Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni
Titolo: Il controllo di costituzionalità delle leggi
Serie: Rassegna costituzionale   Numero: 4/Ottobre - Dicembre 2021
Data: 09/02/2022
Organi della Camera: I Affari costituzionali

 

 

 

 

Il controllo di costituzionalità delle leggi

 

______________________

 

 

RASSEGNA TRIMESTRALE

DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE

______________________

 

 

 

ANNO I NUMERO 4 - OTTOBRE-DICEMBRE 2021

 


 

 

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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del quarto trimestre dell’anno 2021. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.

Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.

 

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I N D I C E

 

1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore........................................................................................ 3

2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali........... 7

§  2.1 Tabella di sintesi (ottobre-dicembre 2021).............................................. 7

§  2.2. La sentenza n. 218 del 2021 in materia di obbligo di affidamento a terzi da parte di concessionari di contratti pubblici........................................ 8

§  2.3. La sentenza n. 236 del 2021 in materia di sospensione delle procedure esecutive durante l’emergenza sanitaria....................................................... 12

3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (ottobre-dicembre 2021)................................................................ 15

§  3.1 La sentenza 200 del 2021 in materia di termine di prescrizione dell’accisa sull’energia elettrica nel caso di comportamento omissivo del contribuente.................................................................................................. 21

§  3.2 La sentenza n. 203 del 2021 in materia di processo penale, equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo, computo della durata del processo.............................................................................. 23

§  3.3 La sentenza n. 220 del 2021 sul finanziamento e riparto del Fondo di solidarietà comunale e sull'esigenza di individuare i livelli essenziali delle prestazioni.................................................................................................... 26

§  3.4 La sentenza n. 231 del 2021 in materia di accesso dei condannati minorenni alle misure alternative alla detenzione, in condizioni analoghe a quelle stabilite per gli adulti...................................................................... 33

§  3.5 La sentenza 240 del 2021 in materia di elezione del sindaco della città metropolitana................................................................................................ 35

§  3.6 L'ordinanza n. 244 del 2021 in materia di procedibilità a querela dei reati di lesioni personali stradali................................................................... 41

§  3.7 La sentenza n. 246 del 21 dicembre 2021 sulla trasparenza nella contabilità regionale..................................................................................... 45

§  3.8 La sentenza n. 259 del 2021 in materia di furto aggravato.................... 48

4. Altre pronunce di interesse........................................................ 51

§  4.1. Focus: la sentenza n. 198 del 2021 in materia di  emergenza Covid-19 e uso dei d.P.C.m.......................................................................................... 51

§  4.2 Focus: la sentenza n. 213 del 2021 in materia di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili locati per morosità........................................................................................................ 56

 


1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore

La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).

 

Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.

La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, ma solo da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).

Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza

di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In questo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.

La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).

Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.

La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).

Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).

 

Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).

Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.

Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.

Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.

In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.

 

L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XVIII è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).

 


2. Le pronunce di illegittimità
costituzionale di norme statali

2.1 Tabella di sintesi (ottobre-dicembre 2021)

 

 

 

Sentenza

Norme dichiarate illegittime

Parametro costituzionale

Oggetto

 

 

 

 

Sentenza n. 218/2021

del 5 ottobre – 23 novembre 2021

 

Camera Doc VII, n. 756

Senato Doc VII, n. 130

 

art. 1, co 1, lett. iii), L. 28 gennaio 2016, n. 11, e art. 177, co 1, D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici)

articoli 3, primo comma, e 41, primo comma Cost.

Obbligo, a carico dei titolari di concessioni affidate direttamente, di esternalizzare tutta l’attività oggetto della concessione mediante appalto a terzi dell’80% dei contratti inerenti la concessione stessa e assegnazione del restante 20% a società in house o comunque controllate o collegate

 

Sentenza n. 236/2021

del 24 novembre – 7 dicembre 2021

 

Camera Doc VII, n. 771

Senato Doc VII, n. 131

 

art. 3, comma 8, D.L. 31 dicembre 2020, n. 183, conv. L. n. 21/2021

 

 

 

articoli 24 e 111, Cost.

Proroga dal 31 dicembre 2020 al 31 dicembre 2021 del divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale

 

 


 

2.2. La sentenza n. 218 del 2021 in materia di obbligo di affidamento a terzi da parte di concessionari di contratti pubblici

 

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 218 del 2021, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle previsioni, contenute nel decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) e nella corrispondente norma di delega della legge 28 gennaio 2016, n. 11[1], concernenti l’obbligo, a carico dei titolari di concessioni affidate direttamente, di affidare all'esterno, mediante appalto a terzi, l’80 per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture oggetto di concessione, e di assegnare il restante 20 per cento a società in house o comunque controllate o collegate. A giudizio della Corte, le norme dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al fine, pur legittimo, di garantire l’apertura al mercato e alla concorrenza.

 

Le disposizioni oggetto della sentenza

Risultano nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’articolo 1, comma 1, lettera iii), della legge n. 11 del 2016 e l’articolo 177, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), nonché, in via consequenziale, ai sensi dell’articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), i commi 2 e 3 del medesimo articolo 177 del decreto legislativo n. 50 del 2016.

In particolare, le norme censurate obbligano i titolari delle concessioni già in essere alla data di entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell'Unione europea, a esternalizzare, mediante affidamenti a terzi con procedura di evidenza pubblica, l’80 per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture (60 per cento per i titolari di concessioni autostradali), relativi alle concessioni di importo pari o superiore a 150.000 euro, nonché di realizzare la restante parte di tali attività tramite società in house o società controllate o collegate ovvero operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato. I commi 2 e 3 del richiamato articolo 177 – non censurati dal giudice remittente ma oggetto di una dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale – dispongono i termini entro cui le concessioni devono adeguarsi alle disposizioni di cui al comma 1 dell’articolo 177 e disciplinano i poteri di vigilanza dell’ANAC in materia di verifica del rispetto dei predetti limiti, secondo le modalità indicate dall'ANAC stessa in apposite linee guida, stabilendo in particolare che nel caso di situazioni di squilibrio rispetto ai limiti indicati reiterate per due anni consecutivi, il concedente applica una penale in misura pari al 10 per cento dell'importo complessivo dei lavori, servizi o forniture che avrebbero dovuto essere affidati con procedura ad evidenza pubblica.

 

I motivi del ricorso

Il Consiglio di Stato, sezione quinta – investito di un ricorso in appello proposto dalla società A2A illuminazione pubblica contro l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) e nei confronti di altri soggetti, per la riforma della sentenza del TAR Lazio, sezione prima, 15 luglio 2019, n. 9309 – ha sollevato questioni di legittimità costituzionale delle richiamate disposizioni, ritenendole lesive delle seguenti disposizioni costituzionali:

1.     art. 3, secondo (recte: primo) comma, Cost., ai sensi del quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (principio di eguaglianza formale);

2.     art. 41, primo comma, Cost., ai sensi del quale l'iniziativa economica privata è libera;

3.     art. 97, secondo comma, Cost., il quale prescrive che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialità dell'amministrazione.

 

Le norme censurate, ad avviso del giudice a quo, pur non violando la normativa e i principi dell’Unione europea, si pongono in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost. in quanto prevedono un obbligo generalizzato e indistinto di dismissione a prescindere dall'effettiva dimensione dell'impresa che gestisce la concessione, dall’oggetto e dall’importanza del settore di riferimento, e dall’avvenuta o meno scadenza della concessione, e trascurano del tutto le legittime aspettative dei concessionari – contrapposte a quelle di tutela della libera concorrenza – di proseguire l’attività economica in corso di svolgimento.

Inoltre, ad avviso del giudice remittente, l’obbligo di dismissione totalitaria contrasta con l’art. 41 Cost. traducendosi in un impedimento assoluto e definitivo a proseguire l’attività economica privata avviata in base a un titolo amministrativo legittimo sulla base della normativa all'epoca vigente e determina uno snaturamento del ruolo del privato concessionario, ridotto in sostanza a mera stazione appaltante.

Risulta infine violato, secondo il giudice a quo, l’art. 97, secondo comma, Cost. per il fatto che né la norma delegante né quella delegata considerano gli effetti della imposta dismissione sull’efficiente svolgimento di servizi pubblici essenziali.

 

La decisione della Corte costituzionale

La Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11, e 177, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, nonché, in via consequenziale (ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87), dell’art. 177, commi 2 e 3, del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016 (i quali, a giudizio della Corte, integrano la normativa recata dal comma 1, costituendo un insieme organico, espressivo di una logica unitaria, che trova il suo fulcro nell’obbligo di affidamento previsto nel comma 1).

 

Nel suo percorso argomentativo la Corte, in un’ottica di bilanciamento tra valori costituzionalmente protetti, ritiene che la disciplina oggetto di censura costituisca una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine perseguito. In particolare, sotto il profilo dell’irragionevolezza, la disciplina è lesiva della libertà di iniziativa economica, perché, essendo impossibile all'imprenditore concessionario di conservare finanche un minimo di residua attività operativa, trasforma la natura stessa della sua attività imprenditoriale, e lo tramuta da soggetto operativo in soggetto preposto ad attività esclusivamente burocratica di affidamento di commesse. Un ulteriore indice della irragionevolezza del vincolo rileva, secondo la Corte, per la dimensione della prevista soglia di applicazione alle concessioni di importo superiore a 150.000 euro, soglia normalmente superata dalla quasi totalità delle concessioni. 

Ad avviso della Corte, inoltre, un obbligo radicale e generalizzato di esternalizzazione non supera nemmeno – nello scrutinio del bilanciamento operato fra diritti di pari rilievo (libertà di impresa e tutela della concorrenza) – la doverosa verifica di proporzionalità, dal momento che il legislatore sarebbe stato tenuto a perseguire l'obiettivo di tutela della concorrenza non attraverso una misura radicale e ad applicazione indistinta, ma calibrando l'obbligo di affidamento all'esterno sulle varie e differenziate situazioni concrete, ad esempio attenuandone la radicalità attraverso una modulazione dei tempi, ovvero limitandolo ed escludendolo laddove la posizione del destinatario apparisse particolarmente meritevole di protezione.

In conclusione, la Corte sottolinea che se la previsione legislativa di obblighi a carico dei titolari delle concessioni in essere, a suo tempo affidate in maniera non concorrenziale, può risultare necessaria nella corretta prospettiva di ricondurre al mercato settori di attività ad esso sottratti, le misure da assumere a tale fine non possono non tenere conto di tutto il quadro degli interessi rilevanti e operarne una ragionevole composizione, nella consapevolezza che tali scelte presentano una complessità che non sembra essere sfuggita allo stesso legislatore, il quale ha prorogato più volte il termine per l'adeguamento, fissandolo, da ultimo, al 31 dicembre 2022.

 

Attività parlamentare

Nella corrente legislatura il termine del periodo di adeguamento delle concessioni già in essere alla data di entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici, non affidate con la formula della finanza di progetto, ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica – previsto dal comma 2, primo periodo, dell’art. 177 del Codice – è stato più volte prorogato, dapprima al 31 dicembre 2020 (ad opera dell’art. 1, comma 20, lett. bb), del D.L. 32/2019), quindi al 31 dicembre 2021 (ad opera dell’art. 1, comma 9-bis, lett. a), del D.L. 162/2019) e, da ultimo, al 31 dicembre 2022, ad opera dell’art. 47-ter del D.L. 77/2021.

È, inoltre, in corso di esame al Senato presso l'8a Commissione, il disegno di legge di delega al Governo in materia di contratti pubblici (AS 2330), che, tra i principi ed i criteri direttivi elencati, prevede all’art. 1, comma 2, lettera s) la “razionalizzazione della disciplina concernente le modalità di affidamento dei contratti da parte dei concessionari, anche al fine di introdurre una disciplina specifica per i rapporti concessori riguardanti la gestione di servizi e, in particolare, dei servizi di interesse economico generale”.

2.3. La sentenza n. 236 del 2021 in materia di sospensione delle procedure esecutive durante l’emergenza sanitaria

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 236 del 2021, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle disposizioni che hanno protratto fino al 31 dicembre 2021 la sospensione delle procedure esecutive e l’inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale (art. 117, comma 4, del decreto-legge n. 34 del 2020, prorogato dall’art. 3, comma 8, del decreto-legge n. 183 del 2020). Costituzionalmente tollerabile nella sua formulazione originaria, la sospensione è divenuta una misura sproporzionata e irragionevole per effetto della proroga, che ha leso il diritto di tutela giurisdizionale dei creditori degli enti del Servizio sanitario (art. 24 Cost.), la parità delle armi e la ragionevole durata del processo esecutivo (art. 111 Cost.). La Corte ha sostenuto infatti che il protratto sacrificio imposto ai creditori sul piano della tutela giurisdizionale avrebbe potuto essere ricondotto a conformità con i parametri costituzionali ove fosse stata approntata per i creditori una tutela alternativa di contenuto sostanziale.

 

Le disposizioni oggetto della sentenza

La pronuncia di illegittimità costituzionale ha ad oggetto l’articolo 3, comma 8, del decreto-legge n. 183 del 2020, che ha prorogato la sospensione delle procedure esecutive e l’inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale fino al 31 dicembre 2021. La proroga ha riguardato, in particolare, la disposizione dell’art. 117, comma 4, del decreto-legge n. 34 del 2020 che, «al fine di far fronte alle esigenze straordinarie ed urgenti derivanti dalla diffusione del COVID-19 nonché per assicurare al Servizio sanitario nazionale la liquidità necessaria allo svolgimento delle attività legate alla citata emergenza», aveva originariamente imposto la sospensione di tali azioni esecutive fino al 31 dicembre 2020.

