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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Lunedì 6 maggio 2013

ATTI DI INDIRIZZO

Mozione:


   La Camera,
   premesso che:
    il 2 giugno viene celebrata la ricorrenza della nascita della Repubblica Italiana, in ricordo del referendum istituzionale che nel 1946 stabilì, a suffragio universale, la forma repubblicana per l'Italia;
    la celebrazione si articola nella parata militare, che la mattina del 2 giugno attraversa a Roma la via dei Fori Imperiali, e nel ricevimento offerto dal Presidente della Repubblica al Corpo diplomatico accreditato in Italia;
    in passato più volte è stato deciso di sospendere la parata per ragioni di sobrietà nelle spese e, in talune occasioni, per gesto di civile solidarietà verso popolazioni colpite quell'anno da gravi eventi naturali;
    in particolare il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scàlfaro decise, nel corso di tutto il settennato della sua presidenza, di sospendere la parata e il ricevimento per motivi economici preferendo, come lo stesso Presidente Scàlfaro ebbe a spiegare, di aprire «i giardini del Quirinale per tutta la giornata del 2 giugno a tutte le famiglie ed alle persone normali, perché questa è la Festa degli Italiani»;
    negli ultimi anni i costi della parata sono aumentati considerevolmente toccando i 3,5 milioni di euro nel 2010 e i 4,4 milioni di euro nel 2011;
    il significato delle celebrazioni, che ricordano la nascita della Repubblica in seguito al già ricordato referendum istituzionale, non è in alcun modo legato alle Forze armate italiane;
    il giorno storicamente e istituzionalmente dedicato alla celebrazione delle nostre forze armate è il 4 novembre, data che ricorda la fine della prima guerra mondiale;
    il costo elevato della parata militare, sia pure in forme meno partecipate, come avvenne nel 2012, pesando comunque in quell'occasione sul bilancio dello Stato per una cifra di poco inferiore ai due milioni di euro e impegnando nella sfilata ben 2.500 persone tra militari e civili;
    vanno segnalate l'incongruenza politica e l'inopportunità morale di una spesa così alta in un Paese fortemente provato dalla crisi economica, con 6,4 milioni di persone ai margini del mercato del lavoro (stime Istat) e 97 milioni di ore di cassa integrazione registrate nel solo mese di marzo (stime Cgil),

impegna il Governo

ad assumere iniziative per annullare la parata militare del 2 giugno e destinare le risorse in tal modo risparmiate ad altre urgenze sociali.
(1-00029) «Claudio Fava, Scotto, Duranti, Piras, Marcon, Zan, Piazzoni, Sannicandro, Ragosta, Pilozzi, Placido, Ricciatti, Pannarale, Kronbichler, Nardi, Paglia, Lacquaniti, Melilla, Zaratti, Quaranta, Nicchi, Fratoianni, Costantino».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interrogazione a risposta orale:


   CAUSIN e MOLEA. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   da alcune settimane la regione Emilia-Romagna (in particolare, la provincia di Parma) è colpita da un'eccezionale ondata di maltempo a carattere alluvionale;
   i ripetuti eventi meteorologici hanno generato, lungo i diversi corsi d'acqua della regione (Enza, Secchia, Panaro e Reno), piene lunghe e significative con più colmi successivi e stati idrometrici che si sono mantenuti al di sopra del livello di attenzione per molti giorni consecutivi;
   le ondate di piena che hanno coinvolto il reticolo idro-geografico hanno danneggiato in modo significativo numerose opere idrauliche, oltre a provocare erosioni spondali, tracimazione di fossi e canali, danni alle strutture viabilistiche (strade e ponti), cedimenti di parti delle reti fognarie e acquedottistiche, allagamenti alle abitazioni e alle attività produttive, compromettendo la viabilità provinciale e locale;
   le piogge hanno poi determinato il riattivarsi di diversi movimenti franosi in tutta l'area appenninica, ma è soprattutto in provincia di Parma che si registra l'emergenza più acuta: la strada provinciale Massese è stata interrotta al chilometro 33 in località Boschetto (la frana ha travolto in poche ore la carreggiata stradale, interrompendo i collegamenti tra Langhirano e la parte alta del territorio, il comune di Tizzano e Sauna di Corniglio, dove sono state evacuate alcune abitazioni);
   le gravi criticità che stanno interessando la viabilità nell'area appenninica rischiano di ripercuotersi negativamente sulle attività produttive della zona, in particolare sui prosciuttifici, alcuni dei quali, per altro, minacciati anche direttamente dai movimenti franosi, con prevedibili conseguenze anche per il sistema economico non solo locale e per l'occupazione;
   l'Agenzia di protezione civile della regione Emilia-Romagna (congiuntamente alle province, ai comuni e ai consorzi di bonifica) sta monitorando la situazione, acquisendo informazioni, raccogliendo segnalazioni e richieste di interventi in emergenza, al fine di poter predisporre già nei prossimi giorni un rapporto dettagliato della situazione;
   il 5 aprile 2013 il presidente della regione Emilia-Romagna, Vasco Errani, ha inviato al Presidente del Consiglio dei ministri e al capo del dipartimento della protezione civile, la richiesta di dichiarazione di stato di emergenza per il territorio regionale, stante l'impossibilità di far fronte alla grave situazione determinatasi con i poteri ordinari e con i mezzi finanziari disponibili;
   a quanto risulta agli interroganti, il Ministero non ha mai risposto alla missiva inviata dall'amministrazione provinciale –:
   se si intenda accogliere la richiesta di dichiarazione dello stato di emergenza, ai sensi dell'articolo 5 della legge n. 225 del 1992, avanzata dal presidente della regione Emilia-Romagna;
   se, alla luce di quanto accaduto, non si ritenga opportuno adottare iniziative tese al finanziamento del piano di interventi proposto dalla provincia di Parma, a fronte del grave dissesto idrogeologico che caratterizza il territorio provinciale.
(3-00034)

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   CENNI. – Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   con decreto del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca del 13 luglio 2011 è stato emanato il bando di concorso per esami e titoli relativo al reclutamento di dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e per gli istituti educativi;
   il Tribunale amministrativo regionale della Toscana il 19 aprile 2013 ha emanato una sentenza, accettando i ricorsi di alcuni candidati, con cui ha annullato i risultati del suddetto bando di concorso;
   tra le motivazioni del Tar della Toscana: la composizione della Commissione, in seguito alle dimissioni del presidente della stessa, la collegialità della valutazione degli elaborati non supporta da analoga lettura dei lavori dei candidati;
   precedentemente il Tar del Lazio e quello della Calabria, per cause analoghe, non avevano annullato tale concorso;
   l'ufficio regionale scolastico della Toscana ha annunciato che ricorrerà al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar;
   tale situazione di incertezza rischia di creare inevitabilmente seri problemi all'intero sistema scolastico e formativo italiano;
   il numero nazionale dei dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e per gli istituti educativi si è infatti ridotto di un terzo negli ultimi sei anni, passando da circa 12 mila ad 8 mila;
   la situazione appare particolarmente grave nella regione Toscana, dove il Tar impugnando la graduatoria rischia di annullare la nomina di 106 dirigenti che hanno addirittura già terminato il periodo di prova. Secondo quanto dichiarato da Stella Targetti, vicepresidente della regione Toscana con delega all'istruzione: «considerando pensionamenti e scuole già in reggenza, sono 170 le scuole della Toscana, una sue tre, che rischiano di restare senza guida l'anno prossimo»;
   il Consiglio regionale della Toscana ha approvato all'unanimità, nei giorni scorsi, una mozione che impegna la giunta a «sostenere, presso il Ministero dell'istruzione, dopo la complessa situazione creata a seguito della sentenza del Tar della Toscana, una celere soluzione, attivando un iter che assicuri la copertura dirigenziale per le oltre cento scuole toscane investite della problematica»;
   è necessaria ed urgente una soluzione capace di salvaguardare il diritto di apprendimento da parte di tutti gli alunni ed assicurare la qualità dei processi formativi in collaborazione con le risorse culturali, professionali, sociali ed economiche dei territori;
   è altrettanto necessaria ed urgente una soluzione che tuteli competenze e professionalità acquisite dai dirigenti selezionati;
   la proposta avanzata dal vicepresidente della regione Toscana per risolvere questa situazione consiste, nel caso in cui il Consiglio di Stato non dovesse accogliere il ricorso dell'Amministrazione, nel creare «una graduatoria per dirigenti scolastici ad incarico riguardante gli insegnanti vincitori del concorso annullato, avendo essi di fatto i titoli per lo svolgimento del ruolo». Per perseguire tale soluzione occorrerebbe però l'approvazione di un provvedimento «ad hoc», una soluzione già adottata con la legge n. 202 del 2010 utilizzata per sanare una problematica analoga che aveva riguardato un concorso per dirigenti scolastici predisposto dalla regione Sicilia, anch'esso annullato –:
   quali provvedimenti urgenti intenda emanare per evitare che le sentenze dei Tar, relative al bando per dirigenti scolastici svolto nel 2011, possano causare gravi problemi alla gestione dirigenziale degli istituti della scuola dell'obbligo (su tutto il territorio nazionale ed in particolare nella regione Toscana) e per salvaguardare, conseguentemente, il diritto di apprendimento da parte di tutti gli alunni, assicurare la qualità dei processi formativi e tutelare professionalità e competenze del personale docente. (5-00093)


   BOBBA. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 30 del decreto-legge n. 185 del 2008, recante «Controlli sui circoli privati», al comma 1, dispone: «I corrispettivi, le quote e i contributi di cui all'articolo 148 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e all'articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 non sono imponibili a condizione che gli enti associativi siano in possesso dei requisiti qualificanti previsti dalla normativa tributaria e che trasmettano per via telematica all'Agenzia delle entrate i dati e le notizie rilevanti ai fini fiscali mediante un apposito modello da approvare entro il 31 gennaio 2009 con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate»;
   il comma 5 del citato articolo prevede: «5. La disposizione di cui all'articolo 10, comma 8, del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, si applica alle associazioni e alle altre organizzazioni di volontariato di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali individuate con decreto interministeriale 25 maggio 1995 e che trasmettono i dati e le notizie rilevanti ai fini fiscali ai sensi del comma 1»;
   la circolare del 9 aprile 2009, n. 13, ha fissato gli indirizzi generali per l'attività di accertamento, prevedendo in particolare per gli enti non commerciali di finalizzare gli accertamenti all'individuazione di vere e proprie imprese commerciali dissimulate sotto forma di associazioni, con conseguente abuso dei regimi tributari agevolativi;
   la stessa circolare recita «...nei casi in cui sussistono abusi rilevanti, consistenti nell'esercizio di attività economiche... l'attività istruttoria dovrà sempre svilupparsi mediante approfondite verifiche»;
   al fine di poter usufruire delle agevolazioni tributarie di cui alla legge n. 398 del 1991, le associazioni di cui in premessa devono possedere i seguenti requisiti:
    aver adottato uno statuto conforme alle prescrizioni dell'articolo 90, commi 17 e 18, della legge n. 289 del 2002 ed a quelle dell'articolo 148, comma 8 del T.U.I.R., redatto nella forma e con le modalità previste;
    aver tenuto il libro dei soci ed il libro dei verbali dell'assemblea;
    essere in possesso del riconoscimento ai fini sportivi ottenuto mediante l'affiliazione alla FIGC e mediante l'iscrizione al Registro delle Associazioni Sportive Dilettantistiche tenuto dal C.O.N.I.;
    aver presentato regolarmente il modello EAS, potendo quindi godere delle agevolazioni di cui all'articolo 148, comma 3, del T.U.I.R;
    aver optato, mediante apposita comunicazione alla SIAE e mediante l'adozione di un comportamento concludente, per il regime forfetario di cui alla legge n. 398 del 1991;
   la relazione di accompagnamento al decreto-legge n. 185 del 2008 relativamente alle finalità dei controlli fiscali recita «... reali esigenze di un più efficace controllo fiscale in una realtà estremamente variegata in cui convivono, accanto a molti enti meritevoli sotto il profilo sociale, anche soggetti che, sotto forma associazionistica, svolgono vere e proprie attività produttive di reddito d'impresa»;
   da informazioni in possesso dell'interrogante, gli uffici delle Agenzia delle entrate spesso procedono al sistematico disconoscimento della qualifica di ente non commerciale delle vere associazioni sportive dilettantistiche, adducendo motivazioni opinabili anche in presenza di tutti i requisiti necessari, a titolo di esempio si riportano i casi di accertamenti emessi a carico di Usd Le Grange (Trino), Asd Santhià calcio e molte altre;
   a parere dell'interrogante la discutibilità delle motivazioni si ravviserebbe in quanto fedelmente di seguito riportato e presente nei verbali in particolare:
    quanto al libro soci «la parte ha esibito un libro degli associati che tuttavia non possiede i requisiti richiesti dalla legge per essere considerato tale sostanzialmente e non solo formalmente»;
    quanto al libro delle assemblee «... [i verbali] sono costituiti da fogli mobili pinzati poi al rispettivo libro [...] dai quali non è possibile riscontrare l'effettiva partecipazione dei soci alla vita associativa ed il dibattito avvenuto in assemblea e che pertanto non assumono i connotati di veri e propri libri sociali»;
    e per ultimo «... l'associazione nel concreto non dà prova, nel concreto, di una effettiva partecipazione degli associati all'attività dell'ente»;
    secondo gli uffici finanziari la prova dell'attività commerciale si rileverebbe nel fatto che: «... vi sono più squadre giovanili, costituite da giocatori divisi per fasce di età ed ogni atleta versa un corrispettivo per fare allenamenti e fruire delle lezioni di calcio. L'ampia gamma dei corsi organizzati [...] sembra più funzionale ad una strategia commerciale che alla promozione di specifici valori sportivi.»;
   quanto evidenziato dalla normativa vigente in realtà non esistono requisiti richiesti dalla legge in merito all'adozione dei libri sociali delle associazioni non riconosciute, infatti l'articolo 36 del codice civile attribuisce agli associati, in piena autonomia, di fissare le norme per l'ordinamento interno, ma neppure è dettata alcuna norma circa le modalità in cui tali libri debbano essere tenuti;
   gli accertamenti di cui sopra non si limitano ad un esercizio, ma a catena ricadono su tutti gli esercizi successivi;
   la revoca sistematica delle agevolazioni tributarie comporta per ogni associazione un costo di circa 60/70.000 euro all'anno;
   a parere dell'interrogante e secondo quanto esposto, si prospetterebbe un problema di natura sociale in quanto ai bambini e ai ragazzi non verrà più data l'opportunità di svolgere attività sportiva;
   la circolare 9/E del 24 aprile 2013 dell'Agenzia delle entrate al punto 3, chiarisce che «si può ritenere che l'adozione di forme di convocazione dell'assemblea diverse da quelle tradizionali (ad esempio, invio di e-mail agli associati in luogo dell'apposizione in bacheca dell'avviso di convocazione) o l'occasionale mancato inserimento di un dettagliato elenco dei nomi dei partecipanti nei verbali di assemblea o degli associati nel libro soci non costituiscono, singolarmente considerati, elementi il cui riscontro comporti necessariamente la decadenza dai benefici recati dalla legge n. 398 del 1991 qualora, sulla base di una valutazione globale della operatività dell'associazione, risultino posti in essere comportamenti che garantiscano il raggiungimento delle medesime finalità;
   in particolare, la medesima circolare allo stesso punto conclude: «Le Direzioni Regionali vigileranno affinché i princìpi enunciati e le istruzioni fornite con la presente circolare vengano puntualmente osservati dalle Direzioni Provinciali e dagli Uffici locali» –:
   se non si ritenga urgente e doveroso verificare i fatti si cui in premessa e, nel caso, porre in essere le opportune iniziative al fine di scongiurare che il volontariato sportivo scompaia, anche alla luce della citata circolare in premessa dell'Agenzia delle entrate. (5-00094)

Interrogazioni a risposta scritta:


   BOCCADUTRI. – Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
   le forme di sostegno pubblico in favore dell'editoria sono riconducibili a due tipologie fondamentali: gli aiuti economici diretti in favore di determinate imprese editoriali; gli aiuti economici indiretti, di tipo generalizzato, a loro volta distinguibili in riduzioni tariffarie, agevolazioni fiscali e credito agevolato;
   la principale forma di contributo all'editoria di tipo indiretto per molti anni è stata rappresentata dalle tariffe postali agevolate per le spedizioni in abbonamento di prodotti editoriali;
   in particolare, Poste italiane ha applicato agli editori condizioni agevolate per la consegna dei prodotti editoriali presso gli abbonati La differenza rispetto alla normale tariffa è stata compensata a Poste italiane dallo Stato;
   il valore complessivo delle agevolazioni tariffarie riconosciute all'editoria, secondo le quantificazioni effettuate a consuntivo dalla società Poste italiane, è stato pari a 303 milioni di euro nel 2005 e a 299 milioni di euro nel 2006;
   la ripartizione tra i diversi beneficiari, nel 2005, è stata la seguente: le imprese editrici iscritte al Registro degli operatori di comunicazione hanno ricevuto circa 174 milioni di euro, mentre alle associazioni e organizzazioni no profit sono stati assegnati 104 milioni di euro; i restanti 25 milioni di euro corrispondono a riduzioni riconosciute per spedizioni di libri;
   sempre secondo i dati del 2005, gli unici ad oggi resi disponibili da un'indagine conoscitiva dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, tre gruppi editoriali assorbono quasi un terzo delle agevolazioni complessive, ricevendo un contributo medio di quasi 17 milioni di euro ciascuno. Una seconda categoria, composta da 19 imprese, beneficia poi del 25 per cento dei contributi, con un valore medio di quasi 2,3 milioni di euro. Infine, meno della metà del totale dei contributi postali erogati dallo Stato viene ripartita tra quasi 5.000 editori, che ricevono in media una compensazione nell'ordine dei 16 mila euro;
   in particolare, limitatamente alle compensazioni postali, nel 2005 queste sono state le somme liquidate dallo Stato ai principali editori: Arnoldo Mondadori Editore s.p.a. 18.877.876, Il Sole 24 ore S.p.a. 17.822.223, R.C.S. Quotidiani S.p.a. 13.763.592, Periodici San Paolo 6.966.300, Gruppo Editoriale L'Espresso 4.689.442, Avvenire Nuova Editoriale Italiana 3.603.599, Conquiste del Lavoro S.r.l. 2.996.742, De Agostini Editore 2.581.004, Athesia Druck 2.536.023, Edizioni La Stampa 2.415.521, Erinne S.r.l. 2.319.132, Hachette Rusconi S.p.a. 2.304.336, Mondolibri S.p.a. 2.106.761;
   dal 4 gennaio 2006 è possibile trovare sul sito del Governo i contributi pubblici all'editoria; i contributi indiretti e le compensazioni postali, nel caso di specie, non sono tuttavia pubblicati –:
   quali misure la Presidenza del Consiglio intenda assumere per rendere pubblici, trasparenti e consultabili dai cittadini anche i dati relativi ai contributi indiretti e alle compensazioni postali avvenute dopo il 2006, ove liquidate.
(4-00350)


   FABBRI, DE MARIA, LENZI, ZAMPA, BOLOGNESI, CARLO GALLI, BENAMATI, MAESTRI, MONTRONI e BRATTI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   nelle ultime settimane la regione Emilia-Romagna e in particolare le province di Bologna e di Parma sono state colpite da un'eccezionale ondata di maltempo a carattere alluvionale. Sono caduti quantitativi di pioggia da due ad oltre quattro volte in più rispetto alle medie stagionali e le precipitazioni sono state mediamente superiori ai 150 millimetri su tutta la regione, con punte oltre i 250 millimetri sulle colline emiliane e valori oltre i 600 millimetri sul crinale appenninico tosco-emiliano;
   le frequenti precipitazioni, lo scioglimento della neve e l'elevato grado di saturazione dei bacini hanno provocato l'innalzamento dei livelli dei corsi d'acqua, con conseguente stato di preallarme e allarme lungo fiumi come l'Enza, il Secchia, il Panaro e il Reno;
   le ondate di piena che hanno coinvolto il reticolo idrografico regionale hanno danneggiato in modo significativo numerose opere idrauliche, provocato erosioni spondali, tracimazione di fossi e canali, danni alle strutture viabilistiche (strade e ponti) e cedimenti di parti delle reti fognarie e acquedottistiche, provocando allagamenti alle abitazioni (53 persone evacuate in 11 Comuni, con crolli e gravi rischi per 42 prime case e alle attività produttive (9) e compromettendo la viabilità provinciale e locale (circa 16 le strade interrotte, senza alternative, a cui si aggiungono 31 strade comunali e 47 provinciali parzialmente interrotte, con transito limitato, oltre a quelle statali);
   nel complesso, sono quasi 1400 le segnalazioni effettuate dagli enti locali e dai consorzi di bonifica: circa 500 riguardano frane, più di 350 le opere di bonifica. Le piogge hanno infatti determinato il riattivarsi di diversi movimenti franosi in tutta l'area appenninica soprattutto in provincia di Bologna. Tra i più rilevanti gli interroganti segnalano: la strada comunale Riola - Campolo (Grizzana Morandi) completamente asportata per oltre 500 metri, la strada comunale Montilocchi (Castel di Casio) completamente occupata da una frana, la strada vicinale pubblica dei Valgoni (Gaggio Montano) totalmente chiusa, la strada comunale Vignola dei Conti (Savigno) dove si è riattivata una frana storica, la SC Melrano (Savigno) con viabilità interrotta e altro;
   in comune di San Benedetto Val di Sambro nel versante idrografico emiliano di Monte Oggioli (1260 metri s.l.m.) si è innescato un movimento franoso di enormi proporzioni, in evoluzione, (larghezza metri 800 - lunghezza chilometri 1,5) posto tra il Rio degli Ordini ed il Rio Casa Mingoni che sta interessando diverse borgate composte da circa 12 alloggi dichiarati totalmente inagibili, in quanto distrutti o irrimediabilmente danneggiati e sottoposti a continuo rischio, con il conseguente allontanamento dei cinque nuclei familiari ivi residenti, composti da 9 persone;
   le gravi criticità che stanno interessando la viabilità nell'area appenninica tosco-emiliana stanno già ripercuotendosi negativamente sulle attività produttive della zona, con deleterie conseguenze per il sistema economico non solo locale e per l'occupazione;
   l'Agenzia di protezione civile della regione Emilia-Romagna e il servizio tecnico di bacino Reno con la partecipazione della provincia di Bologna, dei comuni e del consorzio di bonifica stanno monitorando la situazione, acquisendo informazioni, raccogliendo segnalazioni e richieste di interventi in emergenza, effettuando sopralluoghi al fine di poter predisporre già nei prossimi giorni un rapporto dettagliato della situazione;
   l'allerta maltempo emesso il 21 marzo 2013 è stata prolungata fino alle ore 15 di venerdì 22 aprile. Sotto osservazione è stato posto il bacino Reno oltre ai bacini Alto Lamone e Savio, Pianura di Forlì e Ravenna, Bacini Secchia e Panaro, Bacini Trebbia e Taro, Pianura di Parma e Piacenza e i territori appenninici dove permane un diffuso dissesto idrogeologico con possibili aggravamenti di movimenti franosi già in atto e attivazioni di nuovi;
   per i primi interventi di somma urgenza la regione Emilia-Romagna ha già messo a disposizione, per l'intera regione, circa 700.000 euro a fronte degli oltre 8.500.000 euro per interventi urgenti su opere pubbliche stimati dagli enti locali e dai consorzi di bonifica nella sola provincia di Bologna;
   il 5 aprile 2013 il presidente della regione Emilia-Romagna, Vasco Errani, ha inviato al Presidente del Consiglio dei ministri e al capo del dipartimento della protezione civile, la richiesta di dichiarazione di stato di emergenza per il territorio regionale, stante l'impossibilità di far fronte alla grave situazione determinatasi con i poteri ordinari e con i mezzi finanziari disponibili. A tal proposito, è stata richiesta l'assegnazione di risorse finanziarie per la realizzazione di interventi di somma urgenza e di messa in sicurezza che, sulla base delle valutazioni delle strutture tecniche regionali, ammontava alla data della richiesta dello stato di emergenza a 63 milioni di euro, mentre alla data odierna i danni stimati alle sole opere pubbliche e di bonifica assommano per l'intera regione a 116 milioni di euro;
   non è ancora stato stimato il valore economico dei danni a proprietà abitative ed economiche private –:
   se si intenda accogliere la richiesta di dichiarazione dello stato di emergenza ai sensi dell'articolo 5 della legge n. 225 del 1992 avanzata dal presidente della regione Emilia-Romagna mettendo a disposizione idonee risorse finanziarie per far fronte sia agli interventi urgenti di messa in sicurezza del territorio, sia – con priorità assoluta – per restituire adeguata e dignitosa collocazione abitativa alle famiglie che hanno perso tutto con le frane e per ripristinare il già precario e vulnerabile tessuto produttivo montano;
   se si intenda riconoscere attraverso le necessarie iniziative alla regione e agli enti locali coinvolti dalle calamità la deroga al patto di stabilità interno relativamente alla spesa per investimenti, al fine di permettere loro di approntare autonomi interventi con oneri a valere sui fondi disponibili nei bilanci regionali, provinciali e comunali. (4-00352)


