Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni
Titolo: Il controllo di costituzionalità delle leggi
Serie: Rassegna costituzionale   Numero: 4/Ottobre - Dicembre 2022
Data: 27/01/2023
Organi della Camera: I Affari costituzionali

 

 

 

 

Il controllo di costituzionalità delle leggi

 

______________________

 

 

RASSEGNA TRIMESTRALE

DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE

______________________

 

 

 

ANNO II NUMERO 4 - OTTOBRE-DICEMBRE 2022

 

 

 


 

 

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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del quarto trimestre dell’anno 2022. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.

Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.

 

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I N D I C E

 

1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore........................................................................................ 3

2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali........... 7

§  2.1 Tabella di sintesi (ottobre – dicembre 2022)............................................ 7

§  2.2. La sentenza n. 209 del 2022 in materia di esenzione dal pagamento dell’imposta municipale propria (IMU) per l'abitazione principale............. 10

§  2.3. La sentenza n. 210 del 2022 in materia di obbligo delle Camere di commercio di riversare al bilancio dello Stato i risparmi derivanti dalle regole di contenimento della spesa............................................................... 15

§  2.4. La sentenza n. 228 del 2022 in materia di improcedibilità esecutiva e inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio Sanitario della Regione Calabria................................................................................. 19

§  2.5. La sentenza n. 245 del 2022 in materia di emendabilità del decreto-legge e caratteri della legge di conversione................................................. 22

3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (ottobre-dicembre 2022)................................................................ 25

§  3.1. La sentenza n. 237 del 2022 in materia di rideterminazione della misura degli assegni vitalizi e delle quote di assegno vitalizio pro rata nonché dei trattamenti di reversibilità dei trattamenti previdenziali, per gli anni fino al 31 dicembre 2011 di mandato di Senatore................................ 26

4. Altre pronunce di interesse........................................................ 32

§  4.1. Ordinanza n. 212 del 2022, in materia di obbligo di possesso ed esibizione del c.d. green pass ai fini dell'accesso alle sedi della Camera per l'elezione del Presidente della Repubblica................................................... 32

§  4.2. Ordinanza n. 220 del 2022, in materia di divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone positive al SARS-CoV-2 sottoposte alla misura della quarantena........................................................ 34

 


1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore

La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).

 

Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.

La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).

Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza

di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In questo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.

La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).

Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.

La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).

Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).

 

Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).

Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.

Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.

Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.

Più di recente, la Corte ha utilizzato la tecnica decisoria dell'“incostituzionalità differita”: in questi casi, pur ritenendo una normativa comunque non conforme a Costituzione, la Corte omette di dichiararne l’incostituzionalità ai sensi dell’art. 136 Cost., e si limita a rinviare con ordinanza la trattazione della causa di un certo periodo, affinché il legislatore possa intervenire medio tempore per introdurre una disciplina conseguente al portato della pronuncia.

In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.

 

L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XVIII è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).

 


2. Le pronunce di illegittimità
costituzionale di norme statali

2.1 Tabella di sintesi (ottobre – dicembre 2022)

 

Sentenza

Norme dichiarate illegittime

Parametro costituzionale

Oggetto

 

 

 

 

Sentenza n. 209/2022

del 12 settembre – 13 ottobre 2022

 

 

Camera Doc VII, n. 22

Senato Doc VII, n. 1

 

art. 13, comma 2, quarto periodo, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. L. 22 dicembre 2011, n. 214

 

art. 13, comma 2, quinto periodo, D.L. n. 201/2011

 

art. 1, comma 741, lettera b), L. n. 160 del 2019 (come modificato dall’articolo 5-decies del D.L. n. 146/2021)

 

articoli 3, 31 e 51 Cost.

Mancato accesso all’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione principale per i soggetti coniugati o uniti civilmente che abbiano residenza che abbiano residenza e dimora abituale in diversi immobili

 

Sentenza n. 210/2022

del 14 settembre – 14 ottobre 2022

 

Camera Doc VII, n. 23

Senato Doc VII, n. 2

 

art. 61, commi l, 2, 5 e 17, D.L. 25 giugno 2008, n. 112

art. 6, commi l, 3, 7, 8, 12, 13, 14 e 21, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, conv. L. 30 luglio 2010, n. 122

art. 8, comma 3, D.L. 6 luglio 2012, n. 95, conv. L. 7 agosto 2012, n. 135

art. 50, comma 3, D.L. 24 aprile 2014, n. 66 conv. L. 23 giugno 2014, n. 89

 

illegittimità parziali

 

 

articoli 3 e 97 Cost.

Obbligo delle Camere di commercio di riversare al bilancio dello Stato i risparmi derivanti dalle regole di contenimento della spesa

 

 

Sentenza n. 223/2022

del 5 ottobre – 3 novembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 33

Senato Doc VII, n. 5

 

art. 76, comma 4-bis, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115

 

illegittimità parziale

 

articolo 3 Cost.

Presunzione di superamento dei limiti di reddito previsti per l'ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato nei confronti dei soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 [produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope], limitatamente alle ipotesi aggravate di cui all'art. 80, [c. 1,] lett. a) e/o g], del medesimo decreto

 

Sentenza n. 224/2022

del 13 settembre – 7 novembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 34

Senato Doc VII, n. 6

 

art. 3, ottavo comma, L. 29 maggio 1982, n. 297, in combinato disposto con l’art. 24 L. 26 luglio 1984, n. 413

 

 

illegittimità parziale

 

articolo 3 Cost.

Previsioni che non consentono la neutralizzazione del prolungamento previsto dall’art. 24 della legge n. 413 del 1984 per il calcolo della pensione di vecchiaia in favore dei lavoratori marittimi che abbiano raggiunto il diritto a pensione, quando il suddetto prolungamento determini un risultato sfavorevole nel calcolo dell’importo della pensione spettante agli assicurati.

 

Sentenza n. 228/2022

del 19 ottobre – 11 novembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 36

Senato Doc VII, n. 7

 

art. 16-septies, comma 2, lettera g), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, conv. L. 17 dicembre 2021, n. 215

articoli 24 e 111 Cost.

 

 

 

 

 

Previsione di una specifica misura provvisoria di improcedibilità esecutiva e inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio Sanitario della Regione Calabria

 

 

Sentenza n. 243/2022

del 10 novembre – 2 dicembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 49

Senato Doc VII, n. 8

 

artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, Codice di procedura penale

articolo 24 Cost.

Previsione nel giudizio direttissimo del diritto ad un termine a difesa soltanto a seguito dell'apertura del dibattimento [con conseguente impossibilità di accedere ai riti alternativi all'esito di tale termine], invece della previsione della possibilità di accedere ai riti alternativi anche all'esito del termine a difesa eventualmente richiesto

 

Sentenza n. 244/2022

del 19 ottobre – 2 dicembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 50

Senato Doc VII, n. 9

 

art. 167, primo comma, codice penale militare di pace

 

 

illegittimità parziale

 

articoli 3 e 27 Cost.

Differenza di trattamento sanzionatorio tra reati militari e corrispondenti reati comuni in relazione alla previsione di attenuazioni della pena per fatti di lieve entità nell’ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità

 

Sentenza n. 245/2022

del 18 ottobre – 9 dicembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 51

Senato Doc VII, n. 10

 

art. 2, comma 2-quater, D.L. 29 dicembre 2010, n. 225

(c.d. “decreto-milleproroghe”), conv. L. 26 febbraio 2011, n. 10

 

illegittimità parziale

 

 

articolo 77, secondo comma, Cost.

Illegittimità costituzionale di una norma inserita nella legge di conversione di un decreto-legge perché estranea al suo contenuto originario

 

 

Sentenza n. 246/2022

del 9 novembre – 9 dicembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 52

Senato Doc VII, n. 11

 

art. 213, comma 8, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada)

 

 

illegittimità parziale

 

articolo 3 Cost.

Eliminazione dell’automatismo relativo all’applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente del custode che abbia posto in circolazione il veicolo sequestrato, a lui affidato.

 

Sentenza n. 262/2022

del 9 – 22 dicembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 66

Senato Doc VII, n. 12

 

art. 31, comma 1, D.Lgs. 5 ottobre 2000, n. 334

 

illegittimità parziale

 

articolo 3 Cost.

