Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento lavoro |
Titolo: | I temi dell'attività parlamentare nella XVI legislatura - Assistenza e Previdenza |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 1 Progressivo: 5 |
Data: | 19/03/2013 |
Organi della Camera: | XI-Lavoro pubblico e privato |
La documentazione di inizio legislatura - accessibile dalla home page della Camera dei deputati - dà conto delle principali politiche pubbliche e delle attività svolte dalle Commissioni parlamentari nella XVI legislatura, suddivise in Aree tematiche, a loro volta articolate per Temi e Approfondimenti. L'accesso è disponibile per Commissione ovvero per Area tematica.
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Il settore dell'assistenza sociale è quello in cui tipicamente concorrono, per competenze e risorse, lo Stato, le regioni e gli enti locali e nel quale non è semplice identificare e ripartire con nettezza le attribuzioni di ciascuno dei tre livelli di governo. Attualmente lo Stato non ha ancora definito i livelli essenziali delle prestazioni sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, anche se è spesso intervenuto in via diretta in tale ambito, sebbene, dopo la riforma costituzionale del 2001, l'art. 46, comma 3, della legge 289/2002 (legge finanziaria 2003) - tenendo conto della competenza legislativa residuale e non piú concorrente delle Regioni in materia di servizi sociali - ha introdotto una specifica procedura per la determinazione dei LIVEAS.
Le azioni delle regioni - che hanno rivendicato una competenza legislativa esclusiva in tema di assistenza - hanno riguardato settori diversi e si sono intersecate con le iniziative dello Stato e con quelle degli enti locali, principalmente i comuni, che tradizionalmente gestiscono i servizi sociali.
Nel corso della XVI Legislatura si è registrata una sensibile diminuzione dei finanziamenti destinati alle politiche sociali.
Nelle politiche di assistenza, il principale strumento per il finanziamento degli interventi e dei servizi sociali è il Fondo nazionale per le politiche sociali, le cui risorse, definite dalle manovre finanziarie annuali, sono ripartite con decreto ministeriale tra il Ministero del lavoro della salute e delle politiche sociali, l’INPS, le regioni, le province autonome e i comuni. Alcuni recenti provvedimenti normativi hanno ridotto gli interventi finanziati a valere sul Fondo. La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) ha destinato al FNPS 69,954 milioni di euro. Infine la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), all'articolo 1, comma 271, incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del FNPS. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.
Al fine di garantire l'attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale con riguardo alle persone non autosufficienti è istitutito, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali il Fondo nazionale per le non autosufficienze. Le risorse assegnate al Fondo per il 2010, ripartite con decreto, sono pari a 400 milioni di euro. Per il 2011, il Decreto interministeriale 11 novembre 2011 ha assegnato al Fondo risorse per 100 milioni di euro, stanziati dall'art. 1, comma 40, della legge 220/2010 (legge di stabilità 2011), finalizzati fra l'altro ad interventi integrati socio-sanitari per i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Successivamente, il D.L. 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che la dotazione del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, sia incrementata di 658 milioni di euro per l'anno 2013 e ripartita con D.P.C.M., per incrementare fra l’altro la dotazione del Fondo non autosufficienti, finalizzato al finanziamento dell'assistenza domiciliare prioritariamente nei confronti delle persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), ha subito un definanziamento di 631,7 milioni; la dotazione finanziaria del Fondo risulta pertanto interamente decurtata, residuando al Fondo soltanto 263 euro per l’anno 2013. In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.
Fra le misure di carattere più squisitamente sociale, si ricorda la Carta acquisti, istituita dal decreto legge 112/2008, che prevede benefici destinati a nuclei familiari in difficoltà. Il decreto legge 5/2012 ha configurato una nuova carta acquisti prevedendo una sperimentazione per favorirne la diffusione tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno.
E' stato infine esaminato e non concluso un disegno di legge (A.C. 4566) recante la delega legislativa al Governo per la riforma fiscale e assistenziale . La riforma della materia socio-assistenziale si poneva l’obiettivo di riqualificare e riordinare la relativa spesa, al fine di superare le sovrapposizioni e le duplicazioni di servizi e prestazioni, e, in particolare, ridefinire gli indicatori (ISEE) volti ad individuare la reale situazione economica dei singoli cittadini, con attenzione ai nuclei familiari. Al proposito, l'articolo 5 del decreto legge 201/2011 ha demandato ad un regolamento governativo, previa Intesa in sede di Conferenza Stato-regioni, la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’ISEE.
Alcune misure a tutela della disabilita sono contenute in provvedimenti approvati dal Parlamento o che non hanno potuto concludere il relativo percorso parlamentare. La legge 107/2010 è diretta al riconoscimento della sordocecità come disabilità specifica unica, sulla base degli indirizzi contenuti nella dichiarazione scritta sui diritti delle persone sordocieche del Parlamento europeo, e disciplina la percezione in forma unificata delle indennità spettanti ai soggetti citati nonché le modalità dell'accertamento della disabilità unica.
Altre misure sono contenute in proposte di legge il cui esame presso la XII Commissione affari sociali della Camera non si è concluso, tra le quali si ricordano le norme che estendono alle associazioni che operano per la tutela dei diritti delle persone disabili l’applicazione di alcune misure previste per gli istituti di patronato e di assistenza sociale, le disposizioni che intervengono sui criteri previsti al fine di ottenere determinate prestazioni economiche assistenziali a favore degli invalidi civili nonché le norme dirette a prevedere misure di assistenza in favore dei disabili gravi privi del sostegno familiare, vale a dire privi del nucleo familiare o con famiglie sprovviste dei mezzi necessari per assisterli o curarli.
Gli interventi nel settore previdenziale si inseriscono nella direzione tracciata con le riforme adottate nelle precedenti legislature, volte a garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico attraverso l’adeguamento dei requisiti per l’accesso ai trattamenti.
In tale contesto particolare rilievo assume, nella prima fase della legislatura (che ha visto, peraltro, anche la totale abolizione del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro) l’introduzione legislativa del principio dell'adeguamento periodico quinquennale ed automatico dell'eta' pensionabile sulla base dell'incremento della speranza di vita accertato dall'ISTAT. Raccomandata anche a livello internazionale come misura essenziale per assicurare l’autostabilità dei sistemi previdenziali, in quanto capace di sottrarre alla discrezionalità politica il progressivo innalzamento dei requisiti pensionistici imposto dall’invecchiamento della popolazione (fenomeno particolarmente avanzato in Italia), la norma ha inizialmente fissato al 2015 il primo adeguamento, con modalità tecniche demandate ad un apposito regolamento di delegificazione. Successivamente, la norma è stata ripetutamente rivista al fine di anticiparne gli effetti al 2013 (primo adeguamento di 3 mesi) e di fissare i successivi aggiornamenti al 2016 e 2019 (dopodiché gli aggiornamenti avranno cadenza biennale).
Con la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 13 novembre 2008, che ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, si apre nel Paese un ampio dibattito sulla previdenza nel pubblico impiego e, più in generale, sul ruolo femminile nel mondo del lavoro e sulla conciliazione tra tempi di lavoro e tempi familiari, fino ad investire la questione delle norme di “favore” per il pensionamento femminile (più “generose” in Italia rispetto ad altri Paesi europei). Sul piano legislativo la sentenza è stata recepita definendo un graduale e progressivo percorso di innalzamento della eta' pensionabile delle donne nel pubblico impiego , fino al raggiungimento dei 65 anni, a regime, nel 2018.
L’intervento sulle dipendenti pubbliche ha indotto il legislatore, di lì a poco, a intervenire anche sulle lavoratrici del settore privato, attraverso il progressivo adeguamento del requisito anagrafico per il pensionamento di vecchiaia (adeguamento successivamente accelerato dalla riforma Fornero).
L'aggravarsi della crisi economica internazionale porta, tra il 2000 e il 2011, all’adozione di un’altra misura di carattere strutturale per il contenimento della spesa previdenziale, consistente nel posticipo delle decorrenze dei trattamenti (c.d.finestre). Fermi restando i requisiti pensionistici previsti per legge, gli interventi hanno comportato di fatto il rinvio della decorrenza dei trattamenti di vecchiaia fino a 12 mesi per i lavoratori dipendenti e fino a 18 mesi per i lavoratori autonomi, con un ulteriore aggravio (da 1 a 3 mesi) per le pensioni di anzianità (ossia per i soggetti che, indipendentemente dall’età anagrafica, avessero raggiunto i 40 anni di contribuzione).
A fronte del sostanziale inasprimento dei requisiti previdenziali ottenuto con le nuove “finestre”, il legislatore appresta una disciplina speciale per il collocamento a riposo dei soggetti che hanno svolto lavori usuranti , garantendo ad essi, a determinate condizioni, l’applicazione di specifici benefici(volti a consentire l’accesso anticipato al pensionamento), che verranno peraltro significativamente ridotti dalla successiva riforma Fornero (dati recenti sull’attuazione delle norme segnalano, peraltro, un tasso di accoglimento delle domande significativamente più basso di quanto preventivato, dovuto con tutta probabilità ai gravosi oneri probatori previsti, soprattutto con riferimento ai periodi lavorativi più risalenti nel tempo).
Altre misure di contenimento della spesa previdenziale adottate in tale fase hanno portato all’introduzione di requisiti più stringenti per l'accesso alla pensione di reversibilita' (con l’obiettivo di arginare usi impropri dell’istituto) ad una disciplina più onerosa per le ricongiunzioni di periodi contributivi e alla riduzione dei trattamenti pensionistici piu' elevati .
A livello europeo, con la presentazione nel 2010 del Libro verde la Commissione europea ha avviato una riflessione sulla riforma dei sistemi pensionistici. Sul libro verde la XI Commissione (Lavoro) della Camera ha approvato il 10 novembre 2010 un documento finale . Successivamente, nel febbraio 2012 la Commissione europea ha presentato il Libro bianco nel quale, in particolare, propone di creare migliori opportunità per i lavoratori anziani; incoraggiare gli Stati membri a promuovere vite lavorative più lunghe, correlando l'età della pensione con la speranza di vita, limitando l'accesso al pre-pensionamento e eliminando il divario pensionistico tra gli uomini e le donne; sviluppare sistemi pensionistici privati complementari e potenziandone la sicurezza; rendere le pensioni integrative compatibili con la mobilità, varando leggi a tutela dei diritti pensionistici dei lavoratori mobili e promuovendo l'istituzione di servizi di ricostruzione delle pensioni in tutta l'UE.
All’interno di una più generale politica di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni (e, in qualche misura, in antitesi con i coevi interventi volti all’innalzamento dell’età pensionabile) si collocano invece le misure volte a precludere il prolungamento dell’attività lavorativa dei dipendenti pubblici con maggiore anzianità. A tal fine la permanenza in servizio per un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo (in precedenza configurata come diritto soggettivo del dipendente) è stata dapprima rimessa alla discrezionalità della PA di appartenenza (chiamata a valutare la presenza di specifiche esigenze organizzative) e, successivamente, di fatto esclusa (dalla riforma Fornero). Inoltre, viene riconosciuta alle PA la facoltà di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici con 40 anni di anzianità contributiva.
Nell’ambito delle politiche di contenimento della spesa pubblica, un importante filone di interventi ha investito il sistema degli enti previdenziali pubblici , con l’obiettivo di migliorare l'efficienza amministrativa complessiva del settore. In tale contesto si segnalano dapprima la soppressione di IPSEMA, IPOST ed ENAM (confluiti, rispettivamente, in INAIL, INPS ed INPDAP) e, successivamente, la soppressione di INPDAP ed ENPALS, con conseguente trasferimento delle funzioni all'INPS (oggetto di un ampio processo di riorganizzazione e, soprattutto, di misure di risparmio che passano attraverso puntuali obiettivi di contenimento delle spese di funzionamento e di personale).
Anche il sistema delle Casse previdenziali private (il cui equilibrio finanziario, in alcuni casi, appariva precario) è stato investito da un importante processo di riforma, che ha portato dapprima alla rimodulazione del contributo integrativo (rimesso alla definizione, entro una forchetta fissata per legge, di ciascuna Cassa ed utilizzabile, in parte, per l’incremento dei montanti individuali) e, successivamente (Governo Monti) all’adozione di misure volte (pena sanzioni e l’automatico passaggio al contributivo pro-rata) ad imporre alle Casse interventi idonei a garantire la sostenibilità finanziaria di lungo periodo (50 anni). Sotto la spinta del legislatore il sistema delle Casse si è prontamente attivato, adottando misure che portano a ritenere sostanzialmente conseguiti gli obiettivi di riequilibrio finanziario richiesti.
A seguito dell’aggravarsi della crisi del debito e delle sollecitazioni provenienti da autorevoli istituzioni internazionali, la materia previdenziale è stata oggetto di una complessiva riconsiderazione da parte del Governo Monti. La riforma previdenziale adottata con l’articolo 24 del DL 201/2011 (c.d. riforma Fornero), in particolare, ha introdotto il sistema di calcolo contributivo pro-rata per tutti; ha portato a 66 anni il limite anagrafico per il pensionamento di vecchiaia; ha velocizzato il processo di adeguamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato (66 anni dal 2018); per quanto concerne il pensionamento anticipato, ha abolito il previgente sistema delle quote, con un considerevole aumento dei requisiti contributivi (42 anni per gli uomini e 41 anni per le donne) e l’introduzione di penalizzazioni economiche per chi comunque accede alla pensione prima dei 62 anni; ha aumentato le aliquote contributive per commercianti, artigiani e lavoratori agricoli.
All’indomani dell’approvazione della riforma, che in molti casi aveva comportato uno spostamento in avanti dell’età di pensionamento anche di molti anni, si è tuttavia ben presto (e con forza) posta all’attenzione delle forze politiche e del Governo la questione dei soggetti prossimi all’età di pensionamento sulla base della disciplina previgente che, in quanto beneficiari di particolari istituti o sulla base di accordi aziendali, sarebbero fuoriusciti dal mercato del lavoro prima della maturazione dei nuovi requisiti. Per far fronte alla questione degli esodati , che accompagna (con una intensa attività parlamentare che ha visto protagonista la Commissione lavoro della Camera) gli ultimi mesi della legislatura, il legislatore è intervenuto a più riprese al fine di ampliare la platea dei beneficiari della disciplina transitoria prevista della riforma (consistente nel riconoscimento dei requisiti pensionistici previgenti) garantendo copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014).
Gli interventi in materia di enti previdenziali privatizzati (Casse professionali) sono stati diretti a garantire la sostenibilità finanziaria di lungo periodo delle gestioni.
La L. 133/2011, di modifica dell’articolo 8 del D.lgs. 103/1996, ha previsto che il contributo integrativo a carico degli iscritti alle Casse professionali sia autonomamente stabilito con apposite delibere di ciascuna Cassa o ente di previdenza, approvate dai Ministeri vigilanti. La misura del contributo integrativo deve essere compresa tra il 2 il 5 per cento del fatturato lordo.
Al fine di migliorare i trattamenti pensionistici degli iscritti che adottano il sistema di calcolo contributivo, è riconosciuta la facoltà - senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e garantendo comunque l’equilibrio economico, patrimoniale e finanziario delle Casse o gli enti medesimi - di destinare parte del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali, previa delibera degli organismi competenti e secondo le procedure stabilite dalla legislazione vigente e dai rispettivi statuti e regolamenti. Tali delibere degli organismi competenti sono sottoposte all'approvazione dei Ministeri vigilanti, che valutano la sostenibilità della gestione complessiva e le implicazioni in termini di adeguatezza delle prestazioni.
L’articolo 24, comma 24, del D.L. 201/2011 (cd. decreto “salva Italia”) ha disposto che gli enti previdenziali privatizzati debbano adottare, ai fini dell’equilibrio finanziario delle rispettive gestioni, nell’esercizio della loro autonomia gestionale, misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di 50 anni.
Il termine per l’adozione delle misure, inizialmente fissato al 30 giugno 2012, è stato successivamente prorogato al 30 settembre 2012 (dall’articolo 29, comma 16-novies, del D.L. 216/2011).
Le relative delibere sono sottoposte all’approvazione dei Ministeri vigilanti, che si esprimono in via definitiva entro trenta giorni dalla loro ricezione.
Decorso il termine senza l’adozione dei previsti provvedimenti (ovvero nel caso di parere negativo dei Ministeri vigilanti) si applicano, con decorrenza 1° gennaio 2012, il sistema contributivo pro-rata agli iscritti alle relative gestioni e un contributo di solidarietà, per gli anni 2012 e 2013, a carico dei pensionati nella misura dell’1%.
Sotto la spinta del legislatore il sistema delle Casse si è prontamente attivato, adottando misure che portano a ritenere sostanzialmente conseguiti gli obiettivi di riequilibrio finanziario richiesti.
Le Casse di previdenza cui sono iscritti coloro che esercitano attività professionali sono state privatizzate, dal 1° gennaio 1995, nell’ambito del riordino generale degli enti previdenziali disposto con l’articolo 1, commi da 32 a 38, della L. 537/1993.
In attuazione della delega è stato emanato il D.Lgs. 509/1994, che ha disposto la trasformazione in associazione o fondazione, con decorrenza dal 1° gennaio 1995, dei seguenti enti:
Gli enti, una volta privatizzati, hanno continuato a sussistere come enti senza scopo di lucro, assumendo la personalità giuridica di diritto privato (artt. 12 e seguenti del Codice civile) e subentrando in tutti i rapporti attivi e passivi dei corrispondenti enti previdenziali: in particolare ne hanno mantenuto la funzione previdenziale, continuando a svolgere le corrispondenti attività nei confronti delle categorie per le quali gli enti medesimi sono stati istituiti, e fermo restando l'obbligo, da parte dei destinatari, della iscrizione e della contribuzione. Il decreto ha stabilito, poi, le regole che devono presiedere all'equilibrio gestionale dei nuovi enti privatizzati (introducendo accanto alle riserve tecniche una "riserva legale" pari ad almeno cinque annualità dell'importo delle pensioni in pagamento e prevedendo l'obbligo della redazione almeno triennale di un "bilancio tecnico"), i criteri di trasparenza che devono presiedere ai rapporti con gli iscritti, nonché i poteri di vigilanza affidati al Ministero del lavoro (il quale, oltre ad approvare gli statuti istitutivi ed i regolamenti, verifica l'andamento gestionale e formula, se necessario, gli opportuni rilievi. Benché con consistenti ritardi rispetto al termine inizialmente stabilito (1° gennaio 1995), tutti gli enti elencati hanno proceduto alla trasformazione in associazione o fondazione di diritto privato.
Successivamente, il comma 25 dell’articolo 2 della L. 335/1995 (“Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), ha delegato il Governo ad emanare norme volte ad assicurare la tutela previdenziale in favore dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione, senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è subordinato all'iscrizione ad appositi albi o elenchi. In attuazione di tale norma è stato emanato il D.Lgs. 103/1996, che ha assicurato, a decorrere dal 1° gennaio 1996, la tutela previdenziale per i richiamati soggetti.
In attuazione del D.Lgs. 103/1996 sono stati istituiti i seguenti enti privatizzati:
L’articolo 2, comma 2, del D.Lgs. 103/1996 ha disposto l’applicazione, per tali enti, indipendentemente dalla forma gestoria prescelta, del sistema di calcolo contributivo, con aliquota di finanziamento non inferiore a quella di computo, e secondo specifiche modalità attuative.
L'articolo 19 del decreto-legge 112/2008 ha disposto l'abolizione totale del divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo e dipendente.
Il cumulo tra pensioni e redditi da lavoro è stato oggetto, in anni recenti, di numerosi interventi legislativi, dapprima ispirati al principio dell'integrale cumulabilità del trattamento di pensione con la retribuzione; successivamente, diretti a ridurre o eliminare del tutto tale cumulabilità (articolo 72 della L. 388/2000), anche in funzione deterrente rispetto al ricorso al pensionamento di anzianità.
In avvio di legislatura la disciplina in materia di cumulo presentava quindi una notevole articolazione, a causa delle successive modifiche normative che hanno fatto salvi, entro alcuni limiti temporali e a determinate condizioni, i regimi previgenti, se più favorevoli.
Con l’articolo 19 del D.L. 112/2008 la normativa è stata totalmente modificata, introducendo l’integrale cumulabilità dal 1° gennaio 2009 delle pensioni di anzianità (a carico di tutte le forme di assicurazione obbligatoria) con i redditi da lavoro autonomo e dipendente. In sostanza, tutte le pensioni di anzianità (o altrimenti definite, caratterizzate cioè dall’essere anticipate rispetto all’età prevista dalla legge per il conseguimento della pensione di vecchiaia), godono dello stesso regime di totale cumulabilità con i redditi da lavoro autonomo e dipendente, indipendentemente dal regime pensionistico (retributivo, contributivo o misto) al quale appartengano.
Il divieto di cumulo resta fermo, tuttavia, nei confronti dei pubblici dipendenti, nel caso in cui siano riammessi in servizio presso le pubbliche amministrazioni. L’articolo 19, comma 3, del D.L. 112/2008, infatti, ha previsto che restino in vigore le disposizioni del D.P.R. 758/1965, il quale prevede che il cumulo di una pensione con un trattamento per un’attività resa presso le pubbliche amministrazioni non sia ammesso nei casi in cui il nuovo servizio prestato costituisca una derivazione, una continuazione od un rinnovo del rapporto precedente che ha dato luogo alla pensione.
L’abolizione del divieto di cumulo non tocca i soggetti titolari di pensione ai superstiti (“pensioni di reversibilità”) e degli assegni di invalidità con gli altri redditi (divieti previsti dalla L. 335/1995 e rimasti in vigore oltre il 31 dicembre 2008). In questo caso, il soggetto interessato si troverà costretto a rinunciare ad una parte della propria pensione o rendita in caso di reddito superiore a determinati livelli.
Gli interventi sugli enti previdenziali pubblici sono stati rivolti al miglioramento dell'efficienza amministrativa del settore, attraverso la soppressione di INPDAP ed ENPALS (con conseguente trasferimento delle funzioni all'INPS) e il contenimento delle spese di funzionamento.
Il processo di accorpamento degli enti previdenziali ha preso avvio con l'articolo 7, comma 1, del D.L. 78/2010, che ha disposto la soppressione dell'IPSEMA (con conseguente trasferimento delle risorse e delle funzioni all'INAIL), dell'IPOST (con conseguente trasferimento delle risorse e delle funzioni all'INPS) e dell'ENAM (con conseguente trasferimento delle risorse e delle funzioni all'INPDAP).
Successivamente, l’articolo 21 del D.L. 201/2011, nel quadro di convergenza ed armonizzazione del sistema pensionistico attraverso l’applicazione del metodo contributivo, ha previsto la soppressione di INPDAP ed ENPALS e il trasferimento delle relative funzioni all'INPS, a decorrere dal 1° gennaio 2012.
Con decreti di natura non regolamentare del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, da emanarsi entro 60 giorni dall'approvazione dei bilanci di chiusura delle relative gestioni degli Enti soppressi sulla base delle risultanze dei bilanci medesimi, da deliberare entro il 31 marzo 2012, le risorse strumentali, umane e finanziarie degli Enti soppressi sono trasferite all'INPS.
Pertanto, la dotazione organica dell'INPS è incrementata di un numero di posti corrispondente alle unità di personale di ruolo in servizio presso gli enti soppressi alla data di entrata in vigore del decreto n. 201/2011, con i dipendenti trasferiti che mantengono l'inquadramento previdenziale di provenienza.
Il trasferimento non riguarda le posizioni soprannumerarie rispetto alla dotazione organica vigente degli enti soppressi (ivi incluse quelle di cui all'articolo 43, comma 19 della L. 388/2000), che costituiscono eccedenze ai sensi dell'articolo 33 del D.lgs. 165/ 2001.
Resta ferma la previsione dell'articolo 1, comma 3, del D.L. 138/2011, sulla contrazione degli uffici dirigenziali di livello generale, nonché all’ulteriore riduzione della spesa complessiva relativa al numero di posti di organico del personale non dirigenziale nella misura minima del 10%, da compiere entro il 31 marzo 2012.
Inoltre, i due posti di direttore generale degli Enti soppressi sono trasformati in altrettanti posti di livello dirigenziale generale dell'INPS, con conseguente aumento della sua dotazione organica.
In attesa dell’emanazione dei decreti di trasferimento all'INPS delle risorse strumentali, umane e finanziarie degli Enti soppressi, le strutture centrali e periferiche degli enti soppressi continuano ad espletare le attività connesse ai loro compiti istituzionali e a tale scopo l’INPS, nei giudizi incardinati o da incardinare, relativi alle attività degli enti soppressi, è rappresentato e difeso in giudizio dai professionisti già inseriti nella pianta organica delle consulenze legali degli enti soppressi.
L’INPS subentra anche nella titolarità dei rapporti di lavoro diversi da quelli relativi al personale di ruolo in servizio presso gli enti soppressi, per la loro residua durata.
Gli organi degli enti soppressi (il presidente, il consiglio di indirizzo e vigilanza, il collegio dei sindaci e il direttore generale, di cui all'articolo 3, comma 2, del D.lgs. 479/1994) cessano dalla data di adozione dei decreti di trasferimento all'INPS sopra citati.
Sulla collocazione dei sette componenti del Collegio dei sindaci dell’INPDAP, si prevede che due vadano ad integrare il Collegio dei sindaci dell’INPS e cinque siano trasformati in posizioni dirigenziali di livello generale (per esigenze di consulenza, studio e ricerca) della Ragioneria generale dello Stato.
Per far fronte all’incremento dell’attività dell’INPS a seguito della soppressione degli enti e per assicurare la rappresentanza degli interessi cui corrispondevano le funzioni istituzionali di ciascuno degli enti soppressi, il Consiglio di indirizzo e vigilanza dell'INPS è integrato di sei rappresentanti secondo criteri definiti con decreto, non regolamentare, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Entro sei mesi dall'emanazione dei decreti di trasferimento citati in precedenza, l'INPS provvede al riassetto organizzativo e funzionale, operando una razionalizzazione dell'organizzazione e delle procedure.
La riorganizzazione deve comportare una riduzione dei costi complessivi di funzionamento non inferiore a 20 milioni di euro nel 2012, 50 milioni di euro per l'anno 2013 e 100 milioni di euro a decorrere dal 2014. I relativi risparmi sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati al Fondo ammortamento titoli di Stato. Resta in ogni caso fermo il conseguimento dei risparmi e il correlato versamento all'entrata del bilancio statale, derivante dall'attuazione delle misure di razionalizzazione organizzativa degli enti di previdenza già previste dall'articolo 4, comma 66, della L. 183/2011.
Infine, viene differita la durata in carica del Presidente dell’INPS al 31 dicembre 2014. Per verificare il conseguimento degli obiettivi, il Presidente dovrà presentare al Ministero del lavoro e delle politiche sociali una relazione quadrimestrale, nonché una relazione conclusiva alla fine del mandato, che attesti i risultati conseguiti.
Un primo significativo intervento di contenimento delle spese di funzionamento è stato adottato con l’articolo 8, comma 3, del D.L. 95/2011 (cd. “spending review”), volto ad assicurare, in analogia con quanto disposto per le Amministrazioni centrali dello Stato, il contenimento della spesa per consumi intermedi degli enti e organismi pubblici, costituiti anche in forma societaria, in misura pari al 5% per il 2012 e al 10% dal 2013 della spesa sostenuta per consumi intermedi nel 2010. A tale riduzione sono sottoposti, in particolare, gli enti pubblici inseriti nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione (in cui rientrano anche gli enti previdenziali), quale ne sia la forma giuridica, nonché le autorità indipendenti, inclusa la Consob.
Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalla legislazione vigente, la riduzione della spesa per consumi intermedi nelle misure indicate avviene prioritariamente attraverso un ridimensionamento dei trasferimenti statali. Tuttavia, qualora ciò non fosse possibile per effetto delle operazioni di gestione avvenute nel corso del 2012 o poiché gli enti e gli organismi (anche costituiti in forma societaria), dotati di autonomia finanziaria, non ricevono trasferimenti dal bilancio dello Stato, i soggetti interessati sono chiamati ad adottare interventi di razionalizzazione della spesa per consumi intermedi tali da assicurare risparmi corrispondenti alle percentuali sopra indicate, che dovranno essere versati annualmente in apposito capitolo dell'entrata del bilancio dello Stato entro il 30 giugno di ciascun anno.
Ulteriori misure volte al contenimento delle spese sono state previste dall'articolo 1, commi 108-112 della L. 228/2012 (legge di stabilità per il 2013), il quale ha sancito l'obbligo per gli enti nazionali di previdenza e assistenza, nell'ambito della propria autonomia organizzativa, di adottare ulteriori interventi di razionalizzazione per la riduzione delle proprie spese, in modo da conseguire, a decorrere dall'anno 2013, risparmi aggiuntivi complessivamente non inferiori a 300 milioni di euro annui. I risparmi devono essere prioritariamente conseguiti attraverso la riduzione delle risorse destinate all'esternalizzazione di servizi informatici, alla gestione patrimoniale, ai contratti di acquisto di servizi, a convenzioni con patronati e centri di assistenza fiscale (CAF), ai contratti di locazione per immobili strumentali non di proprietà; la riduzione dei contratti di consulenza; l'eventuale riduzione, per gli anni 2013, 2014 e 2015, delle facoltà assunzionali previste dalla legislazione vigente, con l'obiettivo di realizzare un'ulteriore contrazione della consistenza del personale; la rinegoziazione dei contratti in essere con i fornitori di servizi al fine di allineare i corrispettivi previsti ai valori praticati dai migliori fornitori; la stipula di contratti di sponsorizzazione tecnica o finanziaria.
Il processo di riordino degli enti previdenziali, con l'ampliamento delle funzioni dell'INPS, ha posto il problema della revisione della governance dell'istituto.
Il Parlamento è intervenuto sul tema approvando alcune mozioni (si ricordano la n. 1-01028 dell'8 maggio 2012 e la n. 1-00955 del 22 marzo 2012) che impegnavano il Governo a rivedere la governance dell'INPS a seguito delle varie incorporazioni avvenute. Dal canto suo il Governo ha istituito un gruppo di lavoro che il 28 giugno 2012 ha prodotto documento finale contenente un 'analisi dei problemi emersi e alcune indicazioni operative. La XI Commissione Lavoro della Camera dei deputati ha avviato l'esame di alcune proposte di legge (C. 5463, C. 5503, C. 5539, C. 5572) aventi lo scopo principale di rivedere la composizione e le funzioni degli organi di governance degli enti previdenziali pubblici, interrotto per la fine della legislatura.
L’articolo 21, del D.L. 201/2011, convertito dalla L. 214/2011, ha disposto a decorrere dal 1° gennaio 2012 la soppressione di INPDAP ed ENPALS e il conseguente trasferimento delle funzioni all’INPS, che succede in tutti i rapporti attivi e passivi degli Enti soppressi. Fino al 31 dicembre 2011 INPDAP ed ENPALS svolgono solo atti di ordinaria amministrazione.
La soppressione degli enti avviene nel quadro di convergenza ed armonizzazione del sistema pensionistico attraverso l’applicazione del metodo contributivo e al fine di migliorare l’efficacia e l’efficienza amministrativa nel settore previdenziale e assistenziale.
Le risorse strumentali, umane e finanziarie degli Enti soppressi vengono trasferite all'INPS con decreti di natura non regolamentare del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da emanarsi entro 60 giorni dall'approvazione dei bilanci di chiusura delle relative gestioni degli Enti soppressi e sulla base delle risultanze dei bilanci medesimi, da deliberare entro il 31 marzo 2012.
Conseguentemente la dotazione organica dell'INPS è incrementata di un numero di posti corrispondente alle unità di personale di ruolo in servizio presso gli enti soppressi alla data di entrata in vigore del presente decreto. I dipendenti trasferiti mantengono l'inquadramento previdenziale di provenienza. Il trasferimento non riguarda le posizioni soprannumerarie rispetto alla dotazione organica vigente degli enti soppressi, che costituiscono eccedenze ai sensi dell'articolo 33 del D.Lgs. 165/2001.
In attesa dell’emanazione dei decreti di trasferimento sopra citati, le strutture centrali e periferiche degli enti soppressi continuano ad espletare le attività connesse ai loro compiti istituzionali. A tale scopo l’INPS, nei giudizi incardinati o da incardinare, relativi alle attività degli enti soppressi, è rappresentato e difeso in giudizio dai professionisti già inseriti nella pianta organica delle consulenze legali dell’INPDAP e dell’ENPALS.
Resta fermo quanto previsto in tema di riduzione degli organici delle pubbliche amministrazioni all'articolo 1, comma 3, del D.L. 138/2011, convertito dalla L. 148/2011.
Per quanto concerne la successione negli organi e nei rapporti di lavoro tra Enti soppressi ed INPS si prevede:
Infine si prevede il riassetto organizzativo e funzionale dell’INPS, attraverso una razionalizzazione dell'organizzazione e delle procedure, da attuare entro sei mesi dall'emanazione dei decreti di trasferimento sopra indicati.
In ogni caso, la riorganizzazione deve comportare una riduzione dei costi complessivi di funzionamento non inferiore a 20 milioni di euro nel 2012, 50 milioni di euro per l'anno 2013 e 100 milioni di euro a decorrere dal 2014. I relativi risparmi sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati al Fondo ammortamento titoli di Stato. Resta in ogni caso fermo il conseguimento dei risparmi, e il correlato versamento all'entrata del bilancio statale, derivante dall'attuazione delle misure di razionalizzazione organizzativa degli enti di previdenza già previste dall'articolo 4, comma 66, della L. 183/2011
Infine, la durata in carica del Presidente dell’INPS è differita al 31 dicembre 2014. Al fine di verificare il conseguimento degli obiettivi, il Presidente dovrà presentare al Ministero del lavoro e delle politiche sociali una relazione quadrimestrale, nonché una relazione conclusiva alla fine del mandato, che attesti i risultati conseguiti. L’attuale Presidente dell’INPS, dott. Antonio Mastrapasqua, è stato nominato, per la durata di un quadriennio, con DPR del 30 luglio 2008 .
Il successivo articolo 1, comma 6-ter del D.L. 216/2011, obbliga l’INPS a procedere al riassetto organizzativo e funzionale sopra descritto dall’articolo 21, del D.L. 201/2011, prima di avvalersi delle proroghe previste all’articolo 1 del D.L. 216/2011 in tema di personale in soprannumero, derivante dall’accorpamento con INPDAP ed ENPALS.
La successiva L. 92/2012, di Riforma del mercato del lavoro, (articolo 4, commi 77-79) ha disposto, tra gli altri, per l’INPS, l'adozione, a decorrere dal 2013, di misure di razionalizzazione organizzativaaggiuntive rispetto a quelle previste dalla normativa vigente, volte alla riduzione delle spese di funzionamento.
L'articolo 8 del D.L. 95/2012, convertito dalla L. 135/2012, (c.d. spending review) ha disposto ulteriori obblighi a carico dell’INPS ai fini del processo di riduzione della spesa:
Avviso comune dei sindacati sulla governance degli enti previdenziali pubblici (26 giugno 2012)
Le politiche in materia pensionistica sono state improntate all'esigenza di garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema e si sono progressivamente sviluppate nel corso dellalegislatura attraverso una serie di provvedimenti (decreti-legge 78/2009, 78/2010 e 201/2011) che hanno previsto, in particolare, l'aggancio automatico dell'età pensionabile all'incremento della speranza di vita, il posticipo della decorrenza dei trattamenti pensionistici (cd. finestre) e, da ultimo, un generale incremento dei requisiti pensionistici.
Nell’ambito degli interventi volti al progressivo innalzamento dei requisiti anagrafici per il diritto all’accesso dei trattamenti pensionistici, grande rilievo assumono iprovvedimenti volti ad adeguare i requisiti anagrafici per l’accesso al sistema pensionistico all’incremento della speranza di vita (accertato dall'ISTAT).
Il principio è stato originariamente introdotto dal comma 2 dell’articolo 22-ter del D.L. 78/2009. Tale disposizione prevedeva che l’adeguamento avrebbe dovuto decorrere dal 1° gennaio 2015, con modalità tecniche demandate ad un apposito regolamento di delegificazione, da emanare entro il 31 dicembre 2014.
Successivamente la normativa in questione è stata interessata, pur in un breve periodo temporale, da numerosi interventi (articolo 12, commi 12-bis - 12-quinquies, del D.L. 78/2010; articolo 18, comma 4, del D.L. 98/2011; articolo 24, commi 12-13, del D.L. 201/2011) che ne hanno modificato ed integrato la struttura.
Attualmente, sulla base di quanto disposto da tali ulteriori interventi, il primo adeguamento è stato anticipato al 1° gennaio 2013; allo stesso tempo, è stato anticipato al 2011 (in luogo del 2014) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibili i dati relativi alla variazione della speranza di vita. Inoltre, è stato posticipato al 31 dicembre di ciascun anno (in luogo del 30 giugno) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibile il dato relativo alla variazione.
Inoltre, è stato previsto un secondo aggiornamento nel 2016 ed un terzo nel 2019, mentre successivamente si avranno aggiornamenti con cadenza biennale.
Per valori del requisito anagrafico superiori a 65 anni è stato contestualmente disposto l’adattamento dei coefficienti di trasformazione, al fine di assicurare trattamenti pensionistici correlati alla maggiore anzianità lavorativa maturata.
L’articolo 12, commi 1-6, del D.L. 78/2010, ha introdotto una serie di misure volte alla riduzione strutturale della spesa pensionistica, incidendo sui requisiti di accesso alla pensione. In particolare, la norma è intervenuta sulla decorrenza dei trattamenti pensionistici (c.d. “finestre”), innalzando il termine a 12 mesi per i lavoratori dipendenti e a 18 mesi per determinate categorie di lavoratori autonomi.
Tale termine è stato successivamente integrato dall’articolo 18, commi 22-ter – 22-quinquies, del D.L. 98/2011, che, per i soggetti richiamati che avessero maturato i requisiti per il diritto al pensionamento indipendentemente dall’età anagrafica (cioè raggiungano i 40 anni di contributi versati), ha disposto il conseguimento del diritto alla decorrenza con un posticipo ulteriore, pari a un mese dalla data di maturazione dei requisiti previsti per i soggetti che maturino i requisiti nel 2012; due mesi per i soggetti che maturino i requisiti nel 2013; tre mesi per i soggetti che maturino i requisiti a decorrere dal 1° gennaio 2014.
Infine, l’articolo 24, comma 5, del D.L. 201/2011, al fine di salvaguardare le aspettative dei lavoratori prossimi al pensionamento, ha disposto, con riferimento esclusivamente ai soggetti che a decorrere dal 1° gennaio 2012 maturino i requisiti per il pensionamento di vecchiaia e anticipato, la non applicazione delle disposizioni del D.L. 78/2010.
L’articolo 24 del D.L. 201/2011 (rifoma Fornero) ha attuato una revisione complessiva del sistema pensionistico.
In particolare, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere dal 1° gennaio 2012 (comma 6), disponendo l’innalzamento a 66 anni del limite minimo per accedere alla pensione di vecchiaia (sia per i lavoratori dipendenti sia per quelli autonomi), nonché l’anticipazione della disciplina a regime dell’innalzamento progressivo dell’età anagrafica delle lavoratrici dipendenti private al 2018 (in luogo del 2026) Più specificamente, sono stati ridefiniti i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nei seguenti termini:
Inoltre, si stabilisce (comma 9) un limite anagrafico minimo per l’accesso alla pensione di vecchiaia per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'AGO e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata INPS. In particolare, i requisiti anagrafici devono essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni per i soggetti, in possesso dei predetti requisiti, che maturino il diritto alla prima decorrenza utile del pensionamento dall'anno 2021.