   MOLTENI. – Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
   nell'anno 2012 non sono stati pubblicati «bandi ordinari» per la selezione di volontari in servizio civile ai sensi della legge n. 64 del 2001;
   con nota datata 8 novembre 2012, l'Ufficio nazionale per il servizio civile comunicava che l'esame e la valutazione dei progetti di servizio civile nazionale, presentati entro il 31 ottobre 2012, si sarebbe conclusa in data 29 aprile 2013, nel rispetto dei tempi previsti dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 16 luglio 2010, n. 142;
   in un'intervista a Vita.it, pubblicata in data 13 aprile 2013, il portavoce del Ministro pro tempore per la cooperazione internazionale e l'integrazione, Giovanni Grasso, affermava «Entro due settimane arriverà una comunicazione relativa al nuovo bando di servizio civile. Positiva»  –:
   entro quale data si intenda pubblicare il bando 2013 dell'Ufficio nazionale per il servizio civile e delle regioni e province autonome, per la selezione di volontari da impiegare in progetti di servizio civile in Italia e all'estero;
   quale sia il numero di volontari avviabili con tali bandi, in relazione alle risorse finanziarie disponibili. (4-00359)

AFFARI ESTERI

Interrogazione a risposta orale:


   PAGANO. — Al Ministro degli affari esteri. — Per sapere – premesso che:
   un gruppo di una trentina di persone ha attaccato nel pomeriggio di sabato 27 aprile 2013 la chiesa Atasehir Yeni Umut Kilisesi nel quartiere Atasehir di Istanbul, in Turchia; fortunatamente l'aggressione si è limitata ad un lancio di sassi e uova, ma è significativo che si sia verificata non nel cuore della Turchia, ma nella sua città più aperta e cosmopolita;
   come riferito dal sito tedesco Bonner Querschnitte il 29 aprile 2013, basandosi su informazioni del sito cristiano SAT-7 TÜRK Haber, la polizia è arrivata quasi subito e ha promesso una indagine accurata su quanto è accaduto. Vari vetri del complesso sono andati in frantumi, è stata anche portata via la targa con il nome della chiesa ed una parte della decorazione dell'ingresso è stata distrutta. Alcune persone hanno cercato invano di scassinare la porta per entrare all'interno della chiesa;
   secondo un rappresentante della comunità cristiana, l'edificio era stato inaugurato ufficialmente solo una settimana prima; la stessa fonte ha dichiarato che «...non è nell'intenzione della comunità di creare disordine nella società, ma di vivere in pace con tutti e trasmettere la parola di Dio...»;
   la vicenda si inquadra nel processo di islamizzazione posto in essere dall'attuale Governo della Turchia, di cui è sintomo significativo la previsione, quest'anno e per la prima volta, di sottoporre domande di cultura religiosa agli studenti che si preparano ai test di ammissione all'università;
   a conferma di questo processo progressivo, dai siti telematici gestiti dai cristiani ortodossi (in particolare Orthodoxie) si apprende la notizia che il Parlamento turco avvierà una discussione per trasformare nuovamente la storica basilica di Santa Sofia a Istanbul in moschea; la Haghia Sophia di Istanbul è il maggior esempio di architettura bizantina del VI secolo, già trasformata in moschea all'indomani della caduta di Costantinopoli nel 1453. Dal 1931 tra le sue mura venne sospeso il culto islamico e dal 1935 è diventata una sorta di museo così da permetterne la visita da parte dei numerosi pellegrini e turisti che vi si recano ogni anno;
   la riconversione segue quella già attuata per la chiesa di Haghia Sophia di Nicea, diventata un museo locale, mentre nell'estate 2012 è stato avviato il progetto per riconvertire quella di Trabzon (un gioiello di architettura risalente al periodo 1204-1460, testimonianza della millenaria presenza cristiana nella zona del Mar Nero) nonostante la ferma opposizione del patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, per il quale sarebbe assolutamente opportuno che Haghia Sofia a Trabzon «resti un museo aperto a tutte le confessioni», in opposizione all'idea sostenuta dal vicepresidente del Governo turco, Bulent Arinc che voleva trasformare questo monumento della cristianità in un luogo di culto ad uso esclusivo dei musulmani –:
   quali iniziative intenda adottare per tutelare la libertà di culto e la sicurezza dei cristiani in Turchia, sia con riferimento all'aggressione evidenziata in premessa, sia per quel che riguarda il complessivo processo di soppressione o trasformazione dei siti di culto cristiani. (3-00031)

Interrogazione a risposta scritta:


   BOCCADUTRI. — Al Ministro degli affari esteri, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il 12 marzo 2013 un gruppo di 56 passeggeri, studenti di scuole medie superiori romane e docenti accompagnatori che avevano preso parte a un progetto di formazione internazionale svoltosi al quartier generale delle Nazioni Unite, si trovava all'aeroporto JFK di New York; gli stessi dovevano rientrare a Roma con due voli Air France con scalo a Parigi;
   in particolare, nella tratta di ritorno, i suddetti passeggeri avrebbero dovuto viaggiare con il seguente operativo voli: una parte del gruppo con il volo AF011 con partenza da New York JFK alle 22,45 del 12 marzo 2013 e arrivo a Parigi alle ore 10,50 del 13 marzo e poi con il volo AF 1904 con partenza da Parigi alle ore 13,55 e arrivo a Roma Fiumicino alle ore 16,00; un'altra con volo AF009 con partenza da New York JFK il 13 marzo 2013 alle ore 00,30 e arrivo a Parigi alle 12,20 e poi con volo AF 2104 con partenza da Parigi alle 15,25 e arrivo a Roma alle ore 17,30;
   giunti in aeroporto, i passeggeri erano informati che il volo AF011, che sarebbe dovuto partire da New York per Parigi alle ore 22.45 era stato annullato; il volo AF009, previsto invece per le 00.30, sarebbe stato posticipato al mattino seguente. Per tale ragione, entrambi i gruppi venivano riprotetti sul volo AF4083, decollato alle 2,14 e arrivato all'aeroporto di Parigi Charles De Gaulle alle 14,01 del 13 marzo 2013;
   giunti a Parigi, i passeggeri erano indirizzati dal personale dell'Air France presso i banchi transito, al fine di essere riprotetti sui voli successivi e poter far rientro in Italia;
   i suddetti passeggeri, tuttavia, rimanevano in fila, dietro il banco Air France che contava appena 3 impiegati, a fronte di centinaia di persone da assistere, dalle 15.00 a 00.30 circa, per oltre 9 ore e mezza. Agli stessi non veniva prestata alcun assistenza, non veniva distribuito alcun pasto o acqua, non veniva data la possibilità di mettersi in contatto con i parenti, in spregio a quanto previsto dalla Carta dei diritti del passeggero. Anzi, dinnanzi alle legittime proteste dei docenti, degli studenti e degli accompagnatori, gli stessi venivano trattati con maleducazione e arroganza dal personale presente;
   dopo varie proteste, solo alle ore 18,00 un'impiegata, che rifiutava – così come tutti gli altri presentatisi sino quel momento, d'altronde – di identificarsi, provvedeva a ritirare tutti i passaporti promettendo che avrebbe riprotetto i passeggeri in parte su due voli in partenza la sera stessa, in parte su un volo del giorno successivo;
   per oltre 4 ore i passaporti venivano de facto requisiti; i due aerei di Air France della sera del 13 marzo, che pure avevano posti disponibili, partivano senza che i passeggeri fossero riprotetti. Alle ore 22,30, solo dopo che era stata contatta l'unità di crisi della Farnesina e in seguito all'intervento del consolato generale d'Italia a Parigi, venivano distribuiti appena 30 panini (a fronte di 56 persone presenti), nonché qualche bibita. Cibo assolutamente insufficiente, scarso, ed in ogni caso inadeguato alle esigenze dei passeggeri (alcuni dei quali vegetariani, altri diabetici);
   coloro che protestavano venivano brutalmente invitati a bere l'acqua dei servizi igienici. Né, essendo stati loro ritirati i passaporti, avevano la possibilità di uscire dal terminal per procurarsi in altro modo cibo e acqua. Alcuni minori svenivano addirittura a causa dello stress, della mancanza di cibo e di acqua, della maleducazione con la quale erano stati trattati dal personale di Air France;
   sempre in seguito all'intervento del consolato, l'Air France prometteva di provvedere agli alberghi per i passeggeri. Ed in effetti venivano restituite alcune carte di imbarco con indicati gli alberghi; alberghi tuttavia tutti diversi per ogni membro del gruppo, con uomini assegnati in stanze doppie con donne e docenti collocati in alberghi differenti dai minori. A mezzanotte e mezza, poi, l'Air France annunciava che non vi erano posti disponibili per tutti, essendo tutti gli alberghi di Parigi pieni. A questo punto, indirizzava i passeggeri presso un dormitorio con dei letti, che promettevano essere confortevoli;
   riusciti, a spese proprie, a provvedere a cibo e acqua, i passeggeri venivano indirizzati dal personale di Air France ad un terminal sbagliato, lontano dal dormitorio; entrati dentro il suddetto terminal, veniva loro riferito che era impossibile uscirne; solo dopo aver minacciato di chiamare la polizia, erano fatti uscire e indirizzati verso il dormitorio, dove arrivavano, facendo un lungo cammino a piedi di più di un'ora, e mezza, in alcuni casi pure all'aperto e al freddo e al gelo;
   il dormitorio promesso era tuttavia un hangar male illuminato con delle barelle piazzate per terra e un kit di sopravvivenza. Intenso era il freddo; le barelle non erano sufficienti per tutti – alcuni minori hanno dovuto dormire per terra –, condividendo l’hangar con altri ignoti. Durante queste brevissime ore di dormiveglia, gli stessi erano poi svegliati spesso dall'intervento di cani antidroga;
   alle ore 8,00 del mattino, dopo appena tre ore, i passeggeri erano invitati maleducatamente ad abbandonare il luogo. Anche in questo caso, nessuno provvedeva loro ai pasti: andati a fare la fila per ottenere i voucher (ottenuti solo alle 11) scoprivano con disappunto che le carte di imbarco consegnate loro per i voli erano sbagliate;
   riottenute le stesse, dopo ulteriore fila, venivano poi imbarcati su tre differenti voli, per fare ritorno a Roma con ben 24 ore di ritardo rispetto all'orario originario; arrivati a Roma, scoprivano che la quasi totalità dei bagagli era stata smarrita;
   Air France controlla il 25 per cento di Alitalia – Compagnia Aerea Italiana s.p.a.; in assenza di patti parasociali, contribuisce a determinare le scelte della principale compagnia nazionale;
   a causa del ridimensionamento dei voli intercontinentali di Alitalia avvenuta dopo il 2008, molti cittadini italiani che si devono recare all'estero sono costretti a utilizzare altre compagnie aeree europee, tra cui Air France;
   dal 13 gennaio 2013 i soci di Alitalia – Compagnia aerea italiana Spa possono vendere le proprie azioni anche a compagnie straniere –:
   quali azioni il Ministero degli affari esteri abbia assunto perché fossero rispettati, nella notte del 13 marzo, i diritti dei minori coinvolti nella vicenda de quo;
   quali iniziative di competenza il Governo intenda assumere perché i diritti dei passeggeri italiani siano salvaguardati all'interno degli aeroporti dell'Unione Europea e dalle compagnie straniere che vendono biglietti per destinazioni extraeuropee con scalo in Europa. (4-00367)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazioni a risposta scritta:


   BUSINAROLO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il comma 2 dell'articolo 180-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006, come modificato dall'articolo 6 del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, affida al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare l'adozione di norme di carattere regolamentare;
   nello specifico, il succitato comma 2 prevede che: attraverso un decreto ministeriale del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministero dello sviluppo economico, siano adottate le misure necessarie per la promozione del riutilizzo dei prodotti e per la preparazione dei rifiuti per il riutilizzo, anche attraverso l'introduzione della responsabilità estesa del produttore del prodotto (primo periodo); attraverso un decreto ministeriale del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, siano definite le modalità operative per la costituzione e il sostegno di centri e reti accreditati, ivi compresa la definizione di procedure autorizzative semplificate e di un catalogo esemplificativo di prodotti e rifiuti di prodotti che possono essere sottoposti, rispettivamente, a riutilizzo o a preparazione per il riutilizzo (secondo periodo);
   sono trascorsi ben oltre i sei mesi previsti dalla norma per l'emanazione del secondo dei decreti attuativi;
   appare evidente che la mancata emanazione dei decreti di cui al succitato comma 2 dell'articolo 180-bis del Testo unico ambientale è causa di un «vuoto» amministrativo e di un'evidente incertezza giuridica che colpisce in primo luogo gli operatori di un settore così delicato come quello della gestione dei rifiuti –:
   se il Ministro sia a conoscenza di questo grave ritardo nell'elaborazione dei provvedimenti attuativi, se vi siano delle particolari ragioni che ne abbiano impedito l'adozione nei tempi previsti e quando ritenga che i due decreti verranno approvati e pubblicati, in modo da dare finalmente compiutezza all'articolo 180-bis del Testo unico ambientale, introdotto con il decreto legislativo n. 205 del 2010. (4-00336)


   GALLINELLA, ZACCAGNINI, DE ROSA, BENEDETTI, MASSIMILIANO BERNINI, LUPO, ZOLEZZI, GAGNARLI, TERZONI, L'ABBATE, CIPRINI, TOFALO, DAGA, SEGONI e PARENTELA. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro per i beni e le attività culturali, al Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   lo sviluppo e la promozione di fonti di energia rinnovabile sono fondamentali per il futuro del nostro Paese;
   l'energia eolica, solare e fotovoltaica dovranno trovare una strada privilegiata nel territorio italiano che, in base alle sue caratteristiche geomorfologiche, si presta allo sviluppo di queste energie naturali, ma mantenendo necessariamente le peculiarità paesaggistiche, naturalistiche, ambientali e culturali;
   molti impianti, infatti, spesso invadono aree protette o di particolare importanza per la produzione agricola o la bellezza del paesaggio; basti pensare alle distese di pannelli solari che occupano centinaia di ettari del territorio agricolo ormai fondamentale per la produzione di cibo, nonché impianti eolici di grandi dimensioni che stanno arrecando danni ambientali non più sopportabili in molte regioni del Paese;
   uno dei casi che stanno suscitando maggiore interesse nelle ultime settimane è quello dei due impianti eolici ravvicinati sul Monte Peglia, in vista del duomo di Orvieto, una delle città simbolo del nostro Paese;
   si tratta, nel dettaglio, di due impianti eolici alti più di 150 metri dal suolo, tre volte l'altezza del duomo di Orvieto, costituiti uno da una centrale eolica in località «Poggio della Cavallaccia», con otto aerogeneratori – tre nel territorio comunale di Parrano (Terni) e cinque in quello San Venanzo (Terni), per una potenza complessiva di 18,4 megawatt; l'altro da una analoga centrale eolica in località «La Montagna», nel comune di San Venanzo (Terni) con dieci aerogeneratori, per una potenza complessiva di 23 megawatt;
   il progetto è stato presentato a luglio 2012 alla provincia di Terni per il rilascio dell'autorizzazione unica alla costruzione e l'esercizio dei due impianti di cui al decreto legislativo n. 387 del 2003 (decreto Bersani) da parte della società napoletana Innova Wind s.r.l.;
   molte e diverse sono state le opposizioni al progetto, da parte di cittadini, amministratori e associazioni ambientaliste. In data 13 aprile 2013 si è tenuta ad Orvieto in piazza del Duomo una imponente manifestazione nazionale di protesta di cui hanno dato notizia molti giornali locali e nazionali ed anche un servizio del TG2, edizione del secondo canale Rai delle ore 13;
   il Monte Peglia, infatti, appartiene al sistema territoriale di interesse naturalistico ambientale (S.T.I.N.A.) e con la selva di Meana comprende tre aree naturali protette separate tra loro, ma tutte ricadenti in un ambito più vasto di interesse naturalistico;
   secondo quanto si legge in un rapporto redatto dalla facoltà di agraria dell'università di Perugia «la cementificazione del Monte Peglia, l'abbattimento di migliaio di alberi, la trasformazione perenne della morfologia del territorio, oltre a un fortissimo impatto ambientale e allo sconvolgimento delle rotte dei numerosi uccelli migratori, porteranno alla alterazione irreversibile delle biocenosi presenti anche all'interno della zona a protezione integrale creando la totale desertificazione del territorio»;
   le associazioni ecologiste Amici della Terra, Italia Nostra, Gruppo d'Intervento giuridico onlus e diverse altre realtà associazionistiche nazionali e locali, nonché numerosi cittadini, ed il comune di Parrano hanno inoltrato, in data 21 febbraio 2013, uno specifico atto di opposizione al rilascio dell'autorizzazione unica per le due centrali eoliche motivando la richiesta con questioni di ricevibilità e procedibilità delle istanze;
   in particolare, nell'atto succitato si legge che:
    la realizzazione di centrali eoliche è assoggettata al preventivo e vincolante procedimento di valutazione di impatto ambientale (decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni e integrazioni), quindi è privo di senso rilasciare un provvedimento di autorizzazione unica (che – per sua natura – costituisce autorizzazione definitiva alla realizzazione e all'esercizio di un impianto produttivo di energia rinnovabile) in assenza di una procedura di VIA conclusa positivamente;
    nel verbale della conferenza di servizi del 17 gennaio 2013 indetta dalla provincia di Terni, il rappresentante dell'unità operativa (U.O.) beni ambientali, piani comunali e VAS della provincia di Terni ha espresso parere negativo in quanto «si ritiene che il Progetto dovrà essere sottoposto a procedura di VIA sia per la consistenza dell'impianto sia per la valutazione di altre criticità, evidenziando fin da oggi che, dal punto di vista ambientale il parco eolico, per la sua collocazione in un'area ad alta esposizione panoramica, con una percezione visiva del paesaggio molto alta, rappresenterebbe un forte impatto negativo, pertanto da non attuare in questo territorio», ai sensi del piano territoriale di coordinamento provinciale (P.T.C.P.) della provincia di Terni (deliberazione consiglio provinciale n. 150 del 14 settembre 2000 e successive modificazioni e integrazioni). Analogo parere negativo è stato espresso dalla direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici dell'Umbria sulla base anche del parere negativo della soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici dell'Umbria per i danni indotti dalle opere ai valori paesaggistici e panoramici dell'intera area;
    i progetti di centrali eoliche sono ricompresi fra quelli delle aree proposte dalla provincia di Terni come siti non idonei all'installazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili con delibera giunta provinciale n. 195 del 14 ottobre 2011, in quanto trattasi di siti ad alta esposizione panoramica, con una percezione visiva del paesaggio ben oltre i 20 chilometri di raggio considerati nei progetti;
    lo stesso comune di San Venanzo – analogamente a quanto fatto da altri undici comuni dell'area orvietana, anche non direttamente interessati dal progetto – ha espresso parere negativo, con deliberazione giunta comunale n. 19 del 23 gennaio 2013;
   l'8 aprile 2013, anche il consiglio provinciale di Terni si è espresso per fermare la realizzazione del parco eolico approvando un ordine del giorno in tal senso;
   in data 25 marzo 2013 una motivata richiesta di nuova riunione della conferenza dei servizi veniva inoltrata alla provincia di Terni a firma di ben 11 sindaci dei territori interessati dalle istanze e in data 13 aprile 2013 una diffida a nome di 22 associazioni ambientaliste e comitati di cittadini veniva anch'essa inoltrata alla provincia di Terni ed altri enti tra cui al Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione pro tempore per verificare le regolarità dei procedimenti messi in atto dalla provincia di Terni in merito alle segnalate questioni di ricevibilità e procedibilità;
   è evidente che, sulla base di quanto esposto, l'impatto ambientale del parco eolico della Innova Wind di Napoli risulta molto alto e per alcuni tratti devastante, apparendo come un'aggressione all'ecosistema della zona e al paesaggio;
   sulla base delle considerazioni effettuate e delle motivazioni addotte dalle diverse associazioni ambientaliste, nonché da diverse amministrazioni locali, sarebbe opportuno verificare la piena correttezza dell’iter procedurale per l'installazione del parco eolico del Monte Peglia –:
   se siano a conoscenza della situazione esposta;
   se non si ritenga, in ogni caso, necessario avviare una seria riflessione sull'esigenza di rivedere il quadro normativo e autorizzatorio in tema di impianti eolici per la produzione di energia elettrica, in modo da garantire che la loro installazione non pregiudichi l'ambiente, il paesaggio e la tutela dell'avifauna, nel pieno rispetto dell'articolo 9 della Carta costituzionale;
   se il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione abbia assunto iniziative a seguito della diffida inoltrata il 13 aprile 2013;
   se il Governo non ritenga necessario assumere iniziative per rivedere il sistema degli incentivi che oggi, per legge, assicurano rendite eccezionali a produttori di alcune energie rinnovabili e sono stati un modo sicuro per favorire la penetrazione del crimine organizzato nei relativi comparti (si veda da ultimo il caso Nicastri);
   se non si ritenga opportuno assumere iniziative per modificare la priorità di dispacciamento e gli obblighi di acquisto da parte del GSE (il gestore dei servizi di energia) anche per l'energia non immessa in rete, al fine di evitare il rischio di creare una categoria di imprenditori irresponsabili, che non devono confrontarsi col rischio d'impresa ma hanno profitti assicurati dallo Stato per 15/20 anni e sottraggono alla competizione del mercato la produzione di energia elettrica rinnovabile. (4-00357)


