’obbligo di riservatezza (articolo 64).

Lo stesso D.Lgs. 276/2003 ha individuato (articoli 65 e 66) alcuni diritti del collaboratore a progetto. In particolare (articolo 65), il collaboratore ha il diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione eventualmente fatta nello svolgimento del rapporto. In ogni caso, i diritti e gli obblighi delle parti sono regolati da leggi speciali, comprese le disposizioni di cui all’articolo 12-bis della L. 633/1941. Il successivo articolo 66 disciplina ulteriori diritti del collaboratore a progetto. In particolare, si stabilisce che la gravidanza, malattia ed infortunio non comportino estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso, senza erogazione del corrispettivo. In caso di gravidanza, inoltre, la durata del rapporto è prorogata di 180 giorni, salvo previsione contrattuale più favorevole. Inoltre, in caso di infortunio o malattia, salva diversa previsione contrattuale, la sospensione del rapporto non comporta una proroga della durata del contratto, che si estingue alla scadenza. Il contratto si intende comunque risolto se la sospensione si protrae per un periodo superiore ad un sesto della durata stabilita nel contratto, se determinata, ovvero superiore a 30 giorni per i contratti a durata determinabile. Infine, ai rapporti che rientrano nel campo di applicazione del capo in esame si applicano specifiche norme, tra le quali si ricordano quelle sul processo del lavoro , quelle sulla tutela della maternità per le lavoratrici iscritte alla gestione separata INPS, le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro, (di cui al D.Lgs. 81/2008), nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e le norme di cui all’articolo 51, comma 1, della L. 488/1999 (finanziaria 2002) .

E’ stato previsto, poi, che nella riconduzione a un progetto, programma di lavoro o fase di esso delle collaborazioni coordinate e continuative, i diritti derivanti da un rapporto di lavoro già in essere possono essere oggetto di rinunzie o transazioni (articolo 68, così come modificato dal richiamato D.Lgs. 251/2004) tra le parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro anche in deroga alle disposizioni sulle rinunce e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti le controversie individuali di lavoro, di cui all’articolo 2113 del codice civile. 

Merita infine ricordare che l’articolo 2, commi 51-56, della L. 92/2012, disciplina, a decorrere dal 2013, una specifica indennità una tantum per i collaboratori coordinati e continuativi in regime di monocomittenza, iscritti in via esclusiva alla gestione pensionistica INPS separata e non titolari anche di reddito di lavoro autonomo, in quanto esclusi dall’ambito di applicazione della ASPI .

La contrattazione collettiva

Il rapporto tra i diversi livelli contrattuali e, in particolare, il ruolo della contrattazione decentrata quale leva per accrescere la produttività, sono stati al centro del confronto tra le parti sociali, che si è a più riprese intrecciato con l'attività legislativa. Sul piano normativo, la promozione dei contratti aziendali è stata perseguita attraverso specifici sgravi contributivi e fiscali, mentre con l'introduzione del principio secondo il quale i contratti aziendali possono prevedere (a determinate condizioni) deroghe alle norme di legge e dei contratti collettivi nazionali, sono state poste le basi per una complessiva ridefinizione dei rapporti tra legge e contratti e delle fonti di regolazione del lavoro.

L'Accordo quadro del 22 gennaio 2009

A fronte dei pesanti effetti della crisi internazionale, resisi evidenti sin dai primi mesi della legislatura, tra le forze sociali si sviluppa un ampio confronto sulle misure da mettere in campo per rilanciare la produttività del sistema economico, che sfocia nell’adozione dell’ Accordo Quadro del 22 gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali. L’Accordo (non sottoscritto dalla CGIL), nel confermare l’assetto della contrattazione collettiva su due livelli (con prevalenza del primo, chiamato a regolare il sistema delle relazioni industriali a livello territoriale e aziendale), richiama con forza la necessità di incentivare misure volte ad incrementare la contrattazione di secondo livello, in particolare incrementando (e rendendo strutturali, certe e accessibili) le risorse per finanziare riduzioni contributive e fiscali collegate al raggiungimento di obiettivi di produttività a livello aziendale.

L'indagine conoscitiva della Commissione lavoro

Sul versante parlamentare, da giugno 2008 a febbraio 2009 la XI Commissione (Lavoro) della Camera ha svolto un'ampia indagine conoscitiva sui temi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva, al fine di operare una ricognizione delle situazione determinatasi a seguito dell’Accordo quadro e di definire possibili linee di sviluppo per la successiva attività legislativa.

Gli sgravi contributivi e fiscali per i contratti aziendali

Sul versante normativo, lo sgravio contributivo dei contratti di produttività (già previsto, in via sperimentale per il 2008, dall’articolo 1, commi 67 e 68 della L. 247/2007) viene riconosciuto per il 2011 dall’articolo 1, comma 47 della L. 220/2010. Lo sgravio contributivo (non prorogato per gli anni successivi) veniva concesso entro il limite massimo del 5% della retribuzione contrattuale percepita e nel limite di 25 punti percentuali.

Un più importante filone normativo riguarda la tassazione agevolata dei contratti di produttivita', introdotta dall’articolo 2, comma 1, lettera c), del D.L. 93/2008 (originariamente in via transitoria e con carattere sperimentale). Il beneficio fiscale (limitato al settore privato) consiste nell’applicazione, sulle remunerazioni oggetto di agevolazione, di una imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali fissata in misura pari al 10%. A tale regime sono soggette, tra l’altro, le remunerazioni derivanti da incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa, nonché ad altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa. In sostanza, si tratta della quota di retribuzione caratteristica del secondo livello di contrattazione collettiva legata alla produttività aziendale.
La tassazione agevolata dei contratti di produttività è stata prorogata al 2011 dall’articolo 1, comma 47, della L. 220/2010 (in favore dei lavoratori dipendenti con reddito annuo per lavoro dipendente fino a 40.000 euro ed entro il limite complessivo di 6.000 euro).

Per il 2012 è intervenuto l’articolo 33, comma 12 della L. 183/2011, che ha rimesso a un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri la determinazione dell’importo massimo assoggettabile all’imposta sostitutiva e del limite massimo di reddito annuo entro il quale usufruire dell’agevolazione.  In attuazione di tale disposizione il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 marzo 2012 ha previsto che lo sgravio trovi applicazione entro il limite complessivo di 2.500 euro lordi e per redditi non superiori a 30.000 euro.

Per il 2013 e 2014, infine, la proroga dello sgravio è stata prevista dall’articolo 1, commi 481-482, della L. 228/2012, volto al recepimento dell’Accordo sulla produttività del 21 novembre 2012 (non sottoscritto dalla CGIL). Le modalità di attuazione sono sttae demandate ad un apposito DPCM (non ancora pubblicato sula G.U.), che prevederebbe che lo sgravio trovi applicazione entro il limite complessivo di 2.500 euro lordi e per redditi non superiori a 40.000 euro. Diversamente dal passato, il provvedimento individuerebbe specifici parametri volti ad assicurare che le voci retributive oggetto di sgravio siano effettivamente legate ad indicatori di produttività, efficienza ed innovazione; inoltre, si definirebbe un sistema di monitoraggio, che entro il 30 novembre 2013 dovrà portare ad una formale verifica con le parti sociali, anche al fine di orientare le future decisioni in materia.

L'Accordo interconfederale 28 giugno 2011

Il confronto sui temi della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva ha trovato un importante punto di equilibrio con l’ Accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Con l’Accordo (sottoscritto anche dalla CGIL), oltre a ribadire il sostegno alla contrattazione collettiva aziendale (prevedendo, in particolare, che i contratti collettivi aziendali, per le parti economiche e normative, siano efficaci per tutto il personale e vincolino tutte le associazioni sindacali firmatarie dell’accordo operanti all’interno dell’azienda, se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali vigenti), le parti sociali sono in particolare addivenute ad una posizione unitaria sui rapporti tra diversi livelli di contrattazione. L’Accordo, infatti, prevede che i contratti collettivi aziendali possano attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali possono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro.

Un nuovo modello di relazioni sindacali: l'articolo 8 del D.L. 138/2011

In tale contesto il legislatore interviene con una disposizione fortemente innovativa, l’articolo 8 del D.L. 138/2011, che configura un nuovo modello di relazioni contrattuali, andando ben oltre l’assetto tra livelli contrattuali definito dall’Accordo del 28 giugno 2011. Tale norma introduce il principio che i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati (a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario di rappresentanza sindacale) finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività. Per essere efficaci tali contratti devono essere sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda in base alla legge e agli accordi confederali vigenti, compreso quello del 28 giugno 2011. In specifiche materie, le intese possano prevedere deroghe alle norme di fonte pubblica o contrattuale, fermo restando il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Si tratta delle materie concernenti: gli impianti audiovisivi e l’introduzione di nuove tecnologie; le mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; i contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; la disciplina dell’orario di lavoro; le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese la trasformazione e conversione dei contratti di lavoro ed il recesso dal rapporto di lavoro, tranne alcune specifiche eccezioni (es. licenziamento discriminatorio e licenziamento nel periodo della maternità). Infine, si prevede che tutti i contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto si riferisce, a condizione che il contratto sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.

La novità legislativa (ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 221 del 2012) viene accolta con freddezza dalle parti sociali, le quali, nel ribadire che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti, si impegnano (con una postilla del 21 settembre 2012) “ad attenersi all’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, applicandone compiutamente le norme e facendo sì che le rispettive strutture a tutti i livelli si attengano a quanto concordato”. L’unitaria presa di posizione delle parti sociali (le quali in sostanza dichiarano che non intendono avvalersi delle nuove opportunità offerte dal legislatore attraverso l’articolo 8 del D.L. 138/2011) induce Fiat ad uscire da Confindustria, mentre la concreta attuazione della norma a livello aziendale e territoriale rimane limitata.

La novità legislativa (ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 221 del 2012) viene accolta con freddezza dalle parti sociali, le quali, nel ribadire che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti, si impegnano (con una postilla del 21 settembre 2012) “ad attenersi all’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, applicandone compiutamente le norme e facendo sì che le rispettive strutture a tutti i livelli si attengano a quanto concordato”. L’unitaria presa di posizione delle parti sociali (le quali in sostanza dichiarano che non intendono avvalersi delle nuove opportunità offerte dal legislatore attraverso l’articolo 8 del D.L. 138/2011) induce Fiat ad uscire da Confindustria, mentre la concreta attuazione della norma a livello aziendale e territoriale rimane limitata.

Approfondimenti

Documenti e risorse web

Approfondimento: Indagine conoscitiva su relazioni industriali e contrattazione collettiva

L’indagine conoscitiva svolta dalla XI Commissione della Camera ha avuto lo scopo di comprendere l'evoluzione del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva in Italia, al fine di verificare la rispondenza dell’assetto consolidatosi all’indomani dell’approvazione del Protocollo del 23 luglio 1993 ai mutamenti intervenuti nel sistema economico e alle nuove esigenze espresse dalle aziende e dai lavoratori.

L’indagine si è articolata in una serie di audizioni svolte nel periodo dal 25 giugno 2008 al 25 febbraio 2009, suddivise in due cicli. Al termine del primo ciclo di audizioni, una proposta di documento conclusivo è stata formalizzata dalla presidenza nella seduta dell'8 gennaio 2009. Di lì a pochi giorni (22 gennaio 2009), prima che la Commissione procedesse all’approvazione del documento conclusivo dell’indagine, è stato sottoscritto l'Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali. Considerato il rilievo dell'Accordo e il nuovo scenario complessivo che esso configurava (anche alla luce del fatto che l’Accordo non è stato sottoscritto dalla CGIL), la Commissione ha ritenuto di sospendere l'esame del documento conclusivo, al fine di svolgere un ulteriore ciclo di audizioni (tenutesi dal 10 al 25 febbraio 2009).

Al termine del secondo ciclo di audizioni, che ha consentito di tracciare un quadro completo delle problematiche esistenti, la Commissione ha approvato un documento conclusivo nella seduta dell’8 aprile 2009 .

Il documento conclusivo ha evidenziato, in particolare:

La tassazione delle persone fisiche (IRPEF)

Durante la XVI Legislatura, gli interventi normativi in materia di IRPEF sono stati eterogenei sia nelle finalità che nelle tipologie di misure adottate. Complessivamente, tuttavia, la maggior parte degli interventi ha inteso aumentare il reddito disponibile delle famiglie, per fronteggiare gli effetti della crisi economico-finanziaria. Le modifiche alla disciplina delle addizionali a regioni e comuni hanno inoltre rimodulato il carico fiscale tra Stato ed enti territoriali, al fine di dare attuazione alla legge sul federalismo fiscale.

Settore produttivo e lavoro

Una forma di tassazione agevolata dei contratti di produttività è stata introdotta dall’articolo 2, comma 1, lettera c), del decreto-legge n.93/2008, originariamente in via transitoria e con carattere sperimentale.

Il beneficio fiscale consiste nell’applicazione, sulle remunerazioni oggetto di agevolazione, di una imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali fissata in misura pari al 10%. A tale regime sono soggette, tra l’altro, le remunerazioni derivanti da incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa, nonché ad altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa. In sostanza, si tratta della quota di retribuzione caratteristica del secondo livello di contrattazione collettiva legata alla produttività aziendale.  L’intervento è stato successivamente prorogato nel tempo. Per l’anno 2012, a seguito del combinato disposto dell’articolo 33, comma 12 della legge 183/2011 e dal DPCM 23 marzo 2012, le misure agevolative hanno trovato applicazione entro il limite complessivo di 2.500 euro lordi, con esclusivo riferimento al settore privato e ai titolari di reddito di lavoro dipendente non superiore, nell'anno 2011, a 30.000 euro (al lordo delle somme assoggettate nel 2011 alla medesima imposta sostitutiva).

Da ultimo, la legge di stabilità 2013 (articolo 1, commi 481 e 482 della legge n. 228 del 2012) ha ulteriormente prorogato le misure sperimentali per la produttività del lavoro a tutto il 2013 e il 2014. Per l’anno 2013, tali misure sono state adottate con il DPCM del 22 gennaio 2013, confermando la tassazione agevolata al 10 per cento delle somme erogate a titolo di retribuzione di produttività.

 Allo scopo di favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani o di coloro che perdono il posto di lavoro, l'articolo 27 del D.L. 98 del 2011 ha modificato il regime fiscale semplificato per i cosiddetti “contribuenti minimi”: dal 2012 esso si applica, per il periodo d'imposta in cui l'attività è iniziata e per i quattro successivi, esclusivamente alle persone fisiche che intraprendono un’attività d’impresa, arte o professione o che l’abbiano intrapresa dopo il 31 dicembre 2007.

Viene dunque ridotta la platea dei beneficiari di tale regime fiscale, che prevede una tassazione forfettaria del 20 per cento per i titolari di partite Iva e i lavoratori autonomi che a fine anno incassano meno di 30.000 euro. Il regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile si applica anche oltre il quarto periodo d’imposta successivo a quello di inizio dell’attività, ma non oltre il periodo d’imposta di compimento del trentacinquesimo anno d’età.

Allo stesso tempo, per questi ultimi il beneficio è aumentato: a decorrere dal 1° gennaio 2012, l’imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali viene ridotta al 5 per cento (in luogo del 20 per cento). Per tali soggetti l’applicazione del nuovo regime dei minimi non potrà eccedere il periodo d’imposta in corso al 2015, nel caso in cui abbiano iniziato l’attività nel 2011.

In merito si ricorda che il 28 febbraio 2012 l'Assemblea della Camera ha approvato la mozione 1-000895, relativa all'applicazione degli studi di settore in relazione a tale nuovo regime; l'atto impegna il Governo, in particolare, ad adottare iniziative volte a disciplinare in modo organico il trattamento tributario da riservare ai cosiddetti contribuenti minimi, al fine di assicurare agli stessi semplificazioni contabili e meccanismi forfettari di determinazione delle imposte sui redditi, dell'Irap e dell'Iva.

 Numerose agevolazioni fiscali sono contenute nella disciplina delle "start up innovative", contenuta nel decreto-legge n. 179 del 2012. Esse operano sia in favore di società aventi gli specifici requisiti di legge per qualificarsi come start up innovativa (tra cui la disapplicazione a tali soggetti della disciplina in materia di società di comodo e in perdita sistemica), sia nei confronti dei soggetti che vi lavorano o vi svolgono funzioni apicali. In particolare, nel caso di assegnazione agli amministratori, ai dipendenti e ai collaboratori di azioni, quote, titoli, diritti, opzioni o strumenti finanziari nel contesto di un piano di incentivazione, il reddito di lavoro derivante dall’attribuzione di tali strumenti finanziari o diritti non concorre alla formazione del reddito imponibile di tali soggetti ai fini tanto fiscali quanto contributivi.

Sono previste inoltre agevolazioni fiscali nei confronti dei soggetti che intendono investire in tali imprese: per gli anni 2013, 2014 e 2015 si consente alle persone fisiche e alle persone giuridiche, di detrarre o dedurre dal proprio reddito imponibile le somme investite in imprese start-up innovative, sia direttamente che indirettamente per il solo tramite di SGR o altre società che investono prevalentemente in start-up innovative.

 Ulteriori interventi che interessano le persone fisiche esercenti attività produttive sono illustrati nel tema relativo alla tassazione del settore produttivo.

Detrazioni IRPEF

Tra le più significative modifiche intervenute durante la XVI Legislatura al sistema delle detrazioni IRPEF si ricordano:

- l’introduzione a regime della detrazione IRPEF per le spese sostenute dalle famiglie per la frequenza di asili nido (articolo 2, comma 6 della legge n. 203 del 2008, la legge finanziaria 2009);

- la modifica, ad opera del decreto-legge "sviluppo" (D.L. 70/2011) degli adempimenti dei contribuenti necessari per usufruire di alcune detrazioni IRPEF, in particolare quelli relativi alla detrazione per carichi di famiglia, con lo scopo di semplificarli;

- la possibilità di detrarre, a fini IRPEF, anche il canone derivante da contratti di locazione stipulati da studenti universitari iscritti ad università site nei Paesi UE (articolo 16 della legge n. 217 del 2011, a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2012);

- la modifica, col fine di renderla strutturale, della disciplina delle detrazioni IRPEF spettanti per le ristrutturazioni edilizie (nuovo articolo 16-bis del D.P.R. n. 917 del 1986, introdotto dal D.L. 201 del 2011). Si segnala che, in relazione alle spese per le ristrutturazioni edilizie sostenute dal 26 giugno 2012 fino al 30 giugno 2013, è previsto l’innalzamento sia del quantum detraibile (dal 36 al 50% delle spese sostenute) che del limite di spesa per cui si può usufruire dell’agevolazione (da 48.000 a 96.000 euro, ai sensi dell’articolo 11 del D.L. 83 del 2012). Per quanto riguarda le spese di riqualificazione energetica degli edifici sostenute dal 1° gennaio al 30 giugno 2013 spetta una detrazione del 55% delle stesse spese (comma 2). Si rinvia al tema web relativo alla tassazione degli immobili per ulteriori precisazioni.

- l’innalzamento (articolo 1, comma 483 della legge di stabilità 2013, legge n. 228 del 2012) dell’importo delle detrazioni IRPEF spettanti per figli a carico. In particolare, è stata elevata da 800 a 950 euro la detrazione IRPEF per figli a carico di età pari o superiore a tre anni, da 900 a 1.220 euro quella prevista per ciascun figlio di età inferiore a tre anni, nonché dal 220 a 400 quella per ciascun figlio portatore di handicap;

- la modifica al regime delle detrazioni delle somme versate per erogazioni liberali in favore dei partiti e movimenti politici. Accanto all'aumento della percentuale detraibile (dal 19 per cento al 24 per cento, per l'anno 2013; al 26 per cento, a decorrere dal 2014) viene diminuito il limite (massimo e minimo) di contributo detraibile, che diviene compreso tra 50 e 10.000 euro (non più 103.291 euro);

- le modifiche alla disciplina delle detrazioni per erogazioni liberali alle ONLUS ed ad altre organizzazioni umanitarie: la percentuale detraibile è pari al 24 per cento nel 2013 e al 26 per cento dal 2014 e l’importo massimo è pari a 2.065 euro annui.

- l’introduzione di una detrazione d’imposta (pari al 19 per cento delle spese sostenute) per le erogazioni liberali in denaro in favore del Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.

Tassazione dei redditi fondiari: la "cedolare secca" sui redditi da locazione di immobili

La disciplina della cosiddetta “cedolare secca sugli affitti”, istituita dal decreto legislativo n. 23 del 2011 (in tema di federalismo fiscale municipale, prevede una specifica modalità di tassazione dei redditi derivanti dalla locazione di immobili adibiti ad uso abitativo: a partire dal 2011 si consente ai proprietari dei predetti immobili, in luogo dell’ordinaria tassazione Irpef sui redditi derivanti dalla locazione, di optare per un regime sostitutivo (che assorbe anche le imposte di registro e bollo sui contratti) le cui aliquote sono pari al 21% per i contratti a canone libero ed al 19% per quelli a canone concordato. Oltre a severe sanzioni in caso di omessa od irregolare registrazione (in cui si prevede automaticamente un durata del contratto pari a quattro anni e l’applicazione di un canone ridotto che fa riferimento al triplo della rendita catastale) le misure suddette prevedono che, in caso di contratto a canone concordato. il locatore che opta per la cedolare secca non potrà richiedere aggiornamenti del canone per tutta la durata del contratto. Nel corso delle audizioni informali svoltesi presso la VI Commissione (Finanze) il 15 novembre 2012, Confedilizia e UPPI – Unione piccoli proprietari immobiliari hanno rilevato i principali aspetti problematici relativi all’attuazione di tale nuova disciplina.

Per ulteriori informazioni sulla tassazione degli immobili si rinvia al relativo tema web. Si ricorda in questa sede che il D.L. n. 16 del 2012 (articolo 4, commi 5-quinquies e 5-sexies) ha fissato al 35 per cento la riduzione applicabile per determinare il reddito da locazione imponibile a fini IRPEF e IRES degli immobili aventi interesse storico o artistico.

L’articolo 4, comma 74 della legge n. 92 del 2012 ha rideterminato le modalità di calcolo del reddito dei fabbricati imponibile ai fini IRPEF; in particolare, dal 2013 è diminuita dal 15 al 5 per cento la riduzione applicabile ai canoni dei fabbricati concessi in locazione, utile ai fini della determinazione del reddito imponibile IRPEF.

 

 

Le addizionali IRPEF

Le modifiche alla disciplina delle addizionali IRPEF, come anticipato in precedenza, si inquadrano nell’alveo degli interventi attuativi della legge sul federalismo fiscale (legge n. 42/2009). Tuttavia, rispetto alla disciplina attutiva della legge 42/2009, ulteriori e successivi interventi – di cui si darà sinteticamente conto in seguito – hanno inciso sulla misura dell’addizionale regionale e sulla possibilità delle regioni di manovrare l’aliquota di spettanza.

 In un primo momento, il decreto-legge n. 93 del 2008 aveva disposto la sospensione del potere delle regioni e degli enti locali di deliberare aumenti dei tributi e delle addizionali all’IRPEF, salve le deroghe in favore delle regioni con disavanzi nel settore sanitario. La sospensione è cessata per effetto di quanto disposto dal D.L. 138 del 2011 (articolo 1, commi 10 e 11): dal 2012 è stato ripristinato il potere di regioni e comuni di deliberare aumenti delle aliquote delle addizionali IRPEF.

 Il decreto legislativo in materia di federalismo regionale e fabbisogni standard nel settore sanitario (D. Lgs. n. 68 del 2011, come modificato dal citato D. L. 138 del 2011) ha recato importanti novità in tema di addizionale regionale all'IRPEF e, in particolare:

- è stato previsto che, dal 2012, sia rideterminata l’addizionale regionale all’Irpef, la cui misura di base è dell’1,23 per cento (per effetto dell’innalzamento operato dall'articolo 28 del D.L. 201 del 2011, dal precedente valore dello 0,9 per cento);

- all’aliquota così rideterminata si aggiungono le eventuali maggiorazioni dell’addizionale, che ciascuna regione può effettuare nel limite dello 0,5% per il 2012 e il 2013, dell’1,1% per il 2014 e del 2,1% dal 2015;

- le regioni sottoposte al piano di stabilizzazione finanziaria possono anticipare al 2013 l'aumento dell'addizionale IRPEF di 1,1 punto percentuale stabilito dal D.Lgs. 68/2011 relativamente all'anno 2014 (D.L. 95 del 2012);

- è stata posticipata dal 2013 al 2014 la decorrenza di alcune disposizioni che disciplinano i poteri delle Regioni di manovrare l’addizionale regionale IRPEF (articolo 1, comma 555 della legge di stabilità 2013, legge n. 228 del 2012). In particolare, tra le norme di cui è posticipata la decorrenza vi è l’autorizzazione a innalzare la misura delle detrazioni per carichi di famiglia - a carico dell’addizionale regionale - e la possibilità di introdurre detrazioni fiscali in luogo dell’erogazione di sussidi, voucher, buoni servizio e altre misure di sostegno sociale previste dalla legislazione regionale.

I redditi finanziari: rinvio

Nel corso della XVI legislatura è stato operato un complessivo intervento di riordino dei redditi finanziari, al fine di uniformarne il regime fiscale e razionalizzare complessivamente la materia. Per un’analisi approfondita si rinvia al tema sulla tassazione di transazioni e strumenti finanziari.

Si segnalano, in questa sede: la riforma dell’imposizione sui fondi di investimento mobiliare italiani; il nuovo regime tributario dei redditi di capitale; l’imposta di bollo sulle transazioni finanziarie; il trattamento fiscale agevolato delle le obbligazioni emesse dalle società di progetto per finanziare gli investimenti in infrastrutture o nei servizi di pubblica utilità (cd. project bond).

"Scudo fiscale" e tassazione dei beni di lusso

L'articolo 13-bis del D.L. 78/2009, come modificato dal decreto-legge n. 103 del 2009 e dalla legge finanziaria 2010, ha introdotto la possibilità di rimpatriare o regolarizzare le attività detenute illegalmente all'estero alla data del 31 dicembre 2008 (cd. “scudo fiscale”). Per ulteriori informazioni si rinvia alla scheda di approfondimento in materia.

L'articolo 19 del D.L. 201 del 2011 ha previsto l'applicazione di un'imposta di bollo sulle attività così rimpatriate mediante lo "scudo fiscale"; il medesimo articolo ha introdotto altresì forme di prelievo sulle attività finanziarie e sugli immobili detenuti all'estero. L'articolo 16 del medesimo D.L. ha infine previsto forme di tassazione di imbarcazioni e automobili di lusso.

Il contributo di solidarietà

L’articolo 9, comma 2, del D.L. n. 78 del 2010 aveva previsto, per il periodo compreso tra il 1° gennaio 2011 e il 31 dicembre 2013, una decurtazione dei trattamenti economici complessivi dei dipendenti (anche di qualifica dirigenziale) delle amministrazioni pubbliche. Tale taglio colpiva le retribuzioni superiori a 90.000 euro lordi, con decurtazione del 5 per cento della parte eccedente il predetto importo, fino a 150.000 euro; per le retribuzioni superiori a150.000 euro lordi, era prevista un’ulteriore decurtazione del 10 per cento (per la parte eccedente il citato ammontare di 150.000 euro). Tuttavia la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 223 del 2012 ha dichiarato illegittima la richiamata disciplina, in quanto ha riconosciuto che essa ha introdotto un vero e proprio prelievo tributario risultante in una imposta speciale nei confronti dei soli pubblici dipendenti. Come tale, la disposizione appare in contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. e, in particolare, col principio della parità di prelievo a parità di presupposto d'imposta economicamente rilevante.

Successivamente, il decreto-legge 138 del 2011 (articolo 2, primi due commi), in relazione alle straordinarie esigenze legate alla crisi economica, ha introdotto un contributo di solidarietà a carico di tutti i contribuenti il cui reddito complessivo ai fini IRPEF sia superiore a 300.000 euro lordi annui, per il periodo 1° gennaio 2011 – 31 dicembre 2013. Il contributo è pari al 3 per cento della quota eccedente tale importo.

Per quanto riguarda invece i trattamenti pensionistici, l’articolo 18, comma 22-bis, del D.L. n. 98/2011 ha introdotto, in ragione dalla eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, un contributo di perequazione sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014 nelle seguenti modalità:

Successivamente l’articolo 24, comma 31-bis del D.L. 201 del 2011 ha disposto l’incremento del predetto contributo, fissandolo al 15% per la parte eccedente i 200.000 euro.

Di conseguenza, il vigente contributo di perequazione sui trattamenti pensionistici opera nel modo seguente:

   

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Approfondimento: Il rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali

La disciplina sullo scudo fiscale è stata introdotta dall’articolo 13-bis del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009 ed è stata modificata sia dal decreto-legge n. 103 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 141 del 2009 sia dal decreto-legge n. 194 del 2009 (c.d. "milleproroghe"). Ulteriori disposizioni in materia di tassazione delle attività "scudate" sono state introdotte con il D.L. 201 del 2011 e con il D.L. 16 del 2012.

Le norme recano disposizioni in materia di “rimpatrio” ovvero “regolarizzazione” delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero in violazione degli obblighi valutari e tributari sanciti dal decreto legge n. 167 del 1990[1], convertito dalla legge n. 227 del 1990.

La disciplina (c.d. scudo-ter) ha consentito la regolarizzazione o il rimpatrio delle attività detenute all’estero in una data non successiva al 31 dicembre 2008. L’operazione, da effettuarsi nel periodo compreso tra il 15 settembre 2009 e il 15 aprile 2010[2], è stata resa perfezionabile con il pagamento dell’imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali istituita dal sopra richiamato articolo 13-bis. Poichè il termine finale, fissato al 15 dicembre 2009 dalla legge di conversione del DL 78/09, è stato modificato dal DL 194/2009 (entrato in vigore il 30 dicembre 2009), le operazioni di emersione effettuate nel periodo compreso tra il 16 e il 29 dicembre 2009 non sono state considerate ammissibili. Il DL n. 194/2009 ha introdotto un incremento della misura dell'imposta dovuta da applicare alle operazioni di emersione effettuate successivamente al 15 dicembre 2009.

In merito alla disciplina generale e agli effetti prodotti i commi 4 e 5 dell’articolo 13-bisrinviano:
- agli articoli 11, 13, 14, 15, 16, 17, 19 commi 2 e 2-bis, 20 comma 3 del decreto legge n. 350 del 2001, recante una precedente disciplina in materia di “scudo fiscale” che ha disposto la possibilità di regolarizzare le attività estere detenute almeno al 1° agosto 2001, nonché al decreto-legge n. 12 del 2002 il quale, agli articoli 1 e 2, reca modifiche ed integrazioni alla disciplina contenuta nel D.L. n. 350[3];
- all’articolo 8, comma 6, lettera c), della legge n. 289 del 2002 (finanziaria 2003). Il richiamato articolo 8, recante “Integrazione degli imponibili per gli anni pregressi”, nell’introdurre la facoltà per i contribuenti di aderire alla definizione agevolata, individua nella lettera c) del comma 8 gli effetti penali conseguenti alla medesima regolarizzazione fiscale.

Nell’illustrare la disciplina in commento si tiene conto anche dei chiarimenti forniti nelle numerose circolari emanate dell'Agenzia delle entrate ed in particolare della circolare n. 43/E dell’Agenzia delle entrate, emanata il 10 ottobre 2009.



Ambito soggettivo

La norma non ha individuato espressamente l’ambito soggettivo di applicazione. Tuttavia, in virtù dei rinvii al decreto-legge n. 167 del 1990 e all’articolo 11 del decreto-legge n. 350 del 2001 nonché dei chiarimenti forniti con la richiamata circolare n. 43/E emanata dall’Agenzia delle entrate, la disciplina è stata ritenuta applicabile nei confronti dei seguenti soggetti residenti nel territorio dello Stato: persone fisiche (anche titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo), enti non commerciali, società semplici e associazioni equiparate ai sensi dell’articolo 5 del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR).

La circolare n. 43 dell’Agenzia delle entrate, in merito al requisito della residenza, ha rinviato alla nozione contenuta nell’articolo 2, comma 2 del TUIR e a quanto indicato nel comma 2-bis del medesimo articolo 2 ai sensi del quale sono considerati residenti, e pertanto rientrano nell’ambito soggettivo anche i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati aventi un regime fiscale privilegiato (cosiddetti paradisi fiscali). La stessa circolare, inoltre, ha precisato che il requisito della residenza deve sussistere per il periodo d'imposta in corso alla data di presentazione della dichiarazione riservata (2009), e non necessariamente nei periodi d'imposta precedenti. In particolare, è stato affermato che “si deve ritenere che possano essere inclusi nel novero dei soggetti interessati tutti coloro che, pur non risultando residenti nel territorio dello Stato alla data di presentazione della dichiarazione riservata, vengano ad acquisire successivamente a tale data detto requisito”.

Il comma 7-bis dell’articolo 13-bisha incluso nel campo di applicazione le imprese estere di cui agli articoli 167 e 168 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), ovvero le imprese situate nei paesi a fiscalità vantaggiata (c.d. paradisi fiscali) le cui partecipazioni di controllo o di collegamento sono detenute da soggetti residenti in Italia ai quali, ai sensi dei richiamati articoli 167 e 168, viene imputato per trasparenza il reddito della partecipata in proporzione alla quota detenuta.

La circolare dell’Agenzia delle entrate ha evidenziatoche la “finalità del provvedimento è quella di consentire l’emersione di attività comunque riferibili al contribuente (…) è ammessa (…) anche nel caso in cui le predette attività siano intestate a società fiduciarie o siano possedute dal contribuente per il tramite di interposta persona”. Sul punto la circolare ha fornito chiarimenti ed esemplificazioni con particolare riferimento alle attività detenute all’estero tramite il trust, ivi compresi quelli “esterovestiti”; l'Agenzia ha precisato, in linea generale, che essi rientrano nell’ambito soggettivo qualora le attività facenti parte del patrimonio del trust continuano ad essere, di fatto, a disposizione del settlor oppure rientrano nella disponibilità dei beneficiari.

Non sono stati inclusi nell’ambito soggettivo:
- gli enti commerciali, le società, siano essi società di persone o società di capitali, ad eccezione delle società semplici;
- coloro che hanno osservato le disposizioni sul monitoraggio fiscale e che hanno violato unicamente gli obblighi di dichiarazione annuale dei redditi di fonte estera (quadro RW nel modello UNICO). Sul punto, con particolare riferimento agli investimenti di natura non finanziaria, la circolare fornisce chiarimenti meglio illustrati nel paragrafo concernente l’ambito oggettivo;
- i soggetti, come precisato nella circolare, “residenti nel comune di Campione d’Italia in relazione alle disponibilità detenute presso istituti elvetici in base alle disposizioni valutarie specificamente riferite al predetto territorio. Tale esclusione è limitata alle disponibilità derivanti da redditi di lavoro, da trattamenti pensionistici, nonché da altre attività lavorative svolte direttamente in Svizzera da soggetti residenti nel suddetto Comune”.

Non sono stati, in ogni caso, ammessi allo scudo fiscale i soggetti nei confronti dei quali, alla data di presentazione della dichiarazione riservata, fosse già stato notificato l’avvio di attività di controllo. In base a quanto affermato dalla circolare, infatti, “le operazioni di emersione non producono gli effetti previsti qualora, alla data di presentazione della dichiarazione riservata, la violazione sia stata già constatata ovvero siano iniziati accessi, ispezioni e verifiche o altre attività di accertamento tributario e contributivo nei confronti del contribuente ovvero siano stati emanati nei confronti del medesimo avvisi di accertamento o di rettifica o atti di contestazione di violazioni tributarie, compresi i predetti inviti, questionari e richieste. Al riguardo, affinché vi sia un effetto preclusivo alla regolarizzazione, gli atti menzionati devono essere stati portati formalmente a conoscenza del contribuente. Per formale conoscenza si intende la notifica degli stessi”. In caso di avvio di attività di controllo nei confronti di una società di persone o di una associazione, l’accesso allo scudo fiscale è stato precluso anche in capo ai soci o associati per i redditi della società o associazione a lui imputabili.

L'Agenzia delle entrate ha fornito, con la circolare n. 48/E del 17 novembre 2009, ulteriori chiarimenti con particolare riferimento ai soggetti residenti in Italia che prestano la propria attività all'estero. L'Agenzia ha precisato che, mentre i dipendenti pubblici in servizio all'estero per la maggior parte del periodo d'imposta non sono soggetti agli obblighi sul monitoraggio fiscale in quanto non aventi il requisito della residenza, i lavoratori frontalieri e i dipendenti di imprese multinazionali che lavorano all'estero e che risultano titolari di depositi e/o conti correnti esteri di ammontare superiore a 10.000 euro, sono invece tenuti ad adempiere agli obblighi in materia di monitoraggio fiscale. Tali ultimi soggetti, evidenzia la circolare, "possono regolarizzare la propria posizione fiscale con riferimento agli anni pregressi, presentando la dichiarazione dei redditi integrativa relativamente al periodo d'imposta 2008"; ciò in quanto si tiene conto della "carenza, nei casi in esame, della volontà di porre in essere comportamenti illeciti (è sintormatica, al riguardo, la circostanza che si tratta di disponibilità detenute all'estero derivanti da redditi di lavoro dipendente e assimilato generalmente assoggettati a tassazione alla fonte a cura del datore di lavoro)". Sul punto è intervenuto, da ultimo, l'articolo 2, comma 7, del decreto-legge n. 194 del 30 dicembre 2009 ("milleproroghe") ai sensi del quale i lavoratori dipendenti e i pensionati che hanno omesso la presentazione del modello RW della dichiarazione dei redditi per il 2008 hanno avuto la possibilità di regolarizzare la posizione entro il 30 aprile 2010 con applicazione delle sanzioni minime (ravvedimento operoso); la relazione illustrativa allegata al DL n. 194 chiariv in merito che tale disposizione era volta a regolarizzare l'intera posizione fiscale anche con riferimento agli anni pregressi secondo le modalità illustrate nella circolare dell'Agenzia delle entrate n. 48/E del 17 novembre 2009".



Modalità

Sono state previste due modalità diverse da applicare in funzione dello Stato estero nel quale si trovavano le attività interessate dalla disciplina dello "scudo":

 - per le attività ubicate in paesi non appartenenti all’Unione europea, ad eccezione di quelli indicati nel punto successivo, la procedura è stata subordinata al cosiddetto rimpatrio dei capitali, ovvero al rientro in Italia del denaro e delle attività.

La circolare dell’Agenzia delle entrate ha chiarito che, oltre al trasferimento fisico delle attività, è stato possibile anche il c.d. rimpatrio giuridico. Esso si considera eseguito, nel caso di rimpatrio di denaro o di attività finanziarie, nel momento in cui l’intermediario assume formalmente in custodia, deposito, amministrazione o gestione le attività anche senza procedere al materiale trasferimento delle stesse; il rimpatrio giuridico delle attività patrimoniali, invece, consiste nel conferimento delle attività stesse in una società costituita nello stesso Paese in cui le attività conferite erano detenute alla data del 5 agosto 2009 e nel conseguente rimpatrio delle partecipazioni nella società.

Inoltre, sempre in base ai chiarimenti forniti dalla circolare, è stata chiarita la possibilità che le attività rimpatriate fossero qualitativamente diverse da quelle indicate nella dichiarazione riservata come, ad esempio, nell’ipotesi in cui le attività detenute fossero rappresentate da titoli successivamente ceduti.

- per attività insistenti in paesi dell’Unione europea ovvero in paesi aderenti allo Spazio economico europeo (SEE)[4] che garantiscono un effettivo scambio di informazioni fiscali in via amministrativa (sul punto si rinvia all’interpretazione, di seguito illustrata, fornita dalla circolare), ai soggetti interessati è stato permesso di scegliere di regolarizzare, ossia di continuare a mantenere le proprie attività all’estero, ovvero di rimpatriare le attività finanziarie e patrimoniali. La possibilità di effettuare il rimpatrio o la regolarizzazione è stata ammessa anche per le imprese estere situate nei paradisi fiscali le cui partecipazioni di controllo o di collegamento fossero detenute da soggetti residenti in Italia.

La circolare n. 43 dell’Agenzia delle entrate ha fornito un’interpretazione estensiva in merito all’applicazione della norma, affermando che la regolarizzazione era ammessa nel caso in cui le attività fossero detenute “in Paesi che consentono un effettivo scambio di informazioni in via amministrativa”.

In proposito, la circolare ha ricordato “i principi generali sottoscritti nei vertici del G8” in materia di cooperazione internazionale sulla fiscalità finanziaria, nonché l’impegno assunto dagli Stati OCSE “volto ad assicurare una maggiore trasparenza bancaria su investimenti e depositi, anche per quelli detenuti nei paesi che assicurano particolari agevolazioni “i cosiddetti paradisi fiscali”. Inoltre, richiamando l’articolo 56 del Trattato UE ai sensi del quale è vietata qualsiasi restrizione ai movimenti di capitale non solo tra Stati membri ma anche con paesi terzi, ha affermato che “si deve ritenere possibile la regolarizzazione delle attività detenute anche nei Paesi extra UE con i quali è in atto un effettivo scambio di informazioni secondo il recenti standard ONU/OCSE”.

Pertanto, secondo quanto affermato nella circolare, la facoltà di scegliere tra la regolarizzazione e il rimpatrio è stata estesa alle attività detenute nei “Paesi dell’OCSE che non hanno posto riserve alla possibilità di scambiare informazioni bancarie. Si tratta, in particolare, dei seguenti Paesi: Australia, Canada, Corea del Sud, Giappone, Messico, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Turchia”.

Ai fini della individuazione del Paese di detenzione delle attività da regolarizzare la circolare dell’Agenzia delle entrate ha stabilito la rilevanza di "quello in cui le attività erano detenute alla data di entrata in vigore del decreto (5 agosto 2009)”.

Ai sensi del comma 5 dell’articolo 13-bis, sono state rese applicabili alle operazioni di rimpatrio o di regolarizzazione le modalità previste dagli articoli 11, 13, 14, 15, 19 commi 2 e 2-bis, e 20 comma 3 del decreto-legge n. 350/2001 nonché del decreto legge n. 12 del 2002.

Alla luce di tali disposizioni, le operazioni di rimpatrio e regolarizzazione sono state effettuate attraverso una dichiarazione riservata, da presentare ad uno dei seguenti intermediari abilitati:

-banche italiane;

-società di intermediazione mobiliare (SIM) di cui all’articolo 1, comma 1, lettera e) del decreto legislativo n. 58 del 1998 (TUF);

-società di gestione del risparmio (SGR) di cui all’articolo 1, comma 1, lettera o) del TUF, limitatamente alle attività di gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi;

-società fiduciarie di cui alla legge n. 1966 del 1939;

-agenti di cambio iscritti nel ruolo unico previsto dall’articolo 201 del TUF;

-Poste italiane S.p.A.;

-stabili organizzazioni in Italia di banche e di imprese di investimento non residenti.

Gli intermediari hanno garantito l’anonimato delle dichiarazioni di emersione delle attività nei confronti dell’amministrazione finanziaria, in quanto non tenuti a verificare la congruità delle informazioni contenute nelle dichiarazioni riservate; tuttavia hanno avuto il compito di verificare la documentazione allegata alla dichiarazione, in caso di regolarizzazione delle attività.

Per l’operazione di rimpatrio, è stato previsto l'obbligo di deposito delle attività presso l’intermediario italiano entro il termine del 15 dicembre 2009; non si è consentita infatti l’operazione di emersione per le attività rimpatriate prima del 15 settembre 2009 ovvero dopo il 15 dicembre 2009. L’operazione di rimpatrio non ha comportato l’esonero per il contribuente dall’applicazione della disciplina in materia di monitoraggio di cui agli articoli 3 e seguenti del decreto legislativo n. 195 del 2008 ai sensi della quale, in caso di trasporto di denaro contante o altre attività finanziarie di importo pari o superiore a 10.000 euro, deve essere presentata apposita dichiarazione all’Agenzia delle Dogane. In tale ipotesi, pertanto, l’intermediario dovrà ricevere, oltre alla dichiarazione riservata, anche la predetta dichiarazione di trasporto dei valori rimpatriati.

Gli intermediari hanno assunto la qualifica di sostituto d’imposta, trattenendo le ritenute fiscali dovute e riversandole allo Stato senza indicare il nominativo del soggetto per conto del quale la ritenuta è stata operata. Sempre in qualità di sostituto d’imposta dovranno presentare una dichiarazione complessiva (mod. 770) concernente il totale delle somme rimpatriate o regolarizzate e le relative ritenute trattenute e versate.

Ai sensi del comma 3 dell’articolo 13-bis gli intermediari non sono stati tenuti agli obblighi di segnalazione di operazioni sospette in materia di antiriciclaggio disciplinate dall’articolo 41 del decreto legislativo n. 231 del 2007

Ai sensi dell’articolo 41 del D.Lgs. n. 231/1997 devono essere inviate alla Unità di Informazione Finanziaria (UIF) presso la Banca d’Italia apposite segnalazioni quando esiste il sospetto che siano in corso operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Il sospetto è desunto dalle caratteristiche, entità, natura dell'operazione o da qualsivoglia altra circostanza conosciuta in ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacità economica e dell'attività svolta dal soggetto cui è riferita, in base agli elementi a disposizione dei segnalanti, acquisiti nell'ambito dell'attività svolta ovvero a seguito del conferimento di un incarico. Le segnalazioni devono essere effettuate senza ritardo, se possibile prima di eseguire l'operazione, e comunque appena il soggetto tenuto alla segnalazione viene a conoscenza degli elementi di sospetto. Infine, le segnalazioni di operazioni sospette non costituiscono violazione degli obblighi di segretezza, del segreto professionale o di eventuali restrizioni alla comunicazione di informazioni imposte in sede contrattuale o da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative e, se poste in essere per le finalità ivi previste e in buona fede, non comportano responsabilità di alcun tipo.

In proposito, la circolare n. 43/E dell’Agenzia dell’entrate, nel dettare le regole attuative dell’articolo 13-bis in esame, ne ha fornito una interpretazione in base alla quale sono stati posti specifici obblighi di segnalazione in capo agli intermediari, cui di fatto è stata attribuita una funzione ricognitiva e valutativa sulla natura delle operazioni che originano la richiesta di emersione. La circolare, infatti, ha affermato il dovere degli intermediari di “rispettare gli obblighi di identificazione, registrazione e segnalazione previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 in materia di antiriciclaggio. In particolare, gli intermediari abilitati, nonché gli altri soggetti indicati nel citato decreto legislativo, sono tenuti all’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette nei casi in cui sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che le attività oggetto della procedura di emersione siano frutto di reati diversi da quelli per i quali si determina la causa di non punibilità di cui al comma 4 dell’articolo 13-bis del decreto. Al riguardo si fa presente che le operazioni di rimpatrio e di regolarizzazione non costituiscono di per sé elemento sufficiente ai fini della valutazione dei profili di sospetto per la predetta segnalazione, ferma rimanendo la valutazione degli altri elementi previsti dall’articolo 41 del medesimo decreto legislativo n. 231 del 2007”. I reati per i quali si verifica la non punibilità ai sensi del comma 4 sono illustrati nel paragrafo concernente gli effetti.



Ambito oggettivo

Per quanto concerne l’ambito oggettivo, la normativa sullo "scudo" è stata resa applicabile alle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero in violazione delle disposizioni in materia di monitoraggio fiscale a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008.

Sono state dunque oggetto di rimpatrio le somme di denaro e le altre attività finanziarie, tra le quali le azioni e gli strumenti finanziari assimilati, titoli obbligazionari, certificati di massa, quote di partecipazione ad organismi di investimento collettivo del risparmio, polizze assicurative produttive di redditi di natura finanziaria. Il rimpatrio ha riguardato anche titoli o altre attività finanziarie emesse da soggetti italiani purché detenuti all’estero a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008 in violazione degli obblighi tributari e valutari. La circolare dell’Agenzia delle entrate n. 43 ha chiarito che “con particolare riferimento alle opere d’arte si fa presente che restano ferme le disposizioni vigenti in materia di tutela e protezione delle medesime”.

Le operazioni di regolarizzazione sono state estese anche agli investimenti esteri di natura non finanziaria quali, ad esempio, gli immobili, gli oggetti preziosi, le opere d’arte e gli yacht, purché detenuti, secondo quanto affermato dalla circolare dell’Agenzia delle entrate, “in un Paese europeo o in altro Paese che garantisce un effettivo scambio di informazioni fiscali in via amministrativa” a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008.

La più volte richiamata circolare n. 43/E, inoltre, ha fornito un’interpretazione estensiva rispetto all’ambito oggettivo di applicazione della disciplina in argomento. In particolare, nel ricordare le attività detenute all’estero che sono interessate dalla normativa sul monitoraggio fiscale (quali, ad es. le attività che producono reddito, le attività finanziarie di ammontare superiore a 10.000 euro, i titoli pubblici ed equiparati emessi in Italia, ecc.) ha reputato necessaria “una revisione dell’interpretazione della disposizione recata nell’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990”. In particolare, ha ritenuto la suddetta da intendersi “da ora in poi riferita non solo a fattispecie di effettiva produzione di redditi imponibili in Italia ma anche ad ipotesi in cui la produzione dei predetti redditi sia soltanto astratta o potenziale. Pertanto, a partire dalla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in corso, i contribuenti saranno tenuti ad indicare nel quadro RW non soltanto le attività estere di natura finanziaria ma anche gli investimenti all’estero di altra natura, indipendentemente dalla effettiva produzione di redditi imponibili in Italia. Esemplificando, quindi, dovranno essere sempre indicati anche gli immobili tenuti a disposizione, gli yacht, gli oggetti preziosi e le opere d’arte anche se non produttivi di redditi”.

L’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990 dispone che le persone fisiche, gli enti non commerciali, e le società semplici ed equiparate residenti in Italia che al termine del periodo d'imposta detengono investimenti all'estero ovvero attività estere di natura finanziaria, attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia, devono indicarli nella dichiarazione dei redditi. L'obbligo di dichiarazione, tuttavia, non sussiste se l'ammontare complessivo degli investimenti ed attività al termine del periodo d'imposta, ovvero l'ammontare complessivo dei movimenti effettuati nel corso dell'anno, non supera l'importo di 10 mila euro.

In linea con la predetta interpretazione, la circolare - nel ricordare, a titolo esemplificativo, che nel quadro RW vanno indicati gli immobili assoggettati ad imposte sui redditi nello Stato estero (è il caso della Spagna) mentre non devono essere indicati gli immobili tenuti a disposizione in un Paese che non ne prevede la tassazione ai fini delle imposte dirette (è il caso della Francia) e che, pertanto, l’immobile situato in Francia non potrebbe essere oggetto di emersione in quanto non è stato violato alcun obbligo dichiarativo - ha reputato che “in questa fattispecie le violazioni degli obblighi inerenti il monitoraggio fiscale potrebbero essersi verificate precedentemente, per esempio, all’atto del trasferimento all’estero delle somme utilizzate per l’acquisto dell’immobile ovvero in precedenti periodi di imposta nei quali il contribuente abbia locato l’immobile. In tali casi (…) il contribuente può comunque accedere allo scudo fiscale”.

Sono inclusi nella disciplina, sempre secondo quanto indicato nella circolare, anche “gli immobili ubicati in Italia posseduti per il tramite di un soggetto interposto residente all’estero”; sul punto viene richiamata la risoluzione n. 134/E del 30 aprile 2002 emanata con riferimento alla disciplina dello scudo fiscale contenuta nel decreto legge n. 350 del 2001.



Base imponibile

La base imponibile è rappresentata dal rendimento presunto determinato in ragione del 2 per cento annuo per un periodo di cinque anni. In sostanza, quindi, l’imposta è stata applicata ad un imponibile corrispondente al 10 per cento del valore delle attività da regolarizzare.

La circolare n. 43 dell’Agenzia delle entrate ha affermatp che le modalità di determinazione della base imponibile rappresentano una “presunzione assoluta che non tiene conto del periodo di effettiva detenzione all’estero delle attività che si intende rimpatriare o regolarizzare né del reale rendimento conseguito”.

Importanti chiarimenti sono stati forniti dalla circolare dell’Agenzia delle entrate in merito alla valutazione delle attività da rimpatriare o regolarizzare. Infatti, mentre nei casi di emersione di somme di denaro o di attività espresse in valuta il corrispondente valore è determinato applicando il tasso di cambio appositamente individuato, per tutti gli altri beni è stata ritenuta necessaria l’applicazione di appositi criteri per la determinazione del valore dell’attività detenuta all’estero.

In proposito la circolare ha affermato:

- che per le attività finanziarie, “il contribuente non è tenuto ad adottare criteri specifici di valorizzazione, fermo restando che gli effetti (…) sono limitati agli importi indicati nelle dichiarazioni riservate”;

- per le attività diverse da quelle finanziarie, che “è necessario che il valore del bene da indicare nella dichiarazione riservata sia quello compreso tra il costo di acquisto documentato e quello risultante da un’apposita perizia di stima”. Tuttavia, chiarisce ancora la circolare, “in mancanza della documentazione attestante il costo di acquisto, al fine di rendere attendibile il valore delle predette attività, si ritiene necessario che esso sia comprovato da un’apposita perizia di stima che deve essere conservata a cura del contribuente ma non obbligatoriamente allegata alla dichiarazione riservata”.



Imposta

Ai fini del rimpatrio o della regolarizzazione è stata introdotta\ una imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali consistente in una aliquota sintetica comprensiva di sanzioni ed interessi, da applicare al rendimento presunto delle attività detenute all’estero. La misura dell'aliquota è stata del 50 per cento per le operazioni effettuate entro il 15 dicembre 2009, al 60% per le operazioni effettuate entro il 28 febbraio 2010 e al 70% per le operazioni effettuate entro il 15 aprile 2010. In ogni caso, è stata esclusa la possibilità di scomputare dal pagamento dell’imposta dovuta eventuali ritenute o crediti vantati dal contribuente.

La circolare n. 43/E dell’Agenzia delle entrate ha chiarito, inoltre, che “in tutte le ipotesi di materiale rimpatrio delle attività patrimoniali vanno assolti gli obblighi in materia di IVA e diritti doganali eventualmente esistenti”.



Periodo e perfezionamento

I termini per la dichiarazione riservata sono stati compresi tra il 15 settembre 2009 e il 15 aprile 2010. Il termine finale, fissato al 15 dicembre 2009 dal decreto legge n. 109/2009, è stato modificato dal DL 194/2009 che lo ha fissato al 15 aprile 2010; tenuto conto che il DL 194/09 è entrato in vigore il 30 dicembre 2009 le operazioni di emersione effettuate nel periodo compreso fra il 16 dicembre 2009 e il 29 dicembre 2009, come precisato anche dall'Agenzia delle entrate, non sono state considerate ammissibili. Un analogo arco temporale è stato fissato per il pagamento dell’imposta da parte del contribuente all’intermediario.

Secondo quanto indicato nella circolare n.43/E - emanata prima della proroga del termine finale - “qualora alla data del 15 dicembre 2009 le operazioni di emersione non siano ancora concluse per cause oggettive non dipendenti dalla volontà dell’interessato, gli effetti derivanti dalla dichiarazione riservata si producono in ogni caso a condizione che le medesime operazioni siano perfezionate entro una data ragionevolmente ravvicinata al termine previsto dalla norma. In ogni caso l’imposta straordinaria deve essere corrisposta entro e non oltre il 15 dicembre 2009”.

Con successive circolari sono state individuate ipotesi relativamente alle quali, per cause oggettive non dipendenti dalla volontà dell'interessato, non è stato possibile presentare la dichiarazione entro il termine fissato al 15 dicembre 2009 (in quanto alcune operazioni hanno richiesto tempi maggiori per poter giungere a conclusione). Pertanto, fermo restando l'obbligo di effettuare il versamento entro il 15 dicembre 2009, le circolari n. 49/E e 50/E hanno indicato le ipotesi di possibile differimento fino al 31 dicembre 2010 del termine per concludere le operazioni necessarie; la circolare n. 52/E ha disciplinato specificatamente le attività detenute nella Repubblica di San Marino, per le quali il differimento del termine di presentazione della dichiarazione è stato prorogato al 30 giugno 2010.



Effetti

Le norme in commento hanno fissato la decorrenza degli effetti del rimpatrio o della regolarizzazione dal momento dell’effettivo pagamento dell’imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali.

L’operazione di emersione ha comportato effetti estintivi relativamente agli importi dichiarati e relative sanzioni, con riferimento ai periodi d’imposta per i quali non fossero ancora scaduti i termini per l’accertamento. E’ stata pertanto preclusa l’attività di accertamento tributario e contributivo limitatamente ai periodi d’imposta e agli imponibili oggetto di rimpatrio o regolarizzazione.

La circolare dell’Agenzia delle entrate ha chiarito l'operatività della preclusione anche:

- nei confronti dei soggetti solidalmente obbligati con il dichiarante quali, ad esempio, gli eredi e i donatari;

-con riferimento a tributi diversi dalle imposte sui redditi, sempreché si trattasse di accertamenti relativi ad imponibili riferibili alle attività oggetto di emersione. Per le operazioni di regolarizzazione o rimpatrio effettuate dalle imprese estere operanti nei paradisi fiscali, il comma 7-bis ha disposto che ai redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato nei periodi d’imposta chiusi alla data del 31 dicembre 2008 e imputabili al soggetto residente in Italia, non si applicassero le disposizioni contenute negli articoli 167 e 168 del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR).

In virtù dei rinvii contenuti nel comma 4 dell’articolo 13-bis agli articoli 14, 15 e 17 del D.L. 350/2001 nonché all’articolo 8, comma 6, lettera c) della legge n. 289/2002 (finanziaria 2003) l’emersione ha comportato altre effetti estintivi di reati tra i quali la omessa o infedele dichiarazione e il falso in bilancio.

Più dettagliatamente è stata prevista l’estinzione di:

- infedele o omessa dichiarazione dei redditi;

- dichiarazione fraudolenta, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti;

- dichiarazione fraudolenta, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, mediante l’utilizzo di artifici contabili diversi da quelli previsti nell’articolo 2 del D.Lgs. n. 74/2000 quali, ad esempio, la falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie;

- occultamento o distruzione di documenti finalizzata all’evasione delle imposte sui redditi o dell’IVA, ovvero a consentire l’evasione a terzi, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari;

- false comunicazioni sociali disciplinato dagli articoli 2621 e 2622 del Codice civile;

Ai sensi della lettera c) del comma 6 dell’articolo 8 cui il comma 4 rinvia, l’esclusione della punibilità ha operato nel caso in cui tali reati fossero stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria; in base alla medesima disposizione, gli indicati effetti penali non sono stati applicabili “in caso di esercizio dell'azione penale della quale il contribuente ha avuto formale conoscenza entro la data di presentazione della dichiarazione integrativa”.

L’articolo 13-bis del D.L. n. 78/2009 ha previsto che i dati e le notizie comunicati dal contribuente agli intermediari per l’operazione di rimpatrio o di regolarizzazione non potessero costituire elemento utilizzabile a sfavore del contribuente, in via autonoma o addizionale, in ogni sede amministrativa o giudiziaria (civile, amministrativa e tributaria).

La circolare ha chiarito che la predetta inutilizzabilità non ha operato per i procedimenti in corso al 4 ottobre 2009 (data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n. 103/2009).



Sanzioni

Il comma 7 dell’articolo 13-bis, modificando i commi 4 e 5 dell’articolo 5 del D.L. n. 167/1990, ha raddoppiato la la misura minima e massima applicabile delle sanzioni. In particolare, in caso di omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi delle attività detenute all’estero nonché dei trasferimenti di valore da e per l’estero la sanzione è stata elevata ad un ammontare compreso tra il 10% e il 50% dell’importo non dichiarato.

Si segnala, inoltre, che il DL n. 194/2009 è intervenuto sui termini di prescrizione validi ai fini dell'accertamento delle dichiarazioni dei redditi e IVA relative a soggetti che operano nei paradisi fiscali. In particolare, è stato raddoppiato il numero degli anni nei quali l'Amministrazione può effettuare verifiche fiscali ed irrogare sanzioni nei confronti dei richiamati contribuenti.



Disposizioni finanziarie

Il comma 8 dell’articolo 13-bis ha destinato le entrate derivanti dalla disciplina in esame, non quantificate nel provvedimento, dovranno affluire ad un’apposita contabilità speciale per essere destinate all'attuazione della manovra di bilancio per l'anno 2010 e seguenti, ai sensi dell’articolo 16, comma 3, del medesimo decreto-legge n. 78 del 2009.



L'imposta di bollo sui capitali "scudati"

L'articolo 19, commi da 6 a 12 del D.L. 201 del 2011 ha introdotto un’imposta speciale annuale del 4 per mille sulle attività finanziarie oggetto di emersione a seguito delle disposizioni di cui agli articoli 12 e 15 del decreto legge n. 350 del 2001 e all’articolo 13-bis del decreto legge n. 78 del 2009 (c.d. "scudo fiscale"). Per gli anni 2012 e 2013 l’aliquota, è stabilita, rispettivamente, nella misura del 10 e del 13,5 per mille.

Essa colpisce le sole attività finanziarie emerse, non dunque quelle patrimoniali. Gli intermediari assumono la qualifica di sostituto d’imposta, trattenendo le ritenute fiscali dovute e riversandole allo Stato senza indicare il nominativo del soggetto per conto del quale la ritenuta è stata operata. Sempre in qualità di sostituto d’imposta presentano una dichiarazione complessiva (mod. 770) concernente il totale delle somme rimpatriate o regolarizzate e le relative ritenute trattenute e versate. Nel caso in cui, nel corso del periodo d'imposta, venga meno in tutto o in parte la segretazione, l'imposta è dovuta sul valore delle attività finanziarie in ragione del periodo in cui il conto o rapporto ha fruito della segretazione.

E' consentito lo scomputo dall’imposta speciale dovuta sulle attività finanziarie rimpatriate dell’imposta di bollo corrisposta per il deposito titoli, nonché quella riferita alle medesime attività nel 2011, nel caso in cui l’attività rimpatriata sia costituita da denaro. 

Il versamento, con riferimento al valore delle attività ancora segretate al 31 dicembre dell’anno precedente, avviene - entro il 16 luglio di ciascun anno - per il tramite degli intermediari finanziari, che provvedono a trattenere l’imposta del soggetto che ha effettuato l’emersione o ricevono provvista dallo stesso contribuente. Nel caso in cui, nel corso del periodo d'imposta, venga meno in tutto o in parte la segretazione, l'imposta è dovuta sul valore delle attività finanziarie in ragione del periodo in cui il conto o rapporto ha fruito della segretazione.

Gli intermediari segnalano all’Agenzia delle Entrate i contribuenti nei confronti dei quali non è stata applicata e versata l’imposta. Nei confronti dei contribuenti l’imposta è riscossa mediante iscrizione a ruolo. Per l’omesso versamento si applica una sanzione pari all'importo non versato, mentre per l’accertamento e la riscossione dell’imposta, nonché per il relativo contenzioso si applicano le disposizioni in materia di imposte sui redditi.

Per le attività finanziarie oggetto di emersione che, a partire dal 1° gennaio 2011 e fino alla data del 6 dicembre 2011, sono state in tutto o in parte prelevate dal rapporto di deposito, amministrazione o gestione acceso per effetto della procedura di emersione ovvero comunque dismesse, è dovuta, per il solo anno 2012, un’imposta straordinaria pari al 10 per mille. L'intermediario presso il quale il prelievo è stato effettuato provvede a trattenere l'imposta dai conti comunque riconducibili al soggetto che ha effettuato l'emersione o riceve provvista dallo stesso contribuente, anche in caso di estinzione del rapporto acceso per effetto della procedura di emersione.

Lavoro a termine

L'articolo 21 del decreto-legge 112/2008 ha introdotto modifiche alla disciplina del lavoro a termine al fine di promuovere la diffusione di tali contratti garantendo, allo stesso tempo, una più sostanziale tutela ai lavoratori, anche attraverso un maggiore coinvolgimento delle organizzazioni sindacali e la valorizzazione delle fonti pattizie. Successivamente, con la legge n.92/2012 (di riforma del mercato del lavoro), l'intera materia è stata ampiamente rivista.

Nel quadro di una valorizzazione e semplificazione dei contratti a termine, l’articolo 21 del D.L. 112/2008 è intervenuto in primo luogo sui presupposti, precisando che l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato, consentita unicamente a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, è ammessa anche se tali ragioni giustificative sono riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro.
Quanto alla possibilità di prevedere rinnovi dei contratti a termine con lo stesso lavoratore, già circoscritta entro il limite massimo complessivo di 36 mesi (pena la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato a decorrere dalla stipula del contratto) dall'articolo 1, comma 40, della L. 247/2007 (di attuazione del Protocollo del Welfare del 23 luglio 2007), il decreto ha aperto nuovi spazi alla fonte contrattuale, introducendo la possibilità di derogare ai limiti di legge da parte dei contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ai medesimi contratti collettivi è consentito, altresì, di derogare alla disciplina sulla precedenza nelle assunzioni (in base alla quale i lavoratori a termine hanno diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato fatte dal datore di lavoro entro 12 mesi).

L’articolo 21 del D.L. 112/2008 aveva introdotto, inoltre, una disciplina transitoria, valevole nei soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore del decreto-legge, in base alla quale nei casi di violazione delle norme sui presupposti e sulle modalità relative alla stipulazione del contratto a termine o alla sua proroga, il datore di lavoro era tenuto unicamente a liquidare un indennizzo al lavoratore compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione (non trovava applicazione, pertanto, la sanzione della trasformazione ex lege del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato: la norma era volta, essenzialmente, a trovare uno sbocco legislativo all'annoso contenzioso che vedeva coinvolti numerosi dipendenti a termine di Poste italiane S.p.a.). Tale disciplina transitoria è stata tuttavia dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 214/2009, in quanto configurante una indebita disparità di trattamento tra lavoratori.

Successivamente è intervenuto l’articolo 32 della L. 183/2010 (cd. collegato lavoro), che ha introdotto disposizioni sui criteri di determinazione della misura del risarcimento nei casi in cui è prevista la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.

La materia è stata quindi ampiamente rivista dalla L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (articolo 1, commi 9-13), che ha, in particolare, previsto:

Da ultimo, a fronte di talune rigidità emerse in fase applicativa applicativa in relazione all'incremento dell'intervallo di tempo oltre il quale la stipula di un nuovo contratto a termine dopo la scadenza del precedente si considera come assunzione a tempo indeterminato, il legislatore è nuovamente tornato sulla materia con l'articolo 46-bis del D.L. 83/2012, stabilendo che i termini ridotti possono essere sempre applicati alle attività stagionali e in ogni altro caso previsto dalla contrattazione collettiva.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Documenti e risorse web

Approfondimento: Lavoro a tempo determinato: quadro normativo

Il contratto di lavoro a tempo determinato è disciplinato dal D.Lgs. 368/2001, adottato in attuazione della direttiva 1999/70/CE 28 giugno 1999 (relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato) che ha riformato interamente la disciplina dell'apposizione del termine al contratto di lavoro, abrogando la precedente normativa in materia (L. 230/1962, articolo 8-bis del D.L. 17/1983, articolo 23 della L. 56/1987.

Con tale provvedimento è stata modificata profondamente la precedente impostazione normativa (in base alla quale il rapporto di lavoro a termine era vietato, tranne nei casi tassativi indicati dalla legge e dai contratti collettivi) ammettendo di regola il contratto a tempo determinato, salvo i casi in cui è espressamente vietato.

Su tale impianto normativo è successivamente intervenuta la L. 247/2007, che ha modificato il D.Lgs. 368/2001 stabilendo, in primo luogo, che il contratto di lavoro subordinato sia stipulato normalmente a tempo indeterminato, nonché un limite massimo di durata (pari a 36 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi), nell'ipotesi di successione di contratti a termine, oltre il quale il contratto si considera a tempo indeterminato.

Da ultimo, la L. 92/2012, intervenendo nuovamente sul D.Lgs. 368/2001, ha precisato che il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, apportando profonde modifiche alla disciplina del contratto a termine.

 

Occorre ricordare che non sono soggetti all'applicazione del D.Lgs. 368/2001, in quanto regolamentati da una disciplina specifica e in quanto preordinati al conseguimento della formazione e all'inserimento al lavoro (ai sensi della circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 42 del 2002) i contratti di lavoro temporaneo, i contratti di formazione e lavoro, i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate alla formazione attraverso il lavoro (come ad esempio i tirocini e gli stage) i quali, se pur caratterizzati dall'apposizione di un termine, non costituiscono, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, del D.Lgs. 368/2001, rapporti di lavoro subordinato.



Apposizione del termine e prolungamento del contratto

L’articolo 1 del D.Lgs. 368/2001 consente l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro. L'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni.

L’articolo 1, comma 9, della L. 92/2012 ha apportato una serie di modifiche alla disciplina. In primo luogo si segnala l’esclusione del requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (riferibili anche all'ordinaria attività del datore di lavoro) (c.d. acausalità) ai fini della stipulazione di un primo contratto di lavoro a termine, purché esso sia di durata non superiore a 1 anno.

In tali casi il contratto non può comunque essere oggetto di proroga. Una ulteriore ipotesi di esclusione del requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, opera nei casi, previsti dalla contrattazione collettiva, in cui l’assunzione avvenga nell’ambito di particolari processi produttivi (determinati dall’avvio di una nuova attività, dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente).

E’ stato inoltre escluso il requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (riferibili anche all'ordinaria attività del datore di lavoro), ai fini della prima missione di un lavoratore nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato.

In ogni caso, tale nuova forma di contratto (c.d. acausale) non può essere oggetto di proroga (articolo 4, comma 2-bis, del D.Lgs. 368/2001).

 

L'articolo 3 del D.Lgs. 368/2001 prevede che l’apposizione del termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato sia vietata per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che tale contratto sia concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti; presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine; da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi.

 

L’articolo 4 del D.Lgs. 368/2001  prevede che il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni.

 

L’articolo 5 del D.Lgs. 368/2001, modificato sostanzialmente dall’articolo 1, comma 9, della L. 92/2012, prevede che nel caso in cui il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell'articolo 4, il datore di lavoro sia tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo, al 40% per ciascun giorno ulteriore. Se il rapporto di lavoro continua oltre il trentesimo giorno (in luogo dei precedenti 20) in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi ovvero oltre il cinquantesimo giorno (in luogo dei precedenti 30) negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. Oltre a ciò, è stato introdotto l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare al Centro per l'impiego territorialmente competente, entro la scadenza della durata del rapporto prevista dal contratto, che il rapporto continuerà, indicando anche la durata della prosecuzione.

Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell'articolo 1, entro 60 giorni (in luogo dei precedenti 10) dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero entro 90 giorni (in luogo dei precedenti 20) dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Peraltro, nell’ambito di particolari processi produttivi (determinati dall’avvio di una nuova attività, dal lancio di un prodotto o di un servizio innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente), i contratti collettivi possono prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione di tali intervalli di tempo (fino a 20 giorni in caso di contratti di durata inferiore a 6 mesi; fino a 30 giorni in caso di contratti di durata superiore).

Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.

 

Il comma 4-bis dell’articolo 5 del D.Lgs. 368/2001 prevede poi che, ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti e fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato. In deroga a quanto disposto dalla sopracitata disposizione, tuttavia, un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono con avvisi comuni la durata del predetto ulteriore contratto. In caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché nel caso di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato. Secondo quanto disposto dalla L. 92/2012, ai fini del calcolo del limite complessivo di 36 mesi (superato il quale, anche per effetto di proroghe o rinnovi di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto a termine si considera comunque a tempo indeterminato) si deve tenere conto anche dei periodi di missione nell'ambito di contratti di somministrazione (a tempo determinato o indeterminato) aventi ad oggetto mansioni equivalenti e svolti tra gli stessi soggetti.

 

Il comma 4-quater dell’articolo 5 del D.Lgs. 368/2001 dispone che lavoratore il quale, nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha (fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine.

 



Estinzione del rapporto

Il rapporto di lavoro a tempo determinato si estingue con lo scadere del termine previsto; la cessazione del rapporto deve essere comunicata al Centro per l'impiego entro i 5 giorni successivi solo se avviene in data diversa da quella comunicata all'atto dell'assunzione In ogni caso, il rapporto di lavoro a termine può cessare prima della scadenza del termine per comune volontà delle parti oppure per recesso per giusta causa.

 

L’articolo 32, commi 3 e 4, della L. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) ha previsto l’applicazione dell’articolo 6 della L. 604/1966 (relativo ai termini di impugnazione dei licenziamenti) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto e all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, nonché alcune specifiche disposizioni per i contratti in corso di esecuzione o già conclusi al 24 novembre 2010.

 

Successivamente, l’articolo 1, commi 11-12 della L. 92/2012 è intervenuto in materia, ampliando i termini per l'impugnazione (anche extragiudiziale) e per il successivo ricorso giudiziale (o per la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato), nel contenzioso relativo alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro. Il primo termine è stato elevato da 60 a 120 giorni (decorrenti dalla cessazione del contratto), mentre il secondo termine è stato ridotto da 270 a 180 giorni (decorrenti dalla precedente impugnazione). I nuovi termini si applicano con riferimento alle cessazioni di contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1° gennaio 2013.

 

Infine, si segnala che l’articolo 1, comma 13, della L. 92/2012 ha fornito una norma di interpretazione autentica dell’articolo 32, comma 5, della L. 183/2010, relativamente al risarcimento del danno subìto dal lavoratore nelle ipotesi di conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato.

La norma di interpretazione autentica (avente, quindi, effetto retroattivo) è volta a chiarire che l'indennità onnicomprensiva costituisce l'unico risarcimento spettante al lavoratore, anche in relazione alle conseguenze retributive e contributive, concernenti il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento giudiziale di conversione del rapporto di lavoro.

La norma di interpretazione autentica si pone in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303/2011, con la quale si ritiene, in primo luogo, che “in termini generali, la norma scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Difatti, l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della L. 183/2010 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario”. La Corte prosegue, poi, affermando che “l’indennità onnicomprensiva prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della L. 183/2010, non è ipotizzabile come “aggiuntiva al risarcimento dovuto secondo le regole di diritto comune” e pertanto “assorbe l’intero pregiudizio subìto dal lavoratore a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, dal giorno dell’interruzione del rapporto fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio.