 

I motivi del ricorso

Con distinte ordinanze, i tribunali ordinari di Napoli e di Benevento e il tribunale amministrativo regionale per la Calabria hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 117, comma 4, del decreto-legge n. 34 del 2020, come modificato dall’art. 3, comma 8 del decreto-legge n. 183 del 2020, evidenziandone il contrasto con:

§  l’art. 24 Cost., poiché la disposizione impone ai creditori degli enti sanitari un sacrificio, sotto forma di improcedibilità delle azioni esecutive dagli stessi già promosse, non bilanciato dalla predisposizione di idonei mezzi di tutela sostitutiva;

§  con l’art. 111 Cost., per l’alterazione della “parità delle armi” in danno dell’esecutante privato e a favore dell’esecutato pubblico e la negativa incidenza sulla ragionevole durata del processo esecutivo;

§  con l’art. 3 Cost., in quanto la proroga della misura di sospensione avrebbe irragionevolmente superato il termine finale dello stato di emergenza sanitaria, e comunque quello stabilito per analoghe fattispecie di sospensione delle esecuzioni (segnatamente, il c.d. blocco degli sfratti).

 

La decisione della Corte costituzionale

La Corte ha ritenuto fondate le questioni sollevate in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione, con assorbimento della questione di cui all’articolo 3 Cost.

In primo luogo, la Corte ha ribadito quanto già affermato nella sentenza n. 186 del 2013, ovvero che «uno svuotamento legislativo degli effetti di un titolo esecutivo giudiziale non è compatibile con l’art. 24 Cost. se non è limitato ad un ristretto periodo temporale ovvero controbilanciato da disposizioni di carattere sostanziale che garantiscano per altra via l’effettiva realizzazione del diritto di credito».

In secondo luogo, la Corte ha ricordato la più recente sentenza n. 128 del 2021, nella quale – proprio in relazione alla sospensione di procedure esecutive nel contesto dell’emergenza sanitaria – si afferma che «la tutela in executivis è componente essenziale del diritto di accesso al giudice, sicché la sospensione delle procedure esecutive deve costituire un evento eccezionale, sorretto da un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto. Tale sentenza ha rimarcato che, se l’irrompere dell’emergenza pandemica da COVID-19 può aver giustificato in una prima fase il sacrificio dei creditori procedenti sulla base di un criterio applicativo “a maglie larghe”, la proroga della misura nelle fasi successive avrebbe richiesto da parte del legislatore una riedizione e un affinamento del bilanciamento sotteso alla misura, poiché la sua invarianza cristallizza un pregiudizio individuale che dovrebbe essere invece strettamente limitato nel tempo».

In continuità con la propria richiamata giurisprudenza, la Corte ha dunque affermato che se nella prima fase dell’emergenza sanitaria il “blocco” delle esecuzioni e l’inefficacia dei pignoramenti (prevista dall’art. 117, comma 4, del decreto-legge n. 34 del 2020 fino al 31 dicembre 2020) poteva dirsi ragionevole e proporzionato, non altrettanto può dirsi per la proroga di un anno, priva di qualsivoglia aggiornamento della valutazione comparativa tra i diritti dei creditori, giudizialmente accertati, e gli interessi dell’esecutato pubblico.


 

3. I moniti, gli auspici e i richiami
rivolti al legislatore statale
(ottobre-dicembre 2021)

Nel periodo considerato i moniti e gli inviti diretti al legislatore statale hanno riguardato:

 

§  la decorrenza del termine quinquennale di prescrizione per il recupero dell’accisa sull’energia elettrica dalla scoperta dell’illecito, in caso di comportamento omissivo del contribuente (sentenza n. 200 del 2021);

§  la decorrenza, per la persona offesa, del computo del termine di ragionevole durata del processo penale dall’assunzione della qualità di parte civile (sentenza n. 203 del 2021);

§  il ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivi i relativi diritti (sentenza n. 220 del 2021);

§  la previsione, per l’accesso dei condannati minorenni alle misure alternative alla detenzione, di condizioni analoghe a quelle stabilite per gli adulti (sentenza n. 231 del 2021);

§  il sistema di designazione del sindaco metropolitano previsto dalla legge n. 56 del 2014 (sentenza n. 240 del 2021);

§  la procedibilità d’ufficio per le lesioni personali stradali gravi (ordinanza n. 244 del 2021);

§  l’esigenza di una maggiore trasparenza nella contabilità regionale alla chiusura di ogni legislatura (sentenza n. 246 del 2021);

§  la riforma della disciplina sanzionatoria relativa all’art. 625 cod. pen. sul reato di furto, e in generale ai reati contro il patrimonio (sentenza n. 259 del 2021).


 

Sentenza

Oggetto del monito

Estratto

 

 

 

Sentenza n. 200/2021

del 23 settembre – 126 ottobre 2021

 

 

 

 

 

Decorrenza del termine quinquennale di prescrizione per il recupero dell’accisa sull’energia elettrica dalla scoperta dell’illecito, in caso di comportamento omissivo del contribuente

« […] l’art. 57, comma 3, secondo periodo, t.u. accise  (…) con riferimento all’imposta erariale di consumo (ora accisa) sull’energia elettrica, fissa in cinque anni decorrenti dalla scoperta dell’illecito, in caso di comportamento omissivo, il termine di prescrizione per il recupero dell’imposta. Se è (…) palese l’inadeguatezza del regime tuttora dettato dall’art. 57, comma 3, secondo periodo, t.u. accise (…), deve, tuttavia, rilevarsi come a essa non possa porre rimedio questa Corte. È, infatti, rimesso alla valutazione discrezionale del legislatore, anche in forza del principio della polisistematicità dell’ordinamento tributario, il ragionevole adattamento ai vari tributi di istituti comuni, quali la prescrizione e la decadenza della pretesa fiscale, combinandole e modulandole in relazione agli specifici interessi di volta in volta coinvolti. […] Nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni in esame – “in ragione del doveroso rispetto della prioritaria valutazione del legislatore in ordine alla individuazione dei mezzi più idonei al conseguimento di un fine costituzionalmente necessario” (ex plurimis, sentenza n. 151 del 2021) – questa Corte non può, tuttavia, esimersi dal sottolineare che quanto evidenziato in ordine al diritto di difesa rende ineludibile un tempestivo intervento legislativo volto a porvi rimedio».

 

Sentenza n. 203/2021

del 23 settembre – 28 ottobre 2021

 

 

Decorrenza, per la persona offesa, del computo del termine di ragionevole durata del processo penale dall’assunzione della qualità di parte civile

«Nella sentenza n. 249 del 2020, questa Corte ha conclusivamente ritenuto che esulano dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del diritto al rispetto del termine ragionevole del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU […] i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti. Proprio in tale prospettiva, l’art. 1, comma 18, lettera b), della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), detta principi e criteri direttivi per l’adozione di una disciplina organica della giustizia riparativa, prevedendo l’introduzione nell’ordinamento della definizione di vittima del reato, valorizzandone il ruolo e delineandone nuovi meccanismi di tutela. È, quindi, in tale ambito e in questa prospettiva, che i diritti, anche di natura civile, della vittima del reato potranno trovare migliore protezione, attraverso l’introduzione di meccanismi idonei a prevenirne la violazione».

Sentenza n. 220/2021

del 6 ottobre – 26 novembre 2021

 

 

 

Ritardo dello Stato nella definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP)

«La non fondatezza della questione peraltro non esime questa Corte dal valutare negativamente il perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché “il nucleo invalicabile di garanzie minime” per rendere effettivi tali diritti (ex multis, sentenze n. 142 del 2021 e n. 62 del 2020). […] Oltre a rappresentare un valido strumento per ridurre il contenzioso sulle regolazioni finanziarie fra enti […], l’adempimento di questo dovere dello Stato appare, peraltro, particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) […] In definitiva, il ritardo nella definizione dei LEP rappresenta un ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali».

 

Sentenza n. 231/2021

del 11 novembre – 7 dicembre 2021

 

 

 

 

Previsione, per l’accesso dei condannati minorenni alle misure alternative alla detenzione, di condizioni analoghe a quelle stabilite per gli adulti

«le disposizioni censurate realizzano una ponderazione degli interessi coinvolti che è espressione non irragionevole di discrezionalità legislativa. Esse forniscono perciò una risposta che non contrasta con le esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai principi costituzionali di protezione dell’infanzia e della gioventù (art. 31, secondo comma, Cost.) e di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). Va peraltro ribadito che, ai medesimi fini, assetti più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale […] risulterebbero particolarmente appropriati».

 

Sentenza n. 240/2021

del 11 novembre – 7 dicembre 2021

 

 

Riforma degli enti di area vasta (legge n. 56/2014): elezione dei sindaci delle città metropolitane e principio di uguaglianza del voto

« […]questa Corte non può esimersi dall’osservare come il sistema attualmente previsto per la designazione del sindaco metropolitano non sia in sintonia con le coordinate ricavabili dal testo costituzionale, con riguardo tanto al contenuto essenziale dell’eguaglianza del voto, che “riflette l’eguale dignità di tutti i cittadini e (…) concorre inoltre a connotare come compiutamente corrispondente alla sovranità popolare l’investitura di chi è direttamente chiamato dal corpo elettorale a rivestire cariche pubbliche rappresentative” (sentenza n. 429 del 1995), quanto all’assenza di strumenti idonei a garantire “meccanismi di responsabilità politica e il relativo potere di controllo degli elettori locali” (sentenza n. 168 del 2021). (…) Da un primo punto di vista, non appare più invocabile (…) il fatto che gli statuti delle Città metropolitane possano optare per la via dell’elezione diretta di quest’ultimo. (…), è la circostanza che, ad oggi, la legge statale contenente il relativo sistema elettorale non è intervenuta, né risultano incardinati, presso le Camere, disegni o proposte di legge in uno stadio avanzato di trattazione. Da un secondo punto di vista, non può non evidenziarsi che l’attuazione della disciplina contenuta nella legge n. 56 del 2014 ha risentito, come già detto, della mancata approvazione del disegno di riforma costituzionale cui essa dichiaratamente si ricollegava. Rientra evidentemente nella discrezionalità del legislatore il compito di predisporre le soluzioni normative in grado di porre rimedio al vulnus evidenziato, che rischia di compromettere, per la mancata rappresentatività dell’organo di vertice della Città metropolitana, tanto l’uguale godimento del diritto di voto dei cittadini destinatari dell’esercizio del potere di indirizzo politico-amministrativo dell’ente, quanto la necessaria responsabilità politica dei suoi organi».

 

Ordinanza n. 244/2021

del 11 novembre – 7 dicembre 2021

 

 

 

Procedibilità d’ufficio per le lesioni personali stradali gravi, pur nelle ipotesi in cui la persona offesa risulti integralmente risarcita

« […]censure in larga parte analoghe a quelle oggi in esame sono già state riconosciute non fondate dalla sentenza n. 248 del 2020; (…)(…) per le medesime ragioni non può considerarsi manifestante irragionevole, e pertanto contraria all’art. 3 Cost., la scelta compiuta dal legislatore con il d.lgs. n. 36 del 2018 di confermare la procedibilità d’ufficio del delitto di cui al primo comma dell’art. 590-bis cod. pen., già prevista dalla legge n. 41 del 2016; (…) resta attuale, peraltro, l’auspicio che il legislatore rimediti sulla congruità dell’attuale regime di procedibilità per le diverse ipotesi di reato contemplate dall’art. 590-bis cod. pen., per le ragioni già illustrate nelle sentenze n. 223 del 2019 e n. 248 del 2020».

 

Sentenza n. 246/2021

dell’11 novembre – 21 dicembre 2021

 

 

 

Esigenza di trasparenza nella contabilità regionale alla chiusura di ogni legislatura

« […] resta auspicabile, al fine di evidenziare la “responsabilità degli amministratori” nell’“impiego di risorse finanziarie pubbliche” (sentenza n. 250 del 2020), l’introduzione di un documento – del resto già previsto per gli enti locali dall’art. 4 del d.lgs. n. 149 del 2011 – che garantisca la rappresentazione trasparente delle risultanze della gestione al termine di ogni legislatura regionale, soprattutto con riguardo alla parte infrannuale dell’esercizio non ancora rendicontata, coprendo così la descritta zona d’ombra. Ai fini di un corretto sviluppo di una contabilità di mandato, infatti, “la trasparenza dei conti risulta elemento indefettibile per avvicinare in senso democratico i cittadini all’attività dell’Amministrazione, in quanto consente di valutare in modo obiettivo e informato lo svolgimento del mandato elettorale” (sentenza n. 49 del 2018)».

 

Sentenza n. 259/2021

del 2 – 24 dicembre 2021

 

 

 

Trattamento sanzionatorio previsto per il furto pluriaggravato

«(…) i limiti edittali di pena previsti per il reato di furto sono stati più volte oggetto di questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.. […]  Da ultimo, la sentenza n. 117 del 2021 (…) ha riaffermato che le valutazioni discrezionali di dosimetria penale competono in via esclusiva al legislatore, chiamato dalla riserva di legge ex art. 25 Cost. a stabilire il grado di reazione dell’ordinamento al cospetto della lesione di un determinato bene giuridico, limitandosi il sindacato di legittimità costituzionale ad incidere su scelte sanzionatorie arbitrarie o manifestamente sproporzionate. (…) la declaratoria di illegittimità costituzionale auspicata dal rimettente darebbe, invero, luogo in via interinale ad un parziale nuovo quadro sanzionatorio del furto pluriaggravato nel suo rapporto con il furto monoaggravato (con le evidenziate ricadute su altre ipotesi delittuose), facendo venire meno la considerazione unitaria della specifica fattispecie delittuosa del furto pluriaggravato, di cui sia elemento essenziale una circostanza aggravante comune; intervento, questo, che si surrogherebbe in maniera comunque assai limitata alla ben più ampia riforma di sistema della disciplina sanzionatoria che l’art. 625 cod. pen., e in generale i reati contro il patrimonio, attendono, come ricordato, ormai da decenni».

 


3.1 La sentenza 200 del 2021 in materia di termine di prescrizione dell’accisa sull’energia elettrica nel caso di comportamento omissivo del contribuente

 

La questione

La Corte di Cassazione, sezione quinta civile, ha sollevato davanti alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’art. 57, comma 3, secondo periodo, del d.lgs. n. 504 del 1995 (t.u. accise), impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede una data certa di inizio della decorrenza del termine di prescrizione per il recupero dell’accisa sull’energia elettrica e delle sanzioni correlate, in caso di comportamenti omissivi del contribuente.