Previsione che fissa l'età massima di anni trenta per la partecipazione al concorso per l’accesso alla carriera dei funzionari tecnici psicologi della Polizia di Stato, in luogo di un più elevato limite da individuarsi in anni trentacinque ovvero comunque di anni trentatré

 

Sentenza n. 263/2022

del 8 novembre – 22 dicembre 2022

 

Camera Doc VII, n. 67

Senato Doc VII, n. 13

 

art. 11-octies, comma 2, D.L. 25 maggio 2021, n. 73 (conv. L. n. 106/2021)

 

illegittimità parziale

articoli 11 e 117, primo comma, Cost.

Diritto del consumatore alla riduzione dei costi sostenuti in relazione al contratto di credito, in caso di restituzione anticipata del finanziamento

2.2. La sentenza n. 209 del 2022 in materia di esenzione dal pagamento dell’imposta municipale propria (IMU) per l'abitazione principale

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 209 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, del decreto-legge n. 201 del 2011 (e in via consequenziale del quinto periodo della medesima disposizione, nonché dell’art. 1, comma 741, lettera b), della legge n. 160 del 2019) per contrasto con gli artt. 3, 31 e 53 della Costituzione. Tale norma, infatti, nell'introdurre il riferimento alla circostanza che tutti i componenti del nucleo familiare debbano risiedere anagraficamente e dimorare abitualmente nella stessa abitazione ai fini dell’esenzione dal pagamento dell’IMU sull'abitazione principale, crea disparità di trattamento a danno dei coniugi e dei membri di un’unione civile rispetto ai conviventi di fatto, i quali possono entrambi fruire del beneficio stabilendo residenza e dimora abituale ciascuno in una diversa abitazione. Il contrasto con i suddetti articoli della Costituzione deriva dal fatto, in particolare, che tale norma disciplina situazioni omogenee «in modo ingiustificatamente diverso», penalizza la famiglia e attribuisce una maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un'imposta di tipo reale quale l'IMU, al nucleo familiare rispetto alle persone singole.

 

Le disposizioni oggetto della sentenza

La Commissione tributaria provinciale (CTP) di Napoli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 13, comma 2, quinto periodo [1] , del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della legge di stabilità 2014 (legge n. 147 del 2013), nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

Nel corso del giudizio, la Corte costituzionale ha sollevato dinanzi a sé questioni di legittimità costituzionale con riguardo al quarto periodo del medesimo articolo 13, comma 2, del decreto-legge n. 201 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, della Costituzione [2] .

Secondo la Corte, infatti, è il quarto periodo che esplicita la regola generale che lega l'esenzione alla sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale, non solo del possessore ma anche del suo nucleo familiare. Esso si pone, pertanto, come «logicamente pregiudiziale» rispetto alla fattispecie contenuta nel quinto periodo censurato dalla CTP, che della regola generale costituisce solo una specifica ipotesi. Pertanto, la risoluzione della questione avente ad oggetto la regola generale si configura come «strumentale» per definire le questioni sollevate dalla CTP.

I motivi del ricorso

Nel rimettere alla Corte la questione, la CTP di Napoli argomenta che l’art. 13, comma 2, quinto periodo, del decreto-legge n. 201 del 2011, si porrebbe in contrasto, in primis, con l’art. 3 della Costituzione, in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento «fondata su un neutro dato geografico […] a parità di situazione sostanziale» tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi. La norma violerebbe, inoltre: la «parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare» (artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il «diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto» (artt. 3, 29 e 31 Cost.); i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’«aspettativa rispetto alle provvidenze per la formazione della famiglia e [l’]adempimento dei compiti relativi» (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

Come detto, nel corso del giudizio la Corte costituzionale ha invece ravvisato la sussistenza di un contrasto dell'art. 13, comma 2, quarto periodo, del decreto-legge n. 201 del 2011 con gli artt. 3, 31 e 53, primo comma, della Costituzione.

In particolare, quanto al principio di uguaglianza di cui all'art. 3, la Corte esprime dubbi «[su]ll’esistenza di un ragionevole motivo di differenziazione tra la situazione dei possessori degli immobili in quanto tali e quella dei possessori degli stessi in riferimento al nucleo familiare, quando, come spesso accade nell’attuale contesto sociale, effettive esigenze comportino la fissazione di differenti residenze anagrafiche e dimore abituali da parte dei relativi componenti del nucleo familiare».

In riferimento all’art. 31, la Corte osserva che la disciplina in oggetto non agevolerebbe «con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi», ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.

Infine, quanto all’art. 53, primo comma, della Costituzione, la Corte dubita «della maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un’imposta di tipo reale quale l’IMU, del nucleo familiare rispetto alle persone singole».

La decisione della Corte costituzionale

La Corte ritiene fondate le questioni di legittimità costituzionale da essa stessa sollevate, che affronta previamente in quanto aventi carattere pregiudiziale rispetto alla decisione di quelle sollevate dalla CTP di Napoli.

Essa dichiara innanzitutto che «nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile».

Tale è invece proprio l’effetto prodotto dal censurato quarto periodo dell’art. 13, comma 2, perché esso consente ai conviventi di fatto, ma non ai coniugi o ai membri di una unione civile, di «fruire pacificamente dell’esenzione IMU sull’abitazione principale» in conseguenza del riferimento al nucleo familiare ivi contenuto. I conviventi di fatto in tal caso avranno diritto a una doppia esenzione, anche prescindendo dalla sussistenza di «effettive esigenze, come possono essere in particolare quelle lavorative, [che] impongano la scelta di residenze anagrafiche e dimore abituali differenti».

 

A supporto delle proprie tesi, la Corte ritiene opportuno ricostruire il quadro normativo e il diritto vivente che ne è scaturito, la cui evoluzione ha portato all’attuale situazione di illegittimità costituzionale.

La Corte preliminarmente ricorda che il riferimento al nucleo familiare non era presente nell’originaria disciplina dell’IMU (istituita dall’art. 8 del decreto legislativo n. 23 del 2011) e neppure nell’originaria formulazione della norma censurata, ossia l’art. 13, comma 2, del decreto-legge n. 201 del 2011. Esso è stato introdotto dall’art. 4, comma 5, lettera a), del decreto-legge n. 16 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 44 del 2012, da cui risulta la seguente formulazione finale dell’art. 13, comma 2: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile».

Nel silenzio della norma, il Ministero dell'economia e delle finanze (MEF) si è espresso in favore del riconoscimento del beneficio per ciascuno degli immobili, ubicati in comuni diversi, adibiti a residenza e dimora (circolare n. 3/DF del 2012).

Successivamente, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha finito col precludere totalmente l’accesso all’esenzione ai coniugi che avessero stabilito la residenza anagrafica in due abitazioni diverse, indipendentemente dal comune. La Corte di cassazione ha infatti dapprima ritenuto che l’agevolazione spettasse per un solo immobile per nucleo familiare, non solo nel caso di immobili siti nel medesimo comune, come previsto dalla norma, ma anche in caso di immobili situati in comuni diversi (disattendendo la suddetta, opposta, interpretazione del MEF), per giungere infine a negare ogni agevolazione ai coniugi che risiedono in comuni diversi, basandosi sulla necessaria coabitazione abituale dell’intero nucleo familiare nel luogo di residenza anagrafica della casa coniugale (Corte di Cassazione, sez. VI civile, ordinanze nn. 4170 e 4166 del 2020, confermate dall’ordinanza n. 17408 del 2021).

In reazione a tale orientamento, il legislatore è quindi intervenuto specificando che qualora i componenti del nucleo familiare avessero stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale sarebbero spettate per un solo immobile, scelto dagli stessi componenti del nucleo familiare (art. 5-decies, comma 1, del decreto-legge n. 146 del 2021, che modifica l’art. 1, comma 741, lettera b), della legge di bilancio 2020, istitutivo della c.d. “nuova IMU”).

 

La Corte, dichiarando fondata la questione sollevata con riferimento all’art. 3 della Costituzione, chiarisce che l’esenzione in sé è priva di una causa costituzionale ed è «riconducibile a una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore», ma al contempo precisa che la questione non è quella di estendere ai soggetti coniugati o uniti civilmente tale esenzione, quanto piuttosto quella di «rimuovere degli elementi di contrasto con i […] principi costituzionali quando tali status in sostanza vengono, attraverso il riferimento al nucleo familiare, invece assunti per negare il diritto al beneficio».