La norma poi (comma 10) innalza, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, che maturino i requisiti a partire dalla medesima data, il limite massimo di 40 anni richiesto ai fini del riconoscimento del diritto al pensionamento in base al solo requisito di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (c.d. “quarantesimi”).
Sulla base delle nuove disposizioni, l’accesso al trattamento pensionistico è consentito esclusivamente qualora risulti maturata un’anzianità contributiva di:
In virtù di tale disposizione viene soppressa, sempre a decorrere dal 2012, la possibilità di accedere al pensionamento anticipato con il sistema delle cd. “quote” introdotto dalla L. 247/2007, con un’anzianità minima compresa tra 35 e 36 anni di contributi.
Inoltre, si prevede l’applicazione di una riduzione percentuale del trattamento pensionistico per ogni anno di pensionamento anticipato rispetto all’età di 62 anni (pari all’1%, con elevazione al 2% per ogni ulteriore anno di anticipo rispetto a 2 anni).
All’indomani dell’approvazione della riforma, che in molti casi aveva comportato uno spostamento in avanti dell’età di pensionamento anche di molti anni, si è tuttavia ben presto (e con forza) posta all’attenzione delle forze politiche e del Governo la questione degli esodati, su cui il legisaltore è intervenuto a più riprese al fine di ampliare la platea dei beneficiari della disciplina transitoria prevista della riforma (consistente nel riconoscimento dei requisiti pensionistici previgenti) garantendo copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014).
L’articolo 24 del D.L. 201/2011 ha recato numerose e sostanziali modifiche alla normativa previdenziale vigente, con lo scopo di garantire il rispetto, nel tempo, dei vincoli di bilancio, della stabilità economico-finanziaria nonché di rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul P.I.L., sulla base dei seguenti principi e criteri:
a) equità e convergenza intragenerazionale e intergenerazionale, con abbattimento dei privilegi e clausole derogative soltanto per le categorie più deboli;
b) flessibilità nell'accesso ai trattamenti pensionistici anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa;
c) adeguamento dei requisiti di accesso alle variazioni della speranza di vita;
d) semplificazione, armonizzazione ed economicità dei profili di funzionamento delle diverse gestioni previdenziali.
In particolare, per quanto attiene al settore previdenziale, dal 1° gennaio 2012 sono stati disposti i seguenti interventi:
Di seguito si analizzano i principali interventi recati dall’articolo 24.
Il comma 2 ha previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità maturate a decorrere dalla medesima data, il calcolo della quota di pensione corrispondente a tali anzianità secondo il metodo di calcolo contributivo (calcolo pro-rata).
Allo stesso tempo, il successivo comma 16 ha rideterminato i coefficienti di trasformazione con effetto dal 1° gennaio 2013, in particolare estendendo, mediante il ricorso allo stesso decreto direttoriale di aggiornamento triennale dei coefficienti di trasformazione, di cui all’articolo 1, comma 11, della L. 335/1995, ed in via derogatoria a quanto previsto all’articolo 12, comma 12-quinquies, del D.L. 78/2010, dalla data richiamata, lo stesso coefficiente di trasformazione anche per le età corrispondenti a valori fino a 70.
Tale valore deve comunque essere adeguato agli incrementi della speranza di vita nell’ambito del procedimento già previsto per i requisiti del sistema pensionistico dall'articolo 12 del D.L. 78/2010. In relazione a ciò è altresì prevista un’ulteriore estensione del coefficiente – nell’ambito della medesima procedura di cui all’articolo 1, comma 11, della L. 335/1995 - considerando quindi anche le età maggiori del limite di 70 anni, ogniqualvolta il predetto adeguamento triennale comporti, con riferimento al valore originariamente indicato in 70 anni per l’anno 2012, l’incremento dello stesso tale da superare di una o più unità il predetto valore soglia.
In ogni caso, la rideterminazione aggiornata del coefficiente di trasformazione esteso anche per età corrispondenti a valori superiori a 70 anni è effettuata con la predetta procedura di cui al richiamato articolo 1, comma 11, della L. 335/1995.
Senza dubbio il fattore più qualificante della riforma in materia di previdenza obbligatorio nella L. 335/1995 fu l’introduzione del metodo di calcolo contributivo dei trattamenti pensionistici, in luogo del metodo retributivo.
Il provvedimento, infatti, muovendo dalla constatazione che il metodo retributivo costituisse una fonte di iniquità del sistema, sia intergenerazionale, sia interna a ciascuna generazione di percettori , introdusse un nuovo metodo di calcolo dei trattamenti pensionistici, mediante il quale si ritengono perseguibili, a regime, entrambi gli obiettivi della sostenibilità finanziaria del sistema e della equità nei rendimenti corrisposti.
Differentemente da quest'ultimo, il metodo contributivo, come prefigurato dall’articolo 1, commi da 6 a 16, dell'articolo 1 della L. 335/1995, mette in relazione vita contributiva e trattamento previdenziale di ciascun soggetto: ciò comporta che, a regime, il pensionato riceverà un trattamento commisurato a quanto ha accumulato nel suo periodo attivo. E' però importante sottolineare che il nuovo sistema contributivo si muove sempre all'interno di un ordinamento che funziona secondo il criterio della ripartizione: la pensione è sì commisurata alla storia contributiva del lavoratore, ma è comunque pagata dalle entrate contributive correnti del sistema, che resta a pieno titolo un sistema pensionistico pubblico. Può dunque parlarsi di un sistema contributivo che funziona all'interno di un quadro ripartitorio pubblico.
La totale diversità del nuovo metodo impose una sua introduzione graduale, delineata dall’articolo 1, commi 12 e 13, che in sostanza stabilirono una tripartizione del sistema di computo delle pensioni. In particolare:
- per i lavoratori privi di anzianità contributiva alla data del 1° gennaio 1996 (c.d. neo-assunti) la pensione sarebbe stata calcolata interamente con il metodo contributivo;
- per i lavoratori con una anzianità contributiva inferiore a 18 anni, la pensione sarebbe stata calcolata con il metodo del "pro-rata", cioè dalla somma di una quota, corrispondente alle anzianità anteriori al 31 dicembre 1995, determinata, (con riferimento alla data di decorrenza della pensione), con il metodo retributivo previgente alla predetta data e di una quota, corrispondente alle ulteriori anzianità contributive, calcolata con il sistema contributivo;
- per i lavoratori con almeno 18 anni di anzianità, la pensione sarebbe stata liquidata interamente secondo il sistema retributivo.
Negli ultimi due casi, fu prevista l'eventualità di liquidare il trattamento esclusivamente con le regole contributive, in conseguenza dell'esercizio della facoltà di opzione prevista dall'articolo 1, comma 23, della L. 335, ai sensi del quale i lavoratori interessati potevano optare per l'integrale liquidazione della pensione con il metodo contributivo, se in possesso di una anzianità contributiva pari almeno a 15 anni, di cui almeno 5 nel nuovo sistema contributivo (cioè a partire dal 1° gennaio 2001, iniziando il nuovo sistema dal 1° gennaio 1996).
Il secondo elemento innovatore, strettamente dipendente dalla scelta del metodo contributivo, è costituito dal meccanismo di funzionamento del metodo medesimo, incentrato sulla capitalizzazione dei contributi versati. In particolare, la capitalizzazione è effettuata secondo un indicatore oggettivo, costituito, secondo quanto puntualmente specifica l'articolo 1, comma 9, della L. 335, dalla variazione media quinquennale del PIL nominale, calcolata con riferimento al quinquennio di ciascun anno da rivalutare. L'accumulo contributivo così capitalizzato dà luogo al "montante contributivo": quest'ultimo, rapportato ai divisori (cd. coefficienti di trasformazione) previsti dalla Tabella A allegata alla legge (e che sono anch'essi costituiti secondo un criterio oggettivo, rapportato alla speranza di vita del pensionato viene moltiplicato per i coefficienti di trasformazione), dando come prodotto l'ammontare della rendita pensionistica di ciascuno.
E' importante sottolineare, coerentemente con quanto prima accennato in ordine al quadro ripartitorio pubblico in cui si muoveva il nuovo sistema, che la capitalizzazione di ciascuna contribuzione è di carattere figurativo, (è stata infatti definita come capitalizzazione simulata) poiché con i versamenti via via acquisiti si continuano a pagare le pensioni a carico del sistema.
Più specificamente, il metodo contributivo presuppone che per ciascun destinatario venga istituita una sorta di conto di tipo patrimoniale, nel quale vengono accreditati anno per anno i contributi versati, che sono capitalizzati ad un tasso di rendimento pari al tasso di crescita del sistema economico; il processo è continuo, nel senso che il conto patrimoniale individuale si accresce anno per anno sia per effetto del versamento di nuovi contributi, sia per la rivalutazione di quelli già versati. Alla fine della vita lavorativa, l'interessato si vede accreditato una patrimonio finanziario (ovviamente di carattere nozionale e teorico, poiché nel frattempo i suoi contributi hanno pagato i trattamenti pensionistici correnti), che verrà distribuito sugli anni di godimento atteso della pensione. In questo punto si introduce il parametro del divisore, ovvero il numero utilizzato per trasformare il montante contributivo in rendita, che varia (principalmente, ma non soltanto) in relazione all'età di pensionamento: chi va in pensione in età più giovane ha infatti una speranza di vita maggiore, e di conseguenza, a parità di montante contributivo, gli si applicherà un divisore più elevato (cioè un minor coefficiente di trasformazione) e dall'operazione deriverà una rendita di minor ammontare rispetto a coloro che, con il medesimo montante, vanno in pensione in età più tarda.
Come accennato, il sistema di calcolo contributivo del trattamento pensionistico, introdotto dalla L. 335/1995, differisce notevolmente dal sistema retributivo: la prestazione pensionistica, infatti, non è legata alla retribuzione ma è vincolata alla contribuzione accreditata a favore del dipendente nell'arco dell'intera sua vita lavorativa. L'importo della pensione si ottiene quindi moltiplicando il montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione (cioè il valore al quale si moltiplica il montante individuale dei contributi al fine di ottenere l’importo attualizzato della pensione annua, in altri termini è la percentuale per la quale si moltiplicano i contributi accumulati in tutta la vita lavorativa al fine di determinare l'importo dell’assegno pensionistico relativo all'età del dipendente alla data di decorrenza della pensione o alla data del decesso, nel caso di pensione indiretta). I coefficienti di trasformazione sono i coefficienti utilizzati nel metodo di calcolo contributivo per la trasformazione del montante contributivo (cioè, il capitale che il lavoratore ha accumulato nel corso degli anni di lavoro attivo) in rendita. Tali indici variano in base all’età anagrafica al momento del pensionamento e sono costruiti tenendo conto della speranza di vita media alla pensione e incorporando il tasso di crescita del PIL di lungo periodo stimato nell’1,5%. Introdotti dall’articolo 1, comma 6, della L. 335/1995, ai sensi dell’articolo 1, comma 14, della L. 247/2007, tali coefficienti sono stati rideterminati con effetto 1° gennaio 2010. Il successivo comma 15, semplificando la procedura per la rideterminazione dei coefficienti e riducendone la periodicità, ha disposto la rideterminazione triennale degli stessi con apposito decreto interministeriale. L'accesso ai trattamenti per i destinatari del sistema contributivo è condizionato alla maturazione dell'età minima di 57 anni, fatte salve alcune eccezioni. Il valore del coefficiente di trasformazione è legato all’età posseduta, aumentando al crescere della stessa. Più specificamente, si considera il limite inferiore di 57 anni (età inferiore) per arrivare ad un valore massimo del coefficiente in corrispondenza dei 65 anni (età superiore). In sostanza, quindi, un’età pensionabile più avanzata permette di conseguire una pensione più consistente.
Si ricorda, inoltre, che la L. 247/2007 ha disposto, in fase di prima rideterminazione dei coefficienti di trasformazione, la sostituzione (articolo 1, comma 14) della Tabella A allegata alla L. 335/1995 con la nuova Tabella A di cui all’Allegato n. 2 alla L. 247/2007, a decorrere dal 1° gennaio 2010. Si consideri che il valore dei coefficienti di trasformazione corrispondente alle varie età anagrafiche viene ridotto: la riduzione dei coefficienti è riportata nella seguente tabella (tasso di sconto = 1,5%):
Divisori |
Età |
Valori |
22,627 |
57 |
4,419% |
22,035 |
58 |
4,538% |
21,441 |
59 |
4,664% |
20,843 |
60 |
4,798% |
20,241 |
61 |
4,940% |
19,635 |
62 |
5,093% |
19,024 |
63 |
5,257% |
18,409 |
64 |
5,432% |
17,792 |
65 |
5,620% |
La stessa legge ha altresì modificato la disciplina relativa alle modalità di rideterminazione dei coefficienti di trasformazione, alla quale si provvede - sempre sulla base degli andamenti demografici e dell'andamento effettivo del tasso di variazione del PIL rispetto all’andamento dei redditi soggetti a contribuzione previdenziale - con cadenza triennale con apposito decreto interministeriale. Infine, è stato disposto (comma 16) che il Governo deve procedere ogni dieci anni, con le parti sociali, alla verifica della sostenibilità ed equità del sistema pensionistico.
Il comma 3 ha disposto una certificazione dei diritti acquisiti prima della data di entrata in vigore del provvedimento in esame – su domanda dei soggetti interessati - per i lavoratori che maturino entro il 31 dicembre 2011, in relazione ai requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla normativa vigente ai fini del diritto all'accesso e alla decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità.
Inoltre, a decorrere dal 1° gennaio 2012 per i soggetti che, nei regimi misto e contributivo, maturino i requisiti a partire dalla medesima data, le pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata e di anzianità vengono sostituite, dalla pensione di vecchiaia, conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di cui ai commi 6 e 7, salvo quanto stabilito ai successivi commi 14, 15-bis e 18, e dalla pensione anticipata, conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti di cui ai comma 10 e 11, salvo quanto stabilito ai successivi commi 14, , 15-bis, 17 e 18.
Lo stesso comma ha previsto altresì la sostituzione, sempre a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti che maturino, nei regimi misto e contributivo, i requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico a partire dalla medesima data, delle pensioni di vecchiaia, di vecchiaia anticipata (cioè del trattamento pensionistico anticipato ai sensi dell’articolo 1, comma 8, del D.Lgs. 503/1992, applicabile agli invalidi in misura non inferiore all'80% e pari a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne), di anzianità con la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata. Le nuove discipline trovano applicazione salvo quanto stabilito in materia di esenzioni dell’applicazione della nuova disciplina (comma 14), di prepensionamento per lavori usuranti (comma 17) e di armonizzazione dei requisiti per l’accesso al pensionamento dei regimi diversi dall’AGO (comma 18).
Il comma 4 ha disposto la possibilità, per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione viene liquidata a carico dell'Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, di conseguire la pensione di vecchiaia all'età in cui operano i requisiti minimi previsti dalle successive disposizioni.
E’ inoltre previsto un sistema di incentivazione al proseguimento dell'attività lavorativa, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, attraverso una riparametrazione dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all'età di 70 anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall'articolo 12 del D.L. 78/2010.
Lo stesso comma prevede altresì che nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della L. 300/1970 (cd. “tutela reale” nella disciplina dei licenziamenti individuali) operi fino al conseguimento del richiamato limite massimo di flessibilità.
Il comma 5 ha previsto, con riferimento esclusivamente ai soggetti che a decorrere dal 1° gennaio 2012 maturino i requisiti per il pensionamento di vecchiaia ordinario e anticipato, la non applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 12, commi 1 e 2 del D.L. 78/2010, e delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 21, primo periodo, del D.L. 138/2011, recanti, rispettivamente, disposizioni in materia di decorrenze per la generalità dei lavoratori e per il personale del comparto scuola (c.d. finestre).
L’articolo 12, commi 1 e 2, del D.L. 78/2010 aveva introdotto le cd. decorrenze annuali (modificando la disciplina su cui erano in precedenza intervenute la L. 335/1995, la L. 243/2004 e la L. 247/2007) rispettivamente, per i soggetti che, a decorrere dal 2011 avessero maturato il requisito anagrafico per il diritto, rispettivamente, alla pensione di vecchiaia (comma 1) e alla pensione di anzianità Più specificamente, è stato stabilito che il termine di decorrenza della pensione di vecchiaia (compresi i trattamenti liquidati interamente con il sistema contributivo) sia pari:
- per i lavoratori dipendenti, a 12 mesi dalla data di maturazione dei requisiti per il relativo trattamento;
- per gli iscritti alle gestioni INPS relative agli artigiani, commercianti, coltivatori diretti e alla Gestione separata INPS, 18 mesi dalla data di maturazione dei requisiti. Successivamente, l’articolo 22-ter del D.L. 98/2011 ha posticipato la decorrenza dei richiamati trattamenti di anzianità per i soggetti che acquisiscano tale diritto indipendentemente dall’età anagrafica (cioè raggiungano i 40 anni di contributi versati) di un mese dalla data di maturazione dei requisiti previsti per i soggetti che maturino i requisiti nel 2012, due mesi per i soggetti che maturino i requisiti nel 2013 e tre mesi per i soggetti che maturino i requisiti a decorrere dal 1° gennaio 2014. Il posticipo non trova applicazione per il personale della scuola, per il quale resta fermo quanto stabilito dall’articolo 59, comma 9, della L. 449/1997.
L’articolo 1, comma 21, primo periodo, del D.L. 138/2011, ha invece modificato, a decorrere dal 1° gennaio 2012, la disciplina delle decorrenze iniziali dei trattamenti pensionistici (di vecchiaia e anzianità) per il personale del comparto scuola. In particolare, è stato disposto che i trattamenti decorrano dall’inizio dell'anno scolastico e accademico ricadente nell'anno solare successivo rispetto a quello in cui si siano maturati i requisiti (nella disciplina previgente la decorrenza era prevista dall'inizio dell'anno scolastico e accademico che ricadeva nell'anno solare di maturazione dei requisiti per il trattamento). Resta ferma l'applicazione della disciplina previgente per i soggetti che abbiano conseguito o conseguano entro il 31 dicembre 2011 i requisiti per il trattamento.
Il comma 6 ha ridefinito i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere dal 1° gennaio 2012.
Si ricorda che i requisiti introdotti dalla L. 243/2004 per la pensione di vecchiaia liquidata esclusivamente con il sistema contributivo, applicabili dal 1° gennaio 2008, prevedevano che i lavoratori dipendenti potessero andare in pensione in presenza, alternativamente, di una delle seguenti situazioni:
1) età anagrafica pari a 60 anni per le donne e 65 anni per gli uomini; versamento e accreditamento di almeno 5 anni di contribuzione effettiva; importo della pensione non inferiore a 1,2 volte l’assegno sociale;
2) anzianità contributiva non inferiore a 40 anni (in questo caso si prescinde dal requisito anagrafico);
3) anzianità contributiva non inferiore a 35 anni; età anagrafica pari a 60 anni per i lavoratori dipendenti e 61 anni per i lavoratori autonomi nel biennio 2008-2009; il requisito dell’età anagrafica veniva aumentato di un anno per il periodo 2010-2013 e di un ulteriore anno a decorrere dal 2014 (62 anni per i lavoratori dipendenti e 63 anni per gli autonomi).
Successivamente, è intervenuta in materia la L. 247/2007, la quale ha modificato i requisiti introdotti dalla L. 243/2004 per lâ€accesso alla pensione di vecchiaia di cui alla terza ipotesi richiamata in precedenza, non modificando le altre ipotesi.
Pertanto, a seguito di tale modifica, a decorrere dal 2008, per accedere alla pensione di vecchiaia con il sistema contributivo in base all’ipotesi 3), era necessario possedere i seguenti requisiti:
- per il 2008 e dal 1° gennaio 2009 al 30 giugno 2009, almeno 35 anni di anzianità contributiva insieme ad una età anagrafica di almeno 58 anni per i lavoratori dipendenti pubblici e privati e di 59 anni per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS;
- dal 1° luglio 2009 al 31 dicembre 2010, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” (data dalla somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva) pari almeno a 95 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 59 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 96 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 60 anni;
- per gli anni 2011 e 2012, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” pari almeno a 96 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 60 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 97, purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 61 anni;
- dall’anno 2013, infine, a regime, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” pari almeno a 97 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 61 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 98, purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 62 anni (a meno che il Ministro del lavoro non emani il decreto di cui al comma 7 dell’articolo 1 della L. 243/2004 al fine di differire l’innalzamento dei requisiti pensionistici).
Più specificamente, tra gli interventi di revisione effettuati, si segnala l’innalzamento a 66 anni del limite minimo per accedere alla pensione di vecchiaia sia per i lavoratori dipendenti sia per quelli autonomi, nonché l’anticipazione della disciplina a regime dell’innalzamento progressivo dell’età anagrafica delle lavoratrici dipendenti private al 2018 (in luogo del 2026).
Allo stesso tempo, si precisa che il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia si consegua in presenza di un'anzianità contributiva minima pari a 20 anni (in luogo dei 5 richiesti dalla normativa previgente), a condizione che l'importo della pensione risulti essere non inferiore a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale.
Tutti i meccanismi di innalzamento comunque precisano che resta in ogni caso ferma la disciplina di adeguamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita ai sensi dell'articolo 12 del D.L. 78/2010.
In particolare, il comma in esame, al fine di conseguire una convergenza verso un requisito uniforme per il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia tra uomini e donne e tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, prevede, relativamente ai soggetti che maturino i requisiti per il pensionamento di vecchiaia ordinario e anticipato a decorrere appunto dal 1° gennaio 2012, ridefinisce i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nei seguenti termini:
- 63 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014;
- 65 anni a decorrere dal 1° gennaio 2016;
- 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018;
In materia di innalzamento dei requisiti anagrafici per il pensionamento delle lavoratrici dipendenti private, l’articolo 18 del D.L. 98/2001 aveva stabilito in primo luogo, a decorrere dal 1° gennaio 2020, un progressivo innalzamento, da 60 a 65 anni, del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia. In particolare, il requisito anagrafico di 60 anni per il sistema retributivo e misto e il requisito di 60 anni di cui all’articolo 1, comma 6, lettera b), della L. 243/2004 (pensione liquidata con il calcolo contributivo) venivano incrementati di 1 mese. Tali requisiti erano ulteriormente incrementati di 2 mesi a decorrere dal 2021, di 3 mesi dal 2022, di 4 mesi dal 2023, di 5 mesi dal 2024, di 6 mesi dal 2025 per ogni anno fino al 2031 e di ulteriori 3 mesi a decorrere dal 2032 (sempre tenendo conto degli innalzamenti legati all’incremento della speranza di vita).
Successivamente, l’articolo 1, comma 20, del D.L. 138/2011 era intervenuto nuovamente su tale disciplina prevedendo un anticipo dell’innalzamento progressivo, con inizio dal 2014, (anziché dal 2020) e con l’entrata a regime della disciplina il 1° gennaio 2026 (anziché il 1° gennaio 2032).
La disciplina a regime veniva raggiunta attraverso l’innalzamento di un mese a decorrere dal 2014, di ulteriori 2 mesi dal 2015, di 3 mesi dal 2016, di 4 mesi dal 2017, di 5 mesi dal 2018, di 6 mesi dal 2019 per ogni anno fino al 2025 e di ulteriori 3 mesi a decorrere dal 2026, anno, appunto, in cui la disciplina entra a regime con il raggiungimento di 65 anni ai fini del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia.
- 64 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2014;
- 65 anni e 6 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2016;
- 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2018;
L’articolo 22-ter del D.L. 78/2009 è intervenuto in materia di requisiti anagrafici richiesti ai fini del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti iscritte alle forme esclusive dell'AGO per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti (cioè le lavoratrici dipendenti pubbliche).
In particolare, è stato aggiunto un periodo all’articolo 2, comma 21, della L. 335/1995, in base al quale i requisiti anagrafici di 60 anni per le lavoratrici del pubblico impiego, individuato dallo stesso comma 21 nonché dall’articolo 1, comma 6, lettera b), della L. 243/2004, sono incrementati di un anno, a decorrere dal 2010. Lo stesso periodo dispone altresì un ulteriore incremento di un anno a decorrere dal 1° gennaio 2012 nonché di un ulteriore anno per ogni biennio successivo, fino al raggiungimento dei 65 anni nel 2018.
Successivamente, l’articolo 12, comma 12-sexies, del D.L. 78/2010 ha modificato, tale disciplina, disponendo l'elevamento del requisito da 61 a 65 anni con decorrenza dal 1° gennaio 2012. Resta fermo il diritto al trattamento per le lavoratrici che maturino, entro il 31 dicembre 2011, i requisiti anagrafici e contributivi vigenti alla suddetta data; tali dipendenti possono chiedere all'ente pensionistico di appartenenza la certificazione del diritto.
Ai sensi del successivo comma 7, il diritto alla pensione di vecchiaia si consegue in presenza di un'anzianità contributiva minima pari a 20 anni (in luogo dei 5 richiesti in precedenza), a condizione che l'importo della pensione risulti essere non inferiore, per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996, a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale di cui all'articolo 3, comma 6, della L. 335/1995., rivalutato annualmente sulla base della variazione media quinquennale del PIL nominale, appositamente calcolata dall'ISTAT, con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare. In occasione di eventuali revisioni della serie storica del PIL operate dall'ISTAT, i tassi di variazione da considerare devono essere quelli relativi alla serie preesistente anche per l'anno in cui si verifica la revisione e quelli relativi alla nuova serie per gli anni successivi. Il predetto importo soglia non può in ogni caso essere inferiore, per un dato anno, a 1,5 volte l'importo mensile dell'assegno sociale stabilito per il medesimo anno.
Si prescinde dall’importo minimo solamente se si è in possesso di un'età anagrafica pari a 70 anni, ferma restando un'anzianità contributiva minima effettiva di cinque anni.
Lo stesso comma, infine, per esigenze di coordinamento legislativo, provvede, fermo restando quanto previsto dall'articolo 2 del D.L. 355/2001 a sopprimere il riferimento ai lavoratori cd. “diciottisti”(cioè i lavoratori che vantando al 1° gennaio 1996 un’anzianità contributiva di almeno 18 anni, avevano la pensione interamente liquidata secondo la normativa vigente in base al sistema retributivo) all’articolo 1, comma 23 della L. 335/1995, (cfr. il paragrafo relativo all’introduzione del metodo di calcolo contributivo).
Il successivo comma 9 stabilisce un limite anagrafico minimo per l’accesso alla pensione di vecchiaia per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'AGO e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata INPS.
In particolare, i requisiti anagrafici devono essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni per i soggetti, in possesso dei predetti requisiti, che maturino il diritto alla prima decorrenza utile del pensionamento dall'anno 2021.
Qualora, per effetto degli adeguamenti dei predetti requisiti agli incrementi della speranza di vita ai sensi dell'articolo 12 del D.L. 78/2010, la richiamata età minima di accesso non fosse assicurata, è disposto un ulteriore incremento degli stessi, con lo stesso decreto direttoriale di cui al citato articolo 12, comma 12-bis, del D.L. 78/2010, da emanare entro il 31 dicembre 2019, al fine di garantire, per i richiamati soggetti in possesso dei predetti requisiti un'età minima di accesso al trattamento pensionistico comunque non inferiore a 67 anni.
Resta anche in questo caso ferma la disciplina di adeguamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita, per gli adeguamenti successivi a quanto previsto dal penultimo periodo del presente comma.
Infine, per esigenze di coordinamento legislativo, viene abrogato l'articolo 5 della L. 183/2011.
Tale norma, ferma restando la normativa vigente in materia di decorrenza dei trattamenti pensionistici (c.d. finestre) e di adeguamento all’incremento delle aspettative di vita, era volta a garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia non inferiore a 67 anni, tenuto conto del regime delle decorrenze, e riguardava esclusivamente le pensioni di vecchiaia per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995. In particolare, si stabiliva che, a prescindere dalle misure del processo di elevamento richiamato in precedenza, i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di vecchiaia nel sistema retributivo e misto nonché i requisiti anagrafici richiesti per la liquidazione dei trattamenti pensionistici di cui all'articolo 1, comma 6, lettera b), della L. 243/2004, come modificati, per le lavoratrici, dall'articolo 22-ter, comma 1, del D.L. 78/2009 e dall'articolo 18, comma 1, del D.L. 98/2011, dovessero essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni, tenuto conto del regime delle decorrenze, per i soggetti, in possesso dei predetti requisiti, che maturassero il diritto alla prima decorrenza utile del pensionamento dall'anno 2026.
Il comma 10 ha innalzato, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, che maturino i requisiti a partire dalla medesima data, il limite massimo di 40 anni richiesto ai fini del riconoscimento del diritto al pensionamento in base al solo requisito di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (c.d. “quarantesimi”).
Sulla base delle nuove disposizioni, l’accesso al trattamento pensionistico è consentito esclusivamente qualora risulti maturata anzianità contributiva di:
E’ stata altresì confermata l’applicabilità a tale fattispecie della disciplina di adeguamento dei requisiti contributivi agli incrementi della speranza di vita, ai sensi dell'articolo 12 del D.L. 78/2010, come integrato dal successivo comma 12 (relativo all’adeguamento dei requisiti per l’accesso al pensionamento agli incrementi della speranza di vita).
Inoltre, è stata disposta l’applicazione di una riduzione percentuale per ogni anno anticipato nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni. Nel corso dell'esame in sede referente, è stato disposto che tale percentuale sia pari all’1%, con elevazione al 2% per ogni ulteriore anno di anticipo rispetto a 2 anni.
In sostanza, la riduzione percentuale sarebbe pari all’1% in presenza di un accesso al pensionamento con 61 e 60 anni e salirebbe al 2% in presenza di un accesso al pensionamento pari e minore a 59 anni.
Nel caso in cui l’età al pensionamento non sia intera, è prevista una riduzione percentuale proporzionale al numero di mesi.
Il comma 11 ha previsto un requisito anagrafico minimo per accedere alla pensione anticipata nel sistema contributivo, in alternativa alla maturazione dell’anzianità contributiva analizzata nel comma precedente, per i lavoratori ai quali il primo accredito contributivo decorra successivamente al 1° gennaio 1996.
Più specificamente, fermo restando quanto previsto dal comma 10, per tali i lavoratori il diritto alla pensione anticipata, previa risoluzione del rapporto di lavoro, può essere conseguito, altresì, al compimento del requisito anagrafico di 63 anni, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell'assicurato almeno 20 anni di contribuzione effettiva e che l'ammontare mensile della prima rata di pensione risulti essere non inferiore ad un importo soglia mensile, annualmente rivalutato sulla base della variazione media quinquennale del PIL nominale, appositamente calcolata dall'ISTAT, con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare, pari - per l'anno 2012 - a 2,8 volte l'importo mensile dell'assegno sociale.
In occasione di eventuali revisioni della serie storica del PIL operate dall'ISTAT i tassi di variazione da considerare sono quelli relativi alla serie preesistente anche per l'anno in cui si verifica la revisione e quelli relativi alla nuova serie per gli anni successivi. Il predetto importo soglia mensile non può in ogni caso essere inferiore, per un dato anno, a 2,8 volte l'importo mensile dell'assegno sociale stabilito per il medesimo anno
Il comma 12 ribadisce la vigenza della disciplina degli adeguamenti dei requisiti per l’accesso al pensionamento, così come modificati dall’articolo in esame, agli incrementi della speranza di vita previsti dall'articolo 12, commi da 12-bis a 12-quater, del D.L. 78/2010.
Il comma 2 dell’articolo 22-ter del D.L. 78/2009 aveva disposto un intervento di portata generale rivolto a tutti i lavoratori, sia pubblici sia privati. Esso stabiliva che a decorrere dal 1° gennaio 2015 i requisiti anagrafici per l’accesso al sistema pensionistico italiano dovessero essere adeguati all’incremento della speranza di vita accertato dall’ISTAT e convalidato dall’EUROSTAT, con riferimento ai 5 anni precedenti.
L’attuazione della relativa normativa tecnica era demandata ad un apposito regolamento di delegificazione, da emanare entro il 31 dicembre 2014. In ogni caso, in sede di prima attuazione il richiamato incremento riferito ai 5 anni antecedenti non poteva superare i 3 mesi.
Successivamente, l’articolo 12, commi 12-bis-12-quinquies, del D.L. 78/2010, ha dato attuazione alle disposizioni del richiamato articolo 22-ter (in sostanza sostituendolo senza disporne l’abrogazione), modificandole in alcune parti. In particolare, si prevede l’adeguamento con cadenza triennale dei requisiti di accesso ai trattamenti, al fine di adeguarli all’incremento della speranza di vita rilevato annualmente dall’ISTAT, entro il 30 giugno, a decorrere dal 2015. In sede di prima applicazione tale aggiornamento non può in ogni caso superare i 3 mesi. Il secondo aggiornamento è previsto a decorrere dal 2019, mentre successivamente si procederà ad aggiornamenti con cadenza triennale. Per valori del requisito anagrafico superiori a 65 anni si dispone, poi, l’adattamento dei coefficienti di trasformazione, al fine di assicurare trattamenti pensionistici correlati alla maggiore anzianità lavorativa richiesta.
Da ultimo, l’articolo 18, comma 4, del D.L. 98/2011, modificando i richiamati commi, ha anticipato al 1° gennaio 2013 (invece del 1° gennaio 2015) la data del primo adeguamento dei trattamenti pensionistici all’indice di speranza di vita. Allo stesso tempo, è stato anticipato al 2011 (in luogo del 2014) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibili i dati relativi alla variazione della speranza di vita, richiamato in precedenza. Inoltre, viene posticipato al 31 dicembre di ciascun anno (in luogo del 30 giugno) l’obbligo per l'ISTAT di rendere disponibile il dato relativo alla variazione nel triennio precedente della speranza di vita all'età corrispondente a 65 anni. Infine, attraverso l’abrogazione dell’ultimo periodo del comma 12-ter, è stata eliminata la previsione che il secondo adeguamento fosse calcolato su base biennale, in relazione a ciò tutti gli adeguamenti successivi al primo hanno pertanto cadenza triennale.
Lo stesso comma, per esigenze di coordinamento legislativo con le disposizioni di cui al precedente comma 6 concernente l’introduzione dell’istituto della pensione anticipata, provvede altresì a modificare le disposizioni di cui ai richiamati commi 12-bis, 12-ter e 12-quater, legando l’adeguamento triennale dei requisiti di accesso al trattamento pensionistico anche ai requisiti contributivi introdotti dall’articolo in esame.
Il successivo comma 13 stabilisce la cadenza biennale dell’aggiornamento degli adeguamenti agli incrementi della speranza di vita successivi a quello effettuato con decorrenza 1° gennaio 2019, secondo le modalità previste dall'articolo 12 del D.L. 78/2010.
Per esigenze di coordinamento legislativo, inoltre, dalla medesima data i riferimenti al triennio, di cui al comma 12-ter dell'articolo 12 del richiamato D.L. 78/2010, devono riferirsi al biennio.
Il comma 14 ha previsto, riprendendo analoghe disposizioni presenti in precedenti norme, che le disposizioni previgenti in materia di requisiti di accesso e di regime di decorrenza dei trattamenti pensionistici (c.d. finestre”) continuino ad applicarsi, in primo luogo:
Le disposizioni previgenti continuano, altresì, ad applicarsi, nei limiti delle risorse stabilite ai sensi del comma 15 e sulla base della procedura ivi disciplinata, ad una serie di lavoratori, ancorché maturino i requisiti per l’accesso al pensionamento successivamente al 31 dicembre 2011, riconducibili alle seguenti categorie:
Il comma 15, demandato le modalità di attuazione del comma 14 ad uno specifico decreto interministeriale (modalità emanate con il D.M. 1° giugno 2012). La disciplina attuativa, in particolare, provvede alla determinazione del numero massimo di beneficiari nel limite di tetti annui di spesa (240 milioni per i 2013; 630 milioni per il 2014; 1.040 milioni per il 2015; 1.220 milioni per il 2016; 1.030 milioni per il 2017; 610 milioni per il 2018; 300 milioni per il 2019).
Agli Enti gestori di forme di previdenza obbligatorie è rimesso il compito di monitorare l’accesso ai benefici, con l’obbligo di non prendere in considerazione ulteriori domande una volta raggiunto il limite numerico corrispondente ai tetti annui di spesa.
La disposizione, infine, precisa che nell’ambito del predetto limite numerico vadano computati anche i lavoratori che intendono avvalersi, se in possesso dei richiesti requisiti, anche del beneficio – in aggiunta a quello indicato relativo al regime delle decorrenze annuali disciplinato dall’articolo 12, comma 5, del D.L. 78/2010, per il quale risultano comunque computati nel relativo limite numerico di cui al predetto articolo 12, comma 5 afferente al beneficio concernente il regime delle decorrenze.
In ogni caso resta fermo che ai richiamati soggetti che maturino i requisiti dal 1° gennaio 2012 trovino comunque applicazione le disposizioni inerenti l’adeguamento dei requisiti per l’accesso ai trattamenti pensionistici agli incrementi della speranza di vita di cui al comma 12.
Il comma 15-bis ha previsto un regime agevolato di accesso al sistema pensionistico per i lavoratori dipendenti del settore privato con pensioni liquidate a carico dell’AGO e delle forme sostitutive della medesima, in possesso di specifici requisiti.
In particolare, tale regime opera nei confronti:
|
Lavoratori dipendenti pubblici e privati |
|
|
Somma di età anagrafica e anzianità contributiva |
Età anagrafica minima per la maturazione del requisito indicato in colonna 1 |
dal 01/07/2009 al 01/12/2009 |
95 |
59 |
2010 |
95 |
59 |
2011 |
96 |
60 |
2012 |
96 |
60 |
dal 2013 |
97 |
61 |
Tali lavoratori possono conseguire la pensione anticipata al compimento di un'età anagrafica non inferiore a 64 anni;
Queste ultime possono conseguire il trattamento di vecchiaia oltre che, se più favorevole, ai sensi del precedente comma 6, con un'età anagrafica non inferiore a 64 anni.
Il comma 17 ha disposto alcune modifiche all’articolo 1 del D.Lgs. 67/2011, che disciplina l’accesso al pensionamento anticipato per i lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (c.d. lavori usuranti ), al fine di attenuare la portata dei benefici previdenziali in precedenza previsti.
Le novità introdotte rispetto alla normativa previgente sono:
Il comma 18 ha previsto l’adozione di un regolamento, da emanare entro il 30 giugno 2012, per l’armonizzazione dei requisiti di accesso ai regimi pensionistici e alle gestioni pensionistiche per cui siano previsti requisiti diversi da quelli vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria, compresi quelli relativi ai:
Il Governo su questa materia ha predisposto uno schema di regolamento che è stato presentato alle Camere successivamente al loro scioglimento (atto n. 541). Le Competenti commissioni parlamentari non si sono convocate per l’esame dell’atto che non è stato successivamente adottato in via definitiva dal Governo.
Il comma 19 ha modificato l’articolo 1 del D.Lgs. 42/2006, in materia di totalizzazione, prevedendo la facoltà, per i soggetti interessati, di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di qualsiasi durata (a fronte del limite minimo di 3 anni attualmente previsto) ai fini del conseguimento di un'unica pensione.