Lavoro accessorio

In tema di lavoro accessorio si sono succeduti una serie di provvedimenti volti ad ampliare la possibilità di ricorrere a tale forma contrattuale, intervenendo sui requisiti per l'accesso, sulla previsione di nuove tipologie contrattuali, sulla possibilità (in via sperimentale) del ricorso a tale tipologia di lavoro per coloro che percepiscono prestazioni integrative del salario o di sostegno del reddito e sul ricorso al lavoro accessorio da parte di pubbliche amministrazioni. Da ultimo, la materia è stata ampiamente rivista, in senso restrittivo, dalla legge n.92/2012 di riforma del mercato del lavoro.

Il decreto-legge 112/2008

Il primo intervento legislativo sul lavoro accessorio (articolo 22 del D.L. 112/2008), oltre a confermare la possibilità di utilizzare le prestazioni di lavoro accessorio (inteso come attività di natura occasionale) nell’ambito dei lavori di giardinaggio, di pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi e monumenti, di manifestazioni sportive, culturali o caritatevoli o di lavori di emergenza o di solidarietà, nell’insegnamento privato supplementare e nell’impresa familiare (limitatamente al commercio, al turismo e ai servizi), ne ha esteso l’applicazione all’agricoltura e al lavori domestici. Nel settore agricolo, in particolare, sono riconducibili al lavoro accessorio le attività di carattere stagionale svolte da pensionati e studenti con meno di 25 anni e le attività (da chiunque svolte)  in favore dei produttori agricoli aventi un volume di affari annuo non superiore a 7.000 euro.

Altre tipologie di lavoro accessorio di nuova introduzione riguardano le attività lavorative rese nei periodi di vacanza da parte di giovani con meno di 25 anni di età, regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università o un istituto scolastico di ogni ordine e grado, secondo l’idea dei tirocini estivi, nonché le attività lavorative rese nell’ambito della consegna porta a porta e della vendita ambulante di stampa quotidiana e periodica.

Per quanto concerne i requisiti soggettivi, il lavoro accessorio non viene più limitato alle prestazioni occasionali rese dai soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne. Inoltre, è stata abrogata la tassativa elencazione delle categorie di soggetti che potevano rendere prestazioni di lavoro accessorio (ossia i disoccupati da oltre un anno; le casalinghe, gli studenti e i pensionati; i disabili e i soggetti in comunità di recupero; i lavoratori extracomunitari, regolarmente soggiornanti in Italia nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro).

Al fine di rendere immediatamente operativa la disciplina sulle prestazioni di lavoro accessorio, si prevede che il Ministro del lavoro individui con apposito decreto il concessionario del servizio e stabilisca i criteri e le modalità per il versamento dei contributi e delle relative coperture previdenziali e assicurative.

Il decreto-legge 5/2009

Con l’articolo 7-ter del D.L. 5/2009 è stato ulteriormente ampliato l’ambito oggettivo di riferimento del lavoro accessorio, includendovi anche le manifestazioni fieristiche e l’ipotesi di un committente pubblico nei casi di lavori di emergenza e solidarietà.

Tra le prestazioni occasionali svolte da giovani con meno di 25 anni di età, regolarmente iscritti all'università o ad istituti scolastici di ogni ordine e grado durante i periodi di vacanza, sono stati inseriti anche i periodi coincidenti con il sabato e la domenica, specificando che tali prestazioni riguardano qualsiasi settore produttivo.

Inoltre, è stato ampliato l’ambito soggettivo di riferimento del lavoro accessorio, con l’inserimento di nuove figure come le casalinghe che effettuano attività agricole di carattere stagionale e le prestazioni svolte in qualsiasi settore produttivo da parte dei pensionati.

Infine, si è previsto, in via sperimentale fino al 31 dicembre 2012 (per effetto di quanto stabilito dall’articolo 6, comma 2 del D.L. 216/2011) che le prestazioni di lavoro accessorio, in tutti i settori produttivi, possano essere svolte anche dai percettori di prestazioni integrative del salario o sostegno al reddito, entro il limite massimo di 3.000 euro per anno solare. Tali prestazioni devono essere comunque compatibili con il diritto a percepire qualsiasi trattamento di sostegno al reddito previsto dalla legislazione vigente in materia di ammortizzatori sociali subordinato alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale. Pertanto, tali soggetti potranno cumulare il buono con il quale ricevono il proprio compenso, con gli emolumenti ottenuti mediante il ricorso a prestazioni accessorie.

Il decreto-legge 78/2009

L’articolo 17, comma 26, del D.L. 78/2009 ha introdotto il lavoro accessorio tra le tipologie di utilizzabili da parte delle amministrazioni pubbliche in caso di esigenze temporanee ed eccezionali (Il lavoro flessibile nella P.A. ).

La legge 191/2009

L'articolo 2, commi 148-149, della L. 191/2009 (legge finanziaria 2010) da un lato ha ulteriormente ampliato la possibilità di ricorrere al lavoro acvcessorio, anche comprendendovi settori in precedenza esclusi; dall'altro ha precisato che il ricorso al lavoro accessorio nel settore pubblico è consentito unicamente nel rispetto dei vincoli previsti dalla disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e ove previsto dal patto di stabilità interno.

 

La legge 92/2012 (riforma del mercato del lavoro)

La L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro (articolo 1, commi 32 e 33), nel quadro di un intervento complessivo volto a limitare l'abuso delle forme contrattuali flessibili, ha ristretto l'ambito di operatività dell'istituto del lavoro accessorio. In particolare, si ridefiniscono i limiti di applicazione dell’istituto sulla base del solo criterio dei compensi (e non già, come previsto dalla normativa previgente, anche con riferimento a specifici settori economici), prevedendo che il loro importo complessivo non può essere superiore a 5.000 euro nel corso di un anno solare, con riferimento alla totalità dei committenti; per quanto concerne le prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali o professionisti, fermo restando il limite dei compensi fissato in linea generale a 5.000 euro annui, si prevede che le attività svolte a favore di ciascun committente non possono comunque superare i 2.000 euro annui;  viene soppressa la norma che consentiva alle imprese familiari di ricorrere al lavoro accessorio per un importo complessivo, in ciascun anno fiscale, fino a 10.000 euro; vengono soppresse le discipline sperimentali (previste dalla normativa previgente fino al 31 dicembre 2012) che consentivano prestazioni di lavoro accessorio da parte di titolari di contratti di lavoro a tempo parziale e di percettori di prestazioni integrative del salario o sostegno al reddito.

Il decreto-legge 83/2012

Da ultimo, al fine di ampliare le possibilità di ricorrere al lavoro accessorio anche in considerazione dell'aggravarsi della crisi economica, poco dopo l''entrata in vigore della legge di riforma del mercato del lavoro il legislatore è nuovamente tornato sulla materia con l'articolo 46-bis del D.L. 83/2012. La norma dispone, per il solo 2013, che i percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito possano (in deroga a quanto previsto dalla legge di riforma del mercato del lavoro) svolgere prestazioni di lavoro accessorio in tutti i settori produttivi (compresi gli enti locali, fermi restando i vincoli vigenti in materia di contenimento delle spese di personale) nel limite massimo di 3.000 euro di corrispettivo per anno solare.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Documenti e risorse web

Approfondimento: Lavoro accessorio: quadro normativo

Il lavoro accessorio è disciplinato dagli articoli da 70 a 74 del D.Lgs. 276/2003 (come ripetutamente modificati, nel corso della Legislatura, dal D.L. 112/2008, dal D.L. 5/2009, dal D.L. 78/2009, dalla L. 191/2009, dal D.L. 83/2012 e dalla L. 92/2012).

Ai sensi dell’articolo 70, comma 1, primo periodo, del D.Lgs. 276/2003,  per prestazioni di lavoro accessorio si intendono le attività lavorative di natura occasionale nel caso in cui diano complessivamente luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi non superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare (annualmente rivalutati sulla base della variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell'anno precedente).

Le prestazioni possono rese  in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con qualsiasi lavoratore (salvo alcuni limiti nel settore agricolo), mentre per quanto concerne le  prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali o professionisti (fermo restando il limite dei compensi fissato in linea generale a 5.000 euro annui), si prevede che le attività svolte a favore di ciascun committente non possono comunque superare i 2.000 euro annui.

 

Prima dell’intervento in senso restrittivo della L. 92/2012 il lavoro accessorio si configurava nelle prestazioni occasionali che dessero complessivamente luogo, in riferimento ad ogni committente, un compenso non superiore a 5.000 euro annui per attività svolte nei seguenti settori: lavori domestici; lavori di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi e monumenti; insegnamento privato supplementare; manifestazioni sportive, culturali, fieristiche o caritatevoli e di lavori di emergenza o di solidarietà anche in caso di committente pubblico; attività svolte in qualsiasi settore produttivo, compresi gli enti locali, le scuole e le università, il sabato e la domenica e durante i periodi di vacanza da parte di giovani con meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università; attività agricole di carattere stagionale effettuate da pensionati, da casalinghe e da giovani, ovvero delle attività agricole svolte a favore dei produttori agricoli con volume d’affari annuo non superiore a 7.000 euro; impresa familiare di cui all'articolo 230-bis c.c.; consegna porta a porta e della vendita ambulante di stampa quotidiana e periodica; qualsiasi settore produttivo, compresi gli enti locali da parte di pensionati; attività di lavoro svolte nei maneggi e nelle scuderie. Le imprese familiari potevano infine utilizzare prestazioni di lavoro accessorio per un importo complessivo non superiore, nel corso di ciascun anno fiscale, a 10.000 euro.

Inoltre, la stessa L. 92/2012 ha soppresso le discipline sperimentali (previste dalla normativa previgente fino al 31 dicembre 2012) che consentivano prestazioni di lavoro accessorio da parte di titolari di contratti di lavoro a tempo parziale nonché di percettori di prestazioni integrative del salario o sostegno al reddito, a condizione che fosse rispettato un limite massimo degli emolumenti ricevuti, pari a 3.000 euro per anno solare e che tali prestazioni fossero comunque compatibili con quanto disposto dall’articolo 19, comma 10, del D.L. 185/2008, il quale subordina il diritto a percepire qualsiasi trattamento di sostegno al reddito previsto dalla legislazione vigente in materia di ammortizzatori sociali, alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale.

Mutuando in parte quanto previsto in precedenza come disciplina sperimentale, per il 2013 le prestazioni di lavoro accessorio possono essere altresì rese, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, fermo restando il rispetto dei vincoli previsti dalla normativa vigente in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno, nel limite massimo di 3.000 euro di corrispettivo per anno solare, da soggetti titolari di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito.

Riguardo alla possibilità di prestazioni rese da dipendenti pubblici, occorre ricordare che la circolare INPS n. 88 del 9 luglio 2009 precisa che per questi si applichi l’articolo 53 del D.Lgs. 165/2001, in tema di incumulabilità, cumulo di impieghi e incarichi, che prevede la richiesta di autorizzazione, da parte di soggetti sia pubblici che privati, all’amministrazione di appartenenza per lo svolgimento di tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. La stessa norma peraltro esclude dalla richiesta di autorizzazione i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento, i docenti universitari a tempo definito e le altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.

Per quanto concerne le attività agricole, sono state escluse le casalinghe dal novero dei soggetti abilitati mentre sono stati confermati i pensionati e giovani con meno di venticinque anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici (ovvero in qualunque periodo dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università). Inoltre, si specifica che le attività agricole svolte a favore dei soggetti di cui all’articolo 34, comma 6, del decreto del D.P.R. 633/1972 (ossia produttori agricoli con volume d’affari annuo non superiore a 7.000) non possono comunque essere svolte da soggetti iscritti l’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.

Al riguardo, con la circolare n. 18 del 18 luglio 2012 il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha ritenuto che, proprio in ragione della specialità del settore agricolo, non trovi applicazione l'ulteriore limite di euro 2.000 previsto in relazione alle prestazioni rese nei confronti degli imprenditori e professionisti.

L’articolo 72 disciplina le modalità di assolvimento dell’obbligo retributivo e contributivo connesso alle prestazioni, prevedendo che esso avviene attraverso l’acquisto presso le rivendite autorizzate, da parte dei datori di lavoro, di uno o più carnet di buoni per prestazioni di lavoro accessorio (cd. voucher), che garantiscono la retribuzione nonché la copertura previdenziale ed assicurativa, da consegnare al prestatore di lavoro accessorio. Il valore nominale dei buoni è fissato con specifico decreto, con il quale vengono anche stabiliti gli aggiornamenti periodi del valore stesso, ed è stabilito tenendo conto della media delle retribuzioni rilevate per le attività lavorative affini a quelle richiamate in precedenza, nonché del costo di gestione del servizio.

Inoltre, i buoni devono essere orari, numerati progressivamente e datati; si prevede, quindi, che in sede di adozione del decreto ministeriale chiamato ad aggiornare periodicamente il valore nominale dei buoni, si dovrà tener conto delle “risultanze istruttorie del confronto con le parti sociali”.

Attualmente il valore nominale del buono, fissato con D.M. 30 settembre 2005, è pari a 10 euro e non è ricollegato ad una retribuzione minima oraria (nota INAIL n. 6464/2010).

I compensi percepiti dal lavoratore sono computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Al riguardo, si segnala che la circolare n. 4 del 2013 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha sottolineato che ai sensi dell’articolo 26, comma 3, del D.Lgs. 286/1998 “il lavoratore non appartenente all’Unione europea deve comunque dimostrare di disporre di idonea sistemazione alloggiativa e di un reddito annuo, proveniente da fonti lecite, di importo superiore al livello minimo previsto dalla legge per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria”. Inoltre, ai sensi dell’articolo 13 del D.P.R. 394/1999 “ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno (…) la documentazione attestante la disponibilità di un reddito da lavoro o da altra fonte lecita, sufficiente al sostentamento proprio e dei familiari conviventi a carico può essere accertata d’ufficio sulla base di una dichiarazione temporaneamente sostitutiva resa dall’interessato con la richiesta di rinnovo”.

Sempre riguardo alle caratteristiche dei buoni, la circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 4/2013 ha sottolineato che, “considerata la natura preventiva della comunicazione sull’utilizzo del lavoro accessorio, al fine di consentire la massima flessibilità sia del voucher telematico, sia di quello cartaceo, il riferimento alla data non può che implicare che la stessa vada intesa come un arco temporale di utilizzo del voucher non superiore ai 30 giorni decorrenti dal suo acquisto”.

E’ stata infine dettata una disciplina transitoria per l’utilizzo (articolo 1, comma 33, della legge 92/2012), secondo la previgente disciplina, dei buoni per prestazioni di lavoro accessorio già richiesti alla data di entrata in vigore della stessa L. 92/2012 (e cioè il 18 luglio 2012) e comunque non oltre il 31 maggio 2013. In sostanza, i buoni già acquistati possono essere utilizzati entro il 31 maggio 2013 rispettando la precedente disciplina “anche e soprattutto in relazione al campo di applicazione del lavoro accessorio” (come specificato dalla circolare n 4/2013).

Il monitoraggio sui dati relativi ai voucher riscossi, venduti e sul numero dei lavoratori così retribuiti è effettuato dall’INPS.

Il prestatore di lavoro accessorio percepisce il proprio compenso presso il concessionario (individuato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali con apposito decreto, con il quale sono anche regolamentati i criteri e le modalità per il versamento dei contributi e delle relative coperture assicurative e previdenziali), all'atto della restituzione dei buoni ricevuti dal beneficiario della prestazione di lavoro accessorio. Tale compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del prestatore di lavoro accessorio.

Spetta al concessionario provvedere al pagamento delle spettanze alla persona che presenta i buoni, registrandone i dati anagrafici e il codice fiscale, nonché effettuare il versamento per suo conto dei contributi per fini previdenziali alla Gestione separata INPS (in misura pari al 13% del valore nominale del buono, e per fini assicurativi contro gli infortuni all'INAIL (in misura pari al 7% del valore nominale del buono), trattenendo l'importo autorizzato dal decreto a titolo di rimborso spese.

L’articolo 72, comma 4, dispone l’adeguamento delle aliquote dei contributi previdenziali rispetto a quelle previste per gli iscritti alla Gestione separata dell’INPS, da rideterminare con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Si ricorda che (nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 5425 del 2011) al lavoro accessorio non è applicabile il criterio generale di ripartizione del carico previdenziale tra committente e prestatore di lavoro, previsto dall'articolo 2, comma 30, della L. 335/1995, con la conseguenza che i contributi previdenziali, compresi nel valore nominale del voucher, sono a totale carico del committente.

Per l'impresa familiare trova applicazione la normale disciplina contributiva e assicurativa del lavoro subordinato (art. 72, comma 4-bis, del D.Lgs. 276/2003).

Come specificato nella circolare INPS n. 88/2009 e successivamente confermato dalla circolare INPS n. 17/2010 e dalla circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 4 del 18 gennaio 2013, le prestazioni accessorie devono essere svolte direttamente a favore dell'utilizzatore della prestazione, senza il tramite di intermediari. Pertanto, è da ritenersi escluso che un'impresa possa utilizzare lavoratori per svolgere prestazioni a favore di terzi, come nel caso dell'appalto o della somministrazione di lavoro.

Le iniziative UE sull'occupazione

L''Unione europea ha avviato a partire dal 2010, con la definzione della strategia Europa 2020, delle iniziative per rilanciare l'occupazione in Europa. In tale contesto, la Commissione europea ha presentato nell'aprile 2012 un pacchetto di azioni specifiche e nel dicembre 2012 delle proposte dedicate espressamente alla disoccupazione giovanile. La Commissione europea nell'ambito della procedura di coordinamento delle politiche economiche per il 2013 del cosidetto "semestre europeo" ha, inoltre, indicato delle priorità volte a stimolare la ripresa dell'occupazione in Europa.

Tra gli obiettivi della strategia Europa 2020, avviata dal Consiglio europeo nel 2010, figura l'innalzamento entro il 2020 al 75% del tasso di occupazione per la fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni. Al fine di raggiungere tale obiettivo, la Commissione europea ha avviato le seguenti iniziative prioritarie:

 La Commissione europea ha presentato il 18 aprile 2012 un pacchetto di iniziative volte al rilancio dell’occupazione in Europa attraverso un serie di azioni basate su tre assi:

Con particolare riferimento all’occupazione giovanile, la Commissione europea ha poi presentato il 5 dicembre 2012 un ulteriore pacchetto di iniziative, tra le quali in particolare la proposta di introdurre entro il 2013, da parte degli Stati membri, una “Garanzia per i giovani” che assicuri che tutti i giovani di età fino a 25 anni ricevano - entro 4 mesi dal termine di un ciclo d’istruzione formale o dall’inizio di un periodo di disoccupazione - un’offerta di lavoro, di prosecuzione dell’istruzione scolastica, di apprendistato o di tirocinio di qualità elevata.

 

 

Nell’ambito della procedura per il semestre europeo 2013, la Commissione europea ha presentato il 28 novembre 2012 l’analisi annuale della crescita per il 2013, nella quale - per quanto riguarda in particolare la lotta contro la disoccupazione - indica le seguenti priorità:

 

Promuovere la ripresa dell’occupazione

Occupazione giovanile

Dossier pubblicati

Licenziamenti individuali

In materia di licenziamenti individuali il legislatore è intervenuto dapprima con la legge 183/2010 (c.d. collegato lavoro) e, da ultimo, con la legge di riforma del mercato del lavoro, con cui sono state complessivamente riviste le cause di risoluzione del rapporto di lavoro e le conseguenze del licenziamento illegittimo, nonchè introdotte misure per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco.

Impugnazione dei licenziamenti e discrezionalità giudiziale

Con la L. 183/2010 (c.d. collegato lavoro) il legislatore, nell’ambito di un  intervento ad ampio raggio in materia lavoristica, ha razionalizzato la normativa sui licenziamenti individuali in un’ottica di semplificazione e omogeneizzazione, riduzione dei termini procedurali, valorizzazione della volontà delle parti e riduzione del potere discrezionale del giudice.

Per quanto concerne l’impugnazione dei licenziamenti individuali, il provvedimento ha disposto in primo luogo che essa è inefficace se non viene seguita, entro 270 giorni, dal deposito nella cancelleria del tribunale (o dalla comunicazione alla controparte del tentativo di conciliazione), abbreviando notevolmente il termine ordinario di 5 anni per l’innanzi previsto; inoltre, ha previsto che il nuovo termine valga per tutte le cause di illegittimità ed inefficacia del licenziamento e per i licenziamenti intimati nell’ambito di tutte le tipologie di rapporti di lavoro.

Il contenimento della discrezionalità giudiziale viene perseguito innanzitutto attraverso il rafforzamento del valore vincolante dell’accertamento effettuato dalle parti in sede di certificazione dei contratti, il cui ambito di operatività viene peraltro notevolmente ampliato (potendo investire ogni aspetto del rapporto di lavoro e non solo, come in precedenza previsto, la qualificazione del contratto); nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle clausole in esso contenute, infatti, il giudice non potrà discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse nell’ambito della certificazione dei contratti di lavoro, salvo nei casi di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra la previsione negoziale certificata e la sua attuazione. Inoltre, in presenza di disposizioni di legge contenenti clausole generali, il  controllo giudiziale deve limitarsi esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può mai estendersi al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive, le quali spettano al datore di lavoro o al committente.

Per quanto concerne, in particolare, il sindacato giurisdizionale sulle motivazioni del licenziamento, si dispone che il giudice debba tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro (ovvero, se stipulati con l’assistenza delle commissioni di certificazione, nei contratti individuali di lavoro). Analogamente, il giudice deve tener conto degli elementi e dei parametri appositamente individuati dai contratti nello stabilire le conseguenze da riconnettere al licenziamento (tutela obbligatoria o tutela reale) e, a tal fine, deve comunque tener conto di una serie di elementi, quali le dimensioni e le condizioni dell’attività del datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, il comportamento delle parti contrattuali anche nel periodo precedente al licenziamento.

I licenziamenti individuali nella legge di riforma del mercato del lavoro

La L. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro ha operato, com’è noto, una complessiva ridefinizione delle cause di risoluzione del rapporto di lavoro e delle conseguenze del licenziamento illegittimo, nel senso di una riduzione dell’area della tutela reale.

Nel caso di licenziamento nullo (perché discriminatorio o adottato in presenza di una causa di divieto) o intimato in forma orale, viene sostanzialmente confermata la normativa previgente, che prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (tutela reale), indipendentemente dal motivo formalmente addotto e dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, nonchè un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità). Resta fermo, poi, che il lavoratore può optare, in alternativa, per un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale.

Nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, rispetto alla disciplina previgente, che prevedeva in ogni caso l’obbligo di reintegrazione del lavoratore nelle imprese oltre i 15 dipendenti (o oltre i 5 se si tratta di imprenditore agricolo), si introduce una distinzione tra:

Nel caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giustificato motivo oggettivo, non trova più applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (prevista dalla normativa previgente nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice riconosce un’indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale; tuttavia, il giudice, nel caso in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo, può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) e riconoscere un’indennità risarcitoria pari a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Nel caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione, della procedura disciplinare o della procedura di conciliazione, non trova più applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) (prevista dalla normativa previgente nelle imprese sopra i 15 dipendenti) e il giudice riconosce al lavoratore un’indennità risarcitoria complessiva determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale (ai fini della determinazione in concreto dell’indennità il giudice deve tenere conto della gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, e motivare in modo specifico al riguardo). 

La legge introduce, poi, una nuova disciplina sulla preventiva convalida delle dimissioni presentate dalla lavoratrice o dal lavoratore in alcune specifiche circostanze, in primo luogo con l’obiettivo di contrastare il fenomeno delle c.d. dimissioni in bianco.

Infine, la legge modifica alcune norme introdotte dal collegato lavoro (L. 183/2010), da un lato riducendo (da 270) a 180 giorni il termine entro il quale, successivamente all’impugnazione del licenziamento (pena la sua inefficacia), deve essere depositato il ricorso in cancelleria; dall’altro precisando che l’inosservanza da parte del giudice dei limiti al suo sindacato in ordine alle clausole generali (che deve essere limitato, come detto, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente), costituisce motivo di impugnazione del provvedimento giudiziale per violazione di norme di diritto.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Approfondimento: Il contrasto al fenomeno delle dimissioni in bianco

La pratica delle cd. dimissioni “in bianco” consiste nel far firmare le dimissioni al lavoratore (in bianco, appunto) al momento dell’assunzione e quindi nel momento in cui la posizione dello stesso lavoratore è più debole, pratica riguardante prevalentemente le donne lavoratrici.

Al fine di contrastare tale fenomeno, rendendo meno difficoltoso l’onere probatorio relativo alla nullità delle dimissioni volontarie, nel corso della XV Legislatura la L. 188/2007 aveva disposto che la validità della lettera di dimissioni volontarie, presentata dal “prestatore d'opera” (lavoratori subordinati e cd. “parasubordinati”) e volta a dichiarare l'intenzione del medesimo soggetto di recedere dal contratto di lavoro, fosse subordinata, fatte salve le disposizioni concernenti il recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato e il rispetto dei termini di preavviso di cui all’articolo 2118 c.c., all’utilizzo, a pena di nullità, di appositi moduli predisposti e resi disponibili, gratuitamente, dagli uffici provinciali del lavoro e dagli uffici comunali.

Destinatari della norma erano tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, e la nuova disciplina si applicava ai contratti di lavoro subordinato, indipendentemente dalle caratteristiche e dalla durata, ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, alle prestazioni occasionali di collaborazione, ai contratti di associazione in partecipazione nonché ai contratti di lavoro instaurati dalle cooperative con i propri soci.

I moduli avevano una validità temporale massima di quindici giorni dalla data di emissione ed erano realizzati secondo determinate specifiche tecniche.

 In seguito alle difficoltà (soprattutto di carattere burocratico) emerse in sede di applicazione della normativa (evidenziate soprattutto da parte delle imprese) nel corso della XVI Legislatura il legislatore ha provveduto ad abrogare, con l’articolo 39, comma 10, del D.L. 112/2008, la richiamata L. 188/2007.

Del tema si è quindi interessata, nuovamente, la XI Commissione (Lavoro) della Camera dei deputati, che ha avviato l'esame di alcune proposte di legge (C. 3409, C. 4958, C. 4967, C. 4988, C. 5094) senza peraltro pervenire all'adozione di un testo unificato. 

L'abrogazione della L. 188/2007 lasciava comunque impregiudicato l'impianto normativo a tutela dei lavoratori (e, in particolare) delle lavoratrici (ispirato alle medesime esigenze di tutela, sebbene solo in corrispondenza di specifici eventi, della L. 188/2007) di cui agli articoli 54-56 del D.Lgs. 151/2001 e all'articolo 35, comma 4, del D.Lgs. 198/2006.

L’articolo 54 del D.Lgs. 151/2001 dispone che le lavoratrici non possano essere licenziate dall'inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento non si applica nel caso di colpa grave da parte della lavoratrice; di cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta; di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; di esito negativo della prova. Durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, né essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo salvo specifiche eccezioni.

L’articolo 55 prevede che in caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto il divieto di licenziamento, la lavoratrice abbia diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. Tale previsione riguarda anche padre lavoratore e si applica anche nel caso di adozione e di affidamento, entro un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare. Il comma 4, in particolare, prevede che la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, debba essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio, e costituisce condizione per la risoluzione del rapporto di lavoro. 

L’articolo 56, riconosce il diritto delle lavoratrici alla conservazione del posto di lavoro, nonché del rientro nella stessa unità produttiva in precedenza occupata o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino (o fino ad un anno dall’ingresso del minore adottatto o affidato nel nucleo familiare); hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti, nonché di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro, se avvenute.

L'articolo 35, comma 4, del D.Lgs. 198/2006, recante il Codice delle pari opportunita' tra uomo e donna, stabilisce la nullità delle dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, purché segua la celebrazione, ad un anno dopo la celebrazione stessa, salvo che siano dalla lavoratrice medesima confermate entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro.

Sull’impianto del D.Lgs. 151/2001 il nuovo Governo (Monti) è intervenuto con l’articolo 4, commi 16-23, della L. 92/2012, che ha modificato la disciplina sulla preventiva convalida delle dimissioni presentate dalla lavoratrice (o dal lavoratore) in alcune circostanze, con l’obiettivo di rafforzare la tutela e meglio combattere la pratica delle dimissioni in bianco.

Più specificamente, la norma ha esteso ai primi 3 anni di vita del bambino (da uno) la durata del periodo in cui opera l’obbligo di convalida delle dimissioni volontarie, nonché ai primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento (sempre da uno) la durata del periodo in cui opera l’obbligo di convalida delle dimissioni volontarie (specificando che in caso di adozione internazionale i tre anni decorrono dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando ovvero della comunicazione dell'invito a recarsi all'estero per ricevere la proposta di abbinamento).

Nei richiamati casi, l’istituto della convalida è esteso anche al caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, specificando che la stessa costituisce condizione sospensiva per l'efficacia della cessazione del rapporto di lavoro (la normativa previgente già la poneva come condizione, ma senza specificarne la natura sospensiva).

Inoltre, sono state previste modalità alternative di convalida(rispetto a quelle richiamate in precedenza), al rispetto delle quali viene subordinata l’efficacia delle dimissioni o della risoluzione consensuale del rapporto (convalida effettuata presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dalla contrattazione collettiva, o, in alternativa, sottoscrizione di apposita dichiarazione apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 21 della L. 264/1949). Ulteriori modalità semplificate di accertamento della veridicità della data e della autenticità della dichiarazione del lavoratore, sono demandate ad un apposito decreto (che non risulta ancora essere stato pubblicato sulla G.U.).

Nel caso in cui non si proceda alla convalida o alla sottoscrizione, il rapporto di lavoro si intende risolto, per il verificarsi della condizione sospensiva, qualora la lavoratrice o il lavoratore non aderiscano, entro il termine di sette giorni dalla ricezione, all’invito a presentarsi presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti (ovvero presso le sedi individuate dalla contrattazione collettiva) ovvero all’invito ad apporre la predetta sottoscrizione (trasmesso dal datore di lavoro tramite comunicazione scritta) ovvero all’effettuazione della revoca.

La comunicazione contenente l’invito si considera validamente effettuata quando recapitata al domicilio della lavoratrice o del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o comunicato al datore di lavoro, ovvero consegnata alla lavoratrice o al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta.

Nel termine di sette giorni dalla ricezione (sovrapponibili al periodo di preavviso lavorato), la lavoratrice o il lavoratore hanno facoltà di revocare le dimissioni e la risoluzione consensuale, offrendo le proprie prestazioni al datore di lavoro. La revoca può essere comunicata in forma scritta. Il contratto di lavoro, se interrotto per effetto del recesso, torna ad avere corso normale dal giorno successivo alla comunicazione della revoca. Per il periodo intercorso tra il recesso e la revoca, qualora la prestazione lavorativa non si sia svolta, il prestatore non matura alcun diritto retributivo. Alla revoca del recesso consegue la cessazione di ogni effetto delle eventuali pattuizioni a esso connesse e l'obbligo in capo al lavoratore di restituire tutto quanto eventualmente percepito in forza di esse.

Le dimissioni sono inefficaci qualora, in mancanza della convalida ovvero della sottoscrizione, il datore di lavoro non trasmetta alla lavoratrice o al lavoratore la comunicazione contenente l’invito entro il termine di trenta giorni dalla data delle dimissioni e della risoluzione consensuale.

Infine, nelle ipotesi in cui il datore di lavoro abusi del foglio firmato in bianco dalla lavoratrice o dal lavoratore al fine di simularne le dimissioni o la risoluzione consensuale del rapporto, è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 ad euro 30.000, salvo che il fatto costituisca reato. L’accertamento e l’irrogazione della sanzione sono di competenza delle Direzioni territoriali del lavoro, con applicazione, in quanto compatibili, le disposizioni della L. 689/1981.

Approfondimento: Impugnazione dei licenziamenti individuali

L’articolo 32 della L. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro ) disciplina le modalità e i termini per l’impugnazione dei licenziamenti individuali nonché i criteri di determinazione della misura del risarcimento nei casiin cui è prevista la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.

Al comma 1 (che sostituisce i commi 1 e 2 dell’articolo 6, della L. 604/1966) si prevede che l’impugnazione del licenziamento avvenga, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla ricezione, in forma scritta, della sua comunicazione ovvero dalla comunicazione dei motivi, con qualsiasi atto scritto anche extragiudiziale, purché idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale.

Tale impugnazione è inefficace se entro i successivi 270 giorni  il ricorso non è depositato nella cancelleria del tribunale competente o non viene data comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Inoltre, viene fatta espressamente la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.

Infine, qualora la conciliazione o l’arbitrato non vadano a buon fine, il ricorso deve essere presentato entro 60 giorni dal rifiuto o mancato accordo.

Si fa presente che l’articolo 2 comma 54, del D.L. 225/2010, recante la proroga di termini previsti da disposizioni legislative, ha stabilito che, in sede di prima applicazione, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011 le disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento sopra esposte.

 

Il comma 2 disponeche la nuova disciplina sull’impugnazione dei licenziamenti trovi applicazione in tutti i casi di invalidità del licenziamento.

I commi 3 e 4 precisano che i termini previsti al comma 1 per l’impugnazione del licenziamento si applicano anche:

a)   ai licenziamenti che presuppongano la risoluzione di questioni attinenti alla qualificazione del rapporto lavorativo ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto ;

b)   al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, di cui all’art. 409, n. 3 del c.p.c. ;

c)    al trasferimento del lavoratore subordinato da un’unità produttiva ad un’altra, ai sensi dell’articolo 2103 c.c ;

d)   a tutte le tipologie di contratti di lavoro a tempo determinato. In particolare, vengono richiamate le disposizioni che fanno riferimento ai contratti di lavoro a tempo determinato disciplinati sia dal D.Lgs. 368/2001 sia dalla disciplina previgente, nonché all’azione di nullità del termine apposto a tale tipo di contratto ;

e)   alla cessione del contratto di lavoro ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile ;

f)     in ogni altro caso in cui, compresa la somministrazione irregolare (art. 27 del D.Lgs. 276/2003), si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.

 

I commi 5, 6 e 7 dettano norme, valevoli anche per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge, volte a disciplinare il risarcimento del lavoratore nel caso in cui, a seguito della violazione delle norme relative al contratto di lavoro a tempo determinato, sia prevista la sua trasformazione in contratto a tempo indeterminato.

In particolare, si prevede l’obbligo per il datore di lavoro di risarcire il lavoratore con una indennità onnicomprensiva da 2,5 a 12 mensilità, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della L. 604/1966.

L’indennità sopra indicata viene ridotta alla metà nel caso di contratti o accordi collettivi che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati a termine nell’ambito di specifiche graduatorie. Tali disposizioni trovano applicazione anche ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge.

Pari opportunità

Ai fini della piena attuazione del principio della parità di genere, che trova il suo fondamento negli articoli 3 e 51 della Costituzione, nel corso della XVI legislatura sono state approvate due importanti leggi: la legge n. 120/2011, che riserva al genere meno rappresentato almeno un terzo dei componenti dei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e delle società pubbliche, e la legge n. 215/2012, volta a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nelle amministrazioni locali, che modifica, fra l'altro,. Il sistema elettorale dei comuni, introducendo la cd. doppia preferenza di genere. E' inoltre proseguito il recepimento della normativa europea sulla parità di trattamento tra uomini e donne e sono state adottate specifiche misure per il sostegno alla genitorialità.

Parità nella vita politica

La legge 23 novembre 2012, n. 215, ha introdotto disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nelle amministrazioni locali.
Viene in primo luogo modificata la normativa per l’elezione dei consigli comunali. Per i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, la legge, riprendendo un modello già sperimentato dalla legge elettorale regionale della Campania,  prevede una duplice misura:

Per tutti i comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti è comunque previsto che nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi.
In secondo luogo, il sindaco ed il presidente della provincia sono tenuti a nominare la giunta nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi e gli statuti comunali e provinciali devo stabilire norme per “garantire”, e non più semplicemente “promuovere”, la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Nella legge sulla par condicio, viene infine sancito il principio secondo cui i mezzi di informazione, nell’ambito delle trasmissioni per la comunicazione politica, sono tenuti al rispetto dei principi di pari opportunità tra donne e uomini sanciti dalla Costituzione

Una ulteriore misura volta a favorire la parità di genere nella politica è stata introdotta dalla legge di riforma del finanziamento della politica che prevede la decurtazione del 5% dei contributi per i partiti che presentano un numero di candidati del medesimo sesso superiore ai due terzi del totale. La disposizione si applica alle elezioni politiche, europee e regionali (art. 1, comma 7, L. 96/2012).

Per quanto riguarda la disciplina dei partiti, l’Assemblea della Camera, nell’ambito della proposta di legge approvata definitivamente il 5 luglio 2012 (legge n. 96 del 2012), in materia di finanziamento dei partiti e movimenti politici ha introdotto un emendamento (em. 1.212, Amici ed altri), in base al quale i contributi pubblici spettanti a ciascun partito o movimento politico sono diminuiti del 5 per cento qualora il partito o il movimento politico abbia presentato nel complesso dei candidati ad esso riconducibili per l'elezione dell'assemblea di riferimento un numero di candidati del medesimo genere superiore ai due terzi del totale, con arrotondamento all'unità superiore.

Parallelamente, la Commissione affari costituzionali della Camera ha esaminato alcune proposte di legge finalizzate ad introdurre una disciplina organica dei partiti politici, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Alcune di queste prevedono misure di riequilibrio della rappresentanza di genere negli organi dirigenti del partito; di particolare rilievo la previsione del limite della rappresentanza di ciascun genere fissato a due terzi (A.C. 244 e A.C. 506) o al 55% (A.C. 4194). Una proposta (A.C. 1722) reca anche l’obbligo di formare le liste di candidati per qualsiasi elezione in misura eguale di uomini e donne.

Infine, si segnala che diverse delle proposte di legge di riforma del sistema elettorale nazionale presentate in Parlamento nel corso della legislatura prevedono misure volte a promuovere le pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive. Alcune proposte hanno questo unico obiettivo e non intervengono a modificare altre parti della legge elettorale (A.C. 687 e A.C. 1410 alla Camera e A.S. 2, A.S. 17, A.S. 93, A.S. 104, A.S. 257 e A.S. 708 al Senato). Altre proposte prevedono misure di riequilibrio della rappresentanza nell’ambito di interventi complessivi sul sistema elettorale.
Nel complesso, le proposte di legge in materia di riequilibrio di genere presentano soluzioni diverse in ordine all’ambito di applicazione, al rapporto numerico tra i due sessi, all’ordine di successione delle candidature e, infine, alle modalità sanzionatorie. Tali soluzioni possono essere così sintetizzate:
§ è previsto l’obbligo di rispettare una proporzione tra i due sessi nelle candidature: le liste devono presentare lo stesso numero di candidati uomini e di candidati donne; ovvero nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai 2/3 o al 60% del totale dei candidati;
§ si interviene sull’ordine di successione delle candidature, per rendere effettiva la parità di genere nell’offerta elettorale: le proposte che introducono la rappresentanza paritaria dei due sessi nelle candidature prevedono l’obbligo dell’alternanza dei due generi (un uomo, una donna, un uomo ecc.), mentre le proposte che scelgono una proporzione diversa (2/3, 60%) vietano la successione immediata di più di due candidati dello stesso sesso;
§ si prevedono sanzioni nel caso di mancata applicazione delle disposizioni in materia di parità: nella maggior parte dei casi, l’inammissibilità delle liste, oppure la nullità delle candidature, o la riduzione dei rimborsi elettorali.
Il testo unificato approvato dalla Commissione affari costituzionali del Senato nella seduta dell'11 ottobre 2012 prevede:
§ per le cc.dd. ‘liste bloccate’ l’obbligo di presentare i candidati successivi al primo in ordine alternato di genere, a pena di inammissibilità della lista;
§ per le liste di candidati da eleggere con il voto di preferenza, una quota di lista pari ad almeno un terzo per i candidati del sesso meno rappresentato, a pena di inammissibilità, e l’espressione del voto attraverso la cd. doppia preferenza di genere.
Un emendamento approvato successivamente ha peraltro sostituito alla doppia preferenza la cd. tripla preferenza di genere, riconoscendo all’elettore la possibilità di esprimere fino a tre preferenze; nel caso di espressione di più di una preferenza, la scelta deve comprendere candidati di entrambi i generi, pena l'annullamento della seconda e terza preferenza.

 

Parità di accesso agli organi delle società quotate

Il Parlamento ha approvato la legge n. 120/2011, che reca disposizioni in materia di parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. La nuova legge è volta a superare il problema della scarsa presenza di donne negli organi di vertice delle società commerciali e, in particolare, nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. A tal fine è previsto un “doppio binario” normativo: per le società non controllate da pubbliche amministrazioni, la disciplina in materia di equilibrio di genere è recata puntualmente dalle disposizioni di rango primario. Tali disposizioni si intendono applicabili anche alle società a controllo pubblico. In particolare, si dispone che lo statuto societario deve prevedere che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l'equilibrio tra i generi, dovendo il genere meno rappresentato ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti. Per un approfondimento, si rinvia al temaParità di accesso agli organi delle società quotate.

Parità in materia di occupazione ed impiego

L’attuazione del principio delle pari opportunità e delle parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego è il tema del D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5. Il decreto recepisce la direttiva 2006/54/CE che riunifica e sostituisce una serie di precedenti atti in materia di pari opportunità. Il provvedimento interviene innanzitutto con alcuni correttivi al codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al D.Lgs. 198/2006, precisando che esso è finalizzato all’adozione delle misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso che comprometta o impedisca il riconoscimento, il godimento o l'esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo. Inoltre, la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione, come anche in quello della formulazione e attuazione di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività.
In secondo luogo, viene ampliata la definizione di discriminazione, che riguarda anche ogni trattamento meno favorevole subito in ragione dello stato di gravidanza, di maternità o di paternità, nonché in conseguenza del rifiuto di atti di molestie o di molestie sessuali, mentre il divieto di ogni forma di discriminazione viene esteso alle promozioni professionali. Ulteriori novelle al Codice riguardano il divieto di discriminazione nelle forme pensionistiche complementari collettive, il concetto di vittimizzazione, la possibilità per i contratti collettivi di lavoro prevedere misure specifiche - ivi compresi codici di condotta, linee guida e buone prassi - per la prevenzione delle forme di discriminazione come le molestie e le molestie sessuali.
Il D.Lgs. 5/2010 interviene inoltre (articolo 2) sulle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 151/2001, nel senso di vietare qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole per lo stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti. Inoltre, le norme sul divieto di licenziamento delle lavoratrici nel periodo di gravidanza si applicano anche in caso di adozione e di affidamento.
Da ultimo, viene modificata la disciplina dei vari organi impegnati sul fronte delle pari opportunità. In particolare, è aumentato il numero dei componenti designati da alcune parti sociali e sono ampliati i compiti del Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, mentre si mantiene il mandato quadriennale con un rinnovo limitato a due volte delle consigliere e dei consiglieri di parità.
Infine, viene modificata la composizione della Commissione per le pari opportunità di cui al D.P.R. 115/2007 e quella del Comitato per l'imprenditoria femminile. Le funzioni di questi due organi, alla scadenza dei medesimi saranno peraltro defintivamente trasferite al Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio a seguito del riordino degli organi collegiali disposto dal decreto-legge sulla 'spending review' (articolo 12, comma 20, del D.L. 95/2012).

 

Per quanto riguarda il sostegno alla genitorialità, la legge di riforma del mercato del lavoro (L. 92/2012, art. 4, commi 24-26).
- ha introdotto per i padri lavoratori dipendenti un giorno di congedo di paternità obbligatorio e due giorni di congedo facoltativo, questi ultimi peraltro alternativi al congedo obbligatorio di maternità. Il congedo deve essere fruito entro i primi 5 mesi di vita del figlio o della figlia e dà diritto ad un’indennità pari al 100% della retribuzione;
- ha riconosciuto alla madre lavoratrice, per gli undici mesi successivi al congedo di maternità, la possibilità di fruire di voucher per l'acquisto di servizi di baby-sitting o di servizi per l'infanzia. Tale possibilità è peraltro riconosciuta nei limiti delle risorse stanziate ed in alternativa al congedo parentale.
Alla nuova disciplina è stata data attuazione con il D.M. 22 dicembre 2012.

In materia di congedi di maternità e congedi parentali è inoltre intervenuto alla fine del 2012 il cd. decreto “salva-infrazioni” (art. 3 D.L. n. 216/2012), il cui contenuto è successivamente confluito nella legge di stabilità 2013 (L. 228/2012, art. 1, commi 336-339).
Le nuove disposizioni:
- estendono alle pescatrici autonome della piccola pesca gli istituti dell’indennità di maternità e del congedo parentale previsti per le lavoratrici autonome;
- rimettono allacontrattazione collettiva la determinazione delle modalità di fruizione delcongedo parentale su base oraria;
- prevedono che il lavoratore e il datore di lavoro concordano, ove necessario, adeguate misure di ripresa dell'attività lavorativa al termine del periodo di congedo parentale.
Agli organismi di parità è infine attribuito il compito di scambiare le informazioni disponibili con gli organismi europei corrispondenti.

In tema di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, l’articolo 38 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha modificato l'articolo 9 della legge 53/2000, che introduce la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione. La norma, a carattere sperimentale, ha subìto nel tempo alcune modifiche per meglio rispondere ai bisogni di conciliazione emersi nel corso dell'attuazione. La modifica, da ultimo contenuta nel citato art. 38 ha ampliato la platea dei potenziali beneficiari ed aggiornato il novero degli interventi finanziabili, rendendo necessaria la stesura di un nuovo regolamento di attuazione, adottato con D.P.C.M. 23 dicembre 2010, n. 277.

All’inizio del XVI legislatura, è stata abrogata, a pochi mesi dall’entrata in vigore, la legge n. 188/2007, volta a contrastare il fenomeno delle cd. “dimissioni in bianco”, che prescriveva per le dimissioni la forma scritta, attraverso l’utilizzo di moduli prestampati o disponibili on line di data certa (art. 34, comma 10, lettera l), D.L. n. 112/2008).
Sul tema è nuovamente intervenuta la legge di riforma del mercato del lavoro, che ha introdotto una diversa disciplina. La nuova normativa subordina l’efficacia delle dimissioni ad una convalida in sede amministrativa o sindacale o, in alternativa, alla sottoscrizione di apposita dichiarazione del lavoratore o della lavoratrice in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro (art. 4, commi 17-23, L. n. 92/2012).
La legge di riforma del mercato del lavoro inoltre ha esteso da 1 a 3 anni di vita del bambino (o di ingresso in famiglia del minore) il periodo di convalida obbligatoria, da parte del servizio ispettivo del ministero del lavoro, delle dimissioni della lavoratrice madre (art. 4, comma 16, L. n. 92/2012).

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Approfondimento: La legge sul riequilibrio della rappresentanze di genere negli enti locali

La legge 23 novembre 2012, n. 215, reca disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali

La novità più significativa è la modifica della legge per l’elezione dei consigli comunali con l’introduzione di misure volte a rafforzare la presenza delle donne, ma di notevole rilievo sono anche gli interventi volti a consolidare la parità di genere nelle giunte e, più in generale, in tutti gli organi collegiali non elettivi di comuni e province.



Elezioni dei consigli comunali e circoscrizionali

Per l’elezione dei consigli comunali, nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti la legge, riprendendo un modello già sperimentato dalla legge elettorale regionale della Campania,  prevede una duplice misura volta ad assicurare il riequilibrio di genere:

In caso di violazione delle disposizioni sulla quota di lista, è peraltro previsto un meccanismo sanzionatorio differenziato, a seconda che la popolazione superi o meno i 15.000 abitanti, che di fatto rende la quota effettivamente vincolante solo nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti.
In particolare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, riduce la lista, cancellando i candidati del genere più rappresentato, partendo dall’ultimo, fino ad assicurare il rispetto della quota; la lista che, dopo le cancellazioni, contiene un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge è ricusata e, dunque, decade.
Nei comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, procede anche in tal caso alla cancellazione dei candidati del genere sovrarappresentato partendo dall’ultimo; la riduzione della lista non può però determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. L’impossibilità di rispettare la quota non comporta dunque in questo caso la decadenza della lista.

Per tutti i comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti è comunque previsto che nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Tale norma ha particolare rilievo per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (ai quali, come visto, non si applica la quota di lista). Essa risulta però priva di sanzione esplicita: tra le verifiche che è chiamata a compiere la Commissione elettorale non viene infatti inserito alcun controllo sul rispetto di questa disposizione.

Le disposizioni esaminate per l’elezione dei consigli dei comuni con popolazione superiore a 15.000 si applicano anche ai consigli circoscrizionali. La disciplina delle modalità di elezione dei consigli circoscrizionali è peraltro rimessa agli statuti comunali; saranno pertanto questi ultimi a dover intervenire, introducendo le necessarie modifiche.
Nel caso in cui lo statuto rinvii, ai fini dell’elezione del consiglio circoscrizionale, alle disposizioni per l’elezione del consiglio comunale, come ad esempio accade a Roma, la nuova normativa appare comunque immediatamente applicabile, senza necessità di modifiche.

La legge nulla dispone in ordine ai consigli provinciali, in quanto il sistema elettorale per questi organi, oramai divenuti di secondo grado (eletti dai consiglieri comunali), è ancora in via di definizione.

Per una valutazione circa l’efficacia delle nuove misure ai fini dell’aumento della rappresentanza femminile, qualche elemento può trarsi dalla situazione dei consigli regionali, in quanto diverse leggi elettorali regionali già prevedono quote di lista analoghe a quelle della nuova legge; la Campania inoltre ha già introdotto anche la doppia preferenza di genere.
Per elezioni regionali, le quote di lista contribuiscono notevolmente all’aumento del numero di donne candidate, ma hanno un impatto molto minore sul numero di donne elette.
Ben più rilevante è invece il meccanismo della doppia preferenza di genere: non è un caso che la Campania sia la regione con la maggior percentuale di donne elette (23%).



Giunte comunali

La nuova legge prevede inoltre che il sindaco nomina la giunta nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi. Uguale disposizione è inserita nell’ordinamento di Roma capitale, per quanto riguarda la nomina della Giunta capitolina.
La disposizione si riferisce formalmente anche alla nomina della giunta provinciale, ma si ricorda che quest’organo risulta in via di soppressione. 

La norma si inserisce in un nutrito filone di giurisprudenza amministrativa che ha più volte annullato le delibere di nomina delle giunte che non rispettavano i principi in materia di parità di genere previsti dai rispettivi statuti.
I giudici amministrativi hanno inoltre riconosciuto il carattere vincolante e non meramente programmatico dei principi di parità di accesso agli uffici pubblici e di pari opportunità sanciti dall’art. 51, primo comma, Cost. e riconosciuti a livello legislativo, dichiarando l’illegittimità delle giunte composte da soli uomini anche in assenza di una specifica disposizione statutaria al riguardo (cfr., fra le altre Tar Sicilia, Palermo, sentenza 15 dicembre 2010, n. 14310; Tar Calabria, Reggio di Calabria, sentenza 27 settembre 2012, n. 589).
Un sentenza del TAR Lazio, fra le prime ad applicare la nuova legge, si è spinta oltre e, dopo aver ribadito il carattere vincolante ed immediatamente precettivo dei principi costituzionali di uguaglianza e di parità di accesso agli uffici pubblici, ha rilevato che “l’effettività della parità non può che essere individuata nella garanzia del rispetto di una soglia quanto più approssimata alla pari rappresentanza dei generi, da indicarsi dunque nel 40 per cento di persone del sesso sotto-rappresentato.” La sentenza ha dunque annullato la delibera di nomina di una giunta comunale, che vedeva la presenza, oltre al sindaco, di una sola donna su sette assessori, pur in assenza di norme dello statuto sulle pari opportunità nella composizione degli organi politici (Tar Lazio, sentenza 21 gennaio 2013, n. 633).



Organi collegiali di comuni e province

La legge modifica inoltre la norma del testo unico degli enti locali (TUEL) che disciplina il contenuto degli statuti comunali e provinciali con riferimento alle pari opportunità.

In particolare, è previsto che gli statuti stabiliscono norme per “garantire”, e non più semplicemente “promuovere” (come nel testo previgente), la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti. 

Gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri statuti e regolamenti alle nuove disposizioni entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge.



Consigli regionali

Per le elezioni regionali è introdotto il principio della promozione della parità tra uomini e donne nell'accesso alle cariche elettive attraverso la predisposizione di misure che permettano di incentivare l'accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive.

In realtà il principio già esiste a livello costituzionale (art. 117, settimo comma, Cost.), ma, trattandosi di una materia rimessa alle regioni, alla legge statale è consentito intervenire solo per le determinazione dei principi fondamentali.



Par condicio

Nella legge sulla parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica (cd. legge sulla par condicio), viene inoltre sancito il principio secondo cui i mezzi di informazione, nell’ambito delle trasmissioni per la comunicazione politica, sono tenuti al rispetto dei principi di pari opportunità tra donne e uomini sanciti dalla Costituzione.



Commissioni di concorso

La nuova legge introduce infine una disposizione volta a consentire, in caso di violazione della norma del codice delle pari opportunità che riserva alla donne un terzo dei posti nelle commissioni di concorso, l’intervento delle consigliere di parità, anche con ricorso in via d’urgenza al giudice.

Sicurezza sui luoghi di lavoro

In attuazione della legge 123/2007, che aveva conferito (nella XV Legislatura) un'ampia delega per la riforma del sistema di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, il Governo è intervenuto con il decreto legislativo 81/2008 (successivamente modificato dal decreto "correttivo" 106/200), con il quale la materia, per molti aspetti attuativa di norme comunitarie, ha trovato una compiuta sistemazione.

Il quadro normativo in materia di sicurezza sul lavoro, definito nelle sue linee essenziali nella prima parte degli anni Novanta (con il decreto legislativo 626/1994) e caratterizzato dalla crescente integrazione tra diritto interno e disciplina di origine comunitaria, ha conosciuto un progressivo ampliamento e assestamento nel corso degli ultimi anni.

L’esigenza di riformare e razionalizzare la normativa relativa alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, oltre che all’esigenza di tradurre nell’ordinamento interno un quadro comunitario in continua evoluzione, trae spinta dal crescente allarme sociale generato dal fenomeno degli infortuni sul lavoro.

Nella XV Legislatura tale esigenza ha condotto all’emanazione della legge 123/2007, che ha conferito un’ampia delega al Governo per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro.

In attuazione della delega è stato emanato il decreto legislativo 81/2008, il quale, (abrogando contestualmente il decreto legislativo 626/1994) contiene la disciplina-quadro in materia, all’interno della quale sono rifluite anche norme contenute in provvedimenti riferiti a rischi connessi a particolari lavorazioni, adottati in attuazione di specifiche direttive comunitarie. Tale provvedimento, pur non assumendo formalmente la natura di “testo unico”, in sostanza ha operato il riassetto e la riforma della disciplina vigente in materia.

Il provvedimento ha in primo luogo introdotto un sistema di prevenzione e sicurezza a livello aziendale, basato sulla partecipazione attiva, con ruoli e responsabilità diverse, di una serie di soggetti chiamati a collaborare con l’obiettivo comune di pervenire alla definizione di un ambiente di lavoro sicuro e salubre.

Per quanto concerne gli elementi di maggiore novità, si segnalano:

In attuazione della medesima legge di delega è stato successivamente emanato il decreto legislativo 106/2009, correttivo del decreto legislativo 81/2008. L’intervento si è reso necessario a seguito delle segnalazioni di criticità emerse nei primi mesi di applicazione del decreto legislativo 81/2008. Tra le nuove disposizioni introdotte dal legislatore delegato si segnalano, in particolare:

Gli stretti legami esistenti tra lavoro nero e sicurezza del lavoro sono ampiamente emersi nel corso dell’ indagine conoscitiva svolta dalla XI Commissione (Lavoro) della Camera (tra il 2009 e il 2010) su lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera.

Una volta portata a compimento la sistemazione del quadro normativo attraverso i decreti delegati, il legislatore è tornato sulla materia della sicurezza sui luoghi di lavoro con misure circoscritte, riguardanti profili specifici.

Con una modifica al Codice degli appalti, l’articolo 4, comma 2, del decreto-legge 70/2011, al fine di combattere la pratica dei ribassi d’asta realizzati attraverso un abbassamento dei livelli di sicurezza, ha sancito che l’offerta migliore nelle gare d’appalto venga determinata al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; viene precisato, poi, che gravi violazioni della normativa in materia di sicurezza (come l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro) comportano l’esclusione dalle gare di appalto delle imprese responsabili.

Al fine di ridurre il carico burocratico per le imprese di minori dimensioni, l’articolo 1, comma 2, del decreto-legge 57/2012, ha previsto la possibilità (fino al 31 maggio 2013) per i datori di lavoro che occupino fino a 10 lavoratori, di effettuare la valutazione dei rischi sulla base di procedure semplificate (autocertificazione).

La legge 177/2012 ha introdotto norme volte a prevenire i rischi derivanti dal rinvenimento di ordigni bellici inesplosi nei cantieri interessati da attività di scavo, istituendo un albo delle imprese (in possesso di specifici requisiti) autorizzate ad eseguire le attività di bonifica degli ordigni.

Risulta solo parzialmente compiuto, invece, il processo di attuazione del decreto legislativo 81/2008 nella parte (articolo 3, comma 2) in cui, per taluni settori (Forze armate e di Polizia, Vigili del fuoco, strutture giudiziarie e penitenziarie, scuole), ha escluso l’applicazione della normativa generale, rimandando a provvedimenti specifici (da adottare entro termini definiti, peraltro ripetutamente prorogati) volti a consentire l’adattamento della disciplina alle esigenze connesse ai particolari servizi espletati e alle peculiarità organizzative dei diversi settori.

Infine, per quanto riguarda la razionalizzazione degli enti pubblici operanti nel settore della sicurezza si ricorda che l’articolo 7, comma 1, del D.L. 78/2010, ha disposto la soppressione di ISPESL e IPSEMA e l'attribuzione delle relative funzioni all’INAIL (prefigurando la nascita di un Polo della salute e della sicurezza sul lavoro).

Approfondimenti

Documenti e risorse web

Approfondimento: Indagine conoscitiva su lavoro nero e caporalato

Nel corso della XVI Lagislatura la XI Commissione ha svolto una indagine conoscitiva su taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro, quali lavoro nero, caporalato e sfruttamento di manodopera straniera. Nel corso delle audizioni, svolte nel periodo compreso tra settembre 2009 e maggio 2010, sono intervenuti rappresentanti delle parti sociali (Confindustria e organizzazioni sindacali, quali CGIL, CISL, UIL e UGL), delle associazioni di categoria dei settori maggiormente coinvolti (ANCE, Coldiretti, Confagricoltura e CIA), di operatori del mercato del lavoro (Consiglio nazionale consulenti del lavoro), di enti previdenziali e assistenziali (INAIL e IPSEMA), di istituzioni, anche pubbliche, e centri di studio, ricerca e statistica (ISTAT, Censis ed Eurispes), di associazioni che agiscono nel settore del volontariato (CARITAS e Medici senza frontiere), nonché del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL). Il ciclo di audizioni si è concluso, nella seduta del 29 aprile 2010, con l'audizione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi.

 

Il documento conclusivo dell'indagine (approvato il 26 maggio 2010 con il voto favorevole dei gruppi di opposizione e l'astensione della Lega nord, che ha espresso riserve in merito alle proposte riguardanti il ruolo della manodopera straniera e vari profili connessi ai fenomeni migratori) sottolinea che occorre rifuggire dalla tentazione di fornire ricostruzioni astratte, avulse dai contesti sociali ed economici del Paese, che sono fortemente differenziati a seconda della zona geografica presa a riferimento. Il lavoro nero sembra infatti presentare caratteristiche più strutturali nel Mezzogiorno, mentre appare più legato a forme di evasione ed elusione fiscale nel Nord d'Italia. In linea generale, pertanto, occorre muoversi con un approccio integrato, che preveda la collaborazione e la concertazione di diversi soggetti istituzionali e non, nonché la messa in campo di vari interventi di natura economica, culturale, politica, repressiva, preventiva, fiscale e di regolazione dei flussi migratori, che sappiano coesistere nell'ambito di un progetto di azioni coerenti e coordinate tra di loro, capaci di orientare le azioni pubbliche nel nuovo contesto internazionale caratterizzato dalla liberalizzazione dei servizi e dalla libera circolazione delle persone.
Per quanto concerne, in primo luogo, i profili connessi alle politiche migratorie, preso atto della rilevanza strategica assunta dalla manodopera straniera nel nostro attuale sistema economico e produttivo (a causa di evidenti ragioni demografiche e culturali che hanno condotto i giovani italiani ad abbandonare talune forme di impiego, ritenute non più qualificate e remunerative), il documento evidenzia la necessità di semplificare le procedure per il rilascio del permesso di soggiorno a favore degli stranieri regolarmente presenti sul territorio, estendere il periodo di soggiorno per ricerca di lavoro (oggi limitato a 6 mesi) e sburocratizzare la normativa sul rinnovo dei permessi stagionali.
Partendo dalla constatazione che il lavoro nero costituisce un elemento di alterazione della competizione tra imprese, occorre poi introdurre strumenti volti a premiare i comportamenti imprenditoriali virtuosi e a sanzionare pesantemente i trasgressori, avendo peraltro cura di discernere tra violazioni sostanziali e violazioni meramente formali.
Appare necessario, poi, promuovere lo sviluppo di enti bilaterali capaci di svolgere attività di collocamento, di formazione e di promozione della salute dei lavoratori, che operino in sussidiarietà rispetto alle funzioni pubbliche, al fine di garantire una forma preventiva di controllo sociale del territorio e di intervenire sulle dinamiche socio-economiche che preludono a fenomeni distorsivi del mercato del lavoro.
Sul versante dei controlli è indispensabile rafforzare e coordinare l'attività ispettiva.
Per quanto concerne il fenomeno del caporalato occorre riflettere sull'opportunità di introdurre norme volte a far valere la responsabilità civilistica degli amministratori di fatto e ad assicurare protezione sociale ai lavoratori che denunciano gli sfruttatori (prevedendo a loro favore il rilascio del permesso di soggiorno); inoltre, occorre monitorare attentamente gli "pseudo" appalti di servizi (che spesso nascondono una fraudolenta fornitura di manodopera) e alleggerire il carico burocratico in capo alle agenzie di somministrazione, al fine di creare un mercato più concorrenziale. Va attentamente valutata, inoltre, l'introduzione di nuove fattispecie penali volte a sanzionare più duramente lo sfruttamento di manodopera.
 Infine, l'indagine ha evidenziato l'esigenza di fronteggiare con mezzi adeguati anche il recente fenomeno del "lavoro in bianco", che si sostanzia in un abuso delle tutele da parte di soggetti che usufruiscono di prestazioni previdenziali o di integrazione del reddito pur non avendone titolo.
Si fa presente, infine, che il lavoro nero e il caporalato, con specifico riferimento al settore agricolo, figurano anche tra i temi di una più ampia indagine conoscitiva , svolta dalla XIII Commissione (Agricoltura) sui fenomeni di illegalità che incidono sul funzionamento e lo sviluppo del sistema agroalimentare.

Approfondimento: Tutela contro gli infortuni e le malattie professionali - Quadro normativo

La tutela assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali, la cui istituzione risale al 1889, è una forma di assicurazione obbligatoria a favore dei lavoratori prevista dalla Costituzione (articolo 38, comma 2) e disciplinata da un apposito Testo Unico, approvato con il D.P.R. 1124/1965 (T.U. delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), modificato successivamente dal D.Lgs. 38/2000, provvedimento emanato in base alla delega di cui all’articolo 55, comma 1, della L. 144/1999, che ha operato un’ampia riforma del sistema assicurativo previgente.

L’assicurazione ha la funzione di garantire una protezione sanitaria ed economica ai lavoratori infortunati o colpiti da malattie professionali, nonché di fornire assistenza economica ai superstiti del lavoratore deceduto. Il costo dell’assicurazione grava esclusivamente sul datore di lavoro mediante il pagamento di appositi premi.

 

Il rapporto assicurativo intercorre tra i seguenti soggetti:

•     l’assicuratore, la cui funzione è svolta per legge in regime di monopolio dall’INAIL (Istituto per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), eccetto che per limitate categorie di lavoratori assicurate presso altri istituti;

•     gli assicuranti, ovvero i datori di lavoro;

•     gli assicurati, ovvero i lavoratori.

 

Le attività soggette ad assicurazione possono essere divise in due principali categorie:

Sono soggetti all’obbligo dell’assicurazione INAIL i datori di lavoro che, nell’esercizio delle attività in precedenza richiamate, occupano persone soggette alla tutela obbligatoria. Datore di lavoro può essere pertanto una persona fisica o una persona giuridica, ente sia privato sia pubblico, compreso lo Stato e gli enti locali.

Sono inoltre considerati datori di lavoro le società cooperative o anche altre società costituite totalmente o in parte da prestatori d’opera, le compagnie portuali nei confronti dei propri iscritti, gli armatori di navi e propri equiparati, le società concessionarie dei servizi radiotelegrafici di bordo, le scuole o gli istituti di istruzione, le case di cura, gli istituti e stabilimenti di prevenzione e di pena, gli appaltatori e concessionari di lavori, gli esercenti dei cosiddetti lavori in economia.

 

L’articolo 4 del D.P.R. 1124/1965, in via generale, dispone che siano obbligatoriamente assicurati coloro che, in modo permanente o avventizio, prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita; sono espressamente inclusi tra gli assicurati anche i lavoratori che, pur in assenza di subordinazione e talvolta anche di vera e propria retribuzione, per la loro posizione sociale sono considerati meritevoli di tutela (a titolo esemplificativo: artigiani, familiari che lavorino alle dipendenze di un datore di lavoro, partecipanti all’impresa familiare, gli associati in partecipazione che svolgono attività manuale, ecc.).

 

Non sono assicurati presso l’INAIL:



Obblighi del datore di lavoro

In primo luogo, il datore di lavoro è tenuto, contestualmente all’inizio dell’attività, a presentare all’INAIL la denuncia dei lavori che intende svolgere. Nel caso in cui ciò non fosse possibile a causa della natura dei lavori o per necessità legate all’inizio dell’attività, il datore di lavoro deve provvedere entro i 5 giorni successivi all’inizio dei lavori.

Contestualmente all’instaurazione del rapporto di lavoro o alla sua cessazione, il datore di lavoro deve comunicare all’INAIL il codice fiscale dei lavoratori assunti o cessati dal servizio.

Inoltre, il datore di lavoro deve far vidimare il libro matricola e il libro paga.

Nello svolgimento del rapporto di lavoro, inoltre, il datore di lavoro è tenuto:

Si ricorda che il premio assicurativo si calcola applicando alle retribuzioni imponibili corrisposte ai lavoratori uno specifico tasso. Sul premio, inoltre, è dovuta un’addizionale pari all’1 per cento.

Nell’ambito della complessiva “gestione industria” di cui al Titolo I del D.P.R. 1124/1965, i datori di lavoro sono inquadrati, ai fini tariffari, in una delle seguenti quattro gestioni separate a seconda dell’attività produttiva esercitata (possono coesistere inquadramenti plurimi):

a)     industria, per le attività: manifatturiere, estrattive, impiantistiche; di produzione e distribuzione dell’energia, gas e acqua; dell’edilizia; dei trasporti e comunicazioni; della pesca; dello spettacolo; per le relative attività ausiliarie;

b)     artigianato, per le attività di cui alla relativa legge-quadro (L. 443/1985);

c)     terziario, per le attività: commerciali, ivi comprese quelle turistiche; di produzione, intermediazione e prestazione di servizi anche finanziari; per le attività professionali ed artistiche; per le relative attività ausiliarie;

d)     altre attività, per le attività non rientranti tra quelle di cui alle precedenti tre lettere: a titolo esemplificativo vengono indicate le attività svolte dagli enti pubblici, compresi lo Stato e gli enti locali, e quelle di cui all’art. 49, comma 1, lettera e), della L. 88/1989, cioè le attività bancarie e di credito, assicurative, esattoriali, e relative ai servizi tributari appaltati;

Il datore di lavoro, entro 30 giorni dal loro verificarsi, deve comunicare all’INAIL notizie sulle variazioni (totali o parziali) riguardanti lo scorporo o la cessazione di una o più lavorazioni, l’estensione e natura del rischio, il domicilio e residenza del titolare della sede e del rappresentante legale dell’azienda, il monte retributivo per effetto di consistenti incrementi o riduzioni di organico;

Il datore di lavoro è inoltre tenuto alla comunicazione all’INAIL delle generalità, le qualifiche e il codice fiscale dei lavoratori assicurati il cui rapporto di lavoro sia cessato od iniziato nel precedente periodo assicurativo.

Il datore di lavoro è obbligato, infine, a consentire all’INAIL l’accertamento diretto in azienda tramite ispezioni.



Eventi tutelati

Gli eventi tutelati sono l’infortunio sul lavoro e la malattia professionale.

L’infortunio sul lavoro è definito come l’evento avvenuto per causa violenta e in occasione di lavoro, da cui derivi la morte del lavoratore, l’inabilità permanente (assoluta o parziale) al lavoro, l’inabilità temporanea assoluta che determina l’astensione al lavoro per più di 3 giorni.

La causa violenta consiste in un fattore che opera dall’esterno, con azione intensa e concentrata nel tempo. Caratteri fondamentali per la causa violenta sono quindi l’esteriorità e la rapidità nel suo manifestarsi, aspetto questo che differenzia l’infortunio dalla malattia professionale.

L’evento avviene in occasione di lavoro quando è il lavoro che determina il rischio, anche al di fuori dell’orario di lavoro. Quindi per occasione di lavoro si intendono tutte quelle condizioni, comprese quelle ambientali, in cui si svolge l’attività produttiva e nella quale è sensibile il rischio di danno per il lavoratore, nonché ogni altra condizione ricollegabile in modo diretto o indiretto allo svolgimento dell’attività lavorativa.

L’assicurazione, inoltre, tutela anche il cd. infortunio in itinere, cioè quello occorso durante il normale percorso di andata e ritorno dall’abitazione al luogo di lavoro, il percorso che collega due luoghi di lavoro nel caso in cui il lavoratore è titolare di più rapporti di lavoro, ed il percorso di andata e ritorno tra il luogo di lavoro e quello di consumazione abituale dei pasti (se non è previsto il servizio di mensa aziendale).

In caso di infortunio occorso al lavoratore con prognosi medica superiore a 3 giorni il datore di lavoro deve denunciare l’infortunio entro 2 giorni da quando ne ha avuto notizia, indipendentemente da ogni valutazione sulla possibile indennizzabilità.

Il datore di lavoro, inoltre, entro 2 giorni deve dare notizia dell’infortunio alle autorità di pubblica sicurezza del comune in cui si è verificato l’evento. Il datore, infine, deve anche provvedere ai soccorsi, deve annotare sull’apposito registro l’infortunio che comporta l’assenza dal lavoro per almeno un giorno, escluso quello dell’evento, e deve consentire l’accesso degli ispettori in azienda.

A carico del lavoratore, invece, sussiste l’obbligo di dare immediata notizia di qualsiasi infortunio al proprio datore di lavoro.

Nel caso in cui ci sia violazione di tale obbligo, il lavoratore perde il diritto all’indennità di legge per i giorni antecedenti a quello in cui il datore di lavoro ha avuto notizia dell’infortunio. Il lavoratore, inoltre, deve sottoporsi alle visite mediche e chirurgiche ritenute necessarie dall’INAIL.

In caso di simulazione d’infortunio o di aggravamento doloso delle conseguenze il lavoratore perde il diritto alle prestazioni, ferme restando le sanzioni previste dalla legge.

 

Per quanto attiene alla malattia professionale, si ricorda che il T.U. e una successiva sentenza della Corte costituzionale (la 179 del 10 febbraio 1988) hanno sancito il riconoscimento dell’obbligo assicurativo delle malattie professionali, introducendo un sistema misto di tutela che prevede due diverse tipologie di malattie professionali, a seconda che siano contenute in una specifica tabella allegata al D.P.R. 1124/1965 (malattie tabellate) oppure non incluse nella medesima tabella (malattie non tabellate).

In sostanza, il quadro normativo prevede che per le malattie tabellate viga il principio della presunzione legale di origine, mentre per quelle non tabellate spetta al lavoratore l’onere di provarne l’origine professionale.

Si ricorda che secondo la giurisprudenza l’elenco delle malattie tabellate è tassativo per cui non può ricorrersi all’interpretazione analogica (così come stabilito dalla Corte di Cassazione, sentenza 9 marzo 1990, n. 1919). L’indennizzo delle malattie professioni segue specifiche procedure a seconda se la malattia sia o meno tabellata.

In presenza di una malattia professionale, il datore di lavoro ha l’obbligo di denunciarla entro i 5 giorni successivi al giorno in cui il lavoratore gliene ha comunicato la manifestazione. La denuncia deve essere corredata da un certificato medico e deve essere presentata all’INAIL.

Il lavoratore ha l’obbligo di denunciare la malattia professionale entro 15 giorni dalla sua manifestazione. In caso di omissione o ritardo di tale adempimento il lavoratore perde il diritto all’indennizzo per tutto il periodo precedente alla denuncia.

In caso di malattia professionale è coinvolto anche un altro soggetto, il medico, che è tenuto alla compilazione del relativo certificato, indicando una serie di informazioni relative, tra l’altro, alla sintomatologia. Il medico, inoltre, deve comunicare all’INAIL tutte le notizie ritenute necessarie nonché denunciare specifiche malattie professionali contenute in un apposito elenco approvato dai Ministri del lavoro e della salute alla Direzione provinciale del lavoro e alla sede INAIL competente.

 

In caso di infortunio e malattia professionale, al lavoratore spettano le prestazioni assicurative stabilite dalla legge e consistenti in prestazioni di natura sanitaria (ad es. visite mediche, fornitura di apparecchi di protesi) e prestazioni di natura economica, cioè un trattamento economico erogato dall’INAIL e collegato direttamente alle conseguenze dell’infortunio o della malattia professionale.

Nel caso in cui l’infortunio abbia determinato uno stato di inabilità temporanea assoluta, il datore di lavoro è obbligato a corrispondere la retribuzione per i primi quattro giorni (il 100% della retribuzione il primo giorno e il 60% i tre giorni successivi) mentre l’INAIL provvede per il periodo successivo (60% della retribuzione per i primi 90 giorni e il 75% per i giorni successivi).

Oltre all’indennità per l’inabilità temporanea assoluta, l’INAIL eroga prestazioni per inabilità permanente (cd. rendita diretta), sia assoluta (si ha quando a seguito di infortunio o malattia professionale il lavoratore perde completamente la capacità per tutta la vita) sia parziale (nel caso in cui l’attitudine al lavoro diminuisca in parte, sempre per tutta la vita). In quest’ultimo caso, l’indennità erogata a favore del soggetto interessato varia in relazione alla percentuale di inabilità ottenuta.