   ZACCAGNINI, GALLINELLA, PARENTELA, LUPO, L'ABBATE, MASSIMILIANO BERNINI, GAGNARLI, BENEDETTI e LOMBARDI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Al Ministro della salute, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   nell'ottobre del 2012 la Fondazione Diritti Genetici ha denunciato il rischio che il «Movimento Libertario» potesse promuovere una coltivazione di mais transgenico su larga scala mettendo a disposizione, di chiunque ne facesse richiesta, semi transgenici;
   infatti, secondo quanto dichiarato sul proprio sito internet, il «Movimento Libertario» avrebbe a tal fine importato 52.000 sacchi di mais transgenico MON810, una quantità sufficiente a coprire un'estensione di terreno di circa 32.000 ettari;
   l'interpretazione della normativa prevalente in materia di rilascio di OGM è stata oggetto di una recente pronuncia (causa C36/11, sentenza del 6 settembre 2012) dalla Corte di giustizia europea;
   tale sentenza va letta alla luce delle questioni pregiudiziali a cui risponde ed in particolare circa il diritto di uno stato membro dell'Unione europea di vietare su tutto il suo territorio o in parte di esso la coltivazione di semi geneticamente manipolati come previsto dall'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE, dall'articolo 34 del regolamento (CE) 1829/2003 ovvero ai sensi degli articoli 16 e 18 della direttiva 53/2002;
   il provvedimento della Corte di giustizia europea è conseguente ad una domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dal Consiglio di Stato italiano chiamato a sua volta a dirimere la causa intentata dalla multinazionale Pioneer Hi Bred contro il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali (MIPAAF) circa l'autorizzazione a coltivare il mais MON810 in Italia;
   la Pioneer aveva infatti impugnato la decisione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali di non concedere l'autorizzazione, richiesta ai sensi dell'articolo 1, comma 2 del decreto legislativo n. 212 del 2001, nelle more dell'adozione dei piani di coesistenza tra coltivazioni di varietà transgeniche e quelle tradizionali e biologiche da parte delle regioni;
   tali piani, previsti ai sensi dell'articolo 26-bis della direttiva 2001/18/CE, sono stati successivamente definiti nelle due raccomandazioni della Commissione del 23 luglio 2003 e del 13 luglio 2010, le quali, peraltro, hanno un carattere meramente orientativo e non comportano obblighi da parte degli Stati membri;
   la Corte di giustizia europea, dopo aver esaminato la legislazione comunitaria rilevante per l'emissione in ambiente di piante transgeniche, ha concluso che uno Stato membro non può subordinare a un'autorizzazione nazionale, per tutelare la salute umana ed ambientale, la coltivazione di varietà geneticamente modificate autorizzate ai sensi del regolamento (CE) 1829/2003 e ai sensi della direttiva 2002/53/CE;
   la Corte afferma che la messa a coltura di OGM quali il mais MON810, autorizzati in base, ai paragrafi 1, lettera a) e 4 dell'articolo 20 del regolamento ed iscritto al registro varietale comunitario, istituito con la Direttiva 2002/53/CE, non possa essere soggetto ad una procedura nazionale di autorizzazione;
   la Corte conclude che l'articolo 26-bis della direttiva 2001/18/CE non consente ad uno Stato membro di opporsi in via generale alla messa in coltura di OGM sul suo territorio nelle more dell'adozione delle norme di coesistenza come possibile strumento di contenimento della contaminazione;
   relativamente all'interpretazione dell'articolo 26-bis della direttiva 2001/18/CE, alla luce delle citate raccomandazioni della Commissione del 2003 e del 2010, il Consiglio di Stato ha chiesto alla Corte di giustizia europea se, in assenza dei piani di coesistenza tra le piante geneticamente modificate e le varietà tradizionali o le coltivazioni biologiche, l'autorizzazione debba essere rilasciata avendo ad oggetto OGM iscritti al catalogo comune, ovvero, l'esame dell'istanza debba essere sospesa in attesa dell'adozione di misure di carattere generale ovvero l'autorizzazione debba essere rilasciata con le prescrizioni idonee ad evitare nel caso concreto il contatto, anche involontario, delle colture transgeniche con le colture tradizionali o biologiche circostanti;
   sulla questione relativa agli obblighi previsti all'articolo 1 del decreto legislativo n. 212 del 2001, la Corte di giustizia europea fa notare la sua inapplicabilità in quanto in contrasto con la normativa comunitaria che prevale su quella nazionale;
   conseguentemente, alla citata sentenza, nel novembre 2012 la Commissione ha inviato all'Italia una richiesta di chiarimento relativa all'applicazione del decreto legislativo n. 212 del 2001 sulla coltivazione di OGM in Italia;
   il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali ha emanato una circolare, indirizzata alle regioni ed alle province autonome, con la quale si ricorda la richiesta della Commissione e l'impegno del Governo di disapplicare l'articolo 1 del decreto legislativo n. 212 del 2001;
   la normativa comunitaria indica chiaramente l'impossibilità degli Stati membri di vietare, limitare o impedire l'immissione in commercio di OGM, come tali o contenuti in prodotti come sancito nella direttiva 90/220 e ripreso all'articolo 22 della direttiva 2001/18/CE;
   la sentenza della Corte di giustizia europea non esclude la possibilità di uno Stato membro di ricorrere agli strumenti previsti dalla normativa comunitaria;
   il punto 70 della sentenza della Corte di giustizia europea recita: «un divieto o una limitazione della coltivazione di tali prodotti possono essere decisi da uno stato membro nei casi espressamente previsti dal diritto dell'Unione»;
   il punto 71 della sentenza della Corte di giustizia europea recita «Fra tali eccezioni figurano da un lato, le misure adottate in applicazione dell'articolo 34 del Regolamento 1829/2003, nonché quelle disposte ai sensi dell'articolo 16, paragrafo 2 o dell'articolo 18 della Direttiva 53/2002, disposizioni che non sono oggetto di procedimento principale, e, dall'altro, dall'articolo 26-bis della Direttiva 2001/18»;
   è necessario stabilire quali azioni giuridiche e norme applicare per l'attuazione di misure di tutela tra quelle elencate della Corte di giustizia europea e se si possa applicare anche la clausola di salvaguardia di cui all'articolo 23 della Direttiva 2001/18/CE;
   la sentenza della Corte di giustizia europea dell'8 settembre 2011 sui casi riuniti da C-58 a C-68 sulla pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d'Etat francese sull'applicazione dell'articolo 34 del regolamento (CE) 1829/2003 introduce ulteriori elementi interpretativi sull'applicazione delle norme di tutela da parte degli Stati membri;
   tale sentenza, sulla base delle norme previste nelle direttive 90/220/CEE e 2001/18/CE e dei regolamenti 1829/2003 e 178/2002, riconosce che, nelle more del procedimento del rinnovo dell'autorizzazione del MON810, avviata nel 2007, rimane valida quella esistente rilasciata ai sensi dell'articolo 20 del regolamento 1829/2003, in quanto prodotto già esistente al momento di entrata in vigore del regolamento stesso;
   il Conseil d'Etat chiedeva alla Corte di giustizia europea se, quando un OGM è autorizzato ai sensi dell'articolo 20 del regolamento 1829/2003, possa rientrare nelle fattispecie di cui all'articolo 12 della direttiva 2001/18/CE e se, in questo caso, uno Stato membro debba applicare esclusivamente l'articolo 34 del regolamento 1829/2003 o possa far ricorso anche all'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE;
   il Conseil d'Etat chiedeva inoltre se, nell'ipotesi che le misure di emergenza possano avvenire solo nei casi specificati all'articolo 34, le misure prese a livello nazionale non possano essere considerate tra quegli strumenti citati all'articolo 53 del regolamento 178/2002;
   il Conseil d'Etat rilevava come l'applicazione dell'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE o l'articolo 34 del regolamento 1829/2003 o di entrambe pone un problema della differenza di rigore imposto alla luce dell'applicazione del principio di precauzione;
   la Corte di giustizia europea chiarisce che il dubbio su quale articolo applicare si pone solo nelle more del rilascio della nuova autorizzazione ai sensi del regolamento, a partire da quando uno Stato membro potrà ricorrere solo all'articolo 34 in esso contenuto;
   la Corte di giustizia europea mette inoltre in evidenza che il combinato disposto dell'articolo 20, paragrafo 4, del regolamento 1829/2003, sulla base del quale il MON810 è stato riconosciuto come prodotto esistente, e dell'articolo 17, paragrafo 5, dello stesso regolamento fa sì che il MON810 rientri nei casi previsti dall'articolo 12 della direttiva 2001/18/CE;
   questo articolo esonera il richiedente dal soddisfare i requisiti per il l'autorizzazione al rilascio deliberato (parti B) e per l'immissione in commercio (parte C) di OGM autorizzati da atti comunitari diversi che garantiscano le stesse misure tra cui clausole di salvaguardia almeno equivalenti a quelle della direttiva;
   nel riconoscere il MON810 come prodotto incluso nelle deroghe previste all'articolo 12 della direttiva 2001/18/CE, automaticamente lo si mette a riparo dalla possibilità di applicare gli articoli dal 13 al 24 della medesima direttiva, clausola di salvaguardia inclusa;
   questa interpretazione implica che uno Stato membro non potrebbe vietare MON810 sul proprio territorio in applicazione dell'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE, ma solo ricorrendo all'articolo 34 del regolamento 1829/2003;
   la Corte di giustizia europea ricorda inoltre che il mais MON810 non è mai stato valutato ai sensi della direttiva 2001/18/CE, poiché i produttori hanno scelto di ricorrere alla possibilità di avere un'autorizzazione congiunta per l'immissione in ambiente e l'immissione in commercio;
   al punto 34 delle conclusioni dell'avvocato generale della Corte di giustizia europea si legge: «se il MON810 fosse stato notificato in quanto prodotto esistente ai sensi dell'articolo 17 della direttiva 2001/18, non vi sono dubbi sul fatto che l'articolo 23 della stessa direttiva sarebbe stato applicabile»;
   sulla seconda questione pregiudiziale, la Corte di giustizia europea conclude che uno Stato membro non possa intervenire in applicazione dell'articolo 34 se non attraverso l'applicazione dell'articolo 54 del regolamento 178/2001;
   l'articolo 54 del regolamento 178/2001 limita il potere di intervento dei singoli Stati membri ai casi per i quali la Commissione, avvertita di un manifesto grave rischio per la salute posto da un alimento o mangime a base di OGM come previsto dell'articolo 53 del medesimo regolamento, non intervenga sollecitamente;
   sulla terza questione pregiudiziale pur riconoscendo la diversità tra l'articolo 23 della direttiva e l'articolo 34 del regolamento sia nella definizione del concetto di rischio che per la sostituzione dei poteri di intervento che passano dagli Stati membri alla Commissione, la Corte di giustizia europea conclude che «le condizioni per il ricorso ai due tipi di misure possono essere considerate largamente omogenee»;
   la Corte di giustizia europea conclude che per adottare l'articolo 34 del regolamento 1829/2003 è necessario che sia accertata l'esistenza non soltanto ipotetica del rischio e che la probabilità del verificarsi di tali danni, anche se non necessariamente determinata con precisione, non sia insignificante;
   nonostante l'emanazione delle rilevanti sentenze della Corte di giustizia europea rimangono alcuni elementi di dubbio sull'applicazione normativa a partire dall'inclusione del MON810 quale prodotto esistente ai sensi dell'articolo 20 del regolamento 1829/2003;
   la Monsanto ha scelto di attendere l'emanazione del regolamento 1829/2003 per avanzare la domanda di rinnovo dell'autorizzazione potendo beneficiare dell'applicazione dell'articolo 12 della direttiva 2001/18;
   il MON810 è, a partire dal 2007, autorizzato ai sensi dell'articolo 20, paragrafo 4 del regolamento 1829/2003 che consente il riconoscimento di OGM già autorizzati e che abbiano fatto richiesta di rinnovo entro nove anni dalla data di scadenza della prima autorizzazione;
   l'articolo 20 contenuto al Capo III è relativo ai mangimi animali;
   per gli OGM destinati al consumo umano si applicano gli articoli 3-10 del capo II del citato regolamento e quindi, il MON810 è da considerarsi a tutti gli effetti un OGM non autorizzato per il consumo umano;
   l'assenza di autorizzazione al consumo umano è un aspetto particolarmente rilevante nel caso in cui colture tradizionali o biologiche risultino contaminate dal momento che non basterebbe riportare in etichetta la presenza di OGM, ma i prodotti contaminati potrebbero essere usati solo per la mangimistica;
   le misure necessarie per emettere un OGM in ambiente sono richiamate all'articolo 17, paragrafo 5, che dispone che in presenza dei documenti relativi all'applicazione della parte C della direttiva 2001/18/CE e di un piano di monitoraggio ai sensi dell'allegato VII della stessa, gli OGM sono esclusi dall'applicazione degli articoli 13-24 della direttiva 2001/18 (inclusa la clausola di salvaguardia);
   la direttiva 2001/18/CE, compresa la clausola di salvaguardia, si applica anche alle varietà autorizzate ai sensi del Regolamento 1829/2003 ad eccezione di quanto previsto all'articolo 17, paragrafo 5 (e al 5.5 per gli OGM autorizzati per il consumo umano);
   l'articolo 20 del regolamento 1829/2003, al fine di favorire i prodotti già autorizzati, consente di notificare un prodotto esistente in deroga a quanto prescritto all'articolo 16, paragrafo 2, che vieta l'immissione in commercio di un OGM senza una specifica autorizzazione;
   si deve dedurre la non applicabilità dell'articolo 17 (domanda di autorizzazione) che definisce le disposizioni sulla base delle quali presentare la domanda per l'autorizzazione di cui proprio all'articolo 16, paragrafo 2;
   non sussistendo più le norme dell'articolo portante non possono sussistere i criteri definiti all'articolo 17;
   allo stato attuale il MON810 non può essere considerato come autorizzato all'emissione deliberata in quanto notificato in deroga agli articoli rilevanti;
   questa interpretazione è confortata dal fatto che l'articolo 20, paragrafo 4, rimanda all'attuazione dell'articolo 23 del regolamento 1829/2003 dove in effetti si richiama l'applicazione dell'articolo 17 al solo punto 2 e definisce i termini di autorizzazioni dei mangimi in quanto tali e non per il rilascio deliberato;
   il MON810, non godendo più delle condizioni di valutazione previste all'articolo 17, paragrafo 5, non può più considerarsi come rientrante nella normativa di cui all'articolo 12 della direttiva 2001/18/CE;
   nonostante il MON810 sia stato notificato ai sensi dell'articolo 20 del regolamento 1829/2003, si applicano gli articoli da 13 a 24, compresa la clausola di salvaguardia;
   la stessa Commissione, volendo introdurre un maggior grado di flessibilità nella possibilità che gli Stati membri possano vietare la coltivazione di OGM sul proprio territorio con argomentazioni diverse da quelle previste nella clausola di salvaguardia (ad esempio, applicando criteri di impatto socio-economici), ha proposto l'emanazione di un regolamento di modifica della direttiva 2001/18/CE che dovrà applicarsi anche agli OGM autorizzati ai sensi del regolamento 1829/2003 –:
   se i ministri interrogati, nell'ambito delle proprie competenze, non ritengano necessario:
    a) porre in essere presso le competenti sedi europee tutte le iniziative necessarie al fine di giungere alla revoca dell'autorizzazione alla coltivazione del MON810 per insussistenza delle condizioni di esclusione ai processi di autorizzazione previsti dalla direttiva 2001/18/CE e dal regolamento 1829/2003;
    b) porre in essere le iniziative necessarie all'applicazione della citata clausola di salvaguardia ai sensi dell'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE;
    c) ricorrere agli articoli 16 e 18 della direttiva 2002/53/CE sul registro varietale comunitario per vietare l'uso, ma non il commercio, del MON810 sulla base delle considerazioni previste;
    d) intervenire nelle sedi opportune al fine di ripristinare la necessaria chiarezza normativa tra l'emissione deliberata di OGM e la loro immissione in commercio. (4-00358)


   LACQUANITI, PELLEGRINO, DI SALVO, ZAN, ZARATTI, MELILLA e NICCHI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   tra i Siti da bonificare di interesse nazionale, sono incluse le aree del comune di Brescia che sono state interessate da contaminazione diffusa da policlorobifenili (PCB), PCDD-PCDF, arsenico e mercurio, derivanti, principalmente, dalle attività pregresse dello stabilimento chimico Caffaro spa, che hanno prodotto un disastro ambientale;
   fino al 1984 l'azienda Caffaro di Brescia è stata impegnata nella produzione di policlorobifenili (PCB) avviata negli anni ’30, su concessione della multinazionale Monsanto, titolare del brevetto;
   la produzione bresciana di policlorobifenili ha raggiunto livelli considerevoli proprio a ridosso degli anni ’80;
   dagli anni ’70 viene riconosciuta la pericolosità dei PCB, vengono riconosciute le loro potenzialità tossiche e la loro capacità di attecchire sul DNA umano; più in particolare l'esposizione ai PCB al di sopra dei limiti evidenziati dalla ricerca medico-scientifica e definiti dal legislatore, ha effetti patogeni di vario tipo: alterazioni al funzionamento di fegato e pancreas, alterazioni a carico del sistema immunitario, fino al loro grave e riconosciuto effetto cancerogeno (IARC 2013);
   nel 1979 il Congresso degli Stati Uniti ne vieta la produzione sul proprio territorio e la multinazionale Monsanto cessa definitivamente la produzione;
   in Italia nel 1982 con il decreto del Presidente della Repubblica n. 915, nel 1988 con il decreto del Presidente della Repubblica n. 261 e nel 1992 con il decreto legislativo n. 22 vengono posti limiti sempre più restrittivi all'uso dei policlorobifenili;
   il decreto legislativo n. 209 del 1999 recepisce la direttiva 96/59 della Comunità europea che regola lo smaltimento di policlorobifenili e definisce i controlli a carico degli impianti di smaltimento;
   negli ultimi 15 anni ripetute inchieste giornalistiche e pubblicazioni a carattere divulgativo mettono in luce le esposizioni prolungate cui sono stati sottoposti nel tempo i lavoratori della Caffaro di Brescia impiegati nella produzione dei PCB, senza che fossero a conoscenza della loro estrema pericolosità;
   le ricerche mettono in luce anche come alla Caffaro di Brescia fossero assenti le procedure minimali di protezione nei processi d'immagazzinamento con sversamenti incontrollati e prolungati sul suolo dello stabilimento; il terreno sarebbe stato sottoposto a sversamenti per svariati decenni, per cui è ragionevole ritenere che anche attraverso tale via le sostanze inquinanti abbiano raggiunto la falda; inoltre, le acque di scarico dello stabilimento, cariche di PCB e di altre sostanze tossiche, essendo recapitate direttamente nelle acque superficiali delle rogge, sono state per decenni utilizzate per l'irrigazione dei campi a valle della Caffaro e quindi penetrate nella catena alimentare umana;
   le ricerche effettuate dall'ARPA di Brescia su mandato del Comune di Brescia denunciano come i valori d'inquinamento ambientale nei terreni siano superiori anche di 5000 volte quelli normali fissati dal decreto ministeriale n. 471 del 1999 (livelli per le aree residenziali pari a 0,001 mg/kg, successivamente modificato in 0,060 mg/kg); altre ricerche effettuate dall'ASL di Brescia riportano nei cittadini residenti presso i terreni interessati, valori anche 10/20 volte maggiori quelli normali di assorbimento a carico dell'organismo umano; in particolare emerge che l'assorbimento avviene soprattutto a mezzo dell'assunzione di alimenti di origine vegetale ed animale, prodotti nel tempo nell'area interessata dalla produzione della Caffaro e nelle immediate vicinanze;
   Legambiente e il Comitato contro la Caffaro presentano nel 2001 un esposto alla Magistratura; successivamente viene presentata denuncia di disastro ambientale alla Procura della Repubblica di Brescia;
   nell'area interessata dalla produzione della Caffaro di Brescia, dichiarata fra il 2002 e il 2003 «sito di interesse nazionale Brescia Caffaro» e assunta in gestione diretta dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ai fini della bonifica, viene imposto a partire dal 2001, con successive ordinanze contingibili ed urgenti dell'allora sindaco di Brescia, Paolo Corsini, tra gli altri, il divieto di coltivazione e produzione di alimenti destinati a uomini e animali; ulteriori ordinanze dell'Amministrazione mirano a bloccare la catena alimentare, anche con l'abbattimento di capi di bestiame; vengono inoltre rivolte ripetute comunicazioni alla popolazione interessata, per illustrare le precauzioni sanitarie da seguire;
   l'amministrazione comunale di Brescia, che dal 2000 ha aperto un procedimento amministrativo verso la società Caffaro e nel corso degli anni ha resistito con successo a numerosi ricorsi al TAR da parte di Caffaro avverso ordini del Comune di varia natura, sempre rivolti a contrastare il pesante inquinamento riscontrato, incarica un legale di seguire l'evolversi delle indagini preliminari avviate dall'autorità giudiziaria per costituirsi parte civile; dopo alterne vicende il pubblico ministero Albritti al termine delle indagini, nel 2007, riconosciuto che lo sversamento del PCB nei terreni e nelle rogge, da cui sarebbe derivato l'inquinamento ambientale, si è interrotto con la fine della produzione nel 1984, chiede che la procedura sia archiviata perché i fatti risultano ormai prescritti; il GIP Carlo Bianchetti respinge la richiesta ed esorta il pubblico ministero a continuare le indagini; tuttavia l'istanza di archiviazione viene accolta nel 2010 dal giudice per le indagini preliminari Ceravone che scrive nel disposto della sentenza: «Quasi tutti i fattori inquinanti erano correlabili a produzioni da tempo dismesse, per il Pcb dal 1984, per il mercurio dal 1997, mentre l'impiego di Tetracloruro di carbonio era cessato nel 2003: è dunque arduo ipotizzare a carico dei legali rappresentanti della società succedutisi condotte penalmente rilevanti, di colpa specifica o generica, e quand'anche dovesse diversamente opinarsi il reato di disastro colposo sarebbe ormai prescritto»;
   la magistratura riconosce altresì che il comune di Brescia, stante l'amministrazione Corsini, non appena ha avuto notizia dei fatti, ha correttamente attivato, per quanto era di sua spettanza, la procedura volta a dare avvio alla bonifica, e messo in atto tramite ordinanze tutte le azioni atte a tutelare la cittadinanza –:
   se in ragione dell'estrema gravità dei fatti e dei tempi prolungati di esposizione ai fattori inquinanti e patogeni da parte di esseri umani e terreni, e al di là dell'esito delle indagini che non ha potuto riconoscere responsabilità di natura penale, non si ritenga di adottare tutte le iniziative volte a fronteggiare la gravissima criticità sanitaria e ambientale delle aree esposte in premessa;
   se conseguentemente non si reputi improcrastinabile attivare tutte le necessarie risorse finanziarie al fine di avviare rapidamente la bonifica dei terreni e della falda idrica che da troppo tempo attende di essere realizzata, con gravissimi rischi per la salute pubblica e per l'ambiente;
   se non si intenda avviare una seria indagine, volta a valutare con certezza le conseguenze sanitarie e ambientali a cui è stata soggetta nel tempo la popolazione, e i rischi attuali a cui è ancora sottoposta, anche attraverso l'attivazione di adeguati e capillari controlli sanitari sulla popolazione interessata, e un serio monitoraggio ambientale delle aree interessate;
   se non si ritenga necessario attivarsi affinché tutti i dati sanitari e ambientali che sono e saranno in possesso dei soggetti istituzionali siano resi pubblici e disponibili per i cittadini. (4-00366)