La citata disposizione disciplina la prescrizione dell’imposta di consumo sull’energia elettrica (accisa) fissando un termine in cinque anni, decorrenti dalla scoperta dell’illecito, con riferimento alle condotte omissive[2] (per gli atti commissivi il termine di prescrizione decorre dalla data in cui è stato effettuato il consumo).

Il giudice a quo ha rilevato come il riferimento alla “scoperta dell’illecito” non consente di definire un termine di decorrenza della prescrizione né determinato né determinabile per quanto riguarda i comportamenti omissivi (ad esempio quello degli evasori totali), essendo tale scoperta del tutto indipendente dalla data nella quale ha avuto inizio l’omissione (che potrebbe risalire finanche a decenni prima). Peraltro per altre imposte (IVA, IRPEF, Imposta di registro) il termine di prescrizione, anche nel caso di condotte omissive, decorre dalla data di scadenza dell’obbligo inadempiuto (ossia dalla consumazione dell’illecito) e da ciò discenderebbe, secondo il giudice a quo, anche una violazione del principio di ragionevolezza per il diverso trattamento di situazioni analoghe.

L’Avvocatura dello Stato, intervenuta in giudizio, oltre a contestare nel merito le argomentazioni del giudice a quo, ha evidenziato preliminarmente come un eventuale intervento manipolativo-additivo non sia per la Corte costituzionalmente obbligato e implichi scelte di spettanza del legislatore, in una materia rimessa alla sua discrezionalità.

 

La decisione della Corte

Con la sentenza n. 200 del 2021 la Corte costituzionale, nel ricordare preliminarmente come l’art. 24 Costituzione impedisce di lasciare il contribuente assoggettato all’azione del fisco per un tempo indeterminato (sentenza n. 280 del 2005 e sentenza n. 11 del 2008 e ordinanza n. 178 del 2008), ha tuttavia dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal giudice a quo.

Ciò in ragione non della infondatezza sostanziale dei profili rilevati dallo stesso, che anzi la Corte sembra sostanzialmente condividere, ma sulla base del rilievo ostativo secondo il quale spetta alla “valutazione discrezionale del legislatore, anche in forza del principio della polisistematicità dell’ordinamento tributario, il ragionevole adattamento ai vari tributi di istituti comuni, quali la prescrizione e la decadenza della pretesa fiscale (n. 375 del 2002; nello stesso senso, sentenza n. 201 del 2020), combinandole e modulandole in relazione agli specifici interessi di volta in volta coinvolti”. La Corte ha peraltro sottolineato come il regime attuale impatti in maniera significativa sul diritto di difesa posto che la contestazione riguardante condotte molto risalenti potrebbe rendere difficile la difesa del contribuente anche in considerazione della durata, molto più breve, degli obblighi di conservazione della documentazione fiscale (artt. 2220 del codice civile e 8, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto del contribuente», nonché, attualmente, art. 15, comma 6, t.u. accise).

Sulla base di tali presupposti la Corte ha segnalato l’ineludibilità di un tempestivo intervento normativo, volto a porre rimedio all’evidenziata violazione del diritto di difesa, derivante dalla normativa sopra descritte.

 


 

3.2 La sentenza n. 203 del 2021 in materia di processo penale, equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo, computo della durata del processo

 

La Corte ritiene infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 - in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo - nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato per la persona offesa soltanto con l'assunzione della qualità di parte civile.

 

La questione

Giudice a quo nel caso in esame è la Corte d'appello di Napoli, la quale era stata chiamata, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (la c.d. legge Pinto), a decidere su una domanda di equa riparazione a causa dell’irragionevole durata di un processo penale.

Il ricorrente per equa riparazione aveva esposto di aver presentato querela in data 10 novembre 2010 a seguito di un’aggressione subita e di aver sollecitato più volte all’autorità giudiziaria procedente tramite il proprio difensore lo svolgimento delle indagini, nonché depositato i verbali delle proprie investigazioni difensive. Tuttavia, soltanto il 9 gennaio 2015 il pubblico ministero aveva emesso il decreto di citazione a giudizio in ordine ai reati di cui agli artt. 594 e 56, 582 c.p.. A seguito di vari rinvii, all’udienza del 2 luglio 2019 il ricorrente si era costituito parte civile ed il giudice aveva pronunciato sentenza di non doversi procedere, essendosi i reati estinti per prescrizione. La sentenza, depositata il 17 luglio 2019, era poi divenuta irrevocabile il 16 settembre 2019. Il ricorrente aveva così dedotto che la durata del procedimento penale doveva calcolarsi a far tempo dal giorno della presentazione della querela, in ragione dell’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, come emergente dalla sentenza della Corte EDU 7 dicembre 2017, Arnoldi v. Italia, ed in linea altresì con la sentenza n. 184 del 2015 della Corte costituzionale, inerente al decorso del termine ragionevole di durata del procedimento penale per l’indagato. Su tali premesse, il ricorrente adduceva l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, con riferimento alla posizione della parte civile, avendo riguardo agli artt. 3 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 paragrafo 1, CEDU.

La Corte d'appello partenopea, accogliendo sostanzialmente le argomentazioni del ricorrente per equa riparazione, ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, inserito dall’art. 55, comma 1, lettera a), num.2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato per la persona offesa soltanto con l’assunzione della qualità di parte civile, per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Secondo il giudice a quo, a ben vedere, la previsione dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 colliderebbe con l’art. 6 paragrafo 1, CEDU, in quanto la norma statale richiede che la persona offesa si costituisca parte civile e che soltanto da quel momento per essa inizi il processo e sorga il diritto alla ragionevole durata del medesimo, mentre la norma convenzionale non richiede necessariamente l’avvenuta costituzione di parte civile ed anticipa l’inizio del processo sin dal tempo della presentazione della querela o dall’esercizio di diritti e facoltà previsti dall’ordinamento nella veste proprio di persona offesa.

 

La decisione della Corte

Con la sentenza n. 203 del 2021 la Corte costituzionale ha dichiarato tuttavia infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Napoli. Per la Consulta, il censurato articolo 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 ha individuato una soluzione di carattere generale, nel senso che, ai fini del computo del termine ragionevole, il processo penale si considera iniziato soltanto con l'assunzione della qualità di parte civile, e cioè al momento della formale instaurazione del rapporto processuale secondo le modalità dettate dall'articolo 78 c.p.p. (e non già solo per il tramite della presentazione di denunce o istanze al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria), momento che segna, peraltro, anche il criterio necessario di coordinamento con l'azione per le restituzioni e per il risarcimento proposta in sede civile ai sensi dell'articolo 75 c.p.p.

Sempre secondo la Consulta non solo non può ravvisarsi nella scelta legislativa un contrasto immediato con il parametro convenzionale costituito dall'articolo 6 paragrafo 1, CEDU, in riferimento all'articolo 117, primo comma, Cost, ma non è di per sé imputabile all'articolo 2, comma 2-bis della c..d. legge Pinto, "nella parte in cui tale norma determina la durata considerata ragionevole del processo penale per la parte civile, una lesione sistemica degli interessi di questa, allorché le peculiarità del caso concreto rivelino un malfunzionamento (consistente nell'eccessiva durata delle indagini che porti alla prescrizione del reato), valutato ex post, di una delle due vie giudiziarie autonome che l'ordinamento interno offre al danneggiato per far valere il suo "diritto di carattere civile" al risarcimento".

Del resto, ricorda il Giudice costituzionale, nella sentenza n. 249 del 2020, si è conclusivamente ritenuto che "esulano dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del diritto al rispetto del termine ragionevole del processo di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU - trovando appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi - i profili attinenti all'accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell'adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti". Per la Corte esiste quindi la necessità di intervenire per la tutela dei diritti anche di natura civile della vittima del reato e ciò potrà essere fatto nell'ambito della legge delega di riforma del processo penale. Secondo la Consulta, infatti, la Delega al Governo per l'efficienza del processo penale (art. 1, comma 18, lettera b), della legge 27 settembre 2021, n. 134), "detta principi e criteri direttivi per l'adozione di una disciplina organica della giustizia riparativa, prevedendo l'introduzione nell'ordinamento della definizione di vittima del reato, valorizzandone il ruolo e delineandone nuovi meccanismi di tutela. È, quindi, in tale ambito e in questa prospettiva, che i diritti, anche di natura civile, della vittima del reato potranno trovare migliore protezione, attraverso l'introduzione di meccanismi idonei a prevenirne la violazione".

 

Attività parlamentare

La legge 27 settembre 2021, n. 134, all'articolo 1, comma 8, lett. b), nel prevedere un'ampia delega al Governo per l'efficienza del processo penale detta principi e criteri direttivi per l'adozione di una disciplina organica della giustizia riparativa, prevedendo l'introduzione nell'ordinamento della definizione di vittima del reato, valorizzandone il ruolo e delineandone nuovi meccanismi di tutela. Come indicato nella decisione dalla stessa Corte costituzionale è, quindi, in tale ambito e in questa prospettiva, che, in sede di attuazione della delega - è opportuno ricordare che sugli schemi di decreto legislativo di attuazione è previsto il parere delle Commissioni parlamentari competenti - i diritti, anche di natura civile, della vittima del reato potranno trovare migliore protezione, attraverso l'introduzione di meccanismi idonei a prevenirne la violazione.

 


 

3.3 La sentenza n. 220 del 2021 sul finanziamento e riparto del Fondo di solidarietà comunale e sull'esigenza di individuare i livelli essenziali delle prestazioni

 

La Corte costituzionale, con la sentenza 6 ottobre 2021 n. 220, nel dichiarare infondate le questioni  di legittimità sollevate dalla Regione Liguria nei confronti di disposizioni legislative in materia di finanziamento e riparto del Fondo di solidarietà comunale (FSC), coglie l'occasione, in un obiter dictum, per criticare il perdurante ritardo nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

 

La questione

La Corte Costituzionale è chiamata dalla Regione Liguria, con ricorso presentato su istanza del Consiglio delle autonomie locali della medesima regione, a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale delle seguenti disposizioni.

1) Art. 1, comma 554, della legge n. 160 del 2019 (l. di bilancio 2020) in combinato disposto con l’art. 1, comma 892, della legge n. 145/2018 (l. bilancio 2019).

Il richiamato comma 554 quantifica in 110 milioni annui, per gli anni 2020, 2021 e 2022, l'importo del contributo riconosciuto ai Comuni a titolo di ristoro del gettito non più acquisibile a seguito dell’introduzione del Tributo per i servizi indivisibili (TASI). Quanto all'art.1, comma 892, della legge 145/2018, esso attribuisce ai Comuni, sempre a titolo di ristoro del gettito non più acquisibile, per ciascuno degli anni dal 2019 al 2033, un contributo di 190 milioni di euro da destinare al finanziamento di piani di sicurezza a valenza pluriennale finalizzati alla manutenzione di strade, scuole ed altre strutture di proprietà comunale.

La Regione ricorrente lamenta l'inadeguatezza dei trasferimenti complessivi a titolo di compensazione del minore gettito, in quanto inferiori rispetto all'importo di 625 milioni di euro inizialmente ritenuto idoneo per tale finalità. La contrazione di risorse unita al vincolo di destinazione di parte degli stanziamenti, a giudizio della Regione, avrebbe determinato una riduzione della spesa necessaria per l’espletamento delle funzioni loro assegnate dalla legge, in violazione dell’autonomia finanziaria degli enti locali (art. 119, primo comma, Cost.), del principio dell’integrale correlazione fra risorse e funzioni (art. 119, quarto comma, Cost.), nonché del principio che riconosce e promuove le autonomie locali (art. 5 Cost.).

2) Art. 57, comma 1, del decreto-legge  n. 124 del 2019[3].

La disposizione novella l'art.1, comma 449, della legge n.232 del 2016, relativa alle modalità di riparto del FSC, nel senso di disporre l’incremento della percentuale di perequazione calibrata sulla differenza tra le capacità fiscali e i fabbisogni standard del 5 per cento annuo dall'anno 2020 (sino a raggiungere il valore del 100 per cento a decorrere dal 2030).

Ad avviso della Regione ricorrente tale intervento normativo determinerebbe una sperequazione fra i Comuni, per il carattere sostanzialmente “orizzontale” del FSC (derivante dal venir meno del finanziamento statale) e per le modalità con cui sono calcolate le capacità fiscali: nello specifico, risultano penalizzati i Comuni che, per il solo fatto di aver provveduto ad aggiornare le rendite catastali, sono chiamati a contribuire maggiormente al FSC.

La Regione Liguria paventa, sotto tale profilo, una violazione degli articoli 5 e 119, primo, terzo e quarto comma.

3) Art. 1, comma 849, della richiamata legge n. 160 del 2019.

La disposizione, aggiungendo la lettera d-quater) all’art. 1, comma 449, della richiamata legge n.232 del 2016, dispone un incremento del FSC pari a 100 milioni di euro nel 2020, 200 milioni nel 2021, 300 milioni nel 2022, 330 milioni nel 2023 e 560 milioni a decorrere dal 2024, con la finalità di un progressivo recupero delle minori risorse trasferite ai Comuni conseguenti ai tagli disposti al FSC.

La Regione ricorrente ritiene che la disposizione sia censurabile in quanto avrebbe l'effetto di protrarre ulteriormente i tagli dei trasferimenti statali per un periodo complessivo che sarebbe più che doppio rispetto al triennio inizialmente previsto. Ciò determinerebbe una lesione delle già menzionate norme costituzionali (artt. 5 e 119, commi primo, terzo e quarto).

 

La decisione della Corte

La Corte, dopo aver disatteso le eccezioni d'inammissibilità sollevate dall'Avvocatura generale dello Stato ed aver ricostruito la disciplina normativa del FSC, dichiara infondate tutte le questioni di legittimità sollevate dalla Regione Liguria, ad eccezione di quella riferita all'art.1, comma 892, della legge 145/2018, che è dichiarata inammissibile[4].