Il comma 24 interviene in tema di enti previdenziali di diritto privato dei professionisti, prevedendo che ai fini dell’equilibrio finanziario delle rispettive gestioni, in conformità alle disposizioni di cui al D.Lgs. 509/1994 e al D.Lgs. 103/1996, adottino, nell’esercizio della loro autonomia gestionale, misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di 50 anni.
Per quanto concerne il termine per l’adozione delle misure, nel corso dell’esame in sede referente il termine inizialmente previsto (31 marzo 2012) è stato differito al 30 giugno 2012.
Le relative delibere sono sottoposte all’approvazione dei Ministeri vigilanti, secondo le disposizioni contenute nei predetti decreti n. 509/1994 e 103/1996, che si esprimono in via definitiva entro trenta giorni dalla loro ricezione.
Decorso il termine senza l’adozione dei previsti provvedimenti, ovvero nel caso di parere negativo dei Ministeri vigilanti, si applicano, con decorrenza 1° gennaio 2012:
Il comma 21 ha disposto l’istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e fino al 31 dicembre 2017, di un contributo di solidarieta' (la cui misura è definita nella tabella A dello stesso provvedimento) a carico degli iscritti e dei pensionati delle gestioni previdenziali confluite nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti e del Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, allo scopo di determinare in modo equo il concorso dei medesimi al riequilibrio dei predetti Fondi.
Nella Tabella A sopra citata, che fa riferimento ai pensionati e ai lavoratori dell’ex Fondo trasporti, ex Fondo elettrici, ex Fondo telefonici, ex INPDAI e del Fondo volo, si fissa il contributo di solidarietà per i vari fondi, in ragione del periodo di iscrizione al 31 dicembre 1995, nei seguenti termini:
Sono escluse dal contributo di solidarietà le pensioni di importo pari o inferiore a 5 volte il trattamento minimo INPS, le pensioni e gli assegni di invalidità e le pensioni di inabilità.
Il comma 25 ha previsto che la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, attuata secondo il meccanismo stabilito dall'articolo 34, comma 1, della L. 448/1998, per il biennio 2012 e 2013 viene riconosciuta, nella misura del 100%, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS.
Per le pensioni di importo superiore a 3 volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite, incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante ai sensi del presente comma, l’aumento di rivalutazione era comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.
La disposizione in commento dispone, poi, l’abrogazione dell'articolo 18, comma 3, del D.L. 98/2011.
Infine, il comma 31-bis ha incrementato il contributo di perequazione sui trattamenti pensionistici più elevati, previsto dall’articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011, fissandolo al 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il contributo di solidarietà è pertanto rideterminato nel modo seguente: 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro; 10% per gli importi da 150.000 a 200.000 euro; 15% per gli importi oltre i 200.000 euro.
Il comma 28 ha disposto la costituzione, da parte del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, di una Commissione composta da esperti e da rappresentanti di enti gestori di previdenza obbligatoria nonché di Autorità di vigilanza operanti nel settore previdenziale, incaricata di svolgere entro il 31 dicembre 2012 un’analisi su:
Il comma 29 ha previsto l’elaborazione, a cadenza annuale, da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, assieme agli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, di un programma coordinato di iniziative di informazione e di educazione previdenziale.
A tal fine, gli enti gestori di previdenza obbligatoria comunicano la posizione previdenziale di ciascun iscritto e le attività di comunicazione e promozione istruite da altre Autorità operanti nel settore della previdenza.
La finalità del programma è quello di diffondere la consapevolezza, in particolare tra le giovani generazioni, della necessità dell'accantonamento di risorse a fini previdenziali, in funzione dell'assolvimento del disposto dell'articolo 38 della Costituzione.
La disposizione precisa che per le iniziative esaminate si provvede attraverso le risorse umane e strumentali previste a legislazione vigente
Il comma 30 ha previsto la promozione da parte del Governo, entro il 31 dicembre 2011, di un tavolo di confronto con le parti sociali al fine di riordinare il sistema degli ammortizzatori sociali e degli istituti di sostegno al reddito e della formazione continua.
Il comma 31 dell’articolo 24 sottrae allo speciale regime di tassazione separata del TUIR parte dell’indennità di fine rapporto (TFR) e delle indennità percepite per la cessazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per l’importo eccedente 1.000.000 di euro.
In sostanza, è sottratta alla tassazione separata una quota delle seguenti voci, erogate in denaro e in natura, di importo che complessivamente eccede euro 1.000.000:
L’importo eccedente tale soglia concorre alla formazione del reddito complessivo imponibile secondo le regole ordinarie (applicando dunque a tali somme l’aliquota relativa all’anno di percezione dell’indennità).
Inoltre, tali disposizioni del presente comma si applicano in ogni caso a tutti i compensi e indennità a qualsiasi titolo erogati agli amministratori delle società di capitali.
In deroga al principio di irretroattività delle norme che impongono un prelievo fiscale (articolo 3 della L. 212/2000 - statuto del contribuente), tali disposizioni si applicano con riferimento alle indennità ed ai compensi il cui diritto alla percezione è sorto a decorrere dal 1° gennaio
Nel corso della XVI Legislatura la XI Commissione Lavoro della Camera dei deputati è stata impegnata nell’esame di una serie di proposte si legge (C. 945, C. 1158, C. 1847, C. 2140, C. 2767, C. 2782, C. 2837, C. 2988, C. 3166, C. 4010, C. 4011, C. 4016, C. 4150) aventi come denominatore comune alcune modifiche alla disciplina sulla pensione di reversibilità (o indiretta) (istituita dal R.D.L. 636/1939) volte soprattutto a contrastare i cd. matrimoni di comodo.
L’esame ha condotto all’adozione, il 6 aprile 2012 di un testo unificato che, in sintesi, prevedeva la sospensione dell’erogazione della pensione di reversibilità, nel caso di morte del pensionato o dell'assicurato con un'età anagrafica superiore a 55 anni, in mancanza di figli, con il coniuge superstite di età anagrafica inferiore a 35 anni e abile al lavoro, fino al compimento da parte del medesimo coniuge superstite di un'età anagrafica pari a quella che aveva il coniuge defunto al momento del decesso (e comunque fino al compimento dei 60 anni). Al coniuge superstite, se disoccupato o inoccupato, veniva comunque riconosciuto il diritto ad una indennità di reinserimento lavorativo, di importo equivalente alla pensione di reversibilità spettante per il medesimo periodo, fino alla cessazione dello stato di disoccupazione e, comunque, non oltre il primo anno decorrente dalla morte del pensionato o dell’assicurato.
L’iter normativo del provvedimento non si è tuttavia concluso, anche in considerazione del fatto che sulla materia è nel frattempo intervenuto l’articolo 18, comma 5, del D.L. 98/2011, che ha ridotto, con effetto sulle pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2012, la quota percentuale della pensione spettante ai superstiti dell’assicurato o pensionato deceduto.
La riduzione opera, nei casi in cui il matrimonio con il dante causa sia stato contratto ad età del medesimo superiore a 70 anni e la differenza di età tra i coniugi sia superiore a 20 anni, in misura pari al 10% per ogni anno di matrimonio mancante rispetto al numero di 10.
In caso di frazione di anno la riduzione percentuale è proporzionalmente rideterminata. Le disposizioni richiamate non si applicano nei casi di presenza di figli di minore età, studenti, ovvero inabili. Resta fermo il regime di cumulabilità della pensione di reversibilità con i redditi del beneficiario (ma l’importo della pensione viene progressivamente ridotto al crescere del reddito).
Si fa presente, infine, che il dibattito parlamentare su questo tema ha dovuto muoversi nel solco dell’ampia giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha in varie occasioni dichiarato illegittime norme volte a limitare i benefici previdenziali del coniuge superstite.
In particolare si ricordano:
L’articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011 ha introdotto, per il periodo 1° agosto 2011-31 dicembre 2014, in ragione dalla eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, un contributo di perequazione sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie.
Il contributo veniva originariamente prelevato,per gli importi che superavano i 90.000 euro lordi annui e fino a 150.000 euro lordi, nella misura del 5% della parte eccedente i 90.000 euro (la norma comunque disponeva che, in ogni caso, a seguito della predetta riduzione il trattamento pensionistico complessivo non potesse comunque essere inferiore a 90.000 euro lordi annui) e nella misura del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro.
Successivamente, l’articolo 24, comma 31-bis, del D.L. 201/2011, ha modificato l’entità dell’incremento del contributo fissandolo al 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. Il contributo di solidarietà è quindi pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro; al 10% per gli importi da 150.000 a 200.000 euro e al 15% per gli importi oltre i 200.000 euro.
E’ utile ricordare che ai richiamati importi concorrono anche i trattamenti erogati da forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, comprese, in sostanza, quelle riferibili al personale della Banca d’Italia, degli enti pubblici creditizi, delle regioni, del c.d. parastato, del personale addetto alle imposte di consumo, delle aziende del gas, delle esattorie e delle ricevitorie.
L’articolo 2, comma 2, del D.L. 138/2011 ha istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 (con possibilità di prorogare l’efficacia dell’intervento anche successivamente al 2013, fino al raggiungimento del pareggio di bilancio) un contributo di solidarietà sul reddito complessivo determinato a fini IRPEF ai sensi dell’articolo 8 del T.U. (cioè sommando i redditi di ogni categoria che concorrono a formarlo e sottraendo le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali e quelle derivanti dall’esercizio di arti e professioni) delle imposte sui redditi di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, di ammontare pari al 3% della parteeccedente il predetto importo.
La norma, in sostanza, ha disposto che il contributo di solidarietà operi anche nei confronti dei dipendenti pubblici e dei pensionati, ove il reddito complessivo superi i 300.000 euro. Ai fini del superamento della predetta soglia, i redditi dei dipendenti pubblici e i trattamenti pensionistici, già assoggettati a riduzione ai sensi del D.L. 78/2010 e del D.L. 98/2011, saranno valutati nel computo al lordo delle riduzioni.
Tuttavia, le norme in esame precisano che il contributo di solidarietà in commento non colpirà la parte dei redditi da lavoro dipendente di natura pubblica o da pensione già soggetta alle precedenti riduzioni, ma solo la parte dei redditi avente natura diversa. L’introduzione del contributo, che è deducibile dal reddito complessivo, rientra nella già rilevata considerazione della eccezionalità della situazione economica internazionale, tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea.
Con il D.M. 21 novembre 2011 sono state definite le modalità di attuazione delle richiamate disposizioni, garantendo l’assenza di oneri per il bilancio dello Stato e assicurando il coordinamento tra le disposizioni contenute nel presente articolo e quelle in materia di riduzione degli emolumenti dei dipendenti pubblici e dei trattamenti pensionistici (contenute nei già citati articoli 9, comma 2, del D.L. 78/2010 e 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011).
Infine, è stata prevista o affidata ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri la possibilità di prorogare l’efficacia delle disposizioni di cui al comma 1-bis in esame anche per gli anni successivi al 2013, fino al raggiungimento del pareggio di bilancio.
Da ultimo, l'articolo 24, comma 25, del D.L. 201/2011 ha previstochela rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, attuata secondo il meccanismo stabilito dall'articolo 34, comma 1, della L. 448/1998, per il biennio 2012-2013, venga riconosciuta, nella misura del 100%, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a 3 volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite, incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione era comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.
Allo stesso tempo, è stato abrogato dell'articolo 18, comma 3, del D.L. 98/2011, che per il biennio 2012-2013, aveva disposto la limitazione alla rivalutazione automatica sui trattamenti pensionistici di importo superiore a 5 volte il trattamento minimo INPS. Per tali trattamenti pensionistici la rivalutazione non era concessa, con esclusione della fascia di importo inferiore a 3 volte il trattamento minimo, con riferimento alla quale la rivalutazione era comunque applicata nella misura del 70% (per le pensioni di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base della normativa vigente, l’aumento di rivalutazione era comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato).
L'articolo 24, comma 21, del D.L. 201/2011, inoltre, ha istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2012 e fino al 31 dicembre 2017, un contributo di solidarieta' a carico degli iscritti e dei pensionati delle gestioni previdenziali confluite nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti e del Fondo di previdenza per il personale di volo dipendente da aziende di navigazione aerea, allo scopo di determinare in modo equo il concorso dei medesimi al riequilibrio dei predetti Fondi.
Si ricorda che in generale la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici viene attribuita sulla base della variazione del costo della vita, con cadenza annuale e con effetto dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello di riferimento. Più in particolare, la rivalutazione si commisura al rapporto percentuale tra il valore medio dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati relativo all'anno di riferimento e il valore medio del medesimo indice relativo all'anno precedente. Tale percentuale è applicata:
- nella misura del 100% per la fascia di importo dei trattamenti pensionistici fino a 3 volte il trattamento minimo INPS;
- nella misura del 90% per la fascia di importo dei trattamenti pensionistici compresa tra 3 e 5 volte il predetto trattamento;
- nella misura del 75% per la fascia di importo dei trattamenti superiore a 5 volte il medesimo trattamento minimo.
Il meccanismo di rivalutazione si applica, ai sensi dell’articolo 34, comma 1, della L. 448/1998, tenendo conto dell'importo complessivo dei diversi trattamenti pensionistici eventualmente percepiti dal medesimo soggetto. L'aumento derivante dalla rivalutazione viene attribuito, per ciascun trattamento, in misura proporzionale all'importo del medesimo trattamento rispetto all'ammontare complessivo.
Si ricorda, infine, che analoghi interventi in tema di contributi di solidarietà erano stati previsti anche negli anni passati, dalle seguenti disposizioni:
- articolo 3, commi 102-103, della L. 350/2003, che aveva previsto un contributo di solidarietà del 3% sui trattamenti pensionistici corrisposti dagli enti gestori della previdenza obbligatoria con importi complessivamente superiori a 25 volte (170.914,25 euro) il trattamento minimo delle pensioni nel regime generale INPS (6.836,57 euro) stabilito secondo l’articolo 38, comma 1 della legge L 448/2001;
- articolo 1, comma 2, lettera u) primo e secondo periodo, della L. 243/2004, che aveva disposto un contributo di solidarietà del 4% per le pensioni elevate su importi maggiori di 25 volte il trattamento minimo, rivalutabile per gli anni successivi al 2007, in base alle variazioni integrali del costo della vita (cd. pensioni d’oro); secondo i successivi periodi concorrono ai fini del contributo di solidarietà i trattamenti integrativi per i soggetti con prestazioni aggiuntive o integrative (Banca d’Italia, enti pubblici creditizi, dipendenti pubblici, personale imposte consumo aziende gas esattorie e ricevitorie imposte dirette);
- articolo 1, commi 222-223 della L. 296/2006, che ha previsto un contributo di solidarietà a partire dal 1° gennaio 2007 del 15% sul TFR o il TFS e i trattamenti integrativi di importo complessivo superiore a 1,5 milioni di euro (si ricorda che tali contributi confluivano al Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità con destinazione al 90% ad iniziative volte a favorire l'istruzione e la tutela delle donne immigrate).
La totalizzazione è l’istituto in base al quale il soggetto iscritto a due o più forme di assicurazione obbligatoria IVS, ha la facoltà di utilizzare, sommandoli, i periodi assicurativi maturati, al fine di perfezionare i requisiti richiesti per il conseguimento della pensione di vecchiaia, di anzianità, di inabilità ed indiretta.
In seguito alla nuova disciplina della totalizzazione, introdotta dal D.Lgs. 42/2006, emanato in attuazione della delega contenuta nell'articolo 1, commi 1, lettera d), 2, lettera o), e 46, della L. 23 agosto 2004, n. 243, dal 1° gennaio 2006 è stata estesa a tutti i lavoratori la totalizzazione gratuita dei periodi assicurativi, cioè la possibilità di cumulare tutta la contribuzione versata in diverse gestioni pensionistiche (precedentemente riservata ai soli soggetti con pensione liquidata esclusivamente con il sistema contributivo).
Tale riforma è volta ad estendere, per gli assicurati ai quali si applichi, almeno pro-quota, il sistema di calcolo retributivo della pensione, la possibilità di cumulare gratuitamente le varie quote di pensione maturate presso differenti gestioni pensionistiche, senza doversi avvalere dell’istituto oneroso della ricongiunzione (consistente nell’unificazione delle posizioni assicurative e nel conseguente trasferimento di contributi da una forma all’altra).
Destinatari della richiamata normativa sono i soggetti, che non siano già titolari di trattamento pensionistico autonomo, iscritti a due o più forme di assicurazione presso le seguenti gestioni previdenziali:
o assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti (A.G.O.) presso l’INPS, nonché alle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima;
o enti previdenziali privati, disciplinati dal D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e dal D.Lgs. 10 febbraio 1996, n. 103. Si ricorda che il D.Lgs. 509/94 ha previsto la privatizzazione degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza per i liberi professionisti;
o gestione separata, istituita presso l’INPS ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della L. 335/1995;
o fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto delle confessioni diverse da quella cattolica.
Le gestioni interessate, ciascuna per la parte di propria competenza, determinano la misura del trattamento pro quota in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione maturati anche se coincidenti. Ai fini del trattamento pensionistico, quindi, ciascuna gestione interessata conteggerà interamente tutti i periodi contributivi ad essa relativi.
L’esercizio del diritto alla totalizzazione è subordinato alle seguenti condizioni:
o 20 anni di anzianità contributiva e 65 anni anagrafici (per uomini e donne), ovvero 40 anni di anzianità contributiva, indipendentemente dall’età anagrafica;
o possesso degli altri requisiti richiesti dagli enti previdenziali di appartenenza per l’accesso alla pensione di vecchiaia;
o richiesta di totalizzare tutti i periodi assicurativi per intero.
Per gli enti previdenziali privatizzati ai sensi del D.Lgs. 509/1994, la nuova disciplina prevede l’applicazione del sistema di calcolo contributivo.
Nel corso della XVI legislatura l'accesso alla totalizzazione è stato favorito attraverso l'eliminazione delle norme che imponevano una durata minima dei periodi da totalizzare (dapprima 6 anni, successivamente ridotti a 3, ferma restando cumnque la possibilità di ricorrere all'istituto della ricongiunzione): con l'articolo 24, comma 19, del D.L. 201/2011, è stata infatti disposta la facolta' , per i soggetti interessati, di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di qualsiasi durata, ai fini del conseguimento di un'unica pensione.
La ricongiunzione è l'unificazione dei periodi di assicurazione maturati dal lavoratore in diversi settori di attività. Lo scopo è quello di ottenere un'unica pensione (generalmente di importo più elevato di quella che risulterebbe dalla somma delle pensioni nelle singole gestioni) calcolata su tutti i contributi versati. La ricongiunzione può essere chiesta dai lavoratori dipendenti pubblici e privati e dai lavoratori autonomi, che hanno contributi in diversi settori di attività, o dai loro superstiti.
L’articolo 12, commi da 12-septies a 12-undecies, del D.L. 78/2010, ha modificato sostanzialmente la disciplina della ricongiunzione dei contributi pensionistici (di cui alla L. 7 febbraio 1979, n. 29) al fine di armonizzare le norme previste nei diversi regimi pensionistici.
In particolare, il comma 12-septies ha disposto, a decorrere dal 1° luglio 2010, l’applicazione alle ricongiunzioni effettuate da lavoratori dipendenti, pubblici o privati, che siano o siano stati iscritti a forme obbligatorie di previdenza sostitutive, esclusive od esonerative dell'A.G.O., delle disposizioni di cui all'articolo 2, commi 3, 4 e 5, della stessa L. 29/1979. In base a tale disposizioni è stato quindi posto a carico del richiedente la ricongiunzione il 50% della somma risultante dalla differenza tra la riserva matematica, determinata in base a specifici criteri e tabelle, necessaria per la copertura assicurativa relativa al periodo utile considerato, e le somme versate dalla gestione o dalle gestioni assicurative a norma del comma precedente. Il pagamento della richiamata somma può essere effettuato, su domanda, in un numero di rate mensili non superiore alla metà delle mensilità corrispondenti ai periodi ricongiunti, con la maggiorazione di interesse annuo composto pari al 4,50%. Infine, il debito residuo al momento della decorrenza della pensione può essere recuperato ratealmente sulla pensione stessa, fino al raggiungimento del numero di rate indicato in precedenza. È comunque fatto salvo il trattamento previsto per la pensione minima erogata dall'INPS. Le disposizioni di cui al comma 12-septies trovano applicazione, a decorrere dal 1° luglio 2010, anche nei casi di trasferimento della posizione assicurativa dal Fondo di previdenza per il personale addetto ai pubblici servizi di telefonia al Fondo pensioni lavoratori dipendenti (comma 12-nonies).
L'onere da porre a carico dei richiedenti è determinato in base ai criteri fissati dall'articolo 2, commi da 3 a 5, del D.Lgs. 30 aprile 1997, n. 184. Tali norme disciplinano il riscatto dei corsi universitari di studi, disponendo che il relativo onere sia determinato con le norme che disciplinano la liquidazione della pensione con il sistema retributivo o con quello contributivo, tenuto conto della collocazione temporale dei periodi oggetto di riscatto. Inoltre, si prevede l’applicazione di specifici coefficienti ai fini del calcolo dell'onere per i periodi oggetto di riscatto, in relazione ai quali trova applicazione il sistema retributivo, nonché particolari modalità di versamento per gli oneri per periodi in relazione ai quali trova applicazione il sistema retributivo ovvero contributivo. Per il calcolo dell’onere da valutare con il sistema contributivo, infine, si applicano le aliquote contributive di finanziamento vigenti nel regime ove il riscatto opera alla data di presentazione della domanda.
Infine, il successivo comma 12-octies ha previsto l’applicazione delle stesse modalità di cui al comma 12-septies, dalla medesima decorrenza, nei casi di trasferimento della posizione assicurativa dal Fondo di previdenza per i dipendenti dell'E.N.E.L. e delle aziende elettriche private al Fondo pensioni lavoratori dipendenti.
I problemi emersi a seguito dell'adozione delle nuove norme in materia di ricongiunzione onerosa (che vedevano numerosi lavoratori chiamatial versamento di somme ingenti), hanno costretto il legislatore a intervenire nuovamente sulla materia attraverso l'articolo 1, commi da 238 a 249, della L. 228/2012 (Legge di stabilità per il 2013). Tali norme intervengono in materia di totalizzazione e ricongiunzione di contributi previdenziali, introducendo, in particolare, una nuova modalità (gratuita) di cumulo (alternativa alle discipline esistenti) volta a conseguire un’unica pensione sulla base dei periodi assicurativi non coincidenti posseduti presso più forme di assicurazione obbligatorie, esclusivamente per la liquidazione del trattamento pensionistico di vecchiaia, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento.
In primo luogo si prevede che per gli iscritti alla cassa pensione per i dipendenti degli enti locali (CPDEL), alla cassa per le pensioni ai sanitari (COPS), alla Cassa per le pensioni agli insegnanti d’asilo e di scuole elementari parificate (CPI) e alla cassa per le pensioni agli ufficiali giudiziari e agli aiutanti ufficiali giudiziari (CPUG), cessati dall’iscrizione senza il diritto a pensione entro il 30 luglio 2010, la domanda finalizzata all’iscrizione all’assicurazione generale obbligatoria (AGO) è ammessa anche successivamente a tale data. L’importo dei contributi versati è portato in detrazione, fino a concorrenza del suo ammontare, dell’eventuale trattamento in luogo di pensione spettante all’avente diritto. L’esercizio di tale facoltà non dà comunque diritto alla corresponsione di ratei arretrati di pensione.
In secondo luogo si introduce (ferme restando la disciplina vigente in materia di ricongiunzione e totalizzazione dei periodi assicurativi) la facoltà di conseguire un’unica pensione cumulando i periodi assicurativi non coincidenti posseduti presso due (o più) forme di assicurazione obbligatorie (compresa le Gestione separata INPS) che non siano già titolari di trattamento pensionistico autonomo presso una delle suddette gestioni, qualora non siano in possesso dei requisiti per il trattamento pensionistico. Tale facoltà può essere esercitata esclusivamente per la liquidazione del trattamento pensionistico di vecchiaia con i requisiti anagrafici previsti dall’articolo 24, comma 6 e il requisito contributivo di cui al comma 7 del medesimo articolo 24 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, nonché dei trattamenti per inabilità e ai superstiti di assicurato deceduto prima di aver acquisito il diritto a pensione.
Il pagamento dei trattamenti liquidati avviene secondo le norme sulla totalizzazione. Le gestioni interessate, ciascuna per la parte di propria competenza, determinano il trattamento pro quota in rapporto i rispettivi periodi di iscrizione maturati, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento (il che implica un trattamento previdenziale inferiore a quello che sarebbe risultato dalla ricongiunzione).
Al fine di tutelare i soggetti che hanno presentato domanda di ricongiunzione (onerosa) a decorrere dal 1° luglio 2010, garantendogli la possibilità di accedere al nuovo regime di cumulo, si prevede che essi (sempre che la domanda non abbia già dato titolo alla liquidazione del trattamento pensionistico) possono recedere entro un anno e chiedere la restituzione di quanto già versato. Analoga possibilità è riconosciuta ai soggetti che abbiano presentato domanda di totalizzazione anteriormente alla data di entrata in vigore della legge, previa rinuncia alla domanda e a condizione che il procedimento amministrativo non si sia già concluso.
I fondi destinati a finalità di carattere sociale rappresentano uno strumento indispensabile della politica socio-assistenziale del nostro Paese. Nel corso della XVI Legislatura si è registrata una diminuzione delle risorse stanziate dalle manovre finanziarie annuali per i fondi dedicati al welfare, con conseguente riduzione della spesa sociale dei livelli decentrati di governo
Nei Fondi nazionali dedicati all'assistenza socialedevono essere ricompresi anche il Fondo nazionale per le politiche per la famiglia, il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza e il Fondo nazionale per le politiche giovanili, dei quali si dà conto nelle sezioni dedicate a Misure a sostegno della famiglia e Politiche giovanili. Per una trattazione unitaria si rinvia alla Scheda di approfondimento sui Fondi per le politiche sociali.
Nel Fondo nazionale per le politiche sociali (FNPS), istituito dalla legge 449/1997 (legge finanziaria per il 1998), sono contenute le risorse che lo Stato stanzia annualmente con la legge finanziaria per la promozione e il raggiungimento degli obiettivi di politica sociale. La legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (legge 328/2000) ha delineato un sistema articolato di Piani Sociali Regionali e Piani Sociali di Zona che descrivono, per ciascun territorio, una rete integrata di servizi sociali e socio-sanitari finanziati attraverso il FNPS. Alcuni recenti provvedimenti normativi hanno ridotto gli interventi finanziati a valere sul Fondo. In particolare, le risorse del Fondo per l’infanzia e l’adolescenza – istituito dalla legge 285/1997 – inizialmente allocate nel FNPS, a decorrere dall’anno 2008 sono determinate dalla legge finanziaria, limitatamente alle risorse destinate al finanziamento degli interventi nei 15 Comuni riservatari indicati dalla legge istitutiva. Le rimanenti risorse del Fondo nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza confluiscono indistintamente nel FNPS. Per quanto riguarda le somme destinate al finanziamento degli interventi costituenti i diritti soggettivi (assegno al nucleo familiare con tre figli minori, per la maternità, agevolazioni disabili e lavoratori talassemici), la legge finanziaria per il 2010 ha disposto che siano finanziati attraverso appositi capitoli iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Le risorse del FNPS, ripartite annualmente fra le regioni, le province autonome, i comuni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali d’intesa con la Conferenza Stato-regioni, sono assegnate con decreto interministeriale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del MEF.
La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Con Decreto Interministeriale del 17 giugno 2011, sono stati ripartiti 218 milioni di euro, di cui 39,5 milioni di euro al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) ha destinato al FNPS 69,954 milioni di euro. Il decreto 16 novembre 2012 ha ripartito le risorse finanziarie realmente afferenti al Fondo, ammontanti ad euro 42.908.611, destinando euro 32.033.310 al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Infine la legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), all'articolo 1, comma 271, incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del FNPS. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.
Il Fondo per le non autosufficienze è stato istituito dall'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006 (legge finanziaria 2007) presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Le risorse sono finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell'assistenza socio-sanitaria e sono aggiuntive rispetto alle risorse già destinate alle prestazioni e ai servizi a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni, nonché da parte delle autonomie locali. Nel 2010, le risorse assegnate al Fondo, ripartite con decreto, erano pari a 400 milioni di euro. Per il 2011, il Decreto interministeriale 11 novembre 2011 ha assegnato al Fondo risorse per 100 milioni di euro, stanziate dall'art. 1, comma 40, della legge 220/2010 (legge di stabilità 2011), finalizzate fra l'altro ad interventi integrati socio-sanitari per i malati di sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Successivamente, il decreto legge 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che una quota del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, da definire con D.P.C.M., fosse destinata al finanziamento del Fondo per le non autosufficienze, in particolare per il sostegno dell'assistenza domiciliare di persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di SLA. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo di interventi urgenti e indifferibili, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), è stato interamente definanziato. In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da SLA. Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.
La carta acquisti, o social card, è stata istituita dall’articolo 81, comma 29, del decreto legge 112/2008 che ha disposto la creazione di un Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti. Il Decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 ha individuato i titolari e l'ammontare del beneficio unitario nonché le modalità di fruizione dello stesso, prevedendo la stipula di convenzioni tra i ministeri interessati ed il settore privato. In base a tali criteri, la Carta acquisti viene concessa, con onere a carico dello Stato, ai richiedenti residenti con cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, ovvero ai cittadini nella fascia di bisogno assoluto, di età uguale o superiore ai 65 anni o con bambini di età inferiore ai tre anni. La Carta, utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche, vale 40 euro al mese e viene caricata ogni due mesi con 80 euro, sulla base degli stanziamenti disponibili. In ultimo, l’articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha dato avvio a una fase di sperimentazione della Carta, della durata non superiore ai dodici mesi nei comuni con più di 250.000 abitanti, sottolineando l’obiettivo di utilizzare la carta acquisti come strumento di contrasto alla povertà assoluta tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno. Per le risorse necessarie alla sperimentazione si è provveduto, nel limite massimo di 50 milioni di euro. Le modalità attuative, sono determinate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottato di concerto con il MEF. Il decreto, varato l'11 gennaio 2013 e in attesa di pubblicazione sulla G.U., identifica fra l'altro i nuovi criteri di identificazione dei beneficiari, per il tramite dei Comuni, con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell'Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e l'ammontare della disponibilità sulle singole carte acquisto, in funzione del nucleo familiare.
Il sistema di protezione sociale italiano, articolato nei settori della previdenza, dell'assistenza e della sanità, è governato dall’azione di diversi livelli di governo secondo le competenze che la legge assegna a ciascuno.
La presente analisi si concentra sugli aspetti di natura legislativa, economica e sociale del solo settore assistenziale, inteso come complesso degli interventi previsti, per gli anziani, i disabili, i minori, le famiglie, gli emarginati, le persone dipendenti da alcol o sostanze stupefacenti, gli immigrati e la riabilitazione.
Per servizi sociali, generalmente, s’identificano le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, con esclusione di quanto assicurato dal sistema previdenziale statale (INPS), per le varie indennità di invalidità civile, per i non vedenti e i non udenti, e dal sistema sanitario.
All'indomani dell'intervento costituzionale del 2001 (L.3/2001), con cui è stato modificato il Titolo V, parte II, della Costituzione (nello specifico, l'articolo 117 della Costituzione), alle Regioni sono assegnate le competenze residuali e concorrenti, rispettivamente, per le materie dei servizi sociali e della sanità, nel rispetto della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), quale competenza esclusiva e trasversale assegnata allo Stato (articolo 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione), idonea ad investire una pluralità di materie, ed intesa a determinare gli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto (sentenza Cost. 50/2008).
Da ciò consegue che lo Stato, quando alla Regione spetta la competenza legislativa residuale, come avviene per i servizi sociali, non ha alcuna competenza legislativa, ad esclusione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che tuttavia devono essere stabiliti in accordo con le autonomia territoriali. Infatti, detta peculiare competenza comporta "una forte incidenza sull'esercizio delle competenze legislative ed amministrative delle regioni" (sentenza Cost. 8/2011 e sentenza 88/2003), tale da esigere che il suo esercizio si svolga attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione, salvo che ricorrano ipotesi eccezionali, in cui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) "non permetta, da sola, di realizzare utilmente la finalità [...] di protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana", tanto da legittimare lo Stato a disporre in via diretta le prestazioni assistenziali, senza adottare forme di leale collaborazione con le Regioni (sentenza Cost.10/2010, a proposito dell’istituzione della social card). Proprio in ragione di tale impatto sulle competenze regionali, lo stesso legislatore statale, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie o di assistenza sociale, ha spesso predisposto strumenti di coinvolgimento delle Regioni (nella forma dell'intesa) a salvaguardia delle competenze di queste (sentenza Cost. 297/2012).
Come per altri settori di intervento delle politiche legislative di natura concorrente e residuale, anche per i servizi sociali, il finanziamento previsto dalla legge incontra un preciso limite che il legislatore statale deve rispettare sulla modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie territoriali. Non sono, infatti, consentiti finanziamenti a destinazione vincolata in materie di competenza regionale concorrente ovvero residuale, in quanto ciò si risolverebbe in uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (sentenza Cost. 423/2004).
Quelle citate sono solo alcune delle sentenze che nel tempo la Corte Costituzionale ha pronunciato, al fine di ristabilire gli equilibri tra i diversi poteri dello Stato in materia assistenziale; a sottolineare, con troppa evidenza, proprio all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, una perdurante "difficoltà" dello Stato e della Regione a legiferare sulla materia rimanendo nei propri ambiti, senza travalicare le altrui competenze, che tuttavia risultano ancora troppo poco definite, soprattutto, per la perdurante assenza della previsione dei livelli essenziali a livello statale.
In Italia, i servizi sociali per il sostegno delle persone bisognose sono realizzati attraverso un complesso di normative nazionali, regionali e comunali, e rivestono le forme della prestazione economica e/o del servizio alla persona, finanziati, principalmente, dalla fiscalità generale (Ferrera M., Le politiche sociali, il Mulino, 2006, Bologna).
Per servizi sociali, si intendono, ai sensi dell’art. 128 del D.Lgs. 112/1998, tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
L’accesso agli interventi assistenziali, pur avendo, come per le prestazioni sanitarie, un carattere di universalità (art. 2 L. 328/2000), appaiono, generalmente, condizionati da una scala di accesso che presenta due elementi necessari: il bisogno fisico e la scarsità economica per provvedervi.
Il diritto alle prestazioni sociali, in particolare nella forma agevolata, e/o ai servizi di pubblica utilità, è subordinato alla verifica degli enti erogatori (Stato, Regioni e Comuni), secondo parametri anagrafici ed economici (reddito della singola persona, indicatore della situazione economica (ISE) e indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) – che permettono di valutare in maniera sintetica le condizioni economiche del nucleo familiare).
L’ISEE è lo strumento introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 109/98 per l’accesso alle seguenti prestazioni socio-assistenziali:
nazionali
locali
I beneficiari ISEE non vanno comunque identificati con le famiglie in condizione di bisogno economico, essendo l’ISEE usato anche per stabilire la compartecipazione al costo di servizi destinati non solo ai più poveri (si pensi alle prestazioni per il diritto allo studio universitario o agli asili nido) ed escluso invece per il diritto agli assegni sociali, destinati alle persone in povertà, o per altre prestazioni economiche fornite dallo Stato: integrazione al minimo, maggiorazione sociale delle pensioni, assegno e pensione sociale, altre prestazioni previdenziali, pensione e assegno di invalidità civile, indennità di accompagnamento e assimilate.
Durante la XVI legislatura è stato esaminato e non concluso un disegno di legge (A.C. 4566) recante la delega legislativa al Governo per la riforma fiscale e assistenziale.
La riforma della materia socio-assistenziale si poneva l’obiettivo di riqualificare e riordinare la relativa spesa, al fine di superare le sovrapposizioni e le duplicazioni di servizi e prestazioni, che rendono poco efficace e antieconomico il sistema, anche in conseguenza del fatto che la spesa per i servizi sociali è frammentata tra diversi soggetti concorrenti fra loro che gestiscono quote diverse di risorse suddivise tra il servizio sanitario nazionale, l'INPS e i comuni. In tale quadro, si prevedeva:
I risparmi dall'attuazione della legge di delega sarebbero stati quantificati non inferiori a 4 miliardi per l'anno 2013 ed a 20 miliardi annui a decorrere dall'anno 2014.
Non essendo stata approvata la legge delega, alcune misure sono state adottate con provvedimenti d’urgenza. L’art. 5 del D.L. 201/2011 ha stabilito l’introduzione dell’ISEE, per la concessione di agevolazioni fiscali e benefici assistenziali, e la modifica delle modalità di determinazione e dei campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), attraverso l’adozione di uno schema di regolamento del Governo, che non è stato emanato a causa del mancato raggiungimento dell’intesa in Conferenza Unificata, prevista successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale 297/2012.
Il nuovo ISEE avrebbe incluso nel reddito somme fiscalmente esenti, valorizzato di più il valore del patrimonio, introdotto il concetto di carico familiare, articolato i benefici concessi e rafforzato il sistema dei controlli (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto ISEE, Quaderni della ricerca sociale n.20, 2012, Roma).
Il sistema istituzionale degli interventi assistenziali è articolato in più livelli di governo; affida l’erogazione delle prestazioni ad una molteplicità di soggetti pubblici e privati; prevede una pluralità di fonti di finanziamento; impone il coordinamento degli interventi assistenziali tra politiche sanitarie e politiche sociali.
In particolare, i livelli di governo, come disegnati dalla legge quadro L. 328/2000 sul sistema integrato di interventi e servizi sociali, risultano essere tre: Stato, Regione e Comune.
La legge 328/2000 è stata emanata con lo scopo di avviare una complessiva riorganizzazione del sistema dei servizi sociali e sanitari, orientandoli verso un processo di progressiva integrazione e partecipazione di tutti i soggetti presenti sul territorio. Il comune ha il compito istituzionale, attraverso la programmazione prevista dal Piano di Zona, di garantire la rete dell’offerta sociale e l’attuazione dell’integrazione tra la programmazione sociale e la programmazione sociosanitaria. In tale perimetro altri soggetti sono chiamati ad intervenire: le Regioni, che dettano gli indirizzi della programmazione ed erogano servizi sociosanitari attraverso le ASL; le Province, che possono partecipare al finanziamento dei Piani di Zona; lo Stato, che determina i fondi nazionali destinati alle politiche sociali di anno in anno. Dal punto di vista dell’offerta di servizi sociali e socio-sanitari, entrano in gioco anche i produttori privati profit e no profit, ai quali spesso Comuni e ASL esternalizzano tali servizi (La programmazione sociale e sociosanitaria nelle reti interistituzionali: il caso Regione Lombardia, Oasi 2012, Cergas-Bocconi, Milano).
Dopo la riforma costituzionale del 2001 (L. 3/2001), l’assistenza sociale è diventata una competenza residuale disciplinata dalle Regioni e amministrata dal Comune. Allo Stato rimane la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), che devono essere emanati con modalità partecipative.