ECONOMIA E FINANZE

Interrogazioni a risposta scritta:


   ROSATO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro della difesa. — Per sapere – premesso che:
   il 10 aprile 2012 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, un bando di concorso del comando generale della Guardia di finanza per titoli ed esami, per il reclutamento di 750 allievi finanzieri della Guardia di finanza, riservato ai volontari in ferma prefissata di un anno o quadriennale ovvero in rafferma annuale delle Forze armate;
   le prove concorsuali, compresa la verifica dei requisiti psico-fisici, si sono svolte regolarmente e il 21 febbraio 2013 è stata pubblicata la graduatoria di merito finale;
   la graduatoria finale di merito prevede che 637 vincitori siano arruolati direttamente nella Guardia di finanza e 113 siano arruolati solo al termine di un periodo di ferma di quattro anni nelle Forze armate;
   per quanto attiene al contingente ordinario la graduatoria riporta 1.346 candidati idonei di cui 562 vincitori da arruolare direttamente nella Guardia di finanza, 98 vincitori da avviare alla ferma prefissata nelle Forze Armate e 659 idonei in soprannumero;
   espletate, quindi, le procedure di selezione si dovrebbe procedere con la presa in carico degli idonei vincitori, ma, risulta all'interrogante, che a distanza di più di due mesi non sono stati ancora comunicati agli stessi modalità e tempi di arruolamento;
   l'attività di lotta all'evasione fiscale – portata avanti dalla Guardia di finanza – è particolarmente importante e dirimente alla luce degli allarmi lanciati anche dalle istituzioni europee sul peso economico degli evasori. Peraltro, le azioni della Guardia di finanza appaiono al centro dell'azione governativa, intenzionata a ridurre il carico fiscale gravante sulle famiglie ma a fronte di un rafforzamento delle misure di controllo da parte delle autorità competenti;
   nonostante il cruciale ruolo che in Italia svolge il Corpo, le fiamme gialle si trovano in una situazione di carenza d'organico: secondo i dati ripresi da Il Sole 24 Ore nell'ottobre 2012, infatti, la Guardia di finanza dovrebbe avere un organico di 51.519 addetti, mentre quello effettivo arriva a 47.486 –:
   quali siano le tempistiche e le modalità di presa in carico degli idonei risultati vincitori del concorso per allievi finanzieri;
   come il Governo intenda tutelare gli idonei in soprannumero che potrebbero essere arruolati a copertura della carenza d'organico che si segnala per la Guardia di finanza;
   come, compatibilmente con le disponibilità di bilancio, il Governo intenda assicurare alla Guardia di finanza una piena operatività e la copertura della carenza d'organico. (4-00346)


   RICCIATTI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   il 3 aprile 2013 con un comunicato ufficiale la Banca delle Marche ha reso noti i risultati del bilancio consolidato per il 2012, tra i quali spicca una perdita di esercizio per un ammontare di 527,7 milioni di euro, frutto di quella che all'interrogante appare una dissennata gestione passata sfociata in una richiesta di azione di responsabilità e di risarcimento da parte della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata (Carima), nei confronti dei componenti del Consiglio di amministrazione del collegio sindacale di «Banca Marche» in carica al 31 dicembre 2011;
   già con una missiva del 9 gennaio 2012, Bankitalia segnalava in maniera circostanziata all'istituto di credito marchigiano, tutti quelli che giudicava gli elementi di criticità e che individuava negli assetti di governance, nel sistema dei controlli interni e nell'esposizione ai rischi di natura creditizia e finanziaria dello stesso, tutti aspetti peraltro già emersi nel corso di una precedente ispezione del 2010, sollecitandolo ad avviare la revisione del management attraverso la sostituzione del direttore generale ed il relativo affiancamento di un vice direttore e criticando l'operato del collegio sindacale;
   a parere dell'interrogante sono ravvisabili ulteriori elementi di incompatibilità della governance di «Banca delle Marche» con lo spirito della normativa istitutiva delle fondazioni bancarie, tra cui quello di ridurre il peso delle stesse nell'attività di gestione dell'azienda-banca. Risulta infatti all'interrogante un eccessivo grado di concentrazione dell'azionariato nelle mani delle tre fondazioni che detengono la maggioranza del capitale, e cioè la Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che partecipa con il 22,51 per cento del capitale, la Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro con il 22,51 per cento e la Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi con il 10,78 per cento, ed una sovraesposizione nella compagine amministrativa di «Banca Marche»: degli undici consiglieri di amministrazione, infatti, dieci sono espressione delle stesse, così come i tre sindaci revisori sui tre previsti dallo statuto societario, il tutto a giudizio dell'interrogante con grave pregiudizio per una equilibrata attività di controllo da parte dell'azionariato di minoranza, costituito per lo più da correntisti della stessa banca, tra i quali piccoli risparmiatori, piccoli imprenditori, soci-lavoratori;
   anche da un'indagine dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato del gennaio 2009 emerge, con preoccupazione, che le fondazioni svolgono, in seno alla governance di molti istituti di credito, il ruolo di azionisti determinanti. Vi partecipano talvolta con funzioni di controllo, almeno di fatto, altre volte con quote del capitale tali da assicurare loro la maggioranza relativa o comunque, sebbene di minoranza, una posizione di assoluto rilievo. A ciò si aggiunga che la loro presenza appare sempre più strategica, sia in termini di partecipazione alle nomine, sia nell'adesione a patti, basti vedere l'andamento delle assemblee;
   anche la sentenza della Corte costituzionale n. 301 del 2003 è intervenuta sul tema della governance delle fondazioni bancarie, nel frattempo riconosciute come veri attori del territorio al servizio delle comunità, e, nel dare un'interpretazione costituzionalmente corretta della disciplina legislativa dettata dall'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 153 del 1999, relativo alla fissazione un numero di componenti idoneo ad assicurare l'efficace esercizio dei relativi compiti, prevedendo modalità di designazione e di nomina dirette a consentire un'equilibrata, e comunque non maggioritaria rappresentanza, ha precisato che la governance delle fondazioni debba essere espressione di un delicato equilibrio degli interessi presenti sul territorio di elezione delle singole fondazioni e debba rispondere anche a criteri di trasparenza e di rappresentatività dei soggetti espressione delle realtà locali;
   le attuali difficoltà di «Banca delle Marche», sulle cui responsabilità occorre fare la necessaria chiarezza da parte di tutte le autorità competenti, in primis la magistratura, ma anche il Governo per gli aspetti di sua competenza, non possono ricadere né sul personale, la cui professionalità va considerata come una risorsa per il rilancio dell'azienda, né sui suoi risparmiatori che costituiscono l'azionariato diffuso della stessa, né sull'intero sistema economico e sociale, rendendo ancora più critico l'accesso al credito. Qualunque sia la soluzione che sarà necessario adottare, essa dovrà essere orientata al mantenimento dell'autonomia dell'istituto ed al suo stretto legame con il territorio, due condizioni strategiche per assicurare l'indispensabile sostegno alle imprese ed alle famiglie marchigiane già pesantemente colpite dal perdurare della crisi economica, ma soprattutto alla salvaguardia dei livelli occupazionali –:
   se non ritenga, nell'ambito delle sue competenze quale autorità di vigilanza preposta ex articolo 10 del decreto legislativo n. 153 del 1999, di dover adottare ogni iniziativa utile ad eliminare le situazioni di conflitto di interessi nella governance delle citate fondazioni, anche al fine di assicurare la massima trasparenza dell'operato e la compatibilità dei ruoli;
   se non intenda avviare verifiche o intraprendere ispezioni, nell'ambito delle competenze e dei poteri contemplati dal richiamato articolo 10 del decreto legislativo n. 153 del 1999, al fine di individuare comportamenti lesivi della sana e prudente gestione da parte delle fondazioni che detengono partecipazioni della «Banca Marche», verificare la redditività del patrimonio e l'effettiva tutela degli interessi contemplati nello statuto, e fare completa chiarezza sui fatti riportati negli ultimi mesi sulla stampa nazionale e locale che hanno generato notevoli allarmismi tra l'opinione pubblica. (4-00365)

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   VELO e MANCIULLI. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   il decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155, adottato in attuazione della delega di cui alla legge 14 settembre 2011, n. 148, di conversione del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, reca disposizioni in materia di revisione della distribuzione degli uffici giudiziari;
   nello specifico, prevede la soppressione di 31 tribunali ordinari e relative procure e di 220 sezioni distaccate di tribunale;
   la soppressione avrà efficacia dal 13 settembre 2013;
   con due diversi provvedimenti del 23 aprile 2013 il presidente del tribunale di Livorno, provvede all'accentramento presso il tribunale di Livorno di tutti i fascicoli delle sezioni distaccate, prevedendo per Piombino che tale accentramento avvenga immediatamente con decorrenza 3 maggio 2013, per Cecina e Portoferraio, progressivamente con decorrenza per l'effettiva applicazione dal 13 settembre 2013;
   la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento di soppressione delle sezioni distaccate nel mese di luglio 2013;
   alcune iniziative legislative di diversi parlamentari prevedono la proroga di un anno del termine del 13 settembre 2013 –:
   se il Ministro intenda assumere ogni urgente iniziative di competenza per evitare il frettoloso trasferimento a Livorno dei fascicoli della sezione distaccata di Piombino, trasferimento che potrebbe risultare inutile all'esito del giudizio della Corte costituzionale. (5-00095)

Interrogazioni a risposta scritta:


   PICIERNO, FERRARI, FERRANTI, AMICI, BELLANOVA, COSTANTINO, VERINI e CAMPANA. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   la recente sentenza della Corte Costituzionale 57 del 2013 è intervenuta sul codice di procedura penale, con riferimento ai reati di tipo mafioso, una materia particolarmente sensibile per la rilevanza del relativo fenomeno criminale nel nostro Paese;
   la Consulta ha stabilito che la disciplina della carcerazione «obbligatoria», di cui al terzo comma dell'articolo 275 del codice di procedura penale risulta essere priva del criterio di ragionevolezza, laddove prevede la presunzione assoluta di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere in caso di reati di «contesto mafioso»;
   la Corte, pur avendo negato che la carcerazione possa essere irrimediabilmente imposta sulla sola base della pertinenza del fatto al «contesto mafioso», pare tuttavia aver decisamente chiarito che invece ritiene la presunzione legittima quanto alla condotta associativa di tipo mafioso;
   da tale decisione che conduce dunque ad una relativizzazione dell'obbligo di custodia cautelare nel caso di reati di tipo mafioso potrebbe derivare il rischio di una scarcerazione di soggetti attualmente privati della libertà personale in ragione del contesto mafioso in cui hanno commesso il loro reato, con il rischio di vanificare anni e anni di indagini e di attività di repressione del fenomeno mafioso –:
   se il Ministro condivida la gravità di tale rischio ovvero se le fattispecie cui si possa applicare l'articolo 275 del codice di procedura penale siano in numero esiguo;
   se, nel caso in cui verifichi effettivamente il rischio di cui sopra, ritenga opportuno porre in essere tutte le iniziative di competenza necessarie per contenerlo, considerata la particolare rilevanza del fenomeno mafioso, in tutte le sue declinazioni, nel nostro territorio.
(4-00349)


   ROSTAN. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 1, comma 2 della legge 14 settembre 2011, n. 148, ha conferito al Governo, tra le altre cose, la seguente delega: «...a) ridurre gli uffici giudiziari di primo grado, ferma la necessità di garantire la permanenza del tribunale ordinario nei circondari di comuni capoluogo di provincia alla data del 30 giugno 2011; b) ridefinire, anche mediante attribuzione di porzioni di territori a circondari limitrofi, l'assetto territoriale degli uffici giudiziari secondo criteri oggettivi e omogenei che tengano conto dell'estensione del territorio, del numero degli abitanti, dei carichi di lavoro e dell'indice delle sopravvenienze, della specificità territoriale del bacino di utenza, anche con riguardo alla situazione infrastrutturale, e del tasso d'impatto della criminalità organizzata, nonché della necessità di razionalizzare il servizio giustizia nelle grandi aree metropolitane...»;
   con decreto legislativo del 7 settembre 2012, n. 155, è stato stabilito, tra gli altri, l'accorpamento del tribunale di Sala Consilina con quello di Lagonegro: tale disposizione attuativa è direttamente collegata al principio della sopravvivenza dei soli tribunali siti nei capoluoghi di provincia esistenti alla data del 30 giugno 2011;
   se quanto contenuto andasse in porto, si verificherebbe un precedente paradossale, rappresentato dalla soppressione – di fatto – di un tribunale strategico e servente un territorio vastissimo: l'accorpamento in esame, infatti, diretto ad unificare il foro di Sala Consilina con quello di Lagonegro, in buona sostanza comporterebbe la vera e propria scomparsa degli uffici giudiziari presenti nel Vallo di Diano, con il loro trasferimento in blocco non in un'altra provincia, bensì in un'altra regione, ovvero la Basilicata;
   giova evidenziare solo alcuni dati particolarmente significativi ed indicativi della rilevanza del tribunale di Sala Consilina nel circondario servito dallo stesso che a scopo esemplificativo e non esaustivo si riepilogano: pendenza media annua negli ultimi 3 anni pari a circa 4.400 cause iscritte a ruolo; quanto alla sezione distaccata di Sapri, pendenza media annua negli ultimi 3 anni pari a circa 750 cause iscritte a ruolo; nel settore lavoro, pendenza media annua negli ultimi 3 anni pari a circa 2.200 cause iscritte a ruolo; nel settore penale monocratico e collegiale, pendenza media negli ultimi 3 anni, circa 1.100 procedimenti avviati; nel settore GIP/GUP pendenza media negli ultimi tre anni pari a circa 2.200-2.300 procedimenti;
   a fronte di tali dati, sarebbe possibile ritenere che il mantenimento del tribunale di Sala Consilina realizzi il dettato normativo alla luce dei criteri oggettivi e omogenei, dettati dalla lettera b) dell'articolo 1 della legge 14 settembre 2011, n. 148, in quanto terrebbe conto «dell'estensione del territorio, del numero degli abitanti, dei carichi di lavoro e dell'indice delle sopravvenienze, della specificità territoriale del bacino di utenza, anche con riguardo alla situazione infrastrutturale»;
   viceversa, la soppressione del tribunale non porterebbe, a parere dell'interrogante, a un miglioramento, né tantomeno all'auspicata razionalizzazione, del servizio-giustizia;
   da un'attenta interlocuzione condotta dall'interrogante nei confronti dell'utenza quotidiana fruitrice della struttura interessata dal provvedimento di accorpamento, sono emersi non pochi dati particolarmente significativi che sconsiglierebbero vivamente il predetto accorpamento. A tale proposito è da rilevare che la relazione ministeriale, che prevede la soppressione del tribunale di Sala Consilina, presenta forti limiti nel rispecchiare la effettiva realtà delle cose e la conformazione del territorio, per diversi motivi;
   tra di essi, si segnala l'elemento logistico della distanza, che penalizza fortemente il territorio, essendovi tra il tribunale civile e penale di Lagonegro e la corte di appello di Salerno una percorrenza di 132 chilometri all'andata e di 132 chilometri al ritorno, per un totale di 264 chilometri, con un tempo minimo di viaggio di circa 3 ore circa tra andata e ritorno. Invece da Lagonegro, per raggiungere la propria corte di appello, ubicata a Potenza, si deve transitare per forza per Sala Consilina, che è ubicata sulla strada tra Lagonegro e Potenza. Non vi è dunque alcuna logica di risparmio nella soppressione del tribunale di Sala Consilina e nell'accorpamento a Lagonegro; semmai sarebbe stato più sensato accorpare Lagonegro a Sala Consilina (con tutti i dubbi di legittimità costituzionale già sopra evidenziati);
   il tribunale di Sala Consilina inoltre, ha attualmente competenza su un territorio di 1.107,85 chilometri, con popolazione residente di 88.615 abitanti, secondo le risultanze anagrafiche dei 28 comuni compresi nel circondario. In particolare, rappresenta l'8 per cento della popolazione residente in tutta la provincia di Salerno che conta n. 158 comuni e si estende su una superficie di 4.916 chilometri quadrati, con oltre 1.100.000 abitanti. Sala Consilina ed il circondario sono collegati al resto del mondo soltanto tramite l'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, in quanto il collegamento ferroviario è stato soppresso già dal 1980;
   il tribunale di Sala Consilina prevede, allo stato attuale, una pianta organica composta da n. 11 magistrati di cui un presidente e dieci giudici, di cui otto in funzione e tre vacanti;
   anche riguardo alla previsione e alle finalità della legge delega n. 148 del 2011 di realizzare risparmi di spesa e incrementi di efficienza, nonché la riduzione dei costi per lo Stato, è doveroso precisare che la sede del tribunale è in proprietà e non in fitto, per cui non bisogna fare ulteriori investimenti e la sua soppressione comporta necessariamente un diverso utilizzo per tale struttura, con il rischio che lo stesso non sia economicamente vantaggioso e, a giudizio dell'interrogante, con l'assurdità che la pubblica amministrazione dovrebbe giustificare l'esistenza di una struttura non utilizzata o utilizzata male. Il costo di gestione della struttura è quantificabile in meno euro 130.000 circa annuali, quando il solo trasferimento dei fascicoli, delle suppellettili e altro costerebbe oltre il triplo A ciò bisogna aggiungere i costi di adeguamento del tribunale di Lagonegro che deve essere ampliato con ulteriori investimenti ex-novo, per accogliere il tribunale di Sala Consilina, di gran lunga più grande;
   il tribunale di Sala Consilina si distingue inoltre come uno di quelli che maggiormente ha dato impulso all'innovazione legata alla diffusione del processo civile telematico, essendo tra i pochissimi (14 tribunali in Italia) che lo hanno attivato, riducendo i tempi ed i costi di giustizia, con costi a carico dei comuni e di privati (BCC locali). Tra l'altro il tribunale di Sala Consilina ha avuto il riconoscimento legale dal Ministero della giustizia con decorrenza 16 luglio 2012 del processo telematico anche per i procedimenti di esecuzione immobiliare;
   da rilevare anche il fatto che Sala Consilina è sede di carcere circondariale e con il decreto 3 giugno 2002 del Ministero della giustizia «Variante al programma ordinario di edilizia penitenziaria», è stata prevista la costruzione del nuovo istituto penitenziario per l'importo di euro 32.053.000,00;
   in base a quanto suesposto, è quanto meno opinabile, a parere dell'interrogante, che il tribunale di Sala Consilina possa essere accorpato ad un tribunale di dimensioni minori come quello di Lagonegro, situato non solo in un'altra provincia, ma addirittura in un'altra regione, con la conseguente confusione che si creerebbe, tra giurisdizione civile e penale di competenza di Lagonegro (Potenza regione Basilicata) ed amministrativa e tributaria di competenza di Salerno (Salerno regione Campania);
   giova infine ricordare l'incoerenza di quanto premesso con la risoluzione del Consiglio superiore della magistratura che, nell'esercizio dei poteri espressamente riconosciuti dall'articolo 10, comma II, legge n. 195 del 1958, nella seduta del 13 gennaio 2010, ha ritenuto prioritario ed indispensabile segnalare al Ministro della giustizia la necessità non più procrastinabile di procedere alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie, proponendo i seguenti criteri per i tribunali da conservare: 1) o sono capoluogo di provincia; 2) o sono in zone di forte criminalità organizzata; 3) o sono vicini alle metropoli; 4) o devono possedere le seguenti caratteristiche: a) si collocano in situazioni nelle quali la domanda di giustizia è particolarmente intensa: sono quelle sulle quali gravitano decine di comuni (almeno trenta) o comunque ad alta intensità abitativa; b) si tratta, contemporaneamente, di centri di terzo livello per servizi resi alle imprese e di quarto livello per servizi resi alle famiglie. Orbene, la circoscrizione di Sala Consilina ha una densità abitativa di 80 abitanti per chilometro quadrato, mentre Lagonegro ha una densità abitativa di 47 abitanti per chilometro quadrato;
   ai sensi del comma 5 dell'articolo 1 della citata legge 14 settembre 2011, n. 148, il Governo «entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi emanati nell'esercizio della delega di cui al comma 2 e nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi fissati, può adottare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi medesimi», in questo caso istituendo/ripristinando il tribunale di Sala Consilina;
   in attesa di una decisione sul reintegro ed alla luce di una più penetrante istruttoria secondo criteri giuridici e di merito, potrebbe essere opportuna – ad avviso dell'interrogante – la proroga dell'operatività del tribunale di Sala Consilina –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza della situazione evidenziata in premessa e se, alla luce di quanto esposto, ritenga opportuno valutare la possibilità di assumere iniziative per una proroga dell'operatività del tribunale di Sala Consilina in attesa di una più puntuale verifica della situazione di fatto e di diritto, ai sensi della legislazione di delega o mediante altri interventi normativi. (4-00351)