Con riferimento all'impugnativa rivolta nei confronti dell'art.1, comma 554, della legge n.160 del 2019, la Corte, dopo aver asserito che dall'istruttoria svolta le riduzioni dei trasferimenti statali non risultano tali da incidere in modo significativo sul livello dei servizi fondamentali, afferma che il ricorrente non fornisce prova che la riduzione in questione abbia avuto un impatto significativo sulle finanze locali e che le norme incidenti sull’assetto finanziario degli enti territoriali non possono essere valutate in modo “atomistico”[5], bensì nel contesto della manovra complessiva, che può comprendere norme aventi effetti di segno opposto sulla finanza locale. Quanto alla correlazione fra funzioni e risorse da assegnare per l'espletamento delle stesse, la Consulta rileva che la riassegnazione di risorse «è priva di qualsiasi automatismo e comporta scelte in ordine alle modalità, all’entità e ai tempi, rimesse al legislatore statale».

Nel dichiarare infondata la questione, la Corte coglie tuttavia l'occasione per stigmatizzare il perdurante ritardo nella definizione dei LEP[6], evidenziando che si tratta di un elemento di criticità nei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, che rischia di riverberarsi anche sull'assegnazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).

La Corte (Considerato in diritto n.5.1) ritiene, nello specifico, che la non fondatezza della questione di costituzionalità non possa esimerla «dal valutare negativamente il perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché "il nucleo invalicabile di garanzie minime" per rendere effettivi tali diritti». Segnala altresì che «i LEP rappresentano un elemento imprescindibile per uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali». L'individuazione dei LEP - osserva ancora la Corte - oltre a rendere più agevole la «dimostrazione della lesività dei tagli subìti», costituisce un «dovere dello Stato [che] appare [..] particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al [..] PNRR».

In sintesi, il ritardo nella definizione dei LEP «rappresenta un ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali».

La Corte dichiara altresì non fondata anche la questione promossa con riferimento all'art. 57, comma 1, del decreto-legge n. 124 del 2019, in materia di criteri di riparto del FSC basati sulla differenza fra le capacità fiscali e i fabbisogni standard.

Pur riconoscendo la presenza di criticità nel sistema di riparto, la Corte afferma che esse derivano dal mancato adeguamento dei valori catastali degli immobili, e non dalla disposizione in esame (che non presenta caratteri di irrazionalità). Nelle parole della Consulta, la «lamentata sperequazione, infatti, da un lato, discende da tale mancato adeguamento in numerose realtà comunali, che di fatto determina irrazionali differenziazioni, dall’altro è amplificata dal carattere meramente orizzontale che aveva assunto il FSC» (Considerato in diritto n.5.3).

Analoga dichiarazione di infondatezza investe infine la questione sollevata con riferimento all'art. 1, comma 849, della legge n.160 del 2019, che prefigura il progressivo ripristino dell’ammontare originario del FSC.

Nella propria decisione, la Corte, fra l'altro, ribadisce che la valutazione delle norme incidenti sull’assetto finanziario degli enti territoriali va condotta tenendo conto del contesto della manovra complessiva, e richiama in proposito gli stanziamenti, di ingente entità, riconosciuti ai comuni al fine di far fronte all'emergenza da COVID-19, pari a 15,6 miliardi di euro nel 2020 e a 4,9 miliardi nel 2021.

 

Attività parlamentare

I LEP hanno trovato nell’art. 22 della legge n. 328 del 2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) una prima legittimazione giuridica, sebbene l’articolo in parola si limiti a un’elencazione generale delle misure e degli interventi, demandando alla pianificazione nazionale e regionale il compito di specificare le caratteristiche e i requisiti delle prestazioni essenziali.

Con l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà ? avviata dalla legge n. 33 del 2016 e successivamente identificata con il reddito di inclusione (REI), come delineato dal decreto legislativo n. 147 del 2017, poi sostituito dal reddito di cittadinanza di cui al decreto-legge n. 4 del 2019 ? sono stati definiti i primi livelli essenziali delle prestazioni, non solo per quanto riguarda il beneficio economico associato alle prestazioni sociali di contrasto alla povertà, ma anche per quanto attiene alle componenti relative all’inclusione sociale e alle politiche attive del lavoro. In particolare il D.Lgs. 147 del 2017 definisce come livelli essenziali delle prestazioni il REI (art. 2), la valutazione multidimensionale (art. 5), il progetto personalizzato (art. 6), disponendo (agli artt. 7, 14, 15, 21, 23 e 24) le conseguenti previsioni organizzative per assicurarli.

I LEP sono poi stati contemplati nell’art. 89, comma 2-bis del c.d. decreto rilancio (D.L. 34 del 2020, convertito nella legge n. 77 del 2020), che considera i servizi di cui all’art. 22 della legge 328/2000 alla stregua di servizi pubblici essenziali in quanto volti a garantire il godimento di diritti costituzionalmente tutelati e dispone, conseguentemente, che le Regioni e le Province autonome si organizzino per assicurarli anche in fase di emergenza.

Recentemente i LEP sono stati oggetto di un’intensa attività conoscitiva da parte della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale (documentata dalla Relazione semestrale sull'attuazione della legge delega 5 maggio 2009 n. 42 (Doc XVI-bis, n.6), approvata il 15 dicembre 2021), dalla quale è stato confermato che uno dei principali fattori di criticità riscontrabili nel percorso attuativo della legge n. 42 del 2009 è costituito dall’assenza di una precisa individuazione dei LEP che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

In questa sede, peraltro, si è rilevato come la legge n. 42 del 2009 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione) indichi un percorso graduale di avvicinamento ai livelli essenziali delle prestazioni, con la fissazione di obiettivi intermedi, qualificati “obiettivi di servizio”. Tale approccio ha il vantaggio di attenuare le tensioni sugli equilibri di bilancio inevitabilmente prodotte dalla definizione dei LEP, garantendo un assorbimento graduale delle maggiori esigenze di spesa.

Muovendosi in questa direzione, la legge di bilancio per il 2021 (legge n. 178 del 2020) ha incrementato la dotazione e integrato i criteri e le modalità di riparto del Fondo di solidarietà comunale per finanziare lo sviluppo dei servizi sociali comunali e il numero di posti disponibili negli asili nido. Al fine di garantire che le risorse aggiuntive si traducano in un incremento effettivo dei servizi, la legge ha previsto l’attivazione di un meccanismo di monitoraggio basato sull’identificazione di obiettivi di servizio: in tal modo, per la prima volta dall’introduzione dei fabbisogni standard, è stato superato il vincolo della spesa storica complessiva della funzione sociale, stanziando risorse aggiuntive vincolate al raggiungimento degli obiettivi di servizio e compiendo un passo in avanti nel percorso di avvicinamento ai LEP[7].

Un’ulteriore disciplina dei LEP è ora contenuta nella legge di bilancio per il 2022 (legge n. 234 del 2021),

In particolare, la previsione di cui all’art. 1, commi 159-171, ha rinnovato la disciplina dei livelli essenziali delle prestazioni sociali per la non autosufficienza (LEPS), richiamando i principi e i criteri indicati negli artt. 1 e 2 della legge n. 328 del 2000, con l’obiettivo di garantire la programmazione, il coordinamento e la realizzazione dell’offerta integrata dei LEPS, nonché “concorrere alla piena attuazione degli interventi previsti” dal PNRR nell’ambito delle politiche per l’inclusione e la coesione sociale. I LEPS dovranno essere realizzati dagli ambiti territoriali sociali (ATS) di cui all’art. 8, comma 3, legge n. 328/2000, ovvero nei luoghi in cui enti locali, aziende sanitarie e soggetti non profit collaborano per la definizione dell’offerta integrata dei servizi sociali e socio-sanitari. Allo scopo di garantire omogeneità del modello organizzativo degli ATS e la ripartizione delle risorse assegnate a livello statale per il finanziamento dei LEPS, la norma prevede un’apposita intesa da realizzarsi in sede di Conferenza Unificata su iniziativa del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con la quale approvare le linee guida per l’attuazione dei LEPS. Vengono quindi individuate le aree in cui i LEPS nel comparto della non autosufficienza devono essere garantiti, ivi comprese le nuove forme di coabitazione solidale delle persone anziane. In sede di prima applicazione della norma, infine, sono individuati i seguenti LEPS, così come evidenziati nel Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021-2023 approvato dalla Rete della protezione e dell’inclusione sociale ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo n. 147 del 201: pronto intervento sociale; supervisione del personale dei servizi sociali; servizi sociali per le dimissioni protette; prevenzione dell’allontanamento familiare; servizi per la residenza fittizia; progetti per il dopo di noi e per la vita indipendente.

La legge di bilancio per il 2022 ha inoltre rimodulato i fondi (previsti dalla legge di bilancio per il 2017, legge n. 232 del 2016) a sostegno del livello essenziale della prestazione riferito ai servizi educativi dell’infanzia (art. 1, commi 172-173)[8] e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di trasporto scolastico di studenti disabili (art. 1, comma 174)[9]. Conseguentemente sono stati incrementati il Fondo di solidarietà comunale per funzioni sociali e asili nido (art. 1 commi 563) e la dotazione del Fondo di solidarietà comunale per potenziamento sociale, asili nido e trasporto disabili (art. 1, comma 564).

Infine, la legge di bilancio per il 2022 ha introdotto disposizioni riguardanti le modalità per il riparto delle risorse LEP da assegnare agli enti locali (art. 1, comma 592), prevedendo che, al fine di garantire l’unitarietà dell’azione di governo, nelle funzioni di competenza degli enti territoriali correlate ai LEP, i Ministri competenti per materia sono tenuti ad acquisire il preventivo parere della Commissione tecnica per i fabbisogni standard (di cui all’articolo 1, comma 29, della legge 28 dicembre 2015, n. 208), allo scopo integrata dai rappresentanti delle stesse Amministrazioni.


 

3.4 La sentenza n. 231 del 2021 in materia di accesso dei condannati minorenni alle misure alternative alla detenzione, in condizioni analoghe a quelle stabilite per gli adulti

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 231 del 2021 (depositata il 2 dicembre), ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo n. 121 del 2018 (“Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni”). Le due disposizioni, analogamente a quanto avviene per gli adulti, subordinano l’accesso alle misure alternative alla detenzione a una soglia di pena residua da scontare, che non deve superare i quattro anni per l’affidamento ai servizi sociali e i tre anni per la detenzione domiciliare. Ad avviso del giudice costituzionale, le previsioni in parola non si pongono in contrasto con la legge di delega, né configurano automatismi irragionevoli inadeguati a garantire la rieducazione del minorenne.

 

La questione

Il giudice remittente censura la soglia della pena massima ancora da scontare per accedere ai benefici sotto due ordini di profili.

In primo luogo, si ravvisa un eccesso di delega, e dunque un contrasto con l’art. 76 Cost., nella parte in cui le disposizioni contraddirebbero ai principi e criteri direttivi della legge delega n. 103 del 2017, che impone, per i minori, l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, nonché l’eliminazione di ogni automatismo per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento.

In secondo luogo, proprio il carattere rigido della soglia della pena residua, insuscettibile di valutazioni caso per caso da parte del giudice, costituirebbe un automatismo illegittimo alla luce degli artt. 3, 27, comma 3, e 31, comma 2, Cost.

 

La decisione della Corte

La Corte costituzionale ritiene infondate entrambe le censure.

Le disposizioni impugnate, pur ispirandosi in larga misura alla disciplina dettata per i maggiorenni, se ne discostano, in senso ampliativo, sotto diversi aspetti, che peraltro tengono conto del percorso rieducativo in corso del singolo condannato, e si inseriscono in un impianto normativo complessivo attento a offrire opportunità di risocializzazione ai minorenni. Dunque, non è ravvisabile – ad avviso del giudice costituzionale – alcun contrasto con la legge di delega.

D’altro canto – con riguardo alla dedotta violazione degli artt. 3, 27, comma 3, e 31, comma 2, Cost. – non è riscontrabile una manifesta irragionevolezza o un difetto di proporzionalità nella scelta legislativa di inibire inizialmente l’accesso alle due misure extramurarie a coloro che debbano ancora espiare pene residue particolarmente elevate; ciò alla luce di fondamentali esigenze di tutela connesse a condotte criminose che siano state ritenute, in concreto e attraverso un rigoroso accertamento giudiziale, meritevoli di sanzioni penali significative.

Si segnala che pur rigettando le questioni di costituzionalità, la Corte osservi come – in linea di principio – i margini applicativi della disciplina “estensiva” dettata per i minorenni, rispetto a quella prevista per gli adulti, possano rivelarsi in concreto piuttosto esigui. In questa prospettiva, secondo il giudice costituzionale, non può negarsi che al fine di regolare l’accesso alle misure penali di comunità siano configurabili assetti diversi, più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale, così come era stato originariamente previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dallo schema governativo di decreto legislativo recante disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni.

 

Attività parlamentare

Nel corso della XVIII Legislatura, il Parlamento non ha esaminato specifiche proposte di riforma riguardanti l’accesso dei condannati minorenni all’affidamento ai servizi sociali e alla detenzione domiciliare. Tuttavia, nella legge delega per l’efficienza del processo penale (la legge n. 134 del 2021), specifici criteri e principi concernono l’istituto della giustizia riparativa, nell’ambito del quale, in sede attuativa, potrebbero essere valorizzati i profili funzionali ad assicurare la rieducazione e risocializzazione del minore in ambiente extramurario.

 


 

3.5 La sentenza 240 del 2021 in materia di elezione del sindaco della città metropolitana

 

Con la sentenza n. 140 del 2021 (depositata il 07/12/2021) la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità promosse dalla Corte d’appello di Catania sulla legge siciliana n. 15 del 2014 e sull’art. 1 comma 19 della legge n. 56 del 2014 in quanto non prevedono la natura elettiva della carica di sindaco della città metropolitana ed ha rivolto un monito al legislatore statale.