L’esigenza di adeguare l’ordinamento al nuovo assetto costituzionale è stata evidentemente alla base dell’approvazione dell’art. 46, comma 3, della L. 289/2002, che, al fine di predisporre uno strumento per l’adozione dei livelli essenziali delle prestazioni nella materia dei servizi sociali, ha disciplinato ex novola procedura per la loro approvazione, indicando i vincoli posti dalla finanza pubblica, il potere di proposta rimesso al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, e l’intesa con la Conferenza unificata. E’ stata così riformata la precedente regolamentazione prevista dalla L. 328/2000, dal momento che la natura della nuova competenza regionale, di tipo residuale e non più concorrente, risultava incompatibile con la previsione di un piano statale nazionale e con l’indicazione da parte dello Stato di principi ed obiettivi di politica sociale, nonché delle caratteristiche e dei requisiti delle prestazioni sociali comprese nei livelli essenziali (sentenza Cost. 296/2012).
Lo Stato svolge, attraverso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, una funzione informativa sulle politiche sociali e, con la collaborazione della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, presenta al Parlamento una Relazione sull'andamento del fenomeno dell'esclusione sociale, (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Commissione di indagine sull’esclusione sociale (CIES), Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale - Anno 2011, Roma).
Allo Stato spetta altresì la definizione e la ripartizione di diversi Fondi speciali, come il Fondo nazionale per le politiche sociali, il Fondo per le politiche della famiglia, il Fondo per le non autosufficienze, il Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, il Fondo per le politiche giovanili, nonché l’erogazione di pensioni e assegni sociali ed indennità assistenziali varie per gli invalidi civili, sordi e ciechi civili.
Le Regioni disciplinano con proprie leggi, i principi, gli indirizzi, l’organizzazione e l’erogazione, tramite i comuni, dei seguenti beni e servizi sociali:
La Regione, oltre a ripartire i finanziamenti statali agli enti locali, programma nel Piano sociale gli obiettivi di settore. Alcune Regioni presentano un Piano di tipo socio-sanitario dove sono previsti programmi sanitari, sociali e socio-sanitari (ad es. Basilicata, Emilia Romagna, Toscana).
Le prestazioni socio-sanitarie si distinguono, come indicato dal D.P.C.M. 14 febbraio 2001, in prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, erogate contestualmente ad interventi sociali, finalizzate al contenimento di esiti degenerativi, a carico dell’Azienda sanitaria locale; prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, finalizzate a sostenere la persona disabile o emarginata la cui condizione potrebbe avere esiti negativi sulla salute, a carico del Comune o del cittadino; prestazioni socio-sanitarie integrate per le aree materno infantile, disabili, anziani e non autosufficienti, dipendenze, patologie psichiatriche e da HIV, pazienti terminali, a carico delle ASL, garantite nell'allegato 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001 sui livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA).
Ai Comuni, che sono titolari della gestione, esercitata singolarmente o in forma associata, degli interventi e dei servizi socio-assistenziali, spetta la definizione del piano di zona, a cui partecipano soggetti istituzionali, terzo settore e, per gli interventi socio-sanitari, ASL, per individuare:
I Livelli essenziali dei diritti sociali, definiti in diversi modi, livelli essenziali delle prestazioni (LEP), livelli essenziali delle prestazioni sociali (LEPS) o livelli essenziali di assistenza sociale (LIVEAS), sono l’insieme degli interventi, dei servizi e delle risorse impegnate per la loro attuazione, inquadrati dall’art. 22, comma 2, della L. 328/2000, nel seguente modo:
L’identificazione dei livelli essenziali tiene conto anche di quanto indicato nell’allegato 1 C del D.P.C.M. 29 novembre 2001, che definisce i livelli essenziali sanitari (LEA), in cui sono elencate le prestazioni socio-sanitarie, ovvero otto specifiche prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo attribuibile al SSN e all’utente o al Comune
Esse sono:
In definitiva, per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, lo Stato ha indicato i seguenti principi:
Diverse Regioni hanno individuato i livelli essenziali delle prestazioni sociali, seguendo lo schema proposto nel comma 4 dell’art. 22 della L. 328/2000, all’interno delle seguenti aree:
Nella definizione dei livelli essenziali pesa la mancata realizzazione del sistema informativo dei servizi sociali (SISS) previsto dalla L. 328/2000 (Pesaresi F., La normativa statale e regionale sui livelli essenziali, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni, a cura di E. Ranci Ortigliosa in Prospettive Sociali e Sanitarie, 2008); in particolare, i limiti dell’informazione disponibile sui servizi sociali sono rappresentati dalla scarsa quantità e qualità dei dati, che, tuttavia, quando esistono, sono difficilmente raccordabili gli uni con gli altri. Tale osservazione riguarda principalmente le informazioni disponibili a livello di comuni e regioni, raccolte molto spesso con definizioni e metodologie non comparabili. Un dato per tutti è l’assenza di una scheda di dimissioni dei ricoveri per le residenze sociali e sanitarie, come invece esiste per l’ospedalizzazione con la scheda di dimissione ospedaliera (SDO) (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per la garanzia dell’informazione statistica, L’informazione statistica sull’assistenza agli anziani in Italia, Rapporto di indagine 2005, Roma).
Nella sanità, la corretta progettazione e sviluppo del NSIS, il nuovo sistema informativo sanitario, che fornisce un patrimonio informativo e strumenti di lettura integrata dei dati sanitari, ha richiesto la disponibilità di un linguaggio comune che consentisse l'interscambio tra il sistema informativo e i sistemi sanitari regionali. Il NSIS rappresenta la più importante banca dati a livello nazionale a supporto della programmazione sanitaria nazionale e regionale.
Ulteriori fonti informative sono, ad esempio, la SDO, i modelli di rilevazione delle attività gestionali ed economiche di Asl e aziende ospedaliere, e il Programma nazionale esiti, che contiene la valutazione delle attività di assistenza di tutti gli ospedali italiani, pubblici e privati accreditati.
Il controllo sull’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizioni di appropriatezza e di efficienza nell’utilizzo delle risorse nel Servizio Sanitario Nazionale è inoltre assicurato da tre organi: il Comitato Livelli Essenziali Assistenza, il Tavolo di verifica degli adempimenti e la Struttura tecnica di monitoraggio (STEM).
Le risorse per le politiche sociali provengono da un finanziamento plurimo dei tre livelli di governo (Stato, Regioni e Comuni), secondo dotazioni finanziarie presenti nei rispettivi bilanci.
All’indomani della riforma del 2001, non sono, tuttavia, più ritenuti ammissibili finanziamenti statali a destinazione vincolata, in materie e funzioni la cui disciplina spetti alla legge regionale (sentenza Cost. 423/2004).
Rileva sottolineare, però, che lo Stato è legittimato ad intervenire con legge e con i suddetti fondi speciali, al fine di risolvere situazioni di estremo disagio nazionali, come è stato fatto con l’istituzione della Social Card nel 2008.
Tale prerogativa dello Stato è insita, come già detto, nella competenza - esclusiva e trasversale - di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali sul territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.), allo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei medesimi diritti, tutelati dalla stessa Costituzione, per cui lo Stato è obbligato a predisporre le misure necessarie per attribuire a tutti i destinatari, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle, soprattutto, quando ciò sia reso imprescindibile, da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa (sentenza Cost. 10/2010).
La Corte costituzionale osserva, altresì, rilevando la “debolezza” intrinseca del nostro sistema di assistenza sociale, che una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema debolezza della persona umana, qual è quella oggetto delle disposizioni impugnate, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lettera m).
Le fonti di finanziamento (Conti economici della protezione sociale - Annuario statistico italiano 2012, Roma, ISTAT 2012) della protezione sociale (nel 2011 471,9 miliardi per sanità, previdenza e assistenza), per prestazioni in denaro e in natura, derivano principalmente da contributi sociali (52,9 per cento) e dalla fiscalità generale (46,2 per cento).
Lo Stato interviene con prestazioni in denaro fornite dagli enti previdenziali, in particolare dall’INPS.
Le Regioni svolgono principalmente funzioni legislative, stabiliscono principi e indirizzi, e coordinano interventi sul territorio da parte degli enti locali, a cui ripartiscono le risorse del Fondo sociale regionale, costituito da stanziamenti provenienti dai fondi speciali statali, integrati da stanziamenti di bilancio regionale. Le regioni possono, altresì, intervenire direttamente, con i voucher, i bonus famiglia, gli assegni di cura, i buoni socio-sanitari.
I Comuni svolgono le funzioni amministrative attuative dei servizi sociali e ricevono risorse dalle Regioni e dallo Stato (trasferimenti diretti e vincolati, come quelli della L. 285/1997, Fondo per l’infanzia e l’adolescenza), integrate da propri stanziamenti di bilancio.
A tali finanziamenti si aggiungono i Fondi strutturali europei, che costituiscono gli strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea, per rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale dei paesi aderenti EU, riducendo le disparità di sviluppo, come il Fondo sociale europeo (Fse), che ha il compito di prevenire e combattere la disoccupazione, migliorare il funzionamento del mercato del lavoro e investire nelle risorse umane, e il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fesr), che contribuisce al potenziamento della coesione economica e sociale, attraverso un sostegno allo sviluppo e l'organizzazione strutturale delle economie regionali.
Al finanziamento dei servizi sociali contribuisce la partecipazione dell’utenza privata, con il pagamento delle rette previste per gli asili nido o per le residenze assistite degli anziani.
Complessivamente, le risorse indicate realizzano gli obiettivi dei piani di zona, adottati secondo gli indirizzi dei piani regionali, come previsto dalla L. 328/2000.
Gli interventi di assistenza economica sono diretti a singoli e nuclei familiari che non dispongono di risorse sufficienti a garantire il soddisfacimento dei bisogni fondamentali o sono in temporanea situazione di emergenza.
L’INPS gestisce e fornisce le maggiori prestazioni sociali in denaro a livello nazionale. La parte più consistente è costituita dalle prestazioni pensionistiche, che a loro volta possono essere articolate in prestazioni previdenziali (prestazioni per le quali vi è una contribuzione per il finanziamento da parte dei datori di lavoro e dei lavoratori) e prestazioni assistenziali (pensioni, assegni e indennità varie ai minorati civili e di guerra), che non prevedono un finanziamento contributivo ma sono sostenute dai trasferimenti statali, a carico della fiscalità generale.
Un’altra voce rilevante per l’assistenza fornita dall’INPS è rappresentata dalle prestazioni temporanee, che hanno natura mista coperte da contribuzione sociale e da trasferimenti statali ed includono principalmente le prestazioni connesse allo stato di occupazione ed i trattamenti familiari e di maternità. All’interno degli ultimi due strumenti troviamo, a carico della fiscalità generale, specifici interventi temporanei e di sostegno del reddito familiare, erogati dall’INPS (bonus bebè periodo 2003-2006, assegni per il nucleo familiare con almeno tre figli concessi dai comuni, congedo per maternità alle lavoratrici non occupate concesso dai comuni, l’assegno di maternità dei comuni).
Nell’ambito delle prestazioni economiche concesse dall’INPS, possiamo includere quanto previsto per l’assistenza ai disabili nel mondo del lavoro. La L. 104/92 prevede permessi orari o giornalieri a disposizione del disabile o del lavoratore dipendente che assiste un parente con disabilità. Tale legge sull’integrazione sociale, il sostegno, l’assistenza e i diritti delle persone disabili prevede agevolazioni per i lavoratori, così articolate: congedi o permessi orari per assistere neonati e bambini disabili fino a 3 anni, permessi giornalieri per accudire bambini o adulti non autosufficienti e, a scelta, permessi giornalieri oppure permessi che prevedono la riduzione giornaliera di due ore per il lavoratore stesso, con disabilità. In aggiunta a questi permessi, è previsto (dalla L. 388/2000 e dal D.L. 151/2001) un congedo straordinario di due anni nell’arco della vita lavorativa per assistere un congiunto con disabilità. Generalmente le giornate o le ore indennizzabili o i periodi di congedo straordinario sono retribuiti sulla busta paga, direttamente dal datore di lavoro, per conto dell’Inps. È previsto, però, il pagamento diretto per alcune categorie di lavoratori o nei casi in cui il datore di lavoro stesso non abbia predisposto il pagamento delle spettanze del dipendente.
In campo sociale, sebbene con discutibili esiti dal punto di vista della redistribuzione delle risorse e del loro impiego, si ricorda che lo Stato interviene direttamente, senza usare gli istituti di spesa (INPS, altri enti previdenziali, regioni e comuni), con la cosiddetta “tax-expenditure”, che corrisponde ad abbattimenti del debito di imposta imputabili a previsioni legislative: deduzioni, detrazioni, esclusioni, esenzioni, aliquote ridotte (definita anche tax breaks for social purposes).
Dal 2008, lo Stato inoltre è direttamente intervenuto con l’istituzione di un sostegno economico, la carta acquisti (social card), pari a 80 euro bimestrali, al fine di alleviare situazioni di disagio economico estremo. Nel corso del 2012 è stata approvata la sperimentazione di un nuovo tipo di social card (stanziamento di 50 milioni) per determinati comuni, con popolazione superiore ai 250.000 abitanti, al fine di fornire un beneficio mensile a famiglia.
Ritornando a quanto l’INPS attiva per le prestazioni assistenziali ricordiamo i seguenti interventi: la pensione sociale, (per un importo medio mensile di 390 euro), sostituita, a decorrere dall’1° gennaio 1996, dall’assegno sociale, concessa ai cittadini ultrasessantacinquenni, sprovvisti di redditi minimi e ai beneficiari di pensioni di invalidità civile e ai sordomuti al compimento dei 65 anni di età, finanziata dalla fiscalità generale (in sostanza è l’unica forma di reddito minimo garantito in Italia, riservato solo alle persone anziane), l’assegno o pensione di invalidità civile, pari a circa 260 euro mensili, erogata ai cittadini tra i 18 e i 65 anni, con redditi insufficienti e con una riduzione della capacità di lavoro o di svolgimento delle normali funzioni quotidiane pari o superiore al 74 per cento o al 100 per cento, e che non dispongono dei requisiti minimi contribuitivi per accedere alla pensione di inabilità, a cui si aggiunge l’indennità di accompagnamento per coloro che raggiungono il 100 per cento di invalidità, per un assegno di circa 480 euro, gli assegni al nucleo familiare (Anf), che però sono una prestazione di tipo previdenziale accessoria alla retribuzione spettante ai lavoratori dipendenti per le persone facenti parte del nucleo familiare, sulla base della composizione del nucleo e in possesso di un reddito familiare inferiore a fasce reddituali stabilite ogni anno dalla legge e costituito almeno per il 70 per cento da redditi da lavoro, l’assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori, pari a poco meno di 130 euro, prestazione invece di natura assistenziale, concesso dal Comune, ma pagato dall’INPS, per le famiglie con almeno tre figli minori e che hanno patrimoni e redditi limitati, l’assegno di maternità, pagato dall’INPS, che la madre non lavoratrice può chiedere al proprio Comune di residenza per la nascita del figlio oppure per l’adozione o l’affidamento preadottivo di un minore di età non superiore ai 6 anni (o ai 18 anni in caso di adozioni o affidamenti internazionali), e, dal 1 gennaio 2002, le maggiorazioni su tutti i trattamenti pensionistici, di natura contributiva o assistenziale, aumentate, in presenza di particolari requisiti di età e di reddito, fino a garantire un reddito personale minimo di euro 516,46 mensili, per tredici mensilità, la pensione e l’indennità per la cecità civile (parziale o assoluta) e la pensione e l’indennità di comunicazione per la sordità (erogazioni da 189 a 260 euro, condizionate dal reddito del beneficiario).
Le Regioni e i Comuni singoli o associati, escludendo le prestazioni in natura riguardanti l’offerta sanitaria (assistenza ospedaliera e sanitaria distrettuale, quest’ultima ripartibile in assistenza primaria, specialistica ed ambulatoriale), offrono prestazioni in natura:
servizi territoriali
servizi residenziali
prestazioni in denaro:
Per area di utenza (famiglia e minori, disabili, dipendenze, anziani, immigrati e nomadi, povertà disagio adulti e senza fissa dimora, multiutenza), sono istituiti:
L’assistenza di natura residenziale riguarda in particolare i ricoveri in presidi residenziali socio-assistenziali (Case di cura protette) e in presidi socio-sanitari (RSA, ad elevata integrazione sanitaria per 60-120 giorni), nel caso che l’ADI o l’ospedalizzazione a domicilio (OD) non siano possibili.
Conclusa la fase della RSA, l’anziano non autosufficiente è assistito in una Residenza protetta per anziani (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione per la garanzia dell’informazione statistica, L’informazione statistica sull’assistenza agli anziani in Italia, Rapporto di indagine 2005, Roma).
Nel 2010 sono 12.808 e dispongono complessivamente di 424.705 posti letto (7 ogni 1.000 persone residenti). La componente prevalente dell'offerta residenziale è rappresentata dalle "unità di servizio" che svolgono una funzione di tipo socio-sanitario e sono destinate ad accogliere prevalentemente anziani non autosufficienti, con una disponibilità di oltre i due terzi dei posti letto (72 per cento). La restante quota dell'offerta è di tipo socio-assistenziale.
Nei presidi residenziali sono assistite 394.374 persone: circa 295 mila sono anziani con almeno 65 anni (il 75 per cento), poco più di 80 mila sono adulti tra i 18 e i 64 anni (20 per cento) e circa 19 mila sono minori con meno di 18 anni (5 per cento). La tipologia di disagio prevalente è legato alla disabilità o a patologie psichiatriche (circa il 69 per cento degli ospiti).Gli stranieri residenti nei presidi sono complessivamente 16.023 (il 4 per cento degli ospiti complessivi). Nel 70 per cento dei casi i titolari di queste strutture residenziali sono enti privati (I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari nel 2010, Roma - ISTAT 2012).
Per quanto riguarda l’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, nell'anno scolastico 2010-2011, risultano iscritti negli asili nido comunali 157.743 bambini tra zero e due anni di età, mentre altri 43.897 bambini usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti dell'offerta pubblica complessiva, per una spesa di circa 1,2 miliardi, al netto delle quote pagate dalle famiglie.
Nonostante il generale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003-2004 all'11,8 per cento del 2010-2011 (L'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia - Anno scolastico 2010-2011, Roma, ISTAT 2012).
Si ricorda in merito al minimo vitale per famiglie e individui bisognosi, la sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (RMI), introdotta dal D. Lgs. 237/1998 per il biennio 1999-2000, per 39 Comuni, con successive proroghe per il biennio 2000-2001, con una spesa complessiva nel secondo biennio di circa 400 milioni di euro (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Relazione al Parlamento 2007 sull’attuazione della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento e risultati conseguiti, 2007, Roma).
Dai dati nazionali (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma), la popolazione italiana è pari a 60,6 milioni e il numero di famiglie nel 2010-2011 (media) è pari a 24,6 milioni.
Nel 2010-2011, il 29,4 per cento delle famiglie è rappresentato da persone sole, incidenza in continua crescita e il 53,6 per cento ha oltre 60 anni e di queste il 67,4 per cento è costituito da donne. Le famiglie presentano una prevalenza della tipologia coppie con figli, pari al 54,4 per cento, mentre le coppie senza figli hanno un’incidenza del 31,4 per cento e i monogenitori del 14,2 per cento sul totale dei nuclei.
Nel 2011, in Italia, l’area della povertà coinvolge 2,8 milioni famiglie in condizione di povertà relativa (l’11,1 per cento delle famiglie residenti), pari a poco più di 8 milioni di individui, il 13,6 per cento dell’intera popolazione.
La stima dell’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie e persone povere) è calcolata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà), che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi. La soglia per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media mensile per persona nel Paese, che nel 2011 è risultata di 1.011,03 euro (+1,9 per cento rispetto al valore della soglia nel 2010). Pertanto, le famiglie di due persone che hanno una spesa mensile pari o inferiore a tale valore vengono classificate come povere. Per famiglie di ampiezza diversa il valore della linea si ottiene applicando un’opportuna scala di equivalenza che tiene conto delle economie di scala realizzabili all’aumentare del numero di componenti. L’incidenza della povertà assoluta, invece, viene calcolata sulla base di una soglia di povertà corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire il paniere di beni e servizi che è considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile. Sono classificate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia assoluta (che si differenzia per dimensione e composizione per età della famiglia, per ripartizione geografica e ampiezza demografica del comune di residenza).
Nel 2011, l’incidenza di povertà assoluta è pari al 5,2 per cento corrispondente a 1,3 milione di famiglie per un totale di 3,4 milioni individui (il 5,7 per cento dell’intera popolazione).
E’ quindi in 11,4 milioni di persone che si concentra l’area del disagio economico in Italia.
Per quanto riguarda un’altra area sensibile per le politiche socio-sanitarie, quella degli anziani, si stima che il 36 per cento delle famiglie, circa 8,8 milioni, ha in casa almeno un anziano e il 22,9 per cento, circa 5,6 milioni, è rappresentato da famiglie di soli anziani (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma).
Il 20,1 per cento delle famiglie ha almeno un anziano di 65-74 anni, il 14,8 per cento delle famiglie ha un anziano di 75-84 anni e il 5,4 per cento ha almeno un anziano di 80 anni e più. Nel 2012, in Italia, sono presenti due milioni di anziani in condizioni di disabilità che vivono in famiglia e oltre 300 mila anziani sono ospiti nelle strutture residenziali. Gli ultra anziani che superano gli 85 anni in Italia sono un milione e 600 mila e si prevede che tra 10 anni saranno 2 milioni e 400 mila (Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali, 2012).
Secondo i dati più recenti (La disabilità in Italia - ISTAT 2010) riguardanti l’area della disabilità, le persone disabili sono il 4,8 per cento della popolazione italiana di 6 anni e più (2,6 milioni di persone), e la disabilità è un problema che coinvolge soprattutto gli anziani: quasi la metà delle persone con disabilità (1,2 milioni), ha più di ottanta anni. Nella scuola (anno scolastico 2010-2011) gli studenti con disabilità sono 139.000 (il 3 per cento del totale alunni), di cui circa 78.000 nella scuola primaria (pari al 2,8 per del totale degli alunni) e poco più di 61.000 nella scuola secondaria di primo grado, pari al 3,4 per del totale degli alunni (L’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di primo grado statali e non statali, 2013 - ISTAT, Roma).
Un’altra area importante che incide sui bilanci sociali degli enti locali, è quella relativa ai servizi ai minori (L'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia - Anno scolastico 2010-2011, 2012, ISTAT). Come già detto in precedenza, nonostante il graduale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003-2004 all'11,8 per cento del 2010-2011, ancora distante dalla copertura del 33 per cento sull’utenza potenziale, che è l’obiettivo fissato dall’Agenda di Lisbona per il 2010.
Per quanto altre situazioni di disagio sociale (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto sulla coesione sociale - Anno 2012, Roma), nel 2008, gli utenti dei Servizi pubblici per le tossicodipendenze (Sert) sono risultati 167.674, mentre per quanto riguarda i disturbi psichici per abuso di alcol, nel 2010, sono state 15.320 le dimissioni ospedaliere a carico di individui che presentavano questa dipendenza, e sono state 7.112 per disturbi psichici a causa di abuso di droghe.
Nel 2009 sono state censite 1.679 strutture residenziali per la tutela della salute mentale, per un numero totale di posti pari a 19.299, ed una utenza di 30.375 individui. I Centri di Salute Mentale in Italia erano 1.387 ovvero poco più di 4 ogni 150.000 abitanti maggiorenni.
Per quanto riguarda, infine, le persone senza dimora (Le persone senza dimora - Anno 2011, ottobre 2012 - ISTAT), sono oltre 47.000 persone che tra novembre e dicembre 2011 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna in 158 comuni italiani.
Le prestazioni di protezione sociale (sanità, previdenza e assistenza) secondo l'evento, il rischiio e il bisogno per funzione e per tipo di prestazione per il 2011 ammntano a 417,8 miliardi di euro, come risulta dai dati pubblicati dall'Istat. Di seguito sono indicati alcuni dati macroeconomici di rilievo.
Nel Bilancio sociale INPS del 2011, le entrate complessive ammontano a 284,4 miliardi, di cui la parte corrente è divisa in contributi sociali per 150,8 miliardi e contribuzioni diverse, soprattutto trasferimenti statali, per 84,5 miliardi.
Nel 2011, il totale delle prestazioni sociali INPS è pari a 219,6 miliardi, di cui l'88,5 per cento sono le pensioni (194,4 miliardi), mentre le prestazioni temporanee coprono il restante 11,5 per cento (25,1 miliardi).
All’interno delle pensioni, il 77,4 per cento (169,9 miliardi) è rappresentato dalle pensioni previdenziali (vecchiaia, anzianità, invalidità da lavoro, inabilità, indirette e reversibilità), mentre l'11,2 per cento (24,6 miliardi, per oltre 4 milioni di trattamenti) dalle pensioni assistenziali (inclusi 2,8 miliardi per il Fondo dei coltivatori diretti, coloni mezzadri – CDCM ante 1989). All’interno dell’assistenza sono comprese i trasferimenti di invalidità civile, circa 16,2 miliardi, e 4,2 miliardi per le pensioni e assegni sociali (secondo determinati requisiti reddituali e anagrafici).
I pensionati INPS titolari di almeno un trattamento pensionistico INPS nel 2011 sono 13.941.802, in maggioranza donne. Circa il 74 per cento (pari a 10,3 milioni di individui) percepisce una sola pensione a carico dell’Istituto, poco più del 21 per cento ne percepisce due, il 5 per cento tre ed oltre. Il reddito pensionistico medio lordo, risultante dalla somma dei redditi da pensione (sia di natura previdenziale che assistenziale) percepiti nell’anno, erogati sia dall’Inps che da altri enti previdenziali e rilevati dal Casellario centrale dei pensionati gestito dall’Istituto, è di 1.131 euro mensili (per le donne 930 euro medi mensili a fronte di 1.366 euro per gli uomini).
Oltre la metà dei pensionati (52 per cento) riceve una pensione di vecchiaia o di anzianità senza godere di altri trattamenti pensionistici, percentuale che scende al 10 per cento e al 5 per cento, rispettivamente, per pensioni ai superstiti e di invalidità previdenziale. I percettori di sole pensioni assistenziali sono l'11 per cento del totale. Un ulteriore 10 per cento e 12 per cento si distribuisce tra coloro che ricevono, rispettivamente, un trattamento previdenziale associato ad una prestazione assistenziale ovvero più trattamenti di natura previdenziale.
Sotto il profilo dell’età, oltre il 75 per cento dei titolari ha 65 anni e oltre (gli ultra80enni sono il 25 per cento) e il 22 per cento circa si colloca in una fascia compresa tra i 40 e i 64 anni. Inoltre, quasi la metà dei percettori (6.915.733) si concentra nelle regioni settentrionali, mentre nel Meridione e al Centro risiedono, rispettivamente, il 31 per cento (4.292.312) ed il 19 cento (2.733.757) del totale con redditi pensionistici medi che oscillano da 920 euro mensili al Sud a 1.238 euro al Nord.
Nella distribuzione per classi di importo, il 52 per cento dei pensionati Inps (7,2 milioni di individui) presenta redditi pensionistici inferiori a 1.000 euro mensili e il 24 per cento (3,3milioni) si colloca nella fascia tra 1.000 e 1.500 euro mensili. Il 12,7 per cento riscuote pensioni comprese tra 1.500 e 2.000 euro mensili e il restante 11,2 per cento gode di un reddito pensionistico mensile superiore a 2.000 euro.
Per quanto riguarda le prestazioni temporanee (25,1 miliardi) le prestazioni connesse a stato di occupazione sono pari 10,8 miliardi, i trattamenti di famiglia (principalmente, assegno al nucleo familiare) e di maternità (comprendente la maternità obbligatoria, il congedo parentale facoltativo e il permesso retribuito per allattamento), rispettivamente, sono 5,6 e 3 miliardi.
Come si vede la struttura delle prestazioni sociali è fortemente caratterizzata dalla spesa pensionistica previdenziale e da quella assistenziale, mentre le spese per le prestazioni temporanee risultano alquanto ridotte, con il peso degli ammortizzatori sociali del 4,9 per cento di tutte le prestazioni, quello per la famiglia del 2,9 per cento, quello per maternità 1,4 per cento e quello per la malattia dello 0,9 per cento.
Consegue un dato di fatto difficilmente controvertibile: dai numeri mostrati, se consideriamo l’effetto di redistribuzione delle risorse provenienti dalle entrate contributive (imprese e lavoratori) e della fiscalità generale, si conferma una forte sperequazione di carattere generazionale e di svantaggio per le prestazioni connesse alla disoccupazione e per i trattamenti di famiglia e maternità.
La social card dello Stato è una carta di pagamento elettronico - 80 euro bimestrali, accreditati dall’INPS - per spese alimentari, presso gli esercizi commerciali convenzionati e per le utenze domestiche - gas ed elettricità - presso gli Uffici Postali. Secondo il luogo di residenza, è possibile ottenere integrazioni concesse dagli enti locali (Regioni, Comuni o Province) in aggiunta all’importo stabilito.
Nel 2011 il totale dei beneficiari, con il diritto ad almeno un accredito nel corso dell’anno, sono stati 535.412. Secondo il luogo di residenza, la concentrazione maggiore, il 71,4 per cento, è presente nella zona meridionale e insulare, il 16,3 per cento dei beneficiari vive nel Settentrione e il 12,3 per cento nell’Italia centrale. L’importo totale erogato nel 2011 è pari a 207 milioni, suddivisi in 2.589.517 accrediti effettuati nell’anno.
I comuni italiani spendono circa 7,2 miliardi per i servizi sociali, che corrispondono ad una spesa procapite media di circa 116 euro, pur con differenze molto significative tra diversi territori. La spesa sociale dei comuni rappresenta lo 0,46 per cento del Pil italiano e assume nel territorio nazionale una variabilità tale da oscillare tra la spesa media degli enti locali della Provincia di Trento (294,7 euro a cittadino), e quella della regione Calabria (25,5 euro a cittadino). Una prima caratteristica del welfare in Italia è infatti la forte diversità nelle politiche attivate in termini di risorse allocate e servizi resi alla collettività; il divario territoriale vede una netta contrapposizione tra regioni del nord e del sud, con queste ultime che registrano una spesa per abitante pari a poco meno di 51 euro e quelle del nord est e nord ovest che spendono circa 163 e 133 euro rispettivamente. In termini di interventi, prevalgono quelli che riguardano famiglia e minori, disabili e anziani, che assorbono mediamente l’80 per cento del totale della spesa sociale dei comuni italiani (39,8 per cento famiglia e minori, 20,4 per cento anziani, 21,6 per cento disabili). Il restante 19 per cento circa della spesa è ripartito a decrescere tra interventi destinati a povertà (8,3 per cento), multiutenza (6,3 per cento), immigrati (2,7 per cento) e dipendenze (0,9 per cento).
Tra le regioni emerge un ampio divario per risorse impegnate dai comuni in rapporto alla popolazione residente: la spesa per abitante nel 2009 varia da un minimo di 25,5 euro in Calabria a un massimo di circa 295 euro a Trento. Al di sotto del valore medio italiano si collocano tutte le regioni del Mezzogiorno (ad eccezione della Sardegna) ma anche Umbria, Marche e Veneto. Anche dal punto di vista del tipo di rischio o bisogno su cui si concentrano le risorse si mettono in luce alcune differenze regionali. Le regioni del Mezzogiorno hanno una maggiore quota di risorse assorbite dalle politiche di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale: il 10,8 per cento, contro il 7,6 per cento del Centro-Nord.
Se si considera la spesa dedicata ai servizi sociali in rapporto al Pil, la maggior parte delle regioni si colloca in una fascia intermedia che varia dallo 0,3 per cento allo 0,6 per cento del Pil regionale. Al di sotto dello 0,3 per cento vi sono la Calabria e il Molise, mentre fra le aree che impegnano le percentuali più alte di risorse vi sono la Sardegna, Trento e Bolzano, la Valle d'Aosta e il Friuli-Venezia Giulia (Noi Italia 2013 - ISTAT).
Il totale della spesa pubblica sociale (prestazioni in denaro e natura), al netto della malattia, previdenza e disoccupazione (ultima voce pari a 12,5 miliardi tra indennità di disoccupazione e assegno d’integrazione salariale), risulta di 52,9 miliardi, di cui 30,7 miliardi in denaro (settore assistenza: 24,3 miliardi di pensioni/assegni sociali, invalidità e altri assegni e sussidi, e 6,4 miliardi di assegni familiari), e 22,2 miliardi in natura (settore assistenza 8,5 miliardi e settore sanità 13,7 miliardi di prestazioni socio-sanitarie.
Considerando le persone in povertà assoluta, circa 3,4 milioni di persone, i 2,6 milioni di disabili (dai 6 anni in su), i 5,6 milioni di anziani soli, i minori che usano i servizi socio-educativi, e l’utenza a rischio di esclusione sociale, le prestazioni sociali in natura erogate dagli enti locali sono pari a 8,5 miliardi e rappresentano il 16 per cento del totale della spesa sociale.
L’offerta welfare è dunque caratterizzata da un netto sbilanciamento per l’elevatissima erogazione di prestazioni monetarie e la scarsa fornitura di servizi alla persona.
Il processo di invecchiamento demografico atteso nei prossimi decenni determinerà una marcata espansione della domanda di servizi socio-assistenziali. A fronte di questa emergenza, le risposte assistenziali e le risorse impiegate, di cui il monitoraggio a livello nazionale e locale non appare coordinato, risultano inadeguate, frammentate, estremamente diversificate per quantità e qualità (tra buone esperienze e assenza o quasi di servizi).
Il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali (FNPS) è lo strumento con cui, a livello statale, vengono finanziati annualmente, attraverso l’allegato C della legge finanziaria, gran parte degli interventi dedicati alla sfera del sociale. Il Fondo, istituito nel 1998 dall’articolo 59, comma 44, della legge 449/1997, è stato maggiormente definito e rafforzato dalla L. 328/2000 che ha ripartito annualmente le risorse tra le regioni, le province autonome, i comuni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali con decreto del Ministro della solidarietà sociale, sentiti i ministri interessati e d’intesa con la Conferenza Unificata Stato regioni e autonomie locali.
Gli interventi finanziati a valere sul FNPS sono stati ridotti da alcuni recenti provvedimenti normativi. In particolare, le risorse del Fondo per l’infanzia e l’adolescenza – istituito dalla legge 285/1997 – inizialmente allocate nel Fondo nazionale delle politiche sociali, a decorrere dall’anno 2008 sono determinate dalla legge finanziaria limitatamente alle risorse destinate al finanziamento degli interventi nei 15 Comuni riservatari indicati dalla legge istitutiva. Le rimanenti risorse del Fondo nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza confluiscono indistintamente nel Fondo nazionale delle politiche sociali.
Per quanto riguarda le somme destinate al finanziamento degli interventi costituenti i diritti soggettivi (assegno al nucleo familiare con tre figli minori, per la maternità, agevolazioni disabili e lavoratori talassemici), la legge 191/2009 ha disposto che, dal 2010, siano finanziati attraverso appositi capitoli iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
La legge di stabilità per il 2011 (legge 220/2010) ha stanziato per le politiche sociali 273,8 milioni di euro, da ripartirsi tra le regioni e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dell’iniziale stanziamento, per effetto dell'art. 1, comma 13, della legge 220/2010, sono stati accantonati 55,8 milioni di euro in ragione dell’andamento dei proventi derivanti dalla cessione dei diritti d’uso delle frequenze per i servizi di comunicazione a banda larga. Tali accantonamenti sono stati resi definitivi dal decreto legge 98/2011. Con Decreto Interministeriale del 17 giugno 2011, sono stati pertanto ripartiti 218 milioni di euro, di cui 39,5 milioni di euro al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Nel Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 l’importo proposto per il 2012 è di 69,954 milioni di euro, per il 2013 e il 2014 gli importi sono invece pari a 44,590 milioni di euro. Tali stanziamenti sono stati poi confermati dalla Legge di stabilità 2012, come indicati nella tabella C.
Nella riunione del 25 luglio 2012, la Conferenza delle regioni e delle province autonome, ha espresso la mancata intesa sullo schema di decreto di riparto del FNPS per l’anno 2012 come trasmesso dal Governo, chiedendo, a fronte di una previsione relativa alla quota destinata alle Regioni e alle Province autonome, pari a 10,8 milioni di euro, e di un accantonamento di 32,8 milioni di euro per spese ministeriali giudicate indifferibili, l’interlocuzione con l’esecutivo per ridiscutere il finanziamento delle politiche sociali.
Successivamente, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nel Documento per una azione di rilancio delle politiche sociali del 6 ottobre, ha evidenziato alcune osservazioni in materia di politiche sociali, sottolineando al contempo l'impossibilità, per i livelli di governo territoriali, di garantire, nel corso del 2013, il sistema dei servizi sociali sul territorio. In tal senso, le Regioni, per ripristinare sicurezza nell'ambito delle politiche sociali, avanzano le seguenti proposte e richieste: 1) definizione degli Obiettivi di Servizio con indicazione di quelli da finanziare con priorità; 2) difesa dell'occupazione nel settore dei servizi alla persona: 3) superamento della frammentarietà dei finanziamenti, spesso di piccole entità, e allocazione di tutte le risorse dedicate al sociale in un unico Fondo non finalizzato; 4) istituzione di un tavolo di confronto composto dai Ministeri del Welfare/Salute e dalle Commissioni Politiche Sociali e Salute della Conferenza delle Regioni e P.A, che elabori proposte condivise e praticabili sulla non autosufficienza riconoscendola come un tema centrale all’interno delle politiche sociali.
In ultimo il decreto 16 novembre 2012, Ripartizione delle risorse finanziarie afferenti al Fondo nazionale per le politiche sociali , per l'anno 2012 ha ripartito le risorse finanziarie afferenti al Fondo, ammontanti ad euro 42.908.611, destinando euro 10.680.362,13 alle Regioni e euro 32.033.310 al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Contestualmente sono state assegnate una quota riferita alle Province autonome di Trento e Bolzano pari a euro 180.286,77 nonché una somma da restituire al Comune di Enna, a fronte di quanto versato ai sensi dell'art. 1, comma 1286 della legge 296/2006, n. 296 pari a euro 14.652,10.
Per l’anno 2013, l’articolo 1, comma 271, Legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), incrementa di 300 milioni di euro per l'anno 2013 lo stanziamento del Fondo nazionale per le politiche sociali. Conseguentemente, il capitolo di bilancio (3671) del Fondo, allocato presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, è dotato di 344.178.000 euro per il 2013.
Fondo nazionale politiche sociali (in migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale politiche sociali come risultante dal decreto di riparto |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto |
2009
|
1.311.650 Nel fondo erano ancora allocate le risorse destinate al finanziamento degli interventi costituenti diritti soggettivi, pari a euro 842.000.000,00. |
1.420.580
|
518.226 |
25/11/2009 |
2010
|
1.169.258 Di cui euro 854.000.000,00 destinate al finanziamento degli interventi costituenti diritti soggettivi e riportati in tabella C |
435.257 Ai sensi dell’articolo 2, comma 3, della legge 191/2009 la quale stabilisce che, a decorrere dal 2010, gli oneri relativi ai diritti soggettivi sono finanziati da appositi capitoli di spese obbligatorie iscritti nello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dagli stanziamenti del Fondo, come riportati in Tabella C, sono state pertanto sottratte le risorse destinate al finanziamento dei diritti soggettivi. |
380.222 |
4/10/2010 |
2011
|
273.874 |
218.084 |
178.500 |
17/06/2011 |
2012
|
69.950 |
42.208 |
10.680 |
16/11/2012 Mancata Intesa |
2013 |
344.178 |
|
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L'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) ha istituito il Fondo per le non autosufficienze presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, configurandolo essenzialmente come un contributo alle politiche regionali in materia, per la realizzazione di prestazioni, interventi e servizi assistenziali nell'ambito dell'offerta integrata dei servizi socio-sanitari in grado di garantire i livelli essenziali delle prestazioni assistenziali a favore delle persone non autosufficienti. Le risorse, aggiuntive rispetto a quelle già destinate alle prestazioni e ai servizi a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni, nonché da parte delle autonomie locali, sono state finalizzate alla copertura dei costi di rilevanza sociale dell'assistenza socio-sanitaria. Le risorse assegnate al Fondo per il 2010, ripartite con decreto, erano pari ad euro 400 milioni.