Si consideri tuttavia che il D.Lgs. 38 del 2000, recante la riforma dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, ha introdotto l’indennizzabilità del danno biologico di origine lavorativa, qualora l’infortunio abbia causato un’invalidità di carattere permanente. Per danno biologico si intende la lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato.

Pertanto tale nuova disciplina, prendendo in considerazione, ai fini dell’indennizzabilità, il danno alla sfera personale del soggetto nel suo complesso, ha comportato il superamento della precedente disciplina basata sull’erogazione di una rendita diretta per la perdita totale o parziale della sola capacità lavorativa.

Conseguentemente, la disciplina relativa alla rendita diretta si applica agli infortuni sul lavoro verificatisi e alle malattie professionali denunciate fino alla data del 25 luglio 2000 (entrata in vigore del D.Lgs. 38 del 2000), mentre dopo la medesima data si applica la nuova disciplina del risarcimento del danno biologico.

 

Le principali novità introdotte con il D.Lgs. 38/2000 possono ricondursi:

 

L’indennizzo del danno biologico viene erogato: in forma capitale per gradi di invalidità pari o superiori al 6% ed inferiori al 16%; sotto forma di rendita per gradi di invalidità superiori al 16%.

Le prestazioni per danno biologico sono calcolate sulla base di 3 specifiche tabelle (tabella delle menomazioni, tabella dell’indennizzo e tabella dei coefficienti) contenute nel D.M. 12 luglio 2000.

 

Una volta accertata l’indennizzabilità della malattia professionale, l’INAIL provvede al massimo entro 20 giorni dall’evento a liquidare all’infortunato l’indennità per inabilità temporanea assoluta. Nel caso in cui, dopo la guarigione, residuino postumi che determinano un’inabilità permanente indennizzabile, l’INAIL comunica il diritto alle relative prestazioni.

 

La normativa prevede anche ulteriori prestazioni, quali:

 

Infine, si ricorda che l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale possono essere causati, oltre che dal caso fortuito o dalla forza maggiore, dal comportamento del lavoratore, del datore di lavoro o di un soggetto terzo.

Nel caso in cui tali eventi siano imputabili ad un comportamento (anche omissivo) del datore di lavoro o di un terzo, fermo restando il diritto del lavoratore all’indennizzo dell’infortunio sul lavoro e della malattia professionale, tali comportamenti possono dar luogo all’azione di risarcimento dei danni, ai sensi degli articoli 2043 e 2087 del codice civile, da parte del lavoratore o dei suoi superstiti nei confronti del datore di lavoro o del terzo, nonché all’azione dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro o del terzo ai fini del recupero, parziale o totale, dell’importo delle prestazioni erogate (cd. azione surrogatoria dell’INAIL).



Apparato sanzionatorio

Le sanzioni si distinguono in:

Si ricorda, infine, che, ferme restando le sanzioni penali, non si applicano sanzioni amministrative in caso di violazione di obblighi (classico esempio è la mancata denuncia dei lavori) da cui derivi l’omissione totale o parziale del versamento dei premi assicurativi; in tali casi si applicano infatti le sanzioni civili previste per omissione dei versamenti.

Approfondimento: Tutela della salute e della sicurezza sul lavoro - Quadro normativo



Introduzione

In materia di igiene e sicurezza sul lavoro, la Costituzione italiana (articoli 2, 32 e 41) prevede la tutela della persona umana nella sua integrità psico-fisica come principio assoluto ai fini della predisposizione di condizioni ambientali sicure e salubri.

Partendo da tali principi costituzionali la giurisprudenza ha stabilito che la tutela del diritto alla salute del lavoratore si configura sia come diritto all’incolumità fisica sia come diritto ad un ambiente salubre.

Il quadro normativo che disciplina la materia della sicurezza sul lavoro è articolato e complesso. Più specificamente, tale quadro normativo è costituito:

Come detto, una rilevante novità è costituita dal D.Lgs. 81/2008 emanato in attuazione della delega di cui all’articolo 1 della L. 123/2007, per il riassetto e la riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tale decreto legislativo, pur non assumendo formalmente la natura di “testo unico”, in realtà nella sostanza opera il riassetto e il coordinamento in un unico testo normativo della disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Pertanto vengono abrogati i previgenti provvedimenti le cui disposizioni sono “confluite” nel decreto legislativo in questione. Come accennato in precedenza, n in attuazione della medesima legge di delega è stato successivamente emanato il D.Lgs. 106/2009, correttivo del D.Lgs. 81/2008.

L’intervento si è reso necessario a seguito delle segnalazioni di criticità emerse nei primi mesi di applicazione del D.Lgs. 81/2008.

Tra le nuove disposizioni introdotte dallo schema, si segnalano, in particolare:



Il sistema di prevenzione e sicurezza sul lavoro

La disciplina generale in materia di sicurezza sul lavoro definita dal D.Lgs. 626/1994 e “confluita”, con alcune modifiche, nel menzionato D.Lgs. 81/2008, ha introdotto un sistema di prevenzione e sicurezza a livello aziendale basato sulla partecipazione attiva di una serie di soggetti interessati alla realizzazione di un ambiente di lavoro idoneo a garantire la salute e la protezione dei lavoratori.

Le misure principali sono costituite da una serie di linee di intervento, riconducibili:



Ambito soggettivo

L’applicazione della disciplina riguarda tutti i settori di attività, sia privati sia pubblici, e tutte le tipologie di rischio.

Soggetti destinatari degli obblighi previsti dalla disciplina sono:

Soggetti destinatari delle tutele previste dalla disciplina sono – a seguito dell’estensione disposta dal menzionato D.Lgs. 81/2008 -, in linea generale, tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi, nonché i soggetti ad essi equiparati.

Per alcune tipologie di lavoratori si prevedono tuttavia alcune peculiarità applicative, talvolta prevedendo che la disciplina si applichi solamente in parte.



Ambito oggettivo

Obblighi del datore di lavoro

Oltre ad una serie di obblighi di carattere generale, consistenti nell’adozione di tutte le misure, anche se non espressamente previste da norme di legge, necessarie o anche solamente utili ed opportune al fine della prevenzione degli infortuni e della garanzia della massima sicurezza possibile sulla base della tecnologia disponibile, la normativa individua obblighi specifici a carico del datore di lavoro, concernenti:

 

Ai fini della prevenzione l’attività fondamentale risiede nella valutazione del rischio, effettuata dal datore di lavoro in relazione alla natura dell’attività dell’azienda, e che si concretizza nella redazione di un apposito documento al termine della valutazione, contenente una relazione sulla valutazione dei rischi, l’individuazione delle misure di prevenzione e protezione utilizzate, nonché un programma delle misure al fine di garantire il miglioramento della prevenzione nel tempo. La valutazione ed il relativo documento devono comunque essere rielaborati in occasione di significative modifiche del processo produttivo. Inoltre, in ciascuna azienda deve essere presente un Servizio di prevenzione e protezione, formato all’interno della medesima azienda e costituito da dipendenti oppure affidato obbligatoriamente a persone od enti esterni qualificati, qualora le capacità interne siano insufficienti. Il datore di lavoro, infine, in funzione della situazione di fatto e dei rischi ipotizzati, ha l’obbligo di designare preventivamente i lavoratori adibiti alla gestione di possibili emergenze quali incendi, evacuazione del personale, pronto soccorso;

Essa consiste nel portare a conoscenza dei lavoratori sia i pericoli derivanti dai rischi connessi alle lavorazioni o agli impianti, sia l’esistenza ed il corretto utilizzo dei mezzi di protezione. In particolare, il datore di lavoro deve predisporre un’adeguata segnaletica sui luoghi di lavoro, in relazione ad oggetti, attività o situazioni, fornendo al contempo un’adeguata indicazione sulla sicurezza, utilizzando anche cartelli, colori, segnali luminosi ecc. Il datore di lavoro, inoltre, è tenuto a garantire un’adeguata formazione al lavoratore in materia di sicurezza e di salute, con particolare riferimento al posto di lavoro e alle mansioni. Infine, nelle aziende con più di 15 dipendenti il datore di lavoro almeno una volta l’anno deve indire una riunione, al fine di esaminare il documento di valutazione dei rischi, l’idoneità dei mezzi di protezione individuali e i programmi di informazione e formazione, alla quale partecipano i rappresentanti del Servizio di prevenzione e protezione, il medico competente qualora tale figura sia obbligatoria, ed il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La riunione è comunque obbligatoria nel caso in cui siano avvenute variazioni che modifichino le condizioni di esposizione al rischio. In quest’ultima ipotesi è consentito al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di indire la riunione anche nelle aziende che occupano fino a 15 dipendenti. Si ricorda, infine, che tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori è prevista la costituzione di organismi paritetici a livello territoriale, rappresentanti il primo riferimento sui diritti di rappresentanza, informazione e formazione dei lavoratori in materia di sicurezza;

Il sistema di prevenzione è prioritariamente indirizzato alla prevenzione tecnico-organizzativa rispetto a quella personale. I dispositivi di protezione individuale debbano essere impiegati qualora non sia possibile evitare o ridurre significativamente i rischi utilizzando mezzi di protezione collettiva. In particolare, il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti sono obbligati ad esigere dai singoli lavoratori l’utilizzo dei mezzi di protezione individuale. Tale obbligo non può essere derogato né con il consenso del lavoratore né con quello delle organizzazioni sindacali. In relazione a specifiche tipologie di lavorazioni o macchine utilizzate, sono inoltre previste particolari protezioni;

Principalmente gli obblighi concernono la regolare manutenzione dei luoghi e degli impianti, al fine della verifica del loro funzionamento. Per quanto attiene agli aspetti igienici, i principali doveri concernono il rispetto dei limiti minimi dello spazio di lavoro ed il divieto di lavoro in locali sotterranei. Inoltre, specifiche disposizioni riguardano le vie di circolazione, le vie ed uscite di emergenza, l’illuminazione dei locali e la costruzione, installazione e manutenzione degli impianti elettrici. Per quanto attiene alle attrezzature, si ricorda l’obbligo, per il datore di lavoro, di fornire ai lavoratori attrezzature adeguate e idonee ai fini della sicurezza e salute, prevedendo, inoltre, appositi dispositivi di sicurezza nel caso in cui gli elementi delle macchine rappresentino un pericolo;

 

Il trattamento di tali sostanze prevede appositi procedimenti al fine della tutela dei lavoratori. Ad esempio, si prevede la lavorazione in spazi separati delle sostanze particolarmente pericolose o insalubri, nonché particolari forme di raccolta degli scarti e rifiuti generati dalle materie in questione. Il datore di lavoro, inoltre, deve adottare tutti i provvedimenti necessari al fine di contenere lo sviluppo e la diffusione di gas, vapori, polveri, fumi e odori nocivi;

Nell’ambito di specifiche lavorazioni (indicate nell’allegato al D.P.R. 303 del 1956), che espongono il lavoratore a sostanze tossiche o nocive, i lavoratori devono essere obbligatoriamente visitati da un medico competente, sia prima dell’ammissione al lavoro, ai fini della valutazione di idoneità, sia periodicamente, secondo apposite tabelle di lavorazione. Per tali accertamenti il datore di lavoro ha l’obbligo di nominare un medico competente, che può essere dipendente di una struttura esterna – pubblica o privata – convenzionata con lo stesso datore di lavoro, un libero professionista oppure un dipendente del datore di lavoro; comunque il medico competente deve essere in possesso di determinati requisiti professionali. Infine, nelle aziende con più di 25 dipendenti è richiesta la presenza dei presidi sanitari, indispensabili per prestare le prime cure ai lavoratori interessati da incidenti o colti da malore;

E’ obbligo del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti far osservare ai lavoratori le norme di igiene e sicurezza. Da tale obbligo discende anche il dovere di vigilare sul rispetto nei luoghi di lavoro delle richiamate norme.

E’ opportuno ricordare, infine, in relazione agli obblighi del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti, che la normativa vigente prevede anche discipline specifiche, di origine comunitaria, per le attività produttive nelle quali i lavoratori sono esposti a rumore, piombo, amianto, agenti cancerogeni (o mutageni), chimici o biologici, atmosfere esplosive, oppure dove i lavoratori sono addetti ai video terminali o alla movimentazione manuale di carichi. Tali discipline, precedentemente contenute non solamente nel D.Lgs. 626/1994, ma anche in altri provvedimenti, come il D.Lgs. 277/1991, che avevano provveduto a recepire la corrispondente normativa comunitaria, sono attualmente “confluite” nel menzionato D.Lgs. 81/2008 emanato in attuazione della delega di cui all’articolo 1 della L. 123/2007, per il riassetto e la riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Obblighi del lavoratore

Oltre agli obblighi derivanti da specifici ruoli (quali il rappresentante della sicurezza per i lavoratori, i componenti del Servizio i prevenzione e protezione e gli addetti alla prevenzione incendi, evacuazione e pronto soccorso) il lavoratore è coinvolto nel sistema di sicurezza, in una posizione di garanzia attiva rispetto alla tutela della propria e dell’altrui sicurezza e salute.

In particolare, ogni lavoratore ha il dovere, direttamente riconducibile all’obbligo di diligenza, di:

Oltre a ciò, sono previsti anche obblighi negativi, quali il divieto di rimuovere senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza, oppure di compiere di propria iniziativa azioni non di competenza potenzialmente compromettenti la propria sicurezza o quella di altri lavoratori.

Va infine ricordato che la legge riconosce al lavoratore alcuni specifici strumenti di tutela, derivanti anche dalle norme civilistiche. In particolare, si ricorda: il diritto di resistenza (consistente nella legittimazione del rifiuto della prestazione lavorativa svolta in condizioni non sicure); il diritto del lavoratore ad ottenere un altro posto nell’ambito della stessa azienda in seguito all’allontanamento temporaneo del lavoratore per motivi sanitari inerenti alla sua persona connessi all’esposizione ad agenti chimici, fisici o biologici; la possibilità di ricorso al giudice in via cautelare (nel caso in cui il lavoratore ritenga che non sia sufficiente ad evitare situazioni pregiudizievoli far valere i suoi diritti in via ordinaria); il diritto al mutamento di mansioni a causa dell’insorgenza di eventi morbosi; la tutela del lavoratore in caso di malattia causata dall’inadempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi relativi alla sicurezza, che potrebbe comportare per il datore di lavoro l’impossibilità di recedere dal rapporto per superamento del periodo di comporto.

 Responsabilità

L’apparato normativo in materia di igiene e sicurezza individua quali soggetti penalmente responsabili della violazione delle norme oltre ai datori di lavoro, anche i dirigenti ed i preposti con compiti di direzione e sorveglianza delle lavorazioni, nonché gli stessi lavoratori beneficiari delle tutele in materia.

Tra i soggetti attivi della sicurezza sono compresi anche i costruttori e i commercianti, la cui responsabilità si concretizza nel divieto di fabbricare, vendere, noleggiare e concedere in uso macchinari, parti di essi, attrezzature, e apparecchi in genere destinati al mercato interno nonché di installare impianti non rispondenti alla normativa in materia. Specifiche responsabilità sono inoltre previste nel caso in cui il datore di lavoro affidi i lavori all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi.

La legge inoltre prevede che l’esercizio dei poteri-doveri del datore di lavoro possa essere delegato ad altri soggetti, a condizione che non siano gli stessi lavoratori beneficiari della tutela.

Spettano invece esclusivamente al datore di lavoro, e quindi non possono essere delegati, gli obblighi relativi:

A seguito delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 81/2008 (TU sicurezza sul lavoro) emanato in attuazione della delega di cui all’articolo 1 della L. 123/2007, l’apparato sanzionatorio che tende a colpire la violazione delle norme poste a tutela della salute e sicurezza del lavoratore è basato sulla contravvenzione. La disciplina del D.lgs 81 è stata recentemente integrata e corretta ad opera del decreto D.Lgs 106/2009.

Il nuovo decreto correttivo ha rivisitato il precedente apparato sanzionatorio in materia di salute e sicurezza sul lavoro rimodulando gli obblighi (e le conseguenti sanzioni in caso di violazione ) del datore di lavoro, dei dirigenti, dei preposti e degli altri soggetti del sistema aziendale, sulla base dell’effettività dei compiti rispettivamente svolti, proporzionando le sanzioni alle realtà lavorative connotate da rischi particolari.

Controlli

I controlli in materia di sicurezza del lavoro, prevenzione infortuni ed igiene sono attribuiti in via generale alle Aziende Sanitarie Locali (ASL). Di alcune specifiche attribuzioni sono invece titolari i Servizi ispettivi delle Direzioni provinciali del lavoro e le rappresentanze sindacali.

Per la tutela della salute dei lavoratori, le ASL sono dotate di particolari poteri, tra i quali rientrano la prescrizione ad adempiere in caso di accertamento di contravvenzioni e il potere di accesso e di disposizione (cioè il potere, rispettivamente, di visitare in ogni parte e in qualunque ora del giorno cantieri, opifici laboratori nonché i dormitori e refettori annessi agli stabilimenti, e di imporre al datore di lavoro un determinato comportamento, al fine di colmare eventuali vuoti normativi).

Anche i lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.




Il Decreto Legislativo 81/2008

In attuazione della delega di cui all’articolo 1 della L. 123/2007, per il riassetto e la riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro, è stato appunto emanato il D.Lgs. 81/2008.

Il provvedimento, pur non assumendo formalmente la natura di “testo unico”, in realtà nella sostanza opera il riassetto e la riforma della disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro attraverso il riordino e il coordinamento della medesima disciplina in un unico testo normativo (come posto in rilievo dall’articolo 1).

 



Disposizioni generali

Il Titolo I (articoli 1-61) contiene le principali novità rispetto alla normativa vigente, che consistono soprattutto nell’ampliamento del campo di applicazione della disciplina in materia di salute e sicurezza dei lavoratori e nel potenziamento e maggior coordinamento dell’azione pubblica.

L’articolo 1 definisce la finalità del provvedimento, individuata nel riassetto e nel riordino in un unico testo normativo della disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Si precisa che tale finalità viene perseguita nel rispetto dell’ordinamento comunitario e delle convenzioni internazionali oltre che dell’assetto della ripartizione di competenze tra Stato e Regioni, assicurando comunque una uniforme tutela dei lavoratori sull’intero territorio nazionale.

L’articolo 2 reca alcune definizioni, di massima corrispondenti a quelle già contenute nel D.Lgs. 626/1994. Particolarmente importante risulta l’aggiunta, rispetto alla disciplina previgente, delle definizioni di dirigente e di preposto, figure che assumono un ruolo centrale nel porre in essere le misure per la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, della definizione di salute, corrispondente alla definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nonché delle definizioni dei concetti di norma tecnica, di buone prassi e di responsabilità sociale delle imprese, considerati elementi fondamentali per orientare i comportamenti dei datori di lavoro e migliorare i livelli di tutela definiti legislativamente.

L’articolo 3 amplia il campo di applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza, riferibile ora a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio, nonché a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi, nonché ai soggetti ad essi equiparati (c.d. principio di effettività della tutela, che implica la tutela di tutti coloro, a qualunque titolo, operano in azienda).

Tuttavia, lo stesso articolo reca alcune precisazioni riguardo all’applicazione della disciplina per alcune tipologie di rapporti di lavoro o per specifici settori di attività.

L’articolo 4 introduce la regolamentazione del computo dei lavoratori, ove rilevante a fini dell’applicazione della disciplina in materia di salute e sicurezza dei lavoratori. Al riguardo, si dispone che non sono computati, ai fini della determinazione del numero di lavoratori dal quale il provvedimento fa discendere particolari obblighi, i lavoratori legati al datore di lavoro da particolari tipologie di rapporti di lavoro espressamente indicati dalla norma, cioè i collaboratori familiari di cui all’articolo 230-bis c.c., i soggetti beneficiari delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento, gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale, i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato in sostituzione di altri prestatori di lavoro assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro, i lavoratori che svolgono prestazioni occasionali di tipo accessorio nonché prestazioni che esulano dal mercato del lavoro, i lavoratori a domicilio nel caso in cui la loro attività non sia svolta in forma esclusiva a favore del datore di lavoro committente, i volontari, i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile e i volontari che effettuano il servizio civile, i lavoratori utilizzati nei lavori socialmente utili, i lavoratori autonomi, i collaboratori coordinati e continuativi e i lavoratori a progetto ove la loro attività non sia svolta in forma esclusiva a favore del committente.

Lo stesso articolo reca ulteriori disposizioni sulle modalità di computo di altre specifiche categorie di lavoratori.

Il D.Lgs. 106/2009 ha apportato alcune significative modifiche all’articolo in oggetto. In particolare, si aggiunge la categoria dei lavoratori in prova tra quelle non computate ai fini della determinazione del numero di lavoratori dal quale il provvedimento fa discendere particolari obblighi.

Allo stesso tempo, si stabilisce il computo degli operai a tempo determinato, anche stagionali (in luogo dei lavoratori impiegati per l'intensificazione dell'attività in determinati periodi dell'anno nel settore agricolo e nell'ambito di specifiche attività stagionali), viene effettuato per frazioni di unità-lavorative-anno (ULA, che esprime il numero di ore annue corrispondenti ad un'occupazione esercitata a tempo pieno, anche da più lavoratori) come individuate sulla base della normativa comunitaria.

Gli articoli 5 e 6, al fine di attuare quanto disposto dall’articolo 1, comma 2, lettere i) della legge di delega, istituiscono specifici organismi deputati al coordinamento delle attività e delle politiche relative alla salute e sicurezza sul lavoro. Essi sono il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro (presso il Ministero della salute) e la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali).

Si segnala che il D.Lgs. 106/2009 ha attribuito a quest’ultimo organismo il compito di individuare criteri di qualificazione della figura del formatore in materia di sicurezza e salute sul lavoro e di elaborare procedure standard per la redazione del documento di valutazione dei rischi

L’articolo 7, sempre con la finalità di un più efficace coordinamento degli interventi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, dispone che in ogni regione operi un Comitato regionale di coordinamento.

L’articolo 8, attuando l’articolo 1, comma 2, lettere n) ed o), della L. 123/2007, istituisce il Sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro, con lo scopo di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate (comma 1). Il SINP è costituito dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, dal Ministero della salute, dal Ministero dell’interno, dalle regioni e province autonome di Trento e di Bolzano, dall’INAIL, dall’IPSEMA e dall’ISPESL, con il contributo del CNEL (comma 2).

Sempre in riferimento alla razionalizzazione dell’attività di tutela della salute sui luoghi di lavoro, l’articolo 9, in attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera q), definisce compiutamente le competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro di INAIL, IPSEMA ed ISPESL, inquadrandole in un’ottica di sistema.

L’articolo 10 riprende, con modifiche marginali, il contenuto del D.Lgs. 626/1994, relativo all’informazione e all’assistenza in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.

L’articolo 11, in attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera p), della legge di delega, individua una serie di attività di sostegno alle imprese nella effettiva applicazione degli obblighi di legge e di diffusione della cultura della salute e sicurezza. In particolare, il comma 1 prevede la definizione, nell’ambito della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, delle attività promozionali della cultura e delle attività di prevenzione, con particolare riguardo al finanziamento degli investimenti per la sicurezza sul lavoro delle piccole e medie imprese, al finanziamento di progetti formativi dedicati alle medesime tipologie di imprese nonché al finanziamento delle attività formative degli istituti scolastici e delle università volti a promuovere la conoscenza del tema della salute e sicurezza sul lavoro (comma 1). Gli oneri per i richiamati finanziamenti sono a carico delle risorse di cui all’articolo 1, comma 7-bis, della L. 123/2007, che ha stanziato per le menzionate finalità 50 milioni di euro annui, a decorrere dal 2008 (comma 2). Inoltre, si attribuisce alle amministrazioni pubbliche, nell’ambito dei rispettivi compiti istituzionali, la promozione di attività formative destinate ai lavoratori immigrati o alle lavoratrici (comma 6).

L’articolo 12, in attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera v), della L. 123/2007, disciplina la possibilità di inoltrare alla Commissione per gli interpelli istituita presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale gli interpelli inerenti quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, la cui risposta vincola gli organi di vigilanza.

L’articolo 13 effettua una ricognizione delle competenze in materia di vigilanza trovando corrispondenza nell’articolo 23 del D.Lgs. 626/1994, mentre l’articolo 14 riprende le disposizioni di cui alla L. 123/2007 per il contrasto del lavoro irregolare e per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Tale ultima disposizione è stata interessata da successivi interventi normativi. Da ultimo, il D.Lgs. 106/2009 ha previsto che l’ipotesi di sospensione dell’attività imprenditoriale oltre che nel trovare conferma nel caso in cui si riscontri un impiego di manodopera irregolare in misura superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, operi anche in caso di gravi (oltreché reiterate) violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro individuate con apposito decreto (che non risulta essere stato emanato). Tra le ulteriori modifiche introdotte dal D.Lgs. 81, si segnalano la limitare l’arresto dell’imprenditore alle sole ipotesi in cui non rispetti il provvedimento di sospensione disposto per violazioni gravi (oltreché reiterate); l’attribuzione al Comando provinciale dei vigili del fuoco dell’accertamento delle violazioni in materia di prevenzione incendi; l’esclusione della sospensione dell’attività imprenditoriale nei confronti dell’impresa che occupi un solo lavoratore.

Per quanto concerne le misure di prevenzione e tutela, gli articoli 15-26, nel definire la gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro, introducono alcune innovazioni.

In primo luogo, per quanto attiene alle funzioni proprie del datore di lavoro, l’articolo 16 prevede la possibilità della delega di funzioni sottoposta a specifiche limitazioni e condizioni.

I successivi articoli da 17 a 19 identificano in maniera più precisa, rispetto alla normativa previgente, gli obblighi del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti.

Più specificamente, ai sensi dell’articolo 17, non sono delegabili dal datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi con la conseguente adozione dei documenti previsti dall’articolo 28 e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.

Il successivo articolo 18, comma 1, identifica gli obblighi del datore di lavoro e dei dirigenti, tra i quali rientrano: la nomina del medico competente; la designazione preventiva dei lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio; fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente; adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza; adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37; consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di valutazione del rischio; elaborare il documento di valutazione dei rischi connesso con gli obblighi relativi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione e consegnarne copia, su richiesta, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.

Il D.Lgs. 106/2009 ha recato alcune modifiche all’articolo in oggetto, in ordina ai compiti a carico del datore di lavoro e del dirigente. Le modifiche previste specificano dettagliatamente determinate competenze, tra le quali rilevano l’inserimento dell’obbligo di inviare i lavoratori a visita medica nelle scadenze previste e della comunicazione al sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro entro 48 ore dei dati relativi agli infortuni sul lavoro

L’articolo 19 individua gli obblighi del preposto. Tra tali obblighi rientrano: la vigilanza e la sovrintendenza sull’osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione; la verifica inerente al fatto che solamente i lavoratori con adeguate istruzioni possano accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico; la tempestiva informazione dei lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le misure prese o da prendere in materia di protezione; la tempestiva segnalazione al datore di lavoro o al dirigente delle deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, nonché di ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta.

L’articolo 20 individua gli obblighi dei lavoratori, i quali devono in primo luogo prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella degli altri soggetti che si trovano sul luogo di lavoro, su cui possono produrre conseguenze le loro azioni od omissioni. Inoltre, i lavoratori sono tenuti ad una serie di adempimenti specifici indicati dalla norma, tra cui rientrano i seguenti: contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, al rispetto degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro; osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, per la protezione collettiva ed individuale; utilizzare in modo corretto le attrezzature di lavoro, le sostanze pericolose, i mezzi di trasporto, i dispositivi di sicurezza, nonché i dispositivi di protezione; segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi cui sopra, nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza; partecipare ai programmi di formazione e di addestramento; sottoporsi ai previsti controlli sanitari. Per i lavoratori di aziende che svolgono attività in regime di appalto o subappalto, è previsto altresì l’obbligo di esporre la tessera di riconoscimento. Tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a provvedervi per proprio conto.

L’articolo 21 identifica gli obblighi e le facoltà dei componenti delle imprese familiari, dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi, mentre gli articoli 22, 23 e 24 disciplinano rispettivamente gli obblighi dei progettisti, dei fabbricanti e dei fornitori e degli installatori.

L’articolo 25 definisce il ruolo del medico competente, potenziandolo, e individuandone gli obblighi. In particolare, il medico competente, oltre a collaborare con il datore di lavoro ed il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi, alla predisposizione della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori, all’attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e alla organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro, riveste importanza per una serie di funzioni. In particolare:

L’articolo 26, individua, ai fini del potenziamento della solidarietà tra committente ed appaltatore, di cui all’articolo 1, comma 2, lettera s), n. 1, della legge di delega, gli obblighi dei datori di lavoro committenti ed appaltatori nei contratti di appalto. In particolare, vengono riprese le disposizioni di cui all’articolo 3 della L. 123/2007, relativamente al documento unico di valutazione dei rischi da interferenza delle lavorazioni (comma 3) ed alla indicazione dei costi relativi alla sicurezza del lavoro (comma 5). Ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, l’imprenditore committente inoltre (comma 4) è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL o dell’IPSEMA.

Il D.Lgs. 106/2009 ha apportato importanti modifiche all’articolo 26.

In particolare, è stato stabilito:

L’articolo 27, attuando l’articolo 1, comma 2, lettera m), della L. 123/2007, attribuisce alla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro la definizione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, precisando altresì (comma 2) che il possesso dei requisiti per ottenere la qualificazione delle imprese costituisce elemento vincolante per la partecipazione a gare relative agli appalti e subappalti pubblici, nonché per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della finanza pubblica, sempre se correlati ai medesimi appalti i subappalti.

Gli articoli da 28 a 30 recano disposizioni in merito alla regolamentazione della valutazione dei rischi, individuando, rispettivamente, l’obbligo per il datore di lavoro di considerare tutti i potenziali rischi riferibili alla salute e sicurezza dei lavoratori, le modalità di effettuazione della valutazione dei rischi, le caratteristiche che debbono possedere i modelli di organizzazione e gestione.

Il richiamato D.Lgs. 106/2009 ha apportato alcune modifiche all’articolo 28 del D.Lgs. 81. Il nuovo testo prevede, in merito alla regolamentazione della valutazione dei rischi,

Gli articoli da 31 a 35 disciplinano il servizio di prevenzione e protezione. Al riguardo, si segnala che l’articolo 31, comma 7, prevede la costituzione di un unico servizio di prevenzione e protezione nelle aziende con più unità produttive e nei gruppi di imprese.

Gli articoli 36 e 37 concernono la formazione e l’informazione dei lavoratori. Si segnala, al riguardo, che il comma 4 dell’articolo 36 prevede il principio della facile comprensione del contenuto della informazione da parte dei lavoratori, consentendo loro di acquisire le relative conoscenze. Lo stesso articolo dispone altresì l’obbligo di informare i lavoratori immigrati previa verifica della comprensione della lingua utilizzata nel percorso informativo. Il successivo articolo 37 provvede a potenziare la formazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze rispetto alle disposizioni contenute nel D.Lgs. 626/1994.

La Sezione V (articoli da 38 a 42) concerne la sorveglianza sanitaria.

L’articolo 38 definisce i titoli ed i requisiti del medico competente. Per lo svolgimento di tali funzioni è necessario possedere uno dei seguenti titoli:

In generale, per assolvere alle funzioni di medico competente occorre partecipare al programma di educazione continua in medicina.

Infine, si prevede l’istituzione di un albo dei medici competenti presso il Ministero della salute.

Ai sensi dell’articolo 39, l’attività di medico competente deve essere ispirata ai principi della medicina del lavoro e del codice etico della Commissione internazionale di salute occupazionale (ICHO). Il medico, come già attualmente previsto, può operare come dipendente o collaboratore di una struttura esterna pubblica o privata, come libero professionista o come dipendente del datore di lavoro. Per gli accertamenti diagnostici, il professionista può avvalersi della collaborazione di medici specialisti scelti in accordo con il datore di lavoro (il D.Lgs. 626/1994 statuiva invece che la scelta dei collaboratori del medico competente è di competenza del datore di lavoro). Nelle aziende con più unità produttive e negli altri casi in cui risulti necessario, il datore di lavoro può nominare più medici competenti e designarne uno con funzioni di coordinamento.

L’articolo 40 disciplina le modalità ed i tempi con i quali il medico competente deve trasmettere ai servizi interessati i dati sanitari e di rischio dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria. Le regioni trasmettono poi tali informazioni all’ISPESL.

L’articolo 41 reca norme in materia di sorveglianza sanitaria, prevedendo che essa sia svolta, oltre che nei casi in cui è prescritta dalla normativa vigente (analogamente a quanto stabilito dal decreto legislativo 626/1994), anche nelle ipotesi in cui ne faccia richiesta il lavoratore e il medico competente la ritenga correlata ai rischi lavorativi. Innovando la disciplina previgente (che prevedeva solo accertamenti preventivi e periodici), il decreto in esame stabilisce che la sorveglianza sanitaria include la visita medica preventiva intesa a valutare l’idoneità alla mansione specifica, la visita medica periodica, la visita medica richiesta dal lavoratore alle condizioni sopraindicate, la visita medica svolta in occasione del cambio della mansione e la visita medica all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.

Le visite mediche comprendono, a cura e a spese del datore di lavoro, i necessari esami clinici e biologici e le indagini diagnostiche, anche la fine di verificare, nei casi indicati dall’ordinamento, stati di alcol dipendenza o assunzione di sostanze psicotrope e stupefacenti. Il medico competente allega gli esiti delle visite alla cartella sanitaria e di rischio secondo modelli e criteri predefiniti.

All’esito della visita, il medico competente esprime uno dei seguenti giudizi: idoneità; idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni; inidoneità temporanea; inidoneità permanente. Lo stesso medico informa per iscritto il datore di lavoro e il lavoratore dei suddetti giudizi, che possono essere impugnati – come già attualmente previsto – mediante ricorso all’organo di vigilanza territorialmente competente.

Anche quest’articolo ha subito modifiche in seguito all’emanazione del D.Lgs. 106/2009. In sostanza le modifiche previste riguardano:

L’articolo 42, così come modificato dal D.Lgs. 106/2009, stabilisce che, in caso di accertata inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro applica le misure indicate dal medico competente e adibisce il lavoratore ove possibile a mansioni equivalenti o in difetto, a mansioni inferiori garantendo comunque il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Vengono invece abrogate le disposizioni concernenti i casi in cui invece il lavoratore sia adibito a mansioni equivalenti o superiori, per le quali erono richiamate le disposizioni dettate in materia dal codice civile[14] e dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

La Sezione VI (articoli da 43 a 46) riguarda la gestione delle emergenze.

L’articolo 43, che riproduce sostanzialmente l’articolo 12 del D.Lgs. 626/1994, individua alcune disposizioni di carattere generale, con particolare riferimento agli adempimenti a carico del datore di lavoro. In particolare, spetta al datore di lavoro l’organizzazione dei rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, di salvataggio, di lotta antincendio e di gestione dell’emergenza, la designazione dei lavoratori addetti alla prevenzione incendi e alle procedure di esodo, l’informazione dei lavoratori che possono essere esposti ad un pericolo grave ed immediato, la programmazione e l’adozione degli interventi finalizzati all’evacuazione del luogo di lavoro, l’assunzione dei provvedimenti volti a garantire che qualsiasi lavoratore, in caso d’impossibilità di contattare il superiore gerarchico, possa prendere le misure atte ad evitare il pericolo.

L’articolo 44 ripropone le previsioni dell’articolo 14 del decreto legislativo n. 626 del 1994, ribadendo i diritti dei lavoratori in caso di pericolo grave ed immediato. In particolare si esclude qualsiasi pregiudizio ove il lavoratore si allontani dal posto di lavoro in presenza di un pericolo grave ed immediato e che non è possibile evitare.

L’articolo 45 reca norme in materia di primo soccorso, in linea con le previsioni contenute nelle direttive di riferimento (first aid). Nel sancire l’obbligo del datore di lavoro di organizzare il primo soccorso e l’assistenza medica di emergenza secondo la natura dell’attività e le dimensioni dell’azienda, la disposizione rinvia al decreto ministeriale 15 luglio 2003, n. 388, al fine di identificare le caratteristiche minime delle attrezzature di primo soccorso, i requisiti del personale addetto e la sua formazione.

L’articolo 46 regolamenta la prevenzione incendi, che è definita come funzione di preminente interesse pubblico e di esclusiva competenza statuale, diretta a conseguire gli obiettivi di sicurezza della vita umana, di incolumità delle persone e di tutela dei beni e dell’ambiente. E’ altresì esplicitamente affermato l’obbligo di adottare nei luoghi di lavoro idonee misure per prevenire gli incendi e per tutelare l’incolumità dei lavoratori. I Ministri dell’interno e del lavoro e della previdenza sociale sono chiamati ad adottare uno o più decreti finalizzati a definire, oltre alle caratteristiche del servizio di prevenzione e protezione antincendio, anche i criteri per l’individuazione delle misure antincendio, delle misure precauzionali di esercizio, dei metodi di controllo degli impianti e delle attrezzature e dei provvedimenti di gestione delle emergenze.

Al fine di favorire il miglioramento dei livelli di sicurezza antincendio, si demanda ad un decreto del Ministro dell’interno l’istituzione, presso ogni direzione regionale dei vigili del fuoco, di nuclei specialistici per l’effettuazione di attività di assistenza alle aziende.

La norma precisa altresì che le maggiori risorse derivanti dall’espletamento delle funzioni di controllo sono riassegnate al Corpo nazionale dei vigili del fuoco per il miglioramento dei livelli di sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro.

Infine, si prevede che le funzioni relative alla prevenzione incendi, sia per l’attività di disciplina che di controllo, devono essere riferite agli organi centrali e periferici del Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile.

La Sezione VII (articoli da 47 a 52) riguarda la consultazione e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori.

In primo luogo, gli articoli 47 e 48 recano rispettivamente disposizioni in merito al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale. Si consideri che, in attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera g), della L. 123/2007, l’articolo 48 rafforza le competenze del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale.

Il successivo articolo 49 istituisce il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo.

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale, ai sensi del comma 1 dell’articolo 48, esercita le competenze del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di cui al successivo articolo 50 con riferimento a tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza nelle quali non sia stato eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Al fine di favorire la sua attività, il successivo comma 3 prevede che tutte le aziende prive di rappresentanti per la sicurezza debbano partecipare al Fondo di sostegno ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali e alla pariteticità, costituito presso l’INAIL ai sensi del successivo articolo 52. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale ha diritto di accesso ai luoghi di lavoro nei quali esplica la propria attività (comma 4), ha diritto ad una formazione particolare in materia di salute e sicurezza sul lavoro, tale da assicurargli adeguate competenze sulle principali tecniche di controllo e prevenzione dei rischi stessi (comma 7) e non può svolgere altre funzioni sindacali operative (comma 8).

La nuova figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza del sito produttivo è individuato (articolo 49, comma 1), in specifici contesti produttivi, caratterizzati dalla compresenza di più aziende o cantieri, e specificamente:

a)     i porti classificati ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettere b), c) e d) della L. 84/1994 (porti, o specifiche aree portuali, rispettivamente, di rilevanza economica internazionale, di rilevanza economica nazionale e di rilevanza economica regionale e interregionale) sedi di autorità portuale nonché quelli sede di autorità marittima da individuare con appositi decreti;

b)     centri intermodali di trasporto di cui alla direttiva del Ministro dei trasporti del 18 ottobre 2006, n. 3858;

c)     impianti siderurgici;

d)     cantieri con almeno 30.000 uomini-giorno, intesa quale entità presunta dei cantieri, rappresentata dalla somma delle giornate lavorative prestate dai lavoratori, anche autonomi, previste per la realizzazione di tutte le opere;

e)     contesti produttivi con complesse problematiche legate alla interferenza delle lavorazioni e da un numero complessivo di addetti mediamente operanti nell’area superiore a 500.

In tali contesti, la richiamata figura è individuata su iniziativa dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza delle aziende che operino nel sito produttivo interessato (comma 2).

Le modalità di individuazione richiamate nonché le modalità secondo cui il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo esercita le proprie attribuzioni in tutte le aziende o cantieri del sito produttivo in cui non vi siano rappresentanti per la sicurezza sono stabilite dalla contrattazione collettiva, la quale altresì realizza il coordinamento tra i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza del medesimo sito (comma 3).

L’articolo 51 dispone in materia di compiti e prerogative degli organismi paritetici, il cui ruolo di supporto alle imprese, secondo quanto riportato nella relazione illustrativa, risulta notevolmente valorizzato.

Il successivo articolo 52 prevede, come accennato in precedenza, l’istituzione, presso l’INAIL, del Fondo di sostegno alla piccola e media impresa cui partecipano finanziariamente le aziende prive di rappresentanti per la sicurezza (comma 1).

Il Fondo opera a favore delle realtà in cui non sono previsti sistemi di rappresentanza dei lavoratori e di pariteticità migliorativi o, almeno, di pari livello.

Tra gli obiettivi del Fondo rientrano:

Il Fondo è finanziato (comma 2):

Il comma 3 demanda ad un decreto interministeriale la individuazione delle regole di funzionamento del fondo nonché quelle di elezione o designazione dei rappresentanti della sicurezza territoriali, nell’ipotesi in cui tale regole non vengano individuate tramite la contrattazione collettiva, mentre il comma 4 prevede l’obbligo, per il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale di informare il Fondo, tramite una relazione annuale, sulle attività svolte.

Gli articoli 53 e 54 concernono la documentazione tecnico-aministrativa e le statistiche inerenti gli infortuni e le malattie professionali. In particolare, l’articolo 53 prevede espressamente che ogni documentazione rilevante in materia di salute e sicurezza sul lavoro possa essere tenuta tramite sistemi di elaborazione automatica di dati, mentre l’articolo 54 prevede che ogni trasmissione di documentazione o comunicazione a enti o amministrazioni pubbliche possa avvenire tramite sistemi informatizzati, secondo le procedure di volta in volta individuate dalla strutture riceventi.



L’apparato sanzionatorio (articoli 55-61)

Infine, per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, si consideri, come accennato in precedenza, che, in base ai criteri direttivi indicati dalla legge delega n. 123 del 2007, il sistema sanzionatorio delineato dal D.Lgs. 81/2008 è basato sulla contravvenzione. La disciplina del D.lgs 81 è stata recentemente integrata e corretta ad opera del decreto D.Lgs 106/2009.

Il nuovo decreto correttivo ha rivisitato il precedente apparato sanzionatorio in materia di salute e sicurezza sul lavoro rimodulando gli obblighi (e le conseguenti sanzioni in caso di violazione) del datore di lavoro, dei dirigenti, dei preposti e degli altri soggetti del sistema aziendale, sulla base dell’effettività dei compiti rispettivamente svolti, proporzionando le sanzioni alle realtà lavorative connotate da rischi particolari.

In via generale ed in estrema sintesi, con particolare riferimento al datore di lavoro, si prevede la pena dell’arresto da tre a sei mesi o l’ammenda da 2.500 a 6.400 euro per il datore che non abbia effettuato la valutazione dei rischi cui possono essere esposti i lavoratori; la sanzione è più grave (arresto da quattro a otto mesi) se la mancata valutazione riguarda aziende che svolgano attività con elevata pericolosità.

Nella maggior parte dei casi, però, è stabilito che al datore di lavoro si applichi la sanzione dell’arresto alternativo all’ammenda o la sola ammenda, con un’attenta graduazione delle sanzioni in relazione alle singole violazioni.

Risulta confermata dal D.lgs. 106 del 2009 la disciplina della revoca della sospensione dell’attività imprenditoriale da parte dei competenti organi di vigilanza a seguito di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. In tali ipotesi, infatti, il datore di lavoro assolte le sanzioni previste dalla legge e ripristinate le regolari condizioni di lavoro, dovrà pagare per la ripresa dell’attività d’impresa, una somma aggiuntiva di 2.500 euro.

Al contrario, il correttivo 2009 ha abrogato la disposizione che prevedeva la riduzione fino ad un terzo degli illeciti in materia di lavoro puniti con la pena dell'arresto, anche in via alternativa, ove il contravventore, entro i termini di cui all'articolo 491 del codice di procedura penale, si fosse adoperato concretamente per la rimozione delle irregolarità riscontrate dagli organi di vigilanza e delle eventuali conseguenze dannose del reato.



Discipline specifiche

I Titoli da II a XI sono dedicati invece all’attuazione delle specifiche direttive “particolari” in materia di salute e sicurezza sul lavoro rispetto alla direttiva “madre” 89/391/CEE.

In particolare, le disposizioni del Titolo II (articoli 62-68) corrispondono a quelle del Titolo II del D.Lgs. 626/1994, che recepiscono la direttiva 89/654/CEE in materia di prescrizioni minime di sicurezza per i luoghi di lavoro[17] oltre a riprendere alcune disposizioni contenute nel D.P.R. 303/1956 (recante norme generali per l’igiene del lavoro).

In particolare, si segnala tra le novità introdotte quella riguardante la definizione di luogo di lavoro in cui sono compresi anche “i campi, i boschi e altri terreni facenti parte di un’azienda agricola o forestale” i quali prima venivano esclusi dall’applicazione della disciplina recata dal titolo II se situati fuori dall’area edificata dell’azienda (articolo 62).

Inoltre, si precisa l’esigenza di strutturare i luoghi di lavoro tenendo conto dell’eventuale presenza di lavoratori disabili (articolo 63).

Il successivo Titolo III (articoli da 69 a 87), suddiviso in tre Capi, reca disposizioni in materia di “Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale”.

Il Capo I, recante “Uso delle attrezzature di lavoro (articoli da 69 a 73), corrisponde al Titolo III del D.Lgs 626/1994, che ha recepito la direttiva 89/655/CEE relativa ai requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori durante il lavoro oltre a riprendere alcune disposizioni normative di cui al D.P.R. 547/1955 recante norme per la prevenzione degli infortuni.

In particolare, nel testo dello schema di decreto si segnala l’articolo 71, che disciplina gli obblighi del datore di lavoro, il quale riprende sostanzialmente la norma attualmente vigente all’articolo 35 del D.Lgs. 626/1994.

Il D.Lgs. 106/2009 è intervenuto su tale disciplina, in primo luogo prevedendo che il datore di lavoro sia obbligato a prendere le necessarie misure necessarie, tra gli altri, al fine di aggiornare i requisiti minimi di sicurezza, in special modo prevedendo un’adeguata informazione, formazione e addestramento per i lavoratori che utilizzano attrezzature a rischio. Lo stesso datore, inoltre, deve provvedere affinché le attrezzature siano sottoposte ad un controllo iniziale e a successivi controlli periodici secondo le indicazioni fornite dai fabbricanti o in assenza, secondo le pertinenti norme tecniche, buone prassi o linee guida.

Infine, si dispone che le verifiche di valutazione, condotte dall’ISPESL e dalle ASL, siano sottoposte ad un termine - rispettivamente di 60 e 30 giorni dalla data della richiesta da parte dei soggetti interessati - trascorso il quale possano essere condotte dai soggetti pubblici e privati all’uopo abilitati.

Inoltre, con riferimento alla norma che impone degli obblighi di informazione del datore di lavoro verso il lavoratore affinché disponga di ogni necessaria informazione e istruzione (articolo 73, così come sostituito dal D.Lgs. 106/2009), si segnala che, per il datore di lavoro è previsto l’obbligo a provvedere ad una informazione, formazione ed addestramento adeguati e specifici dei lavoratori incaricati dell’uso di attrezzature che richiedano conoscenze e responsabilità particolari in relazione ai loro rischi specifici (di cui al precedente articolo 71, comma 7). A tal riguardo, si attribuisce alla competenza della Conferenza Stato-regioni l’individuazione delle attrezzature di lavoro per cui sia richiesta una specifica abilitazione degli operatori, con il necessario riconoscimento di tale abilitazione, soggetti formatori e requisiti per la validità di formazione.

Il Capo II, recante “Uso dei dispositivi di protezione individuale” (articoli da 74 a 79), riporta in maniera sostanziale le norme contenute nel Titolo IV del D.Lgs 626/1994, di recepimento della direttiva 89/656/CEE.

Il Capo III, infine, in materia di “impianti ed apparecchiature elettriche” (articoli da 80 a 87), prende in considerazione le misure necessarie affinché i materiali, le apparecchiature e gli impianti elettrici messi a disposizione dei lavoratori siano progettati, costruiti, installati, utilizzati e mantenuti in modo da salvaguardare i lavoratori da tutti i rischi di natura elettrica. Le previsioni in esso contenute derivano dal D.P.R. 547/1955, nonché dalle normative di buona tecnica esistenti.

Il Titolo IV (articoli 88-160) reca norme in materia di “Cantieri temporanei e mobili” ed è articolato in tre Capi.

Il Capo I recante le “Misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili“ (articoli da 88 a 104), riprende le norme del D.Lgs 494/1996 di recepimento della direttiva 92/57/CEE ed è costituito inoltre da una serie di allegati derivanti dal citato decreto legislativo e dal D.P.R. 222/2003.

Nel testo dello schema di decreto si segnala all’articolo 89 tra le definizioni in esso riportate quella di impresa affidataria (articolo 89, comma 1, lettera i)), definita come l’impresa titolare del contratto di appalto con il committente che, nell’esecuzione dell’opera appaltata, si avvale di imprese subappaltatrici e o di lavoratori autonomi.

Si evidenzia inoltre che l’articolo 97, in materia di obblighi del datore di lavoro dell’impresa affidataria, reca una disposizione non presente nel testo attualmente vigente del D.Lgs 494/1996. Tale disposizione, tra l’altro, pone a carico del datore di lavoro dell’impresa affidataria gli obblighi indicati all’articolo 26 del provvedimento in esame, in materia di “obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”.

Il D.Lgs. 106/2009 è intervenuto in maniera significativa su tale disciplina.

In primo luogo, è stata prevista la non applicazione delle disposizioni dell’articolo 88 del D.Lgs. 81/2008 alle attività concernenti operazioni e servizi portuali, nonché di operazioni di manutenzione, riparazione e trasformazione delle navi in ambito portuale, che non comportino lavori edili o di ingegneria civile di cui all’allegato X.

Inoltre, modificando l’articolo 89 del D.Lgs. 81, si individua l’impresa affidataria, nel caso in cui titolare del contratto di appalto sia un consorzio tra imprese che svolga la funzione di promuovere la partecipazione delle imprese aderenti agli appalti pubblici o privati, nell’impresa consorziata assegnataria dei lavori oggetto del contratto di appalto, individuata dal consorzio nell’atto di assegnazione dei lavori stessi. Lo stesso articolo provvede all’individuazione dell’impresa affidataria anche nei casi di pluralità di imprese consorziate assegnatarie di lavori.

Si segnala altresì il trasferimento, attraverso la modifica dell’articolo 93, comma 1, del D.Lgs. 81, della piena responsabilità in materia di verifica degli adempimenti al responsabile dei lavori al momento della nomina da parte del committente.

Il Capo II recante “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota“ (articoli da 105 a 160), contiene disposizioni derivanti dal D.P.R. 547/1955, dal DPR 164/1956, dal D.Lgs. 494/1996, dal D.Lgs. 626/1994 e dal D.Lgs. 235/2003 . Questo insieme di norme è corredato da una serie di allegati derivanti:

In particolare, oltre a disposizioni di carattere generale, l’articolato contiene norme riguardanti scavi e fondazioni, ponteggi e impalcature in legname, ponteggi fissi e movibili, costruzioni edilizie e demolizioni.

Va sottolineato come l’articolo 111 dello schema di decreto riporta la norma dell’articolo 36-bis del D.Lgs 626/1994 in materia di “ Obblighi del datore di lavoro nell’uso di attrezzature per lavori in quota” e l’articolo 116 dello schema riprende l’articolo 36-quinquies del D.lgs 626/1994 che disciplina gli “Obblighi dei datori di lavoro concernenti l’impiego di sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi”. 

Il capo III (articoli da 157 a 160), infine, reca disposizioni in materia di sanzioni per le quali si rinvia all’apposita scheda.

Il Titolo V (articoli da 161 a 166), suddiviso in due Capi (relativi rispettivamente alle disposizioni generali e alle sanzioni), reca disposizioni in materia di “Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro”. In sostanza, in esso vengono riprese le norme del D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 493 di attuazione della direttiva 92/58/CE concernente le prescrizioni minime per la segnaletica di sicurezza e salute sul luogo di lavoro.

Le disposizioni del Titolo VI (articoli 167-171) corrispondenti a quelle del Titolo V del D.Lgs. 626/1994, che ha recepito la direttiva 90/269CEE, si applicano alle attività lavorative di movimentazione manuale dei carichi che comportano per i lavoratori rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari.

Il Titolo VII (articoli 172-179) reca disposizioni in materia di attrezzature munite di videoterminale, ribadendo il dettato del Titolo VI del D.Lgs. 626/1994 che ha recepito la direttiva 90/270/CEE relativa alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute per le attività lavorative svolte su attrezzature munite di videoterminali.

Il Titolo VIII (articoli 180-220) reca disposizioni in materia di agenti fisici ed è suddiviso i 5 Capi, concernenti, rispettivamente, le disposizioni generali (Capo I), il rumore (Capo II), le vibrazioni (Capo III), i campi elettromagnetici (Capo IV) e le radiazioni ottiche (Capo V).

Più specificamente, secondo quanto affermato nella relazione illustrativa, il Capo I (articoli 180-186) contiene disposizioni di carattere generale che trovano applicazione nei confronti di tutti gli agenti fisici disciplinati dal titolo in materia, tra gli altri, di valutazione dei rischi, di informazione e formazione dei lavoratori, di sorveglianza sanitaria.

Il successivo Capo II (articoli 187- 198), corrispondente al Titolo V-bis del D.Lgs. 626/1994, che ha dato attuazione alla direttiva 2003/10/CE, determina i requisiti minimi per la protezione dei lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza derivanti dall’esposizione al rumore durante il lavoro e, in particolare, per l’udito.

Il Capo III (articoli 199-205) introduce le disposizioni relative al D.Lgs. 187/2005 che ha dato attuazione alla direttiva 2002/44/CE contenente prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti da vibrazioni meccaniche.

Con il Capo IV (articoli 206-212) sono state mutuate le disposizioni di cui al D.Lgs. 257/2007, di attuazione della direttiva 2004/40/CE contenente prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori dai rischi derivanti dai campi elettromagnetici.

Il Capo V (articoli 213-220), infine, prevede l’attuazione delle prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dalle radiazioni ottiche artificiali di cui alla direttiva 2006/25/CE. Al riguardo, si segnala che la relazione illustrativa evidenzia la trasfusione, nel provvedimento in esame, delle disposizioni contenute nello schema di decreto legislativo volto a dare attuazione alla direttiva 2006/25/CE (che stabilisce le prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dalle radiazioni ottiche artificiali), approvato dal Governo e trasmesso al Parlamento ai fini dell’espressione del parere da parte delle Commissioni competenti (atto n. 228).

Il Titolo IX (articoli 221-265) reca disposizioni concernenti le sostanze pericolose ed è suddiviso in 3 Capi, concernenti la protezione da agenti chimici (Capo I), la protezione da agenti cancerogeni e mutageni (Capo II) e la protezione dai rischi connessi all’esposizione ad amianto (Capo III).

In particolare, il Capo I reca disposizioni corrispondenti al Titolo VII-bis del D.Lgs. 626/1994, introdotto dal D.Lgs. 25/2002, di attuazione della direttiva 98/24/CE sulla protezione della salute e la sicurezza dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici durante il lavoro.

Con il Capo II sono ribadite le disposizioni di cui al Titolo VII del D.Lgs. 626/1994, così come sostituito dal D.Lgs. 66/2000, emanato in attuazione delle direttive 97/42/CE e 99/38/CE che modificano la direttiva 90/394/CE in materia di protezione di lavoratori contro i rischi derivanti da esposizioni ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro.

Il Capo III, infine, riconduce nel provvedimento in esame le disposizioni di cui al D.Lgs. 257/2006, di attuazione della direttiva 2003/18/CE relativa alla protezione dei lavoratori dai rischi di esposizione all’amianto dei lavoratori durante il lavoro. 

Il Titolo X (articoli 266-286) contiene le disposizioni del Titolo VIII del D.Lgs. 626/1994, con il quale è stata attuata la direttiva 90/679/CEE relativa alla protezione di lavoratori contro i rischi derivanti dall’esposizione agli agenti biologici durante il lavoro.

Infine, il Titolo XI (articoli 287-297) corrisponde al Titolo VIII-bis del D.Lgs. 626/1994, introdotto dall’articolo 2 del D.Lgs. 233/2003, che ha recepito la direttiva 99/92/CE relativa alle prescrizioni minime per il miglioramento della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori esposti a rischio di atmosfere esplosive.

Per quanto riguarda il Titolo XII (articoli 298-303), recante “Disposizioni diverse in materia penale e di procedura penale”, si rinvia all’apposita sezione dedicata all’apparato sanzionatorio.



Disposizioni finali

Il Titolo XIII (articoli 304-306), recante “Norme transitorie e finali”, dispone all’articolo 304 in merito alle abrogazioni conseguenti all’entrata in vigore del decreto in esame, mentre all’articolo 305 stabilisce che, salvo quanto previsto dall’articolo 11 in materia di attività volte a promuovere la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, dal decreto in esame non devono discendere nuovi oneri per la finanza pubblica. Infine l’articolo 306 reca disposizioni finali che intervengono su svariati profili, tra cui l’entrata in vigore di specifiche parti del decreto che viene differita rispetto all’entrata in vigore del complesso del medesimo decreto.

XI Lavoro

Pubblica amministrazione e pubblico impiego

 



Pubblica amministrazione

Gli interventi sulla pubblica amministrazione, numerosi e diversificati, hanno riguardato sia l'aspetto strutturale sia quello dell'attività. I principali orientamenti di base di tali interventi sono stati la riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e quelli finanziari per lo Stato, in una logica di amministrazione aperta e trasparente nei confronti dei cittadini stessi. Si inscrive in questa prospettiva una delle ultime disposizioni approvate nella XVI legislatura, l'articolo 18 del D.L. 83/2012, che prescrive la pubblicità sui siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni dei provvedimenti che comportano erogazioni superiori ai mille euro, pena l'inefficacia dell'atto e la responsabilità di chi non ha provveduto alla pubblicazione. 

Sinteticamente le disposizioni adottate in materia di pubblica amministrazione possono essere ricondotte alle seguenti linee di intervento:

In attuazione della delega contenuta nell'articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, si segnala l'introduzione dell'istituto della class action amministrativa . Esperibile innanzi al giudice amministrativo, con riferimento a interessi di consumatori o utenti nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, l'azione - introdotta con il D.Lgs 198/2009 - è finalizzata al ripristino del corretto svolgimento della funzione o alla corretta erogazione del servizio.

Sul piano giurisdizionale, l'ulteriore delega concessa al Governo dall'art. 44 della legge 69/2009 ha permesso l'adozione del D.Lgs 104/2010, il cd. Codice del processo ammininistrativo. Ladisciplina del Codice - avente natura di vero e proprio testo unico - ha, da un lato, una finalità di semplificazione normativa, attraverso l’inserimento in un unico testo di disposizioni, anche risalenti, stratificate nel tempo e sparse in una notevole pluralità di fonti; dall’altro, ha una funzione di sistemazione complessiva ed organica della materia anche mediante interventi di natura innovativa. 



Pubblico impiego

Nel quadro della politica di riforma della pubblica amministrazione, anche il settore del pubblico impiego è stato oggetto di un ampio processo di rinnovamento, incentrato su misure volte all’incremento della produttività del lavoro in un quadro di risorse (umane e materiali) decrescenti. 

L'obiettivo di ridurre il fenomeno delle assenze per malattia è stato tra i temi principali della riforma amministrativa nella prima fase della legislatura. La questione è stata affrontata a più riprese con provvedimenti (soprattutto decreti-legge) che, oltre a fissare criteri più stringenti per la certificazione della malattia (la quale deve essere rilasciata da struttura sanitaria pubblica o da medico convenzionato con il SSN) e nella individuazione dellefasce orarie di reperibilità, hanno fatto leva soprattutto su misure di penalizzazione economica (prevedendo, nei primi dieci giorni di assenza, la corresponsione del solo trattamento economico fondamentale, con esclusione dei trattamenti accessori). Le nuove misure hanno consentito, in breve tempo, di ridurre significativamente il tasso di assenteismo nella P.A., avvicinandolo a quello del settore privato. 

Altri provvedimenti settoriali, riguardanti iltrattamento economico accessorio (da corrispondere secondo nuovi criteri di priorità basati sulla qualità della prestazione e sulle capacità innovative) e l’introduzione di limiti ai permessi retribuiti, hanno preparato lo sbocco dell’azione di riforma della prima fase della legislatura, culminata con l’adozione del decreto legislativo 150/2009 (c.d. decreto Brunetta), che disegna una complessiva riforma del lavoro pubblico . Il provvedimento definisce un nuovo sistema di valutazione delle prestazioni delle strutture pubbliche e del personale, promuove la trasparenza dell’organizzazione del lavoro e dei sistemi retributivi, punta a valorizzare il merito con nuovi meccanismi premiali, definisce un sistema più rigoroso di responsabilità dei dirigenti pubblici e riforma le procedure della contrattazione collettiva, in un’ottica di convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico e privato.

L’aggravarsi della crisi economica e il conseguente avvio di politiche volte a correggere le dinamiche della spesa di personale nel settore del pubblico, hanno tuttavia compromesso il pieno dispiegarsi del percorso attuativo previsto dal decreto di riforma, soprattutto per quanto attiene agli istituti premiali legati ad incentivi economici. 

 

Nel mutato quadro economico si inseriscono il blocco dei trattamenti economici individuali nel quadriennio 2011-2014 e il blocco della contrattazione collettiva di settore nel triennio 2010-2012, nonché le misure volte alla ridefinizione delle dotazioni organiche e alla limitazione del turn-over, che nel corso della legislatura sono state progressivamente rafforzate ed estese.

 

Tali interventi si sono concretizzati nella progressiva riduzione degli uffici dirigenziali (di livello generale e non generale) e delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale, fissando di volta in volta obiettivi e limiti temporali entro i quali le P.A. sono chiamate ad adempiere. Al fine di assicurare l’effettiva attuazione delle norme, è stato introdotto il divieto di procedere ad assunzioni di personale, a qualsiasi titolo e con qualsiasi contratto, per le amministrazioni inadempienti.

La limitazione del blocco del turn over (ereditata dalla precedente legislatura), progressivamente estesa a categorie di personale inizialmente (in tutto o in parte) esentate (settore della sicurezza), è stata prorogata a più riprese, consentendo alle P.A. di assumere (previo effettivo svolgimento delle procedure di mobilità) unicamente entro il limite del 20% della spesa relativa al personale cessato nell'anno precedente (limite che, sulla base della normativa vigente, passerà al 50% nel 2014 e al 100% dal 2015). 

All'interno del complessivo disegno di riforma del lavoro pubblico e, più in generale, degli interventi per il contenimento delle spese di personale, si collocano anche le misure volte a disciplinare l'utilizzo del lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni .

Il fenomeno dei lavoratori precari della pubblica amministrazione (intendendo per tali i lavoratori con contratto a tempo determinato e con altre forme contrattuali flessibili) si è accumulato nel tempo ed è in parte collegato al blocco del turn over, di cui ha spesso costituito una forma di elusione. Le politiche sviluppate nel corso della legislatura sono state indirizzate al contenimento del fenomeno e, in prospettiva, al suo progressivo riassorbimento.

Gli interventi normativi messi in campo, nel ribadire il principio che le assunzioni avvengono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (e per concorso), circoscrivendo l’utilizzo dei contratti flessibili unicamente ad esigenze temporanee ed eccezionali, hanno portato all’introduzione (nel 2010) di vincoli puntuali all’utilizzo di lavoratori flessibili (limite del 50 per cento della spesa sostenuta, per le stesse finalità, nell’anno 2009). Il contrasto alla precarizzazione si è sviluppato, quindi, attraverso la previsione di una durata massima del rapporto di lavoro flessibile (3 anni in un quinquennio) e l’introduzione dell’obbligo per le P.A. di redigere un rapporto informativo annuale sull’utilizzo di tali contratti, con l’obiettivo di poter disporre di un quadro sempre aggiornato del fenomeno e di attuare più efficaci controlli. Allo scopo di responsabilizzare maggiormente i dirigenti ed assicurare, per questa via, il rispetto della normativa, è stato previsto che la violazione delle disposizioni relative all’utilizzo dei contratti flessibili è fonte di responsabilità dirigenziale.

Al fine di favorire la stabilizzazione del personale precario è stata riconosciuta (dapprima per gli anni 2001-2012 e, successivamente, a regime) la possibilità di inserire, nei bandi concorsuali per le assunzioni a tempo indeterminato, clausole volte a valorizzare l’esperienza professionale maturata, nonché a garantire una riserva di posti nei concorsi (nel limite del 40% del totale). Infine, nella fase terminale della legislatura, all’emergenza collegata ai numerosi contratti a tempo determinato in scadenza a fine 2012 si è fornita una risposta (interlocutoria) con la proroga dei contratti fino al 31 luglio 2013. 

All’interno della politica di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni (e, in qualche misura, in antitesi con i coevi interventi volti all’innalzamento dell’età pensionabile) si collocano, infine, le misure volte a precludere il prolungamento della attivita' lavorativa dei dipendenti pubblici con maggiore anzianità. A tal fine la permanenza in servizio per un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo (in precedenza configurata come diritto soggettivo del dipendente) viene dapprima rimessa alla discrezionalità della PA di appartenenza (chiamata a valutare la presenza di specifiche esigenze organizzative) e, successivamente, di fatto esclusa (dalla riforma Fornero ). Inoltre, viene riconosciuta alle PA la facoltà di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici con 40 anni di anzianità contributiva.  

 

Assenze per malattia

L'obiettivo di ridurre il fenomeno dell'assenteismo nel settore pubblico, anche ai fini del recupero della produttività della pubblica amministrazione, è stato tra i temi principali della riforma della P.A. La questione è stata affrontata a più riprese, dapprima con il decreto-legge 112/2008, quindi dalla legge-delega 15/2009 e dal relativo decreto legislativo di attuazione (D.Lgs. 150/2009), successivamente con il decreto-legge 78/2009 e, da ultimo, con il decreto-legge 98/2011.

L’articolo 71 del D.L. 112/2008, come modificato dall’articolo 17, comma 23, del D.L. 78/2009, ha introdotto misure volte a regolare le assenze per malattia, soprattutto in riferimento al trattamento economico, alla certificazione della malattia e alle fasce orarie di reperibilità, con l'obiettivo di ridurre il tasso di assenteismo nel settore pubblico.

In particolare, in deroga ai contratti collettivi e alla normativa di settore, per i periodi di assenza per malattia, di qualunque durata, si prevede che ai lavoratori venga corrisposto, nei primi dieci giorni di assenza, il solo trattamento economico fondamentale, escludendo ogni indennità o emolumento aventi carattere fisso e continuativo, nonché ogni altro trattamento accessorio. Resta comunque fermo il trattamento più favorevole eventualmente previsto dai contratti collettivi o dalle specifiche normative di settore per le assenze per malattia dovute ad infortunio sul lavoro o a causa di servizio, oppure a ricovero ospedaliero o a day hospital, nonché per le assenze relative a patologie gravi che richiedano terapie salvavita.

Sempre nel D.L. 78/2009 si prevede, a decorrere dall'anno 2009, per i periodi di assenza per malattia, l’equiparazione degli emolumenti di carattere continuativo caratteristici del comparto sicurezza e difesa, nonché del personale dei Vigili del fuoco, al trattamento economico fondamentale. Per tali categorie di personale, pertanto, durante l'assenza per malattia non viene meno il trattamento accessorio.

I risparmi derivanti dall’applicazione delle nuove norme costituiscono economie di bilancio per le amministrazioni dello Stato, concorrendo per gli enti diversi dalle amministrazioni statali al miglioramento dei saldi di bilancio; non sono comunque utilizzabili per incrementare i fondi per la contrattazione integrativa.

Inoltre, al fine di rendere più rigorosa la certificazione della malattia nelle ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare, si prevede l’obbligo di ricorrere esclusivamente ad una struttura sanitaria pubblica per il rilascio della certificazione medica, nonché ad un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale.

Gli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia effettuati dalle aziende sanitarie locali (ASL) su richiesta delle amministrazioni pubbliche interessate rientrano nei compiti istituzionali del Servizio sanitario nazionale (SSN), con oneri a carico delle medesime ASL. A tale riguardo si dispone che, a partire dal 2010, una quota del finanziamento del SSN venga ripartita fra le Regioni tenendo conto dell'incidenza sui propri territori di dipendenti pubblici.

Sulla disciplina delle assenze per malattia nella PA interviene anche il D.Lgs. 150/2009 (emanato in attuazione della delega conferita con la L. 15/2009), di riforma del lavoro pubblico. Al suo interno sono contenute alcune norme (articolo 55-septies) che modificano le corrispondenti disposizioni del D.L. 112/2008 e del D.L. 78/2009, prevedendo, in particolare:

Le norme in materia di rilascio e trasmissione dell’attestazione di malattia introdotto per i dipendenti pubblici dal nuovo articolo 55-septies del D.Lgs. 165/2001 sono state estese al settore privato, a decorrere dal 1° gennaio 2010, dall’articolo 25 della L. 183/2010.

Successivamente, l’articolo 16, commi 9 e 10, del D.L. 98/2011, modificando l'articolo 55-septies del D.Lgs. 165/2001, ha previsto che le pubbliche amministrazioni dispongano il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti, valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all’effettuazione della visita, tenendo conto dell’esigenza di contrastare e prevenire l’assenteismo. Se l'assenza ha luogo per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici, l'assenza può essere giustificata mediante la presentazione di attestazione rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la prestazione.

Merita segnalare che le norme in materia di rilascio e trasmissione dell’attestazione di malattia introdotte per i dipendenti pubblici dal nuovo articolo 55-septies del D.Lgs. 165/2001 sono state estese al settore privato, a decorrere dal 1° gennaio 2010, dall’articolo 25 della L. 183/2010.

Da ultimo, l’articolo 7 del D.L. 179/2012 ha in primo luogo ha esteso l'ambito di applicazione delle norme già vigenti sulle certificazioni di malattia per i dipendenti pubblici e sulla loro trasmissione per via telematica al personale non contrattualizzato della P.A. (a decorrere dal 18 dicembre 2012). Allo stesso tempo, è stato previsto l’obbligo, per il medico o la struttura sanitaria, di inviare telematicamente la medesima certificazione anche all’indirizzo di posta elettronica personale del lavoratore, nel caso in cui quest’ultimo ne faccia espressamente richiesta fornendo un valido indirizzo. Restano esclusi da tale applicazione le certificazioni per via telematica rilasciate al personale delle Forze Armate e dei Corpi armati dello Stato, nonché del Corpo nazionale dei vigili del fuoco. Oltre a ciò viene modificata la disciplina relativa al congedo spettante al lavoratore dipendente in caso di malattia dei figli (di cui all’articolo 47 del D.Lgs. 151/2001).

Documenti e risorse web

Contrattazione nella Pubblica Amministrazione

La legge finanziaria per il 2009 (L. 203/2008) ha introdotto misure, anche di carattere economico, concernenti i rinnovi contrattuali del personale delle pubbliche amministrazioni per il biennio 2008-2009, prevedendo, in particolare, la liquidazione automatica dell'indennità di vacanza contrattuale anche nel settore pubblico. Successivamente, l'articolo 9 del D.L. 78/2010 ha disposto il blocco della contrattazione per il triennio 2010-2012, mentre i trattamenti economici sono stati congelati fino al 31 dicembre 2014.

Rinnovi contrattuali e risorse della contrattazione

La questione delle risorse per gli incrementi contrattuali del personale pubblico è stata affrontata unicamente in avvio di legislatura, ossia prima che nell'ambito del nuovo contesto economico determinato dall'acuirsi della crisi internazionale il Governo fosse costretto ad intraprendere una rigida politica di contenimento della spesa pubbica, che ha fortemente investito il pubblico impiego.

L’articolo 2, comma 35, della L. 203/2008 (finanziaria per il 2009) ha previsto ulteriori risorse per i rinnovi contrattuali per il biennio 2008-2009 del personale delle pubbliche amministrazioni, in aggiunta a quelle già previste, per lo stesso biennio contrattuale, dalla legge finanziaria per il 2008, nella misura seguente:

La finalità dell’intervento era quella di riconoscere, a decorrere dal 2009, incrementi retributivi complessivi pari al 3,2% annuo, derivante dalla somma dell’inflazione programmata per il 2008 e il 2009 (1,7% + 1,5%). Per il personale dipendente da amministrazioni, istituzioni ed enti pubblici diversi dall’amministrazione statale, gli oneri conseguenti ai rinnovi contrattuali per il biennio 2008-2009 sono comunque a carico dei rispettivi bilanci.

Indennità di vacanza contrattuale

Secondo l’ Accordo del 23 luglio 1993 tra Governo e parti sociali (Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo) l’Indennità di Vacanza Contrattuale (IVC) si configura come un incremento provvisorio della retribuzione che decorre dopo un determinato periodo dalla data di scadenza del contratto collettivo nazionale. In particolare, dopo un periodo di vacanza contrattuale pari a 3 mesi dalla data di scadenza del contratto in vigore, ai lavoratori dipendenti soggetti al contratto da rinnovare viene corrisposto, a partire dal mese successivo ovvero dalla data di presentazione delle piattaforme, un elemento provvisorio della retribuzione pari al 30% del tasso di inflazione programmato, applicato ai minimi retributivi contrattuali vigenti, inclusa l’ex indennità di contingenza; dopo 6 mesi di vacanza contrattuale, tale importo sale al 50% dell’inflazione programmata. Dalla decorrenza dell’accordo di rinnovo del contratto l’indennità di vacanza contrattuale cessa di essere erogata.

Con l'articolo 2, comma 35, della L. 203/2008 (Finanziaria per il 2009) la liquidazione automatica dell’indennità di vacanza contrattuale nel settore pubblico decorre dal mese di aprile di ogni anno. La norma ha precisato che, per i rinnovi contrattuali relativi al biennio economico 2008-2009, in relazione alle risorse stanziate, tale disciplina trova applicazione soltanto per il 2009. Per il personale dipendente da amministrazioni, istituzioni ed enti pubblici diversi dall’amministrazione statale, i relativi oneri sono posti a carico dei rispettivi bilanci.

Successivamente, l'articolo 33 del D.L. 185/2008 ha disposto la liquidazione automatica dell’indennità di vacanza contrattuale anche nel settore pubblico per il 2008.