 

La disposizione oggetto della sentenza

Oggetto della pronuncia sono gli articoli 13, comma 1, e 14 della legge della Regione Siciliana 4 agosto 2015, n. 15 (Disposizioni in materia di liberi Consorzi comunali e Città metropolitane), come rispettivamente sostituiti dall’art. 4, commi 1 e 2, della legge della Regione Siciliana 29 novembre 2018, n. 23 (Norme in materia di Enti di area vasta), e dell’art. 1, comma 19, della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni). A seguito di tali novelle la Città metropolitana, lì dove istituita, è subentrata alle precedenti Province, succedendo in tutti i rapporti attivi e passivi e esercitando le relative funzioni.

 

La questione

La Corte d’appello di Catania, con ordinanza del 27 maggio 2020, iscritta al n. 30 del registro ordinanze 2021, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale delle predette disposizioni con riferimento, complessivamente, agli artt. 1, 2, 3 e 48, 5, 97 e 114 della Costituzione.

 

Ad avviso della Corte d’Appello rimettente, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, la questione presenterebbe il carattere dell’incidentalità e sarebbe, quindi, ammissibile. Ripercorrendo la giurisprudenza costituzionale avente in tema di accertamento del diritto fondamentale di voto dei cittadini (sono richiamate le sentenze n. 35 del 2017 e n. 110 del 2015), la Corte d’Appello osserva come, nel caso, l’estromissione dall’elettorato attivo per l’elezione del sindaco metropolitano non deriverebbe da «leggi elettorali», ma da una preclusione all’esercizio del suo diritto di voto discendente direttamente dalla legge, alla cui rimozione sarebbe preordinata l’azione di accertamento, che potrebbe far valere «in qualsiasi momento ed a prescindere dagli strumenti impugnatori tipici e, quindi, dall’esistenza di un determinato procedimento elettorale». Osserva peraltro che il ricorrente non avrebbe un atto da impugnare in via autonoma perché non vi sarebbe, ancora prima, «un esito elettorale da gravare e contro cui ricorrere» (sentenza n. 110 del 2015).

Il rimettente ritiene inoltre le questioni non manifestamente infondate, dal momento che l’individuazione nel sindaco del Comune capoluogo del sindaco della Città metropolitana e il condizionamento della conservazione di questa carica alla prima si porrebbero in contrasto con plurimi principi costituzionali. Alla luce del principio di rappresentanza che regola il sistema delle autonomie, la limitazione ad una sola parte degli amministrati del potere di esprimere «l’organo rappresentativo ed a competenza innumerata» dell’ente intermedio Città metropolitana contraddirebbe il principio democratico e di uguaglianza dei cittadini, con particolare riferimento all’eguaglianza del voto di cui all’art. 48, secondo comma, Cost., «atteso che … il voto amministrativo degli altri cittadini, parimenti soggetti all’amministrazione dello stesso ente intermedio, è del tutto irrilevante ai fini dell’elezione del sindaco metropolitano».

La diversità appare ancora più evidente dal momento che la stessa privazione dei diritti politici non si verifica nel caso delle Province (o, nel caso della Sicilia, i liberi Consorzi comunali), essendone gli organi designati «con un meccanismo elettivo di secondo grado», cui partecipano i sindaci e i consiglieri comunali di tutto il territorio.

 

La decisione della Corte

La Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 1, e 14 della legge della Regione Siciliana 4 agosto 2015, n. 15.

 

L’inammissibilità eccepita dall’Avvocatura generale dello Stato per difetto dell’incidentalità nei termini fissati dalla sentenza 110 del 2015 è respinta dalla Corte. A tal proposito, osserva che, alla luce dell’autonomia tra giudizio incidentale di legittimità costituzionale e giudizio principale, spetta al giudice rimettente il compito di stabilire la sussistenza dei presupposti del giudizio a quo e di accertare il nesso di rilevanza che deve avvincere i due giudizi, a meno che tali valutazioni «non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti, ovvero la motivazione della loro esistenza sia manifestamente implausibile» (ex plurimis, sentenza n. 193 del 2015); in tal senso il controllo della Corte si limiterebbe (a maggior ragione riguardo all’apprezzamento dell’interesse ad agire) all’adeguatezza delle motivazioni attinenti ai presupposti di effettiva instaurazione del giudizio a quo con un petitum distinto dalla questione di legittimità costituzionale. A partire dalla sentenza n. 1 del 2014, tali requisiti di ammissibilità sono stati ritenuti riscontrabili dalla Corte anche nel caso in cui vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale nell’ambito di giudizi nei quali siano proposte azioni di accertamento aventi ad oggetto la conformità ai principi costituzionali «delle condizioni di esercizio del diritto fondamentale di voto nelle elezioni politiche» (sentenza n. 35 del 2017), su quattro presupposti: una motivazione sufficiente e non implausibile in ordine alla sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti nel giudizio principale; il rilievo costituzionale del diritto oggetto di accertamento (il voto), la cui protezione imponeva di ammettere la questione «allo scopo di porre fine ad una situazione di incertezza sulla effettiva portata del predetto diritto» (sentenza n. 1 del 2014); la necessità di scongiurare che siano «sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi … che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato» (sentenza n. 48 del 2021); indici rivelatori di un effettivo rapporto di pregiudizialità tra il giudizio a quo e quello che si svolge dinanzi alla Corte, con particolare riguardo alla non sovrapponibilità tra gli oggetti. Tali presupposti contemperano i criteri indefettibili di accesso al giudizio di legittimità costituzionale con la necessità di non sottrarre al controllo disposizioni incidenti sul voto.

Nella vicenda in esame, la Corte osserva anzitutto che è tutt’altro che privo di fondamento il presupposto da cui muove il rimettente, e cioè che le disposizioni censurate, nel momento in cui stabiliscono che il sindaco metropolitano sia «di diritto» il sindaco del Comune capoluogo, non siano regole elettorali propriamente intese, nel senso che esse non individuano né il presupposto o i termini di svolgimento di un procedimento elettivo, né tanto meno una determinata formula elettorale, pur a fronte dell’esercizio, connesso alla carica, di poteri che investono l’intera collettività residente nel territorio. Non è quindi in discussione la pienezza delle condizioni di esercizio del voto, bensì la sua stessa esistenza. Circa i presupposti di ammissibilità ricordati, ricorrono sia una motivazione ampia e articolata, da parte del ricorrente, sulla sussistenza dell’interesse ad agire del ricorrente e delle altre condizioni per identificare i tratti del giudizio a quo, sia la peculiarità e il rilievo del diritto costituzionalmente garantito che si assume leso, sia la sussistenza di una zona sottratta al controllo di legittimità, per la paventata preclusione di chances effettive di ottenere tutela al di fuori dell’azione di accertamento (rendendo evidente il rischio che, ove le questioni non trovino ingresso davanti alla Corte, al ricorrente stesso venga negato un sindacato su atti immediatamente lesivi del diritto a partecipare alle elezioni), sia la non coincidenza di petitum tra giudizio a quo e di legittimità (rispettivamente, la richiesta di accertare la menomazione del diritto di voto subita in relazione alla condizione del ricorrente e quella di dichiarare che il diritto di voto è pregiudicato dalla disciplina legislativa vigente). La Corte sottolinea peraltro come non sia di ostacolo al radicamento delle questioni la circostanza che il ricorrente nel giudizio a quo non abbia contestato uno specifico risultato elettorale, agendo in prevenzione, tenuto conto che «è la natura dell’azione di accertamento a non richiedere necessariamente la previa lesione in concreto del diritto, ai fini della sussistenza dell’interesse ad agire» (sentenza n. 35 del 2017).

 

L’inammissibilità delle questioni sollevate viene ricondotta dalla Corte ad un differente ordine di ragioni che emergono dopo una preliminare ricostruzione della disciplina in materia di enti locali e province. Sul punto, la normativa statale, per gli aspetti che vengono in discussione nel giudizio, non mostra significativi scostamenti quanto alla disciplina adottata nella Regione Siciliana, essendo quest’ultima approdata, quanto alle modalità di designazione del sindaco metropolitano  a un risultato coerente con quanto stabilito, in via generale, dall’art. 1, comma 5, secondo periodo, della legge n. 56 del 2014, in base al quale i principi stabiliti in tale legge «valgono come princìpi di grande riforma economica e sociale».

Circa l’asserita menomazione di voto del ricorrente del giudizio a quo, la Corte evidenzia che il rimettente muove dal presupposto interpretativo non condivisibile che i cittadini del Comune capoluogo, all’atto di eleggere il proprio sindaco, eleggano anche il sindaco della Città metropolitana, mentre in realtà la designazione di quest’ultimo consegue, come effetto disposto direttamente e automaticamente dalla legge, al compimento di un differente procedimento elettorale in sé conchiuso e che è l’unico rispetto al quale si assiste alla espressione del voto della collettività. Tale erroneo presupposto inficia l’ammissibilità delle questioni presentate perché il rimettente richiede un intervento manipolativo precluso a Corte, coincidendo con l’introduzione di una «novità di sistema» (sentenze n. 146 e n. 103 del 2021) e non l’estensione di una disciplina per l’elezione diretta che, allo stato, non si applica neanche ai cittadini del capoluogo. Si richiede l’introduzione ex novo di una normativa elettorale, che fuoriesce dalle attribuzioni della Corte e spetta «al legislatore nella sua discrezionale valutazione» (sentenza n. 257 del 2010)

Anche la seconda questione, sollevata dal rimettente, circa l’illegittimità delle disposizioni statali e regionali citate, in ragione della disparità di trattamento che, quanto all’esercizio del diritto di voto, i cittadini dei Comuni non capoluogo compresi nella Città metropolitana subirebbero rispetto ai cittadini dei Comuni non capoluogo compresi in un ente di area vasta provinciale, si prospetta un intervento manipolativo volto ad estendere alle prime il meccanismo di elezione indiretta delle seconde, senza avvedersi che un tale esito, lungi dall’appuntarsi esclusivamente sulla natura elettiva o meno dell’organo di vertice del relativo ente di area vasta, finisce inevitabilmente per incidere su ulteriori aspetti essenziali della forma di governo metropolitana, modificandone il funzionamento complessivo rimesso alle scelte del legislatore.

In particolare, la Corte nota come le disposizioni disciplinanti la durata degli organi e il loro rinnovo rivelano, nella forma di governo provinciale, l’assenza di un qualsiasi nesso preordinato di continuità personale e funzionale tra il vertice provinciale e il sindaco del Comune capoluogo, mentre il sistema di governo della città metropolitana sottende l’esigenza di assicurare il costante allineamento tra gli organi del Comune capoluogo (sindaco e consiglio comunale) e quelli della Città metropolitana (sindaco e consiglio metropolitano). Solo per queste ultime, peraltro, è prevista in sede di esercizio della potestà statutaria, la facoltà di dotarsi di un sistema di elezione diretta del sindaco metropolitano, sulla base del sistema elettorale determinato da una legge statale.

Decise come inammissibili le questioni sollevate, la Corte rivolge al contempo un monito al legislatore.

A parere della Consulta, infatti, il sistema attualmente previsto per la designazione del sindaco metropolitano non è in sintonia con le coordinate ricavabili dal testo costituzionale, con riguardo tanto al contenuto essenziale dell’eguaglianza del voto, quanto all’assenza di strumenti idonei a garantire «meccanismi di responsabilità politica e [i]l relativo potere di controllo degli elettori locali» (sentenza n. 168 del 2021). In tal senso, non si potrebbe escludere che la ritenuta legittimità del meccanismo di individuazione del sindaco metropolitano prevista dalla l. 56/2014, già riconosciuta dalla sentenza n. 50 del 2015 e giustificata a ridosso dell’adozione della normativa di riforma degli enti di area vasta in ragione anche della necessità di consentire l’immediata operatività di tali enti, possa venire meno in futuro, in considerazione del tempo trascorso e degli sviluppi intervenuti.

In particolare, non appare più invocabile, il fatto che gli statuti delle Città metropolitane possano optare per la via dell’elezione diretta: anche a non voler considerare il complesso iter procedurale, in sostanza impraticabile, la legge statale contenente il relativo sistema elettorale non è intervenuta, né risultano incardinate proposte in tal senso. Inoltre l’attuazione della l. 56 ha risentito della mancata approvazione del disegno di riforma costituzionale cui essa dichiaratamente si ricollegava e che presupponeva l’operare delle Città metropolitane come unici enti di area vasta.

La perdurante operatività delle Province con funzioni fondamentali rende ingiustificato il diverso trattamento degli elettori, anche perché il territorio delle prime è stato fatto coincidere con quello delle seconde, senza differenziare le comunità di riferimento secondo criteri di efficienza e funzionalità ai sensi dell’art. 114 Cost.

Pur rientrando nella discrezionalità del legislatore la predisposizione di soluzioni volte a rimediare a tale vulnus, che rischia di compromettere tanto l’uguale godimento del diritto di voto dei residenti quanto la responsabilità politica dei relativi organi, e rilevato l’esistenza di una pluralità di soluzioni astrattamente disponibili, la Corte sollecita un intervento legislativo in tal senso, volto a rendere il funzionamento dell’ente conforme ai canoni costituzionali.

 

Attività parlamentare

Il tema oggetto della sentenza in questione è stato affrontato nel corso della seduta del 19 gennaio 2022 della I Commissione permanente (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni) della Camera dei deputati dedicata alle interrogazioni a risposta immediata.

In particolare, il rappresentante dell’Esecutivo ha evidenziato che, “al fine di rimuovere i vizi che la Corte ha rilevato, il Governo, nel più ampio rispetto delle prerogative del Parlamento e dell’esigenza di assicurare il più ampio confronto politico, intende affrontare questo tema anche nell’ambito di un più ampio disegno di riforma del Testo unico degli enti locali, al fine di individuare appropriate soluzioni normative ed assicurare che l’azione delle città metropolitane avvenga in conformità ai canoni costituzionali evocati dalla citata sentenza”. In tal senso, viene sottolineato come il merito della questione presupponga una ampia valutazione politica sugli aspetti evidenziati dalla sentenza n. 240 del 2021, rientrando nella discrezionalità del legislatore il compito di predisporre le relative soluzioni normative.