Il decreto 4 ottobre 2010 ha ripartito fra le regioni le risorse del fondo utilizzando criteri basati, nella misura del 60 per cento, su indicatori relativi alla popolazione residente, per regione, d'età pari o superiore a 75 anni e per il restante 40 per cento sui criteri utilizzati per il riparto del Fondo nazionale per le politiche sociali come individuati dall’articolo 20, comma 5, della legge 328/2000.
Per il 2011 e il 2012, non è stato previsto il rifinanziamento organico del Fondo.
Si rileva tuttavia che l'articolo 1, comma 40, della Legge di stabilità 2011, dispone che la dotazione del Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili, sia incrementata di 924 milioni di euro per l'anno 2011 e che una quota di tali risorse, pari a 874 milioni di euro per l'anno 2011, sia ripartita, con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri per le finalità indicate nell’elenco 1 allegato alla stessa legge. Tra le finalità indicate nell'elenco sono stati fra gli altri indicati interventi in tema di sclerosi laterale amiotrofica per ricerca e assistenza domiciliare dei malati, ai sensi dell'art. 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, per un ammontare nel 2011 pari a 100 milioni di euro.
Il decreto 11 novembre 2011 ha attribuito tali risorse alle regioni sulla base dei criteri utilizzati per il riparto del Fondo nazionale per le politiche sociali.
Successivamente, il D.L. 95/2012, all’articolo 23, comma 8, ha previsto che la dotazione del Fondo di finanziamento di interventi urgenti e indifferibili, sia incrementata di 658 milioni di euro per l'anno 2013 e ripartita con D.P.C.M., per incrementare fra l’altro la dotazione del Fondo non autosufficienti, finalizzato al finanziamento dell'assistenza domiciliare prioritariamente nei confronti delle persone gravemente non autosufficienti, inclusi i malati di sclerosi laterale amiotrofica. Il D.P.C.M non è mai stato emanato e il Fondo, in conseguenza di quanto stabilito dall'articolo 2, comma 264, della legge di stabilità 2013 (legge 228/2012), ha subito un definanziamento di 631,7 milioni; la dotazione finanziaria del Fondo risulta pertanto interamente decurtata, residuando al Fondo soltanto 263 euro per l’anno 2013.
In ultimo, la legge di stabilità 2013, al comma 151, autorizza la spesa di 275 milioni di euro per l'anno 2013, per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Ulteriori 40 milioni confluiranno nel Fondo, dai risparmi attesi dal piano straordinario di verifiche INPS sulle invalidità.
L’articolo 1, comma 83, della legge di stabilità 2013 prevede che l'INPS, per il periodo 2013-2015 - nell'ambito dell’ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari nei confronti dei titolari di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, realizzi un piano di 150.000 verifiche straordinarie annue, aggiuntivo rispetto all'ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, nei confronti dei titolari di benefici di invalidità civile, cecità civile, sordità, handicap e disabilità. Per quanto concerne le risorse derivanti dall’attuazione del suddetto piano straordinario di verifiche, sono destinate ad incrementare il Fondo per le non autosufficienze sino alla concorrenza di 40 milioni di euro annui.
Fondo nazionale per le non autosufficienze (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale per le non autosufficienze |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto/Intesa |
2009 |
400.000 |
400.000 |
399.000 |
Decreto 6 agosto 2008 |
2010 |
400.000 |
400.000 |
380.000 |
Decreto 4 ottobre 2010 |
2011 L.220/2010 Art. 1,co. 40 |
- |
100.000 dal Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili |
100.000 |
Decreto 11 novembre 2011 |
2012 D.L. 95/2012 Art. 23,co. 8 |
- |
Somma, da definire con D.P.C.M., dal Fondo per le esigenze urgenti e indifferibili. Si rileva che il Fondo è stato completamente definanziato dalla legge di stabilità 2013. |
- |
- |
2013 Legge di stabilità 2013 Art. 1, co. 83 Art. 1, co. 151 |
- |
Fino alla concorrenza di 40.000 275.000 |
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La legge 28 agosto 1997, n. 285 ha inizialmente sollecitato e sostenuto la progettualità orientata alla tutela e alla promozione del benessere di bambini e ragazzi attraverso l’istituzione di un Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza suddiviso tra le Regioni (70%) e le 15 Città riservatarie (30%), chiamando gli enti locali e il terzo settore a programmare insieme e diffondere una cultura e pratiche di progettazione concertata e di collaborazione interistituzionale. Successivamente, la legge finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha disposto, all'articolo 1, comma 1258, che la dotazione del Fondo, limitatamente alle risorse destinate ai comuni riservatari, sia determinata annualmente dalla Tabella C della legge finanziaria e ne ha indicato, a decorrere dal 2008, una diversa allocazione, prevedendo uno stanziamento autonomo. Le rimanenti risorse del Fondo per l'infanzia e l'adolescenza continuano a confluire, indistintamente, nel Fondo nazionale per le politiche sociali.
Oggi le 15 Città riservatarie - Bari, Bologna, Brindisi, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Taranto, Torino, Venezia - costituiscono una sorta di nucleo fondante per le politiche della legge 285 e rappresentano un laboratorio di sperimentazione in materia di infanzia e adolescenza. Il trasferimento delle risorse avviene con vincolo di destinazione, quindi i finanziamenti della legge 285 sono collegati alla progettazione dei servizi per l’infanzia e l’adolescenza. Tra gli strumenti promossi dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per la buona riuscita della sperimentazione 285, vi è il Tavolo di coordinamento tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali e Città riservatarie e la Banca dati dei progetti. La legge di stabilità 2013 (legge 228/2012) destina al Fondo, per il 2013, 39,6 milioni di euro, prevedendo quasi identici stanziamenti per il biennio successivo.
Fondo nazionale per linfanzia e l'adolescenza (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza |
Decreto riparto/Intesa |
2009 |
43.892 |
43.751 |
17 settembre 2009 |
2010 |
39.964 | 39.964 |
11 marzo 2010 |
2011 |
39.204 | 35.188 |
25 maggio 2011 |
2012 |
39.960 |
39.960 |
24 febbraio 2012 |
Il Fondo istituito ai sensi dell'art. 19, comma 1, del decreto-legge 223/2006, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato ridisciplinato dalla finanziaria 2007 che ha fra l’altro istituito l’Osservatorio nazionale sulla famiglia. Le risorse destinate nel loro complesso alle politiche familiari sono assegnate mediante un apposito decreto di ripartizione. Dal 2010 le risorse afferenti al Fondo sono ripartite fra interventi relativi a compiti ed attività di competenza statale (cap. 858) ed attività di competenza regionale e degli enti locali (cap. 899).
La materia politiche per la famiglia, nella strutturazione del bilancio statale, è ricompresa nella Missione 24 Diritti sociali, solidarietà sociale e famiglia, nello specifico Programma 24.7 "Sostegno alla famiglia" – Centro di responsabilità 15 "Politiche per la famiglia”. Dal 2010 i Capitoli di riferimento sono il cap. 858, “Fondo per le politiche per la famiglia", del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri e il cap. 899, titolato “Somme da destinare ad interventi per attività di competenza statale relative al Fondo per le politiche per la famiglia”, dello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nell’ultimo quinquennio, gli stanziamenti finalizzati alle politiche di sostegno alla famiglia hanno registrato una considerevole riduzione. Nel 2011 il Fondo ha subito un forte ridimensionamento, legato, secondo quanto affermato dal MEF, alla necessità di alimentare il costituendo Fondo per il federalismo, con conseguente azzeramento dei trasferimenti di risorse al sistema delle autonomie. Per quanto riguarda il 2010, a seguito dell’Intesa del 29 aprile 2010 in sede di Conferenza unificata, il decreto del 20 luglio 2010 ha stabilito il riparto delle risorse del Fondo per il 2010, ammontanti nel complesso ad 185.289.000 euro. Per quanto riguarda le attività di competenza regionale e degli enti locali, i 100 milioni di risorse disponibili sono stati ripartiti con l’intesa in sede di Conferenza unificata del 7 ottobre 2010 che li ha destinati in via prioritaria, al proseguimento dello sviluppo ed al consolidamento del sistema integrato di servizi socio-educativi per la prima infanzia e alla realizzazione di altri interventi a favore delle famiglie, assicurando che ad essi accedano prioritariamente le famiglie numerose o in difficoltà, sulla base della valutazione del numero e della composizione del nucleo familiare e dei livelli reddituali.
I finanziamenti per il 2011, risultano pari a 52,5 milioni di euro, mentre nel Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014 gli importi proposti sono: 52,535 milioni di euro per il 2012 e 31,391 milioni di euro per il 2013 e il 2014. Tali importi non sono stati confermati dalla Legge di stabilità 2012 (L. 183/2011), che, come indicato nella tabella C, per il Fondo per le politiche della famiglia, indica per il 2012 31,994 milioni di euro, per il 2013 stanzia 21,184 milioni di euro, mentre per il 2014 indica 23,280 milioni.
Per quanto riguarda le risorse 2011, non ripartite con decreto, la dotazione iniziale è stata successivamente e in più occasioni ritoccata in diminuzione dai tagli derivanti dal D.L. 78/2010, rispettivamente per euro 21.075.110 e euro 991.000, e dai tagli, per euro 21.440, apportati dal decreto-legge 225/2110, e dagli accantonamenti così detti per la “banda larga” pari a euro 5.316.167, che hanno determinato una consistenza effettiva di 25.062.434 euro.
Per quanto riguarda il 2012, il 2 febbraio 2012 è stata sottoscritta un’Intesa in sede di Conferenza unificata sull’utilizzo di risorse da destinare al finanziamento di azioni per le politiche a favore della famiglia. I fondi, pari a 25 milioni di euro, spostati da precedenti capitoli di competenza statale e resi disponibili sui capitoli di pertinenza regionale e degli enti locali, sono stati messi a disposizione per garantire la continuità degli obiettivi di servizio relativi a: diffusione servizi per l’infanzia e presa in carico degli utenti dei servizi per l’infanzia (bambini 0-3 anni) e incremento della percentuale degli anziani beneficiari dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) dall’1,6 per cento al 3,5 per cento. Ai sensi dell’articolo 4 dell’Intesa, l’utilizzo delle risorse è monitorato da un Gruppo paritetico composto da rappresentanti del Dipartimento per le politiche della famiglia, MEF, regioni e PA, ANCI e UPI. Successivamente, nel corso della Conferenza unificata del 19 aprile 2012 sono state sancite tre Intese in materia di famiglia: sul Piano nazionale sulla famiglia; sul riparto per il 2012 delle risorse del Fondo per le politiche della famiglia; sull’utilizzo di risorse da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’ultima delle Intese ha stabilito i criteri di ripartizione delle risorse disponibili a valere sui capitoli di pertinenza Politiche della famiglia del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per complessivi 45 milioni di euro, da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e ad azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’Intesa stabilisce le modalità di attuazione, i tempi di realizzazione degli interventi e il monitoraggio. Le Regioni concorreranno ai finanziamenti secondo le rispettive disponibilità. Le risorse saranno ripartite previa sottoscrizione con ogni Regione di un accordo della durata di 24 mesi con l’indicazione dei servizi socio educativi e le azioni da finanziare in favore degli anziani e della famiglia, individuate dalle Regioni in accordo con le Autonomie Locali. I decreti di riparto del 9 maggio 2012 ripartiscono fra le regioni i complessivi 70 milioni. Quanto alla procedura per l'erogazione dei finanziamenti, l'intesa del 2 febbraio prevede che le risorse siano trasferite, in unica soluzione, alle Regioni a seguito di specifica richiesta, nella quale sono indicate le azioni da realizzare. L'intesa del 19 aprile prevede, invece, che le risorse siano erogate in due tranches, rispettivamente del 60% e del 40%, a seguito della sottoscrizione di accordi attuativi tra il Dipartimento per le politiche della famiglia e le singole Regioni e previa approvazione di specifici programmi regionali di intervento e relativo assenso dell'Anci.
Come rinvenibile nella legge di bilancio 2013 (legge 229/2012), le risorse allocate nel Fondo per le politiche della Famiglia hanno una dotazione per il 2013 pari a 21 mln euro (nel 2012 era pari a 31,9 mln euro), 22,9 mln euro per il 2014, e 22,6 mln euro nel 2015.
L'analisi complessiva del Fondo resa dalla Corte dei Conti nella Relazione sul Fondo per le politiche della famiglia (Deliberazione n. 2/2012/G) indica, per un contesto di particolare complessità e rilevanza quale quello delle politiche per la famiglia, la forte esigenza di privilegiare un'ottica strutturale e non più frammentata dei bisogni della persona. La Corte rileva la mancanza di un'ottica “Top down”, in grado di indirizzare appropriatamente i progetti a finalità diffuse e, come tali, da portare a sistema, ai quali è stata preferita l'ottica “bottom up”, rivelatasi di scarsa incisività, sia per le dimensioni degli interventi nonché per la loro gestibilità a fattor comune. La Corte sottolinea inoltre la carenza di un sistema di valutazione effettiva dei progetti, laddove esso appare imprescindibile in un contesto politico ed economico come quello attuale italiano, in cui gli obiettivi urgenti da raggiungere sono pesantemente condizionati dalla limitatezza delle risorse a disposizione. Aspetti critici sono stati rilevati per l'attività dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia, in un contesto nel quale si è ancora in attesa del varo del Piano Nazionale della Famiglia.
Fondo nazionale per le politiche della famiglia (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale politiche per la famiglia |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto |
2009 |
186.571 |
186.571 |
100.000 |
3/02/2009 |
2010 |
185.289 |
174.288 |
100.000 |
20/20/2010 |
2011 |
52.446 |
25.062 |
- |
- |
2012 |
31.391 |
70.000 |
70.000 |
Intese 2 febbraio e 19 aprile 2012 |
Il Fondo per le politiche giovanili è stato istituito ai sensi dell’articolo 19, comma 2, del decreto-legge 223/2006, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una dotazione di 3 milioni di euro per l’anno 2006 e di dieci milioni di euro a decorrere dall’anno 2007. L’articolo 1, comma 1290, della legge finanziaria 2007 (L. 296/2006) incrementa il Fondo di 120 milioni di euro per gli anni 2007, 2008 e 2009. Successivamente l’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 78/2010 ha disposto dal 2011 una riduzione lineare del 10 per cento delle dotazioni finanziarie iscritte a legislazione vigente nell’ambito delle spese rimodulabili di cui all’articolo 21, comma 5, lettera b) della L. 196/2009.
Il Fondo è istituito al fine di promuovere il diritto dei giovani alla formazione culturale e professionale e all'inserimento nella vita sociale, anche attraverso interventi volti ad agevolare la realizzazione del diritto dei giovani all'abitazione, nonché per facilitare l'accesso al credito per l'acquisto e l'utilizzo di beni e servizi ed è destinato a finanziare azioni e progetti di rilevante interesse nazionale, nonché le azioni ed i progetti destinati al territorio, individuati di intesa con le Regioni e gli Enti Locali. Il decreto del 18 ottobre 2010 ha ripartito le risorse del Fondo per il 2010, pari a 81,087 milioni di euro, destinando alle azioni e ai progetti di rilevante interesse nazionale la somma di 33.181.019,40 euro e una quota di 47.905.980,60 euro al finanziamento delle azioni e dei progetti destinati al territorio, di cui 37.421.650,50 euro da ripartirsi fra le Regioni secondo i criteri indicati nell'Intesa sottoscritta nella Conferenza unificata del 7 ottobre 2010. I rimanenti 10.484.330,10 euro sono destinati a cofinanziare interventi proposti da Comuni e Province.
Per il 2011 il Fondo risulta ridotto legislativamente. Come illustrato nelle premesse del decreto 4 novembre 2011 di riparto del Fondo, al capitolo n. 853 del bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei Ministri denominato Fondo per le politiche giovanili inizialmente viene assegnata una dotazione finanziaria di 32,909 milioni di euro. Successivamente il Fondo viene ridotto di 20,122 milioni di euro risultando pari, per il 2011; a 12, 787 milioni di euro, di cui 10,941 milioni di euro destinati alle azioni e ai progetti sul territorio.
Per il 2012, la legge di stabilità 2012 ha assegnato al Fondo risorse pari a circa 8,2 milioni di euro, incrementate successivamente di circa 1,6 milioni di euro. Nel giugno 2012 sono stati trasferiti alle regioni 6,7 milioni di euro. Il decreto 7 novembre 2012 destina pertanto poco meno di 4 milioni di euro - di cui quota parte risultanti dalle economie derivanti dall'esercizio 2011 - a progetti e azioni di rilevante interesse nazionale.
Come rinvenibile nella Legge di bilancio 2013 (legge 229/2012), le risorse allocate nel Fondo per le politiche della gioventù risultano avere una dotazione per il 2013 corrispondente a 6,2 mln euro (nel 2012 era pari a 8,2 mln euro), 6,8 mln euro per il 2014 e 6,7 mln euro nel 2015.
Fondo nazionale per le politiche giovanili (migliaia di euro)
Anno |
Tabella C – Legge Finanziaria |
Fondo nazionale politiche giovanili |
Quota regioni e Province autonome |
Decreto riparto/Intesa |
2009 |
Finanziaria 2007 130.000 |
130.000. |
- |
- |
2010 |
81.087 |
81.087 |
37.421 |
Intesa 7/10/2010 |
2011 |
32.909 |
12.787 |
10.941 |
Decreto riparto 4/11/2011 |
2012 |
8.180 |
+ 1.661 assegnate con decreto del MEF n. 21910 del 24 maggio 2012; ; + 0, 849 quota parte delle economie risorse 2011 |
-6.783 trasferiti alle regioni con decreto n. 39761 in data 1° giugno 2012; 0,849 trasferiti alle province con il decreto di riparto |
Decreto riparto 7/11/2012 |
La carta acquisti, o social card, è stata istituita dall’articolo 81, comma 29, del decreto-legge 112/2008 che ha disposto la creazione di un Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti.
Ai sensi dell’articolo 81, comma 30, del decreto legge 112/2008, il Fondo è alimentato: a) dalle somme riscosse in eccesso dagli agenti della riscossione, ovvero dalla restituzione dei pagamenti effettuati in eccesso dai debitori dell’obbligazione tributaria iscritti a ruolo; b) dalle somme conseguenti al recupero dell’aiuto di Stato dichiarato incompatibile dalla decisione C(2008)869 def. dell’11 marzo 2008 della Commissione che riguarda gli incentivi fiscali a favore di taluni istituti di credito oggetto di riorganizzazione societaria; c) dal 5 per cento dell'utile netto annuale delle cooperative a mutualità prevalente; d) con trasferimenti dal bilancio dello Stato; e) con versamenti a titolo spontaneo e solidale effettuati da chiunque, ivi inclusi in particolare le società e gli enti che operano nel comparto energetico. Inoltre, l’articolo 61, comma 27, del D.L. 112/2008 inserisce nel corpo dell’articolo 1 della legge finanziaria 2006, il comma 345-bis che prevede che una quota parte del Fondo alimentato dall'importo dei conti correnti e dei rapporti bancari definiti dormienti all'interno del sistema bancario nonché del comparto assicurativo e finanziario sia destinata al Fondo Carta Acquisti. Il D.L. 155/2008 inserisce nel corpo dell’articolo 1 della legge finanziaria 2006 il comma 345-undecies che versa nel Fondo speciale Carta acquisti le somme derivanti dal recupero degli aiuti di Stato di cui alla decisione della Commissione europea del 16 luglio 2008, relativa all'aiuto di Stato C42/2006 (concernente benefici a favore delle attività bancarie di Poste Italiane Spa). Successivamente l’articolo 24, comma 29, della legge 88/2009, ridetermina il Fondo, integrandolo di 6 milioni di euro per l’anno 2009 e di 15 milioni di euro a decorrere dall’anno 2010. In ultimo, le risorse del Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti, sono state nuovamente integrate, ai sensi dell’articolo 24, comma 1, della legge 99/2009, con le risorse non impegnate al termine dell'esercizio finanziario 2008 e mantenute per l’anno 2009 nella disponibilità del fondo finalizzato ad iniziative a vantaggio dei consumatori, a sua volta costituito con le somme delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ex articolo 148 della legge 388/2000. Le risorse del Fondo affluiscono in un apposito conto corrente infruttifero presso la Tesoreria centrale dello Stato.
Il Decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 ha individuato i titolari del beneficio, l’ammontare del beneficio unitario e le modalità di fruizione dello stesso, prevedendo la stipula di convenzioni tra i ministeri interessati ed il settore privato. In base a tali criteri, la Carta acquisti viene concessa, con onere a carico dello Stato, ai richiedenti residenti con cittadinanza italiana che versano in condizione di maggior disagio economico, ovvero ai cittadini nella fascia di bisogno assoluto, di età uguale o superiore ai 65 anni o con bambini di età inferiore ai tre anni.
Per effetto delle disposizioni normative che regolano la Carta Acquisti, gli importi di reddito e l'indicatore ISEE che regolano l'accesso al contributo, per il 2013, sono perequati al tasso di inflazione ISTAT. Pertanto, a partire dall'1 gennaio 2013, il limite massimo del valore dell'indicatore ISEE e dell'importo complessivo dei redditi comunque percepiti sono così rideterminati:
La Carta, utilizzabile per il sostegno della spesa alimentare e sanitaria e per il pagamento delle spese energetiche, vale 40 euro al mese e viene caricata ogni due mesi con 80 euro, sulla base degli stanziamenti disponibili. L’articolo 19, comma 18, del decreto-legge 185/2008, ha inoltre riconosciuto, ai soggetti beneficiari della Carta acquisti, nel limite di spesa di 2 milioni di euro per l'anno 2009, l'accredito di un importo aggiuntivo mensile (pari a 25 euro) a titolo di concorso alle spese occorrenti per l'acquisto di latte artificiale e pannolini. In ultimo, è stato disposto, con decreto, l’accredito di un importo aggiuntivo mensile di 10 euro per i titolari della Carta Acquisti che siano utilizzatori, sul territorio nazionale, di gas naturale o GPL.
Per incrementare gli stanziamenti dedicati, il decreto-legge 98/2011 ha previsto che una quota pari al 3 per cento delle spese annue per la pubblicità dei prodotti di gioco, a carico dei concessionari relativamente al gioco del lotto, alle lotterie istantanee ed ai giochi numerici a totalizzatore, sia destinata al rifinanziamento della Carta acquisti.
Nel 2011 hanno beneficiato della carta acquisti oltre 535mila persone, per un importo complessivamente erogato pari a oltre 207 milioni di euro e 2.500 accrediti effettuati. Distinguendo la platea nelle sue due componenti di anziani (65 anni e oltre) e bambini (minori di 3 anni), nel complesso, i primi costituiscono circa il 49 per cento del totale, 419 mila soggetti a fronte di 438 mila bambini sotto i tre anni.
In ultimo, l’articolo 60 del decreto-legge 5/2012 ha ribadito l’avvio di una fase di sperimentazione, della durata non superiore ai dodici mesi nei comuni con più di 250.000 abitanti, sottolineando l’obiettivo di utilizzare la carta acquisti come strumento di contrasto alla povertà assoluta tra le fasce della popolazione in condizione di maggiore bisogno. Per le risorse necessarie alla sperimentazione si è provveduto, nel limite massimo di 50 milioni di euro. I comuni destinatari della sperimentazione, Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Venezia, Verona, Genova, Bologna, Bari, Catania e Palermo, potranno integrare le risorse loro assegnate vincolando l’utilizzo dei propri contributi a usi specifici, da definire con apposito protocollo d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Anche i soggetti privati che effettuerano versamenti a titolo spontaneo e solidale sul Fondo potanno vincolare l’utilizzo dei propri contributi a specifici utilizzi anche a supporto della Sperimentazione.
La nuova Carta acquisti sperimentale, rispetto alla Carta ordinaria, che continuerà comunque ad operare, è pensata e rimodellata per le famiglie numerose con una situazione economica estremamente difficile (ISEE in corso di validità inferiore o uguale a 3000 euro, conclamato disagio lavorativo e minori a carico).
Le modalità attuative, fra cui la decorrenza della sperimentazione, devono essere determinate da un decreto interministeriale che definirà i criteri di identificazione, per il tramite dei Comuni, dei beneficiari della social card con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati dell'Unione europea ovvero ai cittadini di Stati esteri in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo nonché l'ammontare, in funzione del nucleo familiare, della disponibilità sulle singole carte acquisto.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha varato l'11 gennaio 2013, il Decreto Interministeriale attuativo della carta acquisti 2013, ora all'esame della Corte dei Conti, in attesa pertanto di essere pubblicato sulla G.U..
Il decreto interministeriale dopo aver ribadito i criteri di identificazione, per il tramite dei Comuni, dei beneficiari della social card, stabilisce che gli stessi comuni, responsabili della selezione dei beneficiari dovranno stilare a tal fine, entro 120 giorni dall’entrata in vigore del decreto, una graduatoria. Gli enti locali, responsabili della selezione dei beneficiari, potranno utilizzare la nuova social card integrandola con gli interventi e i servizi sociali ordinariamente erogati, coordinandola in rete con i servizi per l’impiego, i servizi sanitari e la scuola.
In attesa della riforma dell’indicatore ISEE, i requisiti concernenti la condizione economica dei nuclei familiari beneficiari prevedono fra l’altro: un ISEE, in corso di validità, inferiore o uguale a euro 3.000; per i nuclei familiari residenti in abitazione di proprietà, valore ai fini ICI della abitazione di residenza inferiore a euro 30.000; patrimonio mobiliare, come definito ai fini ISEE, inferiore a euro 8.000; valore complessivo di altri trattamenti economici, anche fiscalmente esenti, di natura previdenziale, indennitaria e assistenziale, a qualunque titolo concessi dallo Stato o da altre pubbliche amministrazioni a componenti il nucleo familiare, inferiore a 600 euro mensili. Nessun componente il nucleo familiare deve inoltre risultare in possesso di autoveicoli immatricolati nei 12 mesi antecedenti la richiesta, ovvero in possesso di autoveicoli di cilindrata superiore a 1.300 cc, nonché motoveicoli di cilindrata superiore a 250 cc, immatricolati nei tre anni antecedenti. Le famiglie beneficiarie dovranno contare almeno un componente di età minore di 18 anni e la precedenza per l'accesso al beneficio sarà assegnata, a parità di condizioni, ai nuclei in condizioni di disagio abitativo, accertato dai competenti servizi del Comune nonché alle famiglie costituite esclusivamente da genitore solo e figli minorenni, con tre o più figli minorenni o con uno o più figli minorenni con disabilità. Per quanto riguarda i requisiti concernenti la condizione lavorativa, la Carta sperimentale viene assegnata in assenza di lavoro per i componenti in età attiva del nucleo familiare o per avvenuta cessazione di un rapporto di lavoro dipendente o autonomo. Ulteriori requisiti possono essere definiti dai comuni d’intesa con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il MEF.
La carta è modulata sulla base della numerosità del nucleo familiare. Il beneficio parte da un valore minimo di 231 euro al mese per nuclei con due persone, sale a 281 euro per quelli con tre persone, a 331 euro per quattro persone e a 404 euro se la famiglia ha cinque o più componenti.
Il decreto impegna i comuni a predisporre, per almeno metà e non oltre i due terzi dei nuclei familiari beneficiari, un progetto personalizzato di presa in carico, finalizzato al superamento della condizione di povertà, al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale. I comuni provvedono alla realizzazione dei progetti personalizzati con risorse proprie, nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziare disponibili a legislazione vigente e nell'ambito degli equilibri di finanza pubblica programmati. Il progetto di presa in carico è predisposto mediante la partecipazione dei componenti del nucleo familiare che lo sottoscrivono per adesione. La mancata sottoscrizione del progetto è motivo di esclusione dal beneficio.
Il Piano straordinario di interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi, approvato il 26 settembre 2007 in Conferenza Unificata, ha previsto un piano di finanziamenti, nel triennio 2007-2009, per conseguire entro il 2010 l'obiettivo comune europeo della copertura territoriale del 33 per cento per la fornitura di servizi per l’infanzia (bambini al di sotto dei tre anni), come fissato dall’Agenda di Lisbona. Il Piano, varato con la finanziaria 2007, ha previsto un finanziamento statale pari a 446 milioni di euro per l'incremento dei posti disponibili nei servizi per i bambini da zero a tre anni, a cui si sono aggiunti circa 281 milioni di cofinanziamento locale, per un totale di 727 milioni di euro stanziati. Con riferimento al Piano nidi triennale, risultano erogate il 96 per cento delle risorse statali stanziate per il Piano, ovvero 429 milioni dei 446 stanziati. L’attuazione del Piano è sottoposta a un monitoraggio semestrale a cura del Dipartimento per le politiche della famiglia e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che, attraverso il Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza e l’Istat predispongono rapporti e statistiche in materia.
Il 2 febbraio 2012 è stata sottoscritta un’Intesa in sede di Conferenza unificata sull’utilizzo di risorse da destinare al finanziamento di azioni per le politiche a favore della famiglia. I fondi, pari a 25 milioni di euro, spostati da precedenti capitoli di competenza statale del Fondo per le politiche familiari sono stati resi disponibili sui capitoli di pertinenza regionale e degli enti locali e messi a disposizione per garantire la continuità degli obiettivi di servizio relativi a: diffusione servizi per l’infanzia e presa in carico degli utenti dei servizi per l’infanzia (bambini 0-3 anni) e incremento della percentuale degli anziani beneficiari dell’assistenza domiciliare integrata (ADI) dall’1,6 per cento al 3,5 per cento. Le regioni concorrono al finanziamento per quanto nelle loro disponibilità. Ai sensi dell’articolo 4 dell’Intesa, l’utilizzo delle risorse è monitorato da un Gruppo paritetico composto da rappresentanti del Dipartimento per le politiche della famiglia, MEF, regioni e PA, ANCI e UPI.
Il 19 aprile 2012 è stata sancita, in sede di Conferenza unificata, una Intesa sull’utilizzo di risorse da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e azioni in favore degli anziani e della famiglia che ha stabilito i criteri di ripartizione delle risorse disponibili a valere sui capitoli di pertinenza Politiche della famiglia del bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per complessivi 45 milioni di euro, da destinarsi al finanziamento di servizi socio educativi per la prima infanzia e ad azioni in favore degli anziani e della famiglia. L’Intesa stabilisce le modalità di attuazione, i tempi di realizzazione degli interventi e il monitoraggio. Le Regioni concorreranno ai finanziamenti secondo le rispettive disponibilità. Le risorse saranno ripartite previa sottoscrizione con ogni Regione di un accordo della durata di 24 mesi con l’indicazione dei servizi socio educativi e le azioni da finanziare in favore degli anziani e della famiglia, individuate dalle Regioni in accordo con le Autonomie Locali.
Gli asili nido comunali rientrano nella gamma dei servizi a domanda individuale resi dal Comune a seguito di specifica domanda dell’utente. Nel caso degli asili nido, il livello minimo di copertura richiesta all’utente è del 50 per cento, ma le rette variano sensibilmente da comune a comune poiché la misura percentuale di copertura dei costi di tutti i servizi a domanda individuale da parte dell’utenza viene definita al momento dell’approvazione del Bilancio di previsione comunale. Le rette sono determinate nel 75 per cento dei casi in base all’Isee, nel 20 per cento dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5 per cento la retta è unica.
L’indagine dell’Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva del novembre 2012, prende in considerazione una famiglia composta da tre persone (genitori più un bambino di 0-3 anni) che percepisce un reddito lordo annuo pari a 44.200 euro. Oggetto della ricerca sono state le rette applicate al servizio di asilo nido comunale per la frequenza a tempo pieno (in media 9 ore al giorno) e, dove non presente, a tempo breve (in media 6 ore al giorno), per cinque giorni a settimana. Secondo tale analisi, una famiglia italiana spende circa 302 euro al mese per mandare il proprio bambino all’asilo nido comunale. Sebbene la spesa media annua a livello nazionale sia rimasta invariata rispetto all’anno precedente, si registrano invece numerose variazioni, in aumento ed in diminuzione, nelle varie aree territoriali del Paese. I costi medi più elevati appurati nell’anno scolastico 2011/12, si registrano nelle città settentrionali, con un aumento di oltre il 16 per cento rispetto all’anno precedente. Segue il Centro con un aumento del 6 per cento circa, mentre nelle aree meridionali si registra una diminuzione delle tariffe di oltre il 20 per cento. La regione mediamente più economica è la Calabria (114 euro) e quella più costosa è la Valle d’Aosta (413 euro) seguita dalla Lombardia (403 euro).
Per quanto riguarda le liste di attesa, dall’analisi di dati in possesso al Ministero degli Interni e relativi al 2009, emerge che il numero degli asili nido comunali ammonta a 3.424 (-0,4 per cento rispetto al 2008) con una disponibilità di 141.210 posti (+0,8 per cento rispetto al 2008). In media il 25 per cento dei richiedenti rimane in lista d’attesa.
Secondo quanto riportato dall’Istat, nell'anno scolastico 2010/2011 risultano iscritti agli asili nido comunali 157.743 bambini tra zero e due anni di età, mentre altri 43.897 bambini usufruiscono di asili nido convenzionati o sovvenzionati dai Comuni, per un totale di 201.640 utenti dell'offerta pubblica complessiva.
Nel 2010 la spesa impegnata per gli asili nido da parte dei Comuni o, in alcuni casi, da altri Enti territoriali delegati dai Comuni, è di circa 1 miliardo e 227 milioni di euro, al netto delle quote pagate dalle famiglie.
Gli asili nido e gli altri servizi socio-educativi per la prima infanzia rappresentano una componente importante dell’offerta pubblica di servizi sociali per i cittadini. Infatti, i Comuni spendono per questi servizi circa il 18 per cento delle risorse dedicate al welfare locale, per un totale di circa 1 miliardo e 273 milioni di euro nel 2010 (al netto delle quote pagate dalle famiglie).
Anche i cittadini concorrono al funzionamento del servizio, sostenendo una parte dei costi. Il contributo delle famiglie, sotto forma di rette versate ai Comuni, ammonta a 275 milioni di euro. Si rilevano inoltre circa 352 mila euro come compartecipazione alla spesa da parte del Servizio Sanitario Nazionale, per un totale di circa 1 miliardo e 502 milioni di spesa impegnata a livello locale.
Fra il 2004 e il 2010 la spesa corrente per asili nido, al netto della compartecipazione pagata dagli utenti, ha mostrato un incremento complessivo del 44,3 per cento, che scende al 26,9 per cento se calcolato a prezzi costanti. Nello stesso periodo è aumentato del 38 per cento (oltre 55 mila unità) il numero di bambini iscritti agli asili nido comunali o sovvenzionati dai Comuni.
Il rapporto fra la spesa sostenuta nell’arco di un anno e il numero degli utenti al 31 dicembre dello stesso anno fornisce un’indicazione approssimativa dei costi sostenuti dagli enti pubblici e dalle famiglie per questo tipo di servizio. in media, per ciascun utente, si ottiene una spesa di 6.086 euro a carico dei comuni e di 1.362 euro da parte delle famiglie, per un totale di 7.448 euro impegnati per bambino nel 2010.
La spesa per asili nido comprende anche i contributi e le integrazioni alle rette pagati dai Comuni per gli utenti di asili nido privati, convenzionati o sovvenzionati dal settore pubblico. In questo caso la spesa media per utente è decisamente inferiore rispetto ai costi di funzionamento delle strutture comunali.
La percentuale di Comuni che offrono il servizio di asilo nido, sotto forma di strutture comunali o di trasferimenti alle famiglie che usufruiscono delle strutture private, ha registrato un progressivo incremento: dal 32,8 per cento del 2003/2004 al 47,4 per cento del 2010/2011. Di conseguenza, i bambini tra zero e due anni che vivono in un Comune che offre il servizio sono passati dal 67 per cento al 76,8 per cento (indice di copertura territoriale). E’ da sottolineare che entrambi gli indicatori mostrano una lieve riduzione nell’ultimo anno.
Nonostante il generale ampliamento dell'offerta pubblica, la quota di domanda soddisfatta è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0 per cento dei residenti tra zero e due anni dell'anno scolastico 2003/2004 all'11,8 per cento del 2010/2011.
All'offerta tradizionale di asili nido si affiancano i servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia, che comprendono i "nidi famiglia", ovvero servizi organizzati in contesto familiare, con il contributo dei Comuni e degli enti sovracomunali. Nel 2010/2011 il 2,2 per cento dei bambini tra zero e due anni ha usufruito di tale servizio, quota che è rimasta pressoché costante nel periodo osservato. Questi servizi non sono particolarmente diffusi sul territorio nazionale, ma rappresentano una realtà significativa in alcuni contesti, come nella Provincia di Bolzano, dove si trovano i livelli più alti di utilizzo di queste strutture in termini di presa in carico degli utenti (13,4% dei bambini fra 0 e 2 anni). Per quanto riguarda la loro distribuzione territoriale, i Comuni che hanno attivato servizi integrativi si riducono drasticamente passando dal Nord-est (26,9%) alle Isole (10,7%). Complessivamente, dunque, risulta pari al 14 per cento la quota di bambini che si sono avvalsi di un servizio socio-educativo pubblico e al 55,2 per cento quella di Comuni che offrono asili nido o servizi integrativi per la prima infanzia.
A livello comunale, nonostante i segnali di miglioramento che caratterizzano la diffusione sul territorio dell’offerta pubblica di servizi per la prima infanzia, permangono forti disparità nelle opportunità di accesso ai servizi a seconda della regione di residenza.
Il Nord-est mantiene livelli superiori rispetto al resto d’Italia, con un incremento continuo dell’offerta comunale che porta l’indicatore di presa in carico al 16,8% nel 2010/2011. L’Emilia-Romagna, in particolare, conserva il primato per la diffusione degli asili nido in termini di numerosità degli utenti (pari al 25,4% dei bambini tra zero e due anni), mentre, con il Friuli-Venezia Giulia e la Valle D’Aosta, è fra le regioni in cui è maggiormente presente il servizio in termini di percentuale di comuni coperti.
Nelle regioni del Centro si è registrato un aumento considerevole dell’offerta, dovuto prevalentemente all’Umbria e al Lazio. Nel primo caso la crescita è significativamente elevata a partire dal 2008 in conseguenza del potenziamento dei contributi erogati dai comuni per l’abbattimento delle rette, consentendo alla regione di conseguire uno dei più alti indicatori di presa in carico (22,3%). Il Lazio, invece, mostra un incremento graduale negli anni osservati. In termini di bambini iscritti su 100 residenti fra zero e due anni, i comuni del centro Italia oltrepassano dal 2004/2005 la media del Nord-ovest e nel 2010/2011 raggiungono valori molto vicini alla media del Nord-est.