In particolare, contrastando l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, la Corte afferma che non può «essere evocato l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 del codice civile, dal momento che una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro, indiscussa l’affectio coniugalis, di stabilire residenze disgiunte» (come peraltro riconosciuto dalla stessa Corte di cassazione, v. sez. VI civ. ord. n. 1785 del 2021), né le norme sulla “residenza familiare” dei coniugi (art. 144 cod. civ.) o “comune” degli uniti civilmente (art. 1, comma 12, legge n. 76 del 2016). È infatti «sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale».

Il mantenimento di una situazione di disparità a danno di coniugati e uniti civilmente non potrebbe neppure essere giustificata da rischi di elusione dell’imposta, sul presupposto che le seconde case siano iscritte come abitazioni principali, e ciò per un duplice ordine di motivi: innanzitutto perché tali rischi esistono anche con riferimento ai conviventi di fatto e poi perché efficaci controlli messi in atto dai comuni sulla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas sono in grado di fornire un riscontro chiaro circa l’utilizzo di un immobile quale dimora abituale.

La Corte argomenta quindi più brevemente sulla fondatezza delle censure riferite agli articoli 31 e 53 della Costituzione.

In relazione al primo dei due articoli, la Corte ricorda come l’impegno della Repubblica ad agevolare la formazione della famiglia con misure economiche e altre provvidenze è stato in gran parte disatteso, come rilevato numerosi studi dottrinali e che sebbene l’art. 31 non imponga trattamenti, anche fiscali, a favore della famiglia, «senz’altro si oppone, in ogni caso, a quelli che si risolvono in una penalizzazione della famiglia».

Con riguardo alla capacità contributiva di cui all’art. 53, la Corte si limita a ricordare che «l’IMU riveste la natura di imposta reale e non ricade nell’ambito delle imposte di tipo personale, quali quelle sul reddito» e che «qualora […] l’organizzazione della convivenza imponga ai coniugi o ai componenti di una unione civile l’effettiva dimora abituale e residenza anagrafica in due immobili distinti» ciò, lungi dal costituire un vantaggio, farebbe venire meno «la maggiore economia di scala che la residenza comune potrebbe determinare».

 

Sulla base delle suddette argomentazioni, la Corte dichiara quindi l’illegittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dalla legge n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», anziché disporre: «[p]er abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente», illegittimità da cui discendono, consequenzialmente, quelle del quinto periodo del medesimo dell’art. 13, comma 2, e dell’art. 1, comma 741, lettera b), della legge di bilancio 2020 (legge n. 160 del 2019).

L'accoglimento delle questioni riferite al quarto periodo dell'art. 13, comma 2, e la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale del successivo quinto periodo del medesimo comma determinano l'inammissibilità per sopravvenuta carenza di oggetto delle questioni sollevate dalla CTP di Napoli.

La sentenza precisa infine che l’illegittimità delle disposizioni richiamate non determina “in alcun modo una situazione in cui le cosiddette ‘seconde case’ delle coppie unite in matrimonio o in unione civile possano usufruire dell’agevolazione. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale) l’esenzione spetta una sola volta”.


 

2.3. La sentenza n. 210 del 2022 in materia di obbligo delle Camere di commercio di riversare al bilancio dello Stato i risparmi derivanti dalle regole di contenimento della spesa

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 210 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni, concernenti, sotto numerosi profili, la materia del contenimento della spesa da parte delle pubbliche amministrazioni:

-        art. 61, commi 1, 2, 5 e 17 del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 133 del 2008;

-        art. 6, commi 1, 3, 7, 8, 12, 13, 14 e 21 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010;

-        art. 8, comma 3, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 135 del 2012;

-        art. 50, comma 3, del decreto-legge n. 66 del 2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 89 del 2014.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale delle suddette norme è stata circoscritta alla parte in cui esse hanno previsto, in capo alle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura per il periodo dal 1° gennaio 2017 al 31 dicembre 2019, l’obbligo di versamento annuale delle somme derivanti dalle riduzioni di spesa ivi previste ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato.

 

La questione

La Corte è stata investita della questione di legittimità costituzionale delle suddette disposizioni dal Tribunale ordinario di Roma, seconda sezione civile, in riferimento agli articoli 3, 53, 97 e 118 della Costituzione, per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità, buon andamento e sussidiarietà orizzontale.

In particolare, i commi 1, 2, 5 e 17 dell’art. 61 del d.l. n. 112 del 2008 stabilivano una riduzione della spesa complessiva sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto consolidato della pubblica amministrazione individuato dall’Istat, con particolare riferimento alle spese per studi e consulenze, nonché a quelle per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza.

I commi impugnati dell’art. 6 del d.l. n. 78 del 2010 prevedevano la natura onorifica della partecipazione agli organi collegiali, salvi eventuali rimborsi spese e gettoni di presenza, nonché una riduzione delle indennità, dei compensi e degli altri emolumenti corrisposti dalle pubbliche amministrazioni ai componenti degli organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli di amministrazione e titolari di incarichi di qualsiasi tipo. Le predette disposizioni contemplavano, infine, un tetto per le spese per studi e consulenze, per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza a decorrere dal 2011, nonché per le spese sostenute dalle amministrazioni pubbliche per le spese per missioni anche all’estero, per le attività di formazione, per l’acquisto, la manutenzione, il noleggio e l’esercizio di autovetture o per l’acquisto di buoni taxi, salvo alcune deroghe espressamente indicate dalle medesime disposizioni impugnate.

L’art. 8, comma 3 del d.l. n. 95 del 2012, oltre a prevedere una riduzione del 5 per cento per il 2012 e del 10 per cento a decorrere dal 2013dei trasferimenti dal bilancio dello Stato agli enti e agli organismi anche costituiti in forma societaria, dotati di autonomia finanziaria, inseriti nel conto economico consolidato della PA, ha anche introdotto l’obbligo di effettuare riduzioni e razionalizzazioni della spesa per consumi intermedi in egual misura per gli enti ed organismi che non ricevono trasferimenti dal bilancio dello Stato (come le camere di commercio).

Infine, l’art. 50, comma 3, del d.l. n. 66 del 2014 ha previsto, in capo agli enti e organismi costituiti anche in forma societaria, che non ricevano trasferimenti dal bilancio dello Stato, obblighi di razionalizzazione e riduzione della spesa per consumi intermedi.

Tutte le disposizioni richiamate prevedevano l’obbligo di versare le somme provenienti dalle riduzioni e razionalizzazioni di spesa effettuate all’entrata del bilancio dello Stato.

Le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni sopra enucleate sorgono da un ricorso proposto dalla Camera di commercio di Livorno e Grosseto, concernente la sussistenza o meno, per quest’ultimo ente, dell’obbligo di versare le somme derivanti dai risparmi di spesa. Il giudice a quo, pertanto, ha concluso nel senso della rilevanza – oltre che della non manifesta infondatezza – delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dalla ricorrente, dal momento che l’eventuale declaratoria di illegittimità avrebbe prodotto la caducazione della fonte delle pretese creditorie del MEF e del titolo giustificativo dei pagamenti operati dalla Camera di commercio.

 

La decisione della Corte

La Corte, chiarendo anzitutto la natura e i termini del thema decidendum, ha precisato, in primo luogo, che dall’ordinanza di rimessione si evince come le questioni sollevate, in riferimento ai parametri evocati, riguardino le disposizioni censurate limitatamente ai profili di loro applicazione alle Camere di commercio, nella parte cioè in cui prevedono che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa previste dalle norme censurate debbano essere versate annualmente all’entrata del bilancio dello Stato.

Ciò premesso, la Corte ha dichiarato le questioni sollevate fondate con riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, rilevando l’irragionevolezza dell’applicazione delle disposizioni censurate alle Camere di commercio, a fronte della particolare autonomia finanziaria di queste ultime, che preclude – ad avviso dei giudici costituzionali – la possibilità di ottenere finanziamenti adeguati da parte dello Stato e interventi di ripianamento di eventuali deficit generati dalla gestione amministrativa di tali finanziamenti.

Ricostruendo le linee fondamentali dello statuto giuridico delle Camere di commercio – definite dalla pregressa giurisprudenza della Corte enti autonomi di diritto pubblico dalla natura “anfibia”, in quanto, per un verso, “organi di rappresentanza delle categorie mercantili” e, per l’altro, “strumenti per il perseguimento di politiche pubbliche” – la Corte ha evidenziato come l’autonomia funzionale che connota la disciplina di tali enti ricomprenda, oltre ai caratteri dell’autogoverno e dell’autoamministrazione, anche l’autonomia finanziaria, cioè l’assenza di finanziamenti statali correnti e di interventi volti a garantirne il risanamento in caso di deficit accumulati nel corso della loro gestione ordinaria.