 

3.6 L'ordinanza n. 244 del 2021 in materia di procedibilità a querela dei reati di lesioni personali stradali

 

Con l'ordinanza n. 244 del 2021 la Corte Costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 590-bis, primo comma del codice penale, e del decreto legislativo n. 36 del 2018, recante modifica della disciplina del regime di procedibilità di alcuni reati, sollevate in riferimento agli articoli 3, 3, secondo comma e 27 terzo comma, della Costituzione. Secondo il Giudice costituzionale, sebbene le condotte che integrano il reato di lesioni gravi o gravissime causate dalla violazione colposa delle norme sulla circolazione stradale siano caratterizzare da un minor disvalore rispetto a quelle connotate dalla consapevole se non temeraria assunzione di rischi irragionevoli, perseguire anche le prime d’ufficio non è “manifestamente irragionevole”.

 

La questione

Il Tribunale di Lecce aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-bis, comma 1, c.p., come modificato dall’art 1, comma 2, della legge n. 41 del 2016 (che ha introdotto i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al d.lgs. n. 285 del 1992 e al d.lgs. n. 274 del 2000) e del d. lgs. n. 36 del 2018 (Disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 16, lettere a e b, e 17, della legge n. 103 del 2017), nella parte in cui non prevedono la procedibilità a querela nelle ipotesi di lesioni personali stradali gravi o gravissime per le quali la persona offesa risulti integralmente risarcita in ordine ai danni subiti a seguito dell’evento.

Nel procedimento penale sottoposto alla cognizione del giudice a quo, l’imputato era accusato di aver investito, alla guida di un’auto, un uomo che procedeva in bicicletta causandogli lesioni gravi. Quanto alla rilevanza delle questioni il Tribunale pugliese reputava sussistente la responsabilità dell’imputato in ordine al reato contestatogli, cosicché un esito del processo diverso dalla condanna sarebbe stato prospettabile solo qualora il delitto di cui all’art. 590-bis, primo comma, del codice penale fosse procedibile a querela: nel caso di specie, dal momento che nel caso di specie essa non era stata  presentata dalla persona offesa, integralmente risarcita dei danni subiti attraverso l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile.

Il giudice a quo dubitava quindi della costituzionalità della disciplina censurata, ritenuta irragionevole, sotto il duplice profilo della carenza di proporzionalità tra mezzi scelti e finalità perseguite e del mancato rispetto del canone di coerenza sistematica dell’ordinamento, nella parte in cui essa prevede la procedibilità d’ufficio anche in relazione alle lesioni stradali gravi nei casi in cui l’autore del fatto abbia integralmente risarcito la vittima e questa abbia scelto di non proporre querela.

Secondo il Tribunale di Lecce, considerando che la circolazione stradale è un’attività lecita, per la quale è obbligatoria la sottoscrizione di una polizza assicurativa, sarebbe eccessivo e irragionevole, oltre che contrario alla concreta offensività del fatto (art. 13, comma 2, Cost.) ed alla finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3 Cost.) prevedere, a fronte di condotte non connotate da particolare allarme sociale e caratterizzate dalla generica violazione di norme in materia di circolazione stradale, l’indefettibile celebrazione del processo penale, anche in assenza di istanza punitiva della persona offesa che sia stata integralmente risarcita dei danni patiti.

Prevedere la procedibilità d’ufficio sia per le lesioni stradali gravi ex art. 590-bis, comma 1, c.p., cui sia seguito il risarcimento del danno in favore della persona offesa, sia per le ipotesi aggravate di cui ai commi successivi della medesima disposizione, si sostanzierebbe quindi in un trattamento omogeneo di situazioni differenti, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, equiparando indebitamente l’automobilista cosiddetto “modello”, che abbia sempre rispettato tutte le prescrizioni all’uopo richieste dalla legge, e colui il quale circoli ignorando le norme del codice della strada o, in particolare, guidi un mezzo privo di copertura assicurativa. È opportuno ricordare che il reato di lesioni personali stradali gravi o gravissime, procedibile d’ufficio, è stato introdotto dalla legge n. 41 del 2016. Successivamente, la legge n. 103 del 2017 ha delegato il Governo a prevedere la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, salva in ogni caso la procedibilità d’ufficio qualora la persona offesa sia incapace per età o per infermità, oppure ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale ovvero le circostanze indicate nell’articolo 339 c. p. Il Governo, con il decreto legislativo n. 36 del 2018 di attuazione della delega non ha però inserito tra le fattispecie oggetto della modifica del regime di procedibilità quella di cui al primo comma dell’art. 590-bis c.p., pur punita con una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni.

 

La decisione della Corte

Con l'ordinanza n. 244 del 2021 la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulle questioni prospettante dal Tribunale pugliese, che miravano, di fatto, ad estendere alla fattispecie di lesioni stradali di cui al primo comma dell'articolo 590-bis del codice penale, il regime di punibilità a querela della persona offesa, ha tuttavia ritenuto che le stesse siano manifestamente infondate, essendo in larga parte analoghe a quelle già riconosciute non fondate dalla sentenza n. 248 del 2020.

In quella decisione il Giudice delle leggi, pur riconoscendo che le condotte indicate al primo comma dell’art. 590-bis c.p. sono connotate da un minor disvalore sul piano della condotta e del grado della colpa rispetto a quelle contemplate dai commi successivi della citata disposizione, aveva ritenuto che la procedibilità d’ufficio, anche per le prime, non fosse manifestamente irragionevole e, pertanto, lesiva dell’art. 3 della Costituzione. Infatti, diversamente da quanto ritenuto dal rimettente, non può ritenersi “automobilista modello” secondo la Consulta chi abbia violato, sia pure occasionalmente, le norme attinenti alla circolazione stradale, provocando – in conseguenza di tale violazione – lesioni personali gravi o gravissime a carico di terzi, sicché neppure sotto tale profilo la previsione della procedibilità d’ufficio potrebbe essere ritenuta manifestamente irragionevole, così come non lo è – ancor prima – la scelta legislativa di conferire rilevanza penale a una simile condotta.

Per analoghe ragioni non può considerarsi manifestante irragionevole e, pertanto, contraria all’art. 3 la scelta compiuta dal legislatore con il d.lgs n. 36 del 2018 di confermare la procedibilità d’ufficio del delitto di cui al primo comma dell’art. 590-bis c.p., già prevista dalla legge n. 41 del 2016.

Secondo la Consulta, analogamente, risultano manifestamente infondate le doglianze, ancora formulate in riferimento all’art. 3 della Costituzione, ma in realtà attinenti al rapporto tra le scelte del legislatore delegato e quelle del legislatore delegante, relative alla mancata previsione della procedibilità a querela per il delitto di cui all’art. 590-bis, comma 1, c.p., per contrasto con la ratio complessiva della legge. n. 103 del 2017.

Anche a prescindere dall’incongruità del parametro evocato rispetto alla sostanza della doglianza prospettata, infatti, la Corte Costituzionale aveva già ritenuto – nella sentenza n. 223 del 2019, con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 76. Cost. – che, nell’escludere la procedibilità a querela del delitto di cui all’art. 590-bis, comma 1, c.p., il Governo avesse adottato un’interpretazione non “implausibile” – e non distonica rispetto alla ratio di tutela sottesa alle indicazioni del legislatore delegante – del criterio dettato dall’art. 1, comma 16, lett. a), n. 1), della legge n. 103 del 2017. In altre parole il Governo non avrebbe travalicato i fisiologici margini di discrezionalità impliciti in qualsiasi legge delega, rispettando la ratio di quest’ultima e le esigenze sistematiche proprie della materia penale, tanto più che, nel caso di specie, la delega risultava “ampia”.

Infine secondo la Corte sono manifestamente infondati anche i dubbi di compatibilità costituzionali formulati in riferimento agli artt. 13 co. 2, e 27 co. 3 della Costituzione, per le quali manca qualsiasi autonoma motivazione rispetto ai profili di censura attinenti all’allegata violazione dell’art. 3.

La Consulta, pur ritenendo infondate le questioni, ha comunque ritenuto necessario rinnovare l’auspicio che il legislatore rimediti sulla congruità dell’attuale regime di procedibilità per le diverse ipotesi di reato contemplate dall’art. 590-bis c.p., come aveva già fatto nelle sentenze n. 223 del 2019 e n. 248 del 2020 già richiamate.

 

Attività parlamentare

La legge 27 settembre 2021, n. 134, all'articolo 1, comma 15 ha delegato il Governo a intervenire sulla disciplina delle condizioni di procedibilità, prevedendo tra i princìpi e criteri direttivi anche proprio la procedibilità a querela della persona offesa per il reato di lesioni personali stradali gravi o gravissime previsto dall'articolo 590-bis, primo comma, del codice penale. Sono ancora in corso di adozione i decreti legislativi di attuazione, sui cui schemi - occorre ricordare - è previsto il parere delle Commissioni parlamentari competenti.

 


 

3.7 La sentenza n. 246 del 21 dicembre 2021 sulla trasparenza nella contabilità regionale

 

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 4 e i prospetti di cui all’Allegato O2 della legge della Regione Basilicata 9 dicembre 2020, n. 40 (Prima variazione al Bilancio di previsione pluriennale 2020-2022 della Regione Basilicata), in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

 

La questione

La norma oggetto di impugnazione è l’art. 4, nonché l’Allegato O2, della legge della Regione Basilicata 9 dicembre 2020, n. 40 (Prima variazione al Bilancio di previsione pluriennale 2020-2022 della Regione Basilicata), la quale dispone che il disavanzo di amministrazione presunto derivante dagli esercizi precedenti sia ripianato secondo quanto previsto dal suddetto allegato. Quest’ultimo riporta la quota di disavanzo originata negli esercizi 2018 e 2019, prevedendo un recupero modulato negli esercizi dal 2020 al 2024, con una concentrazione della parte principale del ripiano negli ultimi esercizi.

In base al ricorso, la legge regionale impugnata avrebbe dovuto prevedere il recupero di tale disavanzo nell’esercizio in corso (2020) o, tutt’al più, nell’esercizio 2021, essendo il 2020 al termine, e non distribuire il ripiano fino al 2024. Si è osservato, inoltre, che il medesimo Allegato O2 ha esteso la durata dei piani di rientro per i disavanzi 2018 e 2019 oltre il triennio del bilancio di previsione 2020-2022, in violazione dell’art. 42, comma 12, del d.lgs. n. 118 del 2011 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), che costituirebbe norma interposta all’art. 117, secondo comma, lettera e) della Costituzione.

Oggetto di impugnazione è, altresì, l’art. 1 e l’Allegato 1.3 della legge della Regione Basilicata 12 marzo 2021, n. 8 (Rendiconto generale per l’esercizio finanziario 2018 della Regione Basilicata - Adeguamento alla decisione n. 42/2020 PARI della Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per la Basilicata), che il ricorso ritiene in contrasto – in ragione della ritardata approvazione del rendiconto rispetto ai termini fissati dall’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 118 del 2011 – con l’art. 117, secondo comma, lettera e) della Costituzione, che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva statale la materia dell’armonizzazione dei bilanci pubblici. Ciò in quanto il rendiconto prevede un piano di rientro dal disavanzo derivante dall’esercizio 2018 articolato sugli esercizi 2019-2022, mentre tale quota di disavanzo avrebbe dovuto essere interamente applicata all’esercizio 2021.

 

La decisione della Corte

La Corte ha riconosciuto la fondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme impugnate della legge della Regione Basilicata n. 40 del 2020. La Corte ha evidenziato come il principio contabile di cui al paragrafo 9.2.28 dell’Allegato 4/2 del D.Lgs. n. 118 del 2011, il quale regola gli effetti della tardiva approvazione del rendiconto di un esercizio, fa discendere al verificarsi di tale evento l’assimilazione del predetto disavanzo al disavanzo non ripianato, il quale non può essere ripianato applicandolo al bilancio dell’esercizio successivo a quello in cui il disavanzo medesimo si è formato, ma va recuperato applicandolo per l’intero importo all’esercizio in corso di gestione.

La tardiva approvazione del rendiconto di un determinato esercizio e il mancato recupero del relativo disavanzo entro l’esercizio successivo non consentono, pertanto, l’applicazione a questo di un piano di rientro triennale. Nel caso di specie, l’approvazione del rendiconto 2018 e del relativo disavanzo della Regione Basilicata soltanto nel 2021 va qualificata come tardiva, ai sensi e per gli effetti previsti dai principi contabili di cui al d. lgs. n. 118 del 2011, senza che possa rilevare la circostanza che la Regione abbia nel frattempo ricalcolato l’importo del suddetto disavanzo adeguandosi alla decisione della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Basilicata, adottata in sede di parifica in data 28 luglio 2020. Le osservazioni proposte dal giudice contabile, rilevanti per la determinazione del disavanzo, sono scaturite, infatti, dal mancato rispetto, da parte dell’ente regionale, di principi contabili in relazione a vicende gestionali a quest’ultimo note.

La Corte, per altro verso, ha rilevato la necessità di una più compiuta e coordinata disciplina positiva del procedimento di parifica del rendiconto regionale dinanzi alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti; ciò al fine di consentire una tempistica tale da non determinare l’avvio della parifica stessa oltre il termine di legge e la sua conclusione a notevole distanza temporale dal termine dell’esercizio cui il giudizio di parifica si riferisce.

È stata evidenziata, inoltre, l’opportunità di un intervento normativo che introduca – alla stregua di quanto già previsto per gli enti locali dall’art. 4 del d. lgs. n. 149 del 2011 (Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge 5 maggio 2009, n. 42) – un documento idoneo a garantire una rappresentazione trasparente delle risultanze della gestione al termine di ogni legislatura regionale, al fine di dare conto di eventuali “zone d’ombra” relative a parti infra-annuali degli esercizi non ancora rendicontate.