   LOREFICE, MARZANA, SARTI, BUSINAROLO, AGOSTINELLI, DE LORENZIS, RIZZO, GRILLO, D'UVA, BARONI, DEL GROSSO, LUPO, PARENTELA, TOFALO, VILLAROSA, CANCELLERI, DI VITA, MANNINO, DI BENEDETTO, LUIGI DI MAIO, NESCI, SIBILIA, LIUZZI, D'AMBROSIO, ALBERTI, FRUSONE, BASILIO, VIGNAROLI, DE ROSA, COMINARDI e SILVIA GIORDANO. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   il decreto legislativo n. 155 del 2012 in materia di nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, nell'intento di operare un riassetto del dislocamento degli uffici del personale giudiziario, alla tabella A prevede la soppressione del tribunale di Modica ed il suo accorpamento a quello di Ragusa;
   non volendo opinare la scelta di merito della riforma che, con il chiaro intento di operare una razionalizzazione dei costi, procede ad un taglio verticale della quantità dei tribunali, non considerando gli effettivi punti deboli del sistema giudiziario, è certo che tale decreto crea sicuramente seri problemi per la cittadinanza del circondario dei comuni di Ispica, Pozzallo, Modica e Scicli, oltre che comportare dei maggiori costi per l'espletamento della giustizia;
   non si può privare un'area particolarmente delicata come quella sicula di un efficiente ufficio giudiziario quale quello di Modica innanzi al quale attualmente pendono quasi 10.000 cause, a differenza di molti altri uffici giudiziari siciliani toccati solo apparentemente dalla spending review perché molto più piccoli e comunque più facilmente collegati al rispettivo tribunale di accorpamento;
   l'allontanamento dei palazzi di giustizia costringe il comune cittadino modicano, ma soprattutto ispicese, pozzallese e sciclitano ad intraprendere un vero e proprio trasferimento a Ragusa a giudizio degli interroganti del tutto irrazionale ed inefficiente per esercitare il diritto costituzionalmente garantito di agire in giudizio ex articolo 24 della Costituzione. È d'uopo evidenziare oltretutto che la provincia di Ragusa è l'unica in Sicilia a non essere mai stata dotata di autostrade, con la conseguenza che dal circondario di Modica occorre mediamente un'ora per raggiungere Ragusa (quasi il doppio del tempo necessario per raggiungere Siracusa e, in sostanza, lo stesso tempo di percorrenza per Catania);
   in ogni caso non si può non considerare la maggior efficienza dei tribunali di piccole e medie dimensioni rispetto ai grandi uffici giudiziari nel garantire ai cittadini un giusto processo, soprattutto assicurandone una ragionevole durata ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione;
   un accorpamento del tribunale di Modica a quello di Ragusa comporterebbe altresì una redistribuzione delle controversie penali e civili ai giudici con irragionevoli ritardi ulteriori nella definizione delle controversie che possono rientrare nell'ordine dell'anno anche per pendenze che allo stato attuale sono ormai prossime alla decisione;
   l'articolo 10 dello stesso decreto legislativo n. 155 del 2012 prevede la clausola di invarianza finanziaria, secondo cui dalla riorganizzazione degli uffici giudiziari non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. In seguito alla soppressione del tribunale di Modica invece i costi della pubblica amministrazione sarebbero di molto aumentati, in quanto, mentre oggi il tribunale di Modica è sito in un locale inaugurato solo nel 2004 (che dopo l'accorpamento verrebbe dismesso), a seguito della riforma si avrebbe lo spostamento di tutto il personale a Ragusa, con l'evidente incapienza materiale dei locali di destinazione per tutto il personale che attualmente lavora a Modica;
   il bilancio attuale del tribunale di Ragusa, allo stato, non disporrebbe inoltre di alcun margine di spesa extra da destinare all'affitto di nuovi locali, se non all'impiego di strutture disponibili quali ad esempio l'ex facoltà di agraria in Ragusa Ibla, una struttura inidonea, fatiscente e il cui riutilizzo presenterebbe notevoli costi per la pubblica amministrazione;
   il consiglio giudiziario della corte di appello di Catania nella seduta del 16 luglio 2012 ha espresso parere favorevole alla non soppressione del tribunale di Modica, e ha previsto un eventuale accorpamento di questo a quello di Ragusa con pari dignità per i palazzi di giustizia che diventerebbero entrambi sede di circondario;
   la soppressione del suindicato tribunale è ingiustificata anche alla luce dei parametri elaborati dalla commissione ministeriale che ha emanato lo stesso decreto legislativo:
    quanto alle sopravvenienze, il tribunale di Modica ha maggiori sopravvenienze rispetto a venti dei cinquantotto tribunali sub-provinciali (di cui 4 vengono mantenuti: Gela, Sciacca, Lagonegro e Spoleto);
    quanto all'organico dei magistrati, il tribunale di Modica ha un organico superiore rispetto a ben ventisette dei cinquantotto tribunali sub-provinciali (di cui 5 vengono mantenuti: Sciacca, Rovereto, Lagonegro, Larino e Spoleto);
    quanto alla popolazione, il tribunale di Modica ha una popolazione maggiore rispetto a ben ventuno dei cinquantotto tribunali sub-provinciali (di cui 4 vengono mantenuti: Larino, Lagonegro, Gela e Spoleto);
    quanto all'estensione territoriale, il tribunale di Modica ha un'estensione maggiore rispetto a ben sei dei cinquantotto tribunali sub-provinciali (di cui 4 vengono mantenuti: Busto Arsizio, Nola, Torre Annunziata e Nocera Inferiore). A ciò si aggiunga l'insufficiente stato delle infrastrutture del territorio in esame;
    quanto alla efficienza del servizio reso ai cittadini, va esaminata la relazione del primo presidente della Corte di cassazione all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012, che ha sostanzialmente affermato che il 10 per cento dei processi penali in primo grado vengono definiti con sentenze che dichiarano il reato estinto per prescrizione. Nel tribunale di Modica, in riferimento al medesimo periodo preso in considerazione, solo il 3 per cento dei processi penali vengono definiti con sentenze dichiarative della prescrizione;
   non appare coerente con i princìpi dello Stato di diritto il procedere con la chiusura indiscriminata delle sedi giudiziarie prescindendo dall'effettivo ruolo da queste svolto sul territorio nel rispetto e nel ripristino della legalità –:
   se sia a conoscenza di quanto riportato in premessa in merito alle vicende descritte e se risulti agli atti per quali ragioni non si sia ritenuto di escludere il tribunale di Modica dalla soppressione prevista dal suindicato decreto, in quanto la sua chiusura non risponde alle esigenze di maggior efficienza e di riduzione della spesa, ma al contrario comporterà enormi costi per lo Stato;
   se intenda assumere iniziative normative urgenti volte al mantenimento dell'ufficio giudiziario di Modica. (4-00353)


   POLVERINI. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   con decreto ministeriale 22 marzo 2013 il Ministro della giustizia ha sostituito le tabelle allegate al decreto ministeriale 8 febbraio 2001, riformando in modo radicale le dotazioni organiche del Corpo di polizia penitenziaria, con riferimento sia alle strutture detentive sia ai servizi penitenziari (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, provveditorati regionali, scuole di formazione);
   l'emanazione del decreto ministeriale 22 marzo 2013 è stata preceduta da un esame congiunto con le organizzazioni sindacali rappresentative del Corpo di polizia penitenziaria, ma il precipitato normativo del confronto sindacale è ben lungi dal rappresentare una soluzione congiunta al problema della razionalizzazione degli organici cui il provvedimento ministeriale tenta di porre rimedio;
   l'attenzione dell'amministrazione penitenziaria verso la delicata problematica della razionalizzazione del personale di polizia penitenziaria è testimoniata anche dalla realizzazione del progetto di revisione degli organici, dapprima rivolto provvisoriamente a tutte quelle strutture che erano prive di un proprio organico, dipartimento, I.S.S.P.e, provveditorati, scuole di formazione, U.E.P.E e degli istituti penitenziari aperti dopo il 2000 e, successivamente, a tutte le strutture dirigenziali dell'amministrazione penitenziaria comprese quelle già con propria dotazione organica (PEA n. 8/2008 revisione degli organici della polizia penitenziaria);
   il PEA 8/2008 ha impegnato tutte le strutture penitenziarie in una ricognizione capillare e dettagliata dei posti di servizio, al fine di mettere in condizione il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP) di poter evitare di sottoporre il personale a carichi di lavoro insostenibili ed esporre il DAP e codesto Ministro a numerosi contenziosi aventi ad oggetto richieste risarcitorie per danni da stress lavoro-correlato, nonostante i tentativi del DAP di ridurre tale pericoloso fenomeno con interventi amministrativi che a questo punto sembrano semplici palliativi;
   come si può leggere nella relazione del Ministro della giustizia – DAP, per l'anno 2009, «Costituisce priorità della Direzione Generale ottenere autorizzazione, al più presto, a nuove assunzioni di personale in maniera significativa, in special modo nel ruolo agenti e assistenti, maschile e femminile, per far fronte alla grave e accertata carenza di tali unità rilevate. In tale ambito ed al fine di razionalizzare le risorse umane sono stati predisposti due importanti PEA giunti nella fase conclusiva e riguardanti: “Revisione degli organici della Polizia penitenziaria” e “Razionalizzazione e organizzazione dei servizi della Polizia penitenziaria”»;
   degli esiti del PEA n. 8/2008 nulla si è più saputo e nel medio tempore il DAP ha avviato il progetto che ha condotto al decreto ministeriale 22 marzo 2013;
   la forte carenza di organico del Corpo di polizia penitenziaria è problema decisamente risalente nel tempo (Amato N., La riforma penitenziaria, in Leg. Giust., 1988, 1-2, 3 ss., spec. 5), e le condizioni di sovraffollamento carcerario, tuttora esistenti, non fanno che aggravarne l'impatto quotidiano a livello lavorativo, non solo incidendo negativamente sull'utenza detenuta, ma anche sul personale del Corpo di polizia penitenziaria addetto alla vigilanza ed osservazione nelle sezioni detentive, ovvero ai servizi di traduzione e piantonamento, avendo un contatto quotidiano e diretto con i detenuti, e quindi più esposto ad una situazione profondamente stressante, aumentando i carichi di lavoro con l'aumento del numero di soggetti presenti in sezione;
   l'opinione diffusa tra i vertici dell'amministrazione penitenziaria che una sezione carceraria sovraffollata non determini maggior carico di lavoro va decisamente smentita, soprattutto in quegli istituti di pena non conformi agli standard edilizi dettati dal decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, con l'effetto di sovraccaricare l'operatore addetto alla vigilanza ed osservazione nel reparto detentivo di una serie «adempimenti di routine» (apertura delle stanze per docce, colloqui, telefonate, attività lavorative, socialità) che a lungo andare logorano il corpo e la psiche, come dimostra l'enorme numero di pensionamenti per infermità che caratterizzano il Corpo di polizia penitenziaria, come riferisce l'UGL polizia penitenziaria che, in una conferenza stampa tenuta a Roma, nel dicembre 2011, riferiva che a quella data su 1023 unità pensionate dal 1o gennaio 2011, ben 673 fossero state determinate da infermità;
   anche il personale impiegato nel gravoso e rischioso servizio delle traduzioni e dei piantonamenti dei detenuti non ha condizioni migliori, essendo sempre impiegato «sotto scorta», cioè con un rapporto qualitativo e quantitativo, rispetto all'utenza vigilata e trasportata, ben al di sotto di standard minimi di sicurezza e ciò solo per assicurare il servizio;
   il sovraffollamento carcerario incide negativamente sulle condizioni di sicurezza delle strutture di pena, nel senso che una sezione ad elevata densità penitenziaria rende difficoltoso il controllo sulle persone presenti, sugli arredi e sulla struttura, aumentando i rischi ed alimentando un clima di paura ed insicurezza;
   ulteriore aspetto da non sottovalutare è rappresentato dalle ricadute dell’overcrowding sulle condizioni materiali in cui opera il poliziotto, in quanto lavoratore, con una precarietà «dell'igiene e sicurezza sul posto di lavoro», sovente stigmatizzata sia dalle organizzazioni sindacali di categoria, sia da quella parte del terzo settore da più tempo interessata al monitoraggio delle condizioni carcerarie (vedi i vari rapporti Antigone), che coinvolge anche la stessa funzionalità del servizio istituzionale. Infatti, difficilmente una sezione sovraffollata può permettere all'agente di svolgere una reale opera di partecipazione all'attività di osservazione scientifica del detenuto, essendo molto più probabile che la situazione attuale possa orientare unicamente verso la reificazione del detenuto, facendo prevalere una sterile e semplice vigilanza rispetto ad una più proficua osservazione;
   la pianta organica del Corpo di polizia penitenziaria è stata determinata con la tabella F allegata al decreto legislativo 21 maggio 2000, n. 146, cui va aggiunta la dotazione organica delle qualifiche dirigenziali e dei ruoli direttivi di cui alle precedenti tabelle D ed E, che porta a 45.121 la consistenza organica del Corpo di polizia penitenziaria;
   successivamente, i medesimi numeri sono stati confermati con il decreto ministeriale 8 febbraio 2001, allegato alla nota DAP 14 febbraio 2001, prot. n. 140395/5.1 e dalla nuova tabella A) come rivista dal decreto ministeriale 23 marzo 2013;
   attingendo al consueto monitoraggio statistico offerto dalla sezione statistica del DAP si registra una vera e propria proporzione inversa tra gli organici della polizia penitenziaria e la popolazione detenuta presente, con eventi critici che non possono essere considerati occasionali, ma che andrebbero annoverati tra le problematiche strutturali;
   il rapporto tra l'organico effettivo del Corpo di polizia penitenziaria e le presenze dei detenuti rilevati al dicembre degli anni 2005-2012 è il seguente:
    Anno 2005: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 42.509; Detenuti presenti 59.523;
    Anno 2006: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 41.853; Detenuti presenti 39.005;
    Anno 2007: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 41.358; Detenuti presenti 48.693;
    Anno 2008: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 40.483; Detenuti presenti 58.127;
    Anno 2009: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 40.152; Detenuti presenti 64.791;
    Anno 2010: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 39.333; Detenuti presenti 67.961;
    Anno 2011: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 39.038; Detenuti presenti 66.897;
    Anno 2012: Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio 37.989; Detenuti presenti 65.701;
   come denunciato dalla Corte dei Conti (delibera 11/2012/G del 27 settembre 2012), e dall'UGL polizia penitenziaria in occasione di una giornata di studio tenutasi a Roma il 10-12 dicembre 2012, le unità di polizia attualmente in servizio non sono tutte impiegate nei servizi di istituto, ma sono utilizzate anche per altre attività indirettamente connesse ai compiti di istituto, con l'effetto di sottrarre risorse umane ad un sistema che scricchiola pericolosamente, e sovraccaricare il personale effettivamente operante nelle sezioni detentive, come denunciato dall'ex Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria dottor Franco Ionta, in un'audizione parlamentare tenutasi il 25 maggio 2010 innanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (resoconto stenografico n. 46 dell'48o seduta), in cui il responsabile dell'amministrazione penitenziaria ha ammesso che «tale carenza di organico impedisce di svolgere tutte le attività necessarie in un sistema penitenziario»;
   la polizia penitenziaria, più di altre forze di Polizia, subisce pesantemente il blocco delle assunzioni, che caratterizza la scena politica degli ultimi anni, sia per le esigue assunzioni in deroga al blocco che ogni anno sono autorizzate dagli organi competenti, nonostante le necessità del sistema carcerario siano conclamate e non meno importanti di quelle rappresentate dai vertici delle Forze di polizia operanti ordinariamente sul territorio, che per la mancanza di concorsi pubblici per i profili amministrativi, motivo che fa sì che appartenenti al Corpo siano impiegati stabilmente in compiti amministrativi, sottraendo unità di polizia penitenziaria all'espletamento dei compiti istituzionali, con un paradossale aumento della spesa in relazione al posto ricoperto;
   a questo quadro per nulla incoraggiante, va aggiunto il dato relativo al trend del personale in quiescenza, il cui turn-over non viene neanche coperto dalle assunzioni in deroga, con l'effetto di rendere il deficit di organico ancor più drammatico, nonostante agli appartenenti al cosiddetto comparto sicurezza siano state applicate prima le cosiddette «finestre mobili» per il loro pensionamento, con lo slittamento della data di collocamento in quiescenza, ed ora, con la riforma pensionistica adottata dal Governo Monti, decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, ne sia stato ulteriormente complicato l'accesso alla quiescenza con la previsione di una non condivisibile armonizzazione pensionistica;
   il problema degli organici del Corpo di polizia penitenziaria costituisce, poi, una delle tre direttrici del cosiddetto piano carceri, rispetto al quale l'assunzione di 1.800 unità di personale dei vari ruoli del Corpo di polizia penitenziaria, resa possibile grazie all'articolo 4, comma 1, legge 26 novembre 2010, n. 199, di modifica dell'articolo 2, comma 215, legge 23 dicembre 2009, n. 191, a copertura dell'aumentato fabbisogno connesso al fisiologico avvicendamento ed all'apertura delle nuove strutture carcerarie, consentirà al massimo di tamponare il segnalato decremento dell'organico e non la sua implementazione verso quota «45.121»;
   il rapporto attualmente sperequato tra utenza e personale di polizia penitenziaria rimarrà tale, se non peggiorerà, in quanto le intenzioni dell'amministrazione penitenziaria sono quelle di aumentare i posti di servizio, mediante l'apertura di nuovi padiglioni, ostinandosi a non attingere a quelle soluzioni tecnologicamente avanzate (videosorveglianza interna; sistemi di antiscavalcamento ed anti-intrusione) che consentirebbero un risparmio di personale enorme, spalmando gli oneri correlati sul medio-lungo periodo;
   il decreto ministeriale 23 marzo 2013, pur nella commendevole intenzione di dotare i servizi penitenziari di piante organiche che evitino discutibili assegnazioni temporanee sine die di personale di polizia penitenziaria in uscita dagli istituti e diretti verso servizi e scuole, non ha fatto altro che «fotografare» l'esistente, cioè cristallizzare nel provvedimento i numeri già presenti presso le strutture non detentive, depauperando paurosamente gli istituti dai quali il personale in questione proveniva in posizione di distacco;
   la definizione delle piante organiche, una volta imputate le unità in questione al reale centro di costo contabile (DAP, PRAP, Servizi vari...), togliendole quindi dalla dotazione organica fittizia dell'istituto di riferimento, farà emergere delle pericolose carenze in danno delle carceri dei capoluoghi di regione, che maggiormente alimentano le sedi non penitenziarie;
   attualmente la carenza d'organico negli istituti di pena alimenta il deprecabile fenomeno dei doppi/tripli posti di servizio coperti da un solo agente di polizia penitenziaria, sovente costretto ad assicurare la vigilanza e l'osservazione di oltre 100 detenuti contemporaneamente, nonché l'espletamento di tutti gli altri compiti previsti dagli ordini di servizio interni e dal regolamento di servizio del Corpo;
   sempre per motivi riconducibili alla perniciosa carenza d'organico restano chiuse o sottoutilizzate spesso anche intere sezioni di istituti di pena ed il personale viene impiegato stabilmente (specie d'estate) in turni di servizio massacranti (anche di 8/12 ore consecutive) con impiego massiccio di lavoro straordinario, spesso messo in pagamento con estremo ritardo, ovvero «imposto» a recupero;
   l'UGL polizia penitenziaria in occasione di un incontro tenutosi a Roma alla presenza dell'ex Ministro della giustizia, professoressa Paola Severino e del vice capo vicario del DAP, dottoressa Simonetta Matone, aveva lanciato le seguenti idee per razionalizzare al meglio il personale del Corpo di polizia penitenziaria attualmente in servizio:
    a) convenzione nazionale con Poste italiane SpA per evitare che unità di polizia penitenziaria siano impiegate come «addetto alla posta» in servizio esterno;
    b) reale impegno dell'amministrazione penitenziaria per l'esternalizzazione degli spacci aziendali presenti negli istituti, ove tuttora sono impiegati poliziotti penitenziari;
    c) ristrutturazione dei muri di cinta dei 206 istituti di pena, prevedendo che siano dotati di sistemi anti-intrusione e anti-scavalcamento, recuperando così il personale che espleta ancora l'antidiluviano servizio di sentinella;
    d) uso sistematico e massiccio del sistema di video-conferenza per ridurre il carico di lavoro del personale impiegato nel servizio traduzione;
    e) rafforzamento dell'apparato sanzionatorio in capo ai magistrati che si ostinano tuttora a non effettuare le attività giudiziarie presso gli istituti penitenziari, come invece previsto dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9;
    g) esplicitazione con norma di legge degli obblighi in capo alle forze di Polizia diverse dalla polizia penitenziaria di effettuare le traduzioni diverse da quelle previste dal recente modello operativo del servizio traduzioni, emanato il 15 marzo 2013, specie con riferimento a quelle relative a detenuti non in carico agli istituti;
   queste sono solo alcune delle idee che potrebbero provenire da un confronto leale e aperto con le organizzazioni sindacali di comparto –:
   quali iniziative il Ministro interrogato intenda adottare per:
    a) porre rimedio alla gravissima carenza d'organico reale che affligge il Corpo di polizia penitenziaria, magari disponendo l'assunzione straordinaria di non meno di 3.000 unità del ruolo agenti assistenti, anche per consentire il ripianamento delle dotazioni organiche dei ruoli intermedi con concorsi interni, anch'esse pericolosamente carenti;
    b) rivedere il decreto ministeriale 23 marzo 2013 e le tabelle ad esso allegate, viste le criticità che conseguono ad un provvedimento emanato «cristalizzando l'esistente»;
    c) assicurare il prescritto benessere per il personale di polizia penitenziaria, minato a causa di una dotazione organica che non tiene conto del sovraffollamento tuttora esistente e di progettualità avveniristiche (si pensi alla cosiddetta sorveglianza dinamica) per la cui ortodossa realizzazione necessitano risorse umane e strumentali maggiori, non potendosi esigere «a costo zero». (4-00354)