Alla luce di tale configurazione giuridica e operativa, la Corte ha ritenuto che la normativa censurata, disponendo una riduzione delle risorse disponibili, frustri le aspettative che le imprese nutrono a seguito del versamento del diritto annuale alle Camere di commercio. Tali riduzioni, incidendo in misura rilevante e gravosa sui bilanci di tali enti autonomi, hanno reso, a partire dal 2017 – anno a partire dal quale è entrata a regime la riduzione del diritto camerale del 50% - i sacrifici imposti non più sostenibili e compatibili con la Costituzione.

La Corte ha precisato, infatti, che l’equilibrio della finanza pubblica allargata non può sfociare nello sbilanciamento dei conti delle Camere di commercio, il quale costituisce una “intrinseca irragionevolezza” che provoca, tra le altre cose, riflessi negativi sui servizi da queste erogati alle imprese. Ne deriva, pertanto, una irragionevole penalizzazione della efficace gestione delle funzioni amministrative attribuite alle Camere di commercio, con conseguente violazione del principio di correttezza e buon andamento dell’amministrazione, discendenti dall’art. 97 Cost.

La Corte ha riscontrato la predetta irragionevolezza e la violazione dei parametri costituzionali evocati con riguardo a ciascuno dei gruppi di disposizioni censurate dal giudice rimettente.

I giudici costituzionali individuano, peraltro, un termine temporale finale di operatività della dichiarazione di illegittimità costituzionale alla data del 31 dicembre 2019. Ciò in quanto, nelle more del giudizio, è intervenuto il legislatore con l’adozione dell’art. 1, comma 590 e seguenti della legge n. 160 del 2019 (legge di bilancio 2020), con i quali è stata prevista la cessazione dell’applicazione, a decorrere dall’anno 2020, della precedente normativa in materia di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica e l’istituzione di un unico limite, legato al valore medio delle spese effettuate per acquisti di beni e servizi nel triennio 2016-2018, incrementato del 10 per cento.

La declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni censurate risulta, pertanto, circoscritta sia sotto il profilo soggettivo – dispiegandosi limitatamente all’applicazione di tali norme alle Camere di commercio – sia sotto il profilo temporale – riguardando l’obbligo di versamento annuale delle somme derivanti dalle riduzioni di spesa al bilancio dello Stato nel periodo dal 1° gennaio 2017 al 31 dicembre 2019.


 

2.4. La sentenza n. 228 del 2022 in materia di improcedibilità esecutiva e inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio Sanitario della Regione Calabria

La Corte costituzionale con sentenza n. 228 del 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale - per violazione degli artt. 24 e 111 Cost. -, dell’art. 16-septies, comma 2, lettera g), del decreto legge n. 146 del 2021 [3] (convertito con modificazioni dalla legge n. 215 del 2021), che pone il divieto, fino al 31 dicembre 2025, di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria, con l’inefficacia dei pignoramenti e delle prenotazioni a debito effettuati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione.

La decisione fa seguito alla sentenza n. 236 del 2021 (per la quale si rinvia alla rassegna del quarto trimestre 2021) che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle disposizioni che hanno protratto fino al 31 dicembre 2021 la sospensione delle procedure esecutive e l’inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale (art. 117, comma 4, del decreto legge n. 34 del 2020 [4] , prorogato dall’art. 3, comma 8, del decreto legge n. 183 del 2020 [5] ). Con tale sentenza, la Corte ha ribadito quanto già affermato nella sentenza n. 186 del 2013, ovvero che «uno svuotamento legislativo degli effetti di un titolo esecutivo giudiziale non è compatibile con l’art. 24 Cost. se non è limitato ad un ristretto periodo temporale ovvero controbilanciato da disposizioni di carattere sostanziale che garantiscano per altra via l’effettiva realizzazione del diritto di credito».

Le disposizioni oggetto della sentenza

L’art. 16-septies, comma 2, del decreto legge n. 146 del 2021 contiene una serie coordinata di disposizioni che, come viene espressamente dichiarato, intendono concorrere all'erogazione dei livelli essenziali di assistenza, assicurare il rispetto della direttiva europea sui tempi di pagamento e favorire l'attuazione del piano di rientro dei disavanzi sanitari della Regione Calabria. In particolare, la scrutinata lettera g), con la finalità di coadiuvare le attività previste dal comma 2, assicurandone il regolare svolgimento, stabilisce che, fino al 31 dicembre 2025, nei confronti degli enti sanitari calabresi “non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive”, aggiungendo subito dopo che “i pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalla Regione Calabria agli enti del proprio servizio sanitario regionale effettuati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n. 146 del 2021 non producono effetti dalla suddetta data e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per il pagamento dei debiti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo”.

I motivi del ricorso

Con distinte ordinanze il Tribunale di Crotone e, con identici argomenti, quello di Cosenza, da un lato, e il TAR Calabria (quale giudice dell’ottemperanza), dall’altro, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16-septies, comma 2, lettera g), del decreto legge 21 n. 146 del 2021 per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Ad avviso dei rimettenti, la disposizione scrutinata viola l’art. 24 Cost., imponendo ai creditori degli enti del servizio sanitario regionale un sacrificio in termini di effettività della tutela giurisdizionale non bilanciato da misure di tutela equivalente. Risultano parimenti violati l’art. 111 Cost., sotto il profilo della “parità delle armi”, essendosi introdotta una fattispecie di ius singulare in favore dell’esecutato pubblico e in danno dell’esecutante privato, e i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento tra analoghe posizioni creditorie, indotta dalla previsione di “un blocco sistematico in un’unica regione del territorio nazionale”.

La decisione della Corte costituzionale

In premessa appare opportuno ricordare la sentenza n. 168 del 2021 [6] , a cui il comma 2 dell’art. 16-septies del decreto legge n. 146 del 2021 rinvia per introdurre le misure in esso contenute, specificando che queste sono disposte “In ottemperanza alla sentenza della Corte costituzionale n. 168 del 23 luglio 2021”. Il giudice delle leggi nella pronuncia in commento sottolinea come la norma scrutinata, in linea con quanto richiesto dalla sentenza n. 168 del 2021, disponga “un coacervo di misure funzionali alla verifica e alla scrematura delle poste debitorie”, aggiungendo inoltre che “La crisi dell’organizzazione sanitaria della Regione Calabria è di tale eccezionalità da giustificare in linea di principio una specifica misura provvisoria di improcedibilità esecutiva e inefficacia dei pignoramenti”. Tuttavia, al contempo, la sentenza ribadisce come la Corte abbia chiarito in più occasioni [7] che la garanzia della tutela giurisdizionale assicurata dall’art. 24 Cost. comprenda anche la fase dell’esecuzione forzata, in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giudiziale, sebbene “La discrezionalità del legislatore, nello stabilire una misura del genere, non può tuttavia trascendere in un’eccessiva compressione del diritto di azione dei creditori e in un’ingiustificata alterazione della parità delle parti in fase esecutiva”. Il giudice delle leggi conclude sottolineando che non risulta soddisfatto l’obiettivo di un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco poiché “Una misura legislativa che incida sull’efficacia dei titoli esecutivi di formazione giudiziale è legittima quindi soltanto se limitata ad un ristretto periodo temporale e compensata da disposizioni sostanziali che prospettino un soddisfacimento alternativo dei diritti portati dai titoli, giacché altrimenti la misura stessa vulnera l’effettività della tutela in executivis garantita dall’art. 24 Cost., determinando inoltre uno sbilanciamento tra l’esecutante privato e l’esecutato pubblico, in violazione del principio di parità delle parti di cui all’art. 111 Cost. (come detto ante, punto chiarito dalle sentenze n. 236 del 2021 e n. 186 del 2013)”.

 

Lavori parlamentari

Con l’intento di ottemperare alla sentenza in commento, il legislatore [8] , con una modifica approvata in sede di conversione del decreto-legge n. 169 del 2022 [9] (conv, in legge n. 196 del 2022), ha stabilito che, al fine di concorrere all'erogazione dei livelli essenziali di assistenza, di assicurare il rispetto della direttiva europea dei tempi di pagamento e l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi sanitari della Regione Calabria, non possano essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria fino al 31 dicembre 2023, con esclusione dei crediti risarcitori da fatto illecito e retributivi da lavoro. Pertanto, con la norma inserita in sede di conversione, è stata al contempo ridotta la data di applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 16-septies del decreto legge n. 146 del 2021 (dal 31 dicembre 2025 al 31 dicembre 2023) e l’ambito di applicabilità (esclusione dei crediti risarcitori da fatto illecito e retributivi da lavoro).