La norma non viene applicata al personale in regime di diritto pubblico laddove il trattamento economico sia direttamente disciplinato da disposizioni di legge, quale, ad esempio, i magistrati, il personale dirigente delle forze armate e delle forze di polizia ad ordinamento civile e militare, i professori ed i ricercatori universitari.

La norma ha precisato, inoltre, che le somme così erogate costituiscono anticipazione dei benefici complessivi del biennio 2008-2009, da definire, in sede contrattuale o altro corrispondente strumento, a seguito dell'approvazione del disegno di legge finanziaria per l'anno 2009.

Infine, anche le amministrazioni pubbliche non statali possono provvedere, con oneri a carico dei rispettivi bilanci, all'erogazione dell'importo della vacanza contrattuale al proprio personale.

Da ultimo, l’articolo 16, comma 1, del D.L. 98/2011 ha autorizzato il Governo a fissare le modalità di calcolo relative all'erogazione dell'indennità di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017.

Blocco della contrattazione

Nell'ambito del più complessivo sforzo per la riduzione della spesa pubblica,l'articolo 9, commi 17-21, del D.L. 78/2010 hanno disposto il blocco della contrattazione nel pubblico impiego per il triennio 2010-2012. Il blocco opera nei seguenti termini:

Inoltre, il comma 21 ha stabilito la non applicazione – per gli anni 2011, 2012 e 2013 – al personale in regime di diritto pubblico dei meccanismi di adeguamento retributivo previsti dall’articolo 24 della L. 448/1998 (adeguamento annuale di diritto, dal 1° gennaio 1998, delle voci retributive del personale richiamato in ragione degli incrementi medi, calcolati dall'ISTAT, conseguiti nell'anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati sulle voci retributive), ancorché a titolo di acconto ed escludendo successivi recuperi.

Da ultimo, l’articolo 16, comma 1, del D.L. 98/2011 ha previsto la possibilità di prorogare al 31 dicembre 2014, con apposito regolamento, le vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici, anche accessori, del personale delle pubbliche amministrazioni, prevedendo comunque la possibilità che, all'esito di apposite consultazioni con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative del pubblico impiego, l'ambito applicativo delle disposizioni in materia sia differenziato, in ragione dell'esigenza di valorizzare ed incentivare l'efficienza di determinati settori.

Dirigenza pubblica

Nella XVI legislatura la materia della dirigenza pubblica è stata oggetto di un intervento organico con la legge delega 15/2012, di riforma del lavoro pubblico, attuata con il decreto legislativo 150/2009. Successivi interventi normativi hanno affrontato specifici profili quali le fattispecie di responsabilità, la riduzione di organici e il tetto dei trattamenti economici, mentre la normativa anticorruzione adottata al termine della legislatura fa perno, per alcuni aspetti, sulla figura dirigenziale, Da ultimo, è stata prevista una riforma del sistema di reclutamento e formazione della dirigenza, da attuare in via di delegificazione, con l'art. 11 del D.L. 95/2012.

La riforma del lavoro pubblico delineata dalla L. n. 15/2009, nel quadro della distinzione politica-amministrazione, ha potenziato gli strumenti relativi alla gestione del personale, individuando nel dirigente il soggetto che, operando in piena autonomia decisionale e responsabilità, esercita i poteri del datore di lavoro. Tra i criteri e principi direttivi contenuti nella legge spicca l’introduzione di misure atte a rendere più stringente il rapporto tra valutazione del dirigente e corresponsione del trattamento economico accessorio; la revisione del regime delle incompatibilità; il rafforzamento dell’autonomia dei dirigenti; la valorizzazione della mobilità. Spetta al dirigente selezionare i profili professionali indispensabili per il buon andamento del proprio ufficio, intervenire nella valutazione del personale e nel riconoscimento degli incentivi alla produttività. Rientrano nell'esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione, l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici.

I criteri e principi direttivi contenuti nella legge, sono stati definiti e attuati dalle disposizioni contenute nel decreto legislativo 150/2009, emanato in attuazione degli articoli da 2 a 7 della legge delega 15/2009. Tale decreto ha ampiamente novellato il D.Lgs. 165/2001 che stabilisce norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Per il profilo relativo alla valutazione della performance dirigenziale, una disciplina transitoria è stata disposta dall’articolo 5, commi da 11 a 11-sexies, del D.L. 95/2012, ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance

L’art. 1, comma 3, del D.L. 138/2011  ha previsto, poi, che il Governo è tenuto ad adottare le misure volte a consentire che dall’attuazione della legge n. 15/2009 discendano effettivi risparmi di spesa per ogni anno del triennio 2013-2016.

Oltre che sulla dirigenza, la legge 15/2009 è intervenuta, con una disposizione di interpretazione autentica, sulla materia della vicedirigenza, disciplinata dall'art. 17-bis del D.Lgs. 165/2001, ma tale area è stata poi soppressa con l'art. 5 del D.L. 95/2012.

Limitatamente al settore scolastico, il D.L. 170/2009 e la L. 202/2010 sono intervenute in materia di concorsi per dirigenti scolastici

Accesso alla dirigenza

Il D.Lgs. n. 150/2009 ha integrato la disciplina dell’accesso alla dirigenza di cui all’art. 28 del D.Lgs. n. 165/2001 (T.U. pubblico impiego). L’accesso alla qualifica avviene per concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni ovvero per corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione (SSPA). In coerenza con la programmazione del fabbisogno di personale, le amministrazioni comunicano, entro il 30 giugno di ciascun anno, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica, il numero dei posti che si renderanno vacanti nei propri ruoli dei dirigenti. Il Dipartimento della funzione pubblica, entro il 31 luglio di ciascun anno, comunica alla SSPA i posti da coprire mediante corso-concorso che viene bandito entro il 31 dicembre di ciascun anno. I vincitori dei concorsi, prima del conferimento dell’incarico, sono tenuti a svolgere un ciclo di attività formative organizzate dalla SSPA.

Il D.Lgs. n. 150/2009 ha aggiunto l’art. 28-bis del D.Lgs. n. 165/2001 per la disciplina dell’accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia nelle amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, e negli enti pubblici non economici; l’accesso avviene, per il 50% dei posti, tramite concorso pubblico per titoli ed esami indetto dalle singole amministrazioni, sulla base di criteri stabiliti con D.P.C.M., previo parere della SSPA, a cui sono ammessi i dirigenti di ruolo delle pubbliche amministrazioni, che abbiano maturato almeno cinque anni di servizio nei ruoli dirigenziali e gli altri soggetti in possesso di titoli di studio e professionali individuati nei bandi di concorso. I vincitori del concorso sono assunti dall'amministrazione e, anteriormente al conferimento dell'incarico, sono tenuti all'espletamento di un periodo di formazione presso uffici amministrativi di uno Stato dell'Unione europea o di un organismo comunitario o internazionale.

L’art. 2, comma 10-bis, del decreto-legge n. 95/2012 ha espressamente stabilito che il numero degli uffici di livello dirigenziale generale e non generale non può essere incrementato se non con disposizione legislativa di rango primario.
Lo stesso articolo, con il comma 2,  ha ridotto gli uffici dirigenziali, di livello generale e di livello non generale e le relative dotazioni organiche, in misura non inferiore, per entrambe le tipologie di uffici e per ciascuna dotazione, del 20 per cento di quelli esistenti, con previsioni specifiche di attuazione automatica per gli incarichi presso la Presidenza del Consiglio; inoltre, lo stesso articolo, con il comma 15, ha sospeso, fino alla conclusione dei processi di riorganizzazione di uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche delle amministrazioni dello Stato, comunque non oltre il 31 dicembre 2015, le modalità di reclutamento previste dall’articolo 28-bis.

L’art. 5, comma 13, del D.L. n. 95/2012 ha poi soppresso l'area della vice dirigenza di cui all’art. 17-bis del D.Lgs. 165/2001.

Su tale assetto normativo è intervenuto l'art. 11 del D.L. 95/2012, che ha previsto una delegificazione del sistema di reclutamento e di formazione dei dirigenti e dei funzionari pubblici. 
In attuazione di tale articolo il Governo ha adottato due schemi di regolamento n. 544 e 545 e li ha trasmessi il 15 febbraio alle Camere per il parere delle competenti commissioni parlamentari, che, presso la Camera, si sono pronunciate il 20 e il 21 febbraio su entrambi i testi.
Essi modificano la vigente disciplina in materia prevedendo: un Sistema unico del reclutamento e della formazione pubblica,  composto dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione (SSPA), ridenominata dal 1° gennaio 2013 Scuola nazionale dell’amministrazione, nonché dall’Istituto diplomatico “Mario Toscano”, dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze, dalla Scuola superiore dell’amministrazione dell’interno – SSAI, dal Centro di formazione della difesa e dalla Scuola superiore di statistica e di analisi sociali ed economiche; la concentrazione delle funzioni di reclutamento e formazione generica dei dirigenti e dei funzionari delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici non economici.

Criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali

Il D.Lgs. n. 150/2009 ridefinisce i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali, compresi quelli affidati a soggetti esterni alla pubblica amministrazione, adeguando la relativa disciplina ai principi di trasparenza e pubblicità. La conferma dell’incarico dirigenziale ricoperto viene legata al raggiungimento dei risultati indicati al momento del conferimento dell’incarico e vengono ridotti il numero e la durata dei contratti di diritto privato a tempo determinato conferiti ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli. In particolare, è introdotto un limite alla rinnovabilità dell’incarico e precisato il requisito della particolare esperienza professionale.

Il conferimento degli incarichi dirigenziali, disciplinato dall’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001, integrato dal D.Lgs. n. 150/2009 e modificato dal decreto-legge n. 78/2010, presenta le seguenti novità:

Sono modificate le disposizioni sull'applicazione dello spoils system, sulle quali nel corso della legislatura si è pronunciata più volte la Corte costituzionale, che, da ultimo, con sent. 124/2011, riferita al testo dell'art. 19 del D.Lgs. 165/2001, precedente alla riforma attuata con D.Lgs. 150/2009, ha dichiarato l'illegittimità della previsione di cessazione degli incarichi decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo. Secondo la Corte, infatti, lo spoil system può considerarsi legittimo solo in riferimento a posizioni apicali e non anche per incarichi dirigenziali che comportino l'esercizio di compiti di gestione e anche per i dirigenti esterni all'amministrazione che attribuisce l'incarico devono sussistere specifiche garanzie idonee ad assicurare la tendenziale continuità dell'azione amministrativa.

La legge 190/2012, di contrasto alla corruzione, ha stabilito specifiche norme per il conferimento di incarichi arbitrali ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni e divieti di partecipazioni a commissioni o di attribuzioni di incarichi per dipendenti condannati con sentenza passata in giudicato per reati di corruzione, nonchè divieti di attività nel triennio successivo al rapporto di lavoro con amministrazioni pubbliche.

Responsabilità dirigenziale

Dal pieno riconoscimento dell’autonomia gestionale e organizzativa dei dirigenti pubblici viene fatta discendere l’integrale responsabilizzazione degli stessi in relazione ai risultati conseguiti complessivamente. Gli artt. 41 e 42 del D.Lgs. n. 150/2009 hanno riformulato la disciplina di cui agli artt. 21 e 22 del D.Lgs. 165/2001, precisando l’importanza della previa contestazione e del rispetto del principio del contraddittorio. Il mancato raggiungimento degli obiettivi o l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare, l’impossibilità di rinnovo dell’incarico in corso.

Tra le principali novità vi è la responsabilità, nel caso di colpevole omessa vigilanza sull’effettiva produttività delle risorse umane assegnate e sull’efficienza della struttura dipendente dal dirigente: la sanzione consiste nella decurtazione della retribuzione di risultato. Il decreto legislativo, in attuazione del criterio di delega, ha modificato anche la disciplina del Comitato dei garanti, con compiti consultivi in materia di provvedimenti sanzionatori a carico dei dirigenti. Il Comitato viene riformato, modificandone la composizione, mentre i pareri espressi sulla applicazione delle sanzioni, in caso di responsabilità dirigenziale, non sono più vincolanti.

Tra gli altri interventi normativi che guardano la fattispecie, si segnalano:

Trattamento economico

Il D.Lgs. 150/2009 ha previsto che la retribuzione complessiva sia costituita per un minimo del 30% dal trattamento accessorio, collegato ai risultati (in caso di inerzia dell’amministrazione nella predisposizione del sistema di valutazione, si applica il divieto di corrispondere l’indennità di risultato).

Come tema di carattere generale, cioè non specificamente riferito alla retribuzione dei dirigenti, nel corso della legislatura, è stata particolarmente attuale la questione dell'introduzione di un tetto agli emolumenti erogati da soggetti pubblici per rapporti di lavoro dipendente o autonomo, anche nell'ambito di società a partecipazione pubblica.
La questione non è nuova per il dibattito parlamentare in quanto affrontata anche nelle precedenti legislature, tanto che nella XVI il primo atto esaminato dalle Camere in materia è stato uno schema di regolamento di attuazione della legge finanziaria 2008 (art. 3, comma 44, L. 244/2007) che pone un limite massimo agli emolumenti per i rapporti di lavoro subordinato o autonomo direttamente o indirettamente a carico della finanza pubblica (Consiglio dei ministri del 2 ottobre 2009) . Tale schema è stato adottato con il D.P.R. 195/2010 che ha determinato i limiti massimi del trattamento economico onnicomprensivo a carico della finanza pubblica per i rapporti di lavoro dipendente o autonomo con le amministrazioni dello Stato (art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001), le agenzie, gli enti pubblici economici e non economici, gli enti di ricerca, le università, le società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica e le loro controllate.

L’art. 9, co. 1, del D.L. n. 78/2010 ha, poi, stabilito l’invarianza del trattamento economico dei dipendenti pubblici, compresi i dirigenti, per gli anni 2011, 2012 e 2013, mentre il co. 2 ha previsto la riduzione dei trattamenti economici di dipendenti pubblici, compresi i dirigenti, superiori a 90 e 150mila euro, per il medesimo triennio. La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di quest’ultima disposizione perché in contrasto con il principio della universalità della imposizione con la sent. 223/2012.

L’art. 1 del D.L. n. 98/2011 ha, ancora, previsto che il trattamento economico omnicomprensivo annualmente corrisposto ai titolari di cariche elettive ed incarichi di vertice di enti o istituzioni elencati in allegato al decreto, non può superare la media degli analoghi trattamenti economici percepiti dai titolari di omologhe cariche e incarichi negli altri Stati dell’Area Euro. Tale disposizione si applica anche ai segretari generali, ai capi dei dipartimenti, ai dirigenti generali e ai titolari degli uffici a questi equiparati. A tal fine il decreto ha previsto la costituzione di una Commissione deputata alla ricognizione e all'individuazione “della media ponderata rispetto al PIL dei trattamenti economici percepiti annualmente dai titolari di omologhe cariche e incarichi nei sei principali Stati dell'Area Euro riferiti all'anno precedente e aggiornati all'anno in corso sulla base delle previsioni dell'indice armonizzato dei prezzi al consumo contenute nel Documento di economia e finanza”; tale organo, noto come Commissione Giovannini, dal nome del presidente, ha presentato la propria relazione finale il 31 marzo 2012. Nelle conclusioni della relazione, la Commissione perviene a rassegnare le dimissioni dal mandato, prendendo atto delle eterogeneità delle situazioni riscontrate negli altri paesi e segnalando la difficoltà di applicazione della normativa adottata.

L’art. 1, co. 33, del D.L. n. 138/2011 ha, inoltre, specificato che, oltre che ai dirigenti di prima fascia, il tetto trova applicazione nei confronti dei direttori generali degli enti e dei titolari degli uffici equiparati delle amministrazioni centrali dello Stato.

L’art. 23-ter del D.L. 201/2011 successivamente ha prescritto l’emanazione di un DPCM per la definizione del trattamento economico di chiunque riceva emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, compreso il c.d. personale non contrattualizzato. Tale norma è stata attuata con il D.P.C.M. 23 marzo 2012 che definisce, in relazione alle diverse funzioni svolte, il trattamento economico erogabile, utilizzando come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del Primo presidente della Corte di Cassazione, che si aggiunge all’ ulteriore limite circa le somme che possono essere corrisposte ai dipendenti delle amministrazioni che siano chiamati a svolgere funzioni direttive dirigenziali o equiparate presso Ministeri o enti pubblici nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti: questi soggetti - se conservano il trattamento economico riconosciuto dall’amministrazione di appartenenza - non possono ricevere a titolo di retribuzione, indennità, o anche solo per il rimborso spese, più del 25% dell’ammontare complessivo del trattamento economico già percepito (art. 23-ter, comma 2).

Si segnala, infine, l’art. 2, commi 20-quater e 20-quinquies del D.L. n. 95/2012 che ha introdotto il tetto agli stipendi dei manager pubblici, per il quale l'art. 23-bis del D.L. 201/2011 rinviava all'attuazione da parte di fonte regolamentare, prevedendo che i compensi degli amministratori investiti di particolari cariche delle società non quotate direttamente e indirettamente controllate dalle pubbliche amministrazioni, nonché i trattamenti economici annui onnicomprensivi dei dipendenti di tali società, non possano essere superiori al trattamento economico del Primo presidente della Corte di Cassazione.

La questione è stata anche oggetto di iniative legislative parlamentari (A.C. 4901 e A.C. 5035) il cui esame, avviato presso le Commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera, non è giunto a conclusione.

Trasparenza sulle retribuzioni dei dirigenti

La legge 69/2009 (A.C. 1441-bis), collegata alla manovra finanziaria triennale, disponendo in materia di sviluppo economico e semplificazione, prevede fra l’altro, con una norma di principio, che le amministrazioni pubbliche siano obbligate a pubblicare nei loro siti internet le retribuzioni annuali, i curricula vitae, gli indirizzi di posta elettronica nonché i numeri telefonici ad uso professionale dei dirigenti e dei segretari comunali e provinciali. Con gli stessi mezzi, le amministrazioni pubbliche devono inoltre rendere pubblici i tassi di assenza e di maggiore presenza del personale, distinti per uffici di livello dirigenziale.

Il decreto legislativo 150/2009 dedica un capo alla trasparenza e alla rendicontazione della performance, in cui l'art. 11 stabilisce l'obbligo di ogni amministrazione di pubblicare sul proprio sito istituzionale in apposita sezione di facile accesso e consultazione, denominata "Trasparenza, valutazione e merito" numerosi dati tra cui  le retribuzioni e i curricula dei dirigenti e dei titolari di posizioni organizzative. 

Successivamente l’art. 5 del D.L. 95/2012, al comma 11-sexies, ha prescritto che le amministrazioni rendono nota l'entità del premio mediamente conseguibile sia dal personale dirigenziale che da quello non dirigenziale e pubblicano sui propri siti istituzionali i dati relativi alla distribuzione del trattamento accessorio, in forma aggregata, al fine di dare conto del livello di selettività utilizzato nella distribuzione dei premi e degli incentivi.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Documenti e risorse web

Approfondimento: Legge 190/2012 - Misure anticorruzione nella p.a.

Anche nella XVI legislatura, e sulla scia di sempre più eclatanti vicende di cronaca, il Parlamento ha affrontato il tema della lotta all corruzione tentando di individuare strumenti per prevenire un fenomeno che appare così esteso nel nostro Paese (si veda il Rapporto Greco del 2009 e, da ultimo, il Rapporto sulla corruzione presentato dalla Commissione sulla prevenzione del fenomeno corruttivo il 22 ottobre 2012) e per reprimere efficacemente gli autori degli illeciti.



La ratifica delle Convenzioni internazionali

Nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha ratificato tre Convenzioni internazionali, una delle Nazioni Unite e due del Consiglio d'Europa, volte a reprimere il fenomeno della corruzione.

Il primo intervento del Parlamento in tema di lotta alla corruzione è stato infatti l'approvazione della legge 116/2009, di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a Merida nel 2003.

Pochi mesi dopo, il Senato ha avviato l'esame di un disegno di legge del Governo Berlusconi (AS. 2156) che affrontava il tema della lotta alla corruzione prevedendo un generale inasprimento delle pene per i delitti contro la pubblica amministrazione. Il complesso iter della legge "anticorruzione" influenzerà anche l'approvazione dei progetti di legge di ratifica di due convenzioni del Consiglio d'Europa, che il Parlamento deciderà di ratificare senza disposizioni di adeguamento interno, ritenendo che ogni ulteriore modifica al diritto penale sostanziale dovesse trovare sede nel progetto di legge anticorruzione, poi legge 190/2012.

Pertanto, con la legge 110/2012, il Parlamento ha ratificato la Convenzione penale di Strasburgo del 1999 sulla corruzione che impegna, in particolare, gli Stati a prevedere l'incriminazione di fatti di corruzione attiva e passiva tanto di funzionari nazionali quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva nel settore privato; del cosiddetto traffico di influenze; dell'autoriciclaggio. Con la legge 112/2012 ha ratificato la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo nel 1999 e diretta, in particolare, ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudiziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione.



L'iter della legge anticorruzione

Il disegno di legge A.S. 2156, recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione è stato presentato dal Ministro della giustizia Alfano al Senato nel maggio 2010 (sul contenuto originario del disegno di legge si veda il Dossier del Servizio studi del Senato) ed approvato il 15 giugno 2011. Alla Camera l'A.C. 4434 - il cui contenuto è descritto nel Dossier del Servizio studi - è stato esaminato dalle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia che nelle sedute del 13 settembre e del 14 settembre 2011 hanno svolto sul tema un'indagine conoscitiva. Approdato in Assemblea nel maggio 2012, il provvedimento è stato ampiamente modificato rendendo necessario un nuovo passaggio al Senato (A.S. 2156-B). Anche le commissioni del Senato hanno svolto numerose audizioni, acquisendo ulteriori elementi conoscitivi; il 12 ottobre 2012 l'Assemblea del Senato ha approvato il testo con modifiche, rendendo necessario un ultimo esame alla Camera. In particolare, al Senato, a seguito dell’approvazione di un maxiemendamento del Governo, i primi 26 articoli del disegno di legge sono stati sostituiti e inglobati in un articolo unico. 



Contenuto della legge

La legge 190/2012, definitivamente approvata dalla Camera il 31 ottobre 2012, presenta un contenuto eterogeneo:

 

 

 



Il nuovo assetto organizzativo delle politiche di contrasto alla corruzione



Il ruolo della CIVIT e del Dipartimento della funzione pubblica

L'articolo 1 della legge individua l’autorità nazionale competente a coordinare l’attività di contrasto al fenomeno corruttivo nella pubblica amministrazione, nonché le funzioni degli altri organi incaricati di funzioni di prevenzione e contrasto dell’illegalità. In sintesi, il nuovo assetto organizzativo delle politiche di contrasto alla corruzione a livello nazionale si fonda sulla collaborazione tra la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – Civit, il Dipartimento della funzione pubblica e le pubbliche amministrazioni.

In particolare, il comma 2 dell’articolo 1 individua, quale Autorità nazionale anticorruzione, la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – CIVIT, così modificando la precedente distribuzione delle competenze in questa materia.

Per quanto concerne l’attuazione in Italia delle disposizioni sulle autorità nazionali anticorruzione, occorre infatti ricordare che, in un primo momento, con la legge n. 3/2003[1] (art. 1), era stato istituito l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e degli altri illeciti nell’ambito della pubblica amministrazione. Successivamente, il D.L. n. 112 del 2008 (art. 68, co. 6 e 6-bis), ha soppresso la figura dell’Alto Commissario e trasferito le strutture e funzioni al “Ministro competente”, con facoltà per quest’ultimo di delegare un sottosegretario di Stato. In attuazione di tale disposizione, con D.P.C.M. 2 ottobre 2008 (art. 1) è stato attribuito al Dipartimento della funzione pubblica il compito di:

Il Dipartimento della funzione pubblica esercitava tali funzioni attraverso il Servizio Anticorruzione e trasparenza (SAeT) dello stesso Ministero. Confermando l’assetto di competenze successivo al D.L. 112, l’articolo 6 della legge 116/2009 di ratifica della Convenzione ONU ha designato quale autorità nazionale ai sensi dell'art. 6 della Convenzione il soggetto al quale sono state trasferite le funzioni dell'Alto Commissario, ai sensi dell'art. 68, comma 6-bis, del decreto-legge 112/2008.

Pertanto, con la legge 190 la Civit – a cui peraltro la normativa istitutiva già attribuisce il compito di favorire la diffusione della legalità e della trasparenza nelle pa – si sostituisce nel ruolo di Autorità nazionale anticorruzione al Dipartimento della funzione pubblica, che ha ricoperto tale veste sino a quel momento.

La Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche – Civit è stata istituita exarticolo 13 del decreto legislativo 150/2009 con la funzione di indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione delle amministrazioni; di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale. A tali attribuzioni si affianca il compito di garantire la trasparenza totale delle amministrazioni, cioè l’accessibilità dei dati inerenti al loro funzionamento. La Commissione esercita le proprie attribuzioni «in posizione di indipendenza di giudizio e di valutazione e in piena autonomia», in collaborazione con il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In particolare, ai sensi del comma 8 dell’articolo 13 del d.lgs. 150, nell’ambito della Commissione è istituita la Sezione per l'integrità e la trasparenza delle amministrazioni, a cui sono assegnati, con delibera della Commissione, personale della struttura ed esperti di elevata professionalità ed esperienza sui temi della prevenzione e della lotta alla corruzione. La Sezione ha il compito di favorire la diffusione della legalità e della trasparenza nelle amministrazioni pubbliche e sviluppare interventi a favore della cultura dell'integrità.

Le funzioni affidate alla Commissione in materia di lotta alla corruzione attengono prevalentemente al ruolo di rappresentanza istituzionale, specie nei rapporti con i competenti organismi internazionali, nonché di vigilanza e controllo sulle politiche di contrasto alla corruzione e sull’efficacia delle singole misure adottate dalle pubbliche amministrazioni. Più nel dettaglio, alla Commissione è affidato il compito di:

Residuano in capo al Dipartimento della funzione pubblica importanti funzioni normative, esecutive e di coordinamento  (art. 1, co. 4). Infatti, il Dipartimento:



I piani di prevenzione della corruzione

Le pubbliche amministrazioni centrali predispongono un piano di prevenzione della corruzione e adottano  procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo la rotazione di funzionari e dirigenti in tali settori (co. 5). Il piano è adottato entro il 31 gennaio di ogni anno a proiezione triennale, dall’organo di indirizzo politico e viene trasmesso al Dipartimento della funzione pubblica; la sua elaborazione non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione (co. 8). Anche gli enti locali predispongono il piano e, a tal fine, possono richiedere al prefetto il necessario supporto tecnico e informativo del prefetto (co. 6).

Per quanto riguarda contenuti ed obiettivi (co. 9), il piano è funzionale a:



Il responsabile della prevenzione della corruzione

Le pubbliche amministrazioni centrali e gli enti locali individuano  un responsabile della prevenzione della corruzione. Nelle prime, questi è scelto di norma tra i dirigenti di ruolo di prima fascia in servizio, mentre negli enti locali coincide con il segretario, salva diversa motivazione (co. 7). Il responsabile (co. 8 e 10):

In tema di responsabilità sono individuate nuove fattispecie. In particolare, la mancata predisposizione del piano e la mancata adozione delle procedure di selezione e formazione costituiscono elementi di valutazione della responsabilità dirigenziale (co. 8). Inoltre, il responsabile della prevenzione, in caso di commissione, all'interno dell'amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato risponde, per responsabilità dirigenziale e sul piano disciplinare, per danno erariale e danno all’immagine della p.a. salva la prova di aver predisposto il piano di prevenzione prima della commissione del fatto, di averne osservato le prescrizioni e di aver vigilato sul funzionamento e sull'osservanza del piano (co. 12). La sanzione disciplinare non può essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi. Il responsabile della prevenzione risponde per responsabilità dirigenziale e sul piano disciplinare, per omesso controllo, anche nell’ipotesi di ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal Piano da parte dei dipendenti dell’amministrazione, per i quali tali condotte costituiscono illecito disciplinare (co. 14).



Le regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa

I commi da 15 a 36 dell’articolo 1 della legge recano norme concernenti la trasparenza dell'attività amministrativa. Si ribadisce, attraverso il richiamo al d.lgs. 150/2009, che la trasparenza dell'attività amministrativa costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione (co. 15). La trasparenza, si prevede, è assicurata attraverso la pubblicazione, sui siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi. Sono oggetto di pubblicazione anche i bilanci e i conti consuntivi, nonché i costi unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati. I criteri che devono essere seguiti nella pubblicazione sono: facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d'ufficio e di protezione dei dati personali.

Le pubbliche amministrazioni, ai sensi del comma 16, assicurano i livelli essenziali di cui sopra con particolare riferimento ai procedimenti di:

Le informazioni pubblicate sono trasmesse in via telematica alla CIVIT (co. 27). Tali disposizioni si applicano anche ai procedimenti posti in essere in deroga alla procedure ordinarie (co. 26). Con riferimento a tutti i procedimenti amministrativi, la legge (art. 1, co. 28) impone, inoltre, alle pubbliche amministrazioni di provvedere al monitoraggio periodico del rispetto dei tempi procedimentali anche al fine di evidenziare e risolvere eventuali anomalie. I risultati devono poter essere consultabili sui siti istituzionali di ciascuna amministrazione.

Ulteriori misure volte ad assicurare la trasparenza amministrativa sono:

Per l’attuazione dei nuovi obblighi di pubblicità, il comma 31 demanda ad uno o più decreti interministeriali, da adottare sentita la Conferenza unificata. Specifiche prescrizioni sono stabilite dal comma 32 per la pubblicazione delle informazioni relative alla scelta del contraente, prevedendo obblighi in capo alle stazioni appaltanti e all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.

Il comma 33 stabilisce che la mancata o incompleta pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni delle informazioni, costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici, ai sensi dell'art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 198/2009e, dunque, presupposto per avviare la c.d. class action della pubblica amministrazione (su cui, si v. Decreto legislativo 198/2009 - Tutela collettiva nei confronti della P.A.). È, altresì, valutata ai sensi dell'art. 21, D.lgs. 165/2001 (in materia di responsabilità dirigenziale) così come eventuali ritardi nell'aggiornamento dei contenuti sugli strumenti informatici sono sanzionati a carico dei responsabili del servizio.

Per quanto riguarda, l’ambito di applicazione soggettivo, le regole sulla trasparenza introdotte dalla L. 190/2012 sono destinate alle amministrazioni pubbliche come individuate dall’art. 1, co. 2, D.lgs. 165/2001, agli enti pubblici nazionali e alle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche, limitatamente alla loto attività di pubblico interesse, disciplinata dal diritto nazionale o dell’UE (co. 34).

Infine, il legislatore ha disposto una delega al Governo (co. 35 e 36), da attuare con un unico decreto legislativo entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, per il riordino della normativa in materia di obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazione da parte delle p.a., che, oltre alla ricognizione ed il coordinamento di tutte le disposizioni vigenti, preveda:

Lo schema di decreto legislativo è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri nella seduta del 15 febbraio 2013.



Le modifiche all'arbitrato nel codice degli appalti

I commi da 19 a 24 dell'articolo 1 della legge 190/2012 intervengono sul c.d. Codice degli appalti (d.lgs. 163/2006) per modificare la disciplina degli arbitrati. In particolare la riforma novella l'art. 241 del Codice - che, nell’ambito della Parte IV (Contenzioso) disciplina l’arbitrato, a cui possono essere deferite le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario - specificando che:



Le modifiche alla legge sul procedimento amministrativo

La legge sulla corruzione nella pubblica amministrazione introduce alcune modifiche alla La disciplina del procedimento amministrativo, recata dalla legge n. 241/1990 (legge proc.).

Innanzitutto (co. 37), si modifica l’articolo 1 della legge prevedendo che i soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative debbano non solo seguire criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, ma anche assicurare nella propria attività livelli di garanzia non inferiori a quelli cui sono tenute le pubbliche amministrazioni.

Inoltre, l’articolo 1, co. 38, con una modifica all’art. 2, co. 1, della L. 241, prevede la possibilità per le pubbliche amministrazioni di concludere il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata qualora ravvisino “la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda”. La semplificazione consiste nel fatto che la motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. In tal modo, s’intendono fornire gli strumenti per attuare correttamente l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, già sancito dall’articolo 2 della L. 241, nei casi in cui si riscontri l’assoluta mancanza dei presupposti per l’avvio della stessa istruttoria, al fine di realizzare un’ulteriore semplificazione ed accelerazione dell’attività amministrativa.

L’art. 1, co. 41, ha introdotto il nuovo articolo 6-bis della L. 241/1990, ai sensi del quale il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale hanno un dovere di astensione in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale. Non sono indicate le conseguenze della violazione di tale disposizione da parte del dipendente. La disposizione, che ha finalità di evitare l’insorgere di fenomeni di illegalità e di corruzione, pare esplicitazione del più generale dovere di imparzialità, sancito dall’articolo 97 della Carta costituzionale, nonché dalla stessa legge proc., in base al cui art. 1, l’attività amministrativa deve essere retta dal criterio di imparzialità.

Sempre al fine di garantire l’imparzialità e la massima trasparenza dell’attività amministrativa, il comma 47 dell’art. 1 aggiunge al comma 2 dell'articolo 11 della legge proc. la disposizione secondo la quale agli accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento si applica la disciplina sulla motivazione di cui all’articolo 3. Pertanto, tali accordi devono essere motivati, con l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria.

Inoltre, senza modificare la legge 241, l’articolo 1, co. 48 delega il Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, un decreto legislativo per introdurre una disciplina organica degli illeciti e delle sanzioni disciplinari correlati al superamento dei termini di definizione dei procedimenti amministrativi.

Infine, l’art 1, co. 62 della legge dispone in tema di danno all’immagine della pubblica amministrazione, inserendo due nuovi commi all’articolo 1 della legge 20/1994 che disciplina il giudizio di responsabilità amministrativa. In particolare si prevede: una presunzione fino a prova contraria relativa alla quantificazione del danno all’immagine della PA, derivante dalla commissione di un reato contro la stessa p.a. da parte del dipendente (il danno si presume essere pari al doppio del valore patrimoniale illecitamente percepito dal dipendente); la concessione del sequestro conservativo di beni mobili e immobili del convenuto nei giudizi di responsabilità amministrativa per il danno all’immagine in tutti i casi di fondato timore di attenuazione della garanzia del credito erariale.



Le modifiche al Testo unico del pubblico impiego

Alcune disposizioni della legge 190 incidono direttamente sulla disciplina dei dipendenti pubblici, introdotte in molti casi con lo strumento della novella al D.lgs. 165/2001. Le modifiche principali riguardano:

Infine, la legge 190 (all’art. 1, co. 49) contiene un’ulteriore delega al Governo avente un duplice oggetto. Da un lato, la modifica della disciplina vigente in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle p.a. e negli enti privati che svolgono funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi per le p.a. o gestione di servizi pubblico. Dall’altro, la modifica della disciplina vigente in tema di incompatibilità tra incarichi dirigenziali e di vertice e lo svolgimento di incarichi elettivi o la titolarità di interessi privati che si possono porre in contrasto con l’esercizio imparziale delle funzioni pubbliche. Tra i criteri per l’esercizio della delega (co. 50) si segnala la necessità di prevedere la non conferibilità di incarichi dirigenziali:



Prevenzione delle infiltrazioni mafiose (c.d. white list)

L'articolo 1, commi da 52 a 58, della legge 190/2012 detta una serie di disposizioni volte a prevenire le infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti di lavori. In particolare, la legge anticorruzione prevede l'istituzione presso ogni prefettura di c.d. white list, ovvero elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di opere non soggetti a infiltrazione mafiosa.

Già in precedenti occasioni nel corso della legislatura il parlamento aveva previsto l'istituzione di questi elenchi. Si ricordano, in particolare,

- l'art. 4 del decreto-legge 70/2011 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia) che per l’efficacia dei controlli antimafia nei subappalti e subcontratti successivi ai contratti pubblici ha, per primo, generalizzato l’istituzione di “white list” di imprese presso le Prefetture, prima previsto in singole leggi speciali (normative sulla ricostruzione in Abruzzo, sulle opere per l'EXPO 2015, sul piano carceri);

- l'art. 5-bis del decreto-legge 74/2012 (Terremoto Emilia) che prevede – per l’efficacia dei controlli antimafia sugli interventi di ricostruzione post-terremoto - che presso le prefetture delle province interessate agli interventi stessi siano istituite le cd. white list ovvero gli elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori considerati soggetti non a rischio di infiltrazione mafiosa, cui si rivolgono gli esecutori dei lavori di ricostruzione. Va sottolineato come il comma 1 dell’art. 5-bis del DL 74/2012 prevede – diversamente dall’art. 4 del D.L. 70/2011, per cui è facoltativo – il ricorso obbligatorio, per gli esecutori dei lavori di ricostruzione, ad una delle imprese inserite nella white list.

Si ricorda che l'art. 91, comma 7, del D.Lgs 159/2011 (Codice antimafia) affida ad un regolamento, da adottare con D.M. Interno, l'individuazione delle diverse tipologie di attività suscettibili di infiltrazione mafiosa nell'attività di impresa per le quali, indipendentemente dal valore del contratto, è sempre obbligatoria l'acquisizione dell'informazione antimafia.

Analiticamente, la legge anticorruzione:

La riforma diventerà operativa a partire dal sessantesimo giorno successivo all'emanazione di un decreto attuativo del Presidente del consiglio dei ministri (comma 57).



Ambito di applicazione

L’articolo 1, co. 59, dispone in via generale in ordine all’ambito di applicazione delle disposizioni anticorruzione dei commi da 1 a 57 che investe tutte le amministrazioni pubbliche indicate dall’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 165/2001. Contiene inoltre una clausola di adeguamento (co. 60) ad alcune disposizioni recate dalla legge per le regioni e province autonome di Trento e Bolzano, nonché per gli enti locali, gli enti pubblici e i soggetti di diritto privato sottoposti al loro controllo.

In particolare, si stabilisce che i relativi adempimenti siano adottati entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge in sede di Conferenza unificata e riguardano:



L'incandidabilità alle cariche elettive

La legge anticorruzione, all’articolo 1, co. 63-65, delega il Governo ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e di componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, di presidente e di componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di consigliere di amministrazione e di presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al D.lgs 267/2000 c.d. TUEL, e successive modificazioni, di presidente e di componente degli organi esecutivi delle comunità montane.

Si tratta di riordinare ed armonizza la normativa vigente, disseminata in distinte fonti normative, secondo alcuni principi e criteri direttivi:

In chiusura della legislatura, la delega è stata attuata con il D.lgs. 235/2012, che completa il quadro delle novità intervenute in materia di Ineleggibilità, incandidabilità e incompatibilità parlamentari.

 



La disciplina del fuori ruolo per magistrati e avvocati dello Stato

La legge anticorruzione vieta ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e procuratori dello Stato, la partecipazione a collegi arbitrali o l'assunzione di incarico di arbitro unico (art. 1, comma 18), pena la decadenza dalla carica e la nullità degli atti compiuti.

Rispetto agli stessi soggetti, i commi da 66 a 74 dell'articolo 1 della legge prevedono l’obbligo del collocamento fuori ruolo per l’attribuzione degli incarichi apicali o semiapicali presso istituzioni, organi ed enti pubblici. La legge delega inoltre il Governo a individuare gli ulteriori incarichi per i quali il collocamento fuori ruolo è obbligatorio. In particolare, la legge 190/2012:



Le modifiche ai delitti contro la pubblica amministrazione

I commi da 75 a 83 dell'articolo 1 della legge 190/2012 apportano modifiche al codice penale e al codice di procedura penale con la sue disposizioni di attuazione, al codice civile e al decreto legislativo sulla responsabilità amministrativa degli enti (d.lgs. 231/2001).



Le novelle al codice penale

La legge 190/2012 (art. 1, comma 75) introduce numerose modifiche al codice penale; in primo luogo, aumenta le pene previste per i seguenti delitti contro la pubblica amministrazione:

Inoltre, la legge ridefinisce alcune fattispecie penali e ne introduce di nuove. Analiticamente:

Sull'eliminazione del riferimento alla figura dell'incaricato di pubblico servizio nel testo dell'articolo 317 c.p. si è sviluppato un particolare dibattito nella seduta del 22 maggio 2012 delle Commissioni riunite alla Camera. Sul punto è intervenuto, in risposta ad alcune richieste di chiarimenti, il Ministro della giustizia Severino che ha evidenziato come la scelta di non prevedere più l'incaricato di pubblico servizio quale autore del reato trovi la propria giustificazione nella considerazione che questi non ha poteri tali da essere in grado di costringere il soggetto passivo del reato, mentre è in grado di indurlo indebitamente a dare o promettere delle utilità. Il Ministro ha proseguito osservando poi come, in sostanza, la nuova formulazione dei reati di concussione, corruzione per l'esercizio della funzione e induzione indebita a dare o promettere utilità tenga conto, per quanto attiene al soggetto attivo del reato, della diversa forza coercitiva del pubblico ufficiale e dell'incaricato di pubblico servizio. L'eliminazione del riferimento alla figura dell'incaricato di pubblico servizio ripristina sul punto il testo dell'articolo 317 del codice penale vigente anteriormente alla riforma effettuata con la legge n. 86 del 1990.

Ulteriori modifiche al codice penale hanno, soprattutto, natura di coordinamento essendo prevalentemente volte ad estendere l'ambito di applicazione di alcune disposizioni codicistiche mediante l'inserimento nelle medesime del rinvio alle nuove fattispecie incriminatrici. Da ultimoInfine, la legge



La corruzione tra privati

La legge 190/2012 (art. 1, comma 76) novella il codice civile sostituendo l'art. 2635 (prima rubricato Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità), e rubricandolo corruzione tra privati.

La disposizione prevede - al comma 1 - che siano puniti con la reclusione da uno a tre anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori che, compiendo od omettendo atti in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionano nocumento alla società. Il comma 2 dispone l'applicazione della pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al precedente comma. Il successivo comma 3 prevede che il soggetto che dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e secondo comma sia punito con le pene ivi previste. Il comma 4, infine, statuisce che le pene stabilite nei commi precedenti siano raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 58/1998). Il delitto è procedibile a querela.



La responsabilità amministrativa da reato degli enti

L'art. 1, comma 77 della legge anticorruzione coordina la disciplina della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (d.lgs 231/2001) con le novelle introdotte nel codice penale (v. sopra). In particolare, la citata responsabilità consegue anche per i reati:



Le novelle al codice di procedura penale e alle sue disposizioni di attuazione

La legge anticorruzione interviene (art. 1, comma 78) anche sull'art. 308 del codice di procedura penale, in tema di durata massima delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare. Inserendo nella disposizione un ulteriore comma si prevede che, nel caso in cui si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 314 (Peculato), 316 (Peculato mediante profitto dell'errore altrui), 316-bis (Malversazione a danno dello Stato), 316-ter (Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), 317 (Concussione), 318 (Corruzione per l'esercizio della funzione), 319 (Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio), 319-ter (Corruzione in atti giudiziari), 319-quater, primo comma (Induzione indebita a dare o promettere utilità), e 320 (Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio) del codice penale, le misure interdittive perdano efficacia decorsi sei mesi dall'inizio della loro esecuzione (in luogo dell'ordinario termine di due mesi). Si dispone, inoltre che, in ogni caso, qualora tali misure siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice possa disporne la rinnovazione anche oltre sei mesi dall'inizio dell'esecuzione, fermo restando che comunque la loro efficacia viene meno se dall'inizio della loro esecuzione sia decorso un periodo di tempo pari al triplo dei termini previsti dall'articolo 303 del codice di procedura penale.

La legge novella anche (art. 1, comma 79) l'art. 133 delle norme di attuazione del codice di rito, prevedendo che anche il decreto che - ai sensi dell'articolo 429 del predetto codice - dispone il giudizio per il nuovo reato di cui all’articolo 319-quater del codice penale (Induzione indebita a dare o promettere utilità), sia comunicato alle amministrazioni o agli enti di appartenenza del dipendente pubblico.



Ulteriori interventi di coordinamento

Infine, la legge 190/2012



Dossier pubblicati



I lavori preparatori della legge 6 novembre 2012, n. 190



Il decreto legislativo 235/2012



Lo schema di decreto legislativo sul fuori ruolo

Lavoro flessibile nella P.A.

All'interno del complessivo disegno di riforma del lavoro pubblico e, più in generale, degli interventi per il contenimento delle spese di personale, si collocano le misure volte a disciplinare l'utilizzo del lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni, al fine di circoscriverne l'utilizzo a fronte di esigenze temporanee ed eccezionali e di contenere il rischio di abusi e precarizzazione.

Il fenomeno dei lavoratori precari della pubblica amministrazione (intendendo per tali i lavoratori con contratto a tempo determinato e con altre forme contrattuali flessibili) si è accumulato nel tempo ed è in parte collegato al blocco del turnover, di cui ha spesso costituito una forma di elusione. Secondo gli ultimi dati disponibili (Conto annuale 2012 della RGS, analisi di specifici dati nel periodo 2007-2011), i precari della P.A. sono poco più di 200.000 (di cui poco più di 130.000 precari della scuola).

Le politiche sviluppate nel corso della legislatura sono state indirizzate al contenimento del fenomeno e, in prospettiva, al suo progressivo riassorbimento. In tale prospettiva, i provvedimenti più importanti sono stati, nella fase iniziale della legislatura, l’articolo 49 del D.L. 112/2008 e l’articolo 17 del D.L. 78/2009 (modificativi dell’articolo 36 del D.Lgs. 165/2001, che ha introdotto il lavoro flessibile nella P.A.)

Il nuovo impianto normativo, nel ribadire il principio che le assunzioni avvengono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (seguendo le apposite procedure di reclutamento previste dall’articolo 35 del D.Lgs. 165/2001), prevede la possibilità per le amministrazioni pubbliche di avvalersi, in caso di esigenze temporanee ed eccezionali, dei contratti flessibili previsti dal diritto civile. Ai contratti collettivi nazionali si demanda (ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine all’individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalla legge) la disciplina in materia di contratti di lavoro a tempo determinato, di contratti di formazione e lavoro, di altri rapporti formativi e di somministrazione di lavoro (alla quale comunque non è possibile ricorrere per l’esercizio di funzioni direttive e dirigenziali), in applicazione di quanto previsto dalle rispettive normative di settore, con riferimento alla individuazione dei contingenti di personale utilizzabile. Al fine di favorire la stabilizzazione del personale precario,  viene riconosciuta, per gli anni 2001-2012, la possibilità di inserire, nei bandi concorsuali per le assunzioni a tempo indeterminato, clausole volte a valorizzare l’esperienza professionale maturata, nonché a garantire una riserva di posti (nel limite del 40%).

Il contrasto alla precarizzazione si è sviluppato dapprima attraverso la previsione di una durata massima del rapporto di lavoro flessibile, con l’introduzione del divieto per le P.A. di ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori ai tre anni nell’arco dell’ultimo quinquennio (articolo 49, D.L. 112/2008). Successivamente, tale vincolo di utilizzo è stato rimosso (con esclusione dei contratti a tempo determinato, per i quali resta invece fermo il limite di 36 mesi previsto dalla disciplina generale di cui al decreto legislativo 368/2001) e, contestualmente, è stato introdotto l’obbligo per le P.A. di redigere un rapporto informativo annuale (da inviare al Parlamento) sulle tipologie di lavoro flessibile e sui lavoratori socialmente utili (LSU) utilizzati, con l’obiettivo di poter disporre di un quadro sempre aggiornato del fenomeno e di attuare più efficaci controlli (articolo 49 del D.L. 112/2008).

Al fine di responsabilizzare maggiormente i dirigenti ed assicurare, per questa via, il rispetto della normativa, è stato previsto che la violazione delle disposizioni relative all’utilizzo dei contratti flessibili è fonte di responsabilita' dirigenziale, con la conseguenza che di esse si tiene conto anche in sede di valutazione dell’operato del dirigente (ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs. 286/1999); inoltre, al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere corrisposta la retribuzione di risultato e, in caso di dolo o colpa grave, la P.A. può rivalersi sul dirigente per i danni che essa ha dovuto liquidare al lavoratore.

Vincoli puntuali all’utilizzo di rapporti di lavoro flessibili sono stati introdotti dall’articolo 9, comma 28, del DL 78/2010, il quale ha previsto che le P.A. (a decorrere dal 2011) possono avvalersene nel limite del 50 per cento della spesa sostenute, per le stesse finalità, nell’anno 2009. Il provvedimento dispone, inoltre, che tali vincoli costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica, a cui devono adeguarsi le regioni, le province autonome e gli enti del S.S.N., nonchè (per effetto dell’articolo 4, commi 102 e 103, della L. 183/2011) le Camere di commercio e gli enti locali.

Nella fase terminale della legislatura si è posto con forza il problema dei numerosi contratti a tempo determinato prossimi alla scadenza. Un ampio ed articolato quadro del fenomeno, con l’indicazione delle possibili linee di azione (nel breve termine e a regime) è stato tracciato dal Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione  nell’audizione del 5 dicembre 2012 in XI Commissione (Lavoro) della Camera. Le soluzioni prospettate hanno trovato una prima traduzione normativa con articolo 1, commi 400-401, della L. 228/2012 (legge di stabilità 2013), che (in vista della stipulazione di un Accordo quadro volto a definire deroghe alla disciplina generale sui contratti a termine, di cui al D.Lgs. 368/2001) ha autorizzato le pubbliche amministrazioni, fermi restando i vincoli finanziari previsti dalla normativa vigente e fatti salvi gli accordi decentrati eventualmente già sottoscritti, a prorogare i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere al 30 novembre 2012, che superino il limite di 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi (o il diverso termine previsto dai contratti collettivi nazionali di comparto), fino al 31 luglio 2013, previo accordo decentrato con le organizzazioni sindacali. Al fine di garantire un percorso di stabilizzazione, la norma ha altresì stabilizzato la previsione normativa (per l’innanzi limitata al biennio 2011-2012, ai sensi dell’articolo 17, commi 11-13, del D.L. 78/2009) in base alla quale le P.A. possono prevedere, nei bandi concorsuali per le assunzioni a tempo indeterminato, una riserva di posti (nel limite del 40%) a favore di titolari di rapporti di lavoro a termine con la P.A. che abbiano maturato almeno tre anni di servizio.

Approfondimenti

Documenti e risorse web

Approfondimento: Precari della scuola



Il decreto-legge 134/2009

Il D.L. 134/2009, convertito dalla L. 167/2009, ha stabilito in primo luogo che i contratti a tempo determinato del personale della scuola non possono in alcun caso trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato prima dell'immissione in ruolo.

La questione della continuità didattica e lavorativa del personale è affrontata con l'introduzione di specifici benefici, economici e di carriera, a favore dei precari già titolari di incarico annuale (o fino al termine della attività didattiche) nel precedente anno scolastico 2008-2009 (circa 18 mila lavoratori), nonchè dei docenti che nell'anno scolastico 2008-2009 abbiano conseguito, attraverso graduatorie d'istituto, una supplenza temporanea di almeno 180 giorni, ai quali non sia stato rinnovato il contratto per carenza di posti disponibili.

Ai lavoratori precari in questione viene innanzitutto riconosciuta, in deroga alla normativa vigente, precedenza assoluta nel conferimento delle supplenze per l’anno scolastico 2009-2010 nel caso in cui, per carenza di posti disponibili, non abbiano potuto ottenere il rinnovo dell’incarico annuale.

Inoltre, si introduce la facoltà per l'amministrazione scolastica di promuovere, in collaborazione con le regioni e a valere su risorse finanziarie messe a disposizione dalle regioni medesime, specifici progetti per attività di carattere straordinario, di durata variabile da 3 a 8 mesi, da realizzare prioritariamente mediante l'utilizzo dei suddetti lavoratori precari, percettori di indennità di disoccupazione, ai quali può anche essere corrisposto un compenso di partecipazione.

Ai fini dell’attribuzione del punteggio nelle graduatorie, infine, ai suddetti lavoratori precari viene riconosciuta, indipendentemente dall’effettiva durata dell’impiego nel corso dell’anno scolastico, la valutazione dell’intero anno di servizio.

Il provvedimento, poi, ha definito le modalità di collocamento nelle graduatorie di province diverse da quella di residenza ed è ha riconosciuto la validità del titolo di abilitazione conseguito da alcune categorie di docenti ammessi con riserva a corsi abilitanti speciali. Altre disposizioni riguardano, infine, la validità di taluni concorsi a dirigente scolastico (poi abrogate dal D.L. 170/2009), il controllo sugli insegnanti che si avvalgono dei benefici di cui alla L. 104/1992 (per l'assistenza a familiari disabili) che chiedano l'inserimento in una provincia diversa da quella di residenza, il recupero di risorse inutilizzate dalle scuole, l'adozione e il formato dei libri di testo, l’implementazione dell’anagrafe degli studenti e gli esami preliminari agli esami di Stato per i candidati "esterni".



Il decreto-legge 194/2009

L'articolo 7, comma 4-ter, del decreto-legge 194/2009 (proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25, ha disposto la proroga all’anno scolastico 2010-2011 dei benefici previsti dal decreto-legge 134/2009 (precedenza assoluta nel conferimento delle supplenze; partecipazione a progetti per attività di carattere straordinario promossi dalle scuole in collaborazione con le regioni; valutazione dell'intero anno scolastico per l'attribuzione del punteggio nelle graduatorie) concernenti il personale a tempo determinato della scuola titolare di incarico a tempo determinato annuale o fino al termine delle attività didattiche nell’anno scolastico 2008-2009.



Il decreto-legge 70/2011

Da ultimo, interventi in materia di personale precario della scuola sono recati dall'articolo 9, commi 17-21, del D.L. 70/2011, convertito dalla L. 106/2011. In particolare, si prevede:

- la definizione di un piano triennale per l'assunzione a tempo indeterminato di personale docente e ATA per gli anni 2011-2013, sulla base dei posti vacanti e disponibili (piano approvato con il DM 3 agosto 2011, che ha previsto l'assunzione di 30.300 unità di personale docente ed educativo e 36.000 unità di personale ATA per l'anno scolastico 2011-2012, nonchè l'assunzione di 22.000 unità di personale docente ed educativo e 7.000 unità di personale ATA per ciascuno degli anni scolastici 2012-2013 e 2013-2014);

- la non applicazione del D.Lgs. 368/2001 (che disciplina il contratto a tempo determinato, prevedendo, in particolare, l'automatica trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato nel caso rinnovi oltre il triennio) ai contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze nella scuola;

- la stabilizzazione al 31 agosto di ogni anno del termine per le assunzioni a tempo indeterminato e per i provvedimenti di assegnazione o utilizzazione comunque di durata annuale del personale insegnante e ATA di ruolo (incluse le supplenze annuali), nonché per il conferimento degli incarichi di presidenza;

- dall'anno scolastico 2011-2012, l'aggiornamento delle graduatorie degli insegnanti ogni 3 anni, con possibilità di trasferimento in un'unica provincia (in attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 41 del 2011);

- la possibilità per gli insegnanti con nomina a tempo indeterminato decorrente dallo stesso anno scolastico di chiedere il trasferimento dopo 5 anni di effettivo servizio nella provincia di titolarità;

- la proroga per l'anno scolastico 2011-2012 di specifiche disposizioni del decreto-legge 134/2009 (precedenza nelle assegnazioni delle supplenze; facoltà, per l'amministrazione scolastica, di promuovere, in collaborazione con le regioni, specifici progetti inerenti ad attività straordinarie della durata di tre mesi, prorogabili a otto; riconoscimento di specifici punteggi ai fini del collocamente nelle graduatorie ai docenti ed al personale ATA utilizzati per le supplenze temporanee o per i progetti regionali di formazione) relativamente al personale che, nel richiamato anno, non abbia potuto stipulare, per carenza di posti, contratti di supplenza della stessa tipologia di quello dell’anno precedente o, comunque, dell’ultimo anno lavorativo nel triennio precedente.



Dossier pubblicati

Previdenza nel pubblico impiego

Nel settore della previdenza pubblica sono state a più riprese modificate le norme relative alla permanenza in servizio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo, è stata riconosciuta alle amministrazioni la facoltà di risolvere il rapporto di lavoro dopo 40 anni di servizio effettivo ed è stata introdotta l'anticipazione del TFR. Inoltre, a seguito della sentenza di condanna della Corte di giustizia delle Comunità europee, si è provveduto ad innalzare l'età pensionabile delle dipendenti del pubblico impiego.

Permanenza in servizio oltre i limiti di età

L’articolo 72 del D.L. 112/2008 aveva rimesso alla valutazione dell’amministrazione di appartenenza il riconoscimento della possibilità per i dipendenti pubblici di permanere in servizio per un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo (in precedenza la scelta di permanere in servizio era rimessa unicamente al dipendente, configurandosi pertanto come diritto soggettivo). L’amministrazione era tenuta a valutare la richiesta in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, tenendo conto di vari parametri (quali la particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in specifici ambiti e l’efficiente andamento dei servizi). La domanda di permanenza in servizio doveva essere presentata all’amministrazione di appartenenza dai 24 ai 12 mesi precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento.
Successivamente, l’articolo 1, comma 17, del D.L. 138/2011, ha stabilito che la facoltà di trattenimento in servizio viene esercitata unilateralmente dall’amministrazione sulla base della semplice disponibilità del dipendente e non più su sua richiesta.
Da ultimo, nel quadro della riforma previdenziale attuata con il D.L. 201/2011 (riforma Fornero), l'istituto è stato di fatto abrogato (articolo 24, comma 14).

Risoluzione del rapporto di lavoro

L’articolo 72 del D.L. 112/2008, cosi come modificato dall’articolo 17, commi 35-novies e decies del D.L. 78/2009, ha riconosciuto la facoltà per le pubbliche amministrazioni, per il triennio 2009-2011, di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nel caso in cui il dipendente (compresi i dirigenti) abbia maturato un’anzianità contributiva pari a 40 anni (con un preavviso di sei mesi e fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici). Viene specificato che tale facoltà rientra nei poteri di organizzazione della P.A. ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs. 165/2001.
La nuova disciplina non trova applicazione nei confronti dei magistrati, dei professori ordinari e dei dirigenti medici responsabili di struttura complessa.
Successivamente, l'articolo 16, comma 11, del D.L. 98/2011, ha previsto che, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro derivante dall’esercizio della facoltà richiamata, la pubblica amministrazione non debba fornire ulteriori motivazioni, qualora essa abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo. Specifici criteri e modalità applicative per i dipendenti dei comparti sicurezza, difesa ed esteri, sono rimessi ad appositi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Da ultimo l’articolo 1, comma 16, del D.L. 138/2011, ha disposto la proroga dell’applicazione dell’istituto per il triennio 2012-2014 (così come anche confermato dall'articolo 24, comma 20, del D.L. 201/2011).

 


Trattamenti di fine servizio (TFR) e di fine rapporto (TFS)

L’articolo 4, commi 4 e 5, del D.L. 185/2008, ha esteso ai dipendenti pubblici la possibilità (già riconosciuta ai dipendenti del settore privato) di ottenere l’anticipazione del trattamento di fine rapporto in determinati casi. L’attuazione della nuova disciplina è rimessa a un decreto ministeriale (fin qui non emanato).

L’articolo 12 del D.L. 78/2010 ha disposto la corresponsione dei TFS in forma rateale. In particolare, i TFS (comunque denominati) spettanti in seguito a cessazione di servizio vengono erogati:

Il provvedimento, inoltre, ha applicato a tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni con effetto sulle anzianità contributive maturate dal 1° gennaio 2011, seppur con il principio del pro-rata temporis, il regime del trattamento di fine rapporto (TFR) (di cui all'articolo 2120 del codice civile), in sostituzione dei trattamenti di fine servizio (e delle indennità equipollenti), per tutti i dipendenti assunti entro il 31 dicembre 2000 i quali non abbiano optato per il TFR stesso. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 223/2012 , ha tuttavia dichiarato illegittima tale norma (peraltro successivamente abrogata dall’articolo 1, commi 98-101, della L. 228/2012), con ciò ripristinando la piena applicazione dei regimi di trattamento di fine servizio (comunque denominati) già vigenti per i dipendenti pubblici anteriormente al 1° gennaio 2011.

Specifiche norme sui termini per la corresponsione dei trattamenti di fine servizio (comunque denominati) dei dipendenti pubblici sono state introdotte dall’articolo 1, commi 22-23 e 32, del D.L. 138/2011.
In primo luogo si prevede un posticipo di 6 mesi per i TFS riconosciuti per raggiungimento dei limiti di età o di servizio e per il collocamento a riposo d’ufficio previsti dagli ordinamenti di appartenenza (per i quali nella normativa previgente non era previsto alcun posticipo).
Inoltre, si incrementa a 24 mesi il posticipo (rispetto ai 6 previsti dalla legislazione previdente), per i TFS erogati per altre cause (es. dimissioni, licenziamento).
Per i soggetti che abbiano maturato i requisiti per il pensionamento prima della data di entrata in vigore del decreto-legge (13 agosto 2011) e per i dipendenti del comparto scuola che maturino i medesimi requisiti entro il 31 dicembre 2011 resta ferma la disciplina previgente.

Infine, sono stati modificati i criteri di calcolo delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio (comunque denominati) nell'ipotesi in cui il dipendente pubblico sia stato titolare di un incarico dirigenziale per un periodo inferiore al minimo generale di tre anni (richiesto dall’articolo 19, comma 2, del D.Lgs. 165/2001), a causa del conseguimento del limite di età per il collocamento a riposo. In sostanza, la norma ha lo scopo di evitare che nel caso in cui al momento del collocamento a riposo il dipendente sia titolare di un incarico dirigenziale inferiore a 3 anni, lo stipendio erogato nel periodo dell’incarico sia preso come parametro di riferimento ai fini del calcolo della base pensionabile. La disposizione si applica agli incarichi conferiti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto-legge e, qualora abbiano una decorrenza successiva al 1° ottobre 2011, anche agli incarichi conferiti precedentemente.

Età pensionabile delle donne

Con la sentenza del 13 novembre 2008, emessa a seguito della procedura di infrazione avviata nel luglio 2005 dalla Commissione europea, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne.
In relazione a tale sentenza, la Commissione di studio sulla parificazione dell’età pensionabile, istituita nell’ambito del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione, ha prodotto, il 23 febbraio 2009, una relazione in ordine al recepimento della pronuncia della Corte di giustizia.
Con l’articolo 22-ter del D.L. 78/2009, il legislatore ha inteso dare attuazione alla richiamata sentenza, modificando la disciplina relativa ai requisiti anagrafici richiesti ai fini del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti. In sostanza, la norma ha disposto l’incremento di un anno dell’età anagrafica richiesta (quindi 61 anni) ai fini della pensione di vecchiaia a decorrere dal 2010, prevedendo altresì ulteriori incrementi di un anno per ogni biennio successivo, a decorrere dal 1° gennaio 2012, fino al raggiungimento dei 65 anni, a regime, nel 2018.
Successivamente, l'articolo 12, comma 12-sexies, del D.L. 78/2010, modificando in parte l'articolo 22-ter, ha disposto che il raggiungimento del requisito anagrafico dei 65 anni ai fini del riconoscimento della pensione di vecchiaia operi a regime a decorrere dal 1° gennaio 2012, quindi con un incremento anagrafico pari a quattro anni (in luogo del sistema di incrementi progressivi previsti in precedenza dallo stesso articolo 22-ter). Tale limite è stato innalzato a 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2012 dall’articolo 24 del D.L. 201/2011 (Riforma Fornero), il quale, attuando una revisione complessiva del sistema pensionistico, ha ridefinito i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere, appunto, dal 1° gennaio 2012, anche per i pubblici dipendenti.

Approfondimenti

Documenti e risorse web

Approfondimento: Sentenza della Corte di giustizia UE sull'età pensionabile delle dipendenti pubbliche

Con la sentenza del 13 novembre 2008 , emessa a seguito della procedura di infrazione avviata nel luglio 2005 dalla Commissione europea, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne.

Nell’avviare la procedura di infrazione, la Commissione europea ha sostenuto che il regime gestito dall’INPDAP è un regime c.d. professionale al quale si applicano la direttiva 86/378/CEE , e successive modifiche, nonché l’articolo 141 del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), i quali vietano qualsiasi discriminazione retributiva in base al sesso. Conseguentemente, il sistema pensionistico definito in Italia per il pubblico impiego è stato ritenuto un regime discriminatorioin quanto stabilisce che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne.

La Commissione europea ha dapprima invitato l’Italia ad adottare i provvedimenti necessari a conformarsi al principio di non discriminazione e successivamente adito la Corte di giustizia.

La Corte ha ricordato preliminarmente che, al fine di valutare se una pensione di vecchiaia rientri nell’ambito applicativo dell’articolo 141 del Trattato, assume carattere determinante il c.d. “criterio dell’impiego”, ovvero il criterio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce all’ex datore di lavoro.

Inoltre, sulla base di una giurisprudenza comunitaria consolidata, è stato rilevato che un regime pensionistico di vecchiaia deve essere considerato retribuzione qualora ricorrano i seguenti requisiti:

Dopo aver esaminato il regime della pensione di vecchiaia gestita dall’INPDAP, la Corte di giustizia ha constatato che:

a)       i dipendenti pubblici che beneficiano del regime previdenziale INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori;

b)       la pensione erogata dall’INPDAP viene calcolata con riferimento al numero degli anni di servizio prestati dal dipendente ed allo stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento;

c)       la base di calcolo della pensione INPDAP risponde ai criteri stabiliti dalla Corte in precedenti sentenze ai fini della qualificazione della pensione come retribuzione.

La Corte ha pertanto concluso che la pensione versata in forza del regime INPDAP costituisce una forma di retribuzione ai sensi dell’articolo 141 del Trattato e che la fissazione di un requisito di età variabilesecondo il sesso per la concessione della pensione di vecchiaia (che costituisce una retribuzione ai sensi del citato articolo 141) è in contrasto con il principio della parità retributiva tra uomini e donne.

La sentenza non ha accolto, tra l’altro, l’argomento fornito dalla Repubblica italiana secondo il quale la fissazione, ai fini del pensionamento, di una età diversa in relazione al sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne. In proposito, è stato evidenziato dalla Corte che la fissazione di una età diversa per la pensione di vecchiaia non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile.

La Corte ha pertanto concluso che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’articolo 141 del Trattato.

Riduzione degli organici e limitazioni del turn-over

All'interno del complessivo disegno di riforma del lavoro pubblico e, più in generale, degli interventi per il contenimento delle spese di personale, si collocano le misure volte alla ridefinizione delle dotazioni organiche e alla limitazione del turn-over, che nel corso della legislatura sono state progressivamente rafforzate.

Rideterminazione degli organici

Il ridimensionamento degli assetti organizzativi delle amministrazioni statali e di varie categorie di enti pubblici nazionali secondo principi di efficienza, razionalità ed economicità è stato perseguito attraverso una lunga serie di provvedimenti. Tali interventi sono stati caratterizzati dalla progressiva riduzione degli uffici dirigenziali (di livello generale e non generale) e delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale, fissando di volta in volta obiettivi e limiti temporali entro i quali le P.A. erano chiamate ad adempiere. Al fine di assicurare l’effettiva attuazione delle norme, è stato previsto il divieto di procedere ad assunzioni di personale, a qualsiasi titolo e con qualsiasi contratto, per le amministrazioni inadempienti.

In primo luogo, con l’articolo 74 del D.L. 112/2008 è stata operata una riduzione del 20% degli uffici dirigenziali di livello generale e del 15% di quelli di livello non generale, da effettuarsi entro il 30 novembre 2008 (per i soli Ministeri tale termine è stato successivamente differito, dal D.L. 207/2008, al 31 maggio 2009). Entro la stessa data è stata altresì prevista la riduzione delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale (ad esclusione di quelle degli enti di ricerca) nella misura del 10% della spesa complessiva relativa al numero dei posti di organico; è inoltre stato ridotto il personale adibito allo svolgimento di compiti logistico-strumentali e sono state riorganizzate le strutture periferiche delle amministrazioni.

Ulteriori riduzioni del 10% degli uffici dirigenziali di livello non generale e delle relative dotazioni organiche, nonché dell’organico di personale non dirigenziale (sulla base delle riduzioni già operate dal D.L. 112/2008) sono state previste dall’articolo 2, comma 8-bis, del D.L. 194/2009 e, successivamente, dall’articolo 1, commi 3-5, del D.L. 138/2011 (da effettuarsi entro il 31 marzo 2012, sulla base delle riduzioni operate dal D.L. 194/2009).

Infine, l’articolo 2, comma 1, del D.L. 95/2012, ha disposto la riduzione, con specifiche eccezioni (comparto sicurezza, magistratura personale amministrativo degli uffici giudiziari, Presidenza del Consiglio dei Ministri e personale già interessato0 dalle riduzioni di cui al D.L. 87/2012), degli uffici e delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni dello Stato in misura non inferiore al 20% per il personale dirigenziale (di livello generale e non generale) e del 10% della spesa complessiva relativa al numero dei posti in organico, per il personale non dirigenziale, da definire con specifici D.P.C.M. entro il 31 ottobre 2012 (che non risultano ancora essere stati pubblicati sulla G.U.). Tali riduzioni si applicano agli uffici e alle dotazioni organiche risultanti a seguito degli interventi già disposti, da ultimo, dal D.L. 138/2011. Per le unità di personale in soprannumero all'esito delle riduzioni previste, fermo restando il divieto di assunzioni a qualsiasi titolo (compresi i trattenimenti in servizio), si prevede il pensionamento anticipato (a determinate condizioni), il passaggio al part-time, l’avvio di procedure di mobilità e la ricollocazione presso altre P.A. con vacanze di organico; il personale non riassorbibile viene dichiarato in esubero (comunque entro e non oltre il 30 giugno 2013).

 

Limitazioni al turn-over

Parallelamente alle riduzione degli uffici e degli organici, nel corso della legislatura si sono rafforzati gli interventi volti al contenimento delle spese per il personale delle pubbliche amministrazioni, soprattutto attraverso limitazioni alle assunzioni di personale a tempo indeterminato.

In primo luogo, il D.L. 78/2010 (articolo 9, commi 5-12) ha esteso al 2012 e 2013 i limiti alle assunzioni di personale a tempo indeterminato (con regimi particolari per i Corpi di polizia e il Corpo nazionale dei vigili del fuoco e per gli enti di ricerca) già previste (per gli anni 2010 e 2011) dalla legislazione vigente (articolo 3, comma 102, della L. 244/2007 e articolo 66, comma 7, del D.L. 112/2008), consentendo di assumere (previo effettivo svolgimento delle procedure di mobilità) unicamente entro il limite del 20% della spesa relativa al personale cessato nell'anno precedente (limite che passa al 50% nel 2014 e al 100% dal 2015)

Per quanto riguarda il personale a tempo determinato e i rapporti di lavoro flessibili (in convenzione, contratti di collaborazione coordinata e continuativa, contratti di formazione lavoro e altri rapporti formativi, somministrazione di lavoro, lavoro accessorio), il medesimo decreto-legge (articolo 9, comma 28) ha previsto che le P.A. (a decorrere dal 2011) possono avvalersene nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009. Il provvedimento stabilisce, altresì, che tali vincoli costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica, a cui devono pertanto deguarsi le regioni, le province autonome e gli enti del S.S.N., nonchè (per effetto dell’articolo 4, commi 102 e 103, della legge 183/2011) le Camere di commercio e gli enti locali.

Specifiche disposizioni volte a consentire l’assunzione di personale a tempo indeterminato relativo a cessazioni verificatesi in anni precedenti (assunzioni a cui le P.A. non hanno provveduto entro i termini inizialmente previsti) sono state previste dai decreti-legge 98/2011 (articolo 16) e 216/2011 (articolo 1).

Uno specifico filone normativo (soprattutto l’articolo 76 del D.L. 112/2008, gli articoli 9 e 14 del D.L. 78/2010, entrambi oggetto di successivi interventi di modifica ed integrazione, nonché l’articolo 16 del D.L. 95/2012) ha riguardato i limiti alle assunzioni di personale negli enti locali , secondo specifici parametri di virtuosità legati anche al rispetto del Patto di stabilità interno.

Da ultimo, il D.L. 95/2012 (articolo 14) è nuovamente intervenuto sui limiti alle assunzioni di personale a tempo indeterminato (già definiti dal D.L. 78/2010), da un lato disponendo la proroga al 2014 del tetto di spesa del 20% rispetto alla spesa relativa al personale cessato nell'anno precedente (limite che passa al 50% nel 2015 e al 100% dal 2016); dall’altro prevedendo l’estensione dei limiti alle assunzioni ai Corpi di polizia e ai vigili del fuoco.

Approfondimenti

Approfondimento: Personale delle Università e degli Enti di ricerca

Per quanto attiene il contenimento delle spese per il personale delle Università e degli Enti di ricerca, nel corso della XVI Legislatura sono stati emanati vari provvedimenti volti a limitare le facoltà assunzionali, peraltro attraverso una disciplina speciale rispetto a quella generale.

Anche in questo caso la principale norma è da rintracciare nel D.L. 112/2008, il cui articolo 66, comma 13, nella sua formulazione originaria, aveva previsto che per il triennio 2009-2011 le assunzioni delle atenei fossero soggette al limite del 20% della spesa relativa al personale cessato nell’anno precedente, e che, in ogni caso, il numero delle unità assunte non potesse eccedere, ogni anno, il 20% delle unità cessate l’anno precedente.

In seguito alle modifiche intervenute (da ultimo l’articolo 1, comma 3, del D.L. 216/2011, fermi restando i limiti in materia di programmazione triennale di cui all’articolo 1, comma 105, della L. 311/2004 (finanziaria per il 2005) che, abrogato dal 18 maggio 2012, prevedeva l’adozione di programmi triennali, da parte delle università statali, del fabbisogno di personale docente, ricercatore e tecnico-amministrativo, a tempo determinato e indeterminato, per il quadriennio 2009-2012 le università statali hanno potuto procedere, per ogni anno, ad assunzioni di personale nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al50% di quella relativa al personale a tempo indeterminato cessato dal servizio nell’anno precedente.

Le richiamate limitazioni non si applicano alle assunzioni di personale appartenente alle categorie protette, mentre sono fatte salve le assunzioni dei ricercatori previste in attuazione del piano straordinario di assunzioni di cui all’articolo 1, comma 648, della L. 296/2006, nei limiti di specifiche risorse.

Lo stesso comma ha altresì disposto che nei limiti previsti fosse compreso, per l’anno 2009, anche il personale oggetto di procedure di stabilizzazione in possesso degli specifici requisiti previsti dalla normativa vigente.