L’art. 1 del D.Lgs. n. 149 del 2011 aveva introdotto, al fine di favorire lo sviluppo di una “contabilità di mandato”, la “relazione di fine legislatura regionale”, la quale aveva il compito di riportare la situazione economica e finanziaria e lo stato certificato del bilancio regionale. Tale disposizione era stata dichiarata incostituzionale, tuttavia, per vizio di carenza di delega (sentenza n. 219 del 2013), non pregiudicando pertanto la legittimità costituzionale e l’opportunità delle finalità perseguite, sul piano della trasparenza democratica della gestione dei conti regionali e dell’attività amministrativa nei confronti dei cittadini.

La Corte ha riconosciuto, altresì, la fondatezza delle due ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento alle modalità di copertura del disavanzo originato nel 2019, le quali eccedono la durata del triennio del bilancio di previsione 2020-2022 disegnando una estensione del percorso di rientro anche agli esercizi 2023 e 2024, nonché alla mancata approvazione del necessario piano di rientro dal disavanzo stesso. È stata rilevata, infatti, la violazione del parametro interposto di cui all’art. 42, comma 12, del D.Lgs. n. 118 del 2011, il quale ammette la possibilità di frazionare il recupero del disavanzo in subordine al ripiano immediato, ma non consente di superare la durata della programmazione triennale (“negli esercizi considerati nel bilancio di previsione, in ogni caso non oltre la durata della legislatura regionale”).

L’art. 42, comma 12, inoltre, subordina la possibilità di un ripiano triennale alla contestuale adozione di un piano di rientro, al fine di orientare le scelte gestionali dell’ente all’obiettivo del recupero del disavanzo. Piano di rientro che non è stato approvato, non essendo a tal fine idonea a soddisfare tale requisito la delibera del Consiglio regionale 13 luglio 2021, n. 276, evocata dalla Regione Basilicata ma avente ad oggetto il disavanzo registrato al 1° gennaio 2021, ossia un disavanzo diverso e successivo rispetto a quello richiamato dalle disposizioni regionali impugnate.

La Corte ha dichiarato, infine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 e dell’Allegato 1.3 della legge della Regione Basilicata n. 8 del 2021, il quale dispone il ripiano del disavanzo registrato nell’esercizio 2018 negli esercizi dal 2019 al 2022. Al riguardo i giudici costituzionali hanno rilevato, allo stesso modo, una violazione del principio contabile che, in caso di approvazione tardiva del rendiconto, obbliga l’ente a iscrivere l’intero importo del disavanzo non ripianato nel bilancio di previsione dell’esercizio in corso di gestione, ossia in quello del 2021. Anche in questo caso, pertanto, la violazione del parametro interposto integra la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e) della Costituzione.

 


 

3.8 La sentenza n. 259 del 2021 in materia di furto aggravato

 

La Corte costituzionale, con la sentenza 24 dicembre 2021, n. 259, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale - per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - dell’art. 625, comma 2, c.p., nella parte in cui stabilisce per il reato di furto la pena della reclusione da tre a dieci anni e della multa da 206 euro a 1.549 euro, limitatamente alle parole «ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’articolo 61» del codice penale.

 

La questione

Giudice a quo nel caso in esame è il Tribunale ordinario di Firenze il quale dubita della legittimità costituzionale dell'art. 625, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui stabilisce per il furto la pena della reclusione da tre a dieci anni e della multa da 206 Euro a 1.549 Euro, limitatamente alle parole "ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell'articolo 61" c.p., o, in subordine, nella parte in cui prevede che la pena della reclusione minima sia pari a tre anni anziché a due anni ed un giorno.  

Ad avviso del tribunale fiorentino, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

In primo luogo, secondo il giudice rimettente, una pena compresa tra un minimo di tre anni ed un massimo di dieci anni di reclusione (oltre la multa) sarebbe eccessiva per un reato che offende soltanto il patrimonio, né potrebbe rivelarsi decisiva l'ampia cornice edittale, a fronte di una pena minima così elevata. La sanzione dell'art. 625, secondo comma, c.p. si rivelerebbe ancor più eccessiva, se rapportata alla cornice edittale decisamente più mite prevista per la fattispecie base (reclusione da sei mesi a tre anni).

Per il giudice fiorentino, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 625, secondo comma, c.p., limitatamente all'ipotesi del concorso tra circostanza ad effetto speciale e circostanza comune, ripristinerebbe la proporzionalità del regime sanzionatorio, riconoscendo all'aggravante ex art. 61 c.p.. l'effetto comune anche quando concorre con una delle circostanze di cui all'art. 625, primo comma, c.p.

L'aumento di pena stabilito per l'eventualità del concorso tra aggravante ad effetto speciale ed aggravante comune sarebbe frutto, piuttosto, secondo il giudice a quo, di una opzione irragionevole, riconoscendosi arbitrariamente a quest'ultima una maggiore offensività rispetto alla somma del disvalore delle due circostanze, con un automatismo sanzionatorio incompatibile con i già richiamati gli artt. 3 e 27 Cost.

In via subordinata il Tribunale rimettente invoca una declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 625, secondo comma, c.p. limitatamente alla previsione della pena della reclusione pari a tre anni nel minimo, anziché a due anni ed un giorno, evitando che il minimo stabilito per il furto monoaggravato (due anni) venga aumentato della metà per effetto del concorso altresì di una circostanza comune.

 

La decisione della Corte

Con la sentenza n. 259 la Corte ha ritenuto inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze.

Nel ricordare come i limiti edittali di pena previsti per il reato di furto siano stati più volte oggetto di questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. la Consulta ha sottolineato come recentemente proprio le questioni sul trattamento sanzionatorio delle fattispecie incriminatrici del furto siano state affrontate nel più ampio contesto del sindacato di legittimità costituzionale circa la complessiva proporzionalità delle scelte legislative in ordine al quantum di pena.

Relativamente alle censure sollevate dal Tribunale di Firenze che denunciano sia l'irragionevolezza intrinseca della cornice edittale dell'art. 625, secondo comma, c.p.., reputata eccessiva per un reato che offende il patrimonio, sia l'irragionevolezza estrinseca della deroga che la seconda ipotesi della disposizione censurata apporta rispetto al regime ordinario del concorso tra circostanze comuni e speciali di cui all'art. 63, terzo comma, c.p. la Corte osserva che la pena della reclusione da tre a dieci anni e della multa da 206 euro a 1.549 euro è fissata nel secondo comma dell'art. 625 c.p.. in base al modello delle cosiddette "circostanze indipendenti", ovvero delle circostanze per le quali la legge determina la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato.

La diposizione censurata determina, dunque, la misura della pena del furto pluriaggravato imponendo limiti edittali autonomi da quelli stabiliti per il furto semplice e per il furto monoaggravato. In tal senso, l'identico trattamento sanzionatorio che il secondo comma dell'art. 625 c.p. riserva alle fattispecie di concorso di due o più circostanze speciali del furto o di una circostanza speciale con una circostanza comune è frutto di una scelta legislativa propensa ad una considerazione unitaria della condotta di volta in volta incriminata, nella quale la circostanza aggravante comune diviene elemento essenziale di un distinto reato aggravato tipico.

Secondo la Corte la declaratoria di illegittimità costituzionale auspicata dal rimettente darebbe luogo in via interinale ad un parziale nuovo quadro sanzionatorio del furto pluriaggravato nel suo rapporto con il furto monoaggravato, facendo venire meno la considerazione unitaria della specifica fattispecie delittuosa del furto pluriaggravato, di cui sia elemento essenziale una circostanza aggravante comune; intervento, questo, che si surrogherebbe in maniera comunque assai limitata ad una più ampia riforma di sistema - secondo la Corte auspicabile - della disciplina sanzionatoria non solo dell'art. 625 c.p., ma più in generale dei reati contro il patrimonio.

 

Attività parlamentare

Attualmente risultano presentati alcuni progetti di legge volti a modificare la disciplina del reato di furto, fra questi, a titolo esemplificativo, si ricordano l'Atto Camera n. 2718, in materia di circostanze aggravanti del reato di furto in abitazione e l'Atto Camera n. 2469 recante l'introduzione di una circostanza aggravante, per i reati di furto e di truffa, concernente lo sfruttamento o la simulazione di una situazione di emergenza sanitaria. Si tratta di progetti di legge che in realtà intervengono sul reato di furto non del tutto nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale.

Un impatto sulla disciplina del reato di furto sicuramente è destinato ad avere l'attuazione della delega contenuta nella legge 27 settembre 2021, n. 134, che all'articolo 1, comma 21 ha delegato il Governo a valorizzare – ampliandone l’ambito di applicabilità – l'istituto dell' esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevedendo come limite all’applicabilità della disciplina di cui all’art. 131 bis c.p., in luogo della pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria.


 

4. Altre pronunce di interesse

4.1. Focus: la sentenza n. 198 del 2021 in materia di
emergenza Covid-19 e uso dei d.P.C.m.

 

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 198 del 2021, ha dichiarato, rispettivamente, inammissibili per difetto di rilevanza e non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Giudice di pace di Frosinone in riferimento agli artt. 76, 77 e 78 Cost., dei decreti legge n. 6[10] e n. 19[11] del 2020, entrambi convertiti in legge, riguardanti l’adozione, mediante decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (dPCm), di misure urgenti di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Secondo la Corte, infatti, le norme dei citati decreti non hanno conferito al Presidente del Consiglio dei ministri né una funzione legislativa in violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione, né poteri straordinari in violazione dell’articolo 78, come prospettato nel ricorso, ma gli hanno attribuito solo il compito di dare esecuzione alla norma primaria mediante atti amministrativi sufficientemente tipizzati.

Con tale pronuncia, dopo la sentenza n. 37 del 2021 (sulla quale si rinvia al n. 1/2021 della presente Rassegna), la Corte torna a pronunciarsi sulla gestione della pandemia, affrontando anche la questione della natura giuridica dei d.P.C.m., di cui viene sancita la legittimità.

 

Le disposizioni oggetto della sentenza

Risultano nello specifico oggetto della pronuncia costituzionale gli articoli 1, 2 e 3, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, nonché gli artt. 1, 2 e 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19.

In particolare le citate disposizioni del decreto-legge n. 6 del 2020, adottato in seguito alla notizia del c.d. “paziente 1” di Codogno, che è apparso come il primo caso di Covid-19 in Italia, disponevano che le autorità competenti fossero tenute ad adottare «ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica», enucleando poi, ma solo a titolo esemplificativo (“tra cui”)

le misure che potevano essere adottate nei territori nei quali si fossero manifestati casi di contagio (articolo 1, co. 1 e 2). Al contempo, con una clausola di carattere generale, il decreto disponeva l’ammissibilità dell’adozione da parte delle autorità competenti di «ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza», anche al di fuori dai casi espressamente enunciati dal medesimo decreto-legge (articolo 2). Quanto alle autorità competenti, si stabiliva in via principale che le misure emergenziali fossero adottate con «uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri», definendone il procedimento di adozione (articolo 3).

Come è noto, le richiamate previsioni del decreto legge n. 6 del 2020 sono state abrogate dal decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, che le ha sostituite, disciplinando più compiutamente gli strumenti per gestire l’emergenza pandemica.

A differenza del precedente provvedimento, il decreto n. 19 del 2020 definisce, con un‘elencazione tassativa e dettagliata, un ampio catalogo di misure applicabili su tutto il territorio nazionale o su parte di esso per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus Covid-19 (articolo 1). Il decreto conferma inoltre che tali misure possono essere adottate in via prioritaria con dPCm (articolo 2), ma prevede esplicitamente che ciò possa avvenire per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore in origine a 30 giorni, poi estesa a 50 giorni dal D.L. n. 158/2020, reiterabili e modificabili anche più volte, fino al termine massimo della durata dello stato di emergenza (originariamente stabilito al 31 luglio 2020 e più volte prorogato fino al 31 marzo 2022) e modulabili in ragione dell’andamento epidemiologico del virus.

Per quanto d’interesse in questa sede, il decreto-legge stabilisce infine un sistema di sanzioni applicabili per la violazione delle misure di contenimento del contagio, prevedendo prevalentemente sanzioni amministrative, pecuniarie e interdittive, e solo nei casi più gravi una sanzione penale (articolo 4).

 

I motivi del ricorso

Il giudice di pace di Frosinone è chiamato a giudicare sull’opposizione proposta da un cittadino avverso la sanzione amministrativa inflittagli per avere violato il divieto di uscire dalla propria abitazione e spostarsi nel territorio comunale senza giustificato motivo, divieto sancito all’epoca dei fatti dal d.P.C.m. 10 aprile 2020[12].

Pertanto il giudice ha promosso le questioni di legittimità costituzionale delle citate disposizioni di legge, denunciando la violazione del principio di legalità delle sanzioni amministrative, a sua volta riflesso di una alterazione del sistema delle fonti determinata da “un’impropria sequenza tra decreti –legge e d.P.C.m.”.

Ad avviso del giudice rimettente, infatti, le norme dei due citati decreti legge avrebbero sostanzialmente delegato la funzione legislativa in materia di contenimento della pandemia da Covid-19 all’autorità di Governo per il suo esercizio tramite meri atti amministrativi – i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri –, in contrasto «con il principio indiscusso di tipicità delle fonti-atto di produzione normativa».

Sarebbe stato in tal modo «aggirato il principio cardine di cui agli articoli 76 e 77 Cost., per cui la funzione legislativa è affidata al Parlamento, che può delegarla solo con una legge-delega e comunque giammai ad atti amministrativi».

Infine, l’alterazione del sistema delle fonti operata dalle disposizioni censurate, secondo il giudice rimettente, non potrebbe trovare giustificazione costituzionale nella necessità di far fronte all’emergenza pandemica, poiché l’unica ipotesi emergenziale costituzionalmente rilevante sarebbe quella dello stato di guerra, considerato dall’art. 78 Cost.

 

La decisione della Corte costituzionale

Dopo aver ricostruito la sequenza normativa che dalla dichiarazione dello stato di emergenza ha condotto all’emanazione dei decreti legge n. 6 e n. 19 del 2020, la Corte, accogliendo una delle eccezioni rappresentate dall’Avvocatura di Stato, ha in primo luogo dichiarato il difetto di rilevanza delle questioni concernenti il decreto-legge n. 6 del 2020, in quanto tali disposizioni risultavano inapplicabili ratione temporis alla fattispecie oggetto del giudizio principale[13].