 


 

2.5. La sentenza n. 245 del 2022 in materia di emendabilità del decreto-legge e caratteri della legge di conversione

 

Con la sentenza n. 245 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione del cosiddetto “decreto-milleproroghe” del dicembre 2010, convertito con modificazioni in legge nel febbraio 2011, nella parte in cui introduceva alcune norme di carattere ordinamentale, relative ai meccanismi di finanziamento del Servizio nazionale della protezione civile, ritenute dalla Corte estranee rispetto alla ratio unitaria del decreto, finalizzato ad intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti (dal Governo e, in sede di conversione, anche dal Parlamento), ovvero ad incidere su fattispecie– pur relative ad oggetti e materie diversi – che richiedono interventi regolatori di natura temporale.

 

Le disposizioni oggetto della sentenza

Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’articolo 2, comma 2-quater, del decreto-legge n. 225 del 2010 (recante “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie”, c.d. “Milleproroghe”), convertito, con modificazioni, nella legge n. 10 del 2011, nella parte in cui introduce i periodi secondo e terzo nel comma 5-quinquies dell’articolo 5 della legge n. 225 del 1992 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile).

In particolare, le norme censurate dalla Corte stabiliscono che, qualora per il finanziamento delle spese conseguenti alla dichiarazione dello stato di emergenza per eventi calamitosi non sia sufficiente il ricorso al fondo nazionale della protezione civile e si renda necessario l’utilizzo del fondo di riserva per spese impreviste, quest’ultimo deve essere immediatamente reintegrato per la parte corrispondente all’utilizzo mediante l’incremento dell’accisa sui carburanti deliberato dall’Agenzia delle dogane.

I motivi del ricorso

La questione di legittimità costituzionale della predetta disposizione è stata sollevata dalla Corte di cassazione, sezione quinta civile (tributaria) in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.

La questione trae origine dalla presentazione, da parte di una compagnia petrolifera, dei un’istanza di rimborso del differenziale di aliquota dell’accisa sui carburanti versato in applicazione delle norme censurate.

Secondo il giudice rimettente la disciplina censurata violerebbe l’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto del tutto estranea rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto avente ad oggetto la «proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese o alle famiglie». Conseguentemente, la legge di conversione, avrebbe scisso il legame essenziale tra decretazione di urgenza e potere di conversione.

La decisione della Corte costituzionale

La Corte ritiene fondata la questione prospettata dal giudice a quo e, richiamando un suo costante orientamento, affermato a partire dalla sentenza n. 22 del 2012, la quale viene richiamata in diverse parti in quanto avente ad oggetto la stessa disposizione del decreto milleproroghe oggetto della presente pronuncia, seppure relativamente ad altre parti. In virtù di tale orientamento, la Corte ribadisce ancora una volta che la legge di conversione deve avere un contenuto omogeneo a quello del decreto-legge, poiché l’art. 77, secondo comma, Cost. stabilisce un nesso di interrelazione funzionale tra il decreto-legge, adottato dal Governo in casi straordinari di necessità e urgenza, e la legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario.

Considerato che la legge di conversione rappresenta una fonte «funzionalizzata e specializzata» o «a competenza tipica» (ex plurimis sentenza n. 32 del 2014), il decreto-legge si caratterizza per essere a emendabilità limitata, essendone consentita la modifica, in sede di conversione, soltanto attraverso disposizioni che siano ricollegabili, dal punto di vista materiale o da quello finalistico, a quelle in esso originariamente contemplate (principio ribadito di recente nella sentenza n. 8 del 2022).

La limitazione dell’emendabilità è volta ad evitare che l’iter procedimentale semplificato, previsto dai regolamenti parlamentari per la conversione, sia sfruttato a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare (sul punto viene richiamata la sentenza n. 226 del 2019).

Ne deriva che ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione debba essere collegata a uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge, ovvero alla sua ratio dominante (ex plurimis, sentenza n. 32 del 2014) e ciò vale anche - se non a fortiori - per i provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo, per i quali rileva il profilo dell’omogeneità teleologica, che non può essere alterata in sede di conversione del decreto.

A partire da tale sue giurisprudenza consolidata, la Corte ribadisce che la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. si verifica solo allorquando le disposizioni aggiunte in sede di conversione risultino palesemente «estranee» o addirittura «intruse», cioè tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione, inficiando in tal modo la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione (sentenze n. 247 e n. 226 del 2019).

Nel caso di specie - ad avviso della Corte - le norme introdurrebbero un meccanismo di carattere ordinamentale che attiene all’operatività, a regime, del servizio della protezione civile, cioè a un «oggetto nemmeno latamente considerato, ab origine, dal decreto-legge di proroga dei termini».

Né tantomeno la Corte rinviene un punto di correlazione con la ratio unitaria del decreto nel riferimento generico alla «materia tributaria» contenuto nell’epigrafe e nel preambolo del decreto-legge in virtù dell’asserita natura sostanzialmente tributaria della disciplina introdotta. Diversamente opinando, la semplice evocazione della materia tributaria (o anche finanziaria), nell’epigrafe e/o nel preambolo del decreto, eluderebbe i predetti limiti all’emendabilità dei decreti-legge, prefigurando piuttosto un procedimento legislativo alternativo e semplificato rispetto a quello ordinario (soprattutto ove si faccia ricorso al maxiemendamento e alla questione di fiducia) in un ambito che è invece storicamente caratterizzato dal rilievo dei parlamenti in virtù del principio no taxation without representation, così come ricorda la Corte.

Queste stesse considerazioni varrebbero anche qualora fosse invocata la natura finanziaria della norma censurata, in quanto la «materia finanziaria» è stata già ritenuta in altre pronunce (sentenza n. 247 del 2019) concettualmente “anodina”: difatti ogni norma può, direttamente o indirettamente, produrre effetti finanziari che non possono però giustificare l’introduzione, in sede di conversione, di norme “estranee” o “intruse”.

In ragione delle suddette argomentazioni, la Corte dichiara quindi l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, precisando che la pronuncia spiega i suoi effetti limitatamente all’introduzione dei periodi secondo e terzo del comma 5-quinquies dell’articolo 5 della legge n. 225 del 1992 recante l’istituzione del Servizio nazionale della protezione civile, nel lasso di tempo della loro vigenza [10] .


3. I moniti, gli auspici e i richiami
rivolti al legislatore statale
(ottobre-dicembre 2022)

Nel periodo considerato si registra un solo monito della Corte diretto al legislatore statale, che ha riguardato la disciplina dei vitalizi dei parlamentari (sentenza n. 237 del 2022).

 

 

Sentenza

Oggetto del monito

Estratto

 

 

 

Sentenza n. 237/2022

del 5 ottobre – 28 novembre 2022

 

 

Camera Doc VII, n. 43

 

Riforma della disciplina dei vitalizi degli ex senatori e limiti dell’autodichia

« (…) l’adozione di norme volte a disciplinare gli emolumenti dovuti al termine dell’incarico elettivo, investendo una componente essenziale del trattamento economico del parlamentare, contribuisce ad assicurare a tutti i cittadini uguale diritto di accesso alla relativa funzione, scongiurando il rischio che lo svolgimento del munus parlamentare, che talora si dispiega in un significativo arco temporale della vita lavorativa dell’eletto, possa rimanere sprovvisto di adeguata protezione previdenziale. Pertanto, la opzione per la fonte legislativa – del resto espressamente operata, con riguardo alla indennità, dall’art. 69 Cost. – garantirebbe in più la scrutinabilità dell’atto normativo davanti a questa Corte e assicurerebbe un’auspicabile omogeneità della disciplina concernente lo status di parlamentare».


 

3.1. La sentenza n. 237 del 2022 in materia di rideterminazione della misura degli assegni vitalizi e delle quote di assegno vitalizio pro rata nonché dei trattamenti di reversibilità dei trattamenti previdenziali, per gli anni fino al 31 dicembre 2011 di mandato di Senatore

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 237 del 2022, ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale - promosse dal Consiglio di garanzia del Senato della Repubblica - riguardo alla rideterminazione (per gli anni di mandato svolti fino al 31 dicembre 2011) degli assegni vitalizi, delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata nonché dei trattamenti di reversibilità, degli ex Senatori aventi diritto.