Per completezza, si ricorda che l’articolo 1 del D.L. 216/2011, ha anche soppresso la norma (contenuta nello stesso articolo 66, comma 13), che introduceva, a decorrere dal 2012, anche il vincolo che il numero delle unità da assumere non potesse eccedere il 50% delle unità cessate nell’anno precedente.

Oltre a ciò, la norma ha prorogato al 31 dicembre 2012 il termine per procedere alle assunzioni di personale a tempo indeterminato – tra l’altro – delle università statali e degli enti di ricerca relative alle cessazioni verificatesi negli anni 2009 e 2010. Le relative autorizzazioni ad assumere, ove previste, potevano essere concesse entro il 31 luglio 2012.

Per quanto attiene agli enti di ricerca, lo stesso D.L. 112/2008 (articolo 66, comma 13) così come modificato da successivi provvedimenti (articolo 35 del D.L. 207/2008, articolo 9 del D.L. 78/2010, articolo 14 del D.L. 95/2012), ha stabilito che i richiamati enti possano assumere personale a tempo indeterminato- per il quadriennio 2011-2014 - entro il limite del 20% delle risorse derivanti dai pensionamenti dell'anno precedente, nel 2015 entro il limite del 50% e nel 2016 entro il limite del 100%.

Il successivo articolo 74, inoltre, ha previsto l’obbligo, per gli stessi enti, di ridefinire la propria organizzazione e ridurre conseguentemente gli organici per tutti i livelli, nelle percentuali indicate per ciascuno, vietando, in caso di inadempienza, nuove assunzioni.

 

Il D.L. 180/2008 ha inoltre recato disposizioni in materia di reclutamento nelle università e per gli enti di ricerca.

In particolare, è stato previsto che le università statali che alla data del 31 dicembre di ogni anno abbiano superato il livello massimo di spesa per il personale di ruolo (fissato al 90% dei trasferimenti statali sul Fondo per il finanziamento ordinario delle università) non possano procedere all’indizione di procedure concorsuali e di valutazione comparativa, né all’assunzione di personale. Sono fatte salve, tuttavia, le disposizioni che escludono alcune voci di costo dal computo del 90%, nonché le assunzioni relative alle procedure concorsuali per ricercatore già espletate e a quelle in corso di svolgimento.

Allo stesso tempo, è stato elevato dal 20% al 50% il limite al turn-over nelle università, previsto dall’articolo 66 del D.L. 112/2008. Ciascuna università destina tale somma per una quotanon inferiore al 60% all’assunzione di ricercatori e per una quota non superiore al 10% all’assunzione di professori ordinari. Sono fatte salve le assunzioni di ricercatori previste in attuazione del piano straordinario di assunzioni di cui all’articolo 1, comma 648, della L. 296/2006.

 

Per gli enti di ricerca, l’articolo 1 del D.L. 180/2008 ha escluso i medesimi enti dall’obbligo di ridurre la spesa per il personale non dirigenziale, misura in seguito confermata dall’articolo 2, comma 8-bis, del D.L. 194/2009 (che per le P.A. in generale ha stabilito un'ulteriore riduzione degli organici).

Per quanto attiene alle università, invece, l’articolo 7, comma 4-bis, del D.L. 194/2009 ha previsto la non applicazione delle disposizioni che limitano il turn over nelle università ad alcuni istituti universitari ad ordinamento speciale (Istituto universitario di studi superiori di Pavia, Istituto italiano di scienze umane di Firenze e Scuola IMT - Istituzioni, Mercati, Tecnologie Alti Studi di Lucca).

 

Riguardo agli enti di ricerca, l'articolo 29, comma 28, del D.L. 78/2010 ha esentato i medesimi dall'obbligo di ridurre del 50%, rispetto al 2009, l'importo destinato al reclutamento di personale precario, confermando, allo stesso tempo, che la spesa in questione non possa superare il 35% delle somme impegnate per analoghe finalità nel 2003.

 

Successivamente, l’articolo 1 del D.L. 138/2011 ha stabilito per gli enti di ricerca (ed in generale per le amministrazioni pubbliche) l’impegno ad apportare, entro il 31 marzo 2012, all'esito dei processi di riduzione degli assetti organizzativi derivanti dal D.L. 112/2008, un'ulteriore riduzione degli uffici dirigenziali di livello non generale, e delle relative dotazioni organiche, in misura non inferiore al 10% di quelli risultanti a seguito dell'applicazione dell'art. 2, comma 8-bis, del D.L. 194/2009; nel contempo è stata confermata l'esenzione degli enti di ricerca dalla ulteriore rideterminazione delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale, prevista per la generalità delle P.A. dallo stesso D.L. n. 138/2011.

 

Con specifico riferimento alla programmazione del reclutamento negli atenei, si ricorda che è in vigore dal 18 maggio 2012 il D.Lgs. 49/2012 che reca la disciplina per la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento, in attuazione dell’art. 5 della L. 240/2010. In particolare, gli articoli 3 e 4 del citato D. Lgs. introducono l’obbligo per le università di predisporre un piano triennale, rispettivamente, economico-finanziario e del personale. Il piano triennale comprende le previsioni relative al personale docente, ricercatori, dirigenti e tecnici-amministrativi, compresi i collaboratori ed esperti linguistici, a tempo indeterminato e determinato e di esso devono tenere conto le università al fine della predisposizione dei documenti di bilancio(secondo la nuova disciplina del sopra citato articolo 3, prevista a decorrere dal 2014).

La programmazione del reclutamento di ateneo, infatti, deve essere realizzata assicurando la piena sostenibilità delle spese di personale. Relativamente al primo triennio successivo all’entrata in vigore del decreto, tale programmazione segue specifici indirizzi, relativi al rapporto tra l’organico del personale dirigente e tecnico-amministrativo a tempo indeterminato, alla composizione dell’organico dei professori e al reclutamento dei ricercatori a tempo determinato ammessi con titolo di dottore di ricerca o con diploma di specializzazione medica.

 

Infine, l’articolo 14, comma 3, del D.L. 95/2012, il quale, novellando l’articolo 66 del D.L. 112/2008, ha sostanzialmente disposto che le università statali potranno procedere al turn-over nella misura del 20% del personale cessato dal servizio nell’anno precedente per il triennio 2012-2014, del 50% per il 2015 e del 100% dal 2016.

Le misure percentuali indicate valgono con riferimento “al sistema” nel suo complesso, mentre all’attribuzione del contingente di assunzioni spettante a ciascuna università si provvede con specifico decreto ministeriale, tenuto conto di quanto previsto dall’articolo 7 del D.Lgs. 49/2012 (relativo al rispetto dei limiti per le spese di personale e per le spese per indebitamento degli atenei).

Le disposizioni sul turn-over non si applicano, fino al 31 dicembre 2014, agli istituti universitari ad ordinamento speciale in precedenza richiamati.

 

Il D.L. 95/2012 è intervenuto anche sugli enti di ricerca. In particolare, l’articolo 2, comma 1, ha disposto la riduzione degli uffici e delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni dello Stato in misura non inferiore al 20% di quelle esistenti, per il personale dirigenziale (di livello generale e di livello non generale), nonché del 10% della spesa complessiva relativa al numero dei posti in organico, per il personale non dirigenziale: tale riduzione opera anche per il personale degli enti di ricerca, ad eccezione dei ricercatori e tecnologi.

Il successivo articolo 14, comma 4, disponendo, in merito ai limiti assunzionali per gli enti di ricerca, ha prevista che gli stessi potranno procedere al rinnovo del turn-over nella misura del 20% del personale cessato dal servizio nell’anno precedente per il triennio 2012-2014, del 50% per il 2015 e del 100% dal 2016.

Approfondimento: Personale degli enti locali

Con riferimento al personale degli enti locali si fa presente in primo luogo che le disposizioni di contenimento della spesa per le assunzioni si pongono come strumentali rispetto all’obiettivo del rispetto del Patto di stabilita' interno , incentrato sul controllo dei saldi finanziari.

Nel corso della XVI Legislatura, quindi, si è assistito ad una serie di interventi volti sia a confermare quanto già disposto, sotto questo profilo, nella Legislatura precedente, sia ad introdurre ulteriori modifiche alla normativa in materia.

I provvedimenti “cardine” in materia sono il D.L. 112/2008 (articolo 76) ed il D.L. 78/2010 (articolo 14), mentre gli altri interventi possono sostanzialmente ricondursi a modifiche od integrazioni della disciplina recata da tali provvedimenti.



Il decreto-legge 112/2008

L’articolo 76 del D.L. 112/2008 oltre ad imporre la sospensione delle deroghe al divieto di assunzioni di personale da parte degli enti locali non sottoposti al patto di stabilità interno (di cui all’articolo 3, comma 121, della L. 244/2007), ha introdotto il divieto di procedere ad assunzioni di personale per regioni e enti locali che non abbiano rispettato il patto di stabilità nell’esercizio precedente, nonché l’obbligo, per gli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno, di ridurre l’incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti.

Con apposito D.P.C.M. si dispone, in primo luogo, la definizione dei parametri e criteri di virtuosità, con correlati obiettivi differenziati di risparmio, individuati tenendo conto delle dimensioni demografiche degli enti, delle percentuali di incidenza delle spese di personale attualmente esistenti rispetto alla spesa corrente e dell’andamento di tale tipologia di spesa nel quinquennio precedente. Lo stesso provvedimento inoltre definisce anche i criteri e le modalità per estendere la norma anche agli enti non sottoposti al patto di stabilità interno, nonché quelli per la riduzione dell’affidamento di incarichi a soggetti esterni all’ente, e dell’incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in organico.

Fino all’emanazione del suddetto D.P.C.M. (che non risulta ancora pubblicato sulla G.U.) è vietato agli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale.



Il decreto-legge 78/2010

L’articolo 14, commi da 7 a 10, del D.L. 78/2010, oltre ad indicare i principi sui quali modulare le azioni volte al contenimento dei costi per Regioni ed enti locali (riduzione della percentuale delle spese per il personale sul totale delle spese correnti, snellimento delle strutture con accorpamento di uffici e la riduzione della percentuale delle posizioni dirigenziali, contenimento della crescita della contrattazione integrativa) ha ridotto dal 50% al 40% la percentuale delle spese di personale, rapportate a quelle correnti, oltre la quale scatta il divieto di procedere ad assunzioni di personale. Inoltre, è stato consentito ai “restanti enti”, che non eccedono il parametro di spesa per il personale, di procedere ad assunzioni di personale solo nel limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente relativamente ai costi del personale di enti locali e camere di commercio (a decorrere dal 2011 con riferimento alle cessazioni 2010).

Un ulteriore restringimento della disciplina in materia si è avuto con l’abrogazione della disposizione che, in deroga alla normativa vigente, consentiva agli enti non sottoposti al patto di stabilità interno di effettuare le assunzioni di personale nel limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente avvenute nell'anno precedente, stabilendo che le spese di personale non dovessero superare il corrispondente ammontare dell'anno 2004.

Una specifica deroga alla disciplina generale per gli enti locali soggetti al patto di stabilità interno e per le camere di commercio è stata inoltre prevista dall’articolo 1, comma 118, della L. 220/2010, in base al quale tali enti, a condizione che l’incidenza della spesa per il personale sia pari o inferiore al 35% della spesa corrente, possono effettuare assunzioni in deroga al limite del 20% (della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente) al fine di consentire l'esercizio delle funzioni in materia di federalismo fiscale. Peraltro, nel caso in cui il patto di stabilità relativo al triennio 2011-2013 non sia rispettato, il successivo comma 147 ha disposto il divieto di procedere ad assunzione di personale a qualsiasi titolo, con qualsiasi tipologia contrattuale.



Il decreto-legge 98/2011 e la legge 183/2011

L’articolo 20, comma 9, del D.L. 98/2011 ha esteso la disciplina di contenimento delle assunzioni degli enti anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo con specifiche caratteristiche (ad esclusione delle società quotate su mercati regolamentati).

I commi 102 e 103 dell’articolo 4 della L. 183/2011 hanno esteso agli enti locali ed alle camere di commercio la disciplina del D.L. 78/2010 relativa alla riduzione del 50% (rispetto al 2008) della spesa delle pubbliche amministrazioni relativa alpersonale (a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, contratti di formazione lavoro e ulteriori rapporti formativi, somministrazione di lavoro, lavoro accessorio) disponendo che gli enti locali i quali siano legittimati ad assumere nel limite del 20% delle cessazioni avvenute nell’anno precedente (in quanto hanno contenuto le spese di personale al di sotto del limite del 40%), possano assumere personale unicamente con contratti a tempo indeterminato.

Si fa presente che sul punto è intervenuta la delibera delle Sezioni riunite della Corte dei conti n. 46/CONTR/2011 del 29 agosto 2011, la quale ha stabilito che il suddetto limite di spesa deve “essere riferito alle assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale”.



I decreti-legge 201/2011 e 16/2012

Ulteriori modifiche all’articolo 76 del D.L. 112/2008 sono state apportate dall’articolo 28, comma 11, del D.L. 201/2011, il quale ha riportato al 50% (dal 40%) la percentuale dell’incidenza delle spese di personale sulle spese correnti degli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno, al raggiungimento (nonché superamento) della quale scatta il divieto di assunzioni.

Lo stesso comma ha disposto altresì che i restanti enti possano procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. Ai fini del computo della richiamata percentuale si calcolano le spese sostenute anche dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica. La disposizione di cui al precedente periodo non si applica alle società quotate su mercati regolamentari.

Infine, per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale sia pari o inferiore al 35% delle spese correnti vengono ammesse, in deroga al limite del 20% e comunque nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale, le assunzioni per turn-over che consentano l'esercizio di specifiche funzioni.

Sulla stessa materia è inoltre intervenuto l’articolo 4-ter, commi 10-14, del D.L. 16/2012 che ha elevato dal 20% al 40% il limite delle facoltà assunzionali per gli enti locali nei quali l'incidenza delle spese di personale sia inferiore al 50% delle spese correnti. La norma ha inoltre concesso agli stessi enti maggiori possibilità di assunzioni nei settori dell'istruzione, dei servizi sociali e della polizia locale, fermo restando il criterio di calcolo delle spese di personale ai fini della verifica del rispetto dei parametri di virtuosità, disponendo altresì che per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale sia pari o inferiore al 35% delle spese correnti siano ammesse, in deroga al limite del 40% (in luogo del 20%) e nel rispetto del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale, le assunzioni per turn-over che consentano l'esercizio delle funzioni fondamentali. In tal caso, le disposizioni concernenti il calcolo dell’onere nella misura ridotta del 50%, ai soli fini del calcolo delle facoltà assunzionali, per le assunzioni del personale destinato allo svolgimento delle funzioni in materia di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale, trovano applicazione solamente in riferimento alle assunzioni di personale destinato allo svolgimento di funzioni in materia di istruzione pubblica e del settore sociale. Per gli enti non sottoposti al Patto di stabilità interno si dispone l’obbligo di avere spese di personale non superiori al corrispondente ammontare dell'anno 2008 (in luogo del 2004).

Intervenendo anche sulla disciplina del D.L. 78/2010, si consente agli enti locali, a decorrere dal 2013, di superare il limite del 50% oltre il quale vige il divieto di assumere personale per le assunzioni strettamente necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale, fermo restando che la spesa complessiva non possa comunque superare la spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009.



Il decreto-legge 95/2012

Infine, l’articolo 16, commi 8 e 9, del D.L. 95/2012 ha previsto che con D.P.C.M. da emanare entro il 31 dicembre 2012 (che non risulta ancora essere stato pubblicato sulla G.U.) siano stabiliti i parametri di virtuosità per la determinazione delle dotazioni organiche degli enti locali, tenendo conto prioritariamente del rapporto tra dipendenti e popolazione residente. A tal fine è stata determinata la media nazionale del personale in servizio presso gli enti, prevedendo il blocco delle assunzioni per le amministrazioni collocate oltre il 20% e l’applicazione delle misure sul soprannumero (regolato dallo stesso provvedimento all’articolo 2, comma 11) per le amministrazioni collocate oltre il 40%. Inoltre, si prevede che nelle more dell’attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle Province, sia fatto divieto di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato.

Riforma del lavoro pubblico

Il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n.150, reca una nuova disciplina del lavoro pubblico, con l'obiettivo di incrementare produttività ed efficienza delle pubbliche amministrazioni. Il provvedimento introduce un nuovo sistema di valutazione delle prestazioni e di riconoscimento selettivo dei meriti, intende valorizzare il ruolo dirigenziale, delinea un nuovo sistema di contrattazione collettiva e modifica le procedure disciplinari.

Nell’ambito della politica di riforma della pubblica amministrazione, il settore del pubblico impiego è stato oggetto di un ampio processo di rinnovamento, al fine di incrementarne produttività ed efficienza in un quadro di risorse (umane e materiali) decrescenti.

Le prime misure adotttate nel corso della legislatura hanno mirato a contrastare l’assenteismo, con particolare riguardo alle assenze per malattia e ai permessi retribuiti, nonchè a prevedere nuovi incentivi al pensionamento anticipato. Attraverso nuovi istituti premiali si è cercato di incentivare la produttività del lavoro, prevedendo tra l’altro che il trattamento economico accessorio fosse corrisposto secondo criteri di priorità basati sulla qualità della prestazione e sulle capacità innovative dei lavoratori.

L’intervento organico di maggiore rilievo è tuttavia sicuramente rappresentato dal D.Lgs. 150/2009 (c.d. decreto Brunetta), che in attuazione di un’ampia delega al Governo ha introdotto una riforma complessiva del rapporto di lavoro pubblico. Il provvedimento, in particolare, interviene a:

Tra le finalità del provvedimento vi sono l’incremento dell’efficienza del lavoro pubblico, il contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo, l’incentivazione della qualità della prestazione lavorativa, il riconoscimento dei meriti e dei demeriti, l’ampliamento della selettività e concorsualità nelle progressioni di carriera, l’introduzione di un nuovo sistema disciplinare, il rafforzamento della autonomia e responsabilità della dirigenza, la definizione di nuove norme sulla contrattazione collettiva, la definizione di standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, una maggiore trasparenza dell’operato delle amministrazioni pubbliche.

La nuova disciplina in materia di valutazione riguarda le amministrazioni nel loro complesso, ciascuna unità o area organizzativa e i singoli dipendenti. Il ciclo della performance, governato da una Commissione nazionale di nuova istituzione (“Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche”, la quale, per effetto di quanto successivamente previsto dall’articolo 1, comma 2, della L. 190/2012, opera anche come Autorita' nazionale anticorruzione) e da organismi indipendenti di valutazione istituiti da ciascuna amministrazione (sostitutivi degli attuali Servizi di controllo interno), con un ruolo primario dei dirigenti, si articola in tre fasi, cui corrispondono puntuali obblighi a carico delle P.A.: 1) definizione degli obiettivi, con il Piano triennale della performance; 2) verifica delle prestazioni, con il Sistema di misurazione e valutazione della performance; 3) rendicontazione, con la Relazione sulla performance. Il conseguimento degli obiettivi programmati è condizione per l’erogazione degli incentivi previsti dalla contrattazione integrativa.

Il riconoscimento dei meriti si basa sull’attribuzione selettiva degli incentivi (trattamento accessorio, progressioni economiche e di carriera, attribuzioni di incarichi, accesso a percorsi di alta formazione), secondo una logica comparativa. In particolare, si prevede l’obbligo di stilare una graduatoria delle valutazioni individuali, riconoscendo al 25% del personale collocato nella fascia di merito più elevata l’assegnazione del 50% delle risorse destinate al trattamento accessorio collegato alla performance. Al 50% del personale collocato nella fascia intermedia spetta il restante 50% delle risorse. Al 25% del personale collocato nella fascia di merito bassa non viene attribuito alcun trattamento accessorio.

L’autonomia e la responsabilità dei dirigenti nella gestione delle risorse umane vengono rafforzate e ampliate. In particolare, il dirigente svolge un ruolo essenziale nella valutazione del personale e nell’assegnazione dei premi, rispondendo personalmente (anche con la decurtazione del trattamento accessorio) dell’effettiva produttività delle risorse umane e dell’efficienza complessiva della struttura.

Per quanto concerne la contrattazione collettiva (tema oggetto di esame anche nell’ambito di una più ampia indagine conoscitiva indagine conoscitiva della XI Commissione lavoro della Camera), si delinea un nuovo modello nel quadro di una convergenza con il settore privato sugli assetti regolativi del rapporto di lavoro e del sistema di relazioni sindacali. Viene ridefinito il rapporto tra fonte contrattuale e legge (con ampliamento del ruolo di quest'ultima), sancendo l’inderogabilità della legge per quanto attiene ai principali aspetti regolativi del rapporto di lavoro, con particolare riguardo alle materie rientranti nei poteri dirigenziali. Viene previsto un massimo di quattro comparti di contrattazione nazionale e sancita la durata triennale dei contratti, con coincidenza temporale tra parte giuridica ed economica. Si introducono incentivi alla riduzione dei tempi di rinnovo contrattuale e conseguenti strumenti di tutela salariale (come l’indennità di vacanza contrattuale). Un aspetto essenziale è lo stretto collegamento tra contrattazione collettiva e performance. I contratti nazionali sono chiamati a definire trattamenti economici accessori legati ai risultati (individuali e di unità amministrativa), sulla base di graduatorie di performance delle singole amministrazioni stilate, nell’ambito di ciascun comparto, dalla nuova Commissione nazionale. Ad analoghi principi si ispirano anche le norme relative alla contrattazione integrativa.

Vengono rafforzati gli strumenti di contrasto all’assenteismo per malattia e si rimodula, con l’obiettivo di garantire una maggiore effettività sanzionatoria, la responsabilità disciplinare dei dipendenti, con l’ampliamento delle infrazioni punite con il licenziamento e un migliore coordinamento fra procedimento disciplinare e procedimento penale.

Le norme volte all’introduzione dell’ azione collettiva (c.d. class action ) a tutela di interessi giuridicamente rilevanti e la tutela giurisdizionale nei confronti delle amministrazioni che si discostano dai livelli di riferimento, originariamente contenute nel provvedimento, sono invece successivamente rifluite nel D.Lgs. 198/2009.

L’aggravarsi della crisi economica e il conseguente avvio di politiche volte a correggere le dinamiche della spesa di personale nel settore del pubblico (con il blocco della contrattazione e la riduzione degli organici) hanno tuttavia compromesso il pieno dispiegarsi del percorso attuativo previsto dal decreto di riforma, soprattutto per quanto attiene agli istituti premiali legati ad incentivi economici.

In tale contesto è intervenuto, da ultimo, l’articolo 5, commi da 11 a 11-sexies del D.L. 95/2012, chenelle more dei rinnovi contrattuali e in attesa dell'applicazione delle norme del decreto di riforma, ha disposto una disciplina transitoria sulla valutazione del dipendenti pubblici ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance.

Approfondimenti

Approfondimento: Il decreto legislativo 150/2009 (c.d. decreto Brunetta)



Principi generali

Il D.Lgs. 150/2009, emanato in attuazione degli articoli da 2 a 7 della L. 15/2009, reca una riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti della amministrazioni pubbliche, di cui all’articolo 2, comma 2, del D.Lgs. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego). Sotto il profilo della tecnica legislativa, il provvedimento opera intervenendo sia come novella al richiamato D.Lgs. 165, sia introducendo nuove norme nell’ordinamento.

 

Il provvedimento, operando una parziale rilegificazione della materia, interviene sulla contrattazione collettiva, sulla valutazione delle strutture e del personale delle amministrazioni pubbliche, sulla valorizzazione del merito, sulla promozione delle pari opportunità, sulla dirigenza pubblica e  sulla responsabilità disciplinare.

Inoltre, vengono introdotte norme di raccordo al fine di armonizzare la nuova disciplina con i procedimenti negoziali, di contrattazione e concertazione relativi al personale in regime di diritto pubblico.

Le finalità del provvedimento sono individuate (articolo 1, comma 2):



Misurazione, valutazione e trasparenza della performance

Il sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche è volto ad assicurare elevati standard qualitativi e economici del servizio tramite la valorizzazione dei risultati e della performance organizzativa e individuale (articoli 2 e 3).

Il ciclo di gestione della performance (articoli 4-10) si articola nella definizione e assegnazione degli obiettivi, collegati alle risorse e monitorati nel corso dell’esercizio, e nella rendicontazione dei risultati.

L’indicazione degli obiettivi è espressa nella programmazione triennale adottata dagli organi di indirizzo politico amministrativo, su consultazione dei vertici dell’amministrazione. Tale definizione avviene in coerenza con gli obiettivi di bilancio indicati nei documenti programmatici di cui alla legge 468/1978 ed il loro conseguimento è condizione per l’erogazione degli incentivi previsti dalla contrattazione integrativa.

Nel sistema di misurazione e valutazione della performance, organizzativa e individuale, agiscono vari soggetti anche in raccordo con gli altri sistemi di controllo esistenti e i documenti di programmazione finanziaria e di bilancio (articolo 7). La valutazione concerne, tra l’altro, l’impatto delle politiche sui bisogni della collettività, la modernizzazione e il miglioramento dell’organizzazione e delle competenze professionali, lo sviluppo delle relazioni con i cittadini, gli utenti e i destinatari dei servizi, la qualità e la quantità delle prestazioni e dei servizi erogati, nonché la promozione delle pari opportunità (articolo 8).



Il Piano e la Relazione sulla performance

Le amministrazioni pubbliche redigono annualmente il Piano della performance (entro il 31 gennaio), contenente gli indirizzi e gli obiettivi strategici ed operativi e gli indicatori della misurazione e valutazione, e la Relazione sulla performance (entro il 30 giugno), che indica i risultati organizzativi e individuali raggiunti. Tali documenti sono trasmessi alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (di nuova istituzione, vedi il successivo articolo 13) ed al Ministero dell’economia e delle finanze.

All’articolo 11 la trasparenza della performance è definita come accessibilità totale, su ogni aspetto organizzativo, degli andamenti gestionali e dell’utilizzo delle risorse, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione, al fine di favorire forme diffuse di controllo.



Programma triennale per la trasparenza e l'integrità

Le amministrazioni adottano un Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, contenente le iniziative volte a garantire un adeguato livello di trasparenza, nonché la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità. In tal senso, il Piano della performance e la Relazione della performance, sopra citati, sono presentati ad associazioni di consumatori, centri di ricerca e altri osservatori qualificati in occasione delle giornate della trasparenza, mentre le amministrazioni pubblicano nel loro sito istituzionale le informazioni sui Programmi e i dati sulle retribuzioni, i premi e i curricula di dirigenti, dipendenti e titolari di incarichi di indirizzo politico amministrativo. La mancata adozione di tale Programma comporta il divieto dell’erogazione della retribuzione di risultato per i dirigenti preposti.



Commissione per la valutazione e l'integrità della P.A.

er quanto riguarda i soggetti impegnati nel processo di misurazione e valutazione della performance (articoli 12-16), viene istituita la Commissione per la valutazione e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (di seguito Commissione) con il compito di indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio delle funzioni di valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione e di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale. L’organo ha 5 componenti nominati per un periodo di 6 anni, confermabili una sola volta. Al suo interno è istituita una Sezione per l’integrità nelle amministrazioni pubbliche, per la promozione della diffusione della legalità, della trasparenza e della cultura dell’integrità nelle amministrazioni pubbliche.

La disciplina del raccordo tra le attività della Commissione e quelle delle esistenti Agenzie di valutazione è rimessa a uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con i Ministri competenti.

Viene istituito in ogni amministrazione (anche in forma associata tra varie amministrazioni) un Organismo indipendente di valutazione della performance (articolo 14), che svolge le attività inerenti alla misurazione e alla valutazione della performance, garantendo dall’interno la definizione e l’implementazione dei sistemi di valutazione, nel rispetto dei modelli definiti dalla Commissione. Trattasi di organo monocratico, ovvero collegiale di tre componenti, nominati per tre anni (rinnovabili per una sola volta) dall’organo di indirizzo politico-amministrativo tra soggetti di elevata professionalità ed esperienza, maturata nel management, nella valutazione della performance e quella del personale delle amministrazioni pubbliche.

L’organo di indirizzo politico-amministrativo promuove la cultura della responsabilità per il miglioramento della performance, del merito, della trasparenza e dell’integrità, emana le direttive generali sugli indirizzi strategici, definisce il Piano e la Relazione sopra citati, nonché il Programma triennale di cui all’articolo 11 ed, infine, verifica il conseguimento degli obiettivi strategici (articolo 15).

Per quanto concerne gli enti territoriali e il Servizio sanitario nazionale, l’articolo 16 sancisce la diretta applicazione dell’articolo 11 in tema di trasparenza. Inoltre, le regioni e gli enti locali hanno l’obbligo di adeguarsi ai principi in tema di gestione e misurazione della performance entro il 31 dicembre 2010, termine oltre il quale si applicheranno per intero le norme del titolo II del decreto legislativo, fino all’emanazione della disciplina regionale e locale.



Merito e premi

Per quanto riguarda gli strumenti di valorizzazione del merito, i metodi di incentivazione della produttività e la qualità della prestazione lavorativa (articoli 17-31), si prevede che le amministrazioni pubbliche debbano promuovere il miglioramento della performance anche utilizzando sistemi premianti selettivi, secondo logiche meritocratiche e valorizzando i dipendenti più meritevoli con l’attribuzione selettiva di incentivi sia economici che di carriera. In particolare, è espressamente vietata la distribuzione dei premi in maniera indifferenziata sulla base di automatismi estranei al processo di valutazione.



Fasce di valutazione del personale

Per quanto concerne la valutazione del personale, l’articolo 19 prevede che le amministrazioni compilino una graduatoria delle valutazioni individuali del personale dirigenziale e non dirigenziale, distribuito, secondo i differenti livelli di performance, in tre fasce:

La contrattazione collettiva può derogare, fino a un massimo di 5 punti percentuali in aumento o in diminuzione della fascia di merito alta (con corrispondente compensazione di quella intermedia), così come nella composizione percentuale delle fasce di merito intermedia e bassa.

Sul rispetto dei principi di selettività e di meritocrazia, il Dipartimento della funzione pubblica monitora le deroghe riferendo in proposito al Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.



Strumenti di valutazione della professionalità

Gli strumenti con cui premiare il merito e la professionalità sono articolati:

E’, inoltre, previsto il premio di efficienza, per cui una quota fino al 30 per cento dei risparmi sui costi di funzionamento derivanti da processi di ristrutturazione, riorganizzazione e innovazione viene destinata, fino a due terzi e secondo criteri definiti dalla contrattazione collettiva integrativa, al personale coinvolto, mentre la parte residua serve a incrementare le somme disponibili per la contrattazione stessa (articolo 27). Tali risorse possono essere utilizzate se i risparmi sono documentati nella Relazione sulla performance; tale principio si applica anche alle regioni e alle amministrazioni del Servizio sanitario nazionale e gli enti locali.

All’articolo 29 si afferma il carattere imperativo delle disposizioni del titolo III, che non sono pertanto derogabili dalla contrattazione collettiva e vengono inserite di diritto nei contratti collettivi ai sensi degli articoli 1339 e 1419, comma 2, del codice civile.



Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche

L’articolo 30 prevede l’obbligo di costituzione della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, mentre per gli Organismi indipendenti istituiti dalle P.A. tale termine è fissato al 30 aprile 2010.

L’articolo 31 prevede che gli enti territoriali e il Servizio sanitario nazionale recepiscano nei propri ordinamenti i principi di premialità selettiva entro il 31 dicembre 2010. Decorso tale termine, trovano diretta applicazione le disposizioni del decreto legislativo, fino all’emanazione della disciplina regionale e locale.

Infine, vengono abrogate alcune norme del D.lgs. 286/1999 concernenti le attività delle strutture che svolgono la valutazione e il controllo strategico, la valutazione dei dirigenti e del personale con incarichi dirigenziali e gli uffici preposti ai servizi di controllo interno.



Norme generali sull'ordinamento del lavoro nella P.A.

Gli articoli da 32 a 36 definiscono la ripartizione tra materie riservate alla legge e materie oggetto di contrattazione collettiva. La legge può a sua volta rinviare ad atti organizzativi ed all’autonoma responsabilità del dirigente nella gestione delle risorse umane.

In particolare, l’articolo 33, operando alcune modifiche all’articolo 2 del DLgs 165/2001, precisa in primo luogo che le disposizioni dello stesso D.Lgs. 165 che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Sostanzialmente, la nullità di disposizioni contrattuali per violazione di norme imperative o dei limiti fissati alla contrattazione collettiva non determina la nullità dell’intero contratto, in quanto esse sono sostituite di diritto dalle disposizioni previste dalle norme imperative. 

L’articolo 34, in relazione al potere di organizzazione nelle pubbliche amministrazioni, precisa che le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro degli organi preposti alla gestione sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione, con la capacità e i poteri dei datori di lavoro privati, con il solo obbligo di informazione ai sindacati se prevista nei contratti collettivi nazionali. Tali disposizioni si applicano anche alle autorità indipendenti.

L’articolo 35 demanda ai dirigenti la predisposizione del documento di programmazione triennale del fabbisogno di personale della P.A. ed i suoi aggiornamenti. Gli stessi dirigenti devono individuare i profili professionali necessari per le svolgimento delle funzioni delle strutture cui sono preposti.

L’articolo 36, infine, prevede, in materia di partecipazione sindacale, che venga sottratta alla contrattazione collettiva la disciplina degli atti interni di organizzazione aventi riflessi sul rapporto di lavoro.



Dirigenza pubblica

Il Capo II del Titolo IV (articoli 37-47) reca una ampia riforma della disciplina della dirigenza pubblica, attuando la previsione di delega contenuta nell’articolo 6 della L. 15/2009. Il Capo II interviene prevalentemente in forma di novella del D.Lgs. 165/2001.

Le linee generali della riforma in materia di dirigenza, indicate all’articolo 37, individuano nel dirigente il soggetto che, operando in piena autonomia e responsabilità, esercita i poteri del datore di lavoro, applicando nel settore pubblico i criteri più efficaci propri del lavoro privato. In tal senso, il dirigente seleziona i profili professionali indispensabili per il buon andamento del proprio ufficio ed è attivamente coinvolto nella valutazione del personale e nel riconoscimento degli incentivi alla produttività.



Funzioni dei dirigenti

Relativamente alle competenze dei dirigenti, il testo (articoli 38 e 39) opera un potenziamento degli strumenti relativi alla gestione del personale.

In particolare, i dirigenti generali propongono i profili professionali che ritengono necessari al funzionamento dell’ufficio cui sono preposti anche al fine dell’elaborazione del documento di programmazione del fabbisogno del personale. Gli altri dirigenti sono tenuti a collaborare con i dirigenti generali ai fini dell’individuazione dei profili professionali.

I dirigenti sono inoltre coinvolti nella valutazione del personale e nel riconoscimento degli incentivi alla produttività. Sulla base di tale principio, ai dirigenti vengono attribuiti i compiti di valutazione del personale assegnato ai propri uffici ai fini sia della progressione economica, sia della corresponsione di indennità ed incentivi.

Relativamente al contrasto della corruzione dei pubblici dipendenti, i dirigenti devono collaborare all’individuazione di strumenti adeguati a prevenire i fenomeni di corruzione e sono tenuti a controllare il rispetto delle disposizioni anticorruzione.



Conferimento di incarichi dirigenziali e spoil system

L’articolo 40 modifica la disciplina degli incarichi di funzioni dirigenziali ridefinendo i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali, compresi quelli affidati a personale estraneo alla pubblica amministrazione.

Relativamente al conferimento dell’incarico, esso viene attribuito in base alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi, nonché alla complessità della struttura interessata. Tra i requisiti da considerare, viene attribuito un ruolo più decisivo ai risultati conseguiti nell’amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, alle competenze organizzative e alle esperienze di direzione maturate all’estero (sia nel settore privato, sia in quello pubblico) purché attinenti all’incarico conferito.

Un’ulteriore innovazione apportata alla disciplina vigente, riguarda l’obbligo da parte dell’amministrazione di rendere pubblici il numero e la tipologia dei posti disponibili ed i criteri di scelta, nonché di acquisire e valutare le disponibilità dei dirigenti interessati.

In materia di revoca degli incarichi dirigenziali, si prevede che il mancato raggiungimento degli obiettivi o l’inosservanza delle direttive impartite, previo il loro accertamento, causino il mancato rinnovo dell’incarico o, nei casi più gravi, la sua revoca o addirittura il recesso dal rapporto di lavoro. Il decreto prevede altresì un’ulteriore fattispecie di mancato rinnovo: in assenza di un giudizio negativo la decisione di non confermare l’incarico deve essere preceduta da una idonea e motivata comunicazione all’interessato che indichi anche i posti disponibili per un nuovo incarico. La disposizione collega il mancato rinnovo senza valutazione negativa a due evenienze: alla soppressione del posto a causa di processi di riorganizzazione o, in generale, alla scadenza dell’incarico.

L’articolo 40 interviene inoltre sulla disciplina del conferimento di incarichi a soggetti esterni alla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda  il conferimento dell’incarico, questo avviene attraverso esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale con esperienza lavorativa di almeno cinque anni. L’incarico conferito al soggetto esterno presuppone infine un profilo non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione di riferimento.

Il decreto restringe infine il c.d. spoil system alla sola alta dirigenza (incarichi di Segretario generale di ministeri, incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e incarichi di livello equivalente). Tali incarichi cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo.



Responsabilità dei dirigenti e Comitato dei garanti

L’articolo 41 interviene in relazione al regime della responsabilità dei dirigenti. L’accertamento della responsabilità del dirigente è demandata alle “risultanze del sistema di valutazione” introdotto dal Titolo II. Il mancato raggiungimento degli obiettivi o l’inosservanza delle direttive comportano l’impossibilità del rinnovo dello stesso incarico dirigenziale.

Il dirigente viene ritenuto colpevole nel caso di omessa vigilanza sulla effettiva produttività delle risorse umane assegnate e sull’efficienza della struttura da lui dipendente secondo gli indirizzi fissati dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (di cui all’articolo 13 del decreto). La sanzione corrispondente alla violazione consiste nella decurtazione della retribuzione di risultato, graduata proporzionalmente alla gravità della violazione, fino al massimo dell’80%. La decurtazione è applicata previo parere (non più vincolante) del Comitato dei garanti, la cui composizione e disciplina è modificata dal successivo articolo 42.



Accesso ai ruoli dirigenziali

Per i dirigenti di seconda fascia vengono ampliati i criteri per l’accesso: sono infatti ammessi al concorso per esami, in aggiunta alle categorie di dipendenti già previste, i dipendenti in possesso del dottorato di ricerca con almeno tre anni di servizio prestato in posizioni per l'accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea.

L’accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia viene ampiamente rivisto:

Tutti i vincitori dei concorsi sono tenuti a svolgere, prima del conferimento dell’incarico, un periodo di formazione presso gli uffici amministrativi di uno Stato dell’Unione europea o di un organismo comunitario o internazionale, scelti dal vincitore tra quelli indicati dall’amministrazione. La frequenza del periodo di formazione è obbligatoria per un minimo di sei mesi, anche non continuativi, mentre la durata massima complessiva del periodo formativo è fissata entro tre anni dalla conclusione del concorso.



Mobilità dei dirigenti verso il settore privato

Relativamente alla mobilità dei dirigenti, l’articolo 44 agevola la mobilità verso il settore privato, legando il diniego della pubblica amministrazione alla concessione dell’aspettativa esclusivamente a preminenti esigenze organizzative dell’amministrazione di appartenenza del dipendente richiedente.



Trattamento economico accessorio

L’articolo 45 del decreto prevede che il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti.

Conseguentemente, stabilisce che la retribuzione complessiva del dirigente, considerata al netto della retribuzione individuale di anzianità e degli incarichi aggiuntivi soggetti al regime dell’onnicomprensività, debba essere costituita, per un minimo del 30%, dal trattamento accessorio, collegato ai risultati. E’ esclusa dall’applicazione della disposizione la dirigenza del Servizio Sanitario Nazionale.

Tale disposizione sottrae alla contrattazione collettiva parte della determinazione delle componenti retributive; pertanto, per il raggiungimento di tale soglia, i contratti collettivi nazionali incrementano progressivamente la componente legata al risultato, in modo da adeguarvisi entro la tornata contrattuale decorrente dal 1° gennaio 2010, destinando comunque alla componente legata al risultato tutti gli incrementi previsti per la parte accessoria della retribuzione, alla quale è riferibile fra l’altro anche l’indennità di posizione.

Per incentivare l’effettiva operatività del sistema premiale e di valutazione, la disposizione impone il divieto di corrispondere l’indennità di risultato al dirigente responsabile, in caso di inerzia dell’amministrazione di appartenenza: ovvero qualora questa, decorso il periodo transitorio di sei mesi dall’entrata in vigore del decreto di attuazione della delega, non abbia disposto il sistema di valutazione previsto dal Titolo II.



Uffici, piante organiche, mobilità, accessi

In questo ambito gli interventi si sostanziano in modifiche all’impianto del T.U. sul pubblico impiego. In particolare, si segnala:



Contrattazione collettiva nazionale ed integrativa



Ambito di applicazione

La delega contenuta nella L. 15/2009 ha operato una parziale rilegificazione delle materie attualmente regolate dalla contrattazione collettiva, ridefinendo gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati alla contrattazione collettiva e alla legge. Sulla base di tali criteri, l’articolo 54 ha modificato sostanzialmente l’articolo 40 del T.U..

Tra le modifiche si segnalano:

Inoltre, il ricorso alla contrattazione collettiva è consentito, esclusivamente nei limiti previsti dalla legge, nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, alla mobilità e alle progressioni economiche.

Tra le materie rimesse sostanzialmente alla contrattazione collettiva, si evidenziano:

Inoltre, si prevede l’adeguamento, entro il 31 dicembre 2010, dei contratti collettivi vigenti all’entrata in vigore del decreto alle disposizioni concernenti gli ambiti riservati alla legge e alla contrattazione collettiva, nonché alle disposizioni in materia di valutazione del merito. In caso contrario, dal 1° gennaio 2011 tali contratti diventano inefficaci e inapplicabili (articolo 65). Lo stesso articolo prevede appositi procedimenti, in via transitoria, per il periodo contrattuale immediatamente successivo a quello in corso.



Vigenza contrattuale

Nell’ambito del generale riordino delle procedure di contrattazione collettiva nazionale, l’articolo 54, comma 3, prevede la coincidenza tra vigenza giuridica ed economica del contratto, prevedendo una durata triennale ed eliminando dunque la dicotomia tra il quadriennio giuridico ed il biennio economico caratteristica dei contratti pubblici. Il successivo articolo 63, inoltre, stabilisce la cadenza triennale degli aspetti giuridici ed economici del rapporto di lavoro anche per i dipendenti di diritto pubblico.



Sviluppo e costi della contrattazione integrativa

L’articolo 54 prevede, in materia di contrattazione collettiva integrativa:

 

Il successivo articolo 55, per quanto attiene ai controlli stabilisce, tra l’altro:

 

Per quanto attiene alle risorse destinate alla contrattazione collettiva, nazionale ed integrativa, l'articolo 60 prevede la determinazione degli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale, per determinate amministrazioni pubbliche, a carico dei rispettivi bilanci nel rispetto delle disposizioni di cui al nuovo articolo 40 dello stesso D.Lgs. 165, così come modificato dall’articolo 54. Più specificamente, il comma 3-quinquies del nuovo articolo 40 dispone che le risorse siano utilizzate individuando i criteri ed i limiti finanziari entro i quali si deve svolgere la contrattazione integrativa, prevedendo altresì che le regioni e gli enti locali possano destinare risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa (correlate all’effettivo rispetto dei principi in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance), nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale e nei limiti i dei parametri di virtuosità stabiliti per la spesa di personale dalle disposizioni vigenti.

Si segnala, infine, nell’ambito dell’interpretazione autentica dei contratti collettivi, l’introduzione, all’articolo 61, dell’espressione del parere del Presidente del Consiglio dei ministri sull’accordo di interpretazione autentica avvenuto in seguito a controversie interpretative.



ARAN

L’articolo 56 interviene in merito alla composizione ed alle funzioni dell’ARAN. In particolare, si segnala:

 

Inoltre, per quanto attiene ai poteri di indirizzo nei confronti dell’ARAN, l’articolo 56 prevede che essi si esercitino attraverso le istanze associative o rappresentative, che costituiscono appositi comitati di settore. Appositi comitati di settore sono costituiti, in relazione alle proprie competenze, anche nell’ambito della Conferenza delle Regioni,dell’ANCI, dell’UPI e dell’Unioncamere. Per tutte le altre amministrazioni, opera come comitato di settore il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite il ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.



Procedimento di contrattazione

Per quanto attiene al procedimento di contrattazione collettiva, l’articolo 59 prevede la sottoposizione al Governo degli atti di indirizzo delle amministrazioni statali e delle agenzie e aziende autonome dello Stato emanati dai rispettivi comitati di settore. Inoltre, si segnala, nell’ambito della procedura negoziale, la trasmissione all’ARAN dell’ipotesi di accordo, per specifiche amministrazioni (le Regioni ed i relativi enti dipendenti, le amministrazioni del SSN, gli Enti locali, le Camere di Commercio ed i segretari comunali e provinciali), per il tramite del comitato di settore competente e del Governo. Per le rimanenti amministrazioni, tale parere è espresso dal Presidente del Consiglio dei ministri. Infine, viene modificata la procedura di controllo sull’attendibilità dei costi contrattuali effettuata dalla Corte dei conti (cd. procedura di certificazione).



Riduzione dei comparti

L’articolo 54 prevede la costituzione di quattro comparti di contrattazione collettiva nazionale, cui corrispondono quattro aree separate per la dirigenza, secondo specifiche procedure. Sono previste apposite aree all’interno della dirigenza per la dirigenza del ruolo sanitario e per i professionisti degli enti pubblici appartenenti alla X qualifica funzionale. Inoltre, nell’ambito dei comparti di competenza possono essere costituite specifiche sezioni contrattuali.



Trattamento economico

Sotto questo profilo si segnala:



Mansioni

Per quanto attiene alle mansioni, l’articolo 62 prevede che il prestatore di lavoro debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, od equivalenti, in base all’inquadramento, ovvero a quelle superiori successivamente acquisite, solamente in seguito a procedure selettive (e non anche, come previsto attualmente, per sviluppo professionale). Inoltre, l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica non ha effetti ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione.

Inoltre, si prevede che i dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, di conservatori e istituti assimilati, siano inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali.



Sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici

Gli articoli da 67 a 73 regolano le sanzioni disciplinari e la responsabilità dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, ai fini del potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e del contrasto ai fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo. Si mantiene la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative al procedimento e alle sanzioni disciplinari di cui all’articolo 63 del D.lgs. 165/2001, che disciplina le controversie relative ai rapporti di lavoro.



Responsabilità disciplinare

L’articolo 68, nel modificare l’articolo 55 del D.lgs. 165/2001, afferma in primo luogo il carattere imperativo delle norme in materia disciplinare dettate dal decreto (ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile).

Ferme restando tali norme, pertanto, la contrattazione collettiva è chiamata a definire la tipologia delle infrazioni e le relative sanzioni, ma non può istituire procedure di impugnazione dei provvedimenti disciplinari. La contrattazione può, però, prevedere, salvi i casi in cui sia previsto il licenziamento, procedure di conciliazione non obbligatorie, da aprirsi entro un termine massimo di 30 giorni dalla contestazione dell’addebito, con sanzioni non diverse da quelle previste dalla legge o dal contratto per la infrazione per cui si procede e con decisioni non impugnabili.

L’articolo 69 introduce gli articoli da 55-bis a 55-novies del D.Lgs. 165/2001.

L’articolo 55-bis, nel disciplinare forme e termini del procedimento disciplinare, prevede procedure differenziate a seconda della gravità delle infrazioni. Per le infrazioni meno gravi, è prevista la contestazione scritta dell’addebito entro 20 giorni dalla notizia e la decisione entro i successivi 60 giorni; per quelle più gravi è prevista la trasmissione degli atti all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, con termini raddoppiati.

L’articolo 55-ter regola i rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale, prevedendo la prosecuzione e la conclusione del procedimento disciplinare anche in pendenza del procedimento penale. Nei casi di infrazioni meno gravi il procedimento non viene sospeso, mentre per quelle più gravi la sospensione è possibile fino al termine del procedimento penale. Quanto ai meccanismi di raccordo tra le due procedure, la riapertura del procedimento disciplinare è prevista nei casi di sentenza di assoluzione che segue l’irrogazione di una sanzione disciplinare, di sentenza irrevocabile di condanna che segue l’archiviazione del procedimento disciplinare e nel caso di un fatto accertato nella sentenza di condanna che comporta la sanzione del licenziamento, mentre in sede disciplinare ne è stata irrogata una diversa. In tali ipotesi, la riapertura (o la ripresa, nel caso di sospensione) del procedimento avviene entro 60 giorni dalla comunicazione della sentenza e la conclusione entro i successivi 180 giorni.

L’articolo 55-quater prevede il licenziamento disciplinare senza preavviso nei casi di falsa attestazione della presenza in servizio o giustificazione con certificazione medica falsa, falsità documentali o dichiarative all’atto dell’instaurazione del rapporto o nelle progressioni di carriera, condotte aggressive o moleste o comunque lesive dell’onore e dignità personale altrui, condanna penale definitiva con pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Viene mantenuta ferma la disciplina del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo.

Il licenziamento disciplinare con preavviso è previsto nei casi di assenza priva di valida giustificazione per un periodo superiore a 3 giorni nell’arco di un biennio o di sette giorni negli ultimi dieci anni e ingiustificato rifiuto al trasferimento, nonché per insufficiente rendimento nell’arco di almeno un biennio dovuto a una reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa.

L’articolo 55-quinquies prevede il reato di false attestazioni o certificazioni laddove il lavoratore attesti falsamente la propria presenza in servizio con alterazione dei sistemi di rilevamento o giustificando l’assenza dal servizio tramite certificazione medica falsa. La pena prevista è la reclusione da uno a cinque anni con multa da euro 400 a 1.600, applicata anche al medico e a chiunque altro concorra nella commissione del delitto.

L’articolo 55-sexies prevede la condanna al risarcimento del danno derivante dalla violazione da parte del lavoratore dipendente degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, con sospensione dal servizio e privazione della retribuzione da 3 giorni a 3 mesi, in proporzione all’entità del risarcimento.

Inoltre, nei casi di grave danno al normale funzionamento dell’ufficio da parte del lavoratore per inefficienza o incompetenza professionale, accertato nel corso delle procedure di valutazione, il lavoratore è collocato in disponibilità e non percepisce gli aumenti retributivi sopravvenuti.

Per i dirigenti la responsabilità civile configurabile nello svolgimento del procedimento disciplinare è limitata ai casi di dolo e colpa grave.



Assenze per malattia

In materia di controlli sulle assenze (articolo 55-septies) è prevista una certificazione medica rilasciata da struttura sanitaria pubblica o da medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale per assenze superiori ai 10 giorni o nel caso di secondo evento di malattia nell’anno solare.

La certificazione medica viene trasmessa dal medico o dalla struttura sanitaria per via telematica all’INPS, che la inoltra all’amministrazione di appartenenza. L’inosservanza di tale adempimento configura illecito disciplinare, che se reiterato comporta l’applicazione del licenziamento e per i medici convenzionati con le A.S.L. la decadenza dalla convenzione. Inoltre, le amministrazioni dispongono i controlli anche per l’assenza di un solo giorno secondo fasce orarie di reperibilità stabilite in un decreto del Ministro per la pubblica amministrazione e innovazione.

Nei casi di permanente inidoneità psicofisica (articolo 55-octies) l’amministrazione può risolvere il rapporto di lavoro secondo modalità da definire con successivo regolamento attuativo.

Infine, l’articolo 70 disciplina la comunicazione e la trasmissione della sentenza da parte della cancelleria del tribunale che ha emesso la sentenza penale di condanna del dipendente alla amministrazione di appartenenza, stabilendo che questa debba avvenire per via telematica entro 30 giorni.



Riconoscibilità del personale

L’articolo 55-novies prevede l’obbligo per il personale a contatto con il pubblico di rendersi riconoscibile con un cartellino identificativo ovvero di esporre targa nella postazione di lavoro.



Ispettorato per la funzione pubblica

L’articolo 71 del decreto, modificando l’articolo 60, comma 6, del D.lgs. 165/2001, ridefinisce, ampliandoli, i poteri ispettivi dell’Ispettorato per la funzione pubblica.



Limitazioni all’ambito di applicazione del provvedimento

L’articolo 74, nel definire l’ambito di applicazione del provvedimento, prevede in primo luogo che esso si applica nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome compatibilmente con i rispettivi statuti.

Con successivi D.P.C.M. sono invece disciplinate le particolari modalità applicative delle nuove disposizioni alla Presidenza del Consiglio dei ministri e al personale della scuola e delle istituzioni di alta formazione artistica e musicale, nonché ai tecnologi e ricercatori degli enti di ricerca.

Approfondimento: Indagine conoscitiva su relazioni industriali e contrattazione collettiva

L’indagine conoscitiva svolta dalla XI Commissione della Camera ha avuto lo scopo di comprendere l'evoluzione del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva in Italia, al fine di verificare la rispondenza dell’assetto consolidatosi all’indomani dell’approvazione del Protocollo del 23 luglio 1993 ai mutamenti intervenuti nel sistema economico e alle nuove esigenze espresse dalle aziende e dai lavoratori.

L’indagine si è articolata in una serie di audizioni svolte nel periodo dal 25 giugno 2008 al 25 febbraio 2009, suddivise in due cicli. Al termine del primo ciclo di audizioni, una proposta di documento conclusivo è stata formalizzata dalla presidenza nella seduta dell'8 gennaio 2009 . Di lì a pochi giorni (22 gennaio 2009), prima che la Commissione procedesse all’approvazione del documento conclusivo dell’indagine, è stato sottoscritto l'Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali . Considerato il rilievo dell'Accordo e il nuovo scenario complessivo che esso configurava (anche alla luce del fatto che l’Accordo non è stato sottoscritto dalla CGIL), la Commissione ha ritenuto di sospendere l'esame del documento conclusivo, al fine di svolgere un ulteriore ciclo di audizioni (tenutesi dal 10 al 25 febbraio 2009).

Al termine del secondo ciclo di audizioni, che ha consentito di tracciare un quadro completo delle problematiche esistenti, la Commissione ha approvato un documento conclusivo nella seduta dell’8 aprile 2009 .

Il documento conclusivo ha evidenziato, in particolare:

Approfondimento: La disciplina transitoria sulla valutazione nel D.L. 95/2012

L’articolo 5, commi da 11 a 11-sexies del D.L. 95/2012 ha disposto una disciplina transitoria sulla valutazione del dipendenti pubblici ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance.

In particolare, si prevede che, nelle more dei rinnovi contrattuali e in attesa dell'applicazione dell'articolo 19 del D.Lgs. 150/2009 (che per l'attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance individuale sulla base di criteri di selettività e riconoscimento del merito), le amministrazioni valutano la performance del personale dirigenziale in relazione:

La misurazione e valutazione della performance individuale del personale è effettuata dal dirigente in relazione al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo o individuali e al contributo assicurato alla performance dell'unità organizzativa di appartenenza e ai comportamenti organizzativi dimostrati. Nella valutazione della performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale.

Ciascuna amministrazione monitora annualmente, con il supporto dell'Organismo Indipendente di Valutazione, l'impatto della valutazione in termini di miglioramento della performance e sviluppo del personale, al fine di migliorare i sistemi di misurazione e valutazione in uso.

Ai dirigenti e ai dipendenti (con qualifica non dirigenziale) più meritevoli in esito alla valutazione effettuata, comunque non inferiori al 10% della rispettiva totalità dei dipendenti oggetto della valutazione è attribuito un trattamento accessorio maggiorato di un importo compreso tra il 10 e il 30% del trattamento accessorio medio attribuito ai dipendenti appartenenti alle stesse categorie. La disposizione si applica ai dirigenti con riferimento alla retribuzione di risultato.

Le amministrazioni devono rendere nota l'entità del premio mediamente conseguibile dal personale dirigenziale e non dirigenziale e pubblicare sui propri siti istituzionali i dati sulla distribuzione del trattamento accessorio, in forma aggregata, al fine di dare conto del livello di selettività utilizzato nella distribuzione dei premi e degli incentivi.

Trattamento economico

Numerose ed articolate misure sono state adottate con l'obiettivo di contenere e razionalizzare la spesa per il personale pubblico, quali il blocco dei trattamenti economici individuali nel quadriennio 2011-2014 e della contrattazione collettiva di settore nel triennio 2010-2012, nuovi criteri basati su qualità e produttività delle prestazioni lavorative per la corresponsione dei trattamenti economici accessori, tetti alle retribuzioni più elevate.

Trattamento economico individuale

Nel quadro degli interventi volti a contenere la spesa pubblica, grande rilievo hanno avuto i commi 1-4 dell’articolo 9 del D.Lgs. 78/2010, con cui sono state introdotte incisive misure per il contenimento delle spese di parte corrente relative ai redditi di lavoro dipendente delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, si è bloccato, per il periodo 2011-2014, il trattamento economico individuale complessivo dei dipendenti pubblici, anche di qualifica dirigenziale (prevedendo che non possa in ogni caso superare il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010) e si sono ridotti, per il triennio 2011-2013, rispettivamente del 5 e del 10 per cento, i trattamenti economici complessivi dei dipendenti pubblici superiori a 90.000 e a 150.000 euro annui. La Corte costituzionale, con sentenza n. 223 del 2012 , ha peraltro dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale ultima previsione.
Successivamente, l’articolo 16, comma 5, del D.L. 98/2011, ha previsto che, nel quadro dei piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa (che le amministrazioni pubbliche sono tenute ad adottare entro il 31 marzo di ogni anno), le eventuali economie aggiuntive realizzate vengano impiegate, nell'importo massimo del 50%, per la contrattazione integrativa, di cui il 50% destinato alla erogazione dei trattamenti accessori collegato alla performance individuale (di cui all'articolo 19 del D.Lgs. 150/2009).
Infine, per quanto riguarda i trattamenti economici più elevati, l'articolo 23-ter del D.L. 201/2011 ha previsto la definizione di un parametro massimo (riferito al trattamento economico del Primo Presidente della Corte di cassazione), valevole per tutti i rapporti di lavoro (dipendente o autonomo) con le pubbliche amministrazioni statali (compreso il personale non contrattualizzato).

Trattamento economico accessorio

Il trattamento economico accessorio nel pubblico impiego è formato da una serie di voci legate sia al comparto, sia alla singola amministrazione di appartenenza. Si tratta di somme riconosciute sulla base di parametri differenti, quali l’anzianità, specifiche mansioni o tipologie lavorative.
Per quanto concerne i criteri di assegnazione, l’articolo 2, comma 32, della L. 203/2008 (legge finanziaria per il 2009) ha introdotto l’obbligo per le amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 2009, di corrispondere il trattamento economico accessorio dei dipendenti in base a specifici criteri di priorità, che tengano conto della qualità, produttività e capacità innovativa della prestazione lavorativa.
Successivamente, l’articolo 9 del D.L. 78/2010, ha previsto, per il triennio 2011-2013, nell’ambito delle misure volte al blocco del trattamento economico individuale complessivo dei dipendenti pubblici, che l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio non possa superare il corrispondente importo dell'anno 2010, e che debba essere automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio.

Da ultimo, l’articolo 5, commi da 11 a 11-sexies, del D.L. 95/2012, ha dettato, nelle more dei rinnovi contrattuali e in attesa dell'applicazione delle norme del D.Lgs. 150/2009 (di riforma del pubblico impiego), una disciplina transitoria sulla valutazione del dipendenti pubblici ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance.

Blocco della contrattazione

I commi da 17 a 21 dell’articolo 9 del D.L. 78/2010 dispongono il blocco della contrattazione nel pubblico impiego per il triennio 2010-2012 nei seguenti termini:

Per quanto riguarda il personale in regime di diritto pubblico, si sospendono, per gli anni 2011, 2012 e 2013, i meccanismi di adeguamento retributivo previsti dall’articolo 24 della L. 448/1998 (adeguamento annuale di diritto, dal 1° gennaio 1998, delle voci retributive in ragione degli incrementi medi, calcolati dall'ISTAT, conseguiti nell'anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati sulle voci retributive), ancorché a titolo di acconto ed escludendo successivi recuperi.
Da ultimo, l’articolo 16, comma 1, del D.L. 98/2011 ha previsto la possibilità, con apposito regolamento, di prorogare al 31 dicembre 2014 le vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici, anche accessori, del personale delle pubbliche amministrazioni, prevedendo comunque la possibilità che, all'esito di apposite consultazioni con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative del pubblico impiego, l'ambito applicativo delle disposizioni in materia sia differenziato, in ragione dell'esigenza di valorizzare ed incentivare l'efficienza di determinati settori.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Documenti e risorse web

Approfondimento: Il parametro massimo del trattamento economico nella P.A.

L’articolo 23-ter del D.L. 201/2011 ha previsto che con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sia definito il trattamento economico di chiunque riceva emolumenti o retribuzioni dalle pubbliche amministrazioni (di cui all’articolo 1, comma 2 del D.Lgs. 165/2001 nonché il personale in regime di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del medesimo decreto), nel rispetto di un parametro massimo, nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, compreso il c.d. personale non contrattualizzato.

Il decreto del Presidente del Consiglio, da adottarsi con parere delle commissioni parlamentari entro il termine di 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 201/2011, definisce il trattamento economico erogabile utilizzando come parametro di riferimento il trattamento economico del Primo presidente della Corte di Cassazione.

Per i dipendenti delle amministrazioni chiamati a svolgere funzioni direttive dirigenziali o equiparate presso Ministeri o enti pubblici nazionali e le autorità amministrative indipendenti, si prevede la conservazione del trattamento economico riconosciuto dall’amministrazione di appartenenza e la possibilità di ricevere a titolo di retribuzione, indennità, o anche solo per il rimborso spese, più del 25% dell’ammontare complessivo del trattamento economico già percepito.

Nel provvedimento è possibile prevedere sia deroghe motivate al tetto delle retribuzioni per coloro che siano chiamati a ricoprire posizioni apicali nell’amministrazione, che un tetto massimo a titolo di rimborso spese.

Le risorse derivanti dall’applicazione della disciplina sopra descritta sono destinate al fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.

In esecuzione di quanto sopra previsto, è stato adottato il D.P.C.M. 23 marzo 2012 , che ha fissato il limite massimo retributivo di quanti ricevano annualmente retribuzioni o emolumenti a carico delle pubbliche finanze (comprese le indennità e le voci accessorie nonché le eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori o consulenze conferiti da amministrazioni pubbliche diverse da quella di appartenenza) nel trattamento economico annuale complessivo spettante per la carica al Primo Presidente della Corte di cassazione, pari nell'anno 2011 a euro 293.658,95.

Lo stesso trattamento economico annuale complessivo spettante per il 2011 per la carica al Primo Presidente della Corte di cassazione, viene utilizzato nel provvedimento per fissare la retribuzione massima del Presidente e dei componenti delle Autorità amministrative indipendenti (Autorità Garante della concorrenza e del mercato, Commissione nazionale per le società e la borsa, Autorità per l'energia elettrica e il gas e Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Il trattamento economico dei componenti delle medesime Autorità indipendenti è determinato in misura inferiore del 10% del trattamento economico annuale complessivo dei rispettivi Presidenti.

XI Lavoro

Assistenza e previdenza



Assistenza

   Il settore dell'assistenza sociale è quello in cui tipicamente concorrono, per competenze e risorse, lo Stato, le regioni e gli enti locali e nel quale non è semplice identificare e ripartire con nettezza le attribuzioni di ciascuno dei tre livelli di governo. Attualmente lo Stato non ha ancora definito i livelli essenziali delle prestazioni sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, anche se è spesso intervenuto in via diretta in tale ambito, sebbene, dopo la riforma costituzionale del 2001, l'art. 46, comma 3, della legge 289/2002 (legge finanziaria 2003) - tenendo conto della competenza legislativa residuale e non piú concorrente delle Regioni in materia di servizi sociali - ha introdotto una specifica procedura per la determinazione dei LIVEAS.

Le azioni delle regioni - che hanno rivendicato una competenza legislativa esclusiva in tema di assistenza - hanno riguardato settori diversi e si sono intersecate con le iniziative dello Stato e con quelle degli enti locali, principalmente i comuni, che tradizionalmente gestiscono i servizi sociali.

Nel corso della XVI Legislatura si è registrata una sensibile diminuzione dei finanziamenti destinati alle politiche sociali.

   Nelle politiche di assistenza, il principale strumento per il finanziamento degli interventi e dei servizi sociali è il Fondo nazionale per le politiche sociali,  le cui risorse, definite dalle manovre finanziarie annuali, sono ripartite con decreto ministeriale tra il Ministero del lavoro della salute e delle politiche sociali, l’INPS, le regioni, le province autonome e i comuni. Alcuni recenti provvedimenti normativi hanno ridotto gli interventi finanziati a valere sul Fondo. La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) ha destinato al FNPS 69,954 milioni di euro. Infine la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), all'articolo 1, comma 271, incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del FNPS. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.

Al fine di garantire l'attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale con riguardo alle persone non autosufficienti è istitutito, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali il Fondo nazionale per le non autosufficienze. Le risorse assegnate al Fondo per il 2010, ripartite con decreto, sono pari a 400 milioni di euro. Per il 2011, il Decreto interministeriale 11 novembre 2011 ha assegnato al Fondo risorse per 100 milioni di euro, stanziati dall'art. 1, comma 40, della legge 220/2010 (legge di stabilità 2011), finalizzati fra l'altro ad interventi integrati socio-sanitari per i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Successivamente, il D.L. 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che la dotazione del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, sia incrementata di 658 milioni di euro per l'anno 2013 e ripartita con D.P.C.M., per incrementare fra l’altro la dotazione del Fondo non autosufficienti, finalizzato al finanziamento dell'assistenza domiciliare prioritariamente nei confronti delle persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), ha subito un definanziamento di 631,7 milioni; la dotazione finanziaria del Fondo risulta pertanto interamente decurtata, residuando al Fondo soltanto 263 euro per l’anno 2013. In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.

Fra le misure di carattere più squisitamente sociale, si ricorda la Carta acquisti, istituita dal decreto legge 112/2008, che prevede benefici destinati a nuclei familiari in difficoltà. Il decreto legge 5/2012 ha configurato una nuova carta acquisti prevedendo una sperimentazione per favorirne la diffusione tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno.

E' stato infine esaminato e non concluso un disegno di legge (A.C. 4566) recante la delega legislativa al Governo per la riforma fiscale e assistenziale . La riforma della materia socio-assistenziale si poneva l’obiettivo di riqualificare e riordinare la relativa spesa, al fine di superare le sovrapposizioni e le duplicazioni di servizi e prestazioni, e, in particolare, ridefinire gli indicatori (ISEE) volti ad individuare la reale situazione economica dei singoli cittadini, con attenzione ai nuclei familiari. Al proposito, l'articolo 5 del decreto legge 201/2011 ha demandato ad un regolamento governativo, previa Intesa in sede di Conferenza Stato-regioni, la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’ISEE.

   Alcune misure a tutela della disabilita sono contenute in provvedimenti approvati dal Parlamento o che non hanno potuto concludere il relativo percorso parlamentare. La legge 107/2010 è  diretta al riconoscimento della sordocecità come disabilità specifica unica, sulla base degli indirizzi contenuti nella dichiarazione scritta sui diritti delle persone sordocieche del Parlamento europeo, e disciplina la percezione in forma unificata delle indennità spettanti ai soggetti citati nonché le modalità dell'accertamento della disabilità unica.

Altre misure sono contenute in proposte di legge il cui esame presso la XII Commissione affari sociali della Camera non si è concluso, tra le quali si ricordano le norme che estendono alle  associazioni che operano per la tutela dei diritti delle persone disabili l’applicazione di alcune misure previste per gli istituti di patronato e di assistenza sociale, le disposizioni che intervengono sui criteri previsti al fine di ottenere determinate prestazioni economiche assistenziali a favore degli invalidi civili nonché le norme dirette a prevedere misure di assistenza in favore dei disabili gravi privi del sostegno familiare, vale a dire privi del nucleo familiare o con famiglie sprovviste dei mezzi necessari per assisterli o curarli.

 



Previdenza

Gli interventi nel settore previdenziale si inseriscono nella direzione tracciata con le riforme adottate nelle precedenti legislature, volte a garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico attraverso l’adeguamento dei requisiti per l’accesso ai trattamenti.

In tale contesto particolare rilievo assume, nella prima fase della legislatura (che ha visto, peraltro, anche la totale abolizione del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro) l’introduzione legislativa del principio dell'adeguamento periodico quinquennale ed automatico dell'eta' pensionabile sulla base dell'incremento della speranza di vita accertato dall'ISTAT. Raccomandata anche a livello internazionale come misura essenziale per assicurare l’autostabilità dei sistemi previdenziali, in quanto capace di sottrarre alla discrezionalità politica il progressivo innalzamento dei requisiti pensionistici imposto dall’invecchiamento della popolazione (fenomeno  particolarmente avanzato in Italia), la norma ha inizialmente fissato al 2015 il primo adeguamento, con modalità tecniche demandate ad un apposito regolamento di delegificazione. Successivamente, la norma è stata  ripetutamente rivista al fine di anticiparne gli effetti al 2013 (primo adeguamento di 3 mesi) e di fissare i successivi aggiornamenti al 2016 e 2019 (dopodiché gli aggiornamenti avranno cadenza biennale).

Con la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 13 novembre 2008, che ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, si apre nel Paese un ampio dibattito sulla previdenza nel pubblico impiego e, più in generale, sul ruolo femminile nel mondo del lavoro e sulla conciliazione tra tempi di lavoro e tempi familiari, fino ad investire la questione delle norme di “favore” per il pensionamento femminile (più “generose” in Italia rispetto ad altri Paesi europei). Sul piano legislativo la sentenza è stata recepita definendo un graduale e progressivo percorso di innalzamento della eta' pensionabile delle donne nel pubblico impiego , fino al raggiungimento dei 65 anni, a regime, nel 2018.

L’intervento sulle dipendenti pubbliche ha indotto il legislatore, di lì a poco, a intervenire anche sulle lavoratrici del settore privato, attraverso il progressivo adeguamento del requisito anagrafico per il pensionamento di vecchiaia (adeguamento successivamente accelerato dalla riforma Fornero).

L'aggravarsi della crisi economica internazionale porta, tra il 2000 e il 2011,  all’adozione di un’altra misura di carattere strutturale per il contenimento della spesa previdenziale, consistente nel posticipo delle decorrenze dei trattamenti (c.d.finestre). Fermi restando i requisiti pensionistici previsti per legge, gli interventi hanno comportato di fatto il rinvio della decorrenza dei trattamenti di vecchiaia fino a 12 mesi per i lavoratori dipendenti e fino a 18 mesi per i lavoratori autonomi, con un ulteriore aggravio (da 1 a 3 mesi) per le pensioni di anzianità (ossia per i soggetti che, indipendentemente dall’età anagrafica, avessero raggiunto i 40 anni di contribuzione).

   A fronte del sostanziale inasprimento dei requisiti previdenziali ottenuto con le nuove “finestre”, il legislatore appresta una disciplina speciale per il collocamento a riposo dei soggetti che hanno svolto lavori usuranti , garantendo ad essi, a determinate condizioni, l’applicazione di specifici benefici(volti a consentire l’accesso anticipato al pensionamento), che verranno peraltro significativamente ridotti dalla successiva riforma Fornero (dati recenti sull’attuazione delle norme segnalano, peraltro, un tasso di accoglimento delle domande significativamente più basso di quanto preventivato, dovuto con tutta probabilità ai gravosi oneri probatori previsti, soprattutto con riferimento ai periodi lavorativi più risalenti nel tempo).

Altre misure di contenimento della spesa previdenziale adottate in tale fase hanno portato all’introduzione di requisiti più stringenti per l'accesso alla pensione di reversibilita' (con l’obiettivo di arginare usi impropri dell’istituto) ad una disciplina più onerosa per le ricongiunzioni di periodi contributivi e alla riduzione dei trattamenti pensionistici piu' elevati .

A livello europeo, con la presentazione nel 2010 del Libro verde la Commissione europea ha avviato una riflessione sulla riforma dei sistemi pensionistici. Sul libro verde la XI Commissione (Lavoro) della Camera ha approvato il 10 novembre 2010 un documento finale . Successivamente, nel febbraio 2012 la Commissione europea ha presentato il Libro bianco nel quale, in particolare, propone di creare migliori opportunità per i lavoratori anziani; incoraggiare gli Stati membri a promuovere vite lavorative più lunghe, correlando l'età della pensione con la speranza di vita, limitando l'accesso al pre-pensionamento e eliminando il divario pensionistico tra gli uomini e le donne; sviluppare sistemi pensionistici privati complementari e potenziandone la sicurezza; rendere le pensioni integrative compatibili con la mobilità, varando leggi a tutela dei diritti pensionistici dei lavoratori mobili e promuovendo l'istituzione di servizi di ricostruzione delle pensioni in tutta l'UE.

     All’interno di una più generale politica di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni (e, in qualche misura, in antitesi con i coevi interventi volti all’innalzamento dell’età pensionabile) si collocano invece le misure volte a precludere il prolungamento dell’attività lavorativa dei dipendenti pubblici con maggiore anzianità. A tal fine la permanenza in servizio per un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo (in precedenza configurata come diritto soggettivo del dipendente) è stata dapprima rimessa alla discrezionalità della PA di appartenenza (chiamata a valutare la presenza di specifiche esigenze organizzative) e, successivamente, di fatto esclusa (dalla riforma Fornero). Inoltre, viene riconosciuta alle PA la facoltà di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici con 40 anni di anzianità contributiva.

Nell’ambito delle politiche di contenimento della spesa pubblica, un importante filone di interventi ha investito il sistema degli enti previdenziali pubblici , con l’obiettivo di migliorare l'efficienza amministrativa complessiva del settore. In tale contesto si segnalano dapprima la soppressione di IPSEMA, IPOST ed ENAM (confluiti, rispettivamente, in INAIL, INPS ed INPDAP) e, successivamente, la soppressione di INPDAP ed ENPALS, con conseguente trasferimento delle funzioni all'INPS (oggetto di un ampio processo di riorganizzazione e, soprattutto, di misure di risparmio che passano attraverso puntuali obiettivi di contenimento delle spese di funzionamento e di personale).