   PIAZZONI, DANIELE FARINA, QUARANTA, SANNICANDRO, RICCIATTI, PELLEGRINO, MELILLA, FRANCO BORDO, NICCHI, ZAN, BOCCADUTRI, COSTANTINO, PALAZZOTTO e LACQUANITI. — Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   nella notte di sabato 27 aprile 2013, due omosessuali sono stati aggrediti e malmenati su viale Ostiense, in Roma, da sette ragazzi, tre dei quali subito tratti in arresto;
   per le dinamiche dell'aggressione, la stessa è da subito apparsa motivata da ragioni di omofobia, come anche riportato da notizie stampa;
   vi è da dire, peraltro, che gli aggressori – quantomeno gli arrestati – sono perfettamente inseriti a livello sociale, e dunque neanche persone disagiate o in difficoltà;
   nonostante l'arresto sia stato convalidato dal giudice, i responsabili dell'aggressione sono attualmente liberi, in quanto non è stata ritenuta necessaria l'applicazione di alcuna misura cautelare;
   se nel nostro ordinamento fosse prevista una normativa completa contro le discriminazioni che, in particolare, preveda e punisca anche la discriminazione o l'odio fondati sull'orientamento sessuale, con ogni probabilità, gli aggressori non sarebbero stati messi subito in libertà;
   l'applicazione di una pena-base superiore al limite dei due anni garantirebbe infatti l'applicazione di misure cautelari per i gravi reati dettati da ragioni omofobiche;
   l'udienza di trattazione si svolgerà in data 11 giugno 2013, tuttavia i difensori degli imputati avrebbero già preannunciato che chiederanno di accedere ai riti alternativi e, ad esempio, in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell'articolo 444 c.p.p., le vittime dell'aggressione non potranno neanche costituirsi parte civile per il risarcimento del danno;
   diverse risoluzioni del Parlamento europeo e raccomandazioni del Consiglio d'Europa chiedono da tempo ormai al nostro Paese di introdurre norme per completare la normativa antidiscriminatoria, prevedendo misure contro le discriminazioni per motivi di orientamento sessuale –:
   quali siano, per quanto di competenza, gli orientamenti del Ministro della giustizia in merito alla vicenda esposta in premessa, che fa peraltro seguito a numerosi altri casi di reati motivati da discriminazione e/o odio nei confronti di omosessuali o transessuali;
   se il Ministro della giustizia non ritenga urgente un'iniziativa normativa per integrare e completare la normativa antidiscriminatoria – come del resto, da anni, diverse risoluzioni del Parlamento europeo e raccomandazioni del Consiglio d'Europa chiedono all'Italia – da un lato, prevedendo l'estensione dei reati puniti dalle leggi n. 654 del 1975 e n. 205 del 1993 anche alle discriminazioni fondate sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere della vittima e, dall'altro, includendo tra le circostanze aggravanti, di cui all'articolo 3 della legge n. 205 del 1993, quella che il fatto sia stato commesso per finalità di discriminazione o di odio motivati dall'orientamento sessuale;
   se i Ministri interrogati non ritengano di dover promuovere, di concerto, una campagna di sensibilizzazione nelle scuole per educare al rispetto delle diversità, comprese quelle sessuali. (4-00356)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazioni a risposta scritta:


   MAGORNO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   Trenitalia, negli ultimi anni ha soppresso numerosi treni regionali e a lunga percorrenza da e per la Calabria, causando difficoltà oltre che nel trasporto locale anche nei collegamenti ferroviari Nord-Sud;
   la carenza di trasporti adeguati ai minimi standard europei e i tagli indiscriminati delle corse ferroviarie interessano in particolare la tratta del Tirreno cosentino, un territorio che vede ogni giorno gli spostamenti di migliaia di utenti che per lavoro, studio o quant'altro utilizzano i treni come unico mezzo di trasporto;
   i pendolari quotidianamente vivono il disagio causato dai ritardi nonché dalla improvvisa e non preavvisata cancellazione di corse ferroviarie che impedisono agli stessi di raggiungere regolarmente il posto di lavoro o di studio;
   non è tenuto in alcun conto il naturale collegamento che il Tirreno cosentino ha con il turismo proveniente dalla Campania e dalla città capoluogo Cosenza, soprattutto nel periodo estivo;
   Trenitalia utilizza verso il Sud carrozze ferroviarie dismesse, obsolete e sporche, con servizi igienici impraticabili e porte «fuori servizio»;
   il tutto aggrava la condizione di isolamento che da sempre caratterizza quest'area rispetto alle altre aree nazionali, precludendone anche la possibilità di sviluppo legata al turismo che costituisce l'attività economica prevalente del comprensorio –:
   se il Governo sia a conoscenza di quanto sopra esposto;
   quali iniziative, per quanto di competenza, il Governo intenda assumere in maniera urgente per bloccare la perdurante penalizzazione, nella qualità e nella quantità dei servizi, che Trenitalia impone da tempo al Tirreno cosentino e alla Calabria tutta, al fine di garantire il diritto alla mobilità dei calabresi in termini compatibili con lo standard nazionale nonché di incentivare forme di trasposto sostenibili, moderne e capaci di consentire a tutti gli utenti, migliori possibilità di spostamento in e verso un territorio a forte valenza turistica, così vasto ed in costante crescita. (4-00340)


   OLIVERIO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   a seguito della soppressione della fermata ferroviaria di Marcellinara (CZ) e della mancata apertura della stazione di Settingiano, si sono ulteriormente aggravati i disagi per la popolazione legati alle gravi insufficienze attinenti i trasporti ferroviari tra Catanzaro Lido e Lamezia Terme;
   purtroppo, oramai, il trasporto pubblico si pratica quasi esclusivamente su «gomma» nonostante la storica ed irrisolta insufficienza della rete stradale in generale e, in particolare, della strada statale 106 che collega da un capo all'altro la regione Calabria;
   in generale, quindi, sia il trasporto ferroviario sia quello su gomma in Calabria non sono assolutamente sufficienti a garantire un servizio di trasporto pubblico funzionale per i cittadini e per i turisti;
   la tratta ferroviaria tra Catanzaro Lido e Lamezia Terme è oggetto di un contratto di servizio tra la regione Calabria e le ferrovie dello stato italiane di cui non si conoscono i contenuti;
   il collegamento tra la direttrice jonica e quella tirrenica è di vitale importanza sia per i cittadini che per lo sviluppo del turismo –:
   se il Governo sia a conoscenza del grave disservizio presente sulla tratta ferroviaria tra Catanzaro Lido e Lamezia Terme e quali urgenti iniziative intenda intraprendere, per quanto di competenza, per far sì che venga sviluppato un sistema di trasporti moderno ed efficiente che consenta di far uscire dalla marginalità il territorio, di permettere ai cittadini di godere appieno del diritto alla mobilità e di permettere l'avvio di uno sviluppo economico virtuoso. (4-00343)

INTERNO

Interrogazioni a risposta scritta:


   MOLTENI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   a Cantù i carabinieri alloggiano in locali di proprietà del comune, per i quali l'amministrazione dell'interno dovrebbe corrispondere un canone d'affitto;
   da due anni e mezzo, invece, nessun canone risulta essere stato corrisposto all'amministrazione comunale canturina;
   l'Agenzia del territorio ha stimato in pari a 95 mila euro annui l'importo del canone dovuto dal Ministero dell'interno al comune di Cantù;
   a fronte delle richieste del comune di Cantù, il Ministero dell'interno si dichiara disponibile a versare soltanto 23 mila euro annui, una proposta definita come «non negoziabile» e per questo rigettata dalle autorità comunali canturine;
   conseguentemente, l'amministrazione comunale canturina soffrirebbe un danno economico quantificabile in almeno 230 mila euro, per ottenere i quali il comune sta considerando di assumere delle iniziative legali;
   l'episodio non sarebbe neanche isolato, essendosene verificati di analoghi anche per i locali in uso alla Guardia di finanza ed al Corpo nazionale dei vigili del fuoco –:
   su quali basi poggi la proposta non negoziabile di corrispondere al Comune di Cantù un canone di 23 mila euro annui contro quello da 95 mila ritenuto congruo dall'Agenzia del territorio e quali siano le ragioni per le quali l'amministrazione dell'interno si trovi in una situazione di morosità così grave e le misure che intende assumere per porvi fine nel più breve tempo possibile. (4-00342)


   ROSATO. — Al Ministro dell'interno, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   il decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, dispone l'obbligo di assicurazione per il personale addetto al lavoro nelle condizioni specificate, includendo all'articolo 1, terzo comma, punto 22), il personale addetto all'estinzione di incendi, ma escludendo «il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco». Tale esclusione è confermata dalla recente riforma degli enti previdenziali ed assicurativi (decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214);
   con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1959, n. 630, è stata fondata l'Opera nazionale di assistenza per il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco che, al fine di «di provvedere all'assistenza morale, culturale e materiale degli appartenenti al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, ...(omissis), nonché dei loro familiari ed orfani», attua alcune provvidenze e servizi tra i quali «g) altre forme di assistenza e previdenza»;
   l'Opera provvede alle sue finalità principalmente tramite sovvenzione annuale del Ministero dell'interno, con la quota di proventi dei servizi a pagamento del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e con contribuzioni volontarie del personale del Corpo;
   al fine di garantire l'assistenza sanitaria per il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, quindi, l'Opera stipula una polizza assicurativa sanitaria, spettante a tutto il personale in servizio nel Corpo e, volontariamente, anche ai dipendenti dell'amministrazione civile, ai pensionati del Corpo e ai nuclei familiari;
   i premi assicurativi, peraltro, sono in parte a carico dell'appartenente al Corpo e l'assicurazione stessa ha effetto dalle ore 24 del giorno del pagamento del premio o della prima rata dello stesso;
   in particolare, a decorrere dal 31 gennaio 2006 sono entrate in vigore le nuove polizze sanitarie, poi rinnovate il 31 gennaio 2010: polizza n. 263669669, polizza n. 263669400 e polizza n. 263669401;
   si precisa che le polizze sanitarie prevedono il rimborso delle spese a cure ultimate, «previa presentazione degli originali delle relative notule, distinte, fatture e ricevute debitamente quietanziate»;
   il 31 gennaio 2013, il consiglio d'amministrazione è venuto alla determinazione di non poter ulteriormente rinnovare le polizze assicurative in quanto dal 2007 ad oggi l'Opera ha subito una graduale e progressiva riduzione delle entrate assegnate dal bilancio e lo stanziamento previsto per l'anno in corso non offre alcuna garanzia per la copertura del premio assicurativo di competenza dell'Opera;
   a quanto risulta all'interrogante, infatti, nel 2008 c’è stata una prima riduzione del 50 per cento della dotazione ministeriale destinata all'Opera che si è ridotta, così, da 12 a 6 milioni di euro ed è stata ulteriormente ridotta del 50 per cento nel 2011;
   al fine di salvaguardare le singole posizioni ed evitare un'immediata interruzione dei rapporti assicurativi, comunque, l'Ente ha deliberato una proroga delle polizze sanitarie, ma fino al 31 marzo di quest'anno;
   infatti, come risulta dal sito web del dipartimento dei vigili del fuoco – sezione Opera nazionale assistenza, dal 1o aprile 2013 sono state disdette le polizze n. 263669669, n. 263669400 e n. 263669401;
   ad oggi, quindi, non esiste più per il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco un'assicurazione sanitaria organizzata e la stipula, in forma privata, di una polizza assicurativa sanitaria risulta molto difficile e gravosa in quanto i vigili del fuoco sono una categoria fortemente a rischio;
   il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco è da anni in prima linea nella lotta agli incendi ed è impegnato in molti altri tipi di intervento di soccorso, spesso delicati e rischiosi;
   nel 2012 sono state 814.357 le operazioni del Corpo sul territorio nazionale con un incremento del 10,6 per cento; e inoltre, i vigili del fuoco sono stati importanti protagonisti nei soccorsi per l'emergenza terremoto in Emilia;
   in attesa dei dati più precisi del 2012, le statistiche del 2011 segnalano come in un anno ben 164 vigili del fuoco si sono infortunati durante le operazioni di soccorso e sono state due le morti in servizio; questo significa che su un Corpo che conta 27.000 unità che intervengono effettivamente nelle operazioni, sono a rischio infortunio 18 vigili su mille;
   l'interrogante ritiene non sia opportuno che una categoria che rischia ogni giorno la vita e la propria salute per il Paese non sia tutelata da una qualche forma di assicurazione sanitaria pubblica o comunque organizzata. Peraltro, la situazione venutasi a determinare si pone al di fuori del dettato costituzionale, in quanto non è più prevista una forma di tutela e assistenza, quando, invece, l'articolo 38, secondo comma, della Costituzione recita «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria» e il quarto comma, del medesimo articolo, precisa che «Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato» palesando una incompatibilità con l'attuale situazione in cui ogni vigile del fuoco è costretto in autonomia a stipulare polizze private, talvolta, senza riuscirci;
   si sottolinea che anche la previsione (disciplinata dai contratti di polizza) del rimborso spese al termine delle cure, minava la dignità e la tutela della salute del lavoratore che non poteva fare affidamento a risorse aggiuntive indispensabili al momento dell'infortunio per ricoveri, visite specialistiche, farmaci ed altre cure;
   si porta a tal proposito il caso, segnalato anche dalla stampa locale, di Francesco Sicilia, vigile del fuoco rimasto ustionato a marzo durante le operazioni di spegnimento di un incendio in un pub a Reggio nell'Emilia, che sta pagando personalmente la fisioterapia e i due tutori per le mani e potrà presentare solo al termine delle cure le fatture per il rimborso spese all'assicurazione;
   in futuro, attesa la disdetta delle polizze, per contare una qualche forma di rimborso delle spese sostenute, il vigile del fuoco dovrà presentare domanda per il riconoscimento della causa di servizio con conseguenza attesa anche di quattro o cinque anni prima del responso –:
   se il Governo sia a conoscenza della situazione venutasi a creare con la deliberazione del consiglio d'amministrazione del 31 gennaio 2013 che ha disdetto le polizze assicurative di cui in premessa;
   a quanto ammonti lo stanziamento per l'anno in corso per l'Opera nazionale di assistenza per il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e se lo stanziamento sia sufficiente per il raggiungimento delle finalità dell'Ente, ed in particolare consenta la stipula di una polizza assicurativa sanitaria per il personale;
   quali misure il Governo abbia intrapreso per marginare le conseguenze che la deliberazione del consiglio d'amministrazione comporta, ed in particolare, quali azioni intenda mettere a punto per garantire al personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco l'assistenza sanitaria che si deve ad una categoria di lavoratori a rischio;
   se il Governo ritenga che la previsione di un rimborso spese al termine delle cure sia compatibile con l'articolo 38, commi secondo e quarto, della Costituzione;
   se il Governo stia valutando l'ipotesi di ricondurre le misure per il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco nelle competenze dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail), in assenza di un'alternativa assistenza sanitaria per detto personale.
(4-00345)


   COCCIA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il consigliere comunale del Popolo della libertà del comune di Bacoli (Napoli) Luigi Carannante è stato rinviato a giudizio per i reati di cui agli articoli 612 e 582, primo e secondo comma, con la seguente testuale imputazione: «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, dapprima profferendo all'indirizzo la frase in dialetto «ti devo uccidere» e poi colpendolo con una testata al volto, minacciava il signor Roberto Della Ragione, cagionandogli una lesione personale dalla quale derivava una malattia nel corpo della durata superiore ai 20 giorni»;
   l'episodio fa riferimento all'aggressione subita lo scorso anno dal signor Roberto Della Ragione, sostenitore di una lista civica a sostegno del candidato sindaco di centrosinistra, negli uffici del servizio elettorale del comune di Bacoli, presso il comando di polizia municipale, in occasione della definizione degli adempimenti per «l'apparentamento» ai candidati sindaci in ballottaggio per il secondo turno alle elezioni comunali di Bacoli;
   il signor Della Ragione, dopo l'aggressione, era stato immediatamente soccorso e trasportato con l'ambulanza al pronto soccorso dell'ospedale Santa Maria delle Grazie, dove venivano debitamente certificate le rilevanti ferite riportate (frattura scomposta del setto nasale con necessità di intervento chirurgico, lesione delle ossa facciali, lacerazione interna del labbro, ematomi multipli al volto e alle braccia);
   tale proditoria e violenta aggressione, alla quale assistevano diversi testimoni, determinava l'apertura di un'inchiesta da parte della procura della Repubblica di Napoli dalla quale è scaturito il rinvio a giudizio del consigliere comunale Luigi Carannante, che dovrà comparire davanti al giudice monocratico il 10 maggio del 2012;
   il caso appare di una straordinaria gravità perché avvenuto in una sede del comune, durante una fase importante del procedimento elettorale, ad opera di un candidato al consiglio comunale successivamente eletto e si configura come un'aggressione con una chiara matrice politica e con un evidente obiettivo intimidatorio ai danni di un avversario politico;
   è evidente che l'increscioso ed inquietante episodio non può essere rimesso esclusivamente alla pur inevitabile e giusta sanzione che riterrà di adottare il giudice penale, ma merita un'attenta e rigorosa valutazione dal parte delle competenti autorità istituzionali al fine di salvaguardare il decoro ed il corretto funzionamento degli enti locali, nonché di assicurare il normale esercizio della rappresentanza democratica, nel rispetto puntuale dei precetti costituzionali e delle vigenti normative finalizzate – tra l'altro – ad impedire ogni eventuale condizionamento nell'espletamento delle funzioni pubbliche;
   l'articolo 142 del testo unico degli enti locali stabilisce che, con decreto del Ministro dell'interno, i componenti dei consigli «possono essere rimossi quando compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di ordine pubblico» –:
   se non reputi opportuno assumere urgenti determinazioni, per quanto di sua competenza, al fine di accertare le condizioni di agibilità democratica e politica dell'assemblea elettiva del comune di Bacoli (Napoli), dal momento che in tale consesso siede un consigliere rinviato a giudizio per aver aggredito e provocato lesioni personali ad un avversario politico;
   se non ritenga di valutare la possibilità di promuovere un'azione di sospensione o rimozione del consigliere Luigi Carannante, ai sensi del citato articolo 142 del testo unico degli enti locali, considerato che la permanenza in consiglio comunale del suddetto appare lesiva dell'immagine, della dignità e della funzione democratica e rappresentativa dell'istituzione locale. (4-00348)


   MARCON, ZAN, PELLEGRINO, CLAUDIO FAVA e FRATOIANNI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nelle settimane scorse Gianfranco Bettin, già deputato della Repubblica e attualmente assessore all'ambiente del comune di Venezia, è stato oggetto, insieme ai familiari, di minacce di morte;
   il quotidiano Il Gazzettino del primo maggio 2013, in un articolo a firma Maurizio Dianese ha portato a conoscenza dell'opinione pubblica tali fatti;
   precisamente l'articolo riportava inquietanti episodi intimidatori, tra cui scritte intimidatorie, minacciosi allarmi notturni relativi a supposte violenze a danno della madre ammalata e ricoverata in ospedale e in ultimo il disegno di una bara sullo specchio dell'ascensore del condominio dove abita lo stesso;
   non è la prima volta che tali episodi accadono. Nel 1996, quand'era prosindaco di Venezia, fu oggetto della simulazione di una «esecuzione» (alcuni criminali lo sequestrarono e gli puntarono una pistola alla tempia premendo il grilletto, fortunatamente l'arma era scarica);
   gli interroganti ricordano che Bettin, a seguito di quell'episodio e delle sue ripetute prese di posizione contro la criminalità locale, è stato per anni, sotto scorta;
   gli interroganti sono altresì a conoscenza che le autorità locali (questura e Digos) sono allertate e in qualche modo attivate –:
   quali iniziative il Ministro interrogato intenda intraprendere per tutelare la sicurezza di Gianfranco Bettin e dei suoi familiari;
   quali siano le direttive date e seguite concretamente dalle autorità locali per garantire la sua incolumità. (4-00360)


   COLLETTI, VACCA e DEL GROSSO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   l'8 dicembre del 2011 la polizia municipale di Pescara elevava un verbale di contravvenzione a carico del questore Paolo Passamonti la cui autovettura era posteggiata nello spazio riservato alla fermata dell'autobus in una via del centro della città;
   la vettura di proprietà del questore veniva rimossa assieme ad altre tre parcheggiate in divieto nella stessa via e veniva trasportata presso il deposito della polizia municipale pescarese;
   successivamente, però, lo stesso questore veniva autorizzato a riprendere possesso della propria vettura senza corrispondere alcun importo né a titolo di sanzione amministrativa né per le spese di rimozione e custodia/deposito del mezzo. La contravvenzione a suo carico, peraltro, non risulterebbe ad oggi essere mai stata riportata nel libro mastro dei verbali dei vigili urbani di Pescara;
   anche ponendo il caso che la violazione del codice della strada fosse avvenuta per ragioni di servizio, ben avrebbe potuto il questore presentare ricorso al prefetto contro il verbale di accertamento – così come è nella facoltà di tutti i cittadini – e vederselo accogliere con ogni probabilità;
   vi è il grave sospetto che al questore Passamonti sia stato invece riservato un trattamento di ingiustificato privilegio (i proprietari delle altre tre vetture in contravvenzione hanno pagato tutti la multa e le spese accessorie, come da verbale) che ha suscitato l'indignazione dei cittadini pescaresi i quali hanno presentato nel marzo del 2013 un esposto-denuncia ai carabinieri censurando l'operato della polizia municipale e del questore;
   la presentazione dell'esposto ha indotto il sindaco di Pescara Luigi Albore Mascia e l'assessore con delega alla polizia municipale Giovanni Santilli a richiedere un chiarimento ufficiale al comandante dei vigili urbani, colonnello Carlo Maggitti;
   detto chiarimento, ad oggi, non è stato ancora formalizzato e, mentre il questore Passamonti tace, le istituzioni (tanto la polizia municipale quanto il comune di Pescara) sembrano essere inerti a dispetto dei diritti dei cittadini e del principio di uguaglianza costituzionalmente garantito;
   per di più – e qui si arriva all'epilogo più assurdo della vicenda – in data 4 aprile 2013 la procura della Repubblica di Pescara ha disposto la perquisizione dell'abitazione e dell'ufficio di Marco Patricelli, giornalista del quotidiano Il Tempo ed autore dell'inchiesta sulla «multa fantasma» di cui sopra. A suo carico la procura ha ipotizzato il reato di violazione del segreto investigativo (articoli 114 e 329 del codice di procedura penale);
   agli interroganti tale iniziativa appare assolutamente impropria considerata la necessità di garantire adeguatamente la piena manifestazione della libertà di stampa, della libertà di espressione e del diritto di cronaca;
   le istituzioni, che appaiono poco operative quando si tratta di tutelare i diritti dei cittadini tutti uguali di fronte alla legge, ad avviso degli interroganti hanno di fatto finito per limitare la libertà di stampa e la ricerca della verità, imprescindibili baluardi della nostra democrazia –:
   se il Ministro dell'interno intenda convocare il questore di Pescara Paolo Passamonti per ottenere un formale e definitivo chiarimento dei fatti sopra esposti. (4-00363)