Riguardo al fatto che la preminente determinazione sia consegnata ad atto interno parlamentare quale una deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica, la Corte rileva incidentalmente che una opzione per la fonte legislativa (così come è per la indennità parlamentare secondo la prescrizione dell'articolo 69 della Costituzione) garantirebbe, di contro, la scrutinabilità davanti alla medesima Corte ed una omogeneità della disciplina concernente lo status di parlamentare.

 

La questione

La Corte è stata investita di una duplice questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Consiglio di garanzia del Senato della Repubblica.

Esso era chiamato a decidere - in grado di appello - su alcune controversie mosse da ex Senatori circa l’applicazione della nuova disciplina dei vitalizi, introdotta - per gli anni di mandato antecedenti alla riforma dei vitalizi intervenuta nel 2012 - dalla deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica n. 6 del 2018.

Il Consiglio di garanzia del Senato si pronunciava su ricorso dell'Amministrazione del Senato, dopo che l'organo di autodichia di primo grado, la Commissione contenziosa, aveva parzialmente accolto i numerosi ricorsi avverso la ricordata deliberazione n. 6 del 2018.

Il Consiglio di garanzia ha legittimazione a sollevare l’incidente di legittimità costituzionale, in qualità di giudice a quo, in quanto costituisce, rileva la Corte costituzionale, organo di autodichia chiamato a svolgere, in posizione super partes, funzioni giurisdizionali.

 

La duplice questione sollevata dal Consiglio di garanzia concerne disposizione della legge collegata alla manovra di bilancio per il 1995 (articolo 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994) e della deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica 16 ottobre 2018, n. 6 (suo articolo 1, comma 1).

Nell'uno come nell'altro caso, il rimettente prospetta un vizio di illegittimità per contrasto con agli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 67, 69 e 117, primo comma, della Costituzione. In breve, si tratta di verificare se sussista una violazione dei principi generali di irretroattività, di tutela dell'affidamento, di temporaneità, di ragionevolezza e di proporzionalità, innanzi ad una reformatio in peius di prestazioni patrimoniali in godimento permanente, intervenuta con modalità di ricalcolo determinate a ritroso, cessata l'attività (il mandato parlamentare) cui quelle prestazioni si riferiscano.

La disposizione della legge n. 724 del 1994 richiamata ha disposto la soppressione dei regimi fiscali particolari concernenti sia le indennità sia gli assegni vitalizi (per la quota parte non derivante da fonti riferibili a trattenute già assoggettate a ritenute fiscali, effettuate al percettore).

La prospettazione del rimettente è che tale normativa sia da censurare nella parte in cui non prevede una disciplina per gli assegni vitalizi degli ex parlamentari, nel rispetto dei limiti posti al legislatore nell’individuazione dei parametri per determinare i vitalizi e con essi i limiti per un eventuale adeguamento retroattivo (punto 1 considerato in diritto).

Ma il 'grosso' della questione concerne, beninteso, la deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato n. 6 del 2018, nella parte in cui prevede che - a decorrere dal 1° gennaio 2019 - i trattamenti economici dei senatori cessati dal mandato, sia diretti sia di reversibilità, siano rideterminati applicando il metodo contributivo, e questo per gli assegni in corso di erogazione così come di futura erogazione maturati sulla base della normativa vigente al 31 dicembre 2011 e relativi agli anni di mandato svolti fino a quella stessa data.

Il metodo contributivo si attua mediante la moltiplicazione del montante contributivo individuale per un coefficiente di trasformazione, correlato all’età anagrafica del senatore alla data della decorrenza dell’assegno vitalizio o del trattamento previdenziale pro rata (non già alla data di entrata in vigore della deliberazione del Consiglio di presidente, o a data successiva per i parlamentari ancora in carica).

Per intendere la questione, vale soffermarsi su quella data, il 31 dicembre 2011.

Il 1° gennaio 2012 segna il momento di entrata in vigore di una nuova disciplina. La riforma del 2012 costituisce un vero tornante nella storia dell'istituto del vitalizio parlamentare, sorto negli anni Cinquanta con una originaria impronta mutualistica.

Il regolamento interno del Senato approvato con la deliberazione del Consiglio di Presidenza del 31 gennaio 2012 (recante "Regolamento delle pensioni dei Senatori"), così come il regolamento interno della Camera approvato con la deliberazione dell'Ufficio di Presidenza del 30 gennaio 2012 ("Regolamento per il trattamento previdenziale dei deputati"), hanno operato una marcata rivisitazione della materia, con il superamento dell'istituto dell'assegno vitalizio e l'introduzione (con decorrenza dal 1° gennaio 2012, si è ricordato) di un trattamento basato sul sistema di calcolo contributivo, sostanzialmente analogo a quello pensionistico vigente per i pubblici dipendenti.

L'impianto della riforma del 2012 prevede una contribuzione pari al trentatré per cento, ripartita tra il senatore e la Camera di appartenenza; come base imponibile contributiva, la indennità parlamentare lorda (esclusa ogni indennità di funzione e accessoria); come requisiti per il trattamento di quiescenza, il compimento dei 65 anni di età e l'esercizio del mandato parlamentare per almeno 5 anni effettivi (nonché la cessazione del mandato). Quanto all'ammontare dell’emolumento, è calcolato moltiplicando il montante individuale dei contributi per un coefficiente di trasformazione, relativo all’età del senatore al momento del conseguimento del diritto alla prestazione.

La riforma del 2012 ha così posto una puntuale disciplina del trattamento oltre la fine del mandato, tale da segnarne una 'convergenza' ed equiparazione rispetto ad un trattamento pensionistico ordinario.

Gli atti del 2012 hanno previsto che il nuovo sistema di calcolo contributivo si applichi integralmente ai parlamentari eletti dopo il 1° gennaio 2012.

Per i parlamentari invece allora in carica, nonché per i parlamentari già cessati dal mandato e successivamente rieletti, hanno previsto si applichi un sistema pro rata, determinato dalla somma della quota di assegno vitalizio definitivamente maturato alla data del 31 dicembre 2011 e di una quota corrispondente all'incremento contributivo riferito agli ulteriori anni di mandato parlamentare esercitato.

Su tale configurazione 'mista', prevista dalla riforma del 2012 per gli anni di mandato antecedenti alla sua entrata in vigore, ha inciso la deliberazione del 2018 (n. 6 del 16 ottobre, del Consiglio di presidenza del Senato; analoga determinazione era stata assunta dall’Ufficio di presidenza della Camera dei deputati, con deliberazione n. 14 del 12 luglio), che di fatto l'ha eliminata, statuendo una configurazione di contro esclusivamente contributiva anche per il periodo di mandato antecedente l'anno 2012, e con decorrenza dalla data del trattamento.

Pertanto anche le quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata, diretti e di reversibilità, maturati sulla base della normativa vigente alla data del 31 dicembre 2011, sono rideterminate moltiplicando il montante contributivo individuale per un coefficiente di trasformazione, relativo all’età anagrafica del senatore alla data della decorrenza del trattamento pro rata. 

 

La decisione della Corte

La Corte giudica inammissibili le questioni di legittimità costituzionalità sottoposte al suo vaglio.

La 'bocciatura' della questione relativa alla disposizione della legge collegata alla manovra di bilancio per il 1995 (articolo 26, comma 1, lettera b), della legge n. 724 del 1994) è dettata da ragioni di indole processuale. La Corte reputa non adeguatamente esplicitata la rilevanza della disposizione censurata, ai fini della decisione della controversia all’esame del giudice rimettente.

Non vengono cioè chiarite le ragioni per le quali il mancato riferimento nella disposizione ai vitalizi degli ex parlamentari costituirebbe un ostacolo alla decisione della controversia, tanto più che la disposizione concerne solo il trattamento fiscale delle indennità e degli assegni vitalizi dei soggetti diversi dagli ex parlamentari (5.1.1. considerato in diritto)

Anche la questione relativa alla deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato (la n. 6 del 16 ottobre 2018) è dichiarata inammissibile.

La ragione risiede nel fatto che si tratti di un atto normativo non compreso tra le fonti soggette al giudizio operato dalla Corte costituzionale ai sensi dell’articolo 134 della Costituzione (“atti aventi forza di legge”); si tratta invece di un atto normativo che costituisce, al pari dei regolamenti parlamentari 'maggiori', espressione dell’autonomia accordata dalla Costituzione alle Camere, conseguentemente il giudizio sulla sua legittimità spetta agli organi dell'autodichia parlamentare (beninteso, secondo moduli procedimentali di natura giurisdizionale).