Anche il sistema delle Casse previdenziali private (il cui equilibrio finanziario, in alcuni casi, appariva precario) è stato investito da un importante processo di riforma, che ha portato dapprima alla rimodulazione del contributo integrativo (rimesso alla definizione, entro una forchetta fissata per legge, di ciascuna Cassa ed utilizzabile, in parte, per l’incremento dei montanti individuali) e, successivamente (Governo Monti) all’adozione di misure volte (pena sanzioni e l’automatico passaggio al contributivo pro-rata) ad imporre alle Casse interventi idonei a garantire la sostenibilità finanziaria di lungo periodo (50 anni). Sotto la spinta del legislatore il sistema delle Casse si è prontamente attivato, adottando misure che portano a ritenere sostanzialmente conseguiti gli obiettivi di riequilibrio finanziario richiesti.

 A seguito dell’aggravarsi della crisi del debito e delle sollecitazioni provenienti da autorevoli istituzioni internazionali, la materia previdenziale è stata oggetto di una complessiva riconsiderazione da parte del Governo Monti. La riforma previdenziale adottata con l’articolo 24 del DL 201/2011 (c.d. riforma Fornero), in particolare, ha introdotto il sistema di calcolo contributivo pro-rata per tutti; ha portato a 66 anni il limite anagrafico per il pensionamento di vecchiaia; ha velocizzato il processo di adeguamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato (66 anni dal 2018); per quanto concerne il pensionamento anticipato, ha abolito il previgente sistema delle quote, con un considerevole aumento dei requisiti contributivi (42 anni per gli uomini e 41 anni per le donne) e l’introduzione di penalizzazioni economiche per chi comunque accede alla pensione prima dei 62 anni; ha aumentato le aliquote contributive per commercianti, artigiani e lavoratori agricoli.

All’indomani dell’approvazione della riforma, che in molti casi aveva comportato uno spostamento in avanti dell’età di pensionamento anche di molti anni, si è tuttavia ben presto (e con forza) posta all’attenzione delle forze politiche e del Governo la questione dei soggetti prossimi all’età di pensionamento sulla base della disciplina previgente che, in quanto beneficiari di particolari istituti o sulla base di accordi aziendali, sarebbero fuoriusciti dal mercato del lavoro prima della maturazione dei nuovi requisiti. Per far fronte alla questione degli esodati , che accompagna (con una intensa attività parlamentare che ha visto protagonista la Commissione lavoro della Camera) gli ultimi mesi della legislatura, il legislatore è intervenuto a più riprese al fine di ampliare la platea dei beneficiari della disciplina transitoria prevista della riforma (consistente nel riconoscimento dei requisiti pensionistici previgenti) garantendo copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014).

Casse professionali

Gli interventi in materia di enti previdenziali privatizzati (Casse professionali) sono stati diretti a garantire la sostenibilità finanziaria di lungo periodo delle gestioni.

 

L'incremento del contributo integrativo

La L. 133/2011, di modifica dell’articolo 8 del D.lgs. 103/1996, ha previsto che il contributo integrativo a carico degli iscritti alle Casse professionali sia autonomamente stabilito con apposite delibere di ciascuna Cassa o ente di previdenza, approvate dai Ministeri vigilanti. La misura del contributo integrativo deve essere compresa tra il 2 il 5 per cento del fatturato lordo.
Al fine di migliorare i trattamenti pensionistici degli iscritti che adottano il sistema di calcolo contributivo, è riconosciuta la facoltà - senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e garantendo comunque l’equilibrio economico, patrimoniale e finanziario delle Casse o gli enti medesimi - di destinare parte del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali, previa delibera degli organismi competenti e secondo le procedure stabilite dalla legislazione vigente e dai rispettivi statuti e regolamenti. Tali delibere degli organismi competenti sono sottoposte all'approvazione dei Ministeri vigilanti, che valutano la sostenibilità della gestione complessiva e le implicazioni in termini di adeguatezza delle prestazioni.

La sostenibilità finanziaria di lungo periodo

L’articolo 24, comma 24, del D.L. 201/2011 (cd. decreto “salva Italia”) ha disposto che gli enti previdenziali privatizzati debbano adottare, ai fini dell’equilibrio finanziario delle rispettive gestioni, nell’esercizio della loro autonomia gestionale, misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di 50 anni.
Il termine per l’adozione delle misure, inizialmente fissato al 30 giugno 2012, è stato successivamente prorogato al 30 settembre 2012 (dall’articolo 29, comma 16-novies, del D.L. 216/2011).
Le relative delibere sono sottoposte all’approvazione dei Ministeri vigilanti, che si esprimono in via definitiva entro trenta giorni dalla loro ricezione.
Decorso il termine senza l’adozione dei previsti provvedimenti (ovvero nel caso di parere negativo dei Ministeri vigilanti) si applicano, con decorrenza 1° gennaio 2012, il sistema contributivo pro-rata agli iscritti alle relative gestioni e un contributo di solidarietà, per gli anni 2012 e 2013, a carico dei pensionati nella misura dell’1%.

Sotto la spinta del legislatore il sistema delle Casse si è prontamente attivato, adottando misure che portano a ritenere sostanzialmente conseguiti gli obiettivi di riequilibrio finanziario richiesti.

Approfondimenti

Documenti e risorse web

Approfondimento: La privatizzazione delle Casse di previdenza

Le Casse di previdenza cui sono iscritti coloro che esercitano attività professionali sono state privatizzate, dal 1° gennaio 1995, nell’ambito del riordino generale degli enti previdenziali disposto con l’articolo 1, commi da 32 a 38, della L. 537/1993.

In attuazione della delega è stato emanato il D.Lgs. 509/1994, che ha disposto la trasformazione in associazione o fondazione, con decorrenza dal 1° gennaio 1995, dei seguenti enti:

Gli enti, una volta privatizzati, hanno continuato a sussistere come enti senza scopo di lucro, assumendo la personalità giuridica di diritto privato (artt. 12 e seguenti del Codice civile) e subentrando in tutti i rapporti attivi e passivi dei corrispondenti enti previdenziali: in particolare ne hanno mantenuto la funzione previdenziale, continuando a svolgere le corrispondenti attività nei confronti delle categorie per le quali gli enti medesimi sono stati istituiti, e fermo restando l'obbligo, da parte dei destinatari, della iscrizione e della contribuzione. Il decreto ha stabilito, poi, le regole che devono presiedere all'equilibrio gestionale dei nuovi enti privatizzati (introducendo accanto alle riserve tecniche una "riserva legale" pari ad almeno cinque annualità dell'importo delle pensioni in pagamento e prevedendo l'obbligo della redazione almeno triennale di un "bilancio tecnico"), i criteri di trasparenza che devono presiedere ai rapporti con gli iscritti, nonché i poteri di vigilanza affidati al Ministero del lavoro (il quale, oltre ad approvare gli statuti istitutivi ed i regolamenti, verifica l'andamento gestionale e formula, se necessario, gli opportuni rilievi. Benché con consistenti ritardi rispetto al termine inizialmente stabilito (1° gennaio 1995), tutti gli enti elencati hanno proceduto alla trasformazione in associazione o fondazione di diritto privato.

Successivamente, il comma 25 dell’articolo 2 della L. 335/1995 (“Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), ha delegato il Governo ad emanare norme volte ad assicurare la tutela previdenziale in favore dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione, senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è subordinato all'iscrizione ad appositi albi o elenchi. In attuazione di tale norma è stato emanato il D.Lgs. 103/1996, che ha assicurato, a decorrere dal 1° gennaio 1996, la tutela previdenziale per i richiamati soggetti.

In attuazione del D.Lgs. 103/1996 sono stati istituiti i seguenti enti privatizzati:

L’articolo 2, comma 2, del D.Lgs. 103/1996 ha disposto l’applicazione, per tali enti, indipendentemente dalla forma gestoria prescelta, del sistema di calcolo contributivo, con aliquota di finanziamento non inferiore a quella di computo, e secondo specifiche modalità attuative.

Cumulo tra pensione e redditi da lavoro

L'articolo 19 del decreto-legge 112/2008 ha disposto l'abolizione totale del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo e dipendente.

Il cumulo tra pensioni e redditi da lavoro è stato oggetto, in anni recenti, di numerosi interventi legislativi, dapprima ispirati al principio dell'integrale cumulabilità del trattamento di pensione con la retribuzione; successivamente, diretti a ridurre o eliminare del tutto tale cumulabilità (articolo 72 della L. 388/2000), anche in funzione deterrente rispetto al ricorso al pensionamento di anzianità.

In avvio di legislatura la disciplina in materia di cumulo presentava quindi una notevole articolazione, a causa delle successive modifiche normative che hanno fatto salvi, entro alcuni limiti temporali e a determinate condizioni, i regimi previgenti, se più favorevoli.

Con l’articolo 19 del D.L. 112/2008 la normativa è stata totalmente modificata, introducendo l’integrale cumulabilità dal 1° gennaio 2009 delle pensioni di anzianità (a carico di tutte le forme di assicurazione obbligatoria) con i redditi da lavoro autonomo e dipendente. In sostanza, tutte le pensioni di anzianità (o altrimenti definite, caratterizzate cioè dall’essere anticipate rispetto all’età prevista dalla legge per il conseguimento della pensione di vecchiaia), godono dello stesso regime di totale cumulabilità con i redditi da lavoro autonomo e dipendente, indipendentemente dal regime pensionistico (retributivo, contributivo o misto) al quale appartengano.

Il divieto di cumulo resta fermo, tuttavia, nei confronti dei pubblici dipendenti, nel caso in cui siano riammessi in servizio presso le pubbliche amministrazioni. L’articolo 19, comma 3, del D.L. 112/2008, infatti, ha previsto che restino in vigore le disposizioni del D.P.R. 758/1965, il quale prevede che il cumulo di una pensione con un trattamento per un’attività resa presso le pubbliche amministrazioni non sia ammesso nei casi in cui il nuovo servizio prestato costituisca una derivazione, una continuazione od un rinnovo del rapporto precedente che ha dato luogo alla pensione.

L’abolizione del divieto di cumulo non tocca i soggetti titolari di pensione ai superstiti (“pensioni di reversibilità”) e degli assegni di invalidità con gli altri redditi (divieti previsti dalla L. 335/1995 e rimasti in vigore oltre il 31 dicembre 2008). In questo caso, il soggetto interessato si troverà costretto a rinunciare ad una parte della propria pensione o rendita in caso di reddito superiore a determinati livelli.

Enti previdenziali pubblici

Gli interventi sugli enti previdenziali pubblici sono stati rivolti al miglioramento dell'efficienza amministrativa del settore, attraverso la soppressione di INPDAP ed ENPALS (con conseguente trasferimento delle funzioni all'INPS) e il contenimento delle spese di funzionamento.

Accorpamento degli enti

Il processo di accorpamento degli enti previdenziali ha preso avvio con l'articolo 7, comma 1, del D.L. 78/2010, che ha disposto la soppressione dell'IPSEMA (con conseguente trasferimento delle risorse e delle funzioni all'INAIL), dell'IPOST (con conseguente trasferimento delle risorse e delle funzioni all'INPS) e dell'ENAM (con conseguente trasferimento delle risorse e delle funzioni all'INPDAP).

Successivamente, l’articolo 21 del D.L. 201/2011, nel quadro di convergenza ed armonizzazione del sistema pensionistico attraverso l’applicazione del metodo contributivo, ha previsto la soppressione di INPDAP ed ENPALS e il trasferimento delle relative funzioni all'INPS, a decorrere dal 1° gennaio 2012.

Con decreti di natura non regolamentare del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, da emanarsi entro 60 giorni dall'approvazione dei bilanci di chiusura delle relative gestioni degli Enti soppressi sulla base delle risultanze dei bilanci medesimi, da deliberare entro il 31 marzo 2012, le risorse strumentali, umane e finanziarie degli Enti soppressi sono trasferite all'INPS.
Pertanto, la dotazione organica dell'INPS è incrementata di un numero di posti corrispondente alle unità di personale di ruolo in servizio presso gli enti soppressi alla data di entrata in vigore del decreto n. 201/2011, con i dipendenti trasferiti che mantengono l'inquadramento previdenziale di provenienza.
Il trasferimento non riguarda le posizioni soprannumerarie rispetto alla dotazione organica vigente degli enti soppressi (ivi incluse quelle di cui all'articolo 43, comma 19 della L. 388/2000), che costituiscono eccedenze ai sensi dell'articolo 33 del D.lgs. 165/ 2001.
Resta ferma la previsione dell'articolo 1, comma 3, del D.L. 138/2011, sulla contrazione degli uffici dirigenziali di livello generale, nonché all’ulteriore riduzione della spesa complessiva relativa al numero di posti di organico del personale non dirigenziale nella misura minima del 10%, da compiere entro il 31 marzo 2012.
Inoltre, i due posti di direttore generale degli Enti soppressi sono trasformati in altrettanti posti di livello dirigenziale generale dell'INPS, con conseguente aumento della sua dotazione organica.
In attesa dell’emanazione dei decreti di trasferimento all'INPS delle risorse strumentali, umane e finanziarie degli Enti soppressi, le strutture centrali e periferiche degli enti soppressi continuano ad espletare le attività connesse ai loro compiti istituzionali e a tale scopo l’INPS, nei giudizi incardinati o da incardinare, relativi alle attività degli enti soppressi, è rappresentato e difeso in giudizio dai professionisti già inseriti nella pianta organica delle consulenze legali degli enti soppressi.
L’INPS subentra anche nella titolarità dei rapporti di lavoro diversi da quelli relativi al personale di ruolo in servizio presso gli enti soppressi, per la loro residua durata.
Gli organi degli enti soppressi (il presidente, il consiglio di indirizzo e vigilanza, il collegio dei sindaci e il direttore generale, di cui all'articolo 3, comma 2, del D.lgs. 479/1994) cessano dalla data di adozione dei decreti di trasferimento all'INPS sopra citati.
Sulla collocazione dei sette componenti del Collegio dei sindaci dell’INPDAP, si prevede che due vadano ad integrare il Collegio dei sindaci dell’INPS e cinque siano trasformati in posizioni dirigenziali di livello generale (per esigenze di consulenza, studio e ricerca) della Ragioneria generale dello Stato.
Per far fronte all’incremento dell’attività dell’INPS a seguito della soppressione degli enti e per assicurare la rappresentanza degli interessi cui corrispondevano le funzioni istituzionali di ciascuno degli enti soppressi, il Consiglio di indirizzo e vigilanza dell'INPS è integrato di sei rappresentanti secondo criteri definiti con decreto, non regolamentare, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Entro sei mesi dall'emanazione dei decreti di trasferimento citati in precedenza, l'INPS provvede al riassetto organizzativo e funzionale, operando una razionalizzazione dell'organizzazione e delle procedure.
La riorganizzazione deve comportare una riduzione dei costi complessivi di funzionamento non inferiore a 20 milioni di euro nel 2012, 50 milioni di euro per l'anno 2013 e 100 milioni di euro a decorrere dal 2014. I relativi risparmi sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati al Fondo ammortamento titoli di Stato. Resta in ogni caso fermo il conseguimento dei risparmi e il correlato versamento all'entrata del bilancio statale, derivante dall'attuazione delle misure di razionalizzazione organizzativa degli enti di previdenza già previste dall'articolo 4, comma 66, della L. 183/2011.
Infine, viene differita la durata in carica del Presidente dell’INPS al 31 dicembre 2014. Per verificare il conseguimento degli obiettivi, il Presidente dovrà presentare al Ministero del lavoro e delle politiche sociali una relazione quadrimestrale, nonché una relazione conclusiva alla fine del mandato, che attesti i risultati conseguiti.

Riduzione spese di funzionamento

Un primo significativo intervento di contenimento delle spese di funzionamento è stato adottato con l’articolo 8, comma 3, del D.L. 95/2011 (cd. “spending review”), volto ad assicurare, in analogia con quanto disposto per le Amministrazioni centrali dello Stato, il contenimento della spesa per consumi intermedi degli enti e organismi pubblici, costituiti anche in forma societaria, in misura pari al 5% per il 2012 e al 10% dal 2013 della spesa sostenuta per consumi intermedi nel 2010. A tale riduzione sono sottoposti, in particolare, gli enti pubblici inseriti nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione (in cui rientrano anche gli enti previdenziali), quale ne sia la forma giuridica, nonché le autorità indipendenti, inclusa la Consob.
Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalla legislazione vigente, la riduzione della spesa per consumi intermedi nelle misure indicate avviene prioritariamente attraverso un ridimensionamento dei trasferimenti statali. Tuttavia, qualora ciò non fosse possibile per effetto delle operazioni di gestione avvenute nel corso del 2012 o poiché gli enti e gli organismi (anche costituiti in forma societaria), dotati di autonomia finanziaria, non ricevono trasferimenti dal bilancio dello Stato, i soggetti interessati sono chiamati ad adottare interventi di razionalizzazione della spesa per consumi intermedi tali da assicurare risparmi corrispondenti alle percentuali sopra indicate, che dovranno essere versati annualmente in apposito capitolo dell'entrata del bilancio dello Stato entro il 30 giugno di ciascun anno.
Ulteriori misure volte al contenimento delle spese sono state previste dall'articolo 1, commi 108-112 della L. 228/2012 (legge di stabilità per il 2013), il quale ha sancito l'obbligo per gli enti nazionali di previdenza e assistenza, nell'ambito della propria autonomia organizzativa, di adottare ulteriori interventi di razionalizzazione per la riduzione delle proprie spese, in modo da conseguire, a decorrere dall'anno 2013, risparmi aggiuntivi complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui. I risparmi devono essere prioritariamente conseguiti attraverso la riduzione delle risorse destinate all'esternalizzazione di servizi informatici, alla gestione patrimoniale, ai contratti di acquisto di servizi, a convenzioni con patronati e centri di assistenza fiscale (CAF), ai contratti di locazione per immobili strumentali non di proprietà; la riduzione dei contratti di consulenza; l'eventuale riduzione, per gli anni 2013, 2014 e 2015, delle facoltà assunzionali previste dalla legislazione vigente, con l'obiettivo di realizzare un'ulteriore contrazione della consistenza del personale; la rinegoziazione dei contratti in essere con i fornitori di servizi al fine di allineare i corrispettivi previsti ai valori praticati dai migliori fornitori; la stipula di contratti di sponsorizzazione tecnica o finanziaria.

La governance degli enti

Il processo di riordino degli enti previdenziali, con l'ampliamento delle funzioni dell'INPS, ha posto il problema della revisione della governance dell'istituto.

Il Parlamento è intervenuto sul tema approvando alcune mozioni (si ricordano la n. 1-01028 dell'8 maggio 2012 e la n. 1-00955 del 22 marzo 2012) che impegnavano il Governo a rivedere la governance dell'INPS a seguito delle varie incorporazioni avvenute. Dal canto suo il Governo ha istituito un gruppo di lavoro che il 28 giugno 2012 ha prodotto documento finale contenente un 'analisi dei problemi emersi e alcune indicazioni operative. La XI Commissione Lavoro della Camera dei deputati ha avviato l'esame di alcune proposte di legge (C. 5463, C. 5503, C. 5539, C. 5572) aventi lo scopo principale di rivedere la composizione e le funzioni degli organi di governance degli enti previdenziali pubblici, interrotto per la fine della legislatura.

Approfondimenti

Dossier pubblicati

Approfondimento: Riorganizzazione dell'INPS

L’articolo 21, del D.L. 201/2011, convertito dalla L. 214/2011, ha disposto a decorrere dal 1° gennaio 2012 la soppressione di INPDAP ed ENPALS e il conseguente trasferimento delle funzioni all’INPS, che succede in tutti i rapporti attivi e passivi degli Enti soppressi. Fino al 31 dicembre 2011 INPDAP ed ENPALS svolgono solo atti di ordinaria amministrazione.

La soppressione degli enti avviene nel quadro di convergenza ed armonizzazione del sistema pensionistico attraverso l’applicazione del metodo contributivo e al fine di migliorare l’efficacia e l’efficienza amministrativa nel settore previdenziale e assistenziale.

Le risorse strumentali, umane e finanziarie degli Enti soppressi vengono trasferite all'INPS con decreti di natura non regolamentare del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da emanarsi entro 60 giorni dall'approvazione dei bilanci di chiusura delle relative gestioni degli Enti soppressi e sulla base delle risultanze dei bilanci medesimi, da deliberare entro il 31 marzo 2012.

Conseguentemente la dotazione organica dell'INPS è incrementata di un numero di posti corrispondente alle unità di personale di ruolo in servizio presso gli enti soppressi alla data di entrata in vigore del presente decreto. I dipendenti trasferiti mantengono l'inquadramento previdenziale di provenienza. Il trasferimento non riguarda le posizioni soprannumerarie rispetto alla dotazione organica vigente degli enti soppressi, che costituiscono eccedenze ai sensi dell'articolo 33 del D.Lgs. 165/2001.

In attesa dell’emanazione dei decreti di trasferimento sopra citati, le strutture centrali e periferiche degli enti soppressi continuano ad espletare le attività connesse ai loro compiti istituzionali. A tale scopo l’INPS, nei giudizi incardinati o da incardinare, relativi alle attività degli enti soppressi, è rappresentato e difeso in giudizio dai professionisti già inseriti nella pianta organica delle consulenze legali dell’INPDAP e dell’ENPALS.

Resta fermo quanto previsto in tema di riduzione degli organici delle pubbliche amministrazioni all'articolo 1, comma 3, del D.L. 138/2011, convertito dalla L. 148/2011.

Per quanto concerne la successione negli organi e nei rapporti di lavoro tra Enti soppressi ed INPS si prevede:

 

Infine si prevede il riassetto organizzativo e funzionale dell’INPS, attraverso una razionalizzazione dell'organizzazione e delle procedure, da attuare entro sei mesi dall'emanazione dei decreti di trasferimento sopra indicati.

In ogni caso, la riorganizzazione deve comportare una riduzione dei costi complessivi di funzionamento non inferiore a 20 milioni di euro nel 2012, 50 milioni di euro per l'anno 2013 e 100 milioni di euro a decorrere dal 2014. I relativi risparmi sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati al Fondo ammortamento titoli di Stato. Resta in ogni caso fermo il conseguimento dei risparmi, e il correlato versamento all'entrata del bilancio statale, derivante dall'attuazione delle misure di razionalizzazione organizzativa degli enti di previdenza già previste dall'articolo 4, comma 66, della L. 183/2011

Infine, la durata in carica del Presidente dell’INPS è differita al 31 dicembre 2014. Al fine di verificare il conseguimento degli obiettivi, il Presidente dovrà presentare al Ministero del lavoro e delle politiche sociali una relazione quadrimestrale, nonché una relazione conclusiva alla fine del mandato, che attesti i risultati conseguiti. L’attuale Presidente dell’INPS, dott. Antonio Mastrapasqua, è stato nominato, per la durata di un quadriennio, con DPR del 30 luglio 2008 .

 

Il successivo articolo 1, comma 6-ter del D.L. 216/2011, obbliga l’INPS a procedere al riassetto organizzativo e funzionale sopra descritto dall’articolo 21, del D.L. 201/2011, prima di avvalersi delle proroghe previste all’articolo 1 del D.L. 216/2011 in tema di personale in soprannumero, derivante dall’accorpamento con INPDAP ed ENPALS.

 

La successiva L. 92/2012, di Riforma del mercato del lavoro, (articolo 4, commi 77-79) ha disposto, tra gli altri, per l’INPS, l'adozione, a decorrere dal 2013, di misure di razionalizzazione organizzativaaggiuntive rispetto a quelle previste dalla normativa vigente, volte alla riduzione delle spese di funzionamento.

 

L'articolo 8 del D.L. 95/2012, convertito dalla L. 135/2012, (c.d. spending review) ha disposto ulteriori obblighi a carico dell’INPS ai fini del processo di riduzione della spesa:

 



Documenti e risorse web

Gruppo di lavoro sulla governance degli enti previdenziali e assicurativi pubblici - documento conclusivo

Avviso comune dei sindacati sulla governance degli enti previdenziali pubblici (26 giugno 2012)

Età pensionabile

Le politiche in materia pensionistica sono state improntate all'esigenza di garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema e si sono progressivamente sviluppate nel corso dellalegislatura attraverso una serie di provvedimenti (decreti-legge 78/2009, 78/2010 e 201/2011) che hanno previsto, in particolare, l'aggancio automatico dell'età pensionabile all'incremento della speranza di vita, il posticipo della decorrenza dei trattamenti pensionistici (cd. finestre) e, da ultimo, un generale incremento dei requisiti pensionistici.

Età pensionabile e incremento della speranza di vita

Nell’ambito degli interventi volti al progressivo innalzamento dei requisiti anagrafici per il diritto all’accesso dei trattamenti pensionistici, grande rilievo assumono iprovvedimenti volti ad adeguare i requisiti anagrafici per l’accesso al sistema pensionistico all’incremento della speranza di vita (accertato dall'ISTAT).
Il principio è stato originariamente introdotto dal comma 2 dell’articolo 22-ter del D.L. 78/2009. Tale disposizione prevedeva che l’adeguamento avrebbe dovuto decorrere dal 1° gennaio 2015, con modalità tecniche demandate ad un apposito regolamento di delegificazione, da emanare entro il 31 dicembre 2014.
Successivamente la normativa in questione è stata interessata, pur in un breve periodo temporale, da numerosi interventi (articolo 12, commi 12-bis - 12-quinquies, del D.L. 78/2010; articolo 18, comma 4, del D.L. 98/2011; articolo 24, commi 12-13, del D.L. 201/2011) che ne hanno modificato ed integrato la struttura.
Attualmente, sulla base di quanto disposto da tali ulteriori interventi, il primo adeguamento è stato anticipato al 1° gennaio 2013; allo stesso tempo, è stato anticipato al 2011 (in luogo del 2014) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibili i dati relativi alla variazione della speranza di vita. Inoltre, è stato posticipato al 31 dicembre di ciascun anno (in luogo del 30 giugno) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibile il dato relativo alla variazione.
Inoltre, è stato previsto un secondo aggiornamento nel 2016 ed un terzo nel 2019, mentre successivamente si avranno aggiornamenti con cadenza biennale.
Per valori del requisito anagrafico superiori a 65 anni è stato contestualmente disposto l’adattamento dei coefficienti di trasformazione, al fine di assicurare trattamenti pensionistici correlati alla maggiore anzianità lavorativa maturata.

Decorrenza dei trattamenti pensionistici (cd. finestre)

L’articolo 12, commi 1-6, del D.L. 78/2010, ha introdotto una serie di misure volte alla riduzione strutturale della spesa pensionistica, incidendo sui requisiti di accesso alla pensione. In particolare, la norma è intervenuta sulla decorrenza dei trattamenti pensionistici (c.d. “finestre”), innalzando il termine a 12 mesi per i lavoratori dipendenti e a 18 mesi per determinate categorie di lavoratori autonomi.
Tale termine è stato successivamente integrato dall’articolo 18, commi 22-ter – 22-quinquies, del D.L. 98/2011, che, per i soggetti richiamati che avessero maturato i requisiti per il diritto al pensionamento indipendentemente dall’età anagrafica (cioè raggiungano i 40 anni di contributi versati), ha disposto il conseguimento del diritto alla decorrenza con un posticipo ulteriore, pari a un mese dalla data di maturazione dei requisiti previsti per i soggetti che maturino i requisiti nel 2012; due mesi per i soggetti che maturino i requisiti nel 2013; tre mesi per i soggetti che maturino i requisiti a decorrere dal 1° gennaio 2014.

Infine, l’articolo 24, comma 5, del D.L. 201/2011, al fine di salvaguardare le aspettative dei lavoratori prossimi al pensionamento, ha disposto, con riferimento esclusivamente ai soggetti che a decorrere dal 1° gennaio 2012 maturino i requisiti per il pensionamento di vecchiaia e anticipato, la non applicazione delle disposizioni del D.L. 78/2010.

Innalzamento dell'età pensionabile (riforma Fornero)

L’articolo 24 del D.L. 201/2011 (rifoma Fornero) ha attuato una revisione complessiva del sistema pensionistico.

In particolare, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere dal 1° gennaio 2012 (comma 6), disponendo l’innalzamento a 66 anni del limite minimo per accedere alla pensione di vecchiaia (sia per i lavoratori dipendenti sia per quelli autonomi), nonché l’anticipazione della disciplina a regime dell’innalzamento progressivo dell’età anagrafica delle lavoratrici dipendenti private al 2018 (in luogo del 2026) Più specificamente, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nei seguenti termini:

Inoltre, si stabilisce (comma 9) un limite anagrafico minimo per l’accesso alla pensione di vecchiaia per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'AGO e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata INPS. In particolare, i requisiti anagrafici devono essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni per i soggetti, in possesso dei predetti requisiti, che maturino il diritto alla prima decorrenza utile del pensionamento dall'anno 2021.
La norma poi (comma 10) innalza, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, che maturino i requisiti a partire dalla medesima data, il limite massimo di 40 anni richiesto ai fini del riconoscimento del diritto al pensionamento in base al solo requisito di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (c.d. “quarantesimi”).
Sulla base delle nuove disposizioni, l’accesso al trattamento pensionistico è consentito esclusivamente qualora risulti maturata un’anzianità contributiva di:

In virtù di tale disposizione viene soppressa, sempre a decorrere dal 2012, la possibilità di accedere al pensionamento anticipato con il sistema delle cd. “quote” introdotto dalla L. 247/2007, con un’anzianità minima compresa tra 35 e 36 anni di contributi.
Inoltre, si prevede l’applicazione di una riduzione percentuale del trattamento pensionistico per ogni anno di pensionamento anticipato rispetto all’età di 62 anni (pari all’1%, con elevazione al 2% per ogni ulteriore anno di anticipo rispetto a 2 anni).

All’indomani dell’approvazione della riforma, che in molti casi aveva comportato uno spostamento in avanti dell’età di pensionamento anche di molti anni, si è tuttavia ben presto (e con forza) posta all’attenzione delle forze politiche e del Governo la questione degli esodati, su cui il legisaltore è intervenuto a più riprese al fine di ampliare la platea dei beneficiari della disciplina transitoria prevista della riforma (consistente nel riconoscimento dei requisiti pensionistici previgenti) garantendo copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014).

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Approfondimento: La riforma delle pensioni



Introduzione

L’articolo 24 del D.L. 201/2011 ha recato numerose e sostanziali modifiche alla normativa previdenziale vigente, con lo scopo di garantire il rispetto, nel tempo, dei vincoli di bilancio, della stabilità economico-finanziaria nonché di rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul P.I.L., sulla base dei seguenti principi e criteri:

a)  equità e convergenza intragenerazionale e intergenerazionale, con abbattimento dei privilegi e clausole derogative soltanto per le categorie più deboli;

b)  flessibilità nell'accesso ai trattamenti pensionistici anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa;

c)  adeguamento dei requisiti di accesso alle variazioni della speranza di vita;

d)  semplificazione, armonizzazione ed economicità dei profili di funzionamento delle diverse gestioni previdenziali.

 

In particolare, per quanto attiene al settore previdenziale, dal 1° gennaio 2012 sono stati disposti i seguenti interventi:

 

Di seguito si analizzano i principali interventi recati dall’articolo 24.



Calcolo contributivo pro-rata e rideterminazione dei coefficienti di trasformazione

Il comma 2 ha previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità maturate a decorrere dalla medesima data, il calcolo della quota di pensione corrispondente a tali anzianità secondo il metodo di calcolo contributivo (calcolo pro-rata).

 

Allo stesso tempo, il successivo comma 16 ha rideterminato i coefficienti di trasformazione con effetto dal 1° gennaio 2013, in particolare estendendo, mediante il ricorso allo stesso decreto direttoriale di aggiornamento triennale dei coefficienti di trasformazione, di cui all’articolo 1, comma 11, della L. 335/1995, ed in via derogatoria a quanto previsto all’articolo 12, comma 12-quinquies, del D.L. 78/2010, dalla data richiamata, lo stesso coefficiente di trasformazione anche per le età corrispondenti a valori fino a 70.

Tale valore deve comunque essere adeguato agli incrementi della speranza di vita nell’ambito del procedimento già previsto per i requisiti del sistema pensionistico dall'articolo 12 del D.L. 78/2010. In relazione a ciò è altresì prevista un’ulteriore estensione del coefficiente – nell’ambito della medesima procedura di cui all’articolo 1, comma 11, della L. 335/1995 - considerando quindi anche le età maggiori del limite di 70 anni, ogniqualvolta il predetto adeguamento triennale comporti, con riferimento al valore originariamente indicato in 70 anni per l’anno 2012, l’incremento dello stesso tale da superare di una o più unità il predetto valore soglia.

In ogni caso, la rideterminazione aggiornata del coefficiente di trasformazione esteso anche per età corrispondenti a valori superiori a 70 anni è effettuata con la predetta procedura di cui al richiamato articolo 1, comma 11, della L. 335/1995.

 

Senza dubbio il fattore più qualificante della riforma in materia di previdenza obbligatorio nella L. 335/1995 fu l’introduzione del metodo di calcolo contributivo dei trattamenti pensionistici, in luogo del metodo retributivo.

Il provvedimento, infatti, muovendo dalla constatazione che il metodo retributivo costituisse una fonte di iniquità del sistema, sia intergenerazionale, sia interna a ciascuna generazione di percettori , introdusse un nuovo metodo di calcolo dei trattamenti pensionistici, mediante il quale si ritengono perseguibili, a regime, entrambi gli obiettivi della sostenibilità finanziaria del sistema e della equità nei rendimenti corrisposti.

Differentemente da quest'ultimo, il metodo contributivo, come prefigurato dall’articolo 1, commi  da 6 a 16, dell'articolo 1 della L. 335/1995, mette in relazione vita contributiva e trattamento previdenziale di ciascun soggetto: ciò comporta che, a regime, il pensionato riceverà un trattamento commisurato a quanto ha accumulato nel suo periodo attivo. E' però importante sottolineare che il nuovo sistema contributivo si muove sempre all'interno di un ordinamento che funziona secondo il criterio della ripartizione: la pensione è sì commisurata alla storia contributiva del lavoratore, ma è comunque pagata dalle entrate contributive correnti del sistema, che resta a pieno titolo un sistema pensionistico pubblico. Può dunque parlarsi di un sistema contributivo che funziona all'interno di un quadro ripartitorio pubblico.

 

La totale diversità del nuovo metodo impose una sua introduzione graduale, delineata dall’articolo 1, commi 12 e 13, che in sostanza stabilirono una tripartizione del sistema di computo delle pensioni. In particolare:

-       per i lavoratori privi di anzianità contributiva alla data del 1° gennaio 1996 (c.d. neo-assunti) la pensione sarebbe stata calcolata interamente con il metodo contributivo;

-       per i lavoratori con una anzianità contributiva inferiore a 18 anni, la pensione sarebbe stata calcolata con il metodo del "pro-rata", cioè dalla somma di una quota, corrispondente alle anzianità anteriori al 31 dicembre 1995, determinata, (con riferimento alla data di decorrenza della pensione), con il metodo retributivo previgente alla predetta data e di una quota, corrispondente alle ulteriori anzianità contributive, calcolata con il sistema contributivo;

-       per i lavoratori con almeno 18 anni di anzianità, la pensione sarebbe stata liquidata interamente secondo il sistema retributivo.

Negli ultimi due casi, fu prevista l'eventualità di liquidare il trattamento esclusivamente con le regole contributive, in conseguenza dell'esercizio della facoltà di opzione prevista dall'articolo 1, comma 23, della L. 335, ai sensi del quale i lavoratori interessati potevano optare per l'integrale liquidazione della pensione con il metodo contributivo, se in possesso di una anzianità contributiva pari almeno a 15 anni, di cui almeno 5 nel nuovo sistema contributivo (cioè a partire dal 1° gennaio 2001, iniziando il nuovo sistema dal 1° gennaio 1996).

Il secondo elemento innovatore, strettamente dipendente dalla scelta del metodo contributivo, è costituito dal meccanismo di funzionamento del metodo medesimo, incentrato sulla capitalizzazione dei contributi versati. In particolare, la capitalizzazione è effettuata secondo un indicatore oggettivo, costituito, secondo quanto puntualmente specifica l'articolo 1, comma 9, della L. 335, dalla variazione media quinquennale del PIL nominale, calcolata con riferimento al quinquennio di ciascun anno da rivalutare. L'accumulo contributivo così capitalizzato dà luogo al "montante contributivo": quest'ultimo, rapportato ai divisori (cd. coefficienti di trasformazione) previsti dalla Tabella A allegata alla legge (e che sono anch'essi costituiti secondo un criterio oggettivo, rapportato alla speranza di vita del pensionato viene moltiplicato per i coefficienti di trasformazione), dando come prodotto l'ammontare della rendita pensionistica di ciascuno.

E' importante sottolineare, coerentemente con quanto prima accennato in ordine al quadro ripartitorio pubblico in cui si muoveva il nuovo sistema, che la capitalizzazione di ciascuna contribuzione è di carattere figurativo, (è stata infatti definita come capitalizzazione simulata) poiché con i versamenti via via acquisiti si continuano a pagare le pensioni a carico del sistema.

Più specificamente, il metodo contributivo presuppone che per ciascun destinatario venga istituita una sorta di conto di tipo patrimoniale, nel quale vengono accreditati anno per anno i contributi versati, che sono capitalizzati ad un tasso di rendimento pari al tasso di crescita del sistema economico; il processo è continuo, nel senso che il conto patrimoniale individuale si accresce anno per anno sia per effetto del versamento di nuovi contributi, sia per la rivalutazione di quelli già versati. Alla fine della vita lavorativa, l'interessato si vede accreditato una patrimonio finanziario (ovviamente di carattere nozionale e teorico, poiché nel frattempo i suoi contributi hanno pagato i trattamenti pensionistici correnti), che verrà distribuito sugli anni di godimento atteso della pensione. In questo punto si introduce il parametro del divisore, ovvero il numero utilizzato per trasformare il montante contributivo in rendita, che varia (principalmente, ma non soltanto) in relazione all'età di pensionamento: chi va in pensione in età più giovane ha infatti una speranza di vita maggiore, e di conseguenza, a parità di montante contributivo, gli si applicherà un divisore più elevato (cioè un minor coefficiente di trasformazione) e dall'operazione deriverà una rendita di minor ammontare rispetto a coloro che, con il medesimo montante, vanno in pensione in età più tarda.

 

Come accennato, il sistema di calcolo contributivo del trattamento pensionistico, introdotto dalla L. 335/1995, differisce notevolmente dal sistema retributivo: la prestazione pensionistica, infatti, non è legata alla retribuzione ma è vincolata alla contribuzione accreditata a favore del dipendente nell'arco dell'intera sua vita lavorativa. L'importo della pensione si ottiene quindi moltiplicando il montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione (cioè il valore al quale si moltiplica il montante individuale dei contributi al fine di ottenere l’importo attualizzato della pensione annua, in altri termini è la percentuale per la quale si moltiplicano i contributi accumulati in tutta la vita lavorativa al fine di determinare l'importo dell’assegno pensionistico relativo all'età del dipendente alla data di decorrenza della pensione o alla data del decesso, nel caso di pensione indiretta). I coefficienti di trasformazione sono i coefficienti utilizzati nel metodo di calcolo contributivo per la trasformazione del montante contributivo (cioè, il capitale che il lavoratore ha accumulato nel corso degli anni di lavoro attivo) in rendita. Tali indici variano in base all’età anagrafica al momento del pensionamento e sono costruiti tenendo conto della speranza di vita media alla pensione e incorporando il tasso di crescita del PIL di lungo periodo stimato nell’1,5%. Introdotti dall’articolo 1, comma 6, della L. 335/1995, ai sensi dell’articolo 1, comma 14, della L. 247/2007, tali coefficienti sono stati rideterminati con effetto 1° gennaio 2010. Il successivo comma 15, semplificando la procedura per la rideterminazione dei coefficienti e riducendone la periodicità, ha disposto la rideterminazione triennale degli stessi con apposito decreto interministeriale. L'accesso ai trattamenti per i destinatari del sistema contributivo è condizionato alla maturazione dell'età minima di 57 anni, fatte salve alcune eccezioni. Il valore del coefficiente di trasformazione è legato all’età posseduta, aumentando al crescere della stessa. Più specificamente, si considera il limite inferiore di 57 anni (età inferiore) per arrivare ad un valore massimo del coefficiente in corrispondenza dei 65 anni (età superiore). In sostanza, quindi, un’età pensionabile più avanzata permette di conseguire una pensione più consistente.

 

Si ricorda, inoltre, che la L. 247/2007 ha disposto, in fase di prima rideterminazione dei coefficienti di trasformazione, la sostituzione (articolo 1, comma 14) della Tabella A allegata alla L. 335/1995 con la nuova Tabella A di cui all’Allegato n. 2 alla L. 247/2007, a decorrere dal 1° gennaio 2010. Si consideri che il valore dei coefficienti di trasformazione corrispondente alle varie età anagrafiche viene ridotto: la riduzione dei coefficienti è riportata nella seguente tabella (tasso di sconto = 1,5%):

 

Divisori

Età

Valori

22,627

57

4,419%

22,035

58

4,538%

21,441

59

4,664%

20,843

60

4,798%

20,241

61

4,940%

19,635

62

5,093%

19,024

63

5,257%

18,409

64

5,432%

17,792

65

5,620%

 

La stessa legge ha altresì modificato la disciplina relativa alle modalità di rideterminazione dei coefficienti di trasformazione, alla quale si provvede - sempre sulla base degli andamenti demografici e dell'andamento effettivo del tasso di variazione del PIL rispetto all’andamento dei redditi soggetti a contribuzione previdenziale - con cadenza triennale con apposito decreto interministeriale. Infine, è stato disposto (comma 16) che il Governo deve procedere ogni dieci anni, con le parti sociali, alla verifica della sostenibilità ed equità del sistema pensionistico.



Certificazione dei requisiti di accesso e fattispecie pensionistiche

Il comma 3 ha disposto una certificazione dei diritti acquisiti prima della data di entrata in vigore del provvedimento in esame – su domanda dei soggetti interessati - per i lavoratori che maturino entro il 31 dicembre 2011, in relazione ai requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla normativa vigente ai fini del diritto all'accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità. 

Inoltre, a decorrere dal 1° gennaio 2012 per i soggetti che, nei regimi misto e contributivo, maturino i requisiti a partire dalla medesima data, le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità vengono sostituite, dalla pensione di vecchiaia, conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di cui ai commi 6 e 7, salvo quanto stabilito ai successivi commi 14, 15-bis e 18, e dalla pensione anticipata, conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di cui ai comma 10 e 11, salvo quanto stabilito ai successivi commi 14, , 15-bis, 17 e 18.

 

Lo stesso comma ha previsto altresì la sostituzione, sempre a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti che maturino, nei regimi misto e contributivo, i requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico a partire dalla medesima data, delle pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata (cioè del trattamento pensionistico anticipato ai sensi dell’articolo 1, comma 8, del D.Lgs. 503/1992, applicabile agli invalidi in misura non inferiore all'80% e pari a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne), di anzianità con la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata. Le nuove discipline trovano applicazione salvo quanto stabilito in materia di esenzioni dell’applicazione della nuova disciplina (comma 14), di prepensionamento per lavori usuranti (comma 17) e di armonizzazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento dei regimi diversi dall’AGO (comma 18).



Flessibilità in uscita ed incentivazioni

Il comma 4 ha disposto la possibilità, per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione viene liquidata a carico dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, di conseguire la pensione di vecchiaia all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dalle successive disposizioni.

E’ inoltre previsto un sistema di incentivazione al proseguimento dell'attività lavorativa, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, attraverso una riparametrazione dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di 70 anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall'articolo 12 del D.L. 78/2010.

Lo stesso comma prevede altresì che nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della L. 300/1970 (cd. “tutela reale” nella disciplina dei licenziamenti individuali) operi fino al conseguimento del richiamato limite massimo di flessibilità.



Soppressione del regime delle decorrenze annuali

Il comma 5 ha previsto, con riferimento esclusivamente ai soggetti che a decorrere dal 1° gennaio 2012 maturino i requisiti per il pensionamento di vecchiaia ordinario e anticipato, la non applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 12, commi 1 e 2 del D.L. 78/2010, e delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 21, primo periodo, del D.L. 138/2011, recanti, rispettivamente, disposizioni in materia di decorrenze per la generalità dei lavoratori e per il personale del comparto scuola (c.d. finestre).

 

L’articolo 12, commi 1 e 2, del D.L. 78/2010 aveva introdotto le cd. decorrenze annuali (modificando la disciplina su cui erano in precedenza intervenute la L. 335/1995, la L. 243/2004 e la L. 247/2007) rispettivamente, per i soggetti che, a decorrere dal 2011 avessero maturato il requisito anagrafico per il diritto, rispettivamente, alla pensione di vecchiaia (comma 1) e alla pensione di anzianità Più specificamente, è stato stabilito che il termine di decorrenza della pensione di vecchiaia (compresi i trattamenti liquidati interamente con il sistema contributivo) sia pari:

-      per i lavoratori dipendenti, a 12 mesi dalla data di maturazione dei requisiti per il relativo trattamento;

-      per gli iscritti alle gestioni INPS relative agli artigiani, commercianti, coltivatori diretti e alla Gestione separata INPS, 18 mesi dalla data di maturazione dei requisiti. Successivamente, l’articolo 22-ter del D.L. 98/2011 ha posticipato la decorrenza dei richiamati trattamenti di anzianità per i soggetti che acquisiscano tale diritto indipendentemente dall’età anagrafica (cioè raggiungano i 40 anni di contributi versati) di un mese dalla data di maturazione dei requisiti previsti per i soggetti che maturino i requisiti nel 2012, due mesi per i soggetti che maturino i requisiti nel 2013 e tre mesi per i soggetti che maturino i requisiti a decorrere dal 1° gennaio 2014. Il posticipo non trova applicazione per il personale della scuola, per il quale resta fermo quanto stabilito dall’articolo 59, comma 9, della L. 449/1997.

L’articolo 1, comma 21, primo periodo, del D.L. 138/2011, ha invece modificato, a decorrere dal 1° gennaio 2012, la disciplina delle decorrenze iniziali dei trattamenti pensionistici (di vecchiaia e anzianità) per il personale del comparto scuola. In particolare, è stato disposto che i trattamenti decorrano dall’inizio dell'anno scolastico e accademico ricadente nell'anno solare successivo rispetto a quello in cui si siano maturati i requisiti (nella disciplina previgente la decorrenza era prevista dall'inizio dell'anno scolastico e accademico che ricadeva nell'anno solare di maturazione dei requisiti per il trattamento). Resta ferma l'applicazione della disciplina previgente per i soggetti che abbiano conseguito o conseguano entro il 31 dicembre 2011 i requisiti per il trattamento.



Pensione di vecchiaia

Il comma 6 ha ridefinito i  requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere dal 1° gennaio 2012.

 

Si ricorda che i requisiti introdotti dalla L. 243/2004 per la pensione di vecchiaia liquidata esclusivamente con il sistema contributivo, applicabili dal 1° gennaio 2008, prevedevano che i lavoratori dipendenti potessero andare in pensione in presenza, alternativamente, di una delle seguenti situazioni:

1)   età anagrafica pari a 60 anni per le donne e 65 anni per gli uomini; versamento e accreditamento di almeno 5 anni di contribuzione effettiva; importo della pensione non inferiore a 1,2 volte l’assegno sociale;

2)   anzianità contributiva non inferiore a 40 anni (in questo caso si prescinde dal requisito anagrafico);

3)   anzianità contributiva non inferiore a 35 anni; età anagrafica pari a 60 anni per i lavoratori dipendenti e 61 anni per i lavoratori autonomi nel biennio 2008-2009; il requisito dell’età anagrafica veniva aumentato di un anno per il periodo 2010-2013 e di un ulteriore anno a decorrere dal 2014 (62 anni per i lavoratori dipendenti e 63 anni per gli autonomi).

Successivamente, è intervenuta in materia la L. 247/2007, la quale ha modificato i requisiti introdotti dalla L. 243/2004 per l‘accesso alla pensione di vecchiaia di cui alla terza ipotesi richiamata in precedenza, non modificando le altre ipotesi.

Pertanto, a seguito di tale modifica, a decorrere dal 2008, per accedere alla pensione di vecchiaia con il sistema contributivo in base all’ipotesi 3), era necessario possedere i seguenti requisiti:

-       per il 2008 e dal 1° gennaio 2009 al 30 giugno 2009, almeno 35 anni di anzianità contributiva insieme ad una età anagrafica di almeno 58 anni per i lavoratori dipendenti pubblici e privati e di 59 anni per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS;

-       dal 1° luglio 2009 al 31 dicembre 2010, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” (data dalla somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva) pari almeno a 95 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 59 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 96 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 60 anni;

-       per gli anni 2011 e 2012, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” pari almeno a 96 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 60 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 97, purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 61 anni;

-       dall’anno 2013, infine, a regime, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” pari almeno a 97 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 61 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 98, purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 62 anni (a meno che il Ministro del lavoro non emani il decreto di cui al comma 7 dell’articolo 1 della L. 243/2004 al fine di differire l’innalzamento dei requisiti pensionistici).

Più specificamente, tra gli interventi di revisione effettuati, si segnala l’innalzamento a 66 anni del limite minimo per accedere alla pensione di vecchiaia sia per i lavoratori dipendenti sia per quelli autonomi, nonché l’anticipazione della disciplina a regime dell’innalzamento progressivo dell’età anagrafica delle lavoratrici dipendenti private al 2018 (in luogo del 2026).

Allo stesso tempo, si precisa che il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia si consegua in presenza di un'anzianità contributiva minima pari a 20 anni (in luogo dei 5 richiesti dalla normativa previgente), a condizione che l'importo della pensione risulti essere non inferiore a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale.

Tutti i meccanismi di innalzamento comunque precisano che resta in ogni caso ferma la disciplina di adeguamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita ai sensi dell'articolo 12 del D.L. 78/2010.

In particolare, il comma in esame, al fine di conseguire una convergenza verso un requisito uniforme per il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia tra uomini e donne e tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, prevede, relativamente ai soggetti che maturino i requisiti per il pensionamento di vecchiaia ordinario e anticipato a decorrere appunto dal 1° gennaio 2012, ridefinisce i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nei seguenti termini:

-       63 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014;

-       65 anni a decorrere dal 1° gennaio 2016;

-       66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018;

In materia di innalzamento dei requisiti anagrafici per il pensionamento delle lavoratrici dipendenti private, l’articolo 18 del D.L. 98/2001 aveva stabilito in primo luogo, a decorrere dal 1° gennaio 2020, un progressivo innalzamento, da 60 a 65 anni, del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia. In particolare, il requisito anagrafico di 60 anni per il sistema retributivo e misto e il requisito di 60 anni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera b), della L. 243/2004 (pensione liquidata con il calcolo contributivo) venivano incrementati di 1 mese. Tali requisiti erano ulteriormente incrementati di 2 mesi a decorrere dal 2021, di 3 mesi dal 2022, di 4 mesi dal 2023, di 5 mesi dal 2024, di 6 mesi dal 2025 per ogni anno fino al 2031 e di ulteriori 3 mesi a decorrere dal 2032 (sempre tenendo conto degli innalzamenti legati all’incremento della speranza di vita).

Successivamente, l’articolo 1, comma 20, del D.L. 138/2011 era intervenuto nuovamente su tale disciplina prevedendo un anticipo dell’innalzamento progressivo, con inizio dal 2014, (anziché dal 2020) e con l’entrata a regime della disciplina il 1° gennaio 2026 (anziché il 1° gennaio 2032).

La disciplina a regime veniva raggiunta attraverso l’innalzamento di un mese a decorrere dal 2014, di ulteriori 2 mesi dal 2015, di 3 mesi dal 2016, di 4 mesi dal 2017, di 5 mesi dal 2018, di 6 mesi dal 2019 per ogni anno fino al 2025 e di ulteriori 3 mesi a decorrere dal 2026, anno, appunto, in cui la disciplina entra a regime con il raggiungimento di 65 anni ai fini del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia.

-       64 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014;

-       65 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2016;

-       66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018;

L’articolo 22-ter del D.L. 78/2009 è intervenuto in materia di requisiti anagrafici richiesti ai fini del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti iscritte alle forme esclusive dell'AGO per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti (cioè le lavoratrici dipendenti pubbliche).

In particolare, è stato aggiunto un periodo all’articolo 2, comma 21, della L. 335/1995, in base al quale i requisiti anagrafici di 60 anni per le lavoratrici del pubblico impiego, individuato dallo stesso comma 21 nonché dall’articolo 1, comma 6, lettera b), della L. 243/2004, sono incrementati di un anno, a decorrere dal 2010. Lo stesso periodo dispone altresì un ulteriore incremento di un anno a decorrere dal 1° gennaio 2012 nonché di un ulteriore anno per ogni biennio successivo, fino al raggiungimento dei 65 anni nel 2018.

Successivamente, l’articolo 12, comma 12-sexies, del D.L. 78/2010 ha modificato, tale disciplina, disponendo l'elevamento del requisito da 61 a 65 anni con decorrenza dal 1° gennaio 2012. Resta fermo il diritto al trattamento per le lavoratrici che maturino, entro il 31 dicembre 2011, i requisiti anagrafici e contributivi vigenti alla suddetta data; tali dipendenti possono chiedere all'ente pensionistico di appartenenza la certificazione del diritto.

Ai sensi del successivo comma 7, il diritto alla pensione di vecchiaia si consegue in presenza di un'anzianità contributiva minima pari a 20 anni (in luogo dei 5 richiesti in precedenza), a condizione che l'importo della pensione risulti essere non inferiore, per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996, a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale di cui all'articolo 3, comma 6, della L. 335/1995., rivalutato annualmente sulla base della variazione media quinquennale del PIL nominale, appositamente calcolata dall'ISTAT, con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare. In occasione di eventuali revisioni della serie storica del PIL operate dall'ISTAT, i tassi di variazione da considerare devono essere quelli relativi alla serie preesistente anche per l'anno in cui si verifica la revisione e quelli relativi alla nuova serie per gli anni successivi. Il predetto importo soglia non può in ogni caso essere inferiore, per un dato anno, a 1,5 volte l'importo mensile dell'assegno sociale stabilito per il medesimo anno.

Si prescinde dall’importo minimo solamente se si è in possesso di un'età anagrafica pari a 70 anni, ferma restando un'anzianità contributiva minima effettiva di cinque anni.

Lo stesso comma, infine, per esigenze di coordinamento legislativo, provvede, fermo restando quanto previsto dall'articolo 2 del D.L. 355/2001 a sopprimere il riferimento ai lavoratori cd. “diciottisti”(cioè i lavoratori che vantando al 1° gennaio 1996 un’anzianità contributiva di almeno 18 anni, avevano la pensione interamente liquidata secondo la normativa vigente in base al sistema retributivo) all’articolo 1, comma 23 della L. 335/1995, (cfr. il paragrafo relativo all’introduzione del metodo di calcolo contributivo).

Il successivo comma 9 stabilisce un limite anagrafico minimo per l’accesso alla pensione di vecchiaia per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'AGO e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata INPS.

In particolare, i requisiti anagrafici devono essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni per i soggetti, in possesso dei predetti requisiti, che maturino il diritto alla prima decorrenza utile del pensionamento dall'anno 2021.

Qualora, per effetto degli adeguamenti dei predetti requisiti agli incrementi della speranza di vita ai sensi dell'articolo 12 del D.L. 78/2010, la richiamata età minima di accesso non fosse assicurata, è disposto un ulteriore incremento degli stessi, con lo stesso decreto direttoriale di cui al citato articolo 12, comma 12-bis, del D.L. 78/2010, da emanare entro il 31 dicembre 2019, al fine di garantire, per i richiamati soggetti in possesso dei predetti requisiti un'età minima di accesso al trattamento pensionistico comunque non inferiore a 67 anni.

Resta anche in questo caso ferma la disciplina di adeguamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita, per gli adeguamenti successivi a quanto previsto dal penultimo periodo del presente comma.

Infine, per esigenze di coordinamento legislativo, viene abrogato l'articolo 5 della L. 183/2011.

Tale norma, ferma restando la normativa vigente in materia di decorrenza dei trattamenti pensionistici (c.d. finestre) e di adeguamento all’incremento delle aspettative di vita, era volta a garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia non inferiore a 67 anni, tenuto conto del regime delle decorrenze, e riguardava esclusivamente le pensioni di vecchiaia per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995. In particolare, si stabiliva che, a prescindere dalle misure del processo di elevamento richiamato in precedenza, i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nel sistema retributivo e misto nonché i requisiti anagrafici richiesti per la liquidazione dei trattamenti pensionistici di cui all'articolo 1, comma 6, lettera b), della L. 243/2004, come modificati, per le lavoratrici, dall'articolo 22-ter, comma 1, del D.L. 78/2009 e dall'articolo 18, comma 1, del D.L. 98/2011, dovessero essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni, tenuto conto del regime delle decorrenze, per i soggetti, in possesso dei predetti requisiti, che maturassero il diritto alla prima decorrenza utile del pensionamento dall'anno 2026.

 

Pensione anticipata

Il comma 10 ha innalzato, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, che maturino i requisiti a partire dalla medesima data, il limite massimo di 40 anni richiesto ai fini del riconoscimento del diritto al pensionamento in base al solo requisito di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (c.d. “quarantesimi”).

 

Sulla base delle nuove disposizioni, l’accesso al trattamento pensionistico è consentito esclusivamente qualora risulti maturata anzianità contributiva di:

 

E’ stata altresì confermata l’applicabilità a tale fattispecie della disciplina di adeguamento dei requisiti contributivi agli incrementi della speranza di vita, ai sensi dell'articolo 12 del D.L. 78/2010, come integrato dal successivo comma 12 (relativo all’adeguamento dei requisiti per l’accesso al pensionamento agli incrementi della speranza di vita).

Inoltre, è stata disposta l’applicazione di una riduzione percentuale per ogni anno anticipato nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni. Nel corso dell'esame in sede referente, è stato disposto che tale percentuale sia pari all’1%, con elevazione al 2% per ogni ulteriore anno di anticipo rispetto a 2 anni.

In sostanza, la riduzione percentuale sarebbe pari all’1% in presenza di un accesso al pensionamento con 61 e 60 anni e salirebbe al 2% in presenza di un accesso al pensionamento pari e minore a 59 anni.

Nel caso in cui l’età al pensionamento non sia intera, è prevista una riduzione percentuale proporzionale al numero di mesi.

 

Il comma 11 ha previsto un requisito anagrafico minimo per accedere alla pensione anticipata nel sistema contributivo, in alternativa alla maturazione dell’anzianità contributiva analizzata nel comma precedente, per i lavoratori ai quali il primo accredito contributivo decorra successivamente al 1° gennaio 1996.

Più specificamente, fermo restando quanto previsto dal comma 10, per tali i lavoratori il diritto alla pensione anticipata, previa risoluzione del rapporto di lavoro, può essere conseguito, altresì, al compimento del requisito anagrafico di 63 anni, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell'assicurato almeno 20 anni di contribuzione effettiva e che l'ammontare mensile della prima rata di pensione risulti essere non inferiore ad un importo soglia mensile, annualmente rivalutato sulla base della variazione media quinquennale del PIL nominale, appositamente calcolata dall'ISTAT, con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare, pari - per l'anno 2012 - a 2,8 volte l'importo mensile dell'assegno sociale.

In occasione di eventuali revisioni della serie storica del PIL operate dall'ISTAT i tassi di variazione da considerare sono quelli relativi alla serie preesistente anche per l'anno in cui si verifica la revisione e quelli relativi alla nuova serie per gli anni successivi. Il predetto importo soglia mensile non può in ogni caso essere inferiore, per un dato anno, a 2,8 volte l'importo mensile dell'assegno sociale stabilito per il medesimo anno



Adeguamento dei requisiti per l'accesso al pensionamento agli incrementi della speranza di vita

Il comma 12 ribadisce la vigenza della disciplina degli adeguamenti dei requisiti per l’accesso al pensionamento, così come modificati dall’articolo in esame, agli incrementi della speranza di vita previsti dall'articolo 12, commi da 12-bis a 12-quater, del D.L. 78/2010.

 

Il comma 2 dell’articolo 22-ter del D.L. 78/2009 aveva disposto un intervento di portata generale rivolto a tutti i lavoratori, sia pubblici sia privati. Esso stabiliva che a decorrere dal 1° gennaio 2015 i requisiti anagrafici per l’accesso al sistema pensionistico italiano dovessero essere adeguati all’incremento della speranza di vita accertato dall’ISTAT e convalidato dall’EUROSTAT, con riferimento ai 5 anni precedenti.

L’attuazione della relativa normativa tecnica era demandata ad un apposito regolamento di delegificazione, da emanare entro il 31 dicembre 2014. In ogni caso, in sede di prima attuazione il richiamato incremento riferito ai 5 anni antecedenti non poteva superare i 3 mesi.

Successivamente, l’articolo 12, commi 12-bis-12-quinquies, del D.L. 78/2010, ha dato attuazione alle disposizioni del richiamato articolo 22-ter (in sostanza sostituendolo senza disporne l’abrogazione), modificandole in alcune parti. In particolare, si prevede l’adeguamento con cadenza triennale dei requisiti di accesso ai trattamenti, al fine di adeguarli all’incremento della speranza di vita rilevato annualmente dall’ISTAT, entro il 30 giugno, a decorrere dal 2015. In sede di prima applicazione tale aggiornamento non può in ogni caso superare i 3 mesi. Il secondo aggiornamento è previsto a decorrere dal 2019, mentre successivamente si procederà ad aggiornamenti con cadenza triennale. Per valori del requisito anagrafico superiori a 65 anni si dispone, poi, l’adattamento dei coefficienti di trasformazione, al fine di assicurare trattamenti pensionistici correlati alla maggiore anzianità lavorativa richiesta.

Da ultimo, l’articolo 18, comma 4, del D.L. 98/2011, modificando i richiamati commi, ha anticipato al 1° gennaio 2013 (invece del 1° gennaio 2015) la data del primo adeguamento dei trattamenti pensionistici all’indice di speranza di vita. Allo stesso tempo, è stato anticipato al 2011 (in luogo del 2014) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibili i dati relativi alla variazione della speranza di vita, richiamato in precedenza. Inoltre, viene posticipato al 31 dicembre di ciascun anno (in luogo del 30 giugno) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibile il dato relativo alla variazione nel triennio precedente della speranza di vita all'età corrispondente a 65 anni. Infine, attraverso l’abrogazione dell’ultimo periodo del comma 12-ter, è stata eliminata la previsione che il secondo adeguamento fosse calcolato su base biennale, in relazione a ciò tutti gli adeguamenti successivi al primo hanno pertanto cadenza triennale.

 

Lo stesso comma, per esigenze di coordinamento legislativo con le disposizioni di cui al precedente comma 6 concernente l’introduzione dell’istituto della pensione anticipata, provvede altresì a modificare le disposizioni di cui ai richiamati commi 12-bis, 12-ter e 12-quater, legando l’adeguamento triennale dei requisiti di accesso al trattamento pensionistico anche ai requisiti contributivi introdotti dall’articolo in esame.

 

Il successivo comma 13 stabilisce la cadenza biennale dell’aggiornamento degli adeguamenti agli incrementi della speranza di vita successivi a quello effettuato con decorrenza 1° gennaio 2019, secondo le modalità previste dall'articolo 12 del D.L. 78/2010.

Per esigenze di coordinamento legislativo, inoltre, dalla medesima data i riferimenti al triennio, di cui al comma 12-ter dell'articolo 12 del richiamato D.L. 78/2010, devono riferirsi al biennio.



Esenzioni dalla applicazione della nuova disciplina previdenziale

Il comma 14 ha  previsto, riprendendo analoghe disposizioni presenti in precedenti norme, che le disposizioni previgenti in materia di requisiti di accesso e di regime di decorrenza dei trattamenti pensionistici (c.d. finestre”) continuino ad applicarsi, in primo luogo:

Le disposizioni previgenti continuano, altresì, ad applicarsi, nei limiti delle risorse stabilite ai sensi del comma 15 e sulla base della procedura ivi disciplinata, ad una serie di lavoratori, ancorché maturino i requisiti per l’accesso al pensionamento successivamente al 31 dicembre 2011, riconducibili alle seguenti categorie:

 

Il comma 15, demandato le modalità di attuazione del comma 14 ad uno specifico decreto interministeriale (modalità emanate con il D.M. 1° giugno 2012). La disciplina attuativa, in particolare, provvede alla determinazione del numero massimo di beneficiari nel limite di tetti annui di spesa (240 milioni per i 2013; 630 milioni per il 2014; 1.040 milioni per il 2015; 1.220 milioni per il 2016; 1.030 milioni per il 2017; 610 milioni per il 2018; 300 milioni per il 2019).

Agli Enti gestori di forme di previdenza obbligatorie è rimesso il compito di monitorare l’accesso ai benefici, con l’obbligo di non prendere in considerazione ulteriori domande una volta raggiunto il limite numerico corrispondente ai tetti annui di spesa.

La disposizione, infine, precisa che nell’ambito del predetto limite numerico vadano computati anche i lavoratori che intendono avvalersi, se in possesso dei richiesti requisiti, anche del beneficio – in aggiunta a quello indicato relativo al regime delle decorrenze annuali disciplinato dall’articolo 12, comma 5, del D.L. 78/2010, per il quale risultano comunque computati nel relativo limite numerico di cui al predetto articolo 12, comma 5 afferente al beneficio concernente il regime delle decorrenze.

In ogni caso resta fermo che ai richiamati soggetti che maturino i requisiti dal 1° gennaio 2012 trovino comunque applicazione le disposizioni inerenti l’adeguamento dei requisiti per l’accesso ai trattamenti pensionistici agli incrementi della speranza di vita di cui al comma 12.



Regime agevolato di accesso al pensionamento

Il comma 15-bis  ha previsto un regime agevolato di accesso al sistema pensionistico per i lavoratori dipendenti del settore privato  con pensioni liquidate a carico dell’AGO e delle forme sostitutive della medesima, in possesso di specifici requisiti.

 

In particolare, tale regime opera nei confronti:

 

 

 

Lavoratori dipendenti pubblici

e privati

 

Somma di età anagrafica e anzianità contributiva

Età anagrafica minima per la maturazione del requisito indicato in colonna 1

dal 01/07/2009 al 01/12/2009

95

59

2010

95

59

2011

96

60

2012

96

60

dal 2013

97

61

 

Tali lavoratori possono conseguire la pensione anticipata al compimento di un'età anagrafica non inferiore a 64 anni;

 

 

Queste ultime possono conseguire il trattamento di vecchiaia oltre che, se più favorevole, ai sensi del precedente comma 6, con un'età anagrafica non inferiore a 64 anni.



Lavori usuranti

Il comma 17 ha disposto alcune modifiche all’articolo 1 del D.Lgs. 67/2011, che disciplina l’accesso al pensionamento anticipato per i lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (c.d. lavori usuranti ), al fine di attenuare la portata dei benefici previdenziali in precedenza previsti.

 

Le novità introdotte rispetto alla normativa previgente sono:



Armonizzazione dei requisiti pensionistici

Il comma 18 ha previsto l’adozione di un regolamento, da emanare entro il 30 giugno 2012, per l’armonizzazione dei requisiti di accesso ai regimi pensionistici e alle gestioni pensionistiche per cui siano previsti requisiti diversi da quelli vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria, compresi quelli relativi ai:

Il Governo su questa materia ha predisposto uno schema di regolamento che è stato presentato alle Camere successivamente al loro scioglimento (atto n. 541). Le Competenti commissioni parlamentari non si sono convocate per l’esame dell’atto che non è stato successivamente adottato in via definitiva dal Governo.



Totalizzazione dei periodi assicurativi

Il comma 19 ha modificato l’articolo 1 del D.Lgs. 42/2006, in materia di totalizzazione, prevedendo la facoltà, per i soggetti interessati, di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di qualsiasi durata (a fronte del limite minimo di 3 anni attualmente previsto) ai fini del conseguimento di un'unica pensione.



Casse previdenziali privatizzate

Il comma 24 interviene in tema di enti previdenziali di diritto privato dei professionisti, prevedendo che  ai fini dell’equilibrio finanziario delle rispettive gestioni, in conformità alle disposizioni di cui al D.Lgs. 509/1994 e al D.Lgs. 103/1996, adottino, nell’esercizio della loro autonomia gestionale, misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di 50 anni.

 

 

 

Per quanto concerne il termine per l’adozione delle misure, nel corso dell’esame in sede referente il termine inizialmente previsto (31 marzo 2012) è  stato differito al 30 giugno 2012.

 

Le relative delibere sono sottoposte all’approvazione dei Ministeri vigilanti, secondo le disposizioni contenute nei predetti decreti n. 509/1994 e 103/1996, che si esprimono in via definitiva entro trenta giorni dalla loro ricezione.

Decorso il termine senza l’adozione dei previsti provvedimenti, ovvero nel caso di parere negativo dei Ministeri vigilanti, si applicano, con decorrenza 1° gennaio 2012:



Perequazione automatica dei trattamenti pensionistici e contributo di solidarietà

Il comma 21 ha disposto l’istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e fino al 31 dicembre 2017, di un contributo di solidarieta' (la cui misura è definita nella tabella A dello stesso provvedimento) a carico degli iscritti e dei pensionati delle gestioni previdenziali confluite nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti e del Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, allo scopo di determinare in modo equo il concorso dei medesimi al riequilibrio dei predetti Fondi.

Nella Tabella A sopra citata, che fa riferimento ai pensionati e ai lavoratori dell’ex Fondo trasporti, ex Fondo elettrici, ex Fondo telefonici, ex INPDAI e del Fondo volo, si fissa il contributo di solidarietà per i vari fondi, in ragione del periodo di iscrizione al 31 dicembre 1995, nei seguenti termini:

Sono escluse dal contributo di solidarietà le pensioni di importo pari o inferiore a 5 volte il trattamento minimo INPS, le pensioni e gli assegni di invalidità e le pensioni di inabilità.

 

Il comma 25 ha previsto  che  la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, attuata secondo il meccanismo stabilito dall'articolo 34, comma 1, della L. 448/1998, per il biennio 2012 e 2013 viene riconosciuta, nella misura del 100%, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. 

 

Per le pensioni di importo superiore a 3 volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite, incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante ai sensi del presente comma, l’aumento di rivalutazione era comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.

La disposizione in commento dispone, poi, l’abrogazione dell'articolo 18, comma 3, del D.L. 98/2011.

 Infine, il comma 31-bis ha incrementato il contributo di perequazione sui trattamenti pensionistici più elevati, previsto dall’articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011, fissandolo al 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il contributo di solidarietà è pertanto rideterminato nel modo seguente: 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro; 10% per gli importi da 150.000 a 200.000 euro; 15% per gli importi oltre i 200.000 euro.



Commissione di esperti per nuove modalità di accesso graduale al pensionamento e decontribuzione parziale per i giovani

Il comma 28 ha disposto la costituzione, da parte del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, di una Commissione composta da esperti e da rappresentanti di enti gestori di previdenza obbligatoria nonché di Autorità di vigilanza operanti nel settore previdenziale, incaricata di svolgere entro il 31 dicembre 2012 un’analisi su:



Iniziative di promozione della cultura del risparmio previdenziale

Il comma 29 ha previsto l’elaborazione, a cadenza annuale, da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, assieme agli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, di un programma coordinato di iniziative di informazione e di educazione previdenziale.

A tal fine, gli enti gestori di previdenza obbligatoria comunicano la posizione previdenziale di ciascun iscritto e le attività di comunicazione e promozione istruite da altre Autorità operanti nel settore della previdenza.

La finalità del programma è quello di diffondere la consapevolezza, in particolare tra le giovani generazioni, della necessità dell'accantonamento di risorse a fini previdenziali, in funzione dell'assolvimento del disposto dell'articolo 38 della Costituzione.

La disposizione precisa che per le iniziative esaminate si provvede attraverso le risorse umane e strumentali previste a legislazione vigente



Riordino degli strumenti di sostegno al reddito

Il comma 30 ha previsto la promozione da parte del Governo, entro il 31 dicembre 2011, di un tavolo di confronto con le parti sociali al fine di riordinare il sistema degli ammortizzatori sociali e degli istituti di sostegno al reddito e della formazione continua.



TFR di importo elevato

Il comma 31 dell’articolo 24 sottrae allo speciale regime di tassazione separata del TUIR parte  dell’indennità  di fine rapporto (TFR) e delle indennità percepite per la cessazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per l’importo eccedente 1.000.000 di euro.

 

In sostanza, è sottratta alla tassazione separata una quota delle seguenti voci, erogate in denaro e in natura, di importo che complessivamente eccede euro 1.000.000:

 

L’importo eccedente tale soglia concorre alla formazione del reddito complessivo imponibile secondo le regole ordinarie (applicando dunque a tali somme l’aliquota relativa all’anno di percezione dell’indennità).

Inoltre, tali disposizioni del presente comma si applicano in ogni caso a tutti i compensi e indennità a qualsiasi titolo erogati agli amministratori delle società di capitali.

In deroga al principio di irretroattività delle norme che impongono un prelievo fiscale (articolo 3 della L. 212/2000 - statuto del contribuente), tali disposizioni si applicano con riferimento alle indennità ed ai compensi il cui diritto alla percezione è sorto a decorrere dal 1° gennaio

Approfondimento: Nuovi limiti alle pensioni di reversibilità

Nel corso della XVI Legislatura la XI Commissione Lavoro della Camera dei deputati è stata impegnata nell’esame di una serie di proposte si legge (C. 945, C. 1158, C. 1847, C. 2140, C. 2767, C. 2782, C. 2837, C. 2988, C. 3166, C. 4010, C. 4011, C. 4016, C. 4150) aventi come denominatore comune alcune modifiche alla disciplina sulla pensione di reversibilità (o indiretta) (istituita dal R.D.L. 636/1939) volte soprattutto a contrastare i cd. matrimoni di comodo.

 

L’esame ha condotto all’adozione, il 6 aprile 2012 di un testo unificato che, in sintesi, prevedeva la sospensione dell’erogazione della pensione di reversibilità, nel caso di morte del pensionato o dell'assicurato con un'età anagrafica superiore a 55 anni, in mancanza di figli, con il coniuge superstite di età anagrafica inferiore a 35 anni e abile al lavoro, fino al compimento da parte del medesimo coniuge superstite di un'età anagrafica pari a quella che aveva il coniuge defunto al momento del decesso (e comunque fino al compimento dei 60 anni). Al coniuge superstite, se disoccupato o inoccupato, veniva comunque riconosciuto il diritto ad una indennità di reinserimento lavorativo, di importo equivalente alla pensione di reversibilità spettante per il medesimo periodo, fino alla cessazione dello stato di disoccupazione e, comunque, non oltre il primo anno decorrente dalla morte del pensionato o dell’assicurato.