   MARTELLA, MOGNATO, MURER e ZOGGIA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   da alcune settimane l'assessore all'ambiente del comune di Venezia, Gianfranco Bettin, è oggetto di una escalation di pesanti intimidazioni;
   l'episodio più recente ed inquietante è una scritta sulla porta di casa con la quale è stata disegnata una bara ed una data, evidenti segnali di una minaccia di morte;
   oggetto di intimidazioni è anche la madre di Bettin, attualmente ricoverata in ospedale, con falsi allarmi notturni sulla possibilità che qualcuno sia in procinto di farle del male;
   Gianfranco Bettin, sociologo, già deputato ed amministratore pubblico, si è sempre occupato di temi legati alla legalità, alla lotta alla criminalità e all'ambiente, divenendo tra i più importanti protagonisti della società veneziana;
   circa le motivazioni delle minacce che in queste ore stanno emergendo attraverso il lavoro investigativo, le attenzioni sono concentrate sugli ambienti malavitosi, legati in particolare allo spaccio di droga, senza escludere la possibilità che si tratti di singoli individui, figure borderline –:
   se il Ministro sia a conoscenza della situazione;
   quali iniziative intenda assumere, nell'ambito delle sue competenze per far luce sulla vicenda, e per agevolare l'accertamento dei fatti accaduti e l'individuazione dei responsabili. (4-00364)

LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazioni a risposta scritta:


   FAENZI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   l'interrogante segnala che numerose imprese agricole della regione Toscana, nel corso dell'anno 2012, hanno ricevuto da parte dell'Istituto nazionale di previdenza sociale, avvisi relativi al controllo della posizione contributiva della gestione agricola – datori di lavoro, che evidenziavano una situazione debitoria nei riguardi del medesimo ente di previdenza;
   a seguito di verifiche e accertamenti da parte dei diretti interessati, che hanno invece dimostrato la regolarità dell'avvenuto adempimento contributivo, lo stesso Istituto a distanza di qualche mese ha inviato ai contribuenti una nota di annullamento totale del debito confermando la regolarità dei versamenti da parte dei medesimi soggetti antecedenti la data di consegna dell'avviso della presunta posizione debitoria, riconoscendo pertanto l'errore nella procedura avvenuta;
   l'interrogante rileva altresì, in considerazione di quanto suesposto, come le rimostranze da parte delle aziende agricole coinvolte siano condivisibili se si valuta come le presunte irregolarità nei versamenti dei contributi dei propri dipendenti, successivamente smentite dall'Inps, hanno causato una serie di vessazioni quali: perdita di tempo e oneri finanziari, necessari per fornire i necessari riscontri presso gli uffici dell'ente di previdenza, riscontri che in realtà hanno attestato che l'inesattezza nell'invio degli avvisi sanzionatori era imputabile proprio all'Inps –:
   quale sia l'orientamento dei Ministri interrogati, nell'ambito delle rispettive competenze, con riferimento a quanto esposto in premessa;
   se siano a conoscenza di quanto riportato in premessa che ha evidenziato una condotta da parte dell'Istituto nazionale di previdenza sociale, errata e dannosa nei confronti di numerose imprese agricole della Toscana e di altre regioni, già costrette a fronteggiare una crisi economica gravissima causata anche da un continuo inasprimento della pressione fiscale e contributiva che sta affliggendo l'interno comparto;
   se non convengano che il discutibile comportamento del medesimo Istituto, che ha concesso trenta giorni di tempo per presentare i documenti utili per l'emissione del provvedimento finale, abbia determinato quella che all'interrogante appare un'inutile vessazione per centinaia di imprese agricole costrette ad intasare gli uffici provinciali dell'Inps con richieste di accesso degli atti e produzione di documenti, rivelatesi successivamente inutili.
(4-00339)


   SCOTTO, RAGOSTA, FERRARA e MIGLIORE. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   la società ASTIR spa ha come socio unico la regione Campania, il cui capitale azionario non è alienabile, anche in quota parte, a soggetti privati e che svolge la propria attività nel settore ambientale esclusivamente in favore dell'ente pubblico di appartenenza;
   la società ASTIR spa opera sulla base dello statuto societario, approvato con delibera di giunta regionale della Campania n. 833 del 30 aprile 2009, che risulta conforme alle indicazioni comunitarie in materia di operatività quale società in house;
   la Società di cui trattasi ha un organico con qualifica di operaio, di impiegato e di quadro pari a 458 unità, essa svolge attività nel vasto campo del recupero ambientale, operando in provincia di Caserta e di Napoli. Dalla sua costituzione (marzo 2003) al 31 dicembre 2011 ha progettato e realizzato per conto della regione Campania un complesso di interventi di recupero ambientale per un valore superiore ad 80 milioni di euro;
   il socio unico di ASTIR spa ha posto in liquidazione la società, giusto verbale dei soci del 29 dicembre 2011;
   attualmente la ASTIR ha un portafoglio commesse affidate con specifiche delibere di giunta regionale della Campania (delibere nn. 894/2010, 61/2012 e 70/2012) ed avviate con la stipula di quattro distinte convenzioni, sottoscritte dalla società e dal coordinatore dell'Area Generale di coordinamento n. 05 dell'assessorato all'ambiente della regione Campania, pari a poco più di 21 milioni di euro. Parte dei servizi convenzionati sono stati realizzati per un valore totale di stati avanzamento lavori (SAL) approvati dall'area generale di coordinamento n. 05 pari ad 8 milioni di euro e che restano da realizzare attività per poco più 13 milioni euro, in quanto le convenzioni sottoscritte dall'area generale di coordinamento n. 5 dell'assessorato all'ambiente della regione Campania e dal liquidatore di ASTIR spa non risultano né revocate, né formalmente sospese dal direttore per l'esecuzione dei servizi, né dal Rup;
   alla totalità dei dipendenti ASTIR sono legittimamente dovute dieci mensilità retributive perché maturate e non corrisposte dalla società, di cui sette relative all'anno 2012;
   l'esercizio finanziario dell'anno 2012, pur se non ancora approvato dall'assemblea dei soci, si chiuderebbe con una perdita che supererebbe gli otto milioni di euro, maturati in una fase di liquidazione della società;
   con la disposizione normativa contenuta nell'articolo 22 della legge regionale n. 1 del 2012 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2012 e pluriennale 2012-2014 della regione Campania), viene costituita la società di scopo «Campania Ambiente e Servizi» con capitale azionario di 500 mila euro interamente sottoscritto dalla regione Campania. Successivamente, il socio regione Campania procede alla approvazione dello statuto della nuova società ed alla nomina dei suoi organi societari;
   il suddetto articolo 22, dispone, tra l'altro, che la società Campania ambiente e servizi potrà assorbire le funzioni ed il relativo personale delle società a partecipazione regionale o di enti regionali operanti in materia ambientale, i quali, in tal caso, saranno preventivamente posti in liquidazione. Non risulta, ad oggi, nessuna decisione formale e giuridicamente vincolante del socio unico di ASTIR e del socio unico di Campania Ambiente e servizi che attui quanto disposto dal soprarichiamato articolo 22 della legge regionale n. 1 del 2012;
   la Corte Costituzionale con sentenza n. 28 del 26 febbraio 2013, ha dichiarato incostituzionale l'articolo 22 della legge regionale n. 1 del 2012 e il consiglio regionale della Campania non ha provveduto ad approvare una nuova norma che, accogliendo le motivazioni della suprema Corte, disponesse la nuova costituzione della società di scopo già prevista dall'abrogato e già citato articolo 22;
   con sentenza, deposita il 31 ottobre 2012, il tribunale civile di Napoli ha dichiarato non fallibile la Società ASTIR S.p.A., in quanto azienda «non commerciale che svolge un servizio necessario che è in capo alla Regione Campania»;
   dopo numerosi incontri sindacali convocati, congiuntamente, dagli assessori all'ambiente ed al lavoro della giunta regionale Campania, per discutere le possibili soluzioni da dare alla vicenda ASTIR, l'assessore regionale al lavoro ha redatto e firmato un verbale della riunione svolta il 4 marzo 2013 costituendo la presenza alla stessa dell'amministratore unico della società Campania ambiente e servizi, prevista dall'abrogato articolo 22 della legge regionale n. 1 del 2012. Il verbale viene trasmesso con nota n. 399/SP del 5 marzo 2013 dall'assessore di cui sopra alle organizzazioni sindacali, al liquidatore di ASTIR spa ed all'amministratore unico di Campania ambiente e servizi e, nonostante il motivato dissenso di tutte le organizzazioni sindacali, si conclude con le seguenti espressioni: «Qualora non si pervenga alla stipula di accordi con le organizzazioni sindacali, condizione imposta dalla legge per l'accesso agli ammortizzatori sociali, il liquidatore della società sarà tenuto all'immediato avvio della procedura di licenziamento collettivo allo scopo di evitare il verificarsi di danni erariali»;
   con nota n. 3689/2013 del 12 marzo 2013 avente ad oggetto «Situazione di crisi della società ASTIR spa in liquidazione-Consultazione sindacale articolo 5 della legge 164/1975-Articolo 2 decreto del Presidente della Repubblica 218/2000», il liquidatore di ASTIR S.p.A. convoca per il 14 marzo 2013 tutte le organizzazioni sindacali e l'amministratore unico di Campania Ambiente e Servizi, al fine di avviare la procedura per la collocazione in Cig in deroga di tutto il personale dipendente con qualifica di quadro, impiegato ed operaio;
   la riunione del 14 marzo 2013 e il suo proseguimento, il 18 marzo 2013, si conclude con un verbale che costituisce anche il presidente di ITALIA LAVORO spa – dottor Paolo Reboani – e che registra il dissenso delle organizzazioni sindacali al ricorso alla Cig in deroga attraverso un documento allegato al verbale, nel quale sono indicati i motivi del disaccordo, così sintetizzabili: non si possono sospendere i lavoratori in costanza di commesse di lavoro in essere e legittimamente conferite dalla regione Campania, in assenza del piano di gestione della crisi e né può esserne titolare un'altra società, pur posseduta dalla regione Campania (Campania Ambiente e Servizi), fondata su una disciplina ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale ed, infine, perché il tribunale civile di Napoli ha definito ASTIR come società non commerciale che svolge un servizio necessario che è in capo alla Regione Campania e quindi non è fallibile;
   a giudizio dell'interrogante, l'assessorato regionale al lavoro della regione Campania, il liquidatore di ASTIR spa stanno producendo un evitabile disastro occupazionale contro la volontà delle organizzazioni sindacali ed un danno all'erario dello Stato –:
   se non ritenga doveroso inviare, con ogni consentita urgenza, degli ispettori ministeriali per verificare la legittimità di tutti gli atti che tali organismi hanno già posto formalmente in essere e tendenti, secondo le motivazioni e le documentazioni delle organizzazioni sindacali, a determinare un uso improprio della Cig in deroga, non applicabile nel caso di ASTIR spa in liquidazione, con conseguente possibile danno erariale di almeno 8 milioni di euro. (4-00362)

SALUTE

Interrogazioni a risposta orale:


   BINETTI. —Al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   la geriatria continua ad essere penalizzata sebbene sia l'unica delle discipline MED09 che garantisca un pronto impiego. Basti pensare che, nelle ASL romane, oltre il 30 per cento dei contratti per assistenza domiciliare è per i geriatri;
   la disciplina «geriatria e gerontologia» si è progressivamente affermata a livello accademico e sanitario per affrontare due problemi oggettivi: uno demografico, rappresentato dal progressivo aumento della vita media della popolazione, ed uno epidemiologico, cioè l'aumento delle malattie croniche degenerative e della conseguente disabilità, più o meno rilevante;
   in Italia il 50 per cento delle giornate di degenza è per le persone con più di 65 anni; uno dei principali obiettivi è quindi quello di operare in collegamento con la medicina territoriale per realizzare la «continuità assistenziale», intesa come medicina coordinata e collaborativa anche in senso verticale fra i diversi tipi di cura (primarie, secondarie e terziarie); il coordinamento è possibile solo quando si seguono metodologie analoghe, da applicare nel processo curativo-assistenziale dei diversi setting (l'ospedale, le residenze per gli anziani e l'assistenza domiciliare); solo in questo modo è realizzabile un'efficace long-term care;
   il processo curativo assistenziale della persona anziana si basa sulla valutazione multidimensionale geriatrica (VMD), che valuta i diversi componenti che concorrono allo stato di salute e di benessere dell'anziano, e cioè i versanti biologico, psicologico e sociale e richiede non solo una diagnosi attenta dello status dell'anziano con relativo bilancio di competenze dell'anziano con relativo monitoraggio periodico, per valutare le condizioni di una vasta fascia di popolazione, la cui perdita di autonomia costituisce un problema di grande rilievo sul piano socio-economico e familiar-istituzionale;
   è stato emanato il decreto ministeriale del 24 aprile 2013, n. 333, riguardante l'assegnazione dei contratti di formazione specialistica per l'anno accademico 2012/2013. Rispetto allo scorso anno (2011/2012) si è avuta una riduzione di circa il 10 per cento dei contratti di formazione specialistica;
   i tagli hanno colpito tutte le specializzazioni di area medica e nello specifico: allergologia e immunologia clinica è passata da 30 a 26 contratti (-15 per cento); geriatria è passata da 134 a 120 contratti (-11 per cento); medicina dello sport è passata da 32 a 30 contratti (-7 per cento); medicina d'emergenza-urgenza è passata da 50 a 46 contratti (-8 per cento); medicina interna è passata da 234 a 226 contratti (-3 per cento);
   purtroppo, le condizioni economiche generali non hanno consentito di salvaguardare tutti i contratti dell'anno accademico 2011/2012 –:
   quali urgenti iniziative intendano intraprendere atte a difendere le aree culturali e cliniche che fanno parte del sistema sanitario nazionale, ponendo particolare attenzione verso quelle che hanno subito un taglio proporzionalmente maggiore rispetto agli altri settori. (3-00032)


   BINETTI. —Al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   il Corso di laurea in infermieristica pediatrica è stato istituito sulla base della consapevolezza che il bambino necessiti di conoscenze e competenze specifiche, peculiari rispetto a quelle necessarie per l'assistenza al paziente adulto, per il conseguimento di buoni standard assistenziali;
   ogni bambino è portatore di specifici bisogni legati alla dipendenza dall'adulto, alle dinamiche inter e intrafamiliari e al grado di sviluppo cognitivo ed emotivo;
   i tre anni di corso danno modo allo studente di infermieristica pediatrica di approfondire in modo globale il bambino e le problematiche legate alla presa in carico dell'intero nucleo familiare. Le ore di tirocinio predisposte permettono allo studente di concretizzare le suddette competenze teoriche e di confrontarsi con la realtà ospedaliera e territoriale (sono previste infatti due esperienze di tirocinio c/o i distretti dell'aerea materno-infantile e c/o gli ambulatori dei PLS);
   il decreto ministeriale 70/1997 ha chiarito che la professione di infermiere pediatrico deve essere distinta dalla professione di infermiere generale, altrettanto capace nell'assistenza all'adulto ma sprovvisto dell'esperienza e della teoria coltivate nell'arco dei tre anni di studi universitari in ambito pediatrico;
   al termine della formazione di base, l'infermiere pediatrico diventa uno specialista poliedrico capace non solo di esprimersi con professionalità e serietà in ambito ospedaliero ma con altrettanta sicurezza nel territorio. Mancano però regole e profili precisi che definiscano il ruolo dell'infermiere pediatrico permettendo di costruire la rete di sostegno territoriale necessaria per garantire continuità assistenziale;
   la continuità assistenziale diventa ancora più doverosa in un contesto di malattia cronica dove le cure continue potrebbero essere erogate, con un'opportuna organizzazione, in regime domiciliare e non in regime di ricovero riducendo il numero di posti letto, gravando di meno sulla spesa sanitaria nazionale e garantendo il rispetto della dignità del paziente e della famiglia;
   nonostante la necessità di infermieri in area pediatrica che il territorio esprime, come dimostrato anche dall'ultimo concorso bandito solo per infermieri generalisti dall'azienda Ospedaliera di Padova, la quale con tale concorso provvedeva alla occupazione di nove posti vacanti proprio nella clinica pediatrica, la figura professionale dell'infermiere pediatrico non viene valorizzata dalle istituzioni sanitarie, che non propongono sbocchi professionali adeguati a una formazione coltivata in tre anni di studi e tirocinio sia in ambito ospedaliero che territoriale;
   da più parti si richiede che vengano istituiti dei concorsi di assunzione per infermieri pediatrici o che venga data l'opportunità di partecipare a concorsi che destinino i vincitori alle aree pediatriche a dimostrazione di una politica manageriale sanitaria orientata alla qualità dell'assistenza in tutti i contesti di cura, ricordando che la legge 1098/1940, tuttora vigente, stabilisce che gli infermieri pediatrici hanno «titolo di preferenza per l'assegnazione a posti, di servizio di assistenza all'infanzia presso asili nido, brefotrofi, ospedali, o reparti ospedalieri infantili e presso ogni altra istituzione di assistenza all'infanzia»;
   è necessario evidenziare, inoltre, la possibilità di un impiego ulteriore dell'infermiere pediatrico nei territori disagiati, dove il pediatra manca o sia oberato di piccoli utenti, come punto di riferimento per l'educazione alla salute e una prima assistenza di base per il bambino e la famiglia –:
   cosa intendano fare in merito alle prospettive lavorative di laureati e laureandi, che sono in attesa di occupazione, e con i futuri iscritti al corso di laurea in infermieristica pediatrica che comunque rimangono aperti;
   se non ritengano necessario attuare ogni opportuna iniziativa, anche di carattere normativo volta a garantire l'assistenza domiciliare integrata anche per il paziente pediatrico, soprattutto se disabile, in modo tale da alleggerire il carico delle famiglie e da assicurare un'assistenza continua anche al di fuori dell'ambito ospedaliero con un sicuro risparmio nei costi del servizio sanitario. (3-00033)

Interrogazioni a risposta scritta:


   OLIVERIO. — Al Ministro della salute, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro per gli affari europei. — Per sapere – premesso che:
   la sindrome dello spopolamento degli alveari (SSA, in inglese CCD, ovvero Colony Collapse Disorder) è un fenomeno che sta acquisendo dimensioni preoccupanti in Europa e in Italia, mettendo a rischio la vita delle api;
   il 29 aprile 2013 in sede di Comitato d'appello dell'Unione europea, chiamato ad esprimersi su un dossier relativo all'impatto dei pesticidi sulle api, è emerso come la maggioranza degli Stati membri condivida la proposta della Commissione europea di imporre la riduzione dell'uso di tre tipi di neonicotinoidi (imidacloprid e clothianidin della Bayer e thiamethoxam di syngenta) risultati nocivi per la salute delle api;
   i neonicotinoidi sono prodotti chimici – solubili nell'acqua, che vengono versati sul suolo e assorbiti dalle piante – definiti «sistemici», poiché rendono le piante stesse delle fabbriche di veleno, dato che il prodotto intossica le radici, gli steli, le foglie e il polline. Di qui il contagio con le api e l'azione sul sistema nervoso degli insetti, garantendo una tossicità più contenuta sui mammiferi rispetto a prodotti di vecchia generazione;
   il fenomeno della morìa delle api è recente, ma ormai ben noto. La sindrome dello spopolamento degli alveari si è manifestata alla fine del 2006, quando gli apicoltori degli Stati Uniti si sono accorti che qualcosa non funzionava. I loro alveari si stavano, appunto, spopolando;
   sono molte le ipotesi avanzate: dai cambiamenti climatici alle radiazione elettromagnetiche. Alcune plausibili, altre fantasiose. Una serie di studi realizzati nel 2007 da ricercatori inglesi delle università di Plymouth e Stirling e da ricercatori francesi dell'università di Poitiers, ha dimostrato che la sindrome da spopolamento degli alveari è correlata alla diminuzione del polline. In pratica le api hanno meno da mangiare. E, in particolare, assumono meno proteine. Cosicché il loro sistema immunitario diventa più debole. Si tratterebbe, dunque, di una classica spirale negativa. Le api muoiono perché c’è meno polline. Ma c’è meno polline anche perché le api muoiono;
   il rapporto di Greenpeace, pubblicato il 9 aprile 2013, intitolato «Api in declino – le minacce agli insetti impollinatori e all'agricoltura europea», mette in evidenza l'importanza ecologica ed economica di proteggere e mantenere in buone condizioni le popolazioni di api (api mellifere e tutti gli altri apoidei, pur sempre importanti in quanto insetti impollinatori);
   il rapporto sottolinea come «Le evidenze scientifiche sulle conseguenze dei pesticidi più dannosi per le api sono chiare. Non possiamo permetterci di perdere le api e il resto degli impollinatori naturali: l'Italia e gli altri Paesi europei devono agire per vietare queste sostanze killer»; «L'eliminazione di tali sostanze – afferma Federica Ferrario, responsabile della Campagna “Agricoltura Sostenibile” di Greenpeace – è un primo passo cruciale ed efficace per tutelare la salute delle popolazioni di api e per salvaguardare la loro attività di impollinazione, un servizio vitale per la produzione di cibo e per l'ecosistema»;
   esistono sulla questione della moria delle api numerosi studi. Uno degli ultimi è il rapporto di gennaio 2013 diffuso dall'Efsa (l'Autorità europea di sicurezza alimentare che ha sede a Parma), che ha confermato «i gravi rischi legati all'uso di tre pesticidi su diverse importanti colture presenti nell'Ue». Nello stesso documento, tuttavia, l'agenzia rivela di essere «impossibilitata a finalizzare la sua valutazione a causa della ristrettezza dei dati disponibili»;
   sotto accusa, secondo l'EFSA, sono i princìpi attivi contenuti in tre diverse formulazioni: il Clothianidin e l'imidacloprid, prodotti dalla Bayer e il Thiamethoxam prodotto dalla Syngenta;
   l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao), calcola che delle 100 specie di colture che forniscono il 90 per cento di prodotti alimentari in tutto il mondo, 71 sono impollinate dalle api;
   l'Italia ha già proibito dal 2008 l'uso di questi pesticidi sistemici, con decreti temporanei, e solo per le colture di mais. Nel nostro Paese è stata anche lanciata un'iniziativa di monitoraggio (Apenet), che ha messo in luce una significativa riduzione della moria delle api dopo l'introduzione della misura. Divieti nazionali simili sono stati decisi anche dalla Germania (dal 2008 sul mais), dalla Francia (nel 2012 sulla colza, ma anche precedentemente con altri divieti poi revocati), e nel 2011 dalla Slovenia su tutte le colture;
   le ricerche di Apenet hanno dimostrato la presenza di effetti sinergici e di interazioni tra le diverse sollecitazioni cui l'alveare è sottoposto, il legame tra la presenza di pesticidi e alcuni fenomeni patologici, e tra la qualità dell'alimentazione proteica e il livello di resistenza ad alcuni fenomeni ambientali e ai patogeni. I dati raccolti hanno inoltre evidenziato che diversi agenti di stress, interferendo con il sistema immunitario dell'ape, possono, indirettamente, facilitare esplosioni virali che rischiano, rapidamente, di condurre a morte le colonie. Queste sostanze, anche a dosi molto basse, sono in grado di scatenare inoltre una serie di effetti sub-letali: ad esempio, agiscono su capacità di orientamento, perdita di memoria olfattiva, difficoltà di apprendimento, tutte caratteristiche fondamentali per l'organizzazione e la sopravvivenza delle colonie;
   il divieto dei neonicotinoidi in Italia ha quasi risolto il problema della moria delle api che aveva colpito il 50 per cento degli alveari con punte dal 70 al 100 per cento. In sei anni non è stato rilevato nessun calo delle produzioni di mais. Il problema non è affatto di poca rilevanza. Secondo alcuni riguarda il futuro stesso dell'agricoltura, a causa del ruolo decisivo che hanno le api nell'impollinazione. Albert Einstein avrebbe detto che «se l'ape scomparisse dalla faccia della Terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita». Ovviamente non esistono conferme scientifiche su questa teoria;
   il 17 ottobre 2008 è così entrato in vigore il primo divieto temporaneo dell'uso, per la concia di sementi, dei prodotti fitosanitari contenenti quattro sostanze attive: clothianidin, thiamethoxam, imidacloprid e fipronil. In corrispondenza delle aree di coltivazione del mais trattate con queste sostanze e della polvere diffusa durante le operazioni di semina contenente le quattro sostanze attive, si sono riscontrate infatti le morie più pesanti per le colonie di api;
   dopo la sospensione dei neonicotinoidi per la concia delle sementi di mais, dai dati Apenet risulta che gli agricoltori non hanno segnalato maggiori problematiche legate alla gestione dei parassiti e non sono state riportate diminuzioni statisticamente rilevanti dei rendimenti. Il divieto alle sementi conciate con neonicotinoidi ha dato, però, immediatamente un respiro di sollievo alla popolazione di api;
   l'Unione europea ha messo a punto un regolamento che prevede il bando temporaneo dei suddetti tre pesticidi. Il 15 marzo 2013 in sede di Comitato Ue – la maggioranza dei Paesi dell'Unione europea ha votato a favore della proposta della Commissione europea per il bando temporaneo di tre pesticidi riconosciuti a livello scientifico come altamente nocivi per la salute delle api. Si tratta di Imidacloprid e Clothianidin prodotti dalla Bayer e del Thiamethoxam di Syngenta. La proposta è stata bocciata da una minoranza di Stati. Discussa di nuovo il 29 aprile, la proposta è stata bocciata, sempre a minoranza. Gli Stati a favore del bando sono 15, i contrari 8 e gli astenuti 4;
   la Commissione europea ha annunciato una moratoria sull'uso dei pesticidi a partire dal primo dicembre 2013, in attesa di avere un quadro scientifico più chiaro. Lo scorso mese di maggio, infatti, la stessa Commissione europea ha stanziato 3,3 milioni di euro per finanziare in 17 Stati membri gli studi di sorveglianza con l'obiettivo di raccogliere informazioni più solide –:
   se i Ministri interrogati, anche alla luce degli studi scientifici sulla moria delle api e dei recenti rapporti sulla problematica e in considerazione del voto ampiamente maggioritario dell'Unione europea, intendano adoperarsi per vietare l'uso di pesticidi nocivi per le api, a partire dalle sette sostanze più pericolose attualmente autorizzate nell'Unione europea, quali imidacloprid, thiamethoxam, clothianidin, fipronii, clorpirifos, cipermetrina e deltametrina –:
   se i Ministri interrogati, attraverso l'adozione di piani d'azione e di sostegno nazionali per gli insetti impollinatori, intendano sostenere e promuovere pratiche agricole che apportino benefici al servizio di impollinazione all'interno dei sistemi agricoli (come la rotazione delle colture, la promozione di aree di interesse ecologico a livello aziendale e i metodi di agricoltura biologica);
   se i Ministri interrogati intendano promuovere tutte le necessarie iniziative per migliorare la conservazione di habitat naturali e semi-naturali all'interno e intorno alle aree agricole nonché incrementare la biodiversità nei campi;
   se sia intenzione dei Ministri interrogati valutare l'opportunità di aumentare i finanziamenti per la ricerca, lo sviluppo e l'applicazione di pratiche agricole ecologiche che si allontanano dalla dipendenza da sostanze chimiche per il controllo dei parassiti, per andare verso l'uso di strumenti basati sulla biodiversità per controllare i parassiti e migliorare la salute degli ecosistemi;
   se i Ministri interrogati, nell'ambito del negoziato sulla nuova PAC (pagamenti diretti) e di Orizzonte 2020 (programma europeo di ricerca), intendano assumere iniziative per indirizzare maggiori fondi per la ricerca sull'agricoltura ecologica.
(4-00337)