Permangono decisamente inferiori alla media nazionale i parametri riscontrati per le regioni del Sud e per le Isole, dove il lievissimo ma continuo incremento dell’offerta osservato a partire dal 2003/2004 sembra subire un arresto nell’ultimo anno.
Nella maggior parte delle regioni nel 2010/2011 si registra una diminuzione della quota di bambini iscritti in rapporto ai residenti (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria). La Sicilia e la Campania mostrano invece variazioni di segno positivo ma di poco rilievo, mantenendo quindi livelli di presa in carico molto contenuti (5,2% e 1,9% rispettivamente). La Sardegna, con un ulteriore incremento della presa in carico degli utenti (da 10,9% a 13,6%), si distanzia decisamente dai valori osservati nel resto del Mezzogiorno.
Dal punto di vista dell’assetto organizzativo, l’offerta degli asili nido è gestita quasi interamente dai Comuni singoli (97,7%); la gestione in forma associata fra Comuni limitrofi riguarda quindi il 2,3% della spesa impegnata complessivamente. Fra le forme associative che concorrono all’erogazione dei servizi sul territorio vi sono le Unioni di Comuni, gli Ambiti e i Distretti sociali, le Comunità montane, le ASL, i Consorzi di Comuni e altre forme associative, con modelli organizzativi variabili a livello regionale.
Rispetto al resto d’Europa, l’Italia si distingue per una serie di fattori combinati: la bassa natalità, il forte invecchiamento della popolazione, l’età più avanzata a cui si arriva al matrimonio e anche al primo figlio nonché la permanenza dei figli, già adulti, all’interno della famiglia d’origine.
Al 1° gennaio 2012, la struttura per età della popolazione italiana ci parla di un paese con un elevato livello di invecchiamento: la fascia di età compresa tra 0-14 anni è pari al 14 per cento, quella fra i 15-64 anni al 65,3 per cento, mentre la fascia di età dei 65 anni e oltre risulta pari al 20,6 per cento. I dati del 2009 e del 2010 confermano che è nuovamente in atto una fase di calo delle nascite: circa 15 mila in meno in due anni.
In base ai dati forniti dall’Istat, nel sito dedicato Disabilità in cifre , nel 2005 le persone in condizione di disabilità assistite in famiglia erano circa 2.600.000 (pari al 4,8 per cento della popolazione), cui si aggiungevano 200.000 disabili minori di 6 anni, mentre erano 192.000 i disabili o gli anziani non autosufficienti ospiti nei presidi residenziali socio-assistenziali, facendo ritenere che complessivamente in una famiglia su dieci vivesse almeno un componente con problemi di disabilità.
Secondo stime più recenti, Fondazione Cesare Serono e Censis , nel 2010, la quota di persone con disabilità sul totale della popolazione risulta pari al 6,7%: circa 4,1 milioni di persone. Applicando a questo dato il tasso di crescita della popolazione disabile previsto dall’Istat, si prevede che nel 2020 le persone disabili arrivino a 4,8 milioni (7,9% della popolazione), e che il numero raggiunga i 6,7 milioni nel 2040 (10,7%).
Se si considera la correlazione fra invecchiamento e non autosufficienza, l’Indagine Istat del 2005, Condizione di salute e ricorso ai servizi sanitari , ha poi rilevato che il 18,5% degli ultra 65enni (2,1 milioni di persone) riporta una condizione di totale mancanza di autosufficienza per almeno una delle funzioni essenziali della vita quotidiana.
Per arrivare a rilevazioni più recenti, può essere utile riferirsi all’indagine Istat Inclusione sociale delle persone con limitazioni dell’autonomia personale del dicembre 2012. Lo studio rileva che nel 2011 circa 4 milioni di persone di 11-87 riferiscono difficoltà nelle funzioni motorie, sensoriali o nelle attività essenziali della vita quotidiana. La maggior parte di esse riferisce di avere limitazioni gravi (52,7%), ovvero il massimo grado di difficoltà, in almeno una delle funzioni della mobilità e della locomozione legate agli atti necessari a determinare un autonomo svolgimento della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, spogliarsi, mangiare, ecc) o della comunicazione (vedere, sentire, parlare). Oltre la metà (51,5%) ha più di 75 anni.
Attualmente, la spesa pubblica rivolta agli anziani e ai disabili non autosufficienti, nota anche come spesa per Long Term Care (LTC), include la componente sanitaria, la spesa per indennità di accompagnamento e la spesa per gli interventi socio-assistenzialierogati prevalentemente in natura a livello locale dai comuni singoli o associati a favore degli anziani non autosufficienti, dei disabili, dei malati psichici e delle persone dipendenti da alcool e droghe.
Nel 2011, la spesa pubblica complessiva per LTC ammonta all’1,8per cento del PIL, di cui circa due terzi erogata a soggetti con più di 65 anni. In termini relativi, la componente sanitaria della spesa totale per LTC rappresenta il 46 per cento del totale contro quasi il 43 per cento della spesa per indennità di accompagnamento. Le altre prestazioni assistenziali coprono, invece, circa il 11 per cento.
Nelle previsioni di medio lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, la Ragioneria generale dello Stato fornisce indicazioni circa il volume della spesa dedicata alla componente sanitaria della spesa per LTC comprendente l’insieme delle prestazioni sanitarie erogate a persone non autosufficienti che, per senescenza, malattia cronica o limitazione mentale, necessitano di assistenza continuativa. La componente sanitaria della spesa pubblica per LTC dell’anno 2011 è pari allo 0,85% del PIL, che corrisponde a circa il 12% della spesa sanitaria complessiva.
La Ragioneria generale evidenzia come nei modelli previsionali la componente demografica costituisca un fattore di forte espansione del rapporto fra spesa sanitaria per LTC e PIL. L’invecchiamento della popolazione, ed il conseguente aumento degli anziani, si traduce infatti in un maggior consumo di prestazioni riconducibili all’aggregato LTC.
La componente sanitaria della spesa per LTC comprende l’insieme delle prestazioni sanitarie erogate a persone non autosufficienti che, per senescenza, malattia cronica o limitazione mentale, necessitano di assistenza continuativa. In Italia, tale componente include, oltre all’assistenza territoriale rivolta agli anziani e ai disabili (disarticolata in assistenza ambulatoriale e domiciliare, assistenza semi-residenziale ed assistenza residenziale), l’assistenza psichiatrica, l’assistenza rivolta agli alcolisti e ai tossicodipendenti e l’assistenza ospedaliera erogata in regime di lungodegenza.
Oltre alla spesa per la componente sanitaria, viene considerata la spesa per un insieme di prestazioni eterogenee accomunate solo sotto il profilo della finalità perseguita. Una misura della dimensione di tale componente di spesa, indicata come altre prestazioni LTC, può essere dedotta dai conti della protezione sociale della contabilità nazionale. In particolare, le principali poste contabili attribuibili a queste prestazioni si collocano nella funzione “Assistenza” in corrispondenza dei due eventi/bisogni “Invalidità” e “Vecchiaia”.
Le prestazioni in natura erogate prevalentemente in natura a livello locale dai comuni singoli o associati a favore degli anziani non autosufficienti, dei disabili, dei malati psichici e delle persone dipendenti da alcool e droghe possono essere di tipo residenziale o semiresidenziale. Le prime vengono erogate in istituti quali le residenze socio sanitarie per anziani o le comunità socio-riabilitative, le seconde si riferiscono alle prestazioni erogate in strutture semiresidenziali come i centri diurni e i centri di aggregazione o direttamente presso l’abitazione dell’assistito (assistenza domiciliare).
Per il 2011, la spesa pubblica relativa all’insieme delle prestazioni per LTC, di natura non sanitaria e non riconducibili alle indennità di accompagnamento, viene stimata intorno a 3,3 miliardi di euro (0,2 per cento in termini di PIL), di cui il 60 per cento è riferibile a prestazioni di natura non-residenziale, il 23 per cento a prestazioni di natura residenziale ed il rimanente 17 per cento a trasferimenti in denaro.
I trasferimenti in denaro possono essere sia i contributi economici erogati direttamente agli utenti, sia i contributi erogati ad altri soggetti perché forniscano servizi con agevolazioni sui ticket, sulle tariffe o sulle rette a particolari categorie di utenti. Rientra in questa sezione anche l’integrazione (o il pagamento per intero) delle rette per prestazioni residenziali o semiresidenziali in strutture di cui il comune non sia titolare. Pertanto sono una quota, peraltro residuale, dei trasferimenti in denaro corrisponde a prestazioni sociali in denaro, in quanto la parte preponderante afferisce a prestazioni sociali in natura.
La carenza di servizi pubblici rivolti agli anziani fragili ha molto spesso determinato l’assegnazione alle famiglie del carico assistenziale e di cura necessario per la sopravvivenza dell’anziano non autosufficiente. Sono ancora le donne, nonostante molte di loro lavorino, ad assumersi la responsabilità di provvedere a tutte le funzioni necessarie per il soddisfacimento dei bisogni primari (igiene personale, alimentazione, sostegno nel movimento) del parente od affine spesso nemmeno convivente. Il Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno sottolinea come “un sistema di welfare basato prevalentemente sulle reti familiari, sull’aiuto tra generazioni di madri e figlie, e sul lavoro gratuito delle donne, che supplisce alle debolezze del welfare pubblico, sia nel lungo periodo improponibile”.
Il quadro demografico evidenzia pertanto la necessità di porre particolare attenzione alle politiche dedicate alla non autosufficienza, sia sotto il profilo sanitario che dell’integrazione sociosanitaria e prettamente sociale.
Lâ€articolo 22, comma 2, della legge quadro 328/2000 di riforma del sistema integrato di servizi ed interventi sociali indica gli interventi che costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale. Ferme restando le competenze del SSN in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, per la non autosufficienza vengono indicate: misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio e interventi per favorire la permanenza a domicilio o, per coloro che non siano assistibili a domicilio, interventi per l'inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l'accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali. In relazione a quanto indicato, le leggi regionali hanno previsto per ogni ambito territoriale l'erogazione delle prestazioni riferibili all’assistenza domiciliare e alle strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti fragili.
Per un analisi più puntuale delle varie componenti della rete di servizi per l'autosufficienza si rinvia all'Indagine pilota sull’offerta dei servizi sociali per la non autosufficienza.
Il Rapporto annuale Istat 2012, ci fornisce una fotografia puntuale dell’assistenza domiciliare integrata (Adi), ovvero della presa in carico di pazienti a domicilio per prestazioni di medicina generale, di medicina specialistica, per prestazioni infermieristiche e riabilitative, ma anche per prestazioni di assistenza sociale. Le cure domiciliari sono particolarmente utilizzate e considerate efficaci in persone compromesse nel grado di autonomia per malattia o disabilità: i pazienti post-acuti dimessi dall’ospedale che corrono rischi elevati di una nuova ospedalizzazione, i pazienti cronici, i pazienti oncologici, gli adulti affetti da gravi patologie e, naturalmente, gli anziani. Gli anziani sono la tipologia numericamente più consistente di pazienti in carico, considerato che da studi longitudinali è emerso che il 75% dei pazienti è di età superiore ai 74 anni. D’altra parte, il numero di anziani trattati per 100 residenti di 65 anni e oltre è andato fortemente aumentando nel tempo, passando da 2,0 nel 2001 a 4,1 nel 2010.
Le prestazioni residenziali sono individuate dal D.P.C.M. 14 febbraio 2001, atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie, e dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 di determinazione dei Livelli essenziali di assistenza, che nell’allegato 1.C evidenzia, per le singole tipologie erogative di carattere socio sanitario, accanto al richiamo alle prestazioni sanitarie anche quelle sanitarie di rilevanza sociale ovvero le prestazioni nelle quali la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo a carico del SSN non inferiore al 50% del costo globale della prestazione. La restante quota rimane a carico dell'utente o del Comune.
La recente indagine dell’Istat sui Presidi socio-assistenziali e socio sanitari fotografa la situazione italiana nel 2010. A quella data, i presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari sono 12.808, per complessivi 424.705 posti letto (7 ogni 1.000 persone residenti). La componente prevalente dell'offerta residenziale è rappresentata da "unità di servizio" che svolgono una funzione di tipo socio-sanitario e sono destinate ad accogliere prevalentemente anziani non autosufficienti, che occupano oltre i due terzi dei posti letto (72%). La restante quota dell'offerta è di tipo socio-assistenziale.
Come avviene per i servizi socio-educativi, si riscontrano forti differenze nella diffusione territoriale, con le regioni del Nord in cui si colloca il 66% dei posti letto complessivi, con un tasso di 10 posti letto ogni 1.000 residenti; e il Sud dove la quota di offerta è pari a 3 posti letto ogni mille residenti.
Nei presidi residenziali sono assistite 394.374 persone: circa 295 mila sono anziani con almeno 65 anni (il 75%), poco più di 80 mila sono adulti tra i 18 e i 64 anni (20%) e circa 19 mila sono minori con meno di 18 anni (5%).
Gli anziani hanno, nella metà dei casi, oltre 85 anni, mentre il 74% degli ospiti anziani risulta in condizioni di non autosufficienza. Molto sbilanciato il rapporto tra generi: su circa 295 mila anziani ospiti dei presidi residenziali, oltre 220 mila sono donne.
Nel 70% dei casi i titolari di queste strutture residenziali sono enti privati. In oltre i due terzi delle residenze sono gli stessi titolari a gestire direttamente il presidio. I titolari pubblici che non gestiscono direttamente le strutture si affidano più frequentemente ad altre istituzioni pubbliche nel Nord (53% dei casi), mentre nel Centro e nel Mezzogiorno affidano la gestione più spesso al settore privato (rispettivamente nel 54% e nell'83% dei casi).
Nel 2009 i Comuni italiani, in forma singola o associata, hanno destinato agli interventi e ai servizi sociali 7,2 miliardi di euro, un valore pari allo 0,46 per cento del Pil nazionale.
Il seguente paragrafo è una sintesi del Capitolo 4.3.2 del Rapporto annuale 2012 dell’Istat , dedicato agli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati nel 2009. La spesa per gli interventi e per i servizi sociali offerti dai Comuni singolarmente o in forma associata, viene calcolata al netto delle quote pagate dagli utenti per i servizi fruiti e della quota, erogata dal Servizio Sanitario Nazionale, per la componente sanitaria dell’assistenza fornita dai Comuni. Per ottenere l’ammontare complessivo della spesa corrente a livello locale per il funzionamento della rete territoriale dei servizi, si devono quindi sommare ai 7,2 miliardi di euro a carico dei Comuni (o degli enti gestori da loro delegati), le spese a carico degli utenti e le quote di compartecipazione pagate dall’SSN.
Rispetto al 2008, la spesa è aumentata del 5,1 per cento, ma con forte differenze nelle macro aeree del Paese: è diminuita dell’1,5 per cento al sud, mentre le variazioni in tutte le altre zone del paese sono state di segno positivo (6,0 per cento nel Nord-est, 4,2 per cento nel Nord-ovest e 5,0 per cento al Centro). Inoltre, mentre i comuni del Centro-Nord finanziano le politiche sociali principalmente con risorse proprie, nel Mezzogiorno il welfare locale risulta finanziato in misura maggiore dai trasferimenti statali e regionali per le politiche sociali.
La spesa media pro capite ammonta a 116 euro con forti differenze territoriali. La spesa per abitante varia da un minimo di 26 euro in Calabria (30 euro nel 2008) a un massimo di 295 euro nella provincia autonoma di Trento (280 euro nel 2008). Nel corso del 2009 i comuni del Sud hanno speso mediamente, per i servizi sociali, meno di un terzo di quanto hanno speso i comuni del Nord-est e meno della metà rispetto a tutte le altre ripartizioni, comprese le Isole. La Sardegna è l’unica regione del Mezzogiorno che fa eccezione, presentando livelli di spesa pro capite (199 euro) paragonabili a quelli delle regioni del Nord con spesa più elevata.
Come già detto, i Comuni possono rispondere in maniera molto diversa ai bisogni sociali dei cittadini. L’Istat , tenendo conto dei livelli di spesa e della varietà dei servizi, ha individuato quattro profili principali rispetto alle modalità di spesa ed intervento:
Le differenze di spesa osservate sono marcate anche in riferimento ai tipi di utenza.
Un disabile usufruisce di servizi e contributi da parte dei comuni per una spesa annuale di quasi 2.700 euro; con un minimo per i disabili residenti al Sud di 667 euro l’anno; circa otto volte meno di quanto si spende al Nord-est (5.438 euro l’anno). Nell’ambito dell’assistenza ai disabili prevalgonole spese per interventi e servizi (circa il 51 per cento): in questo caso, la principale voce di spesa è il sostegno socio-educativo scolastico, con oltre 5.300 euro per utente in un anno; seguono i servizi a carattere domiciliare e il trasporto sociale. La rimanente spesa per le persone disabili si divide quasi equamente tra contributi economici e spese di funzionamento delle strutture. L’offerta di strutture di tipo residenziale per persone con disabilità è presente nel 58 per cento dei comuni, con una copertura del 97 per cento nel Nord-est a fronte del 14 per cento nel Sud. La spesa pro capite per l’assistenza e gli aiuti alle persone con disabilità al Sud ammonta al 14 per cento di quella impegnata al Nord, nonostante che nelle regioni meridionali si registri un tasso di disabilità superiore del 66 per cento.
La spesa media dei comuni italiani per l’assistenza agli anziani è di 117 euro l’anno per ciascun residente di età superiore a 65 anni, con un minimo di 52 euro pro capite al sud (sette euro pro capite in meno rispetto al 2008) e un massimo di 164 euro al Nord-est. Le risorse destinate agli anziani sono in gran parte destinate a interventi e servizi (circa il 52 per cento), il più rilevante dei quali è l’assistenza domiciliare. Vi sono poi diversi tipi di contributi economici (pari al 27 per cento della spesa per gli anziani), la maggior parte dei quali riferibile al pagamento di rette per l’accoglienza in strutture residenziali. Il rimanente 20 per cento della spesa per gli anziani è destinato al finanziamento di strutture, principalmente a carattere residenziale. Anche in questo caso la spesa pro capite al sud è più bassa di quella del nord (meno di un terzo), pur a fronte di un maggior numero di anziani in cattiva salute e una speranza di vita più bassa.
Nell’area dell’assistenza a famiglie e minori, su cui confluisce quasi il 40 per cento della spesa sociale dei comuni, prevalgono le risorse destinate al funzionamento di strutture, principalmente gli asili nido per bambini da zero a due anni. Negli ultimi anni l’ampliamento dell’offerta di nidi pubblici è stata oggetto di importanti politiche di sviluppo volte a incentivare la creazione di nuovi posti in strutture socio-educative per la prima infanzia nelle regioni del mezzogiorno, tradizionalmente e fortemente svantaggiate dal punto di vista della diffusione territoriale dei servizi.
Come sottolineato dal Rapporto annuale Istat per il 2012, negli anni della recente crisi, permane e si aggrava il forte differenziale Nord-Sud. Nel Mezzogiorno, le opportunità lavorative per le donne e i giovani sono minori e forti differenziali si rilevano anche nella dotazione dei servizi sociali erogati dai comuni, quali gli asili nido e l’assistenza fornita ai non autosufficienti.
In tale contesto, si è ritenuto che la politica regionale di sviluppo, a cui fa riferimento il Quadro Strategico Nazionale (QSN), previsto formalmente dall’art. 27 del Regolamento Generale sui Fondi strutturali europei, possa dare un forte contributo alla riduzione della persistente sottoutilizzazione di risorse del Mezzogiorno.
La politica regionale di sviluppo è specificatamente diretta a garantire che gli obiettivi di competitività siano raggiunti da tutti i territori regionali, anche e soprattutto da quelli che presentano squilibri economico-sociali ed è cofinanziata da fondi, comunitari e nazionali, provenienti, rispettivamente, dal bilancio europeo per la politica di coesione (Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR), Fondo sociale europeo (FSE) e Fondo di coesione) e nazionali (Fondo per le aree sottoutilizzate. ora sostituito dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC) ).
Nel corso del 2011 è stata avviata, di intesa con la Commissione Europea, l'azione per accelerare l'attuazione dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013. Dopo la prima fase, varata il 15 dicembre 2011, relativa ai fondi gestiti dalle Regioni (3,7 miliardi di riprogrammazione a favore di istruzione, ferrovie, formazione, agenda digitale e occupazione di lavoratori svantaggiati), è stata predisposta la Fase II che ha impegnato le amministrazioni centrali e locali a rilanciare i programmi in grave ritardo, garantendo una forte concentrazione delle risorse su alcune priorità. In totale, le risorse impegnate, già iscritte in bilancio, sono pari a 2,3 miliardi di euro. La riprogrammazione ha riguardato primariamente quattro Regioni Convergenza (Calabria, Campania, Sicilia, Puglia), per le quali il Quadro Strategico nazionale 2007-2013 prevede Programmi operativi nazionali e interregionali.
La riprogrammazione dei fondi comunitari ha previsto il definanziamento degli interventi con criticità di attuazione e il finanziamento di interventi rivolti all'inclusione sociale e alla crescita, rispondendo in tal senso anche agli impegni contenuti nelle Mozioni concernenti iniziative per favorire gli interventi produttivi e l'occupazione nel mezzogiorno approvate a larga maggioranza dalla Camera dei Deputati il 28 marzo 2012.
La riallocazione delle risorse si è fra l’altro concentrata sulla cura dell’infanzia (400 milioni) e degli anziani non autosufficienti (330 milioni). L’intervento intende ampliare l’offerta della rete dei servizi e degli interventi sociali nel sud del paese, migliorando al contempo la qualità di quelli già presenti. Il programma è stato costruito sulla base di metodi, requisiti e filiere di attuazione (con un ruolo centrale degli enti locali, nonché del privato sociale e del privato) già sperimentati ed è coerente con gli indirizzi nazionali nei campi sanitario e sociale. Obiettivi e risultati sono misurati dagli obiettivi del QSN 2007-2013, che, per quanto riguarda i servizi di cura per l’infanzia e gli anziani, indicano come obiettivo prioritario l’aumento del numero dei servizi di cura alla persona, l’alleggerimento dei carichi familiari e la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Per i giovani sono previsti una serie di interventi combinati. Per l’inclusione sociale si è scelto di intervenire con azioni per la legalità in aree a elevata dispersione scolastica (77 milioni di euro) e con progetti promossi da giovani del privato sociale per l’offerta di servizi collettivi e la valorizzazione di beni pubblici (37,6 milioni). Per la crescita sono stati destinati 50 milioni di euro all’autoimpiego e auto imprenditorialità, ulteriori 50 milioni per l’apprendistato e 5,3 milioni di euro per la promozione di metodi applicati di studio/ricerca nelle Università attraverso ricercatori italiani all’estero.
La terza e ultima fase di riprogrammazione, pari a 5,7 miliardi di euro, riguarda, per l’area Convergenza, i Programmi regionali di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Mentre nella prima e seconda riprogrammazione si sono privilegiati obiettivi di riequilibrio strutturale (scuola, reti ferroviarie e digitali, servizi di cura, etc.), nella terza si è posta l’attenzione, su sollecitazione delle parti economiche e sociali, a misure anticicliche e misure rivolte alla salvaguardia di singoli progetti in ritardo, ma meritevoli di finanziamento. Agli interventi indirizzati all’aiuto alle persone con elevato disagio sociale sono stati destinati 143,7 milioni di euro. L’intervento originario, proposto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, intendeva estendere a tutte le Regioni Convergenza la sperimentazione della nuova social card . Solo la Regione Siciliana ha deciso di utilizzare questo strumento; la Calabria rifinanzierà i bandi per case accessibili, centri antiviolenza, centri accoglienza immigrati; la Campania e la Puglia invece sosterranno le persone con elevato disagio sociale attraverso l’erogazione di voucher per l’acquisto di servizi di conciliazione vita-lavoro (prima infanzia e non autosufficienze).
L’accordo politico raggiunto nel febbraio 2013 dal Consiglio europeo in merito al Bilancio (Quadro Finanziario Pluriennale) europeo 2014-2020 offre una prima base di riferimento finanziaria per avviare la programmazione dei fondi per la politica di coesione per l’Italia. L’utilizzo dei Fondi comunitari per la coesione e del relativo cofinanziamento nazionale avverrà sulla base di un “Accordo di partenariato” e di Programmi operativi da concordare con la Commissione Europea. Il 27 dicembre 2012 il Ministro per la Coesione Territoriale, d’intesa con i Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha presentato il documento Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2012-2020 che intende avviare il confronto pubblico per preparare l’Accordo e i Programmi, secondo la proposta di percorso trasmessa alla Conferenza Stato Regioni nel giugno 2012. Il testo illustra le 7 innovazioni relative al metodo di valutazione pubblica aperta, le 3 opzioni strategiche su Mezzogiorno, città e aree interne, oltre a proposte di metodo per ognuna delle 11 aree tematiche europee.
La parte del documento dedicata all'Inclusione sociale e lotta alla povertà propone le seguenti azioni per promuovere l'inclusione sociale e combattere la povertà:
Per promuovere servizi integrati a sostegno dei senza dimora si propone:
Per il potenziamento del sistema informativo delle prestazioni sociali, ritenuto di grande importanza per la mappatura e il futuro sviluppo dei servizi sociali, si prevede:
Per promuovere l’economia sociale e le imprese sociali si intende proseguire quanto già sperimentato con il Piano di Azione Coesione attraverso:
Per promuovere l’economia sociale e il terzo settore si propone:
Il documento ricorda inoltre come le persone a rischio di povertà, la proporzione di persone in situazione di grave deprivazione materiale e di quelle che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa siano drammaticamente aumentate in questi anni di severa crisi economica. Il Rapporto Caritas 2012 su povertà ed esclusione sociale in Italia fotografa l’estensione dei fenomeni di impoverimento ad ampi settori di popolazione, non sempre coincidenti con i poveri del passato. Nell'ottobre 2012, l'Istat ha stimato in 47.648 le persone senza dimora che nei mesi di novembre-dicembre 2011 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l'indagine Le persone senza dimora.
In tale panormana, il Regolamento 121/2012 ha ribadito l'importanza della fornitura di beni alimentari alle fasce di popolazione indigente da realizzarsi nel territorio dell'Unione. In Italia, l'articolo 58 del decreto legge 83/2012 ha istituito, presso l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, il Fondo per la distribuzione di derrate alimentari alle persone indigenti, alimentato da risorse pubbliche e private, mediante erogazioni liberali e donazioni. Il decreto 17 dicembre 2012 ha reso attuative tali disposizioni. A tal fine ha disposto il potenziamento del sistema di aiuti alimentari, incrementando i volumi e le tipologie di derrate alimentari già oggi rese disponibili per il tramite delle Organizzazioni caritatevoli e non profit. Per ottimizzare il cordinamento tra i soggetti coinvolti, è stato istituito, presso il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, un Tavolo permanente di coordinamento tra Istituzioni, Organizzazioni caritatevoli e operatori della filiera agroalimentare. Per rendere più funzionale la distribuzione delle derrate, è stato anche istituito un sistema informativo e un sistema di riconoscimento per i soggetti donatori.
Il ddl di delega per la revisione del sistema fiscale presentato dal Governo il 18 giugno 2012 (A.C. 5291) è stato approvato in prima lettura dalla Camera, che lo ha modificato in modo significativo accorpandolo in 4 articoli. Tuttavia il Senato non ha concluso l'iter del provvedimento entro il termine della legislatura.
Nel corso della legislatura sono stati presentati due disegni di legge delega in materia fiscale, A.C. 4566 e A.C. 5291-A.S. 3519, il cui iter parlamentare non si è tuttavia concluso. Alcuni degli interventi proposti sono peraltro confluiti in decreti-legge o altri provvedimenti (la tassazione dei redditi di natura finanziaria, l'introduzione di un aiuto alla crescita economica - ACE, la rimodulazione delle aliquote IVA e accise, la revisione della riscossione degli enti locali, gli interventi in materia di semplificazione, ecc). Per una analisi delle misure adottate si rinvia al relativo approfondimento.
Il disegno di legge A.C. 5291 reca una delega al governo ad adottare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore del disegno di legge in commento, uno o più decreti legislativi, recanti la revisione del sistema fiscale. Tale delega è volta a perseguire gli stessi obiettivi di crescita ed equità già messi in campo attraverso il decreto-legge n. 201 del 2011 (cosiddetto SalvaItalia); non si pone quindi come un intervento radicale, volto ad attuare un particolare modello teorico di tax design, ma intende intervenire per correggere alcuni aspetti critici del sistema per renderlo più favorevole alla crescita e all’equità.
Nel corso dell’esame in sede referente, l’originario testo di 17 articoli, ha subito numerose modifiche ed è stato accorpato in 4 articoli, concernenti, oltre alle procedure di delega (articolo 1), la revisione del catasto dei fabbricati nonché norme in materia di evasione ed erosione fiscale (articolo 2), la disciplina dell'abuso del diritto ed elusione fiscale, norme in materia di tutoraggio, semplificazione fiscale e revisione del sistema sanzionatorio, la razionalizzazione organizzativa dell’Amministrazione finanziaria, nonché la revisione del contenzioso e della riscossione degli enti locali (articolo 3). Infine, l’articolo 4 concerne la revisione dell'imposizione sui redditi di impresa e la previsione di regimi forfetari per i contribuenti di minori dimensioni, nonché la razionalizzazione della imposte indirette e del sistema dei giochi. L’articolo 14 in materia di tassazione ambientale è stato soppresso, in considerazione del fatto che la proposta di direttiva sulla tassazione dell’energia (COM(2011)169) in discussione a livello europeo, che mira ad adeguare i meccanismi del mercato interno alle nuove esigenze ambientali, non è ancora stata approvata in via definitiva.
In particolare, è stato riformulato l’articolo 1, al fine di includervi, tra i principi di delega, il rispetto dei principi dello Statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge 27 luglio 2000, n. 212, con particolare riferimento al principio di irretroattività delle norme tributarie, e la necessità di coordinare i decreti legislativi con quanto stabilito dalla legge sul federalismo fiscale, nonché con gli obiettivi di semplificazione e riduzione degli adempimenti e di adeguamento ai principi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione europea. E’ prevista una procedura rinforzata per il parere parlamentare sugli schemi di decreti legislativi - cui è stato aggiunto il parere delle Commissioni competenti per i profili finanziari - ai sensi della quale Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni.
Attraverso la riforma del catasto degli immobili (articolo 2) si intende correggere le sperequazioni insite nelle attuali rendite, accentuate dall’aumento generalizzato disposto con il decreto-legge n. 201 del 2011, che ha introdotto l’Imposta municipale sperimentale (IMU). Tra i principi e criteri direttivi da applicare per la determinazione del valore catastale degli immobili la delega indica, in particolare, la definizione degli ambiti territoriali del mercato, nonché la determinazione del valore patrimoniale utilizzando la superficie in luogo del numero dei vani attualmente utilizzato. Nel corso dell’esame in sede referente è stato assicurato il coinvolgimento dei comuni nel processo di revisione delle rendite. Inoltre per gli immobili di riconosciuto interesse storico e artistico il valore patrimoniale deve essere determinato tenendo conto degli oneri di manutenzione e dei vincoli legislativi. La riforma deve avvenire a invarianza di gettito, con particolare riferimento alle imposte sui trasferimenti e all’IMU tenendo conto, in quest’ultimo caso, delle condizioni socio-economiche e dell’ampiezza e composizione del nucleo familiare, così come riflesse nell’ISEE. I contribuenti potranno chiedere la rettifica delle nuove rendite attribuite, con obbligo di risposta entro 60 giorni dalla presentazione dell'istanza. Contestualmente dovranno essere aggiornati i trasferimenti perequativi ai comuni. Saranno ridefinite le competenze delle commissioni censuarie, in particoalre attribuendo loro il compito di validare le funzioni statistiche utilizzate per determinare i valori patrimoniali e le rendite.
La riforma fiscale è anche orientata a proseguire il contrasto all’evasione e all’elusione nonché il riordino dei fenomeni di erosione fiscale (cosiddette tax expeditures) – ferma restando la tutela, oltre che della famiglia e della salute, dei redditi di lavoro dipendente e autonomo, dei redditi da imprese minori e dei redditi da pensione. A questo fine, nelle procedure di bilancio sono inseriti un rapporto sulle spese fiscali (articolo 2, commi 6 e 7) e un rapporto in materia di contrasto all’evasione fiscale (articolo 2, comma 5) i cui contenuti sono stati precisati nel corso dell’esame in sede referente. Sono stati altresì precisati (articolo 2, comma 4) i contenuti del rapporto sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale, redatto da una Commissione di esperti istituita presso il MEF (e non presso l’Istat come nel testo originario). Tale rapporto reca una stima ufficiale dell'ammontare delle risorse sottratte al bilancio pubblico dall'evasione, con la massima disaggregazione possibile dei dati a livello territoriale, settoriale e dimensionale, con l’obiettivo, tra l’altro, di individuare le linee di intervento e prevenzione contro la diffusione del fenomeno dell'evasione, nonché per stimolare l'adempimento spontaneo degli obblighi fiscali.
E' stata quindi inserita (articolo 2, comma 8) una delega al governo a coordinare le disposizioni in tema di monitoraggio dell’evasione e dell’erosione fiscale con le procedure di bilancio, definendo in particolare le regole di alimentazione del Fondo per la riduzione strutturale della pressione fiscale, istituito dal D.L. n. 138/11.
Tra gli obiettivi delineati dal governo emerge inoltre la certezza del sistema tributario, da perseguire in particolare attraverso la definizione dell’abuso del diritto (articolo 3, comma 1), inteso come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta, ancorché la condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione; deve essere garantita la scelta tra regimi alternativi quando l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali "non marginali". In sede referente è stato precisato che, in caso di ricorso, le sanzioni (e non anche gli interessi) sono riscuotibili dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.
Per stimolare l'adempimento spontaneo degli obblighi fiscali la delega introduce norme volte alla costruzione di un migliore rapporto tra fisco e contribuenti attraverso forme di comunicazione e cooperazione rafforzata (articolo 3, comma 2). Le imprese di maggiori dimensioni dovranno costituire sistemi aziendali strutturati di gestione e controllo del rischio fiscale, con una chiara attribuzione di responsabilità nel sistema dei controlli interni. A fronte di ciò saranno previsti minori adempimenti per i contribuenti, con la riduzione delle eventuali sanzioni, nonché - secondo le modifiche introdotte in sede referente - forme premiali, consistenti in una riduzione degli adempimenti, in favore dei contribuenti che aderiscano ai predetti meccanismi di tutoraggio, i quali potranno utilizzare, inoltre, un interpello preventivo specifico con procedura abbreviata.
Nel corso dell’esame in sede referente, sono state poi introdotte norme volte ad ampliare l'ambito applicativo degli istituti del tutoraggio e della rateazione dei debiti tributari, attraverso la semplificazione degli adempimenti amministrativi e patrimoniali nonché la possibilità di richiedere la dilazione del pagamento prima dell'affidamento in carico all'agente della riscossione, nei casi di obiettiva difficoltà (articolo 3, commi 3-6). Il comma 7 dell’articolo 3 reca la revisione generale della disciplina degli interpelli. Si intende inoltre attuare una semplificazione sistematica dei regimi fiscali, al fine di eliminare “complessità superflue” (articolo 3, comma 8).
Si prevede poi la revisione delle sanzioni penali e amministrative (articolo 3, comma 9) secondo criteri di predeterminazione e proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, dando rilievo alla configurazione del reato tributario per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e utilizzo di documentazione falsa per i quali – secondo quanto previsto in sede referente – non possono comunque essere ridotte le pene minime; si prevede, al riguardo, la revisione del regime della dichiarazione infedele e la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi, ovvero di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto – secondo le modifiche introdotte in sede referente – di adeguate soglie di punibilità.
Il Governo, inoltre, è delegato a definire la portata applicativa della disciplina del raddoppio dei termini (articolo 3, comma 10), prevedendo che tale raddoppio si verifichi soltanto in presenza di effettivo invio della denuncia entro un termine correlato allo spirare del termine ordinario di decadenza, fatti comunque salvi – secondo quanto precisato in sede referente – gli effetti dei controlli già notificati alla data di entrata in vigore dei decreti delegati. Con una modifica approvata in sede referente è previsto che l'Autorità giudiziaria possa affidare i beni sequestratiin custodia giudiziale agli organi della polizia giudiziaria, al fine di utilizzarli direttamente per le proprie esigenze operative.
L’articolo 3, comma 11, indica i principi e i criteri da perseguire per il rafforzamento dei controlli fiscali, in particolare – secondo quanto inserito in sede referente – contrastando le frodi carosello, gli abusi nelle attività dimoney transfer e di trasferimento di immobili. Nell'attività di controllo deve essere, tra l'altro, rispettato il principio di proporzionalità e rafforzato il contraddittorio con il contribuente. Si prevede poi che siano espressamente previsti i metodi di pagamento sottoposti a tracciabilità promuovendo – secondo le modifiche introdotte in sede referente – adeguate forme di coordinamento con i Paesi esteri. Infine si prevede il potenziamento della fatturazione elettronica.
Si prevede inoltre (articolo 3, comma 12) il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente,attraverso l’estensione della conciliazione giudiziale alle controversie di competenza delle Commissioni tributarie; il miglioramento dell’efficienza delle Commissioni medesime.
Il medesimo comma 12 dispone poi il riordino della riscossione delle entrate locali, anche revisionando e coordianndo la procedura dell’ingiunzione fiscale e le ordinarie procedure di riscossione coattiva dei tributi, per adattarle alla riscossione locale. Si dovrà procedere inoltre alla revisione dei requisiti per l’iscrizione all’albo dei concessionari, all’emanazione di linee guida per la redazione di capitolati, nonché a introdurre strumenti di controllo e a garantire la pubblicità. Le attività di riscossione dovranno essere assoggettate a regole pubblicistiche; i soggetti ad essa preposte opereranno secondo un codice deontologico, con specifiche cause di incompatibilità per gli esponenti aziendali chi riveste ruoli apicali negli enti affidatari dei servizi di riscossione.
Tra i principi e i criteri direttivi per la tutela dei contribuenti si ricordano: l’impignorabilità di alcuni beni di impresa; l’estensione della rateazione dei debiti tributari e la riduzione delle sanzioni in caso di regolare adempimento degli obblighi dichiarativi; il superamento del principio della compensazione delle spese all’esito del giudizio.
L’articolo 4, anch’esso riformulato durante l’esame del provvedimento in sede referente, reca la ridefinizione dell’imposizione sui redditi di impresa e dei regimi forfetari per i contribuenti di minori dimensioni. Anzitutto si prevede l’assimilazione delle imposte sui redditi di impresa (anche in forma associata) dei soggetti IRPEF, con assoggettamento a un’imposta sul reddito imprenditoriale, con aliquota proporzionale ed allineata a quella dell’IRES. Le somme prelevate dall’imprenditore e dai soci concorreranno alla formazione del reddito IRPEF. Sono introdotti regimi semplificati per i contribuenti di minori dimensioni e, per i contribuenti “minimi”, regimi sostitutivi forfetari con invarianza del quantum dovuto, nonché istituti premiali per le nuove attività produttive. Infine, si delega il Governo a introdurre "forme di opzionalità".