La deliberazione del Consiglio di presidenza del Senato (l’organo di vertice dell’amministrazione del Senato) si inscrive, infatti, nel novero dei regolamenti parlamentari cosiddetti 'minori' o 'derivati', traenti fondamento e legittimazione da quelli 'maggiori' o 'generali' - questi ultimi approvati da ciascuna Camera a maggioranza assoluta dei suoi componenti (ai sensi dell’articolo 64, primo comma, della Costituzione) e dotati di una sfera di competenza distinta, e riservata, rispetto a quella della legge ordinaria.

Gli uni e gli altri regolamenti costituiscono una manifestazione della potestà normativa riconosciuta dalla Costituzione alle Camere a presidio della loro indipendenza e del libero svolgimento delle funzioni (sentenza n. 262 del 2017), concretando uno statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari (sentenza n. 379 del 1996) quale definito (e delimitato) dalla Costituzione all'articolo 64 (per l'organizzazione interna) ed all'articolo 72 (per la disciplina del procedimento legislativo là dove direttamente regolato dalla Costituzione).

Pertanto gli uni e gli altri regolamenti sono da iscriversi tra le fonti dell’ordinamento generale della Repubblica, produttive sì di norme (e sottoposte agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni costituzionali) ma non annoverabili tra gli atti aventi forza di legge 'giustiziabili' innanzi alla Corte.

Alla declaratoria di inammissibilità delle questioni di costituzionalità al suo esame, la Corte aggiunge in calce una considerazione, che si direbbe assumere valenza, se non di monito, di auspicio.

Rileva la Corte come la riserva di regolamento, quale sfera materiale a competenza esclusiva, sia costituzionalmente prescritta in materia di procedimento legislativo. Per gli altri ambiti del diritto parlamentare, rimane demandata alla discrezionalità del Parlamento la scelta della fonte più congeniale alla materia da trattare.

Ed è sì vero che la materia dei vitalizi sia stata disciplinata mediante atti ascrivibili ai regolamenti 'minori', e fin dagli esordi repubblicani (quando l'istituto aveva tratti spiccati di mutualità, in seguito peraltro mutati). Tuttavia la determinazione di un regime speciale non con legge bensì con regolamenti interni delle Camere, rimane scelta discrezionale. Ed osserva la Corte costituzionale, la diversa opzione “per la fonte legislativa – del resto espressamente operata, con riguardo alla indennità, dall’articolo 69 della Costituzione – garantirebbe in più la scrutinabilità dell’atto normativo davanti a questa Corte e assicurerebbe un’auspicabile omogeneità della disciplina concernente lo status di parlamentare”.

Può commentarsi come, con questo rapido passaggio entro le considerazioni in diritto della sentenza in esame, la Corte, nel ritenere le Camere 'arbitre' dell'estensione della disciplina con legge o con atto parlamentare interno, intersechi un complesso dibattito, in cui la dottrina costituzionalistica parrebbe non concorde nella interpretazione dell'articolo 69 della Costituzione, per la materia cui sia riconducibile l'emolumento correntemente definito vitalizio o quel che ad esso subentri. Secondo alcuni, sarebbe materia ricompresa nella riserva di legge posta dall'articolo 69 della Costituzione (che alla materia dell'indennità parlamentare ricondurrebbe qualsivoglia emolumento legato alla funzione); secondo altri, la medesima disposizione costituzionale, trattando della sola indennità parlamentare, e non di altro, porrebbe implicitamente una riserva di regolamentazione parlamentare (talché si potrebbe giungere, lungo questa interpretazione, a sostenere che la fonte legislativa nemmeno sia abilitata ad intervenire in materia di vitalizi).


 

4. Altre pronunce di interesse

4.1. Ordinanza n. 212 del 2022, in materia di obbligo di possesso ed esibizione del c.d. green pass ai fini dell'accesso alle sedi della Camera per l'elezione del Presidente della Repubblica

 

Con l'ordinanza n. 212 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso nei confronti del Parlamento in seduta comune dalla deputata Sara Cunial, cui è stato negato l’accesso alle sedi della Camera in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, in quanto non munita di valida certificazione verde Covid-19.

Le disposizioni oggetto dell'ordinanza

Evocando la violazione di plurimi parametri costituzionali – artt. 1, 3, 67 e 83, nonché artt. 10, primo comma, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 14 CEDU, 52 CDFUE, 4 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e 3 del Prot. addiz. CEDU – la ricorrente lamenta che non le sarebbe stato consentito di esercitare una propria prerogativa costituzionale, consistente nella partecipazione all’elezione del Capo dello Stato.

Più precisamente, la ricorrente impugna la comunicazione del Presidente della Camera dei deputati del 24 gennaio 2022, nonché gli atti antecedenti, consequenziali o comunque connessi.

Con la predetta comunicazione, il Presidente della Camera dei deputati confermava il diniego di accesso alla ricorrente evidenziando che, nel caso della ricorrente, «l’impedimento all’ingresso nelle sedi della Camera […] è rimuovibile attraverso il comportamento del singolo elettore, rimesso alla sua libera scelta, ossia anche attraverso l’esecuzione di un tampone antigenico» [11] .

I motivi del ricorso

La ricorrente sostiene che il diniego di ingresso alla Camera dei deputati, per il quale era richiesto il possesso della certificazione verde, e il diniego di accedere all’area esterna, riservata ai parlamentari e delegati regionali risultati positivi o individuati quali contatti stretti di positivi al COVID-19, avrebbe comportato la menomazione della propria attribuzione costituzionale relativa alla partecipazione alle elezioni del Capo dello Stato.

La ricorrente promuove conflitto «avverso la proclamazione del Presidente della Repubblica del 29 gennaio 2022 e tutti gli atti e provvedimenti antecedenti, consequenziali, o comunque connessi», con la richiesta di conseguente annullamento della proclamazione del Presidente della Repubblica intervenuta, innanzi alle Camere riunite, il 29 gennaio 2022.

La decisione della Corte costituzionale

Nell’accertare la sussistenza del requisito soggettivo e di quello oggettivo per la legittimazione attiva al conflitto, la Corte rileva la carenza di questo secondo in quanto ritiene non soddisfatta «l’allegazione di vizi che determinino violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari» rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione (principio affermato a partire dall’ordinanza n. 17 del 2019, che per la prima volta ha riconosciuto la legittimazione attiva al conflitto da parte del singolo parlamentare).

Nel caso in esame, la ricorrente avrebbe infatti omesso di dimostrare se l’obbligo di possesso ed esibizione della certificazione verde ai fini dell’accesso alle sedi della Camera sia tale da costituire un effettivo impedimento all’esercizio delle attribuzioni proprie dei parlamentari (in questo senso, già ordinanze n. 256 e n. 255 del 2021).

In particolare, il ricorso non avrebbe fornito elementi utili per valutare se l’adempimento richiesto dalla Camera sia in effetti lesivo della prerogativa parlamentare o se, come sostenuto dal Consiglio di giurisdizione della Camera dei deputati sullo stesso caso, la sottoposizione ad un tampone antigenico comporti una «invasività minima», comunque rientrando nell’«insieme di responsabilità, potestà, diritti e doveri che compongono lo status di parlamentare» (sentenza del Consiglio di giurisdizione n. 1 del 7 marzo 2022, richiamata dalla Corte).


 

4.2. Ordinanza n. 220 del 2022, in materia di divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone positive al SARS-CoV-2 sottoposte alla misura della quarantena

 

Con l'ordinanza in epigrafe la Corte costituzionale ha esaminato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, lettera e), e 4, comma 6, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 [12] , traslata sugli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 [13] , sollevata, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Aosta, sezione penale, con ordinanza del 19 novembre 2021 [14] .

 Le disposizioni scrutinate, così come quelle oggetto di rimessione, sanzionano penalmente la condotta di chi, risultato positivo al virus che genera il COVID-19 (SARS-CoV-2), e sottoposto per tale ragione alla misura della quarantena, si allontani dalla propria dimora o abitazione.

Nell'adottare la pronuncia summenzionata, di manifesta infondatezza della questione sollevata, la Corte costituzionale ha richiamato la ratio decidendi della propria precedente sentenza n. 127 del 2022, con la quale era stato ritenuto non fondato un analogo dubbio di legittimità costituzionale, prospettato, in relazione all'art. 13 della Costituzione, proprio con riferimento ai succitati artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 33/2020.