 

L’iter normativo del provvedimento non si è tuttavia concluso, anche in considerazione del fatto che sulla materia è nel frattempo intervenuto l’articolo 18, comma 5, del D.L. 98/2011, che ha ridotto, con effetto sulle pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2012, la quota percentuale della pensione spettante ai superstiti dell’assicurato o pensionato deceduto.

La riduzione opera, nei casi in cui il matrimonio con il dante causa sia stato contratto ad età del medesimo superiore a 70 anni e la differenza di età tra i coniugi sia superiore a 20 anni, in misura pari al 10% per ogni anno di matrimonio mancante rispetto al numero di 10.

In caso di frazione di anno la riduzione percentuale è proporzionalmente rideterminata. Le disposizioni richiamate non si applicano nei casi di presenza di figli di minore età, studenti, ovvero inabili. Resta fermo il regime di cumulabilità della pensione di reversibilità con i redditi del beneficiario (ma l’importo della pensione viene progressivamente ridotto al crescere del reddito).

 

Si fa presente, infine, che il dibattito parlamentare su questo tema ha dovuto muoversi nel solco dell’ampia giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha in varie occasioni dichiarato illegittime norme volte a limitare i benefici previdenziali del coniuge superstite.

In particolare si ricordano:

Approfondimento: Perequazione dei trattamenti pensionistici

L’articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011 ha introdotto, per il periodo 1° agosto 2011-31 dicembre 2014, in ragione dalla eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, un contributo di perequazione sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie.

Il contributo veniva originariamente prelevato,per gli importi che superavano i 90.000 euro lordi annui e fino a 150.000 euro lordi, nella misura del 5% della parte eccedente i 90.000 euro (la norma comunque disponeva che, in ogni caso, a seguito della predetta riduzione il trattamento pensionistico complessivo non potesse comunque essere inferiore a 90.000 euro lordi annui) e nella misura del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro.

Successivamente, l’articolo 24, comma 31-bis, del D.L. 201/2011, ha modificato l’entità dell’incremento del contributo fissandolo al 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il contributo di solidarietà è quindi pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro; al 10% per gli importi da 150.000 a 200.000 euro e al 15% per gli importi oltre i 200.000 euro.

E’ utile ricordare che ai richiamati importi concorrono anche i trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, comprese, in sostanza, quelle riferibili al personale della Banca d’Italia, degli enti pubblici creditizi, delle regioni, del c.d. parastato, del personale addetto alle imposte di consumo, delle aziende del gas, delle esattorie e delle ricevitorie.

L’articolo 2, comma 2, del D.L. 138/2011 ha istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 (con possibilità di prorogare l’efficacia dell’intervento anche successivamente al 2013, fino al raggiungimento del pareggio di bilancio) un contributo di solidarietà sul reddito complessivo determinato a fini IRPEF ai sensi dell’articolo 8 del T.U. (cioè sommando i redditi di ogni categoria che concorrono a formarlo e sottraendo le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali e quelle derivanti dall’esercizio di arti e professioni) delle imposte sui redditi di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, di ammontare pari al 3% della parteeccedente il predetto importo.

La norma, in sostanza, ha disposto che il contributo di solidarietà operi anche nei confronti dei dipendenti pubblici e dei pensionati, ove il reddito complessivo superi i 300.000 euro. Ai fini del superamento della predetta soglia, i redditi dei dipendenti pubblici e i trattamenti pensionistici, già assoggettati a riduzione ai sensi del D.L. 78/2010 e del D.L. 98/2011, saranno valutati nel computo al lordo delle riduzioni.

Tuttavia, le norme in esame precisano che il contributo di solidarietà in commento non colpirà la parte dei redditi da lavoro dipendente di natura pubblica o da pensione già soggetta alle precedenti riduzioni, ma solo la parte dei redditi avente natura diversa. L’introduzione del contributo, che è deducibile dal reddito complessivo, rientra nella già rilevata considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale, tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea.

Con il D.M. 21 novembre 2011 sono state definite le modalità di attuazione delle richiamate disposizioni, garantendo l’assenza di oneri per il bilancio dello Stato e assicurando il coordinamento tra le disposizioni contenute nel presente articolo e quelle in materia di riduzione degli emolumenti dei dipendenti pubblici e dei trattamenti pensionistici (contenute nei già citati articoli 9, comma 2, del D.L. 78/2010 e 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011).

Infine, è stata prevista o affidata ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri la possibilità di prorogare l’efficacia delle disposizioni di cui al comma 1-bis in esame anche per gli anni successivi al 2013, fino al raggiungimento del pareggio di bilancio.

Da ultimo, l'articolo 24, comma 25, del D.L. 201/2011 ha previstochela rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, attuata secondo il meccanismo stabilito dall'articolo 34, comma 1, della L. 448/1998, per il biennio 2012-2013, venga riconosciuta, nella misura del 100%, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a 3 volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite, incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione era comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.

Allo stesso tempo, è stato abrogato dell'articolo 18, comma 3, del D.L. 98/2011, che per il biennio 2012-2013, aveva disposto la limitazione alla rivalutazione automatica sui trattamenti pensionistici di importo superiore a 5 volte il trattamento minimo INPS. Per tali trattamenti pensionistici la rivalutazione non era concessa, con esclusione della fascia di importo inferiore a 3 volte il trattamento minimo, con riferimento alla quale la rivalutazione era comunque applicata nella misura del 70% (per le pensioni di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base della normativa vigente, l’aumento di rivalutazione era comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato).

L'articolo 24, comma 21, del D.L. 201/2011, inoltre, ha istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e fino al 31 dicembre 2017, un contributo di solidarieta' a carico degli iscritti e dei pensionati delle gestioni previdenziali confluite nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti e del Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, allo scopo di determinare in modo equo il concorso dei medesimi al riequilibrio dei predetti Fondi.

Si ricorda che in generale la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici viene attribuita sulla base della variazione del costo della vita, con cadenza annuale e con effetto dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello di riferimento. Più in particolare, la rivalutazione si commisura al rapporto percentuale tra il valore medio dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati relativo all'anno di riferimento e il valore medio del medesimo indice relativo all'anno precedente. Tale percentuale è applicata:

-       nella misura del 100% per la fascia di importo dei trattamenti pensionistici fino a 3 volte il trattamento minimo INPS;

-       nella misura del 90% per la fascia di importo dei trattamenti pensionistici compresa tra 3 e 5 volte il predetto trattamento;

-       nella misura del 75% per la fascia di importo dei trattamenti superiore a 5 volte il medesimo trattamento minimo.

Il meccanismo di rivalutazione si applica, ai sensi dell’articolo 34, comma 1, della L. 448/1998, tenendo conto dell'importo complessivo dei diversi trattamenti pensionistici eventualmente percepiti dal medesimo soggetto. L'aumento derivante dalla rivalutazione viene attribuito, per ciascun trattamento, in misura proporzionale all'importo del medesimo trattamento rispetto all'ammontare complessivo.

 

Si ricorda, infine, che analoghi interventi in tema di contributi di solidarietà erano stati previsti anche negli anni passati, dalle seguenti disposizioni:

-       articolo 3, commi 102-103, della L. 350/2003, che aveva previsto un contributo di solidarietà del 3% sui trattamenti pensionistici corrisposti dagli enti gestori della previdenza obbligatoria con importi complessivamente superiori a 25 volte (170.914,25 euro) il trattamento minimo delle pensioni nel regime generale INPS (6.836,57 euro) stabilito secondo l’articolo 38, comma 1 della legge L 448/2001;

-       articolo 1, comma 2, lettera u) primo e secondo periodo, della L. 243/2004, che aveva disposto un contributo di solidarietà del 4% per le pensioni elevate su importi maggiori di 25 volte il trattamento minimo, rivalutabile per gli anni successivi al 2007, in base alle variazioni integrali del costo della vita (cd. pensioni d’oro); secondo i successivi periodi concorrono ai fini del contributo di solidarietà i trattamenti integrativi per i soggetti con prestazioni aggiuntive o integrative (Banca d’Italia, enti pubblici creditizi, dipendenti pubblici, personale imposte consumo aziende gas esattorie e ricevitorie imposte dirette);

-       articolo 1, commi 222-223 della L. 296/2006, che ha previsto un contributo di solidarietà a partire dal 1° gennaio 2007 del 15% sul TFR o il TFS e i trattamenti integrativi di importo complessivo superiore a 1,5 milioni di euro (si ricorda che tali contributi confluivano al Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità con destinazione al 90% ad iniziative volte a favorire l'istruzione e la tutela delle donne immigrate).

Approfondimento: Totalizzazione, ricongiunzione e cumulo di periodi assicurativi



La totalizzazione

La totalizzazione è l’istituto in base al quale il soggetto iscritto a due o più forme di assicurazione obbligatoria IVS, ha la facoltà di utilizzare, sommandoli, i periodi assicurativi maturati, al fine di perfezionare i requisiti richiesti per il conseguimento della pensione di vecchiaia, di anzianità, di inabilità ed indiretta.
In seguito alla nuova disciplina della totalizzazione, introdotta dal D.Lgs. 42/2006, emanato in attuazione della delega contenuta nell'articolo 1, commi 1, lettera d), 2, lettera o), e 46, della L. 23 agosto 2004, n. 243, dal 1° gennaio 2006 è stata estesa a tutti i lavoratori la totalizzazione gratuita dei periodi assicurativi, cioè la possibilità di cumulare tutta la contribuzione versata in diverse gestioni pensionistiche (precedentemente riservata ai soli soggetti con pensione liquidata esclusivamente con il sistema contributivo).
Tale riforma è volta ad estendere, per gli assicurati ai quali si applichi, almeno pro-quota, il sistema di calcolo retributivo della pensione, la possibilità di cumulare gratuitamente le varie quote di pensione maturate presso differenti gestioni pensionistiche, senza doversi avvalere dell’istituto oneroso della ricongiunzione (consistente nell’unificazione delle posizioni assicurative e nel conseguente trasferimento di contributi da una forma all’altra).
Destinatari della richiamata normativa sono i soggetti, che non siano già titolari di trattamento pensionistico autonomo, iscritti a due o più forme di assicurazione presso le seguenti gestioni previdenziali:

o    assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti (A.G.O.) presso l’INPS, nonché alle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima;

o    enti previdenziali privati, disciplinati dal D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e dal D.Lgs. 10 febbraio 1996, n. 103. Si ricorda che il D.Lgs. 509/94 ha previsto la privatizzazione degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza per i liberi professionisti;

o    gestione separata, istituita presso l’INPS ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della L. 335/1995;

o    fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto delle confessioni diverse da quella cattolica.

Le gestioni interessate, ciascuna per la parte di propria competenza, determinano la misura del trattamento pro quota in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione maturati anche se coincidenti. Ai fini del trattamento pensionistico, quindi, ciascuna gestione interessata conteggerà interamente tutti i periodi contributivi ad essa relativi.
L’esercizio del diritto alla totalizzazione è subordinato alle seguenti condizioni:

o    20 anni di anzianità contributiva e 65 anni anagrafici (per uomini e donne), ovvero 40 anni di anzianità contributiva, indipendentemente dall’età anagrafica;

o    possesso degli altri requisiti richiesti dagli enti previdenziali di appartenenza per l’accesso alla pensione di vecchiaia;

o    richiesta di totalizzare tutti i periodi assicurativi per intero.

Per gli enti previdenziali privatizzati ai sensi del D.Lgs. 509/1994, la nuova disciplina prevede l’applicazione del sistema di calcolo contributivo.

Nel corso della XVI legislatura l'accesso alla totalizzazione è stato favorito attraverso l'eliminazione delle norme che imponevano una durata minima dei periodi da totalizzare (dapprima 6 anni, successivamente ridotti a 3, ferma restando cumnque la possibilità di ricorrere all'istituto della ricongiunzione): con l'articolo 24, comma 19, del D.L. 201/2011, è stata infatti disposta la facolta' , per i soggetti interessati, di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di qualsiasi durata, ai fini del conseguimento di un'unica pensione.



La ricongiunzione

La ricongiunzione è l'unificazione dei periodi di assicurazione maturati dal lavoratore in diversi settori di attività. Lo scopo è quello di ottenere un'unica pensione (generalmente di importo più elevato di quella che risulterebbe dalla somma delle pensioni nelle singole gestioni) calcolata su tutti i contributi versati. La ricongiunzione può essere chiesta dai lavoratori dipendenti pubblici e privati e dai lavoratori autonomi, che hanno contributi in diversi settori di attività, o dai loro superstiti.

L’articolo 12, commi da 12-septies a 12-undecies, del D.L. 78/2010, ha modificato sostanzialmente la disciplina della ricongiunzione dei contributi pensionistici (di cui alla L. 7 febbraio 1979, n. 29) al fine di armonizzare le norme previste nei diversi regimi pensionistici.

In particolare, il comma 12-septies ha disposto, a decorrere dal 1° luglio 2010, l’applicazione alle ricongiunzioni effettuate da lavoratori dipendenti, pubblici o privati, che siano o siano stati iscritti a forme obbligatorie di previdenza sostitutive, esclusive od esonerative dell'A.G.O., delle disposizioni di cui all'articolo 2, commi 3, 4 e 5, della stessa L. 29/1979. In base a tale disposizioni è stato quindi posto a carico del richiedente la ricongiunzione il 50% della somma risultante dalla differenza tra la riserva matematica, determinata in base a specifici criteri e tabelle, necessaria per la copertura assicurativa relativa al periodo utile considerato, e le somme versate dalla gestione o dalle gestioni assicurative a norma del comma precedente. Il pagamento della richiamata somma può essere effettuato, su domanda, in un numero di rate mensili non superiore alla metà delle mensilità corrispondenti ai periodi ricongiunti, con la maggiorazione di interesse annuo composto pari al 4,50%. Infine, il debito residuo al momento della decorrenza della pensione può essere recuperato ratealmente sulla pensione stessa, fino al raggiungimento del numero di rate indicato in precedenza. È comunque fatto salvo il trattamento previsto per la pensione minima erogata dall'INPS. Le disposizioni di cui al comma 12-septies trovano applicazione, a decorrere dal 1° luglio 2010, anche nei casi di trasferimento della posizione assicurativa dal Fondo di previdenza per il personale addetto ai pubblici servizi di telefonia al Fondo pensioni lavoratori dipendenti (comma 12-nonies).

L'onere da porre a carico dei richiedenti è determinato in base ai criteri fissati dall'articolo 2, commi da 3 a 5, del D.Lgs. 30 aprile 1997, n. 184. Tali norme disciplinano il riscatto dei corsi universitari di studi, disponendo che il relativo onere sia determinato con le norme che disciplinano la liquidazione della pensione con il sistema retributivo o con quello contributivo, tenuto conto della collocazione temporale dei periodi oggetto di riscatto. Inoltre, si prevede l’applicazione di specifici coefficienti ai fini del calcolo dell'onere per i periodi oggetto di riscatto, in relazione ai quali trova applicazione il sistema retributivo, nonché particolari modalità di versamento per gli oneri per periodi in relazione ai quali trova applicazione il sistema retributivo ovvero contributivo. Per il calcolo dell’onere da valutare con il sistema contributivo, infine, si applicano le aliquote contributive di finanziamento vigenti nel regime ove il riscatto opera alla data di presentazione della domanda.

Infine, il successivo comma 12-octies ha previsto l’applicazione delle stesse modalità di cui al comma 12-septies, dalla medesima decorrenza, nei casi di trasferimento della posizione assicurativa dal Fondo di previdenza per i dipendenti dell'E.N.E.L. e delle aziende elettriche private al Fondo pensioni lavoratori dipendenti.



La nuova disciplina del cumulo

I problemi emersi a seguito dell'adozione delle nuove norme in materia di ricongiunzione onerosa (che vedevano numerosi lavoratori chiamatial versamento di somme ingenti), hanno costretto il legislatore a intervenire nuovamente sulla materia attraverso l'articolo 1, commi da 238 a 249, della L. 228/2012 (Legge di stabilità per il 2013). Tali norme intervengono in materia di totalizzazione e ricongiunzione di contributi previdenziali, introducendo, in particolare, una nuova modalità (gratuita) di cumulo (alternativa alle discipline esistenti) volta a conseguire un’unica pensione sulla base dei periodi assicurativi non coincidenti posseduti presso più forme di assicurazione obbligatorie, esclusivamente per la liquidazione del trattamento pensionistico di vecchiaia, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento.
In primo luogo si prevede che per gli iscritti alla cassa pensione per i dipendenti degli enti locali (CPDEL), alla cassa per le pensioni ai sanitari (COPS), alla Cassa per le pensioni agli insegnanti d’asilo e di scuole elementari parificate (CPI) e alla cassa per le pensioni agli ufficiali giudiziari e agli aiutanti ufficiali giudiziari (CPUG), cessati dall’iscrizione senza il diritto a pensione entro il 30 luglio 2010, la domanda finalizzata all’iscrizione all’assicurazione generale obbligatoria (AGO) è ammessa anche successivamente a tale data. L’importo dei contributi versati è portato in detrazione, fino a concorrenza del suo ammontare, dell’eventuale trattamento in luogo di pensione spettante all’avente diritto. L’esercizio di tale facoltà non dà comunque diritto alla corresponsione di ratei arretrati di pensione.
In secondo luogo si introduce (ferme restando la disciplina vigente in materia di ricongiunzione e totalizzazione dei periodi assicurativi) la facoltà di conseguire un’unica pensione cumulando i periodi assicurativi non coincidenti posseduti presso due (o più) forme di assicurazione obbligatorie (compresa le Gestione separata INPS) che non siano già titolari di trattamento pensionistico autonomo presso una delle suddette gestioni, qualora non siano in possesso dei requisiti per il trattamento pensionistico. Tale facoltà può essere esercitata esclusivamente per la liquidazione del trattamento pensionistico di vecchiaia con i requisiti anagrafici previsti dall’articolo 24, comma 6 e il requisito contributivo di cui al comma 7 del medesimo articolo 24 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, nonché dei trattamenti per inabilità e ai superstiti di assicurato deceduto prima di aver acquisito il diritto a pensione.
Il pagamento dei trattamenti liquidati avviene secondo le norme sulla totalizzazione. Le gestioni interessate, ciascuna per la parte di propria competenza, determinano il trattamento pro quota in rapporto i rispettivi periodi di iscrizione maturati, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento (il che implica un trattamento previdenziale inferiore a quello che sarebbe risultato dalla ricongiunzione).
Al fine di tutelare i soggetti che hanno presentato domanda di ricongiunzione (onerosa) a decorrere dal 1° luglio 2010, garantendogli la possibilità di accedere al nuovo regime di cumulo, si prevede che essi  (sempre che la domanda non abbia già dato titolo alla liquidazione del trattamento pensionistico) possono recedere entro un anno e chiedere la restituzione di quanto già versato. Analoga possibilità è riconosciuta ai soggetti che abbiano presentato domanda di totalizzazione anteriormente alla data di entrata in vigore della legge, previa rinuncia alla domanda e a condizione che il procedimento amministrativo non si sia già concluso.

I fondi per le politiche sociali

I fondi destinati a finalità di carattere sociale rappresentano uno strumento indispensabile della politica socio-assistenziale del nostro Paese. Nel corso della XVI Legislatura si è registrata una diminuzione delle risorse stanziate dalle manovre finanziarie annuali per i fondi dedicati al welfare, con conseguente riduzione della spesa sociale dei livelli decentrati di governo

Fondo nazionale per le politiche sociali

Nei Fondi nazionali dedicati all'assistenza socialedevono essere ricompresi anche il Fondo nazionale per le politiche per la famiglia, il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza e il Fondo nazionale per le politiche giovanili, dei quali si dà conto nelle sezioni dedicate a Misure a sostegno della famiglia e Politiche giovanili. Per una trattazione unitaria si rinvia alla Scheda di approfondimento sui Fondi per le politiche sociali.

Nel Fondo nazionale per le politiche sociali (FNPS), istituito dalla legge 449/1997 (legge finanziaria per il 1998), sono contenute le risorse che lo Stato stanzia annualmente con la legge finanziaria per la promozione e il raggiungimento degli obiettivi di politica sociale. La legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (legge 328/2000) ha delineato un sistema articolato di Piani Sociali Regionali e Piani Sociali di Zona che descrivono, per ciascun territorio, una rete integrata di servizi sociali e socio-sanitari finanziati attraverso il FNPS. Alcuni recenti provvedimenti normativi hanno ridotto gli interventi finanziati a valere sul Fondo. In particolare, le risorse del Fondo per l’infanzia e l’adolescenza – istituito dalla legge 285/1997 – inizialmente allocate nel FNPS, a decorrere dall’anno 2008 sono determinate dalla legge finanziaria, limitatamente alle risorse destinate al finanziamento degli interventi nei 15 Comuni riservatari indicati dalla legge istitutiva. Le rimanenti risorse del Fondo nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza confluiscono indistintamente nel FNPS. Per quanto riguarda le somme destinate al finanziamento degli interventi costituenti i diritti soggettivi (assegno al nucleo familiare con tre figli minori, per la maternità, agevolazioni disabili e lavoratori talassemici), la legge finanziaria per il 2010 ha disposto che siano finanziati attraverso appositi capitoli iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 

Le risorse del FNPS, ripartite annualmente fra le regioni, le province autonome, i comuni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali d’intesa con la Conferenza Stato-regioni, sono assegnate con decreto interministeriale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del MEF.

La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Con Decreto Interministeriale del 17 giugno 2011, sono stati ripartiti 218 milioni di euro, di cui 39,5 milioni di euro al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) ha destinato al FNPS 69,954 milioni di euro. Il decreto 16 novembre 2012 ha ripartito le risorse finanziarie realmente afferenti al Fondo, ammontanti ad euro 42.908.611, destinando euro 32.033.310 al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Infine la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), all'articolo 1, comma 271, incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del FNPS. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.

 

Fondo nazionale per le non autosufficienze

Il Fondo per le non autosufficienze è stato istituito dall'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006 (legge finanziaria 2007) presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Le risorse sono finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell'assistenza socio-sanitaria e sono aggiuntive rispetto alle risorse già destinate alle prestazioni e ai servizi a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni, nonché da parte delle autonomie locali. Nel 2010, le risorse assegnate al Fondo, ripartite con decreto, erano pari a 400 milioni di euro. Per il 2011, il Decreto interministeriale 11 novembre 2011 ha assegnato al Fondo risorse per 100 milioni di euro, stanziate dall'art. 1, comma 40, della legge 220/2010 (legge di stabilità 2011), finalizzate fra l'altro ad interventi integrati socio-sanitari per i malati di sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Successivamente, il decreto legge 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che una quota del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, da definire con D.P.C.M., fosse destinata al finanziamento del Fondo per le non autosufficienze, in particolare per il sostegno dell'assistenza domiciliare di persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di SLA. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo di interventi urgenti e indifferibili, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), è stato interamente definanziato. In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da SLA. Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.

Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti - Carta acquisti

La carta acquisti, o social card, è stata istituita dall’articolo 81, comma 29,  del decreto legge 112/2008 che ha disposto la creazione di un Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti. Il Decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 ha individuato i titolari e l'ammontare del beneficio unitario nonché le modalità di fruizione dello stesso, prevedendo la stipula di convenzioni tra i ministeri interessati ed il settore privato. In base a tali criteri, la Carta acquisti viene concessa, con onere a carico dello Stato, ai richiedenti residenti con cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, ovvero ai cittadini nella fascia di bisogno assoluto, di età uguale o superiore ai 65 anni o con bambini di età inferiore ai tre anni. La Carta, utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche, vale 40 euro al mese e viene caricata ogni due mesi con 80 euro, sulla base degli stanziamenti disponibili. In ultimo, l’articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha dato avvio a una fase di sperimentazione della Carta, della durata non superiore ai dodici mesi nei comuni con più di 250.000 abitanti, sottolineando l’obiettivo di utilizzare la carta acquisti come strumento di contrasto alla povertà assoluta tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno. Per le risorse necessarie alla sperimentazione si è provveduto, nel limite massimo di 50 milioni di euro. Le modalità attuative, sono determinate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il MEF. Il decreto, varato l'11 gennaio 2013 e in attesa di pubblicazione sulla G.U., identifica fra l'altro i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari, per il tramite dei Comuni, con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell'Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e l'ammontare della disponibilità sulle singole carte acquisto, in funzione del nucleo familiare.

 

Approfondimenti

Documenti e risorse web

Approfondimento: L'assistenza sociale



Premessa

Il sistema di protezione sociale italiano, articolato nei settori della previdenza, dell'assistenza e della sanità, è governato dall’azione di diversi livelli di governo secondo le competenze che la legge assegna a ciascuno.

La presente analisi si concentra sugli aspetti di natura legislativa, economica e sociale del solo settore assistenziale, inteso come complesso degli interventi previsti, per gli anziani, i disabili, i minori, le famiglie, gli emarginati, le persone dipendenti da alcol o sostanze stupefacenti, gli immigrati e la riabilitazione.

Per servizi sociali, generalmente, s’identificano le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, con esclusione di quanto assicurato dal sistema previdenziale statale (INPS), per le varie indennità di invalidità civile, per i non vedenti e i non udenti, e dal sistema sanitario.

All'indomani dell'intervento costituzionale del 2001 (L.3/2001), con cui è stato modificato il Titolo V, parte II, della Costituzione (nello specifico, l'articolo 117 della Costituzione), alle Regioni sono assegnate le competenze residuali e concorrenti, rispettivamente, per le materie dei servizi sociali e della sanità, nel rispetto della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), quale competenza esclusiva e trasversale assegnata allo Stato (articolo 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione), idonea ad investire una pluralità di materie, ed intesa a determinare gli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto (sentenza Cost. 50/2008).

Da ciò consegue che lo Stato, quando alla Regione spetta la competenza legislativa residuale, come avviene per i servizi sociali, non ha alcuna competenza legislativa, ad esclusione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che tuttavia devono essere stabiliti in accordo con le autonomia territoriali. Infatti, detta peculiare competenza comporta "una forte incidenza sull'esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni" (sentenza Cost. 8/2011 e sentenza 88/2003), tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione, salvo che ricorrano ipotesi eccezionali, in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) "non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità [...] di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana", tanto da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali, senza adottare forme di leale collaborazione con le Regioni (sentenza Cost.10/2010, a proposito dell’istituzione della social card). Proprio in ragione di tale impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore statale, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di assistenza sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle Regioni (nella forma dell'intesa) a salvaguardia delle competenze di queste (sentenza Cost. 297/2012).

Come per altri settori di intervento delle politiche legislative di natura concorrente e residuale, anche per i servizi sociali, il finanziamento previsto dalla legge incontra un preciso limite che il legislatore statale deve rispettare sulla modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie territoriali. Non sono, infatti, consentiti finanziamenti a destinazione vincolata in materie di competenza regionale concorrente ovvero residuale, in quanto ciò si risolverebbe in uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza Cost. 423/2004).

Quelle citate sono solo alcune delle sentenze che nel tempo la Corte Costituzionale ha pronunciato, al fine di ristabilire gli equilibri tra i diversi poteri dello Stato in materia assistenziale; a sottolineare, con troppa evidenza, proprio all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, una perdurante "difficoltà" dello Stato e della Regione a legiferare sulla materia rimanendo nei propri ambiti, senza travalicare le altrui competenze, che tuttavia risultano ancora troppo poco definite, soprattutto, per la perdurante assenza della previsione dei livelli essenziali a livello statale.



I servizi sociali

In Italia, i servizi sociali per il sostegno delle persone bisognose sono realizzati attraverso un complesso di normative nazionali, regionali e comunali, e rivestono le forme della prestazione economica e/o del servizio alla persona, finanziati, principalmente, dalla fiscalità generale (Ferrera M., Le politiche sociali, il Mulino, 2006, Bologna). 

Per servizi sociali, si intendono, ai sensi dell’art. 128 del D.Lgs. 112/1998, tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.

L’accesso agli interventi assistenziali, pur avendo, come per le prestazioni sanitarie, un carattere di universalità (art. 2 L. 328/2000), appaiono, generalmente, condizionati da una scala di accesso che presenta due elementi necessari: il bisogno fisico e la scarsità economica per provvedervi.

Il diritto alle prestazioni sociali, in particolare nella forma agevolata, e/o ai servizi di pubblica utilità, è subordinato alla verifica degli enti erogatori (Stato, Regioni e Comuni), secondo parametri anagrafici ed economici (reddito della singola persona, indicatore della situazione economica (ISE) e indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) – che permettono di valutare in maniera sintetica le condizioni economiche del nucleo familiare).

L’ISEE è lo strumento introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 109/98 per l’accesso alle seguenti prestazioni socio-assistenziali:

nazionali

    locali

    I beneficiari ISEE non vanno comunque identificati con le famiglie in condizione di bisogno economico, essendo l’ISEE usato anche per stabilire la compartecipazione al costo di servizi destinati non solo ai più poveri (si pensi alle prestazioni per il diritto allo studio universitario o agli asili nido) ed escluso invece per il diritto agli assegni sociali, destinati alle persone in povertà, o per altre prestazioni economiche fornite dallo Stato: integrazione al minimo, maggiorazione sociale delle pensioni, assegno e pensione sociale, altre prestazioni previdenziali, pensione e assegno di invalidità civile, indennità di accompagnamento e assimilate.

      Durante la XVI legislatura è stato esaminato e non concluso un disegno di legge (A.C. 4566) recante la delega legislativa al Governo per la riforma fiscale e assistenziale.

    La riforma della materia socio-assistenziale si poneva l’obiettivo di riqualificare e riordinare la relativa spesa, al fine di superare le sovrapposizioni e le duplicazioni di servizi e prestazioni, che rendono poco efficace e antieconomico il sistema, anche in conseguenza del fatto che la spesa per i servizi sociali è frammentata tra diversi soggetti concorrenti fra loro che gestiscono quote diverse di risorse suddivise tra il servizio sanitario nazionale, l'INPS e i comuni. In tale quadro, si prevedeva:

    I risparmi dall'attuazione della legge di delega sarebbero stati quantificati non inferiori a 4 miliardi per l'anno 2013 ed a 20 miliardi annui a decorrere dall'anno 2014.

    Non essendo stata approvata la legge delega, alcune misure sono state adottate con provvedimenti d’urgenza. L’art. 5 del D.L. 201/2011 ha stabilito l’introduzione dell’ISEE, per la concessione di agevolazioni fiscali e benefici assistenziali, e la modifica delle modalità di determinazione e dei campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), attraverso l’adozione di uno schema di regolamento del Governo, che non è stato emanato a causa del mancato raggiungimento dell’intesa in Conferenza Unificata, prevista successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale 297/2012.

    Il nuovo ISEE avrebbe incluso nel reddito somme fiscalmente esenti, valorizzato di più il valore del patrimonio, introdotto il concetto di carico familiare, articolato i benefici concessi e rafforzato il sistema dei controlli (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto ISEE, Quaderni della ricerca sociale n.20, 2012, Roma).



    I livelli di governo

    Il sistema istituzionale degli interventi assistenziali è articolato in più livelli di governo; affida l’erogazione delle prestazioni ad una molteplicità di soggetti pubblici e privati; prevede una pluralità di fonti di finanziamento; impone il coordinamento degli interventi assistenziali tra politiche sanitarie e politiche sociali.

    In particolare, i livelli di governo, come disegnati dalla legge quadro L. 328/2000 sul sistema integrato di interventi e servizi sociali, risultano essere tre: Stato, Regione e Comune.

    La legge 328/2000 è stata emanata con lo scopo di avviare una complessiva riorganizzazione del sistema dei servizi sociali e sanitari, orientandoli verso un processo di progressiva integrazione e partecipazione di tutti i soggetti presenti sul territorio. Il comune ha il compito istituzionale, attraverso la programmazione prevista dal Piano di Zona, di garantire la rete dell’offerta sociale e l’attuazione dell’integrazione tra la programmazione sociale e la programmazione sociosanitaria. In tale perimetro altri soggetti sono chiamati ad intervenire: le Regioni, che dettano gli indirizzi della programmazione ed erogano servizi sociosanitari attraverso le ASL; le Province, che possono partecipare al finanziamento dei Piani di Zona; lo Stato, che determina i fondi nazionali destinati alle politiche sociali di anno in anno. Dal punto di vista dell’offerta di servizi sociali e socio-sanitari, entrano in gioco anche i produttori privati profit e no profit, ai quali spesso Comuni e ASL esternalizzano tali servizi (La programmazione sociale e sociosanitaria nelle reti interistituzionali: il caso Regione Lombardia, Oasi 2012, Cergas-Bocconi, Milano).

    Dopo la riforma costituzionale del 2001 (L. 3/2001), l’assistenza sociale è diventata una competenza residuale disciplinata dalle Regioni e amministrata dal Comune. Allo Stato rimane la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), che devono essere emanati con modalità partecipative.

    L’esigenza di adeguare l’ordinamento al nuovo assetto costituzionale è stata evidentemente alla base dell’approvazione dell’art. 46, comma 3, della L. 289/2002, che, al fine di predisporre uno strumento per l’adozione dei livelli essenziali delle prestazioni nella materia dei servizi sociali, ha disciplinato ex novola procedura per la loro approvazione, indicando i vincoli posti dalla finanza pubblica, il potere di proposta rimesso al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, e l’intesa con la Conferenza unificata. E’ stata così riformata la precedente regolamentazione prevista dalla L. 328/2000, dal momento che la natura della nuova competenza regionale, di tipo residuale e non più concorrente, risultava incompatibile con la previsione di un piano statale nazionale e con l’indicazione da parte dello Stato di principi ed obiettivi di politica sociale, nonché delle caratteristiche e dei requisiti delle prestazioni sociali comprese nei livelli essenziali (sentenza Cost. 296/2012).

    Lo Stato svolge, attraverso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, una funzione informativa sulle politiche sociali e, con la collaborazione della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, presenta al Parlamento una Relazione sull'andamento del fenomeno dell'esclusione sociale, (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Commissione di indagine sull’esclusione sociale (CIES), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale - Anno 2011, Roma).

    Allo Stato spetta altresì la definizione e la ripartizione di diversi Fondi speciali, come il Fondo nazionale per le politiche sociali, il Fondo per le politiche della famiglia, il Fondo per le non autosufficienze, il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, il Fondo per le politiche giovanili, nonché l’erogazione di pensioni e  assegni sociali ed indennità assistenziali varie per gli invalidi civili, sordi e ciechi civili.

    Le Regioni disciplinano con proprie leggi, i principi, gli indirizzi, l’organizzazione e l’erogazione, tramite i comuni, dei seguenti beni e servizi sociali:

    1. servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari
    2. servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari
    3. assistenza domiciliare
    4. strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali
    5. centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario

    La Regione, oltre a ripartire i finanziamenti statali agli enti locali, programma nel Piano sociale gli obiettivi di settore. Alcune Regioni presentano un Piano di tipo socio-sanitario dove sono previsti programmi sanitari, sociali e socio-sanitari (ad es. Basilicata, Emilia Romagna, Toscana).

    Le prestazioni socio-sanitarie si distinguono, come indicato dal D.P.C.M. 14 febbraio 2001, in prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, erogate contestualmente ad interventi sociali, finalizzate al contenimento di esiti degenerativi, a carico dell’Azienda sanitaria locale; prestazioni sociali  a rilevanza sanitaria, finalizzate a sostenere la persona disabile o emarginata la cui condizione potrebbe avere esiti negativi sulla salute, a carico del Comune o del cittadino; prestazioni socio-sanitarie integrate per le aree materno infantile, disabili, anziani e non autosufficienti, dipendenze, patologie psichiatriche e da HIV, pazienti terminali, a carico delle ASL, garantite nell'allegato 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001 sui livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA).

    Ai Comuni, che sono titolari della gestione, esercitata singolarmente o in forma associata, degli interventi e dei servizi socio-assistenziali, spetta la definizione del piano di zona, a cui partecipano soggetti istituzionali, terzo settore e, per gli interventi socio-sanitari, ASL, per individuare:



    I livelli essenziali

    I Livelli essenziali dei diritti sociali, definiti in diversi modi, livelli essenziali delle prestazioni (LEP), livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) o livelli essenziali di assistenza sociale (LIVEAS), sono l’insieme degli interventi, dei servizi e delle risorse impegnate per la loro attuazione, inquadrati dall’art. 22, comma 2, della L. 328/2000, nel seguente modo:

    L’identificazione dei livelli essenziali tiene conto anche di quanto indicato nell’allegato 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001, che definisce i livelli essenziali sanitari (LEA), in cui sono elencate le prestazioni socio-sanitarie, ovvero otto specifiche prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo attribuibile al SSN e all’utente o al Comune

    Esse sono:

    1. assistenza programmata a domicilio (Adp) per le prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona e assistenza domiciliare integrata (Adi) per prestazioni sociosanitarie;
    2. attività sanitaria e sociosanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi a favore di disabili fisici, psichici e sensoriali, per le prestazioni diagnostiche, terapeutiche e socio-riabilitative in regime semiresidenziale per disabili gravi;
    3. attività sanitaria e sociosanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi a favore di anziani, per le prestazioni terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità per non autosufficienti in regime semiresidenziale, ivi compresi interventi di sollievo;
    4. attività sanitaria e sociosanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi a favore di persone con problemi psichiatrici e/o delle famiglie, per le prestazioni terapeutiche e socio-riabilitative in strutture a bassa intensità assistenziale;
    5. attività sanitaria e sociosanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi a favore di disabili fisici, psichici e sensoriali, per le prestazioni terapeutiche e socio-riabilitative in regime residenziale per disabili gravi;
    6. attività sanitaria e sociosanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi a favore di disabili fisici, psichici e sensoriali, per le prestazioni terapeutiche e socio-riabilitative in regime residenziale per disabili privi del sostegno familiare;
    7. attività sanitaria e sociosanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi a favore di anziani, per le prestazioni terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità per non autosufficienti in regime residenziale, ivi compresi interventi di sollievo;
    8. attività sanitaria e sociosanitaria nell’ambito di programmi riabilitativi a favore di persone affette da Aids, per le prestazioni di cura e riabilitazione e trattamenti farmacologici nella fase di lungoassistenza in regime residenziale.

     In definitiva, per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, lo Stato ha indicato i seguenti principi:

     

    Diverse Regioni hanno individuato i livelli essenziali delle prestazioni sociali, seguendo lo schema proposto nel comma 4 dell’art. 22 della L. 328/2000, all’interno delle seguenti aree:

    Nella definizione dei livelli essenziali pesa la mancata realizzazione del sistema informativo dei servizi sociali (SISS) previsto dalla L. 328/2000 (Pesaresi F., La normativa statale e regionale sui livelli essenziali, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni, a cura di E. Ranci Ortigliosa in Prospettive Sociali e Sanitarie, 2008); in particolare, i limiti dell’informazione disponibile sui servizi sociali sono rappresentati dalla scarsa quantità e qualità dei dati, che, tuttavia, quando esistono, sono difficilmente raccordabili gli uni con gli altri. Tale osservazione riguarda principalmente le informazioni disponibili a livello di comuni e regioni, raccolte molto spesso con definizioni e metodologie non comparabili. Un dato per tutti è l’assenza di una scheda di dimissioni dei ricoveri per le residenze sociali e sanitarie, come invece esiste per l’ospedalizzazione con la scheda di dimissione ospedaliera (SDO) (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per la garanzia dell’informazione statistica, L’informazione statistica sull’assistenza agli anziani in Italia, Rapporto di indagine 2005, Roma).

    Nella sanità, la corretta progettazione e sviluppo del NSIS, il nuovo sistema informativo sanitario, che fornisce un patrimonio informativo e strumenti di lettura integrata dei dati sanitari, ha richiesto la disponibilità di un linguaggio comune che consentisse l'interscambio tra il sistema informativo e i sistemi sanitari regionali. Il NSIS rappresenta la più importante banca dati a livello nazionale a supporto della programmazione sanitaria nazionale e regionale.

    Ulteriori fonti informative sono, ad esempio, la SDO, i modelli di rilevazione delle attività gestionali ed economiche di Asl e aziende ospedaliere, e il Programma nazionale esiti, che contiene la valutazione delle attività di assistenza di tutti gli ospedali italiani, pubblici e privati accreditati.

    Il controllo sull’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizioni di appropriatezza e di efficienza nell’utilizzo delle risorse nel Servizio Sanitario Nazionale è inoltre assicurato da tre organi: il Comitato Livelli Essenziali Assistenza, il Tavolo di verifica degli adempimenti e la Struttura tecnica di monitoraggio (STEM).



    Il sistema di finanziamento

    Le risorse per le politiche sociali provengono da un finanziamento plurimo dei tre livelli di governo (Stato, Regioni e Comuni), secondo dotazioni finanziarie presenti nei rispettivi bilanci.

    All’indomani della riforma del 2001, non sono, tuttavia, più ritenuti ammissibili finanziamenti statali a destinazione vincolata, in materie e funzioni la cui disciplina spetti alla legge regionale (sentenza Cost. 423/2004).

    Rileva sottolineare, però, che lo Stato è legittimato ad intervenire con legge e con i suddetti fondi speciali, al fine di risolvere situazioni di estremo disagio nazionali, come è stato fatto con l’istituzione della Social Card nel 2008.

    Tale prerogativa dello Stato è insita, come già detto, nella competenza - esclusiva e trasversale  - di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali sul territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), allo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei medesimi diritti, tutelati dalla stessa Costituzione, per cui lo Stato è obbligato a predisporre le misure necessarie per attribuire a tutti i destinatari, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle, soprattutto, quando ciò sia reso imprescindibile, da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa (sentenza Cost. 10/2010).  

    La Corte costituzionale osserva, altresì, rilevando la “debolezza” intrinseca del nostro sistema di assistenza sociale, che una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, qual è quella oggetto delle disposizioni impugnate, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lettera m).

     Le fonti di finanziamento (Conti economici della protezione sociale - Annuario statistico italiano 2012, Roma, ISTAT 2012) della protezione sociale (nel 2011 471,9 miliardi per sanità, previdenza e assistenza), per prestazioni in denaro e in natura, derivano principalmente da contributi sociali (52,9 per cento) e dalla fiscalità generale (46,2 per cento).

    Lo Stato interviene con prestazioni in denaro fornite dagli enti previdenziali, in particolare dall’INPS.

    Le Regioni svolgono principalmente funzioni legislative, stabiliscono principi e indirizzi, e coordinano interventi sul territorio da parte degli enti locali, a cui ripartiscono le risorse del Fondo sociale regionale, costituito da stanziamenti provenienti dai fondi speciali statali, integrati da stanziamenti di bilancio regionale. Le regioni possono, altresì, intervenire direttamente, con i voucher, i bonus famiglia, gli assegni di cura, i buoni socio-sanitari.

    I Comuni svolgono le funzioni amministrative attuative dei servizi sociali e ricevono risorse dalle Regioni e dallo Stato (trasferimenti diretti e vincolati, come quelli della L. 285/1997, Fondo per l’infanzia e l’adolescenza), integrate da propri stanziamenti di bilancio.

    A tali finanziamenti si aggiungono i Fondi strutturali europei, che costituiscono gli strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea, per rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale dei paesi aderenti EU, riducendo le disparità di sviluppo, come il Fondo sociale europeo (Fse), che ha il compito di prevenire e combattere la disoccupazione, migliorare il funzionamento del mercato del lavoro e investire nelle risorse umane, e il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fesr), che contribuisce al potenziamento della coesione economica e sociale, attraverso un sostegno allo sviluppo e l'organizzazione strutturale delle economie regionali.

     Al finanziamento dei servizi sociali contribuisce la partecipazione dell’utenza privata, con il pagamento delle rette previste per gli asili nido o per le residenze assistite degli anziani.

    Complessivamente, le risorse indicate realizzano gli obiettivi dei piani di zona, adottati secondo gli indirizzi dei piani regionali, come previsto dalla L. 328/2000.

    Gli interventi di assistenza economica sono diretti a singoli e nuclei familiari che non dispongono di risorse sufficienti a garantire il soddisfacimento dei bisogni fondamentali o sono in temporanea situazione di emergenza.



    Le prestazioni sociali

    L’INPS gestisce e fornisce le maggiori prestazioni sociali in denaro a livello nazionale. La parte più consistente è costituita dalle prestazioni pensionistiche, che a loro volta possono essere articolate in prestazioni previdenziali (prestazioni per le quali vi è una contribuzione per il finanziamento da parte dei datori di lavoro e dei lavoratori) e prestazioni assistenziali (pensioni, assegni e indennità varie ai minorati civili e di guerra), che non prevedono un finanziamento contributivo ma sono sostenute dai trasferimenti statali, a carico della fiscalità generale.  

    Un’altra voce rilevante per l’assistenza fornita dall’INPS è rappresentata dalle prestazioni temporanee, che hanno natura mista coperte da contribuzione sociale e da trasferimenti statali ed includono principalmente le prestazioni connesse allo stato di occupazione ed i trattamenti familiari e di maternità. All’interno degli ultimi due strumenti troviamo, a carico della fiscalità generale, specifici interventi temporanei e di sostegno del reddito familiare, erogati dall’INPS (bonus bebè periodo 2003-2006, assegni per il nucleo familiare con almeno tre figli concessi dai comuni, congedo per maternità alle lavoratrici non occupate concesso dai comuni, l’assegno di maternità dei comuni).

    Nell’ambito delle prestazioni economiche concesse dall’INPS, possiamo includere quanto previsto per l’assistenza ai disabili nel mondo del lavoro. La L. 104/92 prevede permessi orari o giornalieri a disposizione del disabile o del lavoratore dipendente che assiste un parente con disabilità. Tale legge sull’integrazione sociale, il sostegno, l’assistenza e i diritti delle persone disabili prevede agevolazioni per i lavoratori, così articolate: congedi o permessi orari per assistere neonati e bambini disabili fino a 3 anni, permessi giornalieri per accudire bambini o adulti non autosufficienti e, a scelta, permessi giornalieri oppure permessi che prevedono la riduzione giornaliera di due ore per il lavoratore stesso, con disabilità. In aggiunta a questi permessi, è previsto (dalla L. 388/2000 e dal D.L. 151/2001) un congedo straordinario di due anni nell’arco della vita lavorativa per assistere un congiunto con disabilità. Generalmente le giornate o le ore indennizzabili o i periodi di congedo straordinario sono retribuiti sulla busta paga, direttamente dal datore di lavoro, per conto dell’Inps. È previsto, però, il pagamento diretto per alcune categorie di lavoratori o nei casi in cui il datore di lavoro stesso non abbia predisposto il pagamento delle spettanze del dipendente.

    In campo sociale, sebbene con discutibili esiti dal punto di vista della redistribuzione delle risorse e del loro impiego, si ricorda che lo Stato interviene direttamente, senza usare gli istituti di spesa (INPS, altri enti previdenziali, regioni e comuni), con la cosiddetta “tax-expenditure”, che corrisponde ad abbattimenti del debito di imposta imputabili a previsioni legislative: deduzioni, detrazioni, esclusioni, esenzioni, aliquote ridotte (definita anche tax breaks for social purposes).

    Dal 2008, lo Stato inoltre è direttamente intervenuto con l’istituzione di un sostegno economico, la carta acquisti (social card), pari a 80 euro bimestrali, al fine di alleviare situazioni di disagio economico estremo. Nel corso del 2012 è stata approvata la sperimentazione di un nuovo tipo di social card (stanziamento di 50 milioni) per determinati comuni, con popolazione superiore ai 250.000 abitanti, al fine di fornire un beneficio mensile a famiglia.

    Ritornando a quanto l’INPS attiva per le prestazioni assistenziali ricordiamo i seguenti interventi: la pensione sociale, (per un importo medio mensile di 390 euro), sostituita, a decorrere dall’1° gennaio 1996, dall’assegno sociale, concessa ai cittadini ultrasessantacinquenni, sprovvisti di redditi minimi e ai beneficiari di pensioni di invalidità civile e ai sordomuti al compimento dei 65 anni di età, finanziata dalla fiscalità generale (in sostanza è l’unica forma di reddito minimo garantito in Italia, riservato solo alle persone anziane), l’assegno o pensione di invalidità civile, pari a circa 260 euro mensili, erogata ai cittadini tra i 18 e i 65 anni, con redditi insufficienti e con una riduzione della capacità di lavoro o di svolgimento delle normali funzioni quotidiane pari o superiore al 74 per cento o al 100 per cento, e che non dispongono dei requisiti minimi contribuitivi per accedere alla pensione di inabilità, a cui si aggiunge l’indennità di accompagnamento per coloro che raggiungono il 100 per cento di invalidità, per un assegno di circa 480 euro, gli assegni al nucleo familiare (Anf), che però sono una prestazione di tipo previdenziale accessoria alla retribuzione spettante ai lavoratori dipendenti per le persone facenti parte del nucleo familiare, sulla base della composizione del nucleo e in possesso di un reddito familiare inferiore a fasce reddituali stabilite ogni anno dalla legge e costituito almeno per il 70 per cento da redditi da lavoro, l’assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori, pari a poco meno di 130 euro, prestazione invece di natura assistenziale, concesso dal Comune, ma pagato dall’INPS, per le famiglie con almeno tre figli minori e che hanno patrimoni e redditi limitati, l’assegno di maternità, pagato dall’INPS, che la madre non lavoratrice può chiedere al proprio Comune di residenza per la nascita del figlio oppure per l’adozione o l’affidamento preadottivo di un minore di età non superiore ai 6 anni (o ai 18 anni in caso di adozioni o affidamenti internazionali), e, dal 1 gennaio 2002, le maggiorazioni su tutti i trattamenti pensionistici, di natura contributiva o assistenziale, aumentate, in presenza di particolari requisiti di età e di reddito, fino a garantire un reddito personale minimo di euro 516,46 mensili, per tredici mensilità, la pensione e l’indennità per la cecità civile (parziale o assoluta) e la pensione e l’indennità di comunicazione per la sordità (erogazioni da 189 a 260 euro, condizionate dal reddito del beneficiario).

     Le Regioni e i Comuni singoli o associati, escludendo le prestazioni in natura riguardanti l’offerta sanitaria (assistenza ospedaliera e sanitaria distrettuale, quest’ultima ripartibile in assistenza primaria, specialistica ed ambulatoriale), offrono prestazioni in natura:

    servizi territoriali

    servizi residenziali

     prestazioni in denaro:

    Per area di utenza (famiglia e minori, disabili, dipendenze, anziani, immigrati e nomadi, povertà disagio adulti e senza fissa dimora, multiutenza), sono istituiti:  

    L’assistenza di natura residenziale riguarda in particolare i ricoveri in presidi residenziali socio-assistenziali (Case di cura protette) e in presidi socio-sanitari (RSA, ad elevata integrazione sanitaria per 60-120 giorni), nel caso che l’ADI o l’ospedalizzazione a domicilio (OD) non siano possibili.

    Conclusa la fase della RSA, l’anziano non autosufficiente è assistito in una Residenza protetta per anziani (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per la garanzia dell’informazione statistica, L’informazione statistica sull’assistenza agli anziani in Italia, Rapporto di indagine 2005, Roma).

    Nel 2010 sono 12.808 e dispongono complessivamente di 424.705 posti letto (7 ogni 1.000 persone residenti). La componente prevalente dell'offerta residenziale è rappresentata dalle "unità di servizio" che svolgono una funzione di tipo socio-sanitario e sono destinate ad accogliere prevalentemente anziani non autosufficienti, con una disponibilità di oltre i due terzi dei posti letto (72 per cento). La restante quota dell'offerta è di tipo socio-assistenziale.

    Nei presidi residenziali sono assistite 394.374 persone: circa 295 mila sono anziani con almeno 65 anni (il 75 per cento), poco più di 80 mila sono adulti tra i 18 e i 64 anni (20 per cento) e circa 19 mila sono minori con meno di 18 anni (5 per cento). La tipologia di disagio prevalente è legato alla disabilità o a patologie psichiatriche (circa il 69 per cento degli ospiti).Gli stranieri residenti nei presidi sono complessivamente 16.023 (il 4 per cento degli ospiti complessivi). Nel 70 per cento dei casi i titolari di queste strutture residenziali sono enti privati (I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari nel 2010, Roma - ISTAT 2012).

    Per quanto riguarda l’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, nell'anno scolastico 2010-2011, risultano iscritti negli asili nido comunali 157.743 bambini tra zero e due anni di età, mentre altri 43.897 bambini usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti dell'offerta pubblica complessiva, per una spesa di circa 1,2 miliardi, al netto delle quote pagate dalle famiglie.

    Nonostante il generale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003-2004 all'11,8 per cento del 2010-2011 (L'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia - Anno scolastico 2010-2011, Roma, ISTAT 2012).

    Si ricorda in merito al minimo vitale per famiglie e individui bisognosi, la sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (RMI), introdotta dal D. Lgs. 237/1998 per il biennio 1999-2000, per 39 Comuni, con successive proroghe per il biennio 2000-2001, con una spesa complessiva nel secondo biennio di circa 400 milioni di euro (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Relazione al Parlamento 2007 sull’attuazione della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento e risultati conseguiti, 2007, Roma).



    I principali beneficiari

    Dai dati nazionali (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma), la popolazione italiana è pari a 60,6 milioni e il numero di famiglie nel 2010-2011 (media) è pari a 24,6 milioni.

    Nel 2010-2011, il 29,4 per cento delle famiglie è rappresentato da persone sole, incidenza in continua crescita e il 53,6 per cento ha oltre 60 anni e di queste il 67,4 per cento è costituito da donne. Le famiglie presentano una prevalenza della tipologia coppie con figli, pari al 54,4 per cento, mentre le coppie senza figli hanno un’incidenza del 31,4 per cento e i monogenitori del 14,2 per cento sul totale dei nuclei.

    Nel 2011, in Italia, l’area della povertà coinvolge 2,8 milioni famiglie in condizione di povertà relativa (l’11,1 per cento delle famiglie residenti), pari a poco più di 8 milioni di individui, il 13,6 per cento dell’intera popolazione.

    La stima dell’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie e persone povere) è calcolata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà), che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi. La soglia per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media mensile per persona nel Paese, che nel 2011 è risultata di 1.011,03 euro (+1,9 per cento rispetto al valore della soglia nel 2010). Pertanto, le famiglie di due persone che hanno una spesa mensile pari o inferiore a tale valore vengono classificate come povere. Per famiglie di ampiezza diversa il valore della linea si ottiene applicando un’opportuna scala di equivalenza che tiene conto delle economie di scala realizzabili all’aumentare del numero di componenti. L’incidenza della povertà assoluta, invece, viene calcolata sulla base di una soglia di povertà corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire il paniere di beni e servizi che è considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile. Sono classificate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia assoluta (che si differenzia per dimensione e composizione per età della famiglia, per ripartizione geografica e ampiezza demografica del comune di residenza).

    Nel 2011, l’incidenza di povertà assoluta è pari al 5,2 per cento corrispondente a 1,3 milione di famiglie per un totale di 3,4 milioni individui (il 5,7 per cento dell’intera popolazione).

    E’ quindi in 11,4 milioni di persone che si concentra l’area del disagio economico in Italia.

    Per quanto riguarda un’altra area sensibile per le politiche socio-sanitarie, quella degli anziani, si stima che il 36 per cento delle famiglie, circa 8,8 milioni, ha in casa almeno un anziano e il 22,9 per cento, circa 5,6 milioni, è rappresentato da famiglie di soli anziani (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma).

    Il 20,1 per cento delle famiglie ha almeno un anziano di 65-74 anni, il 14,8 per cento delle famiglie ha un anziano di 75-84 anni e il 5,4 per cento ha almeno un anziano di 80 anni e più. Nel 2012, in Italia, sono presenti due milioni di anziani in condizioni di disabilità che vivono in famiglia e oltre 300 mila anziani sono ospiti nelle strutture residenziali. Gli ultra anziani che superano gli 85 anni in Italia sono un milione e 600 mila e si prevede che tra 10 anni saranno 2 milioni e 400 mila (Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali, 2012).

     Secondo i dati più recenti (La disabilità in Italia - ISTAT 2010) riguardanti l’area della disabilità, le persone disabili sono il 4,8 per cento della popolazione italiana di 6 anni e più (2,6 milioni di persone), e la disabilità è un problema che coinvolge soprattutto gli anziani: quasi la metà delle persone con disabilità (1,2 milioni), ha più di ottanta anni. Nella scuola (anno scolastico 2010-2011) gli studenti con disabilità sono 139.000 (il 3 per cento del totale alunni), di cui circa 78.000 nella scuola primaria (pari al 2,8 per del totale degli alunni) e poco più di 61.000 nella scuola secondaria di primo grado, pari al 3,4 per del totale degli alunni (L’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di primo grado statali e non statali, 2013 - ISTAT, Roma).

    Un’altra area importante che incide sui bilanci sociali degli enti locali, è quella relativa ai servizi ai minori (L'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia - Anno scolastico 2010-2011, 2012, ISTAT). Come già detto in precedenza, nonostante il graduale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003-2004 all'11,8 per cento del 2010-2011, ancora distante dalla copertura del 33 per cento sull’utenza potenziale, che è l’obiettivo fissato dall’Agenda di Lisbona per il 2010.

    Per quanto altre situazioni di disagio sociale (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma), nel 2008, gli utenti dei Servizi pubblici per le tossicodipendenze (Sert) sono risultati 167.674, mentre per quanto riguarda i disturbi psichici per abuso di alcol, nel 2010, sono state 15.320 le dimissioni ospedaliere a carico di individui che presentavano questa dipendenza, e sono state 7.112 per disturbi psichici a causa di abuso di droghe.

    Nel 2009 sono state censite 1.679 strutture residenziali per la tutela della salute mentale, per un numero totale di posti pari a 19.299, ed una utenza di 30.375 individui. I Centri di Salute Mentale in Italia erano 1.387 ovvero poco più di 4 ogni 150.000 abitanti maggiorenni.

    Per quanto riguarda, infine, le persone senza dimora (Le persone senza dimora - Anno 2011, ottobre 2012 - ISTAT), sono oltre 47.000 persone che tra novembre e dicembre 2011 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna in 158 comuni italiani.



    I dati della spesa

    Le prestazioni di protezione sociale (sanità, previdenza e assistenza) secondo l'evento, il rischiio e il bisogno per funzione e per tipo di prestazione per il 2011 ammntano a 417,8 miliardi di euro, come risulta dai dati pubblicati dall'Istat. Di seguito sono indicati alcuni dati macroeconomici di rilievo.



    I dati dell'INPS

    Nel Bilancio sociale INPS del 2011, le entrate complessive ammontano a 284,4 miliardi, di cui la parte corrente è divisa in contributi sociali per 150,8 miliardi e contribuzioni diverse, soprattutto trasferimenti statali, per 84,5 miliardi.

    Nel 2011, il totale delle prestazioni sociali INPS è pari a 219,6 miliardi, di cui l'88,5 per cento sono le pensioni (194,4 miliardi), mentre le prestazioni temporanee coprono il restante 11,5 per cento (25,1 miliardi).

    All’interno delle pensioni, il 77,4 per cento (169,9 miliardi) è rappresentato dalle pensioni previdenziali (vecchiaia, anzianità, invalidità da lavoro, inabilità, indirette e reversibilità), mentre l'11,2 per cento (24,6 miliardi, per oltre 4 milioni di trattamenti) dalle pensioni assistenziali (inclusi 2,8 miliardi per il Fondo dei coltivatori diretti, coloni mezzadri – CDCM ante 1989). All’interno dell’assistenza sono comprese i trasferimenti di invalidità civile, circa 16,2 miliardi, e 4,2 miliardi per le pensioni e assegni sociali (secondo determinati requisiti reddituali e anagrafici).

    I pensionati INPS titolari di almeno un trattamento pensionistico INPS nel 2011 sono 13.941.802, in maggioranza donne. Circa il 74 per cento (pari a 10,3 milioni di individui) percepisce una sola pensione a carico dell’Istituto, poco più del 21 per cento ne percepisce due, il 5 per cento tre ed oltre. Il reddito pensionistico medio lordo, risultante dalla somma dei redditi da pensione (sia di natura previdenziale che assistenziale) percepiti nell’anno, erogati sia dall’Inps che da altri enti previdenziali e rilevati dal Casellario centrale dei pensionati gestito dall’Istituto, è di 1.131 euro mensili (per le donne 930 euro medi mensili a fronte di 1.366 euro per gli uomini).

    Oltre la metà dei pensionati (52 per cento) riceve una pensione di vecchiaia o di anzianità senza godere di altri trattamenti pensionistici, percentuale che scende al 10 per cento e al 5 per cento, rispettivamente, per pensioni ai superstiti e di invalidità previdenziale. I percettori di sole pensioni assistenziali sono l'11 per cento del totale. Un ulteriore 10 per cento e 12 per cento si distribuisce tra coloro che ricevono, rispettivamente, un trattamento previdenziale associato ad una prestazione assistenziale ovvero più trattamenti di natura previdenziale.

    Sotto il profilo dell’età, oltre il 75 per cento dei titolari ha 65 anni e oltre (gli ultra80enni sono il 25 per cento) e il 22 per cento circa si colloca in una fascia compresa tra i 40 e i 64 anni. Inoltre, quasi la metà dei percettori (6.915.733) si concentra nelle regioni settentrionali, mentre nel Meridione e al Centro risiedono, rispettivamente, il 31 per cento (4.292.312) ed il 19 cento (2.733.757) del totale con redditi pensionistici medi che oscillano da 920 euro mensili al Sud a 1.238 euro al Nord.

    Nella distribuzione per classi di importo, il 52 per cento dei pensionati Inps (7,2 milioni di individui) presenta redditi pensionistici inferiori a 1.000 euro mensili e il 24 per cento (3,3milioni) si colloca nella fascia tra 1.000 e 1.500 euro mensili. Il 12,7 per cento riscuote pensioni comprese tra 1.500 e 2.000 euro mensili e il restante 11,2 per cento gode di un reddito pensionistico mensile superiore a 2.000 euro.

    Per quanto riguarda le prestazioni temporanee (25,1 miliardi) le prestazioni connesse a stato di occupazione sono pari 10,8 miliardi, i trattamenti di famiglia (principalmente, assegno al nucleo familiare) e di maternità (comprendente la maternità obbligatoria, il congedo parentale facoltativo e il permesso retribuito per allattamento), rispettivamente, sono 5,6 e 3 miliardi.

    Come si vede la struttura delle prestazioni sociali è fortemente caratterizzata dalla spesa pensionistica previdenziale e da quella assistenziale, mentre le spese per le prestazioni temporanee risultano alquanto ridotte, con il peso degli ammortizzatori sociali del 4,9 per cento di tutte le prestazioni, quello per la famiglia del 2,9 per cento, quello per maternità 1,4 per cento e quello per la malattia dello 0,9 per cento.

    Consegue un dato di fatto difficilmente controvertibile: dai numeri mostrati, se consideriamo l’effetto di redistribuzione delle risorse provenienti dalle entrate contributive (imprese e lavoratori) e della fiscalità generale, si conferma una forte sperequazione di carattere generazionale e di svantaggio per le prestazioni connesse alla disoccupazione e per i trattamenti di famiglia e maternità.

    La social card dello Stato è una carta di pagamento elettronico - 80 euro bimestrali, accreditati dall’INPS - per spese alimentari, presso gli esercizi commerciali convenzionati e per le utenze domestiche - gas ed elettricità - presso gli Uffici Postali. Secondo il luogo di residenza, è possibile ottenere integrazioni concesse dagli enti locali (Regioni, Comuni o Province) in aggiunta all’importo stabilito.

    Nel 2011 il totale dei beneficiari, con il diritto ad almeno un accredito nel corso dell’anno, sono stati 535.412. Secondo il luogo di residenza, la concentrazione maggiore, il 71,4 per cento, è presente nella zona meridionale e insulare, il 16,3 per cento dei beneficiari vive nel Settentrione e il 12,3 per cento nell’Italia centrale. L’importo totale erogato nel 2011 è pari a 207 milioni, suddivisi in 2.589.517 accrediti effettuati nell’anno.



    I dati degli Enti locali

    I comuni italiani spendono circa 7,2 miliardi per i servizi sociali, che corrispondono ad una spesa procapite media di circa 116 euro, pur con differenze molto significative tra diversi territori. La spesa sociale dei comuni rappresenta lo 0,46 per cento del Pil italiano e assume nel territorio nazionale una variabilità tale da oscillare tra la spesa media degli enti locali della Provincia di Trento (294,7 euro a cittadino), e quella della regione Calabria (25,5 euro a cittadino). Una prima caratteristica del welfare in Italia è infatti la forte diversità nelle politiche attivate in termini di risorse allocate e servizi resi alla collettività; il divario territoriale vede una netta contrapposizione tra regioni del nord e del sud, con queste ultime che registrano una spesa per abitante pari a poco meno di 51 euro e quelle del nord est e nord ovest che spendono circa 163 e 133 euro rispettivamente. In termini di interventi, prevalgono quelli che riguardano famiglia e minori, disabili e anziani, che assorbono mediamente l’80 per cento del totale della spesa sociale dei comuni italiani (39,8 per cento famiglia e minori, 20,4 per cento anziani, 21,6 per cento disabili). Il restante 19 per cento circa della spesa è ripartito a decrescere tra interventi destinati a povertà (8,3 per cento), multiutenza (6,3 per cento), immigrati (2,7 per cento) e dipendenze (0,9 per cento).

    Tra le regioni emerge un ampio divario per risorse impegnate dai comuni in rapporto alla popolazione residente: la spesa per abitante nel 2009 varia da un minimo di 25,5 euro in Calabria a un massimo di circa 295 euro a Trento. Al di sotto del valore medio italiano si collocano tutte le regioni del Mezzogiorno (ad eccezione della Sardegna) ma anche Umbria, Marche e Veneto. Anche dal punto di vista del tipo di rischio o bisogno su cui si concentrano le risorse si mettono in luce alcune differenze regionali. Le regioni del Mezzogiorno hanno una maggiore quota di risorse assorbite dalle politiche di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale: il 10,8 per cento, contro il 7,6 per cento del Centro-Nord.

    Se si considera la spesa dedicata ai servizi sociali in rapporto al Pil, la maggior parte delle regioni si colloca in una fascia intermedia che varia dallo 0,3 per cento allo 0,6 per cento del Pil regionale. Al di sotto dello 0,3 per cento vi sono la Calabria e il Molise, mentre fra le aree che impegnano le percentuali più alte di risorse vi sono la Sardegna, Trento e Bolzano, la Valle d'Aosta e il Friuli-Venezia Giulia (Noi Italia 2013 - ISTAT).



    Conclusioni

    Il totale della spesa pubblica sociale (prestazioni in denaro e natura), al netto della malattia, previdenza e disoccupazione (ultima voce pari a 12,5 miliardi tra indennità di disoccupazione e assegno d’integrazione salariale), risulta di 52,9 miliardi, di cui 30,7 miliardi in denaro (settore assistenza: 24,3 miliardi di pensioni/assegni sociali, invalidità e altri assegni e sussidi, e  6,4 miliardi di assegni familiari), e 22,2 miliardi in natura (settore assistenza 8,5 miliardi e settore sanità 13,7 miliardi di prestazioni socio-sanitarie.

    Considerando le persone in povertà assoluta, circa 3,4 milioni di persone, i 2,6 milioni di disabili (dai 6 anni in su), i 5,6 milioni di anziani soli, i minori che usano i servizi socio-educativi, e l’utenza a rischio di esclusione sociale, le prestazioni sociali in natura erogate dagli enti locali sono pari a 8,5 miliardi e rappresentano il 16 per cento del totale della spesa sociale.

    L’offerta welfare è dunque caratterizzata da un netto sbilanciamento per l’elevatissima erogazione di prestazioni monetarie e la scarsa fornitura di servizi alla persona.

    Il processo di invecchiamento demografico atteso nei prossimi decenni determinerà una marcata espansione della domanda di servizi socio-assistenziali. A fronte di questa emergenza, le risposte assistenziali e le risorse impiegate, di cui il monitoraggio a livello nazionale e locale non appare coordinato,  risultano inadeguate, frammentate, estremamente diversificate per quantità e qualità (tra buone esperienze e assenza o quasi di servizi).



    Documenti e risorse web

    Approfondimento: Fondi per le politiche sociali



    Fondo nazionale per le politiche sociali

    Il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali (FNPS) è lo strumento con cui, a livello statale, vengono finanziati annualmente,  attraverso l’allegato C della legge finanziaria, gran parte degli interventi dedicati alla sfera del sociale. Il Fondo, istituito nel 1998 dall’articolo 59, comma 44, della legge 449/1997, è stato maggiormente definito e rafforzato dalla L. 328/2000 che ha ripartito annualmente le risorse tra le regioni, le province autonome, i comuni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali con decreto del Ministro della solidarietà sociale, sentiti i ministri interessati e d’intesa con la Conferenza Unificata Stato regioni e autonomie locali.

    Gli interventi finanziati a valere sul FNPS sono stati ridotti da alcuni recenti provvedimenti normativi. In particolare, le risorse del Fondo per l’infanzia e l’adolescenza – istituito dalla legge 285/1997 – inizialmente allocate nel Fondo nazionale delle politiche sociali, a decorrere dall’anno 2008 sono determinate dalla legge finanziaria limitatamente alle risorse destinate al finanziamento degli interventi nei 15 Comuni riservatari indicati dalla legge istitutiva. Le rimanenti risorse del Fondo nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza confluiscono indistintamente nel Fondo nazionale delle politiche sociali.

    Per quanto riguarda le somme destinate al finanziamento degli interventi costituenti i diritti soggettivi (assegno al nucleo familiare con tre figli minori, per la maternità, agevolazioni disabili e lavoratori talassemici), la legge 191/2009 ha disposto che, dal 2010, siano finanziati attraverso appositi capitoli iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

    La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dell’iniziale stanziamento, per effetto dell'art. 1, comma 13, della legge 220/2010, sono stati accantonati 55,8 milioni di euro in ragione dell’andamento dei proventi derivanti dalla cessione dei diritti d’uso delle frequenze per i servizi di comunicazione a banda larga. Tali accantonamenti sono stati resi definitivi dal decreto legge 98/2011. Con Decreto Interministeriale del 17 giugno 2011, sono stati pertanto ripartiti 218 milioni di euro, di cui 39,5 milioni di euro al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

    Nel Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 l’importo proposto per il 2012 è di 69,954 milioni di euro, per il 2013 e il 2014 gli importi sono invece pari a 44,590 milioni di euro. Tali stanziamenti sono stati poi confermati dalla Legge di stabilità 2012, come indicati nella tabella C.

    Nella riunione del 25 luglio 2012, la Conferenza delle regioni e delle province autonome, ha espresso la mancata intesa sullo schema di decreto di riparto del FNPS per l’anno 2012 come trasmesso dal Governo, chiedendo, a fronte di una previsione relativa alla quota destinata alle Regioni e alle Province autonome, pari a 10,8 milioni di euro, e di un accantonamento di 32,8 milioni di euro per spese ministeriali giudicate indifferibili, l’interlocuzione con l’esecutivo per ridiscutere il finanziamento delle politiche sociali.

    Successivamente, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nel Documento per una azione di rilancio delle politiche sociali del 6 ottobre, ha evidenziato alcune osservazioni in materia di politiche sociali, sottolineando al contempo l'impossibilità, per i livelli di governo territoriali, di garantire, nel corso del 2013, il sistema dei servizi sociali sul territorio. In tal senso, le Regioni, per ripristinare sicurezza nell'ambito delle politiche sociali, avanzano le seguenti proposte e richieste: 1) definizione degli Obiettivi di Servizio con indicazione di quelli da finanziare con priorità; 2) difesa dell'occupazione nel settore dei servizi alla persona: 3) superamento della frammentarietà dei finanziamenti, spesso di piccole entità, e allocazione di tutte le risorse dedicate al sociale in un unico Fondo non finalizzato; 4) istituzione di un tavolo di confronto composto dai Ministeri del Welfare/Salute e dalle Commissioni Politiche Sociali e Salute della Conferenza delle Regioni e P.A, che elabori proposte condivise e praticabili sulla non autosufficienza riconoscendola come un tema centrale all’interno delle politiche sociali.

    In ultimo il decreto 16 novembre 2012, Ripartizione delle risorse finanziarie afferenti al Fondo nazionale per le politiche sociali , per l'anno 2012 ha ripartito le risorse finanziarie afferenti al Fondo, ammontanti ad euro 42.908.611, destinando euro 10.680.362,13 alle Regioni e euro 32.033.310 al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Contestualmente sono state assegnate una quota riferita alle Province autonome di Trento e Bolzano pari a euro 180.286,77 nonché una somma da restituire al Comune di Enna, a fronte di quanto versato ai sensi dell'art. 1, comma 1286 della legge 296/2006, n. 296 pari a euro 14.652,10.

    Per l’anno 2013, l’articolo 1, comma 271, Legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del Fondo nazionale per le politiche sociali. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.

    Fondo nazionale politiche sociali (in migliaia di euro)

    Anno

    Tabella C – Legge Finanziaria

    Fondo nazionale politiche sociali come risultante dal decreto di riparto

    Quota regioni e Province autonome

    Decreto riparto

    2009

     

    1.311.650

    Nel fondo erano ancora allocate le risorse destinate al finanziamento degli interventi costituenti diritti soggettivi, pari a euro 842.000.000,00.

    1.420.580

     

    518.226

    25/11/2009

    2010

     

    1.169.258

    Di cui euro 854.000.000,00 destinate al finanziamento degli interventi costituenti diritti soggettivi e riportati in tabella C

    435.257

    Ai sensi dell’articolo 2, comma 3, della legge 191/2009 la quale stabilisce che, a decorrere dal 2010, gli oneri relativi ai diritti soggettivi sono finanziati da appositi capitoli di spese obbligatorie iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dagli stanziamenti del Fondo, come riportati in Tabella C, sono state pertanto sottratte le risorse destinate al finanziamento dei diritti soggettivi.

    380.222

    4/10/2010

    2011

     

    273.874

    218.084

    178.500

    17/06/2011

    2012

     

    69.950

    42.208

    10.680

    16/11/2012

    Mancata Intesa

    2013

    344.178

     

     

     

     



    Fondo per le non autosufficienza

    L'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) ha istituito il Fondo per le non autosufficienze presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, configurandolo essenzialmente come un contributo alle politiche regionali in materia, per la realizzazione di prestazioni, interventi e servizi assistenziali nell'ambito dell'offerta integrata dei servizi socio-sanitari in grado di garantire i livelli essenziali delle prestazioni assistenziali a favore delle persone non autosufficienti. Le risorse, aggiuntive rispetto a quelle già destinate alle prestazioni e ai servizi a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni, nonché da parte delle autonomie locali, sono state finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell'assistenza socio-sanitaria. Le risorse assegnate al Fondo per il 2010, ripartite con decreto, erano pari ad euro 400 milioni.