Nel corso dell’esame in sede referente, il governo è stato altresì delegato a chiarire la definizione di “autonoma organizzazione” ai fini IRAP per professionisti e piccoli imprenditori (articolo 4, comma 2). Allo stesso tempo, la revisione del reddito d’impresa è volta a migliorare la certezza e la stabilità del sistema fiscale (articolo 4, comma 3), con l’introduzione di norme volte a favorire l’internazionalizzazione dei soggetti economici operanti in Italia, rivedere la disciplina impositiva delle operazioni transfrontaliere, con particolare riferimento, tra l’altro, al regime dei lavoratori all’estero, rivedere i regimi di deducibilità diammortamenti, spese e costi. Durante l’esame in sede referente è stato inserito un ulteriore principio, ai sensi del quale si dovrà procedere alla revisione della disciplina delle società di comodo e del regime dei beni assegnati ai soci o ai loro familiari, per evitare vantaggi fiscali dall’uso dei predetti istituti e dare continuità all’attività produttiva in caso di trasferimento della proprietà, anche tra familiari.
L’attuazione della delega in materia di IVA deve avvenire attraverso la semplificazionedei sistemi speciali e l’attuazione del regime del gruppo IVA (articolo 4, comma 4). Allo stesso tempo, il governo è delegato ad introdurre norme per la revisione delle altre imposte indirette, attraverso la semplificazione degli adempimenti, la razionalizzazione delle aliquote nonché l’accorpamento o la soppressione di fattispecie particolari (articolo 4, comma 5).
I commi 6 e 7 dell’articolo 4, riscritti nel corso dell’esame in sede referente, riguardano i giochi pubblici, prevedendo - oltre ad una raccolta sistematica della disciplina e ad un riordino del prelievo erariale sui singoli giochi - specifiche disposizioni volte, tra l’altro: a tutelare i minori dalla pubblicità dei giochi e a recuperare i fenomeni di ludopatia; a definire le fonti di regolazione dei diversi aspetti legati all’imposizione, nonché alla disciplina dei singoli giochi, per i quali si dispone una riserva di legge esplicita alla legge ordinaria; alla rivisitazione degli aggi e compensi spettanti ai concessionari; ai controlli ed all’accertamento dei tributi gravanti sui giochi, nonché al sistema sanzionatorio. Viene quindi confermato il modello organizzativo fondato sul regime concessorio ed autorizzatorio, ritenuto indispensabile per la tutela della fede, dell’ordine e della sicurezza pubblici, per la prevenzione del riciclaggio dei proventi di attività criminose, nonché per garantire il regolare afflusso del prelievo tributario gravante sui giochi.
Si dispone, altresì, il rilancio del settore ippico anche attraverso l’istituzione dell'Unione ippica italiana (comma 7, lettera l)), con funzioni, fra l’altro, di organizzazione degli eventi ippici, controllo di primo livello sulla regolarità delle corse, ripartizione e rendicontazione del fondo per lo sviluppo e la promozione del settore ippico. Il Fondo è alimentato mediante quote versate dagli iscritti alla Lega Ippica Italiana, nonché mediante quote della raccolta delle scommesse ippiche, del gettito derivante da scommesse su eventi ippici virtuali e da giochi pubblici raccolti all’interno degli ippodromi, attraverso la cessione dei diritti televisivi sugli eventi ippici, nonché di eventuali contributi erariali straordinari decrescenti fino all’anno 2017.
L’abuso del diritto in materia tributaria è un istituto di origine giurisprudenziale ed è generalmente individuato in quelle operazioni prive di spessore economico che l’impresa mette in atto con l’obiettivo principale di ottenere risparmi di imposta attraverso l’utilizzo distorto di schemi giuridici. Ognuno di questi schemi singolarmente appare perfettamente legittimo, mentre l’illegittimità deriva dal fatto che essi nel complesso sono messi in atto unicamente per ottenere vantaggi fiscali. Il divieto dell’abuso del diritto rientra tra gli istituti cosiddetti antielusivi.
Nell’ordinamento giuridico italiano non è presente una clausola antielusiva generale. Attualmente la norma antielusiva di riferimento è costituita dall’articolo 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (inserito dall’articolo 7 del D.Lgs. n. 358 del 1997), anche se contempla un numero chiuso di operazioni.
Sul tema è molto rilevante il contributo della giurisprudenza sia della Corte di Cassazione, sia della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Con la sentenza Halifax (2006) la Corte di Giustizia, limitatamente all’Iva e ai tributi armonizzati, ha elaborato una nozione di abuso autonoma dalle ipotesi di frode, richiedendo che le operazioni, pur realmente volute ed immuni da rilievi di validità, debbano avere essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. La Corte di Cassazione italiana considera inopponibili all'erario tutte le operazioni che configurano fattispecie di abuso del diritto in materia tributaria. Peraltro la stessa giurisprudenza riconosce che l’applicazione del principio deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una linea giusta di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e la libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa.
Nel corso della XVI legislatura sono state presentate diverse proposte di legge volte a codificare e disciplinare nell’ordinamento tributario la fattispecie dell’abuso del diritto, ma nessuna di esse si è tramutata in legge. In particolare la c.d. “delega fiscale” (disegno di legge di delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita - A.C. 5291) introduceva il principio generale del divieto dell’abuso del diritto, del quale veniva fornita una prima definizione comprendente la fattispecie dell’elusione ed applicabile a tutti i tributi. Restava salvaguardata la legittimità della scelta tra regimi alternativi espressamente previsti dal sistema tributario. Tale disegno di legge di “delega fiscale”, a causa della fine anticipata della legislatura, non ha concluso il suo iter parlamentare.
La codificazione dell’abuso del diritto è da più parti ritenuta la strada maestra per dare alle imprese un quadro di certezza e stabilità normativa e amministrativa. La definizione di un quadro normativo chiaro ha effetti positivi anche per l’amministrazione finanziaria che può svolgere con maggiore rapidità ed efficacia la sua funzione di contrasto dell’elusione, indirizzando la propria attenzione sui casi meno dubbi e riducendo così le possibilità di contenzioso e l’incertezza sulle sanzioni.
Nell’ordinamento giuridico italiano non è presente una clausola antielusiva generale. La prima manifestazione normativa di contrasto alle pratiche abusive è quella dell’articolo 10 della legge n. 408 del 1990 che consente all’amministrazione finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti e cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta.
Successivamente per le stesse fattispecie è intervenuto l’articolo 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (inserito dall’articolo 7 del D.Lgs. n. 358 del 1997) che costituisce attualmente la norma antielusiva di riferimento, nell’ambito della disciplina dell’accertamento delle imposte sui redditi, anche se applicabile ad un numero chiuso di operazioni.
La norma dispone l’inopponibilità all'amministrazione finanziaria degli atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro, se:
Le norme antielusive si applicano in un numero circoscritto di casi. Si tratta principalmente di operazioni straordinarie delle società. L'amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante i suddetti atti, fatti e negozi, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'amministrazione.
L’amministrazione, a pena di nullità, prima di emanare l’avviso di accertamento deve chiedere al contribuente dei chiarimenti, da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta. In tale richiesta devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili le disposizioni antielusive.
L’avviso di accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente. L’amministrazione applica le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'amministrazione. Le imposte o le maggiori imposte così accertate sono iscritte a ruolo, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale.
I soggetti diversi dai destinatari delle norme antielusione che hanno partecipato alle operazioni abusive e che hanno pagato imposte a seguito dei comportamenti disconosciuti dall'amministrazione finanziaria possono richiedere il rimborso delle imposte pagate proponendo, a tal fine, istanza di rimborso all'amministrazione entro un anno dal giorno in cui l'accertamento è divenuto definitivo o è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale. L’amministrazione provvede nei limiti dell'imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure.
Infine, la norma dispone la disapplicazione delle norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario, ove il contribuente dimostri che, nella particolare fattispecie, tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l'operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione.
La necessità di codificare a livello legislativo l’istituto dell’abuso del diritto nasce a seguito della formazione, in seno alla Corte di Cassazione, di un indirizzo giurisprudenziale secondo il quale sono inopponibili all'erario tutte le operazioni che configurano fattispecie di abuso del diritto in materia tributaria.
In un primo momento (anni 2000-2002), la Corte di Cassazione, posta innanzi alla questione dell’elusione fiscale e, in particolare, dei limiti entro cui essa può dar luogo ad atti che vengano dichiarati privi di efficacia nei confronti della Amministrazione, ha qualificato come elusivi, quindi irrilevanti nei confronti del fisco, solo quei comportamenti che tali sono definiti da una legge vigente al momento in cui essi sono venuti in essere (cfr. Cass. 3 aprile 2000, n. 3979; 3 settembre 2001, n. 11351; 7 marzo 2002, n. 3345).
Tale orientamento è stato messo successivamente in discussione a seguito della sentenza Halifax della Corte di Giustizia UE (causa C-255/02, depositata il 21 febbraio 2006) nella quale, in sostanza, sono stati riqualificati a fini Iva i comportamenti del contribuente, in ragione della natura “abusiva del diritto” degli stessi. La Corte di Giustizia in quell’occasione ha precisato che, per parlarsi di comportamento abusivo le operazioni controverse devono - nonostante l'applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della legislazione comunitaria e della legislazione nazionale di recepimento - procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Deve altresì risultare, da un insieme di elementi obiettivi, che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Si sottolinea, tuttavia, che la giurisprudenza comunitaria è limitata ai tributi armonizzati (IVA e dazi doganali): si veda, da ultimo, la sentenza della Corte di Giustizia del 29 marzo 2012, causa C-417/10.
Si è quindi registrata un’evoluzione interpretativa da parte della Corte di Cassazione, concretizzatosi in alcune pronunce della fine del 2005 (Cass. n. 20398 del 21 ottobre 2005, n. 20816 del 26 ottobre 2005 e n. 22932 del 14 novembre 2005). In particolare, la sentenza n. 20816/2005 ha enunciato il principio di diritto secondo cui l'Amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 c.c.); la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, anche attraverso presunzioni.
La Corte dunque, anche con riferimento ai “tributi non armonizzati” (ovvero soggetti alla piena normativa degli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri) ha avanzato il principio del disconoscimento o della riqualificazione fiscale degli atti, fatti e negozi posti in essere dal contribuente, in presenza di presupposti integranti i profili dell’elusione o comunque dell’abuso di diritto.
Dalla sentenza n. 22392 del 2005 si ricavano i requisiti oggettivi che caratterizzano il comportamento abusivo ai fini fiscali: l’uso distorto, anche se formalmente lecito, degli strumenti giuridici da parte del contribuente; la presenza di un vantaggio fiscale; l’assenza di valide ragioni economiche.
Dal 2006 e fino alla fine del 2008, la Corte di Cassazione ha affermato il divieto dell’abuso del diritto facendo principalmente rinvio alla giurisprudenza comunitaria. L’esigenza di un chiarimento delle Sezioni Unite in materia tributaria sull’abuso del diritto era stato da tempo invocata, sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza, per delineare e conformare interpretazioni differenti, soprattutto per i giudici di merito, ai fini di una individuazione di presupposti oggettivi certi su cui fondare la pianificazione fiscale nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Nel 2008 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con tre sentenze (n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008), si sono pronunciate sulla questione, enunciando alcuni fondamentali principi di diritto:
Una sostanziale e incisiva rivisitazione della nozione dell’abuso del diritto in materia tributaria si è avuta infine con la sentenza n. 1372 del 21 gennaio 2011 della Corte di Cassazione. In tale occasione la Corte ha affermato che l’applicazione del principio deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una linea giusta di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e la libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa. Tale esigenza è particolarmente sentita nei tempi recenti, nei quali si assiste ad un uso sempre più disinvolto dei cd. tax shelters e quindi ad una ricerca comune a tutte le esperienze giuridiche, di individuare adeguate forme di contrasto, anche all’infuori di una codificazione della clausola generale anti abuso. Pertanto il carattere abusivo deve essere escluso per la compresenza, non marginale di ragioni extrafiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata ma possono essere anche di natura meramente organizzativa e consistere in miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa. Infatti il sindacato dell’amministrazione finanziaria non può spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili (e cioè una fusione) solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale.
Anche dal punto di vista dell’onere della prova la sentenza n. 1372/2011 contiene un’affermazione rilevante: l’applicazione del principio dell’abuso del diritto comporta per l’amministrazione finanziaria l’onere di provare le anomalie o le inadeguatezze delle operazioni intraprese dal contribuente cui compete allegare le finalità perseguite, diverse dal mero vantaggio consistente nella diminuzione del carico tributario.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 7739 del 2012 ha affermato la rilevanza penale dell’elusione attuata attraverso il ricorso a qualsiasi forma di abuso del diritto. In particolare, il reato di cui all’articolo 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000 (infedele dichiarazione, oltre una certa soglia di imposta non dichiarata) è stato ritenuto configurabile quando la condotta del contribuente, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, comporti comunque una dichiarazione non veritiera.
La Corte dei conti, nel rapporto per il 2012 sul coordinamento della finanza pubblica, ha affermato che la disciplina dell’abuso del diritto discendente dall’elaborazione giurisprudenziale ha corroborato l’azione di contrasto dei comportamenti elusivi svolta dall’amministrazione finanziaria, inducendo in numerosi casi i grandi contribuenti a definire bonariamente la pretesa tributaria, con evidenti benefici sul piano sanzionatorio e della certezza dei rapporti giuridici. Tutto ciò ha dato luogo a notevoli effetti positivi in termini di entrate erariali, tanto che gran parte dei risultati finanziari conseguiti dall’attività di accertamento degli ultimi anni deriva essenzialmente dall’attività antielusiva svolta nei confronti delle grandi imprese.
Si segnala, da ultimo, che la Corte di Cassazione con ordinanza n. 2234/2013 ha stabilito che, ai fini dell'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie, è irrilevante che il minor versamento di imposte derivi da una violazione oppure da una elusione (o abuso) di norme impositive. Con tale ordinanza la Corte ha esteso a qualunque tipo di imposta (nel caso di specie, all'imposta di registro, ipotecaria e catastale) il suddetto principio, già affermato nella sentenza n. 25537/2011 in materia di imposte dirette e Iva.
Il dibattito svolto nella Commissione Finanze della Camera ha evidenziato come sia necessario un intervento normativo, al fine di definire in maniera esplicita il concetto di “abuso del diritto” all’interno del diritto positivo, rendendo distinguibile il risparmio d’imposta legittimo dal vantaggio fiscale indebito. E’ stata inoltre sottolineata la necessità che un principio generale anti-abuso, allo stato ancora mancante, si applichi a tutte le imposte, non sia vincolato da un’elencazione tassativa di fattispecie elusive e venga realizzata una piena assimilazione, a livello normativo, tra elusione fiscale e abuso. La distinzione tra risparmio d’imposta legittimo e vantaggio fiscale indebito dovrebbe far leva sul concetto di aggiramento delle norme tributarie. La norma generale dovrebbe essere provvista di garanzie procedurali a favore del contribuente: attraverso la puntuale regolazione del principio potrebbero essere rimossi alcuni fattori di criticità emersi in sede giurisprudenziale, legati, fra l’altro, alla rilevazione d’ufficio dell’abuso e all’incertezza sulle sanzioni applicabili.
Nel corso della XVI legislatura sono state presentate alcune proposte di legge volte a codificare e disciplinare nell’ordinamento tributario la fattispecie dell’abuso del diritto (A.C. 2521 Leo, A.C. 2578 Strizzolo e A.C. 2709 Jannone). Tutte le proposte di legge proponevano di modificare il citato articolo 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973.
Nel corso dell’esame del decreto legge n. 16 del 2012 (semplificazioni fiscali) sono state presentate proposte emendative volte a prevedere, in caso di elusione fiscale, l'applicazione di sanzioni non penali bensì amministrative, con lo scopo di restituire tranquillità ai contribuenti, ripristinando la certezza del diritto e delimitando con criteri certi l'area del legittimo risparmio di spesa. In particolare un emendamento a firma Leo mirava a disciplinare l’elusione fiscale e l’abuso del diritto tributario, rendendo inopponibili al fisco le operazioni volte ad aggirare prescrizioni tributarie al fine di ottenere riduzioni di imposta, in contrasto con lo scopo della norma tributaria. Era definita come legittimo risparmio di imposta la scelta del contribuente tra diverse fattispecie previste dall’ordinamento che pur avendo un differente regime tributario producono effetti economici sostanzialmente equivalenti. Le proposte sono state peraltro ritirate a seguito dell’impegno del Governo a definire la questione nell’ambito del disegno di legge delega fiscale, attraverso un provvedimento organico, adeguatamente approfondito e tecnicamente funzionale, che contribuisca a stabilizzare la situazione del Paese, senza che siano necessari ulteriori interventi correttivi.
Come anticipato in premessa, il disegno di legge di “delega fiscale” (delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita - A.C. 5291) conteneva un articolo dedicato all’abuso del diritto. La norma di delega era volta a riequilibrare il rapporto tra lo strumento anti-elusione e la certezza del diritto, messa in discussione dalla prassi amministrativa di sindacare ex post le scelte dei contribuenti sulla base di orientamenti non noti al momento in cui le operazioni sottoposte a controllo sono già decise ed effettuate.
Pertanto, da un lato è stabilito il generale divieto di utilizzare in modo distorto gli strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione. Dall’altro lato è riconosciuto al contribuente il diritto di scelta tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale, purché essa non sia volta unicamente ad ottenere indebiti vantaggi fiscali; viene riconosciuta l’ammissibilità dell’operazione qualora essa sia giustificata da ragioni extrafiscali “non marginali”; costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e consistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente.
La fattispecie abusiva è inopponibile all’amministrazione finanziaria, la quale può disconoscere immediatamente l’indebito risparmio d’imposta. In una prima versione del disegno di legge si prevedeva l’esclusione della rilevanza penale della condotta che integra l’abuso del diritto.
È prevista una implementazione della disciplina procedurale sotto i seguenti profili:
La dottrina ha definito l’abuso del diritto come l’utilizzo di singole disposizioni dell’ordinamento giuridico secondo modalità che, pur rispettando la lettera delle specifiche norme utilizzate, portano a un risultato difforme o addirittura antitetico rispetto ai principi e alle finalità che sottendono all’ordinamento giuridico di cui quelle stesse norme sono parte (cfr. E. Zanetti, “Abuso del diritto: in particolare sulla rilevabilità d’ufficio e sull’applicazione delle sanzioni” , in “Il fisco” n. 38 del 18 ottobre 2010, pag. 1-6123).
In ambito tributario, l’abuso del diritto consiste nell’utilizzo, anche combinato, delle norme di diritto positivo che disciplinano il sistema fiscale, al fine di ottenere risparmi di imposta che, seppure coerenti rispetto alla lettera delle specifiche norme di riferimento, risultano contrari alle logiche e ai principi cui è informato l’intero ordinamento tributario.
In dottrina, in particolare, si è discusso dell’opportunità di considerare tra gli elementi qualificanti della fattispecie l’assenza di “valide ragioni economiche” nell’operazione effettuata dal contribuente. Si tratta di un elemento, come visto, considerato essenziale dalla giurisprudenza della Cassazione.
In particolare tale requisito è contestato quando è la stessa legge tributaria a prevedere regimi fiscali alternativi i quali hanno a loro volta giustificazioni puramente fiscali, disgiunte dal risultato pratico dell’operazione. Tipico, ad esempio, è il caso dell’articolo 176 del TUIR dove la “non elusività” della scelta di cedere le partecipazioni della società conferitaria dell’azienda anziché vendere l’azienda medesima è espressamente stabilita dalla legge. Si tratta, quindi, di regimi diversificati per ragioni di ordine puramente fiscale che non possono che condurre a scelte orientate da valutazioni di natura fiscale e, come tali, non sindacabili in base al parametro delle “valide ragioni economiche”.
Vi sono tuttavia ipotesi in cui esistono regimi fiscali differenziati rispetto a operazioni anch’esse praticamente equivalenti la cui ragione giustificatrice non è facilmente individuabile o perché indeterminata fin dall’origine, o perché divenuta tale nel tempo. Si fa riferimento alla possibilità per le società agricole di optare per la tassazione su base catastale, riconosciuta solo alle società di persone e alle società a responsabilità limitata, ma non alle società per azioni, e ciò in modo del tutto indipendente da qualsiasi altra caratteristica strutturale (volume d’affari, numero dei soci, regole organizzative interne, ecc.). Fin quando la linea di discrimine era individuata nel carattere “personale” della società, si poteva ipotizzare che il legislatore avesse voluto limitare il beneficio alle sole ipotesi in cui l’attività agricola era più direttamente riferibile alle persone fisiche. Ma l’inclusione fra i soggetti che possono esercitare l’opzione anche delle società a responsabilità limitata rende la discriminazione incomprensibile. Sembra allora desumibile che la scelta della forma societaria da assumere può legittimamente dipendere da motivi puramente fiscali senza che ciò implichi alcun abuso di diritto (cfr. Guglielmo Fransoni, «Appunti su abuso di diritto e “valide ragioni economiche”», in "Rassegna Tributaria" n. 4 del 2010, pag. 932). Si veda inoltre Andrea Manzitti, “L’abuso del diritto va sottratto all’equivoco”, in “Il Sole 24 Ore” del 14 aprile 2012. Si riporta, inoltre, l’opinione critica di chi sostiene che l’espressione “abuso del diritto” confonda fenomeni totalmente diversi quali la simulazione e l’elusione (G. Falsitta, “Manuale di diritto tributario”, Padova 2010).
Il tema dell’abuso del diritto è stato affrontato anche in altri paesi (ad esempio, Francia e Germania), dove si è intervenuti legislativamente, con modifiche a norme antielusive già esistenti, di cui si è ampliata la portata. Le nuove normative prevedono un rafforzamento delle garanzie procedurali per i contribuenti.
In Francia è prevista una norma generale anti-abuso che si caratterizza per essere una disposizione procedurale, la quale definisce il concetto di abuso del diritto solo in via strumentale, al fine di delimitare le modalità a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per contrastarlo. A partire dal 2006, alcune pronunce giurisprudenziali del Consiglio di Stato francese, insieme a quelle della Corte di Giustizia europea, hanno alimentato il dibattito sull’abuso del diritto, alla base del cd. “rapporto Fouquet”, predisposto da una commissione ministeriale. In estrema sintesi, il rapporto evidenziava come il contrasto all’abuso del diritto doveva essere affrontato in termini di maggiore certezza giuridica e di maggiori garanzie procedurali per il contribuente nei confronti delle pretese dell’Amministrazione. Il legislatore francese, seguendo quanto suggerito dal “rapporto Fouquet”, ha modificato la legislazione in materia di abuso del diritto; le nuove norme si applicano a partire dal 1° gennaio 2009. Si è passati a una clausola generale anti-abuso basata su una definizione più ampia del concetto di abuso, mantenendo invariate le garanzie procedurali dei contribuenti, che ne escono anzi rafforzate grazie alla nuova composizione del comitato consultivo. E’ infatti previsto un “comitato sull’abuso del diritto fiscale”, che, per tutelare gli interessi e le posizioni dei contribuenti, è composto non solo da membri di nomina governativa, come avveniva in passato, ma anche da componenti rappresentanti delle professioni contabili e giuridiche.
In Germania già la legge generale tributaria tedesca del 1977 prevedeva una clausola generale anti-abuso, che non definiva però il concetto di abuso del diritto; la sua vaghezza era di ostacolo tanto ai contribuenti quanto alle autorità fiscali. Nel corso degli anni, la Corte federale tributaria tedesca (Bundesfinanzhof, o BFH) ha cercato di colmare questa lacuna; nelle sue pronunce sono state spesso considerate abusive quelle strutture che apparivano inusuali, artificiose e non finalizzate al perseguimento di valide ragioni economiche. Nel 2008 si è deciso di introdurre una definizione di abuso del diritto: questo si verifica solo quando il contribuente sceglie una struttura legale “inadeguata” rispetto al fatto economico, che comporta per lui o per un terzo, in confronto ad una forma adeguata, un beneficio fiscale non previsto dalla legge. L’abuso non si concretizza se il contribuente dimostra che la forma giuridica scelta risponde a ragioni extrafiscali meritevoli di tutela. L’onere della prova circa l’appropriatezza o meno delle strutture utilizzate è a carico delle autorità fiscali tedesche. Dinanzi alla contestazione di inappropriatezza degli schemi utilizzati, il contribuente potrà replicare dimostrando che l’operazione è comunque motivata da rilevanti ragioni di natura non tributaria.
In Gran Bretagna non è presente una disciplina generale sulla frode alla legge o sull’elusione. Ciò significa che, in linea di principio, nell’ambito di tale ordinamento, non è di per sé illecito strutturare un negozio giuridico con modalità tali da eludere l’applicazione di determinate disposizioni di legge, anche qualora si tratti di leggi che vietano l’utilizzo di strutture poste in essere al fine di non pagare i tributi.
Nel Regno Unito, pertanto, non esiste, ai fini fiscali, una norma di legge che abbia carattere generale, mentre esistono, per un certo numero di imposte e per specifiche finalità, una serie di norme speciali finalizzate ad evitare che, in relazione ad una determinata fattispecie, si possa “abusare” di un certo incentivo fiscale.
Al riguardo, occorre evidenziare che il sistema giuridico inglese ha sempre attribuito maggiore rilievo alla “sostanza” di un negozio giuridico, piuttosto che alla sua “forma”. Di conseguenza, se la qualificazione giuridica che le parti hanno attribuito al negozio (es. una donazione) non corrisponde agli effetti concretamente voluti dalle parti (es. quelli di un “prestito”), le Corti faranno esclusivo riferimento all’effettiva intenzione delle parti.
In tale contesto spetta al contribuente provare che non è dovuta l’imposta relativa ad una determinata operazione e, in taluni casi, lo stesso può addurre che la transazione è ispirata da ragioni di bona fides commerciale e che non persegue lo scopo principale di ottenere vantaggi fiscali. Dal canto proprio, l’Amministrazione ha ampi poteri di accertamento dei comportamenti elusivi posti in essere dai contribuenti e ciò spiega la possibilità, in relazione a molte disposizioni di ampio tenore, di ricorrere a procedure di clearance (una sorta di interpello), finalizzate ad evitare l’applicazione delle norme antielusive.
In Spagna la normativa finalizzata a contrastare la c.d. Fraude a la Ley tributaria non ha mai avuto una concreta applicazione, richiedendo la normativa fiscale, fin dall’origine, l’accertamento dell’“intenzione ingannatoria”, difficilmente accertabile nei fatti.
L’elusione in ambito internazionale si manifesta come quell’arbitraggio che si realizza ogni qual volta il contribuente pone in essere un’operazione transnazionale con l’intento di trarre vantaggio dalle diverse tipologie e modalità di imposizione esistenti nei vari Paesi, in maniera da ridurre al minimo il proprio carico impositivo (c.d. “arbitraggio fiscale dannoso”). Ciò risulta possibile proprio perché gli ordinamenti giuridici dei vari Stati risultano estremamente diversi tra loro.
Lo sfruttamento delle differenze esistenti negli ordinamenti fiscali europei deve, tuttavia, fare i conti con i principi del diritto fiscale internazionale e del suo ruolo nell’interpretazione delle leggi nazionali e delle Convenzioni fiscali contro la doppia imposizione, nel rispetto dei limiti della sovranità statale e della giurisdizione nazionale in materia fiscale. In tal senso, infatti, lo stesso Commentario al Modello di Convenzione OCSE opportunamente modificato nel 2003, dispone all’art. 1 che laddove la disposizione contro l’abuso fiscale siano incardinate alle regole fondamentali della legislazione nazionale che determinano i fatti generatori dell’imposta, le stesse non sono influenzate dalle convenzioni in quanto dette regole sono estranee alla materia considerata dalle convenzioni fiscali. Pertanto, di regola non vi sarà conflitto tra tali disposizioni e le disposizioni delle convenzioni fiscali.
Il 29 luglio 2011 il Governo Berlusconi ha presentato un disegno di legge recante una delega legislativa per la riforma fiscale e assistenziale, volto a razionalizzare e semplificare il quadro normativo vigente, il cui esame è stato avviato dalla Commissione finanze il 7 settembre 2011. Nella relazione illustrativa al disegno di legge A.C. 4566 si rileva come il sistema fiscale risulti caratterizzato da un carico tributario troppo elevato per quanto riguarda il lavoro e, al contempo, piuttosto contenuto per quanto riguarda il consumo; è inoltre necessario semplificare il sistema, al fine di ridurre i tempi necessari per l’adempimento degli obblighi fiscali. A questi fini il provvedimento prevede che l'imposta sul reddito delle persone fisiche passi dalle attuali cinque a tre sole aliquote, pari rispettivamente al 20, 30 e 40 per cento. Contestualmente si stabilisce: a) l’inclusione, fra i soggetti passivi, degli enti non commerciali; b) un nuovo sistema di determinazione dell’imponibile e di calcolo dell’imposta, caratterizzato dall’identificazione, in funzione della soglia di povertà, di un livello di reddito minimo personale escluso da imposizione; c) la concentrazione dei regimi di favore fiscale su natalità, lavoro e giovani. Si prevede inoltre l’introduzione di un nuovo regime fiscale per i redditi di natura finanziaria con un’imposta sostitutiva non superiore al 20 per cento.
Per quanto concerne l’IVA si prospetta la revisione graduale delle aliquote, la riduzione delle forme di indetraibilità e delle distorsioni della base imponibile, il coordinamento della relativa disciplina con quella delle accise ed, infine, la razionalizzazione dei sistemi speciali in relazione alla particolarità dei settori interessati. In ordine al riordino della disciplina delle accise, si prevede: a) la graduale rimodulazione delle aliquote delle singole accise; b) il coordinamento delle medesime aliquote con l’IVA, al fine di ridurne l’incidenza sui “prodotti essenziali” e la duplicazione dell’imposizione; c) la correzione degli effetti esterni negativi dell’imposizione su ambiente salute e benessere. Oltre, poi, a prevedersi la graduale eliminazione dell'IRAP, con prioritaria esclusione del costo del lavoro dalla base imponibile, la delega dispone la razionalizzazione delle cosiddette “imposte minori”: queste consistono in una pluralità di tributi e presupposti impositivi che ne rendono il sistema complesso in termini di gestione e di difficile applicazione per i contribuenti. A tale scopo si prevede una imposta sui servizi, volta a unificare i seguenti tributi: imposta di registro, imposte ipotecarie e catastali, imposta di bollo, tassa sulle concessioni governative, imposta sulle assicurazioni ed imposta sugli intrattenimenti. Infine, in materia di semplificazione, si prevede la revisione degli attuali regimi forfetari volti ad incentivare la nascita di nuove imprese, la revisione degli studi di settore, nonché l'introduzione di un concordato biennale volto a determinare preventivamente l'imposizione sul reddito di impresa e di lavoro autonomo
Per quanto concerne la riforma della materia socio-assistenziale, la relazione illustrativa osserva come essa si renda necessaria per riqualificare e riordinare la relativa spesa e per superare le sovrapposizioni e duplicazioni di servizi e prestazioni che rendono poco efficace e antieconomico il sistema, anche in conseguenza del fatto che la spesa per i servizi sociali è frammentata tra diversi soggetti concorrenti fra loro che gestiscono quote diverse di risorse suddivise tra il servizio sanitario nazionale, l'INPS e i comuni. In tale quadro, si prevede la riqualificazione e integrazione delle prestazioni socio-assistenziali in favore dei soggetti autenticamente bisognosi, il trasferimento ai livelli di governo più prossimi ai cittadini delle funzioni compatibili con i principi di efficacia ed adeguatezza e la promozione dell’offerta sussidiaria di servizi da parte delle famiglie e delle organizzazioni con finalità sociale;e la ridefinizione degli indicatori volti ad individuare la reale situazione economica dei singoli cittadini, con particolare attenzione ai nuclei familiari; l'armonizzazione dei diversi strumenti previdenziali, assistenziali e fiscali di sostegno alle condizioni di bisogno, evitando duplicazioni di servizi e responsabilizzando tutti i livelli di governo; l'istituzione di un fondo per l'indennità sussidiaria alla non autosufficienza, da ripartire tra le regioni sulla base di parametri legati alla popolazione, all'età anagrafica e ad alcuni fattori ambientali; il trasferimento ai comuni, singoli e associati, del servizio relativo alla carta acquisti, per il tramite delle organizzazioni non profittevoli. In ordine agli effetti finanziari, viene espressamente disposto che dall'attuazione della legge di delega devono derivare effetti positivi, ai fini dell'indebitamento netto, non inferiori a 4.000 milioni di euro per l'anno 2013 e a 20.000 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2014.
Si segnala che alcuni obiettivi di riforma fiscale sono stati attuati attraverso provvedimenti d’urgenza adottati dal governo precedente e dal governo in carica, secondo quanto di seguito segnalato. Nel corso del 2011, infatti, le condizioni del ciclo economico hanno evidenziato un progressivo deterioramento e una ripresa delle tensioni finanziarie sui mercati internazionali. In questo scenario, l’Italia ha proseguito nel percorso di risanamento dei conti pubblici, contemperando questa esigenza con interventi a favore della crescita economica e dell’equità. A tal fine, il legislatore italiano ha spostato il baricentro dell’imposizione dal “lavoro” al consumo e al patrimonio.
La tassazione del patrimonio
Con il decreto-legge n. 201 del 2011, numerose misure hanno introdotto elementi di tassazione reale:
La tassazione dei redditi di natura finanziaria
Superando la distinzione tra “redditi di capitale” e “redditi diversi” a favore di una unica categoria di “redditi finanziari”, assoggettati ad un’imposta sostitutiva con una stessa aliquota, il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (articolo 2, commi da 6 a 34) ha unificato le precedenti aliquote del 12,50 per cento e del 27 per cento, previste sui redditi di capitale e sui redditi diversi, con un'unica aliquota pari al 20 per cento. Restano esclusi dall’ambito di applicazione della riforma, tra gli altri, i titoli di Stato ed equiparati, i titoli emessi da altri Stati (cd. white list, vale a dire i paesi che consentono un adeguato scambio di informazioni), i titoli di risparmio per l’economia meridionale, i piani di risparmio a lungo termine e le forme di previdenza complementare. Le predette norme hanno altresì definito le modalità con cui nel risparmio gestito (polizze assicurative, gestioni patrimoniali, fondi comuni mobiliari e fondi pensione) deve essere effettuata la tassazione dei titoli soggetti alla minore aliquota del 12,5%, al fine di non vanificare il trattamento di favore loro riservato; inoltre, le norme hanno accordato agli investitori la possibilità di affrancare le plusvalenze maturate al 31 dicembre 2011, allo scopo di evitare la tassazione con la maggiore aliquota del 20%.
L’imposizione sui consumi
Il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 ha disposto un progressivo aumento delle aliquote IVA: l’aliquota ordinaria è passata dal 20 al 21 per cento da agosto 2011. A seguito delle modifiche introdotte dalla legge di stabilità 2013, a decorrere dal 1° luglio 2013, l’aliquota ordinaria è rideterminata nella misura del 22 per cento (anziché del 23 per cento fino al 31 dicembre 2013), mentre resta ferma l’attuale aliquota ridotta del 10 per cento (anch'essa originariamente destinata ad aumentare). In sostanza dal 1° luglio 2013 le aliquote IVA saranno le seguenti: 22 per cento (ordinaria, che aumenta così dall’attuale valore del 21 per cento), 10 per cento (ridotta) e 4 per cento (super-ridotta).
In tale ambito occorre ricordare gli aumenti delle aliquote di accisa sia sui prodotti energetici (aventi lo scopo, tra l’altro, di far fronte alle spese sostenute a seguito di eventi calamitosi che hanno colpito l’Italia nel corso del 2011) che sui tabacchi lavorati (rispettivamente, tra gli altri, articolo 23, comma 50-quater, decreto-legge n. 98 del 2011, articolo 33 e 34, legge n. 183 del 2011, legge di stabilità per il 2012, articolo 15, decreto-legge n. 201 del 2011, articolo 3-bis, decreto-legge n. 16 del 2012, e, per i tabacchi, articolo 2, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2011, articolo 6, comma 2-quinquies, decreto-legge n. 216 del 2011).
Gli interventi sull’IRAP e sul costo del lavoro
La legge n. 183 del 2011 ha prorogato al 2012 il regime fiscale - oltre che contributivo - agevolato degli emolumenti correlati ad incrementi di produttività, che sotto il profilo tributario consiste nell’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali avente aliquota del 10 per cento. Il legislatore ha inoltre introdotto (con il decreto-legge n. 201 del 2011) norme che prevedono l’integrale deducibilità delle imposte dirette - IRES e IRPEF – dalla quota dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) dovuta dalle imprese in rapporto al costo del lavoro, ferma restando la deducibilità di parte (10 per cento) della medesima imposta dovuta in relazione agli interessi passivi e agli oneri assimilati. Inoltre, per favorire l’accesso al lavoro da parte di donne e giovani, è stata aumentata la misura della deduzione IRAP disposta in caso di assunzione di tali tipologie di lavoratori, con particolare attenzione alle regioni del Mezzogiorno (poi prorogata con il decreto-legge n. 5 del 2012).
L’aiuto alla crescita economica (ACE)
L’articolo 1 del decreto-legge n. 201 del 2011 - in considerazione della esigenza di rilanciare lo sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla crescita, mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio - ha introdotto nella tassazione del reddito di impresa un aiuto alla crescita economica (ACE), rendendo deducibile il rendimento del capitale di rischio, valutato tramite l'applicazione di un rendimento nozionale al nuovo capitale proprio. Ciò è finalizzato anche a ridurre lo squilibrio del trattamento fiscale tra imprese che si finanziano con debito ed imprese che si finanziano con capitale proprio, e rafforzare, quindi, la struttura patrimoniale delle imprese e del sistema produttivo italiano.
Le modifiche alle imposte a favore degli enti territoriali: imposta di scopo, imposta sui servizi, Tares, imposta di soggiorno, imposta di sbarco
In tale ambito, l'articolo 14 del decreto-legge n. 201 del 2011 ha istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2013, il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES), a copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, nonché dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni. Il tributo è dovuto da chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono escluse dalla tassazione le aree scoperte pertinenziali o accessorie a civili abitazioni e le aree comuni condominiali che non siano detenute o occupate in via esclusiva. Il decreto-legge n. 16 del 2011 ha quindi consentito ai comuni di disciplinare con regolamento l’imposta di scopo, nel quadro della disciplina recata dalla legge finanziaria 2007, in luogo della revisione dell’imposta da effettuarsi con regolamento statale (DPR). Il medesimo decreto-legge ha previsto altresì l’abrogazione della sospensione del potere di aumentare le aliquote e le tariffe dei tributi locali e regionali.
Interventi in materia di semplificazione
Allo scopo di favorire la costituzione di nuove imprese da parte di giovani o di coloro che perdono il posto di lavoro, a decorrere dal 1° gennaio 2012 è stato modificato (articolo 27 del decreto-legge n. 98 del 2011) il regime fiscale semplificato dei cd. “contribuenti minimi” che si applica, per il periodo d'imposta in cui l'attività è iniziata e per i quattro successivi, esclusivamente alle persone fisiche che intraprendono un’attività d’impresa, arte o professione o che l’abbiano intrapresa dopo il 31 dicembre 2007. Pertanto, il beneficio del c.d. “forfettone” (una tassazione forfettaria del 20 per cento per i titolari di partite Iva e i lavoratori autonomi che a fine anno incassano meno di 30 mila euro) è riservato a coloro i quali hanno iniziato l'attività a partire da tale data o vorranno iniziarla adesso. Nello stesso tempo per questi ultimi il beneficio è aumentato: a decorrere dal 1° gennaio 2012, l’imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali viene ridotta al 5 per cento.