 

Le disposizioni oggetto dell'ordinanza

Con le disposizioni oggetto di vaglio da parte dell'ordinanza in commento si pone il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (art. 1, comma 6, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito), e si stabilisce che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 [15] del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 [16] del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito).

Come sopra accennato, la Corte costituzionale ha operato la traslazione della questione di legittimità sulle disposizioni anzidette, ritenendo che le corrispondenti norme oggetto dell'ordinanza di rimessione - ossia i succitati artt. 1, comma 2, lettera e), e 4, comma 6, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 - non fossero applicabili ratione temporis nel giudizio a quo, avente per oggetto un fatto commesso il 1° gennaio 2021 [17] .

Va incidentalmente ricordato che, nel sistema delineato dal d.l. 33/2020, oltre alla quarantena del soggetto risultato positivo, era prevista anche la quarantena - qualificata espressamente come "precauzionale"-  del soggetto risultato in contatto stretto con altro soggetto confermato positivo [18] (art. 1, co. 7, del d.l. testé citato, che non ha formato oggetto di scrutinio nella pronuncia in commento).

I motivi del ricorso

Il sospetto di incostituzionalità del giudice a quo muoveva dall'assunto che la quarantena del soggetto positivo fosse misura restrittiva della libertà personale, dunque da inquadrare nella prospettiva dell'art. 13 della Costituzione. Il rimettente opinava, pertanto, che la misura in oggetto fosse costituzionalmente illegittima, in quanto - per come configurata dalle disposizioni censurate - sottratta dal legislatore alla riserva di giurisdizione prevista dalla summenzionata disposizione costituzionale.

La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione sollevata, richiamando gli argomenti posti alla base della propria precedente sentenza n. 127 del 2022, con la quale si era già osservato che «la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione, anziché restringere la libertà personale», in quanto «non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia», e «non determina alcuna degradazione giuridica [19] di chi vi sia soggetto».

La Corte, reputando che il rimettente non abbia addotto alcun argomento utile in senso contrario - se non riferimenti, considerati dalla stessa Corte impropri, alle misure dell'arresto in flagranza e del fermo di indiziato, del trattenimento dello straniero presso un centro di permanenza e del trattamento sanitario obbligatorio [20] -, ha ritenuto di dare continuità alla propria precedente giurisprudenza in materia.

Resta pertanto confermato, alla luce della pronuncia in epigrafe, che la quarantena del soggetto risultato positivo al SARS-CoV-2, così come configurata dal legislatore con le disposizioni scrutinate, è istituto limitativo della libertà di circolazione e non già restrittivo della libertà personale, e quindi non soggetto alle peculiari garanzie apprestate dall'art. 13 della Costituzione in tema di habeas corpus.

A tale ultimo riguardo, si ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il "nucleo irriducibile" dell’habeas corpus, tutelato dall’art. 13 Cost. e ricavabile per induzione dal novero di atti espressamente menzionati dallo stesso articolo (detenzione, ispezione, perquisizione personale), comporta che il legislatore non possa assoggettare a coercizione fisica una persona, se non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, o convalidato da quest’ultima entro quarantotto ore (v. sent. 127/2022, punto 4 in diritto).

 

 



[1]     Ai sensi della disposizione richiamata, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile.

[2]     Il quarto periodo specifica che per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.

[3] Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili, convertito dalla legge n. 215/2021.

[4]     Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19.

[5]     Decreto legge 31 dicembre 2020, Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi, di realizzazione di collegamenti digitali, di esecuzione della decisione (UE, EURATOM) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, nonché in materia di recesso del Regno Unito dall'Unione europea.

[6]     La sentenza affronta una serie di complesse questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la disciplina in tema di commissariamento del servizio sanitario regionale calabrese; si veda sul punto il Comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale, “Parzialmente incostituzionale il commissariamento della sanità in Calabria: non basta cambiare il vertice” del 23 luglio 2021.

[7]     Il riferimento è alle sentenze n. 140 del 2022 e n. 128 del 2021.

[8]     La stessa sentenza 228 del 2022 si concludeva con l’invito al legislatore di valutare “l’introduzione di una misura temporanea di improcedibilità delle esecuzioni e di inefficacia dei pignoramenti, qualora risulti indispensabile in rapporto all’eccezionalità dei presupposti, osservando tuttavia i sopra enunciati limiti, circa la platea dei creditori interessati, l’obiettività delle procedure e la durata della misura, e tenendo altresì conto degli effetti medio tempore prodottisi”.

[9]     D.L. 8 novembre 2022, n. 169, Disposizioni urgenti di proroga della partecipazione di personale militare al potenziamento di iniziative della NATO, delle misure per il servizio sanitario della regione Calabria, nonché di Commissioni presso l'AIFA e ulteriori misure urgenti per il comparto militare e delle Forze di polizia. La disposizione inserita in sede di conversione del decreto legge n. 169 è il comma 3-bis dell’art. 2.

 

[10] Si ricorda, infatti, che le norme oggetto di censura sono rimaste in vigore dal febbraio 2011 al maggio 2012. Successivamente alla richiamata sentenza n. 22 del 2012 (relativa al comma 5-quater e al primo periodo del comma 5-quinquies dell’articolo 5 della legge n. 225 del 1992), le stesse norme sono state sostituite ad opera del decreto-legge n. 59 del 2012 (recante disposizioni urgenti per il riordino della protezione civile) che è intervenuto sui commi 5-quater e 5-quinquies (sia nei periodi oggetto della presente sentenza, che in quelli oggetto della sentenza. n. 22 del 2012), per essere infine abrogate nel 2018, ad opera del c.d. Codice della protezione civile (di cui al decreto legislativo n. 1 del 2018), che ha abrogato la legge n. 225 del 1992.

[11] Diverso– come ricorda la comunicazione – era il caso dei parlamentari e delegati regionali sottoposti alla misura dell’isolamento, in quanto risultati positivi o comunque sottoposti a quarantena precauzionale; per loro era infatti intervenuto il decreto-legge n. 2 del 2022 a rimuovere un impedimento «non diversamente superabile», consentendo loro di raggiungere la sede del Parlamento, prendere parte alle operazioni di voto relative all’elezione del Capo dello Stato e fare rientro alla sede di isolamento o quarantena. Tale decreto, una volta prodotti i suoi effetti, è stato abrogato ad opera della legge n. 11 del 2022, che ha fatto espressamente salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto abrogato.

[12]   Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito, con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35.

[13]   Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74

[14]   Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2022.

[15]   Articolo concernente i delitti colposi contro la salute pubblica.

[16]   L'articolo 260 sopra richiamato - come da ultimo modificato dall'art. 4, comma 7, D.L. 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 maggio 2020, n. 35 - stabilisce che chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo è punito con l'arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000. Se il fatto è commesso da persona che esercita una professione o un'arte sanitaria la pena è aumentata.

[17]   La traslazione, che ha evitato una pronuncia di inammissibilità della questione, è stata disposta "in ragione della sostanziale identità delle norme e del contesto normativo in cui esse si collocano" (l'ordinanza richiama in proposito la precedente sentenza 14/2019; v. in part. punto 2 in diritto di quest'ultima). Si ricorda che la disposizione sulla quarantena scrutinata dalla Corte per effetto della traslazione ha ripreso la previsione recata dall'articolo 1, comma 2, lettera e) del decreto-legge n. 19/2020.

[18]   Nella successiva evoluzione della normativa in materia, il confinamento del soggetto positivo, già qualificato come quarantena, è stato più volte rimodulato ed ha assunto la denominazione di isolamento, mentre la quarantena precauzionale del "contatto stretto" è stata sostituita dall'istituto dell'autosorveglianza.

[19]   Si ha degradazione giuridica, secondo la giurisprudenza costituzionale, nei casi in cui la legge assoggetta l’individuo a specifiche prescrizioni che si riflettono sulla facoltà di disporre di sé e del proprio corpo, compresa quella di locomozione, recando al contempo «una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona» (sentenze n. 419 del 1994 e n. 68 del 1964, richiamate dalla sent. 127/2022).

[20]   Riferimenti ritenuti impropri in quanto quelle richiamate dal rimettente sono misure accomunate dall’impiego della coercizione fisica, che invece fa difetto nella misura della quarantena.