Nel merito delle denunce del giudice rimettente, la Corte si concentra dunque sulle sole previsioni del decreto-legge n. 19, dichiarando non fondate le questioni di legittimità sollevate.

Nella motivazione la Corte evidenzia innanzitutto come il decreto-legge n. 19 del 2020 abbia operato una tipizzazione delle misure di contenimento potenzialmente applicabili per la gestione dell’emergenza nell’ambito della fonte primaria, a differenza del precedente decreto legge n. 6 che conteneva una “clausola di apertura verso indefinite ulteriori misure”.

La Corte sottolinea inoltre come la tipizzazione delle misure di contenimento sia stata corredata da ulteriori garanzie, quali la temporaneità delle misure restrittive (art. 1, co.1), la responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento (art. 2, co. 5), nonché l’indicazione di limiti alla discrezionalità del Presidente del Consiglio attraverso il richiamo ai «principi di adeguatezza e proporzionalità» (art. 1, co. 2) e la previsione del parere del Comitato tecnico-scientifico (art. 2, co. 1).

Per il giudice delle leggi, il contenuto tipico del dPCm e gli altri elementi evidenziati sono sufficienti a superare i rilievi del giudice rimettente circa il conferimento di potestà legislativa al Presidente del Consiglio dei ministri in violazione degli articoli 76 e 77 Cost. Per la Corte, piuttosto, il decreto-legge n. 19 del 2020 si limita a prevedere una potestà amministrativa ad efficacia generale: non si configura in tal senso alcuna alterazione del sistema delle fonti del diritto, in quanto la fonte primaria si limita ad autorizzare il Presidente del Consiglio a dare esecuzione, tramite propri decreti, alle misure tipiche ivi previste.

Muovendo da queste considerazioni la Corte ha poi affrontato una questione ulteriore, relativa alla natura giuridica dei dPCm utilizzati per la gestione della pandemia.

A tale riguardo, riprendendo quanto statuito nella sentenza n. 4 del 1977, la Corte richiama la distinzione tra «“atti” necessitati» e «“ordinanze” necessitate», aventi entrambi come presupposto l’urgente necessità del provvedere, «ma i primi, emessi in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto; le altre, nell’esplicazione di poteri soltanto genericamente prefigurati dalle norme che li attribuiscono e perciò suscettibili di assumere vario contenuto, per adeguarsi duttilmente alle mutevoli situazioni».

Rispetto a tali categorie, i provvedimenti del Presidente del Consiglio previsti dal decreto legge n. 19 del 2020 possono essere accostati “per certi versi” agli atti necessitati, in quanto emessi, come chiarito in premessa, in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto. Nel sottolineare ciò, la Corte chiarisce pertanto che i dPCM emergenziali non possono essere equiparati alle ordinanze contingibili e urgenti previste dal Codice della protezione civile (D.Lgs. n. 1 del 2018), che sono invece atti a contenuto libero.

Con tale sequenza di argomentazioni, la Corte conclude confermando che il modello di regolazione normativa della pandemia, affermato con il decreto-legge n. 19 del 2020, non coincide con il modello prefigurato del Codice della protezione civile. Per la Corte l’unico punto di intersezione tra i due modelli è rappresentato dalla dichiarazione dello stato di emergenza. Per il resto, l’uso di decreti legge che hanno rinviato la propria esecuzione ad atti amministrativi tipizzati rappresenta un modello alternativo, definito dal legislatore nell’esercizio della propria competenza per il contenimento della pandemia, che è competenza esclusiva dello Stato in quanto riconducibile alla materia della “profilassi internazionale”, come ricordato già dalla Corte nella precedente sentenza n. 37 del 2021.


 

4.2 Focus: la sentenza n. 213 del 2021 in materia di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili locati per morosità

Con la sentenza n. 213 del 2021 la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 11 e 41 Cost. e non fondate quelle relative agli artt. 3, 24, 42, 47 e 77 sollevate con riguardo alla normativa emergenziale che prevede la sospensione dei titoli esecutivi per il rilascio di immobili locati per morosità (c.d. blocco degli sfratti) adottata per fronteggiare l’emergenza COVID (articolo 103, comma 6, del decreto-legge n. 18 del 2020 e successive proroghe).

La Corte ha comunque sottolineato che dopo il 31 dicembre 2021 la sospensione dei titoli esecutivi “deve ritenersi senza possibilità di ulteriore proroga, avendo la compressione del diritto di proprietà raggiunto il limite di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale (art. 42, secondo comma, Cost.)”, pur restando ferma “in capo al legislatore, ove l’evolversi dell’emergenza epidemiologica lo richieda, la possibilità di adottare misure più idonee per realizzare un diverso bilanciamento, ragionevole e proporzionato” dei diversi interessi coinvolti.

 

La questione

I Tribunali ordinari di Trieste e di Savona, nella loro funzione di giudici dell’esecuzione, avevano sollevato, con due distinte ordinanze (rispettivamente la 107/2021 e la 125/221), questioni di legittimità costituzionale con riguardo alla normativa sulla sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili locati adottati per ragioni di morosità, emanata a fronte dell’emergenza Covid, ed alle successive proroghe.

I giudici lamentavano in primis l’incompatibilità dell’articolo 103, comma 6, del decreto-legge n. 18 del 2020, che aveva inizialmente disposto la sospensione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, fino al 30 giugno 2020 (termine poi modificato in 1° settembre 2020 dalla legge di conversione n. 27/2020), con una serie di articoli della Costituzione (in particolare 3, 24, 42, 47, 77, 117), nonché con l’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e, quindi, l’incompatibilità con i medesimi articoli delle disposizioni che avevano più volte prorogato tale termine (art. 17-bis del d.l. 34/2020 - fino al 31 dicembre 2020; art. 13, co. 13, del d.l. 183/2020 - fino al 30 giugno 2021; art. 40-quater del d.l. 41/2021 - fino al 30 settembre 2021 per i provvedimenti di rilascio adottati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020 e fino al 31 dicembre 2021 per i provvedimenti di rilascio adottati dal 1° ottobre 2020 al 30 giugno 2021).

In particolare, entrambi i giudici rilevano che disporre il blocco generalizzato degli sfratti per morosità, precludendo al giudice la possibilità di valutare la correlazione causale dell’inadempimento con l’emergenza pandemica e di comparare le condizioni economiche delle parti, pone la normativa richiamata in contrasto con l’art. 3 della Cost., finendo inoltre per costituire una sorta di espropriazione sostanziale senza indennizzo, in violazione dei principi di tutela della proprietà privata (art. 42 Cost.) e del risparmio nel settore immobiliare (art. 47 Cost.).

 

La decisione della Corte

La Corte procede in primo luogo ad una disamina del quadro normativo in materia di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili che si è andato delineando nel corso degli ultimi due anni per fronteggiare l’emergenza dovuta al diffondersi della pandemia da COVID-19, rilevando come in un primo momento il legislatore, spinto dalla gravità della situazione sanitaria, abbia disposto in modo indifferenziato la sospensione di tutti i titoli esecutivi per il rilascio di immobili fino al 31 dicembre 2020, ma che per l’anno 2021 abbia invece significativamente distinto le diverse situazioni, prevedendo innanzitutto la cessazione, a fine 2020, della sospensione dell’esecuzione per i provvedimenti di rilascio non fondati sulla morosità del conduttore e quindi una serie di scadenze temporali (30 giugno 2021, 30 settembre 2021 e 31 dicembre 2021) per la cessazione della sospensione dell’esecutività anche dei titoli fondati sulla morosità del conduttore, differenziate a seconda del momento in cui si è formato il titolo esecutivo stesso. Alla data del 31 dicembre 2021 non residuerebbe pertanto alcuna sospensione dei titoli esecutivi di qualsivoglia natura per il rilascio di immobili.

La Corte passa quindi ad esaminare le questioni di legittimità costituzionale, alla luce del contesto pandemico che richiedeva l’adozione di misure immediate per evitare la diffusione del contagio. In quest’ottica, la temporanea sospensione di tutti i provvedimenti di rilascio degli immobili è apparsa al legislatore un rimedio efficace, assolvendo al duplice scopo di evitare, da un lato, che le procedure esecutive gravassero sui tribunali e ponessero le persone in contatto tra loro, incrementando in tal modo il rischio di contagi, e, dall’altro, di salvaguardare quei soggetti, destinatari di un provvedimento di rilascio di immobile, che si sarebbero venuti a trovare in una situazione di ulteriore difficoltà in un momento già segnato da una difficoltà collettiva causata dalla pandemia; in tale contesto sarebbe stato poco praticabile un sistematico coinvolgimento del giudice dell’esecuzione per valutare caso per caso le singole situazioni concrete di locatori e conduttori.

L’eccezionale situazione di emergenza sanitaria alla base della normativa richiamata giustifica, d’altra parte, secondo la Corte una discrezionalità del legislatore ben più ampia rispetto ad una situazione ordinaria e proprio nell’esercizio di questa maggiore discrezionalità il legislatore avrebbe operato un bilanciamento degli interessi in gioco, privilegiando la tutela di un diritto inviolabile, quale quello all’abitazione (nel caso di locazione abitativa), e la tutela del diritto di iniziativa economica privata (nel caso di locazione non abitativa). La prevalenza delle esigenze del conduttore di continuare a disporre dell’immobile, a fini abitativi o per l’esercizio di un’impresa, può essere però accordato solo in presenza di circostanze eccezionali e per periodi di tempo limitati. La corrispondente compressione dei diritti dei locatori che ne deriva, basata sul dovere di solidarietà economica e sociale cui ciascuno è tenuto, non può infatti superare un certo limite, oltre il quale deve necessariamente subentrare la solidarietà collettiva attraverso l’intervento dello Stato e della fiscalità generale. A parere della Corte, il sacrificio imposto ai locatori non può che essere temporaneo e la progressiva modifica della normativa de quo, con i successivi adattamenti giudicati non irragionevoli, verrebbe incontro all’esigenza di bilanciamento degli interessi auspicato dalla Corte. In tal senso, il 31 dicembre 2021 deve essere ritenuto termine ultimo per la sospensione dei titoli esecutivi non suscettibile di ulteriore proroga, avendo la compressione del diritto di proprietà raggiunto il limite di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale. Infatti, proprio in quanto misura temporanea, il blocco degli sfratti non può essere equiparato ad un’espropriazione, perché al momento dell’effettivo rilascio grava comunque sul conduttore l’obbligo di provvedere al pagamento dei canoni anche se il contratto si è già risolto.

La Corte conclude che resta comunque ferma la possibilità per il legislatore, qualora l’emergenza epidemiologica lo richiedesse, di adottare ulteriori misure che consentano di realizzare un diverso bilanciamento dei diritti coinvolti, purché ragionevole e proporzionato.

 

 



[1]     Recante "Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture".

[2] Con riferimento al termine di prescrizione per la notifica dell’atto di contestazione o di irrogazione delle sanzioni l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997, prevede in via generale un termine decorrente dal momento della violazione, ma, facendo salvi i diversi termini stabiliti per l’accertamento dei singoli tributi, non risulta applicabile alla fattispecie.

[3]     Convertito, con modificazioni, nella legge 19 dicembre 2019, n. 157 e recante disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili.

[4]     L'inammissibilità, rilevata dalla Corte d'ufficio, è dovuta alla circostanza che per tale norma sono decorsi i termini perentori per l'impugnazione.

[5]     Si tratta di un principio già enunciato nella sent. n.83 del 2019.

[6]     Si ricorda che l'articolo 117, secondo comma, lettera p), pone in capo allo Stato la competenza legislativa in materia di determinazione dei LEP. La legge n.42 del 2009 (recante delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione), in combinato disposto con il d.lgs. n.216 del 2010 (recante disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province), stabilisce che le spese riconducibili alle funzioni fondamentali collegate ai LEP (salute, istruzione, assistenza sociale, trasporti) sono finanziate integralmente sulla base dei fabbisogni standard.

[7]     Si veda Doc XVI-bis, n.6, p.25.

[8]     L'obiettivo è quello di raggiungere nel 2021 il livello minimo di posti pari al 33 per cento della popolazione interessata (di età compresa tra i 3 ai 36 mesi di età). Si veda l'art.1, comma 449, lettera d)-sexies, della legge n.232 del 2016, come modificata, da ultimo, dalla legge n.234 del 2021 (legge di bilancio per il 2022).

[9]     Il riparto delle risorse del FSC specificamente appostate per tale finalità è demandato ad un decreto interministeriale  (del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro dell'istruzione, il Ministro per il sud e la coesione territoriale e il Ministro per le pari opportunità e la famiglia, previa intesa in Conferenza Stato-città ed autonomie locali, su proposta della Commissione tecnica per i fabbisogni standard, da adottare entro il 28 febbraio 2022 per l’anno 2022 ed entro il 30 novembre dell'anno precedente a quello di riferimento, per gli anni successivi) che tiene conto, ove disponibili, dei costi standard relativi alla componente trasporto disabili della funzione “Istruzione pubblica”. Per quanto qui interessa, si stabilisce che fino alla definizione dei LEP, con il medesimo decreto sono disciplinati gli obiettivi di incremento della percentuale di studenti disabili trasportati che devono essere conseguiti con le risorse assegnate, nonché le modalità di monitoraggio sull'utilizzo delle risorse stesse. Si veda l'art.1, comma 449, lettera d)-octies, della legge n.232 del 2016, introdotta dalla legge n.234 del 2021.

[10]   Recante "Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19".

[11]   Recante "Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19".

[12]   Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale.

[13]   La violazione del divieto di uscire dalla propria abitazione si era verificata il 20 aprile 2020, in un momento nel quale le disposizioni del decreto-legge n. 6 del 2020 erano già state abrogate dal decreto-legge n. 19 del 2020 e, in attuazione di quest’ultimo, era stato già emanato un d.P.C.m. sostitutivo.