L’articolo 10 del decreto legge n. 201 del 2011 ha introdotto dal 2013 il nuovo regime della trasparenza rivolto ai soggetti che svolgono attività artistica, professionale o di impresa, in forma individuale o associata (escluse le società di capitali). Si tratta di un regime finalizzato a incoraggiare la trasparenza fiscale e l'emersione. La norma è congeniata in modo da abbinare la volontaria accettazione di adempimenti in grado di rafforzare fortemente i controlli e l'accertamento da parte del fisco a una serie di vantaggi di tipo premiale, quali: la drastica semplificazione degli adempimenti amministrativi; il tutoraggio prestato dall'Amministrazione fiscale, sia ai fini degli adempimenti Iva, sia ai fini degli adempimenti in qualità di sostituto d'imposta; una corsia preferenziale per i rimborsi e le compensazioni dei crediti Iva.
Il Parlamento è intervenuto a più riprese per tutelare le aspettative dei c.d. esodati, ossia dei soggetti prossimi al raggiungimento dei requisiti pensionistici al momento dell'adozione della riforma pensionistica e fuoriusciti dal mercato del lavoro, ampliando progressivamente la platea dei lavoratori ai quali continua ad applicarsi la normativa previgente.
La questione degli esodati trae origine dalla riforma pensionistica realizzata del Governo Monti (articolo 24 del D.L. 201/2011, c.d. riforma Fornero), che a decorrere dal 2012 ha sensibilmente incrementato i requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso al pensionamento. La riforma, in particolare, ha portato a 66 anni il limite anagrafico per il pensionamento di vecchiaia; velocizzato il processo di adeguamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato (66 anni dal 2018); per quanto concerne il pensionamento anticipato, abolito il previgente sistema delle quote, con un considerevole aumento dei requisiti contributivi (42 anni per gli uomini e 41 anni per le donne) e l’introduzione di penalizzazioni economiche per chi comunque accede alla pensione prima dei 62 anni.
Al fine di salvaguardare le aspettative dei soggetti prossimi al raggiungimento dei requisiti pensionistici, la riforma ha dettato una disciplina transitoria, individuando alcune categorie di lavoratori ai quali continua ad applicarsi la normativa previgente, preordinando allo scopo specifiche risorse finanziarie. Tale platea comprende, in particolare, i lavoratori che maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2011; i lavoratori collocati in mobilità sulla base di accordi sindacali stipulati anteriormente al 4 dicembre 2011 (data di entrata in vigore della riforma) e che maturino i requisiti per il pensionamento entro il periodo di fruizione dell’indennità di mobilità; i lavoratori titolari di prestazione straordinaria a carico dei fondi di solidarietà di settore alla data del 4 dicembre 2011, nonché lavoratori per i quali sia stato previsto da accordi collettivi stipulati entro la data del 4 dicembre 2011 il diritto di accesso ai predetti fondi di solidarietà; i lavoratori che, antecedentemente alla data del 4 dicembre 2011, siano stati autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione; i lavoratori che alla data del 4 dicembre 2011 si trovino in esonero dal servizio; i lavoratori che alla data del 31 ottobre 2011 sono in congedo per assistere figli con disabilità grave, a condizione che maturino, entro ventiquattro mesi dalla data di inizio del predetto congedo, il requisito di anzianità contributiva di 40 anni.
L’insufficienza delle norme transitorie contenute nella legge di riforma, resasi evidente nei mesi successivi alla sua entrata in vigore (mesi che hanno visto crescere la protesta dei lavoratori che si sarebbero venuti a trovare senza stipendio e senza pensione), ha indotto il Governo e il Parlamento a rivedere la platea dei soggetti ammessi al pensionamento secondo la normativa previgente, estendendola a più riprese.
Dapprima, l’articolo 6, comma 2-ter, del D.L. 216/2011 (c.d. decreto proroga termini) vi ha ricompreso anche i lavoratori il cui rapporto di lavoro si sia risolto, in base ad accordi individuali, sottoscritti in data antecedente a quella di entrata in vigore della legge di riforma o in applicazione di accordi collettivi di incentivo all'esodo stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale, purchè in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi che, in base alla previgente disciplina pensionistica, avrebbero comportato la decorrenza del trattamento entro un periodo non superiore a 24 mesi dalla data di entrata in vigore della riforma.
Successivamente è intervenuto l’articolo 22 del D.L. 95/2012 (c.d. “spending review”), che ha ulteriormente incrementato la platea dei soggetti salvaguardati, rientranti in alcune categorie, ricomprendendovi altri 55.000 lavoratori.
Da ultimo, sulla materia è intervenuto l’articolo 1, commi 231-237, della L. 228/2012 (legge di stabilità per il 2013), prevedendo che le disposizioni previgenti alla legge di riforma continuino a trovare applicazione anche nei confronti: dei lavoratori cessati dal rapporto di lavoro entro il 30 settembre 2012 e collocati in mobilità (ordinaria o in deroga) a seguito di accordi (governativi o non governativi) stipulati entro il 31 dicembre 2011 e che abbiano perfezionato i requisiti utili al trattamento pensionistico entro il periodo di fruizione dell’indennità di mobilità o durante il periodo di godimento dell’indennità di mobilità in deroga, e in ogni caso entro il 31 dicembre 2014; dei lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre 2011, a condizione che perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il 36° mese dalla data di entrata in vigore del D.L. 201/2011 (con almeno un contributo volontario accreditato o accreditabile alla data di entrata in vigore del D.L. 201/2011, ancorché abbiano svolto, successivamente alla medesima data del 4 dicembre 2011, attività lavorativa retribuita, comunque non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, entro il limite di 7.500 euro annui; oppure collocati in mobilità ordinaria alla data del 4 dicembre 2011, i quali avvieranno la contribuzione volontaria al termine della fruizione della mobilità ordinaria); dei lavoratori che hanno risolto il rapporto di lavoro entro il 30 giugno 2012, in ragione di accordi individuali o in applicazione di accordi collettivi di incentivo all’esodo stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale entro il 31 dicembre 2011, ancorché abbiano svolto, dopo la cessazione, qualsiasi attività non riconducibile a rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (a condizione che abbiano conseguito un reddito annuo lordo complessivo riferito a tali attività non superiore a euro 7.500 e perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2014); dei lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria entro il 4 dicembre 2011 e collocati in mobilità ordinaria alla predetta data, i quali, in quanto fruitori della relativa indennità, debbano attendere il termine della fruizione stessa per poter effettuare il versamento volontario (a condizione che perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del D.L. 201/2011, e cioè entro il 6 dicembre 2014).
Per effetto dei ripetuti interventi del legislatore è stata garantita copertura previdenziale ad un totale di circa 140.000 lavoratori (fino al 2014).
Finanziamenti
Regolamenti
E' stata introdotta una normativa speciale volta a consentire il pensionamento anticipato per i soggetti che hanno svolto lavori usuranti. In attuazionedella legge 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) è dapprima intervenuto il D.lgs. 21 aprile 2011, n. 67, che ha dettato una disciplina organica della materia. Successivamente, il D.L. 201/201, nel quadro della riforma complessiva della previdenza, ha attenuato la portata dei benefici previdenziali in precedenza previsti.
Sulla base della delega legislativa conferita dell’articolo 1 della L. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro), una prima disciplina della materia è stata introdotta con il D.Lgs. 67/2011.
Il D.Lgs. 67/2011 è volto a consentire ai lavoratori dipendenti impegnati in lavori o attività connotati da un particolare indice di stress psico-fisico, di maturare il diritto al trattamento pensionistico con un anticipo di 3 anni.
Restano comunque fermi il requisito minimo di anzianità contributiva di 35 anni, la nuova disciplina relativa alla decorrenza del pensionamento (cd. “finestre”) e l’adeguamento dell’età pensionabile all’incremento dell’aspettativa di vita.
Per quanto riguarda la platea dei soggetti beneficiari, il decreto dispone che possano usufruire del pensionamento anticipato quattro diverse categorie di soggetti:
Condizioni per l’accesso al beneficio pensionistico sono che le attività usuranti vengano svolte al momento dell’accesso al pensionamento e che siano state svolte per una certa durata nel corso della carriera lavorativa (nella fase transitoria, ossia fino al 2017, per un minimo di 7 anni negli ultimi 10 anni di attività lavorativa; a regime, ossia dal 2018, per un arco di tempo almeno pari alla metà dell’intera vita lavorativa).
Specifiche norme concernono gli obblighi dei datori di lavoro in ordine alla produzione della documentazione volta a dimostrare il possesso dei requisiti richiesti per l’accesso al beneficio pensionistico. Ferma restando la disciplina vigente in materia di revoca dei trattamenti pensionistici e ripetizione dell’indebito, si prevede che nel caso di erogazione dei benefici sulla base di documentazione non veritiera il datore di lavoro che l’ha fornita sia tenuto al pagamento di una sanzione in favore degli istituti previdenziali eroganti.
Una apposita clausola di salvaguardia, infine, è volta a garantire il rispetto dei limiti di spesa fissati, prevedendo il differimento della decorrenza dei trattamenti (con criteri di priorità basati sulla data di maturazione dei requisiti) qualora emergano scostamenti tra il numero delle domande presentate e la copertura finanziaria a disposizione.
L’articolo 24, comma 17, del D.L. 201/2011, intervenendo sul D.Lgs. 67/2011, ha significativamente modificato l’accesso al pensionamento anticipato per i suddetti lavoratori, con l'effetto di attenuare la portata dei benefici previdenziali in precedenza previsti.
Le novita' introdotte rispetto al testo originario del D.Lgs. 67/2011 sono:
In ogni caso, tali modifiche non scontano il fatto che per i lavoratori in questione continua ad applicarsi (diversamente dalla generalità dei lavoratori) il regime delle decorrenze, (c.d. finestre) introdotto dall’articolo 12, comma 2 del D.L. 78/2010.
Per quanto attiene, infine, alla platea di soggetti che hanno fin qui effettivamente avuto acceso ai benefici, dati recenti segnalano un basso tasso di accoglimento delle domande, con tutta probabilità legato ai gravosi oneri probatori richiesti dalla normativa (soprattutto con riferimento ai periodi lavorativi più risalenti nel tempo).
Nel settore della previdenza pubblica sono state a più riprese modificate le norme relative alla permanenza in servizio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo, è stata riconosciuta alle amministrazioni la facoltà di risolvere il rapporto di lavoro dopo 40 anni di servizio effettivo ed è stata introdotta l'anticipazione del TFR. Inoltre, a seguito della sentenza di condanna della Corte di giustizia delle Comunità europee, si è provveduto ad innalzare l'età pensionabile delle dipendenti del pubblico impiego.
L’articolo 72 del D.L. 112/2008 aveva rimesso alla valutazione dell’amministrazione di appartenenza il riconoscimento della possibilità per i dipendenti pubblici di permanere in servizio per un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo (in precedenza la scelta di permanere in servizio era rimessa unicamente al dipendente, configurandosi pertanto come diritto soggettivo). L’amministrazione era tenuta a valutare la richiesta in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, tenendo conto di vari parametri (quali la particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in specifici ambiti e l’efficiente andamento dei servizi). La domanda di permanenza in servizio doveva essere presentata all’amministrazione di appartenenza dai 24 ai 12 mesi precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento.
Successivamente, l’articolo 1, comma 17, del D.L. 138/2011, ha stabilito che la facoltà di trattenimento in servizio viene esercitata unilateralmente dall’amministrazione sulla base della semplice disponibilità del dipendente e non più su sua richiesta.
Da ultimo, nel quadro della riforma previdenziale attuata con il D.L. 201/2011 (riforma Fornero), l'istituto è stato di fatto abrogato (articolo 24, comma 14).
L’articolo 72 del D.L. 112/2008, cosi come modificato dall’articolo 17, commi 35-novies e decies del D.L. 78/2009, ha riconosciuto la facoltà per le pubbliche amministrazioni, per il triennio 2009-2011, di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nel caso in cui il dipendente (compresi i dirigenti) abbia maturato un’anzianità contributiva pari a 40 anni (con un preavviso di sei mesi e fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici). Viene specificato che tale facoltà rientra nei poteri di organizzazione della P.A. ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs. 165/2001.
La nuova disciplina non trova applicazione nei confronti dei magistrati, dei professori ordinari e dei dirigenti medici responsabili di struttura complessa.
Successivamente, l'articolo 16, comma 11, del D.L. 98/2011, ha previsto che, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro derivante dall’esercizio della facoltà richiamata, la pubblica amministrazione non debba fornire ulteriori motivazioni, qualora essa abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo. Specifici criteri e modalità applicative per i dipendenti dei comparti sicurezza, difesa ed esteri, sono rimessi ad appositi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Da ultimo l’articolo 1, comma 16, del D.L. 138/2011, ha disposto la proroga dell’applicazione dell’istituto per il triennio 2012-2014 (così come anche confermato dall'articolo 24, comma 20, del D.L. 201/2011).
L’articolo 4, commi 4 e 5, del D.L. 185/2008, ha esteso ai dipendenti pubblici la possibilità (già riconosciuta ai dipendenti del settore privato) di ottenere l’anticipazione del trattamento di fine rapporto in determinati casi. L’attuazione della nuova disciplina è rimessa a un decreto ministeriale (fin qui non emanato).
L’articolo 12 del D.L. 78/2010 ha disposto la corresponsione dei TFS in forma rateale. In particolare, i TFS (comunque denominati) spettanti in seguito a cessazione di servizio vengono erogati:
Il provvedimento, inoltre, ha applicato a tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni con effetto sulle anzianità contributive maturate dal 1° gennaio 2011, seppur con il principio del pro-rata temporis, il regime del trattamento di fine rapporto (TFR) (di cui all'articolo 2120 del codice civile), in sostituzione dei trattamenti di fine servizio (e delle indennità equipollenti), per tutti i dipendenti assunti entro il 31 dicembre 2000 i quali non abbiano optato per il TFR stesso. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 223/2012 , ha tuttavia dichiarato illegittima tale norma (peraltro successivamente abrogata dall’articolo 1, commi 98-101, della L. 228/2012), con ciò ripristinando la piena applicazione dei regimi di trattamento di fine servizio (comunque denominati) già vigenti per i dipendenti pubblici anteriormente al 1° gennaio 2011.
Specifiche norme sui termini per la corresponsione dei trattamenti di fine servizio (comunque denominati) dei dipendenti pubblici sono state introdotte dall’articolo 1, commi 22-23 e 32, del D.L. 138/2011.
In primo luogo si prevede un posticipo di 6 mesi per i TFS riconosciuti per raggiungimento dei limiti di età o di servizio e per il collocamento a riposo d’ufficio previsti dagli ordinamenti di appartenenza (per i quali nella normativa previgente non era previsto alcun posticipo).
Inoltre, si incrementa a 24 mesi il posticipo (rispetto ai 6 previsti dalla legislazione previdente), per i TFS erogati per altre cause (es. dimissioni, licenziamento).
Per i soggetti che abbiano maturato i requisiti per il pensionamento prima della data di entrata in vigore del decreto-legge (13 agosto 2011) e per i dipendenti del comparto scuola che maturino i medesimi requisiti entro il 31 dicembre 2011 resta ferma la disciplina previgente.
Infine, sono stati modificati i criteri di calcolo delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio (comunque denominati) nell'ipotesi in cui il dipendente pubblico sia stato titolare di un incarico dirigenziale per un periodo inferiore al minimo generale di tre anni (richiesto dall’articolo 19, comma 2, del D.Lgs. 165/2001), a causa del conseguimento del limite di età per il collocamento a riposo. In sostanza, la norma ha lo scopo di evitare che nel caso in cui al momento del collocamento a riposo il dipendente sia titolare di un incarico dirigenziale inferiore a 3 anni, lo stipendio erogato nel periodo dell’incarico sia preso come parametro di riferimento ai fini del calcolo della base pensionabile. La disposizione si applica agli incarichi conferiti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto-legge e, qualora abbiano una decorrenza successiva al 1° ottobre 2011, anche agli incarichi conferiti precedentemente.
Con la sentenza del 13 novembre 2008, emessa a seguito della procedura di infrazione avviata nel luglio 2005 dalla Commissione europea, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne.
In relazione a tale sentenza, la Commissione di studio sulla parificazione dell’età pensionabile, istituita nell’ambito del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione, ha prodotto, il 23 febbraio 2009, una relazione in ordine al recepimento della pronuncia della Corte di giustizia.
Con l’articolo 22-ter del D.L. 78/2009, il legislatore ha inteso dare attuazione alla richiamata sentenza, modificando la disciplina relativa ai requisiti anagrafici richiesti ai fini del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti. In sostanza, la norma ha disposto l’incremento di un anno dell’età anagrafica richiesta (quindi 61 anni) ai fini della pensione di vecchiaia a decorrere dal 2010, prevedendo altresì ulteriori incrementi di un anno per ogni biennio successivo, a decorrere dal 1° gennaio 2012, fino al raggiungimento dei 65 anni, a regime, nel 2018.
Successivamente, l'articolo 12, comma 12-sexies, del D.L. 78/2010, modificando in parte l'articolo 22-ter, ha disposto che il raggiungimento del requisito anagrafico dei 65 anni ai fini del riconoscimento della pensione di vecchiaia operi a regime a decorrere dal 1° gennaio 2012, quindi con un incremento anagrafico pari a quattro anni (in luogo del sistema di incrementi progressivi previsti in precedenza dallo stesso articolo 22-ter). Tale limite è stato innalzato a 66 anni a decorrere dal 1° gennaio 2012 dall’articolo 24 del D.L. 201/2011 (Riforma Fornero), il quale, attuando una revisione complessiva del sistema pensionistico, ha ridefinito i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia a decorrere, appunto, dal 1° gennaio 2012, anche per i pubblici dipendenti.
Con la sentenza del 13 novembre 2008 , emessa a seguito della procedura di infrazione avviata nel luglio 2005 dalla Commissione europea, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato l’Italia per aver mantenuto in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne.
Nell’avviare la procedura di infrazione, la Commissione europea ha sostenuto che il regime gestito dall’INPDAP è un regime c.d. professionale al quale si applicano la direttiva 86/378/CEE , e successive modifiche, nonché l’articolo 141 del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), i quali vietano qualsiasi discriminazione retributiva in base al sesso. Conseguentemente, il sistema pensionistico definito in Italia per il pubblico impiego è stato ritenuto un regime discriminatorioin quanto stabilisce che l’età pensionabile sia di 65 anni per gli uomini e di 60 anni per le donne.
La Commissione europea ha dapprima invitato l’Italia ad adottare i provvedimenti necessari a conformarsi al principio di non discriminazione e successivamente adito la Corte di giustizia.
La Corte ha ricordato preliminarmente che, al fine di valutare se una pensione di vecchiaia rientri nell’ambito applicativo dell’articolo 141 del Trattato, assume carattere determinante il c.d. “criterio dell’impiego”, ovvero il criterio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce all’ex datore di lavoro.
Inoltre, sulla base di una giurisprudenza comunitaria consolidata, è stato rilevato che un regime pensionistico di vecchiaia deve essere considerato retribuzione qualora ricorrano i seguenti requisiti:
Dopo aver esaminato il regime della pensione di vecchiaia gestita dall’INPDAP, la Corte di giustizia ha constatato che:
a) i dipendenti pubblici che beneficiano del regime previdenziale INPDAP costituiscono una categoria particolare di lavoratori;
b) la pensione erogata dall’INPDAP viene calcolata con riferimento al numero degli anni di servizio prestati dal dipendente ed allo stipendio base percepito da quest’ultimo prima del suo pensionamento;
c) la base di calcolo della pensione INPDAP risponde ai criteri stabiliti dalla Corte in precedenti sentenze ai fini della qualificazione della pensione come retribuzione.
La Corte ha pertanto concluso che la pensione versata in forza del regime INPDAP costituisce una forma di retribuzione ai sensi dell’articolo 141 del Trattato e che la fissazione di un requisito di età variabilesecondo il sesso per la concessione della pensione di vecchiaia (che costituisce una retribuzione ai sensi del citato articolo 141) è in contrasto con il principio della parità retributiva tra uomini e donne.
La sentenza non ha accolto, tra l’altro, l’argomento fornito dalla Repubblica italiana secondo il quale la fissazione, ai fini del pensionamento, di una età diversa in relazione al sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne. In proposito, è stato evidenziato dalla Corte che la fissazione di una età diversa per la pensione di vecchiaia non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile.
La Corte ha pertanto concluso che, mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi di cui all’articolo 141 del Trattato.
Sul tema della tutela della disabilità il Parlamento ha approvato ed esaminato alcune proposte di legge contenenti specifiche misure a tutela dei disabili. Oltre alla legge che opera il riconoscimento della sordocecità quale disabilità specifica unica e alla revisione dei criteri per l'attribuzione del trattamento economico spettante agli invalidi civili, vanno ricordate le disposizioni dirette ad estendere alle associazioni a tutela dei disabili alcune norme applicabili agli istituti di patronato, nonché le norme che introducono specifiche forme di assistenza a tutela dei disabili gravi privi del sostegno familiare.
Misure diverse a tutela dei disabili
In tema di tutela della disabilità vanno segnalate alcuni provvedimenti, recanti misure diverse a tutela dei disabili, il cui esame è stato concluso o avviato dal Parlamento.
In tema di diritti delle persone sordocieche va ricordata la legge 107/2010 (A.C. 2713 e A.C. 1335), diretta al riconoscimento della sordocecità come disabilità specifica unica, distinta dalla sordità e dalla cecità, in conformità alle indicazioni contenute nella Dichiarazione scritta sui diritti delle persone sordocieche del Parlamento europeo, del 1° aprile 2004. Viene stabilita la percezione in forma unificata delle indennità spettanti alle persone sordocieche, vengono definiti i criteri per l'accertamento della disabilità unica e disciplinati gli interventi per l'integrazione e il sostegno sociale delle persone sordocieche.
Vanno poi ricordate alcuni progetti di legge il cui esame è stato avviato ma non concluso dalla XII commissione affari sociali della Camera.
Sull'aspetto dei trattamenti economici spettanti agli invalidi civili intervengono alcune proposte di legge (A.C. 1539 ed abb.) che, oltre ad incrementare l’ammontare del trattamento citato, intervengono ad eliminare od attenuare il limite di età attualmente previsto dalla normativa vigente.
Vanno poi ricordata le proposte di legge (A.C. 1732 e A.C. 3224) diretta ad estendere alle organizzazioni, federazioni e associazioni a carattere nazionale di persone disabili e dei loro familiari che, senza fini di lucro, operano per la tutela dei diritti delle persone disabili, l’applicazione di alcune disposizioni della legge 30 marzo 2001, n. 152, disciplinante gli istituti di patronato e di assistenza sociale. Dopo lo svolgimento di una parte dell'istruttoria legislativa presso la XII Commissione, a seguito del conflitto di competenza sollevato dalla XI Commissione - lavoro pubblico e privato -, i progetti di legge sono stati nuovamente assegnati in sede referente alle Commissioni riunite XI e XII, che ne hanno avviato l'esame, senza tuttavia concluderlo.
Vanno infine menzionate alcune proposte di legge (A.C. 2024 ed abb.) dirette a prevedere misure di assistenza in favore dei disabili gravi privi del sostegno familiare, vale a dire privi del nucleo familiare o con famiglie sprovviste dei mezzi necessari per assisterli o curarli.
Viene istituito uno specifico Fondo presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di cui viene anche disciplinato il funzionamento, prevista la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, vengono contemplate agevolazioni fiscali ed erogazioni liberali.
L’articolo 13, co. 3, della L. 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), nel garantire nelle scuole di ogni ordine e grado l’attività di sostegno mediante l'assegnazione di docenti specializzati, conferma, ai sensi del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, l'obbligo degli enti locali di fornire l’assistenza per l'autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici o sensoriali.
Per quanto concerne il riparto delle competenze istituzionali ed, in particolare, l’individuazione dell’ente al quale fa capo l’obbligo di fornire la necessaria assistenza agli alunni disabili, va preliminarmente osservato che il citato D.P.R. 616/1977 ha originariamente attribuito ai comuni le funzioni amministrative relative all’assistenza scolastica, ossia quelle concernenti le strutture, i servizi e le attività destinate a facilitare, mediante erogazioni e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali o collettivi, a favore degli alunni di istituzioni scolastiche pubbliche o private, anche se adulti, l'assolvimento dell'obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi, la prosecuzione degli studi. Le funzioni suddette concernono, tra l'altro, gli interventi di assistenza medico-psichica e l'assistenza ai minorati psico-fisici (articoli 42 e 44 del D.P.R. 616/1977).
Successivamente, il decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 9, ha restituito alla competenza delle province le funzioni assistenziali, che sono esercitate, direttamente o in regime di convenzione con i comuni, già di loro competenza alla data di entrata in vigore della L. 8 giugno 1990, n. 142.
A seguito del trasferimento di funzioni operato dall’articolo 139, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali), i servizi di supporto organizzativo (nei quali rientra quindi anche l’assistenza educativa) del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio sono stati demandati alle province, in relazione all'istruzione secondaria superiore, e ai comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di scuola.
Questo riparto di competenze sembra confermato dalla delibera 5/2008 della Corte dei conti (Sezione regionale di controllo della Lombardia), che include nell’ambito della nozione di “supporto organizzativo” anche il trasporto degli alunni portatori di handicap dall’abitazione alla sede scolastica. Ad analoghe conclusioni sono pervenuti sia il Consiglio di Stato, con il parere del 20 febbraio 2008, n. 213, sia il TAR della Campania (Sez. I), con la sentenza 22 febbraio 2006, n. 167, i quali hanno riconosciuto nella provincia l’ente tenuto ad assicurare il trasporto gratuito dei disabili che frequentino le scuole secondarie superiori (vedi anche l’ordinanza del TAR di Catania del 6 novembre 2002, n. 2112).
Per completare il quadro normativo, è utile ricordare che l’articolo 6, co. 2, lett. b) della legge 8 novembre 2000, n. 328 (legge quadro sui servizi sociali), pur senza modificare esplicitamente il sistema di competenze sin qui descritto, ha attribuito ai comuni le competenze relative all’erogazione di tutti i servizi sociali nonché delle attività assistenziali già di competenza delle province, individuando quindi nel comune l’ente intestatario delle funzioni amministrative in materia di interventi sociali e di servizi alla persona.
Con l’articolo 14 della legge 328/2000 ai comuni è stata affidata anche la realizzazione di progetti individuali per le persone disabili per la realizzazione della piena integrazione nell’ambito familiare e sociale nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica, professionale o del lavoro.
Analoghe previsioni sono state dettate dall'articolo 13 del D.Lgs. 18 ottobre 2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), il quale stabilisce che spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità.
In tale contesto, è opportuno evidenziare che l’articolo 13, co. 1, lett. a) della L. 104/1992 prevede che l'integrazione scolastica della persona handicappata nelle sezioni e nelle classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado e nelle università è destinata a realizzarsi in gran parte attraverso la conclusione di accordi di programma tra gli enti locali, gli organi scolastici e le aziende sanitarie locali ai fini della programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite da enti pubblici o privati.
L’esigenza di coordinamento è stata recentemente ribadita dalla nota prot. 3390 del 30 novembre 2001 del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, nella quale è stato sottolineato che, anche dopo il trasferimento di funzioni al sistema dei governi territoriali di cui al D.Lgs. 112/1998, gli accordi di programma costituiscono lo strumento più efficace per “un'attività coordinata e finalizzata a garantire la realizzazione di progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione”. In particolare, la suddetta nota distingue l’assistenza per l’autonomia e la comunicazione di cui alla L. 104/1992 in due segmenti: il primo, riferito all’assistenza di base, è di competenza degli istituti scolastici; il secondo, concernente l’assistenza specialistica, è assicurato dagli enti locali.
Non va trascurato poi che, a seguito della riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, la materia è in larga misura soggetta alla legislazione regionale.
La puntuale regolamentazione delle attività di assistenza agli alunni con disabilità può essere infatti ricondotta al comparto dei servizi sociali, ora confluito nella competenza residuale delle regioni, nonché – considerata la finalità di assicurare il diritto allo studio ai soggetti con handicap e le relative implicazioni sull’organizzazione delle attività scolastiche – alla materia dell’ “istruzione”, assegnata dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione alla potestà legislativa concorrente.
Tra le novità di rilievo in ordine alla presa in carico dell’alunno con disabilità si segnala la recente intesa del 20 marzo 2008 n.39, siglata in sede di Conferenza unificata, che riorganizza l’assegnazione dei docenti di sostegno. L’intesa prescrive che gli insegnanti specializzati per il sostegno, anziché essere titolari presso un’istituzione scolastica, siano in carico ad un’unica scuola polo del territorio per essere assegnati ai singoli istituti, salvaguardando possibilmente la continuità didattica.
Quanto alla normativa regionale, si può constatare che non tutte le regioni hanno definito la competenza degli enti locali in merito all’assistenza educativa utilizzando il criterio dell’ordine di scuola (come previsto dall'articolo 131 del D.Lgs. 112/1998). Per esempio, la legge della regione Veneto 13 aprile 2001, n. 11 fa riferimento alla tipologia di disabilità, demandando alle province i servizi per l’integrazione dei minorati sensoriali (non vedenti e audiolesi) nelle scuole di ogni ordine e grado (articolo 34 della LR del Veneto 17 gennaio 2001, n. 2).
Per quanto riguarda il concetto di disabilità, nel maggio 2001, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha approvato l'International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF), con lo scopo di integrare sia il modello medico sia il modello sociale; pur non essendo una condizione esclusiva della popolazione anziana, la disabilità è prevalentemente osservabile nella fascia degli ultra settantacinquenni dove la cronicità, la morbilità, la compromissione funzionale, la polifarmacoterapia e le problematiche di tipo sociosanitario, giocano un ruolo determinante.
I trend demografici evidenziano un rilevante aumento assoluto e relativo del segmento della popolazione anziana ultrasettantacinquenne (+25%, pari a più di 1.400.000 persone nei prossimi 10 anni), con andamenti di grosso impatto soprattutto sulla prevalenza di molte patologie cronico degenerative; ad esempio, le demenze sono destinate ad un sostanziale raddoppio degli attuali malati (sono circa 450.000 nel 2007) entro il 2020.
Dall’indagine La disabilità in Italiaemerge che la famiglia è il soggetto che generalmente prende in carico la persona disabile. Circa il 10% delle famiglie ha almeno un componente con problemi di disabilità e, oltre un terzo di queste famiglie è composto da persone disabili che vivono sole. Quasi l’80% delle famiglie con persone disabili non risulta assistita dai servizi pubblici a domicilio ed oltre il 70% non si avvale di alcuna assistenza, né pubblica né a pagamento soprattutto nel Sud.
Le persone con disabilità sono 2 milioni 600 mila di cui l’80% hanno un’età superiore a 65 anni.
La disabilità è più diffusa tra le donne (6,1% contro 3,3% degli uomini). Le persone confinate nell’abitazione sono 1 milione 130 mila (2,1%); tra le persone anziane tale percentuale raggiunge 8,7%. Il 3,0% della popolazione di 6 anni e più presenta invece limitazioni nello svolgimento delle indispensabili attività di cura personali.
Il Sud e le Isole presentano tassi più elevati per le patologie croniche “gravi” e la disabilità. Si supera la percentuale del 14% dei cronici gravi contro il 12,4% del Nord-ovest e il 12,6% del Nord-est.
Per la disabilità nelle Isole si arriva al 6,2% e nel Sud al 5,8% contro il 4,1% del Nord-ovest e il 4,0% del Nord-est. Particolarmente critica la situazione delle donne anziane nel Sud, tra le quali la percentuale di disabili sfiora il 30% contro il 19,5% delle coetanee nel Nord Italia.
La definizione di disabilità cambia a seconda della rilevazione statistica e di chi la effettua; spesso si usano in modo impreciso termini come non autosufficiente, disabile, portatore di handicap, invalido e inabile.
In Italia, la tutela assistenziale del cittadino disabile si realizza in primis con l’istituto dell’invalidità civile (Decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5), creato nel nostro Paese negli anni Settanta, ed inizialmente orientato al collocamento mirato al lavoro di soggetti impossibilitati a lavorare per malattia (art. 38 della Costituzione), si è nel tempo trasformato in un sistema che - attivato per l’erogazione di indennità di natura economica – è stato utilizzato anche per la tutela dei soggetti anziani ultra sessantacinquenni o dei minorenni.
L’accertamento delle percentuali di invalidità civile avviene attraverso il DM 5 febbraio 1992, e successive modificazioni, che ha recepito, in forma limitata, alcune indicazioni elaborate dall’OMS nell’ambito della classificazione internazionale delle menomazioni “Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (ICIDH-1, 1980). Il sistema rimane legato all'analisi e alla misurazione percentuale di ciascuna menomazione anatomo-funzionale e dei suoi riflessi negativi sulla capacità lavorativa e molte infermità non risultano gabellate, tuttavia, è possibile valutarne il danno con un criterio analogico.
I cittadini che richiedono il riconoscimento dello stato d’invalidità, dopo l’esito positivo della visita, disposta dalla regione e dall’INPS (che è il soggetto istituzionale pagante), attraverso la Commissione medica di accertamento, hanno diritto a:
La legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) ha introdotto un nuovo modello di assistenza alle persone disabili che fa riferimento alla capacità della persona di espletare autonomamente (anche se con ausili) le attività fondamentali della vita quotidiana.
Come precedentemente anticipato, la definizione di disabilità non è universale. L’ISTAT, ad esempio, usa la nuova classificazione dell’OMS la “Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità” (ICF, 2001) che definisce non autosufficienti le persone con disabilità fisica, psichica, sensoriale, relazionale, accertata attraverso l’adozione di criteri uniformi su tutto il territorio nazionale. In particolare, la classificazione ICIDH-1 considera la disabilità come la conseguenza di una menomazione strutturale o funzionale al livello corporeo, l’ICF definisce la disabilità come risultato di una complessa relazione tra salute, fattori personali e ambientali e, conseguentemente, determina la necessità di un’integrazione tra l’intervento sanitario e quello sociale.
L’indennità di accompagnamento (Legge 11 febbraio 1980, n. 18 “Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili”) è un istituto che riguarda essenzialmente la disabilità e l’handicap dei minori e degli adulti, più che degli anziani, non considerati ancora, al momento dell’introduzione del nuovo istituto, una priorità sociosanitaria.
Nel corso del tempo, l’indennità di accompagnamento ha progressivamente mutato il proprio target, rivolto oramai alla non autosufficienza in generale, in particolare delle persone anziane, e strumento universalistico, per un’utenza in crescita, gli anziani non autosufficienti.
In Italia, secondo gli ultimi dati resi disponibili dell’ISTAT, si registrano ad oggi circa 2.600.000 persone non autosufficienti, ossia di persone che riferiscono una totale mancanza di autonomia per almeno una delle funzioni essenziali che permettono di condurre una vita quotidiana normale.
La legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), ha indicato i princípi fondamentali della materia (tra cui l'applicazione dell'ISEE per l'accesso al servizio integrato di servizi ed interventi sociali), ha istituito a fini di programmazione il piano nazionale triennale degli interventi e dei servizi sociali (approvato per il triennio 2001-2003 con D.P.R. 3 maggio 2001 e non seguíto da altri piani, a causa del mutato assetto delle competenze istituzionale, dopo la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione) ed ha precisato le aree in relazione alle quali il piano deve specificare gli interventi integranti i livelli essenziali delle prestazioni di assistenza sociale (LIVEAS).
Le principali attività del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sono indirizzate a:
L'Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità è un organismo istituito ai sensi dell’art. 3 della legge 3 marzo 2009, n. 18 e presieduto dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il Regolamento dell’Osservatorio è stato disciplinato con il Decreto Interministeriale del 6 luglio 2010 n. 167.
L’Osservatorio ha funzioni consultive e di supporto tecnico-scientifico per l’elaborazione delle politiche nazionali in materia di disabilità con particolare riferimento:
All’interno dell’Osservatorio è istituito un Comitato tecnico-scientifico con finalità di analisi ed indirizzo scientifico in relazione alle attività e ai compiti dell’Osservatorio. Il comitato è composto da un rappresentante del Ministero del Lavoro e da uno del Ministero della Salute, da rappresentante delle Regioni e da uno delle autonomie locali, da due rappresentanti delle associazioni nazionali maggiormente rappresentative delle persone con disabilità e da tre esperti facenti parte dell’Osservatorio.
Il primo Programma d’azione italiano per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità è stato approvato dall’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, a cui si deve anche il primo Rapporto italiano alle Nazioni Unite sulla implementazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità nel nostro Paese.
Il Programma d'azione, di durata biennale, individua le aree prioritarie verso cui indirizzare azioni e interventi per la promozione e la tutela dei diritti delle persone con disabilità, al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi generali della Strategia europea sulla disabilità 2010-2020 e della Convenzione ONU ratificata dall’Italia nel 2009.
In particolare, le principali forme di aiuto economico riguardano: l’indennità di accompagnamento, erogata direttamente al disabile, all’anziano, e al non autosufficiente, senza alcun limite di reddito, per migliorare le sue condizioni di vita, e diverse agevolazioni fiscali riguardanti: i figli a carico portatori di handicap, in funzione del reddito e del numero dei figli stessi; l’acquisto di veicoli, mezzi di ausilio, sussidi tecnici e informatici; le spese per i cani dei non vedenti e di interpretariato per i non udenti; le spese per le realizzazioni di interventi di abbattimento delle barriere architettoniche; le spese mediche e quelle per l’assistenza personale e domestica.
Dal punto di vista sanitario, le persone disabili e non autosufficienti, possono ricevere, a richiesta, dalle strutture presenti nel luogo dove vivono, varie tipologie di assistenza sanitaria (medico, infermieristico, protesico, psichiatrico). Tali interventi possono essere erogati negli ambulatori pubblici, a domicilio, in strutture semiresidenziali o residenziali.
Per quanto concerne le prestazioni di carattere socio-assistenziale, lo Stato attraverso proprie leggi (legge n. 104 del 1992) garantisce l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate e dei loro familiari. In particolare, sono tutelati i diritti riguardanti l’inserimento scolastico - diritto all’insegnante di sostegno e agli ausili scolastici - e l’accesso al mondo del lavoro (legge n. 68/1999) - collocamento mirato e assunzioni obbligatorie -. Ai cittadini lavoratori, portatori di handicap grave, riconosciuto ai sensi dell’art. 3, comma 3 Legge 104/92 e ai loro familiari vengono concessi, in presenza di determinate condizioni, dei permessi retribuiti aventi come scopo la cura e l’assistenza del portatore di handicap.
Inoltre, per le persone disabili sono i comuni, singoli o associati, che nel territorio di appartenenza, intervengono con loro iniziative, che vanno dallo scuola bus per le persone non autosufficienti, alla consegna a domicilio di documenti o generi di prima necessità, al personale che assiste i minori che frequentano gli istituti dell’obbligo.
Per le finalità di natura socio-assistenzialele risorse necessarie vengono stanziate annualmente attraverso la legge finanziaria nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali e dal Fondo per le non autosufficienze, che possono essere integrati da proprie risorse regionali e comunali al fine di garantire ulteriori servizi.
Gli altri interventi di natura sanitaria, fiscale e del lavoro, sono a carico del Fondo sanitario nazionale, che si alimenta attraverso vari tributi e viene ripartito tra le Regioni, della previdenza e della fiscalità generale dello Stato.