   BIONDELLI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il corso di laurea in infermieristica pediatrica è stato istituito sulla base della consapevolezza che il bambino necessiti di conoscenze e competenze specifiche, peculiari rispetto a quelle necessarie per l'assistenza al paziente adulto, per il conseguimento di buoni standard assistenziali;
   il bambino è, infatti, da considerare come un portatore di particolari bisogni legati alla dipendenza dall'adulto, alle dinamiche inter e intra – familiari e al grado di sviluppo cognitivo ed emotivo;
   i tre anni di corso danno modo allo studente di infermieristica pediatrica di approfondire in modo globale il bambino e le problematiche legate alla presa in carico dell'intero nucleo familiare. Le ore di tirocinio predisposte permettono allo studente di concretizzare le suddette competenze teoriche e di confrontarsi con la realtà ospedaliera e territoriale (sono previste infatti due esperienze di tirocinio presso i distretti dell'aerea materno-infentile e presso gli ambulatori dei pediatri di libera scelta;
   il decreto ministeriale n. 70 del 1997 ha chiarito che la professione di infermiere pediatrico deve essere distinta dalla professione di infermiere generale, altrettanto capace nell'assistenza all'adulto ma sprovvisto dell'esperienza e della teoria coltivate nell'arco dei tre anni di studi universitari in ambito pediatrico;
   al termine della formazione di base, l'infermiere pediatrico diventa uno specialista poliedrico capace non solo di esprimersi con professionalità e serietà in ambito ospedaliero ma con altrettanta sicurezza nel territorio e, affiancando la figura dei pediatri di libera scelta potrebbe infatti incaricarsi di politiche di educazione sanitaria e della presa a carico del bambino sano;
   il regio decreto n. 1098 del 1940, all'articolo 9, stabilisce che «il possesso del diploma di Stato di vigilatrice dell'infanzia costituisce titolo di preferenza per l'assegnazione a posti di servizio di assistenza all'infanzia presso ospedali, o reparti ospedalieri infantili e presso ogni altra istituzione di assistenza all'infanzia»; ad oggi il titolo di vigilatrice di infanzia è stato sostituito con quello di infermiere pediatrico rendendo quindi vigente tuttora tale norma;
   nell'attuale contesto mancano però regole rispettate e profili precisi che definiscano il ruolo e la collocazione dell'infermiere pediatrico che permettano di costruire una rete di sostegno territoriale necessaria per garantire l'agognata continuità assistenziale, che diventa ancora più doverosa in un contesto di malattia cronica dove le cure continue potrebbero essere erogate, con un'opportuna organizzazione, in regime domiciliare e non in regime di ricovero riducendo il numero di posti letto, gravando di meno sulla spesa sanitaria nazionale e garantendo il rispetto della dignità del paziente e della famiglia;
   nonostante la necessità di infermieri in area pediatrica che il territorio esprime, come dimostrato anche dall'ultimo concorso bandito solo per infermieri generalisti dall'azienda ospedaliera di Padova, la quale con tale concorso provvedeva alla occupazione di nove posti vacanti proprio nella clinica pediatrica, la figura professionale dell'infermiere pediatrico non viene valorizzata dalle istituzioni sanitarie, che non propongono sbocchi professionali adeguati a una formazione coltivata in tre anni di studi e tirocinio sia in ambito ospedaliero che territoriale;
   nella regione Sicilia, pur esistendo il corso di laurea abilitante alla professione di infermiere pediatrico, e nonostante il decreto assessoriale n. 2536 del 2 dicembre 2011 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della regione siciliana nel gennaio 2012 sul riordino e sulla razionalizzazione della rete dei punti nascita (pianta organica), non è stato e non viene ad oggi dato spazio a questa importante figura, poiché tali normative, a quanto consta all'interrogante, non vengono rispettate né dalle strutture private né da quelle pubbliche –:
   se il Ministro, nel rispetto delle competenze regionali in materia, non ritenga opportuno assumere iniziative per definire, a livello nazionale, criteri volti all'istituzione di concorsi atti all'assunzione specifica di infermieri pediatrici sia in strutture pubbliche che in strutture private;
   se il Ministro non ritenga opportuno assumere iniziative affinché coloro che abbiano acquisito il titolo di infermiere pediatrico possano vedersi riconoscere un titolo equipollente che li abiliti all'assistenza del paziente adulto, come l'infermiere generale, permettendo agli stessi così di partecipare ai concorsi pubblici indetti per tale figura professionale;
   se il Ministro, sempre nel rispetto delle competenze regionali in materia, non ritenga opportuno assumere ogni iniziativa di competenza affinché vi sia un affiancamento della figura professionale di infermiere pediatrico a quella dei pediatri di libera scelta, data la competenza specifica dell'infermiere pediatrico nell'assistenza al bambino sano, permettendo ai pediatri di dedicare un tempo maggiore alla cura del bambino malato. (4-00338)


   GAGNARLI, GALLINELLA, TOFALO, PARENTELA, L'ABBATE, MASSIMILIANO BERNINI, BENEDETTI, PETRAROLI e LUPO. — Al Ministro della salute, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   la tutela del benessere di tutti gli animali ed il rispetto dei loro diritti sono valori fondamentali che caratterizzano la civiltà di un Paese;
   l'organizzazione mondiale della sanità ha definito il concetto di «benessere degli animali» come «... lo stato di completa sanità fisica e mentale che consente all'animale di stare in armonia con il suo ambiente»;
   nel 1965, il Brambell Report elencava, con particolare riferimento agli animali allevati, le cosiddette «cinque libertà» necessarie per evitare disturbi al «benessere» tra cui la libertà di manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche normali, fornendo spazio sufficiente, locali appropriati e la compagnia di altri soggetti della stessa specie;
   in Italia circa l'80 per cento delle galline vive ancora in gabbie di batteria;
   la Commissione europea in data 25 aprile 2013 ha deferito l'Italia alla Corte di Giustizia dell'Unione europea per non avere attuato correttamente la direttiva 1999/74/CE che imponeva l'obbligo di modifica delle gabbie dove invece vengono tuttora costrette le galline ovaiole;
   la direttiva 1999/74/CE prevedeva che, a decorrere dal primo gennaio 2012, tutte le galline ovaiole fossero tenute a terra o nelle cosiddette «gabbie modificate» fornite di 750 centimetri quadrati di spazio, di un nido, lettiere, posatoi e dispositivi per accorciare le unghie, consentendo così alle galline di soddisfare i loro bisogni biologici e comportamentali. Un sistema alternativo che, seppur minimo, migliorerebbe le condizioni di detenzione attuali degli allevamenti intensivi di galline ovaiole;
   l'Italia era già stata richiamata il 26 gennaio 2012, quando la Commissione aveva inviato una lettera di costituzione in mora con la quale si chiedeva alla Grecia ed all'Italia, assieme ad altri 11 Stati membri dell'Unione europea, di adempiere alla nuova normativa europea, ed a ciò ha fatto seguito un parere motivato del 21 giugno 2012. La Commissione europea chiedeva una piena ottemperanza da parte di tutti gli Stati membri per evitare distorsioni del mercato ed una concorrenza sleale, in quanto gli stati membri che ancora consentivano l'uso di gabbie non modificate mettevano in situazione di svantaggio le aziende che avevano investito per conformarsi alle nuove misure;
   in Italia la maggior parte degli allevatori ha ritenuto più conveniente non adeguare gli impianti, rischiando al massimo il pagamento di una somma modesta, piuttosto che investire in gabbie conformi nonostante avessero avuto 12 anni di tempo per adeguarsi alla citata direttiva europea –:
   quale sia il numero degli allevamenti ancora fuori norma ed il numero complessivo di animali allevati in condizioni illegali;
   quali provvedimenti, anche sanzionatori, siano stati adottati dalle autorità competenti e quali iniziative si intendano adottare per favorire l'adeguamento agli standard europei degli allevamenti che ancora non abbiano provveduto ad uniformarsi;
   quali iniziative i Ministri interrogati intendano assumere per garantire che l'etichettatura delle uova poste in commercio, attraverso la menzione del «codice 3», indichi esclusivamente le uova prodotte da galline tenute in «gabbie modificate» ovvero conformi alle direttive europee;
   quale argomentazioni lo Stato italiano intenda porre a base della propria difesa nei confronti del procedimento giurisdizionale dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea. (4-00344)


   PIAZZONI, NICCHI e AIELLO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, in Europa, per effetto di uno psicofarmaco sedativo (il talidomide), somministrato a donne nei primi mesi di gravidanza, erano nati migliaia di bambini colpiti da gravi malformazioni, quali il mancato sviluppo degli arti quali amelia (assenza degli arti) o vari gradi di focomelia (riduzione delle ossa lunghe degli arti);
   il nostro Ministero della salute, nel 1962, ordinava il divieto di commercializzare questo prodotto sul mercato italiano e il ritiro di tutti i farmaci contenenti talidomide in circolazione;
   il comma 363 dell'articolo 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), ha stabilito che «ai soggetti affetti da sindrome da talidomide, determinata dalla somministrazione dell'omonimo farmaco, nelle forme dell'amelia, dell'emimelia, della focomelia e della macromelia» è riconosciuto «l'indennizzo di cui all'articolo 1 della legge 29 ottobre 2005, n. 229»;
   molti sono coloro che, pur avendo accertato il nesso tra assunzione del farmaco e patologia deformante, attendono ancora il giusto risarcimento da parte dello Stato a causa della difficoltosa procedura burocratica per il riconoscimento dell'indennizzo. La circolare ministeriale del 5 novembre 2009, n. 31, prevede, infatti, l'obbligo di presentazione di documenti anche molto datati e difficilmente reperibili, come la cartella clinica della nascita e altre «cartelle cliniche e/o certificazioni di struttura pubblica dalle quali risulti la diagnosi, la terapia e gli interventi eventualmente subiti»;
   l'articolo 31, comma 1-bis, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14, ha previsto che l'indennizzo previsto dalla legge finanziaria 2008 è riconosciuto solo ai soggetti nati dal 1959 al 1965;
   indubbiamente si tratta di una limitazione troppo restrittiva in quanto esistono soggetti che non sono nati negli anni stabiliti dal menzionato articolo 31 della legge n. 207 del 2008, ma che sono comunque affetti da quella che è meglio conosciuta come «sindrome da talidomide»;
   a questi soggetti lo Stato non riconosce il nesso di causalità tra il farmaco assunto dalla madre e il loro fenotipo, discriminando, di fatto, chi ha la «colpa» di essere nato uno o due anni prima o dopo il termine sancito dalla legge;
   molte sono le cause avviate contro il Ministero interrogato da persone affette dalla «sindrome da talidomide» escluse dall'indennizzo, così come diverse sono le ipotesi di illegittimità costituzionale dell'articolo succitato che, di fatto, negherebbe il diritto, a chi non è nato tra il cinquantanove e il sessantacinque, di essere visitato per accertare il nesso causa-effetto tra talidomide e patologie diagnosticate –:
   se, in base a quanto esposto in premessa, non intenda assumere una propria iniziativa normativa volta ad ampliare il lasso temporale, attualmente previsto per i nati dal 1959 al 1965, ai fini del riconoscimento del nesso tra sindrome da talidomide e patologie dalle quali i cittadini sono affetti, e comunque a riconoscere il previsto indennizzo per i soggetti nati al di fuori degli anni previsti dalla normativa vigente, purché in grado di documentare un nesso di causalità tra l'assunzione del farmaco e la sindrome da talidomide.
(4-00347)


   SCOTTO. — Al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   con legge n. 16 del 28 novembre 2008, la regione Campania aveva adottato misure finalizzate a garantire il rispetto degli obblighi di contenimento della spesa sanitaria e di riqualificazione razionalizzazione del sistema sanitario regionale;
   la suddetta disposizione di legge (anteriore al commissariamento della regione) aveva previsto agli articoli 2 e 4 la razionalizzazione degli ambiti territoriali e l'accorpamento delle aziende sanitarie locali operanti sul territorio locale;
   in applicazione a questa disposizione di legge, che ha stabilito che le aziende sanitarie locali all'epoca esistenti dovessero essere accorpate «in ragione delle caratteristiche geomorfologiche del territorio», la giunta regionale della Campania, visto altresì, il parere della commissione tecnica nominata dall'allora assessore alla sanità, ha proceduto alla ridefinizione delle circoscrizioni territoriali delle aziende sanitarie locali;
   con delibera della giunta regionale n. 505 del 20 marzo 2009, si è disposto in particolare che le aziende sanitarie locali dovessero essere accorpate tenendo conto della «continuità territoriale degli ambiti territoriali», e che questo criterio dovesse essere coniugato con quello dell'omogenea distribuzione della popolazione residente;
   in applicazione di questi criteri sono state create nella provincia di Napoli nn. 3 aziende sanitarie (Napoli 1 Centro, Napoli 2 Nord, Napoli 3 Sud), aventi ciascuno una popolazione di circa 1.000.000 di abitanti;
   la delibera ha previsto che il comune di Portici (costituente il distretto sanitario n. 34), fino a quel momento facente parte dell'ASL n. 5 di Castellammare, non dovesse confluire nell'ASL NA 3 Sud (nella quale sono stati accorpati i comuni prima facenti parte delle aziende sanitarie locali 4 e 5) ma dovesse essere invece inglobato nella circoscrizione territoriale dell'ASL NA 1 Centro;
   l'accorpamento del territorio del comune di Portici (e del distretto 34) nell'ASL NA 1 Centro ha richiesto il compimento di ingenti spese, tese all'integrazione delle strutture sanitarie, all'omogeneizzazione delle procedure cartacee ed informatiche, alla razionalizzazione delle prestazioni rese a favore dell'utenza dalle strutture pubbliche, da quelle private convenzionate e da quelle ospedaliere;
   con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 aprile 2010, il Presidente della giunta regionale della Campania è stato nominato commissario ad acta per la prosecuzione del piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario della regione;
   il decreto di nomina ha stabilito che il commissario ad acta possa procedere al riassetto della rete ospedaliera e territoriale, con adeguati interventi per: la dismissione/riconversione/riorganizzazione dei presidi non in grado di assicurare adeguati profili di efficienza ed efficacia; l'analisi del fabbisogno e la verifica dell'appropriatezza e conseguente modifica dei piano ospedaliero regionale in coerenza con il piano di rientro; il completamento dell'assetto territoriale delle aziende sanitarie locali;
   in applicazione di queste disposizioni il commissario ha adottato decreti nn. 98 del 2012 e 100 del 2012 con i quali a partire dal 1o gennaio 2013, si è disposto l'accorpamento del comune di Portici alla ASL NA 3 Sud;
   i decreti, a quanto consta all'interrogante, sono stati adottati in assenza di qualsiasi istruttoria tecnica tesa ad accertare quali siano gli effettivi bisogni della collettività amministrata, ed a stabilire se in relazione alla natura ed alle caratteristiche delle prestazioni sanitarie erogate ai cittadini di Portici, alla rete di assistenza territoriale ed ospedaliera esistente nell'ASL NA 1 Centro e nell'ASL NA 3 Sud, il trasferimento dall'una all'altra azienda sanitaria locale possa effettivamente arrecare vantaggi ai residenti del distretto 34, e nello stesso tempo realizzare le finalità di contenimento della spesa per le quali l'organo straordinario è stato nominato;
   il decreto n. 98 del 2012, nella sua parte motiva ha fornito notizia soltanto di un ordine del giorno del consiglio regionale della Campania che ha impegnato il presidente della giunta regionale nella qualità di commissario ad acta a porre in essere tutte le attività necessarie ad accorpare il comune di Portici all'ASL NA 3 Sud;
   il suddetto ordine del giorno è fondato su un parere della commissione consiliare di sanità adottato all'esito di una seduta nel corso della quale si è proceduto all'audizione del sindaco di Portici e di una pluralità di operatori sanitari pubblici e privati e delle associazioni sindacali di categoria; il resoconto di questa audizione dimostra la sostanziale contrarietà all'accorpamento espressa da quasi tutti i soggetti pubblici e privati interpellati;
   questa nuova dislocazione del comune di Portici presso l'ASL NA 3 Sud pare all'interrogante più che assicurare un reale interesse collettivo realizzare un'interesse privato, perché tale da tutelare esclusivamente (come dimostrano i pareri contrari di tutti i soggetti interrogati ad eccezione dei titolari delle strutture sanitarie) le necessità economiche dei titolari delle strutture sanitarie convenzionate con il Servizio sanitario nazionale che lamentavano i ritardi nei pagamenti da parte dell'ASL NA 1 Centro ed il più celere superamento dei tetti di spesa prefissati, oltre i quali è impossibile erogare servizi in regime di convenzione, determinando di fatto il prevalerle degli interessi del privato convenzionato porticese, rispetto all'esigenza di garantire un servizio sanitario universale e pubblico –:
   se non si ritenga doveroso, con ogni consentita urgenza, assumere le iniziative di competenza per verificare lo stato di assistenza, emergenza ed urgenza fornito al cittadino nelle tre ASL della provincia di Napoli e verificare la legittimità di tutti gli atti che sono stati posti formalmente in essere dal commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi e tendenti, secondo le motivazioni e le documentazioni a rientrare economicamente sugli sprechi, senza valutare l'incidenza in termini di forti rischi che si provoca sui territori;
   se si intenda verificare la correttezza dei citati provvedimenti che all'interrogante paiono viziati per violazione dell'articolo 97 della Costituzione e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 aprile 2010, difetto assoluto di istruttoria tecnica e di motivazione ed eccesso di potere per illogicità dell'azione amministrativa, perché l'indagine tecnica doveva in particolar modo prendere in considerazione la tipologia, il grado di efficienza e la natura delle prestazioni rese dalle strutture sanitarie pubbliche esistenti sul territorio del comune di Portici, il loro costo, la loro efficienza ed efficacia, il numero, la prossimità e le caratteristiche delle strutture ambulatoriali e territoriali pubbliche esistenti in ciascuna ASL (di provenienza e di trasferimento), la