    Il decreto 4 ottobre 2010 ha ripartito fra le regioni le risorse del fondo utilizzando criteri basati, nella misura del 60 per cento, su indicatori relativi alla popolazione residente, per regione, d'età pari o superiore a 75 anni e per il restante 40 per cento sui criteri utilizzati per il riparto del Fondo nazionale per le politiche sociali come individuati dall’articolo 20, comma 5, della legge 328/2000.

    Per il 2011 e il 2012, non è stato previsto il rifinanziamento organico del Fondo.

    Si rileva tuttavia che l'articolo 1, comma 40, della Legge di stabilità 2011, dispone che la dotazione del Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili, sia incrementata di 924 milioni di euro per l'anno 2011 e che una quota di tali risorse, pari a 874 milioni di euro per l'anno 2011, sia ripartita, con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri per le finalità indicate nell’elenco 1 allegato alla stessa legge. Tra le finalità indicate nell'elenco sono stati fra gli altri indicati interventi in tema di sclerosi laterale amiotrofica per ricerca e assistenza domiciliare dei malati, ai sensi dell'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, per un ammontare nel 2011 pari a 100 milioni di euro.

    Il decreto 11 novembre 2011 ha attribuito tali risorse alle regioni sulla base dei criteri utilizzati per il riparto del Fondo nazionale per le politiche sociali.

    Successivamente, il D.L. 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che la dotazione del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, sia incrementata di 658 milioni di euro per l'anno 2013 e ripartita con D.P.C.M., per incrementare fra l’altro la dotazione del Fondo non autosufficienti, finalizzato al finanziamento dell'assistenza domiciliare prioritariamente nei confronti delle persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), ha subito un definanziamento di 631,7 milioni; la dotazione finanziaria del Fondo risulta pertanto interamente decurtata, residuando al Fondo soltanto 263 euro per l’anno 2013.

    In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa  di 275 milioni di euro per l'anno 2013,  per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.

    L’articolo 1, comma 83, della legge di stabilità 2013 prevede che l'INPS, per il periodo 2013-2015 - nell'ambito dell’ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari nei confronti dei titolari di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, realizzi un piano di 150.000 verifiche straordinarie annue, aggiuntivo rispetto all'ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, nei confronti dei titolari di benefici di invalidità civile, cecità civile, sordità, handicap e disabilità. Per quanto concerne le risorse derivanti dall’attuazione del suddetto piano straordinario di verifiche, sono destinate ad incrementare il Fondo per le non autosufficienze sino alla concorrenza di 40 milioni di euro annui.

    Fondo nazionale per le non autosufficienze (migliaia di euro)

    Anno

    Tabella C – Legge Finanziaria

    Fondo nazionale per le non autosufficienze

    Quota regioni e Province autonome

    Decreto riparto/Intesa

    2009

    400.000

    400.000

    399.000

    Decreto 6 agosto 2008

    2010

    400.000

    400.000

    380.000

    Decreto 4 ottobre 2010

    2011

    L.220/2010 Art. 1,co. 40

    -

    100.000

    dal Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili

    100.000

    Decreto 11 novembre 2011

    2012

    D.L. 95/2012 Art. 23,co. 8

    - 

    Somma, da definire con D.P.C.M., dal Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili.

    Si rileva che il Fondo è stato completamente definanziato dalla legge di stabilità 2013.

    -

    -

    2013

    Legge di stabilità 2013

    Art. 1, co. 83

    Art. 1, co. 151

    -

     

     

     Fino alla concorrenza di 40.000

    275.000 

     

     



    Il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza

    La legge 28 agosto 1997, n. 285 ha inizialmente sollecitato e sostenuto la progettualità orientata alla tutela e alla promozione del benessere di bambini e ragazzi attraverso l’istituzione di un Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza suddiviso tra le Regioni (70%) e le 15 Città riservatarie (30%), chiamando gli enti locali e il terzo settore a programmare insieme e diffondere una cultura e pratiche di progettazione concertata e di collaborazione interistituzionale. Successivamente, la legge finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha disposto, all'articolo 1, comma 1258, che la dotazione del Fondo, limitatamente alle risorse destinate ai comuni riservatari, sia determinata annualmente dalla Tabella C della legge finanziaria e ne ha indicato, a decorrere dal 2008, una diversa allocazione, prevedendo uno stanziamento autonomo. Le rimanenti risorse del Fondo per l'infanzia e l'adolescenza continuano a confluire, indistintamente, nel Fondo nazionale per le politiche sociali.
    Oggi le 15 Città riservatarie - Bari, Bologna, Brindisi, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Taranto, Torino, Venezia - costituiscono una sorta di nucleo fondante per le politiche della legge 285 e rappresentano un laboratorio di sperimentazione in materia di infanzia e adolescenza. Il trasferimento delle risorse avviene con vincolo di destinazione, quindi i finanziamenti della legge 285 sono collegati alla progettazione dei servizi per l’infanzia e l’adolescenza. Tra gli strumenti promossi dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per la buona riuscita della sperimentazione 285, vi è il Tavolo di coordinamento tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali e Città riservatarie e la Banca dati dei progetti. La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) destina al Fondo, per il 2013, 39,6 milioni di euro, prevedendo quasi identici stanziamenti per il biennio successivo.

     

    Fondo nazionale per linfanzia e l'adolescenza (migliaia di euro)

    Anno

    Tabella C – Legge Finanziaria

    Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza

    Decreto riparto/Intesa

    2009

    43.892

    43.751

    17 settembre 2009

    2010

    39.964

    39.964

    11 marzo 2010

    2011

    39.204

    35.188

    25 maggio 2011

    2012

    39.960

    39.960

    24 febbraio 2012



    Fondo per le politiche della famiglia

    Il Fondo istituito ai sensi dell'art. 19, comma 1, del decreto-legge 223/2006, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato ridisciplinato dalla finanziaria 2007 che ha fra l’altro istituito l’Osservatorio nazionale sulla famiglia. Le risorse destinate nel loro complesso alle politiche familiari sono assegnate mediante un apposito decreto di ripartizione. Dal 2010 le risorse afferenti al Fondo sono ripartite fra interventi relativi a compiti ed attività di competenza statale (cap. 858) ed attività di competenza regionale e degli enti locali (cap. 899).

    La materia politiche per la famiglia, nella strutturazione del bilancio statale, è ricompresa nella Missione 24 Diritti sociali, solidarietà sociale e famiglia, nello specifico Programma 24.7 "Sostegno alla famiglia" – Centro di responsabilità 15 "Politiche per la famiglia”. Dal 2010 i Capitoli di riferimento sono il cap. 858, “Fondo per le politiche per la famiglia", del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri e il cap. 899, titolato “Somme da destinare ad interventi per attività di competenza statale relative al Fondo per le politiche per la famiglia”, dello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

    Nell’ultimo quinquennio, gli stanziamenti finalizzati alle politiche di sostegno alla famiglia hanno registrato una considerevole riduzione. Nel 2011 il Fondo ha subito un forte ridimensionamento, legato, secondo quanto affermato  dal MEF, alla necessità di alimentare il costituendo Fondo per il federalismo, con conseguente azzeramento dei trasferimenti di risorse al sistema delle autonomie. Per quanto riguarda il 2010, a seguito dell’Intesa del 29 aprile 2010 in sede di Conferenza unificata, il decreto del 20 luglio 2010 ha stabilito il riparto delle risorse del Fondo per il 2010, ammontanti nel complesso ad 185.289.000 euro. Per quanto riguarda le attività di competenza regionale e degli enti locali, i 100 milioni di risorse disponibili sono stati ripartiti con l’intesa in sede di Conferenza unificata del 7 ottobre 2010 che li ha destinati in via prioritaria, al proseguimento dello sviluppo ed al consolidamento del sistema integrato di servizi socio-educativi per la prima infanzia e alla realizzazione di altri interventi a favore delle famiglie, assicurando che ad essi accedano prioritariamente le famiglie numerose o in difficoltà, sulla base della valutazione del numero e della composizione del nucleo familiare e dei livelli reddituali.

    I finanziamenti per il 2011, risultano pari a 52,5 milioni di euro, mentre nel Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 gli importi proposti sono: 52,535 milioni di euro per il 2012 e 31,391 milioni di euro per il 2013 e il 2014. Tali importi non sono stati confermati  dalla Legge di stabilità 2012 (L. 183/2011), che, come indicato nella tabella C, per il Fondo per le politiche della famiglia, indica per il 2012 31,994 milioni di euro, per il 2013 stanzia 21,184 milioni di euro, mentre per il 2014 indica 23,280 milioni.

    Per quanto riguarda le risorse 2011, non ripartite con decreto, la dotazione iniziale è stata successivamente e in più occasioni ritoccata in diminuzione dai tagli derivanti dal D.L. 78/2010, rispettivamente per euro 21.075.110 e euro 991.000, e dai tagli, per euro 21.440, apportati dal decreto-legge 225/2110, e dagli accantonamenti così detti per la “banda larga” pari a euro 5.316.167, che hanno determinato una consistenza effettiva di 25.062.434 euro.

    Per quanto riguarda il 2012, il 2 febbraio 2012 è stata sottoscritta un’Intesa in sede di Conferenza unificata sull’utilizzo di risorse da destinare al finanziamento di azioni per le politiche a favore della famiglia. I fondi, pari a 25 milioni di euro, spostati da precedenti capitoli di competenza statale e resi disponibili sui capitoli di pertinenza regionale e degli enti locali, sono stati messi a disposizione per garantire la continuità degli obiettivi di servizio relativi a: diffusione servizi per l’infanzia e presa in carico degli utenti dei servizi per l’infanzia (bambini 0-3 anni) e incremento della percentuale degli anziani beneficiari dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) dall’1,6 per cento al 3,5 per cento. Ai sensi dell’articolo 4 dell’Intesa, l’utilizzo delle risorse è monitorato da un Gruppo paritetico composto da rappresentanti del Dipartimento per le politiche della famiglia, MEF, regioni e PA, ANCI e UPI. Successivamente, nel corso della Conferenza unificata del 19 aprile 2012 sono state sancite tre Intese in materia di famiglia: sul Piano nazionale sulla famiglia; sul riparto per il 2012 delle risorse del Fondo per le politiche della famiglia; sull’utilizzo di risorse da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’ultima delle Intese ha stabilito i criteri di ripartizione delle risorse disponibili a valere sui capitoli di pertinenza Politiche della famiglia del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per complessivi 45 milioni di euro, da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e ad azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’Intesa stabilisce le modalità di attuazione, i tempi di realizzazione degli interventi e il monitoraggio. Le Regioni concorreranno ai finanziamenti secondo le rispettive disponibilità. Le risorse saranno ripartite previa sottoscrizione con ogni Regione di un accordo della durata di 24 mesi con l’indicazione dei servizi socio educativi e le azioni da finanziare in favore degli anziani e della famiglia, individuate dalle Regioni in accordo con le Autonomie Locali. I decreti di riparto del 9 maggio 2012 ripartiscono fra le regioni i complessivi 70 milioni. Quanto alla procedura per l'erogazione dei finanziamenti, l'intesa del 2 febbraio prevede che le risorse siano trasferite, in unica soluzione, alle Regioni a seguito di specifica richiesta, nella quale sono indicate le azioni da realizzare. L'intesa del 19 aprile prevede, invece, che le risorse siano erogate in due tranches, rispettivamente del 60% e del 40%, a seguito della sottoscrizione di accordi attuativi tra il Dipartimento per le politiche della famiglia e le singole Regioni e previa approvazione di specifici programmi regionali di intervento e relativo assenso dell'Anci.

    Come rinvenibile nella legge di bilancio 2013 (legge 229/2012), le risorse allocate nel Fondo per le politiche della Famiglia hanno una dotazione per il 2013 pari a 21 mln euro (nel 2012 era pari a 31,9 mln euro), 22,9 mln euro per il 2014, e 22,6 mln euro nel 2015.

    L'analisi complessiva del Fondo resa dalla Corte dei Conti nella Relazione sul Fondo per le politiche della famiglia (Deliberazione n. 2/2012/G) indica, per un contesto di particolare complessità e rilevanza quale quello delle politiche per la famiglia, la forte esigenza di privilegiare un'ottica strutturale e non più frammentata dei bisogni della persona. La Corte rileva la mancanza di un'ottica “Top down”, in grado di indirizzare appropriatamente i progetti a finalità diffuse e, come tali, da portare a sistema, ai quali è stata preferita l'ottica “bottom up”, rivelatasi di scarsa incisività, sia per le dimensioni degli interventi nonché per la loro gestibilità a fattor comune. La Corte sottolinea inoltre la carenza di un sistema di valutazione effettiva dei progetti, laddove esso appare imprescindibile in un contesto politico ed economico come quello attuale italiano, in cui gli obiettivi urgenti da raggiungere sono pesantemente condizionati dalla limitatezza delle risorse a disposizione. Aspetti critici sono stati rilevati per l'attività dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia, in un contesto nel quale si è ancora in attesa del varo del Piano Nazionale della Famiglia.

     

    Fondo nazionale per le politiche della famiglia (migliaia di euro)

    Anno

    Tabella C – Legge Finanziaria

    Fondo nazionale politiche per la famiglia

    Quota regioni e Province autonome

    Decreto riparto

    2009

     186.571

     186.571

    100.000

    3/02/2009

    2010

    185.289

    174.288

     100.000

    20/20/2010

    2011

    52.446

    25.062

     -

    -

    2012

    31.391

    70.000

    70.000

    Intese 2 febbraio e 19 aprile 2012
    Decreti di riparto 9 maggio 2012



    Fondo per le politiche giovanili

    Il Fondo per le politiche giovanili è stato istituito ai sensi dell’articolo 19, comma 2, del decreto-legge 223/2006, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una dotazione di 3 milioni di euro per l’anno 2006 e di dieci milioni di euro a decorrere dall’anno 2007. L’articolo 1, comma 1290, della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006) incrementa il Fondo di 120 milioni di euro per gli anni 2007, 2008 e 2009. Successivamente l’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 78/2010 ha disposto dal 2011 una riduzione lineare del 10 per cento delle dotazioni finanziarie iscritte a legislazione vigente nell’ambito delle spese rimodulabili di cui all’articolo 21, comma 5, lettera b) della L. 196/2009.

    Il Fondo è istituito al fine di promuovere il diritto dei giovani alla formazione culturale e professionale e all'inserimento nella vita sociale, anche attraverso interventi volti ad agevolare la realizzazione del diritto dei giovani all'abitazione, nonché per facilitare l'accesso al credito per l'acquisto e l'utilizzo di beni e servizi ed è destinato a finanziare azioni e progetti di rilevante interesse nazionale, nonché le azioni ed i progetti destinati al territorio, individuati di intesa con le Regioni e gli Enti Locali. Il decreto del 18 ottobre 2010 ha ripartito le risorse del Fondo per il 2010, pari a 81,087 milioni di euro, destinando alle azioni e ai progetti di rilevante interesse nazionale la somma di 33.181.019,40 euro e una quota di 47.905.980,60 euro al finanziamento delle azioni e dei progetti destinati al territorio, di cui 37.421.650,50 euro da ripartirsi fra le Regioni secondo i criteri indicati nell'Intesa sottoscritta nella Conferenza unificata del 7 ottobre 2010. I rimanenti 10.484.330,10 euro sono destinati a cofinanziare interventi proposti da Comuni e Province.

    Per il 2011 il Fondo risulta ridotto legislativamente. Come illustrato nelle premesse del decreto  4 novembre 2011 di riparto del Fondo, al capitolo n. 853 del bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei Ministri denominato Fondo per le politiche giovanili inizialmente viene assegnata una dotazione finanziaria di 32,909 milioni di euro. Successivamente il Fondo viene ridotto di 20,122 milioni di euro risultando pari, per il 2011; a 12, 787 milioni di euro,  di cui  10,941 milioni di euro destinati alle azioni e ai progetti sul territorio.

    Per il 2012, la legge di stabilità 2012 ha assegnato al Fondo risorse pari a circa 8,2 milioni di euro, incrementate successivamente di circa 1,6 milioni di euro. Nel giugno 2012 sono stati trasferiti alle regioni 6,7 milioni di euro. Il decreto 7 novembre 2012 destina pertanto poco meno di 4 milioni di euro - di cui quota parte risultanti dalle economie derivanti dall'esercizio 2011 - a progetti e azioni di rilevante interesse nazionale. 

    Come rinvenibile nella Legge di bilancio 2013 (legge 229/2012), le risorse allocate nel Fondo per le politiche della gioventù  risultano avere una dotazione per il 2013 corrispondente a 6,2 mln euro (nel 2012 era pari a 8,2 mln euro), 6,8 mln euro per il 2014 e 6,7 mln euro nel 2015.

     

    Fondo nazionale per le politiche giovanili (migliaia di euro)

    Anno

    Tabella C – Legge Finanziaria

    Fondo nazionale politiche giovanili

    Quota regioni e Province autonome

    Decreto riparto/Intesa

    2009

    Finanziaria 2007 130.000

    130.000.

    -

    -

    2010

    81.087

    81.087

    37.421

    Intesa 7/10/2010

    2011

    32.909

    12.787

    10.941

    Decreto riparto 4/11/2011

    2012

    8.180

    + 1.661 assegnate con decreto del MEF n. 21910 del 24 maggio 2012;  ; + 0, 849 quota parte delle economie risorse 2011

    -6.783 trasferiti alle regioni con decreto n. 39761 in data 1° giugno 2012; 0,849 trasferiti alle province con il decreto di riparto

    Decreto riparto 7/11/2012



    La Carta acquisti

    La carta acquisti, o social card, è stata istituita dall’articolo 81, comma 29,  del decreto-legge 112/2008 che ha disposto la creazione di un Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti.

    Ai sensi dell’articolo 81, comma 30, del decreto legge 112/2008, il Fondo è alimentato: a) dalle somme riscosse in eccesso dagli agenti della riscossione, ovvero dalla restituzione dei pagamenti effettuati in eccesso dai debitori dell’obbligazione tributaria iscritti a ruolo; b) dalle somme conseguenti al recupero dell’aiuto di Stato dichiarato incompatibile dalla decisione C(2008)869 def. dell’11 marzo 2008 della Commissione che riguarda gli incentivi fiscali a favore di taluni istituti di credito oggetto di riorganizzazione societaria; c) dal 5 per cento dell'utile netto annuale delle cooperative a mutualità prevalente; d) con trasferimenti dal bilancio dello Stato; e) con versamenti a titolo spontaneo e solidale effettuati da chiunque, ivi inclusi in particolare le società e gli enti che operano nel comparto energetico. Inoltre, l’articolo 61, comma 27, del D.L. 112/2008 inserisce nel corpo dell’articolo 1 della legge finanziaria 2006, il comma 345-bis che prevede che una quota parte del Fondo alimentato dall'importo dei conti correnti e dei rapporti bancari definiti dormienti all'interno del sistema bancario nonché del comparto assicurativo e finanziario sia destinata al Fondo Carta Acquisti. Il D.L. 155/2008 inserisce nel corpo dell’articolo 1 della legge finanziaria 2006 il comma 345-undecies che versa nel Fondo speciale Carta acquisti le somme derivanti dal recupero degli aiuti di Stato di cui alla decisione della Commissione europea del 16 luglio 2008, relativa all'aiuto di Stato C42/2006 (concernente benefici a favore delle attività bancarie di Poste Italiane Spa). Successivamente l’articolo 24, comma 29, della legge 88/2009, ridetermina il Fondo, integrandolo di 6 milioni di euro per l’anno 2009 e di 15 milioni di euro a decorrere dall’anno 2010. In ultimo, le risorse del Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti, sono state nuovamente integrate, ai sensi dell’articolo 24, comma 1, della legge 99/2009, con le risorse non impegnate al termine dell'esercizio finanziario 2008 e mantenute per l’anno 2009 nella disponibilità del fondo finalizzato ad iniziative a vantaggio dei consumatori, a sua volta costituito con le somme delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ex articolo 148 della legge 388/2000. Le risorse del Fondo affluiscono in un apposito conto corrente infruttifero presso la Tesoreria centrale dello Stato.

    Il Decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 ha individuato i titolari del beneficio, l’ammontare del beneficio unitario e le modalità di fruizione dello stesso, prevedendo la stipula di convenzioni tra i ministeri interessati ed il settore privato. In base a tali criteri, la Carta acquisti viene concessa, con onere a carico dello Stato, ai richiedenti residenti con cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, ovvero ai cittadini nella fascia di bisogno assoluto, di età uguale o superiore ai 65 anni o con bambini di età inferiore ai tre anni.

    Per effetto delle disposizioni normative che regolano la Carta Acquisti, gli importi di reddito e l'indicatore ISEE che regolano l'accesso al contributo, per il 2013, sono perequati al tasso di inflazione ISTAT. Pertanto, a partire dall'1 gennaio 2013, il limite massimo del valore dell'indicatore ISEE e dell'importo complessivo dei redditi comunque percepiti sono così rideterminati:

    La Carta, utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche, vale 40 euro al mese e viene caricata ogni due mesi con 80 euro, sulla base degli stanziamenti disponibili. L’articolo 19, comma 18, del decreto-legge 185/2008, ha inoltre riconosciuto, ai soggetti beneficiari della Carta acquisti, nel limite di spesa di 2 milioni di euro per l'anno 2009, l'accredito di un importo aggiuntivo mensile (pari a 25 euro) a titolo di concorso alle spese occorrenti per l'acquisto di latte artificiale e pannolini. In ultimo, è stato disposto, con decreto, l’accredito di un importo aggiuntivo mensile di 10 euro per i titolari della Carta Acquisti che siano utilizzatori, sul territorio nazionale, di gas naturale o GPL.

    Per incrementare gli stanziamenti dedicati, il decreto-legge 98/2011 ha previsto che una quota pari al 3 per cento delle spese annue per la pubblicità dei prodotti di gioco, a carico dei concessionari relativamente al gioco del lotto, alle lotterie istantanee ed ai giochi numerici a totalizzatore, sia destinata al rifinanziamento della Carta acquisti.

    Nel 2011 hanno beneficiato della carta acquisti oltre 535mila persone, per un importo complessivamente erogato pari a oltre 207 milioni di euro e 2.500 accrediti effettuati. Distinguendo la platea nelle sue due componenti di anziani (65 anni e oltre) e bambini (minori di 3 anni), nel complesso, i primi costituiscono circa il 49 per cento del totale, 419 mila soggetti a fronte di 438 mila bambini sotto i tre anni.

    In ultimo, l’articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha ribadito l’avvio di una fase di sperimentazione, della durata non superiore ai dodici mesi nei comuni con più di 250.000 abitanti, sottolineando l’obiettivo di utilizzare la carta acquisti come strumento di contrasto alla povertà assoluta tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno. Per le risorse necessarie alla sperimentazione si è provveduto, nel limite massimo di 50 milioni di euro. I comuni destinatari della sperimentazione, Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Venezia, Verona, Genova, Bologna, Bari, Catania e Palermo, potranno integrare le risorse loro assegnate vincolando l’utilizzo dei propri contributi a usi specifici, da definire con apposito protocollo d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Anche i soggetti privati che effettuerano versamenti a titolo spontaneo e solidale sul Fondo potanno vincolare l’utilizzo dei propri contributi a specifici utilizzi anche a supporto della Sperimentazione.

    La nuova Carta acquisti sperimentale, rispetto alla Carta ordinaria, che continuerà comunque ad operare, è pensata e rimodellata per le famiglie numerose con una situazione economica estremamente difficile (ISEE in corso di validità inferiore o uguale a 3000 euro, conclamato disagio lavorativo e minori a carico).

    Le modalità attuative, fra cui la decorrenza della sperimentazione, devono essere determinate da un decreto interministeriale che definirà i criteri di identificazione, per il tramite dei Comuni, dei beneficiari della social card con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell'Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo nonché l'ammontare, in funzione del nucleo familiare, della disponibilità sulle singole carte acquisto.

    Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha varato l'11 gennaio 2013, il Decreto Interministeriale attuativo della carta acquisti 2013, ora all'esame della Corte dei Conti, in attesa pertanto di essere pubblicato sulla G.U.. 

    Il decreto interministeriale dopo aver ribadito i criteri di identificazione, per il tramite dei Comuni, dei beneficiari della social card, stabilisce che gli stessi comuni, responsabili della selezione dei beneficiari dovranno stilare a tal fine, entro 120 giorni dall’entrata in vigore del decreto, una graduatoria. Gli enti locali, responsabili della selezione dei beneficiari, potranno utilizzare la nuova social card integrandola con gli interventi e i servizi sociali ordinariamente erogati, coordinandola in rete con i servizi per l’impiego, i servizi sanitari e la scuola.

    In attesa della riforma dell’indicatore ISEE, i requisiti concernenti la condizione economica dei nuclei familiari beneficiari prevedono fra l’altro: un ISEE, in corso di validità, inferiore o uguale a euro 3.000; per i nuclei familiari residenti in abitazione di proprietà, valore ai fini ICI della abitazione di residenza inferiore a euro 30.000; patrimonio mobiliare, come definito ai fini ISEE, inferiore a euro 8.000; valore complessivo di altri trattamenti economici, anche fiscalmente esenti, di natura previdenziale, indennitaria e assistenziale, a qualunque titolo concessi dallo Stato o da altre pubbliche amministrazioni a componenti il nucleo familiare, inferiore a 600 euro mensili. Nessun componente il nucleo familiare deve inoltre risultare in possesso di autoveicoli immatricolati nei 12 mesi antecedenti la richiesta, ovvero in possesso di autoveicoli di cilindrata superiore a 1.300 cc, nonché motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati nei tre anni antecedenti. Le famiglie beneficiarie dovranno contare almeno un componente di età minore di 18 anni e la precedenza per l'accesso al beneficio sarà assegnata, a parità di condizioni, ai nuclei in condizioni di disagio abitativo, accertato dai competenti servizi del Comune nonché alle famiglie costituite esclusivamente da genitore solo e figli minorenni, con tre o più figli minorenni o con uno o più figli minorenni con disabilità. Per quanto riguarda i requisiti concernenti la condizione lavorativa, la Carta sperimentale viene assegnata in assenza di lavoro per i componenti in età attiva del nucleo familiare o per avvenuta cessazione di un rapporto di lavoro dipendente o autonomo. Ulteriori requisiti possono essere definiti dai comuni d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il MEF.

    La carta è modulata sulla base della numerosità del nucleo familiare. Il beneficio parte da un valore minimo di 231 euro al mese per nuclei con due persone, sale a 281 euro per quelli con tre persone, a 331 euro per quattro persone e a 404 euro se la famiglia ha cinque o più componenti.

    Il decreto impegna i comuni a predisporre, per almeno metà e non oltre i due terzi dei nuclei familiari beneficiari, un progetto personalizzato di presa in carico, finalizzato al superamento della condizione di povertà, al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale. I comuni provvedono alla realizzazione dei progetti personalizzati con risorse proprie, nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziare disponibili a legislazione vigente e nell'ambito degli equilibri di finanza pubblica programmati. Il progetto di presa in carico è predisposto mediante la partecipazione dei componenti del nucleo familiare che lo sottoscrivono per adesione. La mancata sottoscrizione del progetto è motivo di esclusione dal beneficio.

    Approfondimento: Asili nido e servizi socio-educativi per la prima infanzia

     



    Le risorse

    Il Piano straordinario di interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi, approvato il 26 settembre 2007 in Conferenza Unificata, ha previsto un piano di finanziamenti, nel triennio 2007-2009, per conseguire entro il 2010 l'obiettivo comune europeo della copertura territoriale del 33 per cento per la fornitura di servizi per l’infanzia (bambini al di sotto dei tre anni), come fissato dall’Agenda di Lisbona. Il Piano, varato con la finanziaria 2007, ha previsto un finanziamento statale pari a 446 milioni di euro per l'incremento dei posti disponibili nei servizi per i bambini da zero a tre anni, a cui si sono aggiunti circa 281 milioni di cofinanziamento locale, per un totale di 727 milioni di euro stanziati. Con riferimento al Piano nidi triennale, risultano erogate il 96 per cento delle risorse statali stanziate per il Piano, ovvero 429 milioni dei 446 stanziati. L’attuazione del Piano è sottoposta a un monitoraggio semestrale a cura del Dipartimento per le politiche della famiglia e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che, attraverso il Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza e l’Istat predispongono rapporti e statistiche in materia.

    Il 2 febbraio 2012 è stata sottoscritta un’Intesa in sede di Conferenza unificata sull’utilizzo di risorse da destinare al finanziamento di azioni per le politiche a favore della famiglia. I fondi, pari a 25 milioni di euro, spostati da precedenti capitoli di competenza statale del Fondo per le politiche familiari sono stati resi disponibili sui capitoli di pertinenza regionale e degli enti locali e messi a disposizione per garantire la continuità degli obiettivi di servizio relativi a: diffusione servizi per l’infanzia e presa in carico degli utenti dei servizi per l’infanzia (bambini 0-3 anni) e incremento della percentuale degli anziani beneficiari dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) dall’1,6 per cento al 3,5 per cento. Le regioni concorrono al finanziamento per quanto nelle loro disponibilità. Ai sensi dell’articolo 4 dell’Intesa, l’utilizzo delle risorse è monitorato da un Gruppo paritetico composto da rappresentanti del Dipartimento per le politiche della famiglia, MEF, regioni e PA, ANCI e UPI.

    Il 19 aprile 2012 è stata sancita, in sede di Conferenza unificata, una Intesa sull’utilizzo di risorse da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e azioni in favore degli anziani e della famiglia che ha stabilito i criteri di ripartizione delle risorse disponibili a valere sui capitoli di pertinenza Politiche della famiglia del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per complessivi 45 milioni di euro, da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e ad azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’Intesa stabilisce le modalità di attuazione, i tempi di realizzazione degli interventi e il monitoraggio. Le Regioni concorreranno ai finanziamenti secondo le rispettive disponibilità. Le risorse saranno ripartite previa sottoscrizione con ogni Regione di un accordo della durata di 24 mesi con l’indicazione dei servizi socio educativi e le azioni da finanziare in favore degli anziani e della famiglia, individuate dalle Regioni in accordo con le Autonomie Locali.

     



    Le rette degli asili nido

    Gli asili nido comunali rientrano nella gamma dei servizi a domanda individuale resi dal Comune a seguito di specifica domanda dell’utente. Nel caso degli asili nido, il livello minimo di copertura richiesta all’utente è del 50 per cento, ma le rette variano sensibilmente da comune a comune poiché la misura percentuale di copertura dei costi di tutti i servizi a domanda individuale da parte dell’utenza viene definita al momento dell’approvazione del Bilancio di previsione comunale. Le rette sono determinate nel 75 per cento dei casi in base all’Isee, nel 20 per cento dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5 per cento la retta è unica.

    L’indagine dell’Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva del novembre 2012, prende in considerazione una famiglia composta da tre persone (genitori più un bambino di 0-3 anni) che percepisce un reddito lordo annuo pari a 44.200 euro. Oggetto della ricerca sono state le rette applicate al servizio di asilo nido comunale per la frequenza a tempo pieno (in media 9 ore al giorno) e, dove non presente, a tempo breve (in media 6 ore al giorno), per cinque giorni a settimana. Secondo tale analisi, una famiglia italiana spende circa 302 euro al mese per mandare il proprio bambino all’asilo nido comunale. Sebbene la spesa media annua a livello nazionale sia rimasta invariata rispetto all’anno precedente, si registrano invece numerose variazioni, in aumento ed in diminuzione, nelle varie aree territoriali del Paese. I costi medi più elevati appurati nell’anno scolastico 2011/12, si registrano nelle città settentrionali, con un aumento di oltre il 16 per cento rispetto all’anno precedente. Segue il Centro con un aumento del 6 per cento circa, mentre nelle aree meridionali si registra una diminuzione delle tariffe di oltre il 20 per cento. La regione mediamente più economica è la Calabria (114 euro) e quella più costosa è la Valle d’Aosta (413 euro) seguita dalla Lombardia (403 euro).

    Per quanto riguarda le liste di attesa, dall’analisi di dati in possesso al Ministero degli Interni e relativi al 2009, emerge che il numero degli asili nido comunali ammonta a 3.424 (-0,4 per cento rispetto al 2008) con una disponibilità di 141.210 posti (+0,8 per cento rispetto al 2008). In media il 25 per cento dei richiedenti rimane in lista d’attesa.



    Diffusione territoriale dei servizi per l'infanzia

    Secondo quanto riportato dall’Istat, nell'anno scolastico 2010/2011 risultano iscritti agli asili nido comunali 157.743 bambini tra zero e due anni di età, mentre altri 43.897 bambini usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti dell'offerta pubblica complessiva.

    Nel 2010 la spesa impegnata per gli asili nido da parte dei Comuni o, in alcuni casi, da altri Enti territoriali delegati dai Comuni, è di circa 1 miliardo e 227 milioni di euro, al netto delle quote pagate dalle famiglie.

    Gli asili nido e gli altri servizi socio-educativi per la prima infanzia rappresentano una componente importante dell’offerta pubblica di servizi sociali per i cittadini. Infatti, i Comuni spendono per questi servizi circa il 18 per cento delle risorse dedicate al welfare locale, per un totale di circa 1 miliardo e 273 milioni di euro nel 2010 (al netto delle quote pagate dalle famiglie).

    Anche i cittadini concorrono al funzionamento del servizio, sostenendo una parte dei costi. Il contributo delle famiglie, sotto forma di rette versate ai Comuni, ammonta a 275 milioni di euro. Si rilevano inoltre circa 352 mila euro come compartecipazione alla spesa da parte del Servizio Sanitario Nazionale, per un totale di circa 1 miliardo e 502 milioni di spesa impegnata a livello locale.

    Fra il 2004 e il 2010 la spesa corrente per asili nido, al netto della compartecipazione pagata dagli utenti, ha mostrato un incremento complessivo del 44,3 per cento, che scende al 26,9 per cento se calcolato a prezzi costanti. Nello stesso periodo è aumentato del 38 per cento (oltre 55 mila unità) il numero di bambini iscritti agli asili nido comunali o sovvenzionati dai Comuni.

    Il rapporto fra la spesa sostenuta nell’arco di un anno e il numero degli utenti al 31 dicembre dello stesso anno fornisce un’indicazione approssimativa dei costi sostenuti dagli enti pubblici e dalle famiglie per questo tipo di servizio. in media, per ciascun utente, si ottiene una spesa di 6.086 euro a carico dei comuni e di 1.362 euro da parte delle famiglie, per un totale di 7.448 euro impegnati per bambino nel 2010.

    La spesa per asili nido comprende anche i contributi e le integrazioni alle rette pagati dai Comuni per gli utenti di asili nido privati, convenzionati o sovvenzionati dal settore pubblico. In questo caso la spesa media per utente è decisamente inferiore rispetto ai costi di funzionamento delle strutture comunali.

    La percentuale di Comuni che offrono il servizio di asilo nido, sotto forma di strutture comunali o di trasferimenti alle famiglie che usufruiscono delle strutture private, ha registrato un progressivo incremento: dal 32,8 per cento del 2003/2004 al 47,4 per cento del 2010/2011. Di conseguenza, i bambini tra zero e due anni che vivono in un Comune che offre il servizio sono passati dal 67 per cento al 76,8 per cento (indice di copertura territoriale). E’ da sottolineare che entrambi gli indicatori mostrano una lieve riduzione nell’ultimo anno.

    Nonostante il generale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003/2004 all'11,8 per cento del 2010/2011.

    All'offerta tradizionale di asili nido si affiancano i servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia, che comprendono i "nidi famiglia", ovvero servizi organizzati in contesto familiare, con il contributo dei Comuni e degli enti sovracomunali. Nel 2010/2011 il 2,2 per cento dei bambini tra zero e due anni ha usufruito di tale servizio, quota che è rimasta pressoché costante nel periodo osservato. Questi servizi non sono particolarmente diffusi sul territorio nazionale, ma rappresentano una realtà significativa in alcuni contesti, come nella Provincia di Bolzano, dove si trovano i livelli più alti di utilizzo di queste strutture in termini di presa in carico degli utenti (13,4% dei bambini fra 0 e 2 anni). Per quanto riguarda la loro distribuzione territoriale, i Comuni che hanno attivato servizi integrativi si riducono drasticamente passando dal Nord-est (26,9%) alle Isole (10,7%). Complessivamente, dunque, risulta pari al 14 per cento la quota di bambini che si sono avvalsi di un servizio socio-educativo pubblico e al 55,2 per cento quella di Comuni che offrono asili nido o servizi integrativi per la prima infanzia.

    A livello comunale, nonostante i segnali di miglioramento che caratterizzano la diffusione sul territorio dell’offerta pubblica di servizi per la prima infanzia, permangono forti disparità nelle opportunità di accesso ai servizi a seconda della regione di residenza.

    Il Nord-est mantiene livelli superiori rispetto al resto d’Italia, con un incremento continuo dell’offerta comunale che porta l’indicatore di presa in carico al 16,8% nel 2010/2011. L’Emilia-Romagna, in particolare, conserva il primato per la diffusione degli asili nido in termini di numerosità degli utenti (pari al 25,4% dei bambini tra zero e due anni), mentre, con il Friuli-Venezia Giulia e la Valle D’Aosta, è fra le regioni in cui è maggiormente presente il servizio in termini di percentuale di comuni coperti.

    Nelle regioni del Centro si è registrato un aumento considerevole dell’offerta, dovuto prevalentemente all’Umbria e al Lazio. Nel primo caso la crescita è significativamente elevata a partire dal 2008 in conseguenza del potenziamento dei contributi erogati dai comuni per l’abbattimento delle rette, consentendo alla regione di conseguire uno dei più alti indicatori di presa in carico (22,3%). Il Lazio, invece, mostra un incremento graduale negli anni osservati. In termini di bambini iscritti su 100 residenti fra zero e due anni, i comuni del centro Italia oltrepassano dal 2004/2005 la media del Nord-ovest e nel 2010/2011 raggiungono valori molto vicini alla media del Nord-est.

    Permangono decisamente inferiori alla media nazionale i parametri riscontrati per le regioni del Sud e per le Isole, dove il lievissimo ma continuo incremento dell’offerta osservato a partire dal 2003/2004 sembra subire un arresto nell’ultimo anno.

    Nella maggior parte delle regioni nel 2010/2011 si registra una diminuzione della quota di bambini iscritti in rapporto ai residenti (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria). La Sicilia e la Campania mostrano invece variazioni di segno positivo ma di poco rilievo, mantenendo quindi livelli di presa in carico molto contenuti (5,2% e 1,9% rispettivamente). La Sardegna, con un ulteriore incremento della presa in carico degli utenti (da 10,9% a 13,6%), si distanzia decisamente dai valori osservati nel resto del Mezzogiorno.

    Dal punto di vista dell’assetto organizzativo, l’offerta degli asili nido è gestita quasi interamente dai Comuni singoli (97,7%); la gestione in forma associata fra Comuni limitrofi riguarda quindi il 2,3% della spesa impegnata complessivamente. Fra le forme associative che concorrono all’erogazione dei servizi sul territorio vi sono le Unioni di Comuni, gli Ambiti e i Distretti sociali, le Comunità montane, le ASL, i Consorzi di Comuni e altre forme associative, con modelli organizzativi variabili a livello regionale.

    Approfondimento: La non autosufficienza

    Rispetto al resto d’Europa, l’Italia si distingue per una serie di fattori combinati: la bassa natalità, il forte invecchiamento della popolazione, l’età più avanzata a cui si arriva al matrimonio e anche al primo figlio nonché la permanenza dei figli, già adulti, all’interno della famiglia d’origine.

    Al 1° gennaio 2012, la struttura per età della popolazione italiana ci parla di un paese con un elevato livello di invecchiamento: la fascia di età compresa tra 0-14 anni è pari al 14 per cento, quella fra i 15-64 anni al 65,3 per cento, mentre la fascia di età dei 65 anni e oltre risulta pari al 20,6 per cento. I dati del 2009 e del 2010 confermano che è nuovamente in atto una fase di calo delle nascite: circa 15 mila in meno in due anni.

    In base ai dati forniti dall’Istat, nel sito dedicato Disabilità in cifre , nel 2005 le persone in condizione di disabilità assistite in famiglia erano circa 2.600.000 (pari al 4,8 per cento della popolazione), cui si aggiungevano 200.000 disabili minori di 6 anni, mentre erano 192.000 i disabili o gli anziani non autosufficienti ospiti nei presidi residenziali socio-assistenziali, facendo ritenere che complessivamente in una famiglia su dieci vivesse almeno un componente con problemi di disabilità.

    Secondo stime più recenti, Fondazione Cesare Serono e Censis , nel 2010, la quota di persone con disabilità sul totale della popolazione risulta pari al 6,7%: circa 4,1 milioni di persone. Applicando a questo dato il tasso di crescita della popolazione disabile previsto dall’Istat, si prevede che nel 2020 le persone disabili arrivino a 4,8 milioni (7,9% della popolazione), e che il numero raggiunga i 6,7 milioni nel 2040 (10,7%).

    Se si considera la correlazione fra invecchiamento e non autosufficienza, l’Indagine Istat del 2005, Condizione di salute e ricorso ai servizi sanitari , ha poi rilevato che il 18,5% degli ultra 65enni (2,1 milioni di persone) riporta una condizione di totale mancanza di autosufficienza per almeno una delle funzioni essenziali della vita quotidiana.

    Per arrivare a rilevazioni più recenti, può essere utile riferirsi all’indagine Istat Inclusione sociale delle persone con limitazioni dell’autonomia personale del dicembre 2012. Lo studio rileva che nel 2011 circa 4 milioni di persone di 11-87 riferiscono difficoltà nelle funzioni motorie, sensoriali o nelle attività essenziali della vita quotidiana. La maggior parte di esse riferisce di avere limitazioni gravi (52,7%), ovvero il massimo grado di difficoltà, in almeno una delle funzioni della mobilità e della locomozione legate agli atti necessari a determinare un autonomo svolgimento della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, spogliarsi, mangiare, ecc) o della comunicazione (vedere, sentire, parlare). Oltre la metà (51,5%) ha più di 75 anni.



    Le risorse

    Attualmente, la spesa pubblica rivolta agli anziani e ai disabili non autosufficienti, nota anche come spesa per Long Term Care (LTC), include la componente sanitaria, la spesa per indennità di accompagnamento e la spesa per gli interventi socio-assistenzialierogati prevalentemente in natura a livello locale dai comuni singoli o associati a favore degli anziani non autosufficienti, dei disabili, dei malati psichici e delle persone dipendenti da alcool e droghe.

    Nel 2011, la spesa pubblica complessiva per LTC ammonta all’1,8per cento del PIL, di cui circa due terzi erogata a soggetti con più di 65 anni. In termini relativi, la componente sanitaria della spesa totale per LTC rappresenta il 46 per cento del totale contro quasi il 43 per cento della spesa per indennità di accompagnamento. Le altre prestazioni assistenziali coprono, invece, circa il 11 per cento.

    Nelle previsioni di medio lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, la Ragioneria generale dello Stato fornisce indicazioni circa il volume della spesa dedicata alla componente sanitaria della spesa per LTC comprendente l’insieme delle prestazioni sanitarie erogate a persone non autosufficienti che, per senescenza, malattia cronica o limitazione mentale, necessitano di assistenza continuativa. La componente sanitaria della spesa pubblica per LTC dell’anno 2011 è pari allo 0,85% del PIL, che corrisponde a circa il 12% della spesa sanitaria complessiva.

    La Ragioneria generale evidenzia come nei modelli previsionali la componente demografica costituisca un fattore di forte espansione del rapporto fra spesa sanitaria per LTC e PIL. L’invecchiamento della popolazione, ed il conseguente aumento degli anziani, si traduce infatti in un maggior consumo di prestazioni riconducibili all’aggregato LTC.

    La componente sanitaria della spesa per LTC comprende l’insieme delle prestazioni sanitarie erogate a persone non autosufficienti che, per senescenza, malattia cronica o limitazione mentale, necessitano di assistenza continuativa. In Italia, tale componente include, oltre all’assistenza territoriale rivolta agli anziani e ai disabili (disarticolata in assistenza ambulatoriale e domiciliare, assistenza semi-residenziale ed assistenza residenziale), l’assistenza psichiatrica, l’assistenza rivolta agli alcolisti e ai tossicodipendenti e l’assistenza ospedaliera erogata in regime di lungodegenza.

    Oltre alla spesa per la componente sanitaria, viene considerata la spesa per un insieme di prestazioni eterogenee accomunate solo sotto il profilo della finalità perseguita. Una misura della dimensione di tale componente di spesa, indicata come altre prestazioni LTC, può essere dedotta dai conti della protezione sociale della contabilità nazionale. In particolare, le principali poste contabili attribuibili a queste prestazioni si collocano nella funzione “Assistenza” in corrispondenza dei due eventi/bisogni “Invalidità” e “Vecchiaia”.

    Le prestazioni in natura erogate prevalentemente in natura a livello locale dai comuni singoli o associati a favore degli anziani non autosufficienti, dei disabili, dei malati psichici e delle persone dipendenti da alcool e droghe possono essere di tipo residenziale o semiresidenziale. Le prime vengono erogate in istituti quali le residenze socio sanitarie per anziani o le comunità socio-riabilitative, le seconde si riferiscono alle prestazioni erogate in strutture semiresidenziali come i centri diurni e i centri di aggregazione o direttamente presso l’abitazione dell’assistito (assistenza domiciliare).

    Per il 2011, la spesa pubblica relativa all’insieme delle prestazioni per LTC, di natura non sanitaria e non riconducibili alle indennità di accompagnamento, viene stimata intorno a 3,3 miliardi di euro (0,2 per cento in termini di PIL), di cui il 60 per cento è riferibile a prestazioni di natura non-residenziale, il 23 per cento a prestazioni di natura residenziale ed il rimanente 17 per cento a trasferimenti in denaro.

    I trasferimenti in denaro possono essere sia i contributi economici erogati direttamente agli utenti, sia i contributi erogati ad altri soggetti perché forniscano servizi con agevolazioni sui ticket, sulle tariffe o sulle rette a particolari categorie di utenti. Rientra in questa sezione anche l’integrazione (o il pagamento per intero) delle rette per prestazioni residenziali o semiresidenziali in strutture di cui il comune non sia titolare. Pertanto sono una quota, peraltro residuale, dei trasferimenti in denaro corrisponde a prestazioni sociali in denaro, in quanto la parte preponderante afferisce a prestazioni sociali in natura.



    L'offerta sociosanitaria

    La carenza di servizi pubblici rivolti agli anziani fragili ha molto spesso determinato l’assegnazione alle famiglie del carico assistenziale e di cura  necessario per la sopravvivenza dell’anziano non autosufficiente. Sono ancora le donne, nonostante molte di loro lavorino, ad assumersi la responsabilità di provvedere a tutte le funzioni necessarie per il soddisfacimento dei bisogni primari (igiene personale, alimentazione, sostegno nel movimento) del parente od affine spesso nemmeno convivente. Il Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno sottolinea come “un sistema di welfare basato prevalentemente sulle reti familiari, sull’aiuto tra generazioni di madri e figlie, e sul lavoro gratuito delle donne, che supplisce alle debolezze del welfare pubblico, sia nel lungo periodo improponibile”.

    Il quadro demografico evidenzia pertanto la necessità di porre particolare attenzione alle politiche dedicate alla non autosufficienza, sia sotto il profilo sanitario che dell’integrazione sociosanitaria e prettamente sociale.

    L‘articolo 22, comma 2, della legge quadro 328/2000 di riforma del sistema integrato di servizi ed interventi sociali indica gli interventi che costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale. Ferme restando le competenze del SSN in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, per la non autosufficienza vengono indicate: misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio e interventi per favorire la permanenza a domicilio o, per coloro che non siano assistibili a domicilio, interventi per l'inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l'accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali. In relazione a quanto indicato, le leggi regionali hanno previsto per ogni ambito territoriale l'erogazione delle prestazioni riferibili all’assistenza domiciliare e alle strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti fragili.

    Per un analisi più puntuale delle varie componenti della rete di servizi per l'autosufficienza si rinvia all'Indagine pilota sull’offerta dei servizi sociali per la non autosufficienza.



    Assistenza domiciliare integrata

    Il Rapporto annuale Istat 2012, ci fornisce una fotografia puntuale dell’assistenza domiciliare integrata (Adi), ovvero della presa in carico di pazienti a domicilio per prestazioni di medicina generale, di medicina specialistica, per prestazioni infermieristiche e riabilitative, ma anche per prestazioni di assistenza sociale. Le cure domiciliari sono particolarmente utilizzate e considerate efficaci in persone compromesse nel grado di autonomia per malattia o disabilità: i pazienti post-acuti dimessi dall’ospedale che corrono rischi elevati di una nuova ospedalizzazione, i pazienti cronici, i pazienti oncologici, gli adulti affetti da gravi patologie e, naturalmente, gli anziani. Gli anziani sono la tipologia numericamente più consistente di pazienti in carico, considerato che da studi longitudinali è emerso che il 75% dei pazienti è di età superiore ai 74 anni. D’altra parte, il numero di anziani trattati per 100 residenti di 65 anni e oltre è andato fortemente aumentando nel tempo, passando da 2,0 nel 2001 a 4,1 nel 2010.



    I servizi residenziali

    Le prestazioni residenziali sono individuate dal D.P.C.M. 14 febbraio 2001, atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie, e dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 di determinazione dei Livelli essenziali di assistenza, che nell’allegato 1.C evidenzia, per le singole tipologie erogative di carattere socio sanitario, accanto al richiamo alle prestazioni sanitarie anche quelle sanitarie di rilevanza sociale ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo a carico del SSN non inferiore al 50% del costo globale della prestazione. La restante quota rimane a carico dell'utente o del Comune.

    La recente indagine dell’Istat sui Presidi socio-assistenziali e socio sanitari fotografa la situazione italiana nel 2010. A quella data, i presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari sono 12.808, per complessivi 424.705 posti letto (7 ogni 1.000 persone residenti). La componente prevalente dell'offerta residenziale è rappresentata da "unità di servizio" che svolgono una funzione di tipo socio-sanitario e sono destinate ad accogliere prevalentemente anziani non autosufficienti, che occupano oltre i due terzi dei posti letto (72%). La restante quota dell'offerta è di tipo socio-assistenziale.

    Come avviene per i servizi socio-educativi, si riscontrano forti differenze nella diffusione territoriale, con le regioni del Nord in cui si colloca il 66% dei posti letto complessivi, con un tasso di 10 posti letto ogni 1.000 residenti; e il Sud dove la quota di offerta è  pari a 3 posti letto ogni mille residenti.

    Nei presidi residenziali sono assistite 394.374 persone: circa 295 mila sono anziani con almeno 65 anni (il 75%), poco più di 80 mila sono adulti tra i 18 e i 64 anni (20%) e circa 19 mila sono minori con meno di 18 anni (5%).

    Gli anziani hanno, nella metà dei casi, oltre 85 anni, mentre il 74% degli ospiti anziani risulta in condizioni di non autosufficienza. Molto sbilanciato il rapporto tra generi: su circa 295 mila anziani ospiti dei presidi residenziali, oltre 220 mila sono donne.

    Nel 70% dei casi i titolari di queste strutture residenziali sono enti privati. In oltre i due terzi delle residenze sono gli stessi titolari a gestire direttamente il presidio. I titolari pubblici che non gestiscono direttamente le strutture si affidano più frequentemente ad altre istituzioni pubbliche nel Nord (53% dei casi), mentre nel Centro e nel Mezzogiorno affidano la gestione più spesso al settore privato (rispettivamente nel 54% e nell'83% dei casi).

    Approfondimento: Welfare locale

    Nel 2009 i Comuni italiani, in forma singola o associata, hanno destinato agli interventi e ai servizi sociali 7,2 miliardi di euro, un valore pari allo 0,46 per cento del Pil nazionale.

    Il seguente paragrafo è una sintesi del Capitolo 4.3.2 del Rapporto annuale 2012 dell’Istat , dedicato agli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati nel 2009. La spesa per gli interventi e per i servizi sociali offerti dai Comuni singolarmente o in forma associata, viene calcolata al netto delle quote pagate dagli utenti per i servizi fruiti e della quota, erogata dal Servizio Sanitario Nazionale, per la componente sanitaria dell’assistenza fornita dai Comuni. Per ottenere l’ammontare complessivo della spesa corrente a livello locale per il funzionamento della rete territoriale dei servizi, si devono quindi sommare ai 7,2 miliardi di euro a carico dei Comuni (o degli enti gestori da loro delegati), le spese a carico degli utenti e le quote di compartecipazione pagate dall’SSN.

    Rispetto al 2008, la spesa è aumentata del 5,1 per cento, ma con forte differenze nelle macro aeree del Paese: è diminuita dell’1,5 per cento al sud, mentre le variazioni in tutte le altre zone del paese sono state di segno positivo (6,0 per cento nel Nord-est, 4,2 per cento nel Nord-ovest e 5,0 per cento al Centro). Inoltre, mentre i comuni del Centro-Nord finanziano le politiche sociali principalmente con risorse proprie, nel Mezzogiorno il welfare locale risulta finanziato in misura maggiore dai trasferimenti statali e regionali per le politiche sociali.

    La spesa media pro capite ammonta a 116 euro con forti differenze territoriali. La spesa per abitante varia da un minimo di 26 euro in Calabria (30 euro nel 2008) a un massimo di 295 euro nella provincia autonoma di Trento (280 euro nel 2008). Nel corso del 2009 i comuni del Sud hanno speso mediamente, per i servizi sociali, meno di un terzo  di quanto hanno speso i comuni del Nord-est e meno della metà rispetto a tutte le altre ripartizioni, comprese le Isole. La Sardegna è l’unica regione del Mezzogiorno che fa eccezione, presentando livelli di spesa pro capite (199 euro) paragonabili a quelli delle regioni del Nord con spesa più elevata.

    Come già detto, i Comuni possono rispondere in maniera molto diversa ai bisogni sociali dei cittadini. L’Istat , tenendo conto dei livelli di spesa e della varietà dei servizi, ha individuato quattro profili principali rispetto alle modalità di spesa ed intervento:

     

    Le differenze di spesa osservate sono marcate anche in riferimento ai tipi di utenza.

    Un disabile usufruisce di servizi e contributi da parte dei comuni per una spesa annuale di quasi 2.700 euro; con un minimo per i disabili residenti al Sud di 667 euro l’anno; circa otto volte meno di quanto si spende al Nord-est (5.438 euro l’anno). Nell’ambito dell’assistenza ai disabili prevalgonole spese per interventi e servizi (circa il 51 per cento): in questo caso, la principale voce di spesa è il sostegno socio-educativo scolastico, con oltre 5.300 euro per utente in un anno; seguono i servizi a carattere domiciliare e il trasporto sociale. La rimanente spesa per le persone disabili si divide quasi equamente tra contributi economici e spese di funzionamento delle strutture. L’offerta di strutture di tipo residenziale per persone con disabilità è presente nel 58 per cento dei comuni, con una copertura del 97 per cento nel Nord-est a fronte del 14 per cento nel Sud. La spesa pro capite per l’assistenza e gli aiuti alle persone con disabilità al Sud ammonta al 14 per cento di quella impegnata al Nord, nonostante che nelle regioni meridionali si registri un tasso di disabilità superiore del 66 per cento.

     

    La spesa media dei comuni italiani per l’assistenza agli anziani è di 117 euro l’anno per ciascun residente di età superiore a 65 anni, con un minimo di 52 euro pro capite al sud (sette euro pro capite in meno rispetto al 2008) e un massimo di 164 euro al Nord-est. Le risorse destinate agli anziani sono in gran parte destinate a interventi e servizi (circa il 52 per cento), il più rilevante dei quali è l’assistenza domiciliare. Vi sono poi diversi tipi di contributi economici (pari al 27 per cento della spesa per gli anziani), la maggior parte dei quali riferibile al pagamento di rette per l’accoglienza in strutture residenziali. Il rimanente 20 per cento della spesa per gli anziani è destinato al finanziamento di strutture, principalmente a carattere residenziale. Anche in questo caso la spesa pro capite al sud è più bassa di quella del nord (meno di un terzo), pur a fronte di un maggior numero di anziani in cattiva salute e una speranza di vita più bassa.

    Nell’area dell’assistenza a famiglie e minori, su cui confluisce quasi il 40 per cento della spesa sociale dei comuni, prevalgono le risorse destinate al funzionamento di strutture, principalmente gli asili nido per bambini da zero a due anni. Negli ultimi anni l’ampliamento dell’offerta di nidi pubblici è stata oggetto di importanti politiche di sviluppo volte a incentivare la creazione di nuovi posti in strutture socio-educative per la prima infanzia nelle regioni del mezzogiorno, tradizionalmente e fortemente svantaggiate dal punto di vista della diffusione territoriale dei servizi.

    Approfondimento: Politica regionale di sviluppo - Piano azione coesione



    Piano Azione Coesione

    Come sottolineato dal Rapporto annuale Istat per il 2012, negli anni della recente crisi, permane e si aggrava il forte differenziale Nord-Sud. Nel Mezzogiorno, le opportunità lavorative per le donne e i giovani sono minori e forti differenziali si rilevano anche nella dotazione dei servizi sociali erogati dai comuni, quali gli asili nido e l’assistenza fornita ai non autosufficienti.

    In tale contesto, si è ritenuto che la politica regionale di sviluppo, a cui fa riferimento il Quadro Strategico Nazionale (QSN), previsto formalmente dall’art. 27 del Regolamento Generale sui Fondi strutturali europei, possa dare un forte contributo alla riduzione della persistente sottoutilizzazione di risorse del Mezzogiorno.

    La politica regionale di sviluppo è specificatamente diretta a garantire che gli obiettivi di competitività siano raggiunti da tutti i territori regionali, anche e soprattutto da quelli che presentano squilibri economico-sociali ed è cofinanziata da fondi, comunitari e nazionali, provenienti, rispettivamente, dal bilancio europeo per la politica di coesione (Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR), Fondo sociale europeo (FSE) e Fondo di coesione) e nazionali (Fondo per le aree sottoutilizzate. ora sostituito dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC) ).

    Nel corso del 2011 è stata avviata, di intesa con la Commissione Europea, l'azione per accelerare l'attuazione dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013. Dopo la prima fase, varata il 15 dicembre 2011, relativa ai fondi gestiti dalle Regioni (3,7 miliardi di riprogrammazione a favore di istruzione, ferrovie, formazione, agenda digitale e occupazione di lavoratori svantaggiati), è stata predisposta la Fase II che ha impegnato le amministrazioni centrali e locali a rilanciare i programmi in grave ritardo, garantendo una forte concentrazione delle risorse su alcune priorità. In totale, le risorse impegnate, già iscritte in bilancio, sono pari a 2,3 miliardi di euro. La riprogrammazione ha riguardato primariamente quattro Regioni Convergenza (Calabria, Campania, Sicilia, Puglia), per le quali il Quadro Strategico nazionale 2007-2013 prevede Programmi operativi nazionali e interregionali.

    La riprogrammazione dei fondi comunitari ha previsto il definanziamento degli interventi con criticità di attuazione e il finanziamento di interventi rivolti all'inclusione sociale e alla crescita, rispondendo in tal senso anche agli impegni contenuti nelle Mozioni concernenti iniziative per favorire gli interventi produttivi e l'occupazione nel mezzogiorno approvate a larga maggioranza dalla Camera dei Deputati il 28 marzo 2012.

    La riallocazione delle risorse si è fra l’altro concentrata sulla cura dell’infanzia (400 milioni) e degli anziani non autosufficienti (330 milioni). L’intervento intende ampliare l’offerta della rete dei servizi e degli interventi sociali nel sud del paese, migliorando al contempo la qualità di quelli già presenti. Il programma è stato costruito sulla base di metodi, requisiti e filiere di attuazione (con un ruolo centrale degli enti locali, nonché del privato sociale e del privato) già sperimentati ed è coerente con gli indirizzi nazionali nei campi sanitario e sociale. Obiettivi e risultati sono misurati dagli obiettivi del QSN 2007-2013, che, per quanto riguarda i servizi di cura per l’infanzia e gli anziani, indicano come obiettivo prioritario l’aumento del numero dei servizi di cura alla persona, l’alleggerimento dei carichi familiari e la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

    Per i giovani sono previsti una serie di interventi combinati. Per l’inclusione sociale si è scelto di intervenire con azioni per la legalità in aree a elevata dispersione scolastica (77 milioni di euro) e con progetti promossi da giovani del privato sociale per l’offerta di servizi collettivi e la valorizzazione di beni pubblici (37,6 milioni). Per la crescita sono stati destinati 50 milioni di euro all’autoimpiego e auto imprenditorialità, ulteriori 50 milioni per l’apprendistato e 5,3 milioni di euro per la promozione di metodi applicati di studio/ricerca nelle Università attraverso ricercatori italiani all’estero.

    La terza e ultima fase di riprogrammazione, pari a 5,7 miliardi di euro, riguarda, per l’area Convergenza, i Programmi regionali di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Mentre nella prima e seconda riprogrammazione si sono privilegiati obiettivi di riequilibrio strutturale (scuola, reti ferroviarie e digitali, servizi di cura, etc.), nella terza si è posta l’attenzione, su sollecitazione delle parti economiche e sociali, a misure anticicliche e misure rivolte alla salvaguardia di singoli progetti in ritardo, ma meritevoli di finanziamento. Agli interventi indirizzati all’aiuto alle persone con elevato disagio sociale sono stati destinati 143,7 milioni di euro. L’intervento originario, proposto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, intendeva estendere a tutte le Regioni Convergenza la sperimentazione della nuova social card . Solo la Regione Siciliana ha deciso di utilizzare questo strumento; la Calabria rifinanzierà i bandi per case accessibili, centri antiviolenza, centri accoglienza immigrati; la Campania e la Puglia invece sosterranno le persone con elevato disagio sociale attraverso l’erogazione di voucher per l’acquisto di servizi di conciliazione vita-lavoro (prima infanzia e non autosufficienze).



    Fondi comunitari 2014-2020

    L’accordo politico raggiunto nel febbraio 2013 dal Consiglio europeo in merito al Bilancio (Quadro Finanziario Pluriennale) europeo 2014-2020 offre una prima base di riferimento finanziaria per avviare la programmazione dei fondi per la politica di coesione per l’Italia. L’utilizzo dei Fondi comunitari per la coesione e del relativo cofinanziamento nazionale avverrà sulla base di un “Accordo di partenariato” e di Programmi operativi da concordare con la Commissione Europea. Il 27 dicembre 2012 il Ministro per la Coesione Territoriale, d’intesa con i Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha presentato il documento Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2012-2020 che intende avviare il confronto pubblico per preparare l’Accordo e i Programmi, secondo la proposta di percorso trasmessa alla Conferenza Stato Regioni nel giugno 2012. Il testo illustra le 7 innovazioni relative al metodo di valutazione pubblica aperta, le 3 opzioni strategiche su Mezzogiorno, città e aree interne, oltre a proposte di metodo per ognuna delle 11 aree tematiche europee. 

    La parte del documento dedicata all'Inclusione sociale e lotta alla povertà propone le seguenti azioni per promuovere l'inclusione sociale e combattere la povertà:

    Per promuovere servizi integrati a sostegno dei senza dimora si propone:

    Per il potenziamento del sistema informativo delle prestazioni sociali, ritenuto di grande importanza per la mappatura e il futuro sviluppo dei servizi sociali, si prevede:

    Per promuovere l’economia sociale e le imprese sociali si intende proseguire quanto già sperimentato con il Piano di Azione Coesione attraverso:

    Per promuovere l’economia sociale e il terzo settore si propone:

    Il documento ricorda inoltre come le persone a rischio di povertà, la proporzione di persone in situazione di grave deprivazione materiale e di quelle che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa siano drammaticamente aumentate in questi anni di severa crisi economica. Il Rapporto Caritas 2012 su povertà ed esclusione sociale in Italia fotografa l’estensione dei fenomeni di impoverimento ad ampi settori di popolazione, non sempre coincidenti con i poveri del passato. Nell'ottobre 2012, l'Istat ha stimato in 47.648 le persone senza dimora che nei mesi di novembre-dicembre 2011 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l'indagine Le persone senza dimora.

    In tale panormana, il Regolamento 121/2012 ha ribadito l'importanza della fornitura di beni alimentari alle fasce di popolazione indigente da realizzarsi nel territorio dell'Unione. In Italia, l'articolo 58 del decreto legge 83/2012 ha istituito, presso l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, il Fondo per la distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti, alimentato da risorse pubbliche e private, mediante erogazioni liberali e donazioni. Il decreto 17 dicembre 2012 ha reso attuative tali disposizioni. A tal fine ha disposto il potenziamento del sistema di aiuti alimentari, incrementando i volumi e le tipologie di derrate alimentari già oggi rese disponibili per il tramite delle Organizzazioni caritatevoli e non profit. Per ottimizzare il cordinamento tra i soggetti coinvolti, è stato istituito, presso il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, un Tavolo permanente di coordinamento tra Istituzioni, Organizzazioni caritatevoli e operatori della filiera agroalimentare. Per rendere più funzionale la distribuzione delle derrate, è stato anche istituito un sistema informativo e un sistema di riconoscimento per i soggetti donatori.

    La questione degli esodati

    Il Parlamento è intervenuto a più riprese per tutelare le aspettative dei c.d. esodati, ossia dei soggetti prossimi al raggiungimento dei requisiti pensionistici al momento dell'adozione della riforma pensionistica e fuoriusciti dal mercato del lavoro, ampliando progressivamente la platea dei lavoratori ai quali continua ad applicarsi la normativa previgente.

    La questione degli esodati trae origine dalla riforma pensionistica realizzata del Governo Monti (articolo 24 del D.L. 201/2011, c.d. riforma Fornero), che a decorrere dal 2012 ha sensibilmente incrementato i requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso al pensionamento. La riforma, in particolare, ha portato a 66 anni il limite anagrafico per il pensionamento di vecchiaia; velocizzato il processo di adeguamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato (66 anni dal 2018); per quanto concerne il pensionamento anticipato, abolito il previgente sistema delle quote, con un considerevole aumento dei requisiti contributivi (42 anni per gli uomini e 41 anni per le donne) e l’introduzione di penalizzazioni economiche per chi comunque accede alla pensione prima dei 62 anni.
    Al fine di salvaguardare le aspettative dei soggetti prossimi al raggiungimento dei requisiti pensionistici, la riforma ha dettato una disciplina transitoria, individuando alcune categorie di lavoratori ai quali continua ad applicarsi la normativa previgente, preordinando allo scopo specifiche risorse finanziarie. Tale platea comprende, in particolare, i lavoratori che maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2011; i lavoratori collocati in mobilità sulla base di accordi sindacali stipulati anteriormente al 4 dicembre 2011 (data di entrata in vigore della riforma) e che maturino i requisiti per il pensionamento entro il periodo di fruizione dell’indennità di mobilità; i lavoratori titolari di prestazione straordinaria a carico dei fondi di solidarietà di settore alla data del 4 dicembre 2011, nonché lavoratori per i quali sia stato previsto da accordi collettivi stipulati entro la data del 4 dicembre 2011 il diritto di accesso ai predetti fondi di solidarietà; i lavoratori che, antecedentemente alla data del 4 dicembre 2011, siano stati autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione; i lavoratori che alla data del 4 dicembre 2011 si trovino in esonero dal servizio; i lavoratori che alla data del 31 ottobre 2011 sono in congedo per assistere figli con disabilità grave, a condizione che maturino, entro ventiquattro mesi dalla data di inizio del predetto congedo, il requisito di anzianità contributiva di 40 anni.
    L’insufficienza delle norme transitorie contenute nella legge di riforma, resasi evidente nei mesi successivi alla sua entrata in vigore (mesi che hanno visto crescere la protesta dei lavoratori che si sarebbero venuti a trovare senza stipendio e senza pensione), ha indotto il Governo e il Parlamento a rivedere la platea dei soggetti ammessi al pensionamento secondo la normativa previgente, estendendola a più riprese.
    Dapprima, l’articolo 6, comma 2-ter, del D.L. 216/2011 (c.d. decreto proroga termini) vi ha ricompreso anche i lavoratori il cui rapporto di lavoro si sia risolto, in base ad accordi individuali, sottoscritti in data antecedente a quella di entrata in vigore della legge di riforma o in applicazione di accordi collettivi di incentivo all'esodo stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale, purchè in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi che, in base alla previgente disciplina pensionistica, avrebbero comportato la decorrenza del trattamento entro un periodo non superiore a 24 mesi dalla data di entrata in vigore della riforma.
    Successivamente è intervenuto l’articolo 22 del D.L. 95/2012 (c.d. “spending review”), che ha ulteriormente incrementato la platea dei soggetti salvaguardati, rientranti in alcune categorie, ricomprendendovi altri 55.000 lavoratori.

    Da ultimo, sulla materia è intervenuto l’articolo 1, commi 231-237, della L. 228/2012 (legge di stabilità per il 2013), prevedendo che le disposizioni previgenti alla legge di riforma continuino a trovare applicazione anche nei confronti: dei lavoratori cessati dal rapporto di lavoro entro il 30 settembre 2012 e collocati in mobilità (ordinaria o in deroga) a seguito di accordi (governativi o non governativi) stipulati entro il 31 dicembre 2011 e che abbiano perfezionato i requisiti utili al trattamento pensionistico entro il periodo di fruizione dell’indennità di mobilità o durante il periodo di godimento dell’indennità di mobilità in deroga, e in ogni caso entro il 31 dicembre 2014; dei lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre 2011, a condizione che perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il 36° mese dalla data di entrata in vigore del D.L. 201/2011 (con almeno un contributo volontario accreditato o accreditabile alla data di entrata in vigore del D.L. 201/2011, ancorché abbiano svolto, successivamente alla medesima data del 4 dicembre 2011, attività lavorativa retribuita, comunque non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, entro il limite di 7.500 euro annui; oppure collocati in mobilità ordinaria alla data del 4 dicembre 2011, i quali avvieranno la contribuzione volontaria al termine della fruizione della mobilità ordinaria); dei lavoratori che hanno risolto il rapporto di lavoro entro il 30 giugno 2012, in ragione di accordi individuali o in applicazione di accordi collettivi di incentivo all’esodo stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale entro il 31 dicembre 2011, ancorché abbiano svolto, dopo la cessazione, qualsiasi attività non riconducibile a rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (a condizione che abbiano conseguito un reddito annuo lordo complessivo riferito a tali attività non superiore a euro 7.500 e perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2014); dei lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria entro il 4 dicembre 2011 e collocati in mobilità ordinaria alla predetta data, i quali, in quanto fruitori della relativa indennità, debbano attendere il termine della fruizione stessa per poter effettuare il versamento volontario (a condizione che perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del D.L. 201/2011, e cioè entro il 6 dicembre 2014).

    Per effetto dei ripetuti interventi del legislatore è stata garantita copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014).

    Documenti e risorse web

    Lavori usuranti

    E' stata introdotta una normativa speciale volta a consentire il pensionamento anticipato per i soggetti che hanno svolto lavori usuranti. In attuazionedella legge 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) è dapprima intervenuto il D.lgs. 21 aprile 2011, n. 67, che ha dettato una disciplina organica della materia. Successivamente, il D.L. 201/201, nel quadro della riforma complessiva della previdenza, ha attenuato la portata dei benefici previdenziali in precedenza previsti.

    Il decreto legislativo 67/2011

    Sulla base della delega legislativa conferita dell’articolo 1 della L. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro), una prima disciplina della materia è stata introdotta con il D.Lgs. 67/2011.

    Il D.Lgs. 67/2011 è volto a consentire ai lavoratori dipendenti impegnati in lavori o attività connotati da un particolare indice di stress psico-fisico, di maturare il diritto al trattamento pensionistico con un anticipo di 3 anni.

    Restano comunque fermi il requisito minimo di anzianità contributiva di 35 anni, la nuova disciplina relativa alla decorrenza del pensionamento (cd. “finestre”) e l’adeguamento dell’età pensionabile all’incremento dell’aspettativa di vita.

    Per quanto riguarda la platea dei soggetti beneficiari, il decreto dispone che possano usufruire del pensionamento anticipato quattro diverse categorie di soggetti:

    Condizioni per l’accesso al beneficio pensionistico sono che le attività usuranti vengano svolte al momento dell’accesso al pensionamento e che siano state svolte per una certa durata nel corso della carriera lavorativa (nella fase transitoria, ossia fino al 2017, per un minimo di 7 anni negli ultimi 10 anni di attività lavorativa; a regime, ossia dal 2018, per un arco di tempo almeno pari alla metà dell’intera vita lavorativa).

    Specifiche norme concernono gli obblighi dei datori di lavoro in ordine alla produzione della documentazione volta a dimostrare il possesso dei requisiti richiesti per l’accesso al beneficio pensionistico. Ferma restando la disciplina vigente in materia di revoca dei trattamenti pensionistici e ripetizione dell’indebito, si prevede che nel caso di erogazione dei benefici sulla base di documentazione non veritiera il datore di lavoro che l’ha fornita sia tenuto al pagamento di una sanzione in favore degli istituti previdenziali eroganti.

    Una apposita clausola di salvaguardia, infine, è volta a garantire il rispetto dei limiti di spesa fissati, prevedendo il differimento della decorrenza dei trattamenti (con criteri di priorità basati sulla data di maturazione dei requisiti) qualora emergano scostamenti tra il numero delle domande presentate e la copertura finanziaria a disposizione.

     

    Il decreto-legge 201/2011

    L’articolo 24, comma 17, del D.L. 201/2011, intervenendo sul D.Lgs. 67/2011, ha significativamente modificato l’accesso al pensionamento anticipato per i suddetti lavoratori, con l'effetto di attenuare la portata dei benefici previdenziali in precedenza previsti.

    Le novita' introdotte rispetto al testo originario del D.Lgs. 67/2011 sono:

    In ogni caso, tali modifiche non scontano il fatto che per i lavoratori in questione continua ad applicarsi (diversamente dalla generalità dei lavoratori) il regime delle decorrenze, (c.d. finestre) introdotto dall’articolo 12, comma 2 del D.L. 78/2010.

    Per quanto attiene, infine, alla platea di soggetti che hanno fin qui effettivamente avuto acceso ai benefici, dati recenti segnalano un basso tasso di accoglimento delle domande, con tutta probabilità legato ai gravosi oneri probatori richiesti dalla normativa (soprattutto con riferimento ai periodi lavorativi più risalenti nel tempo).

    Documenti e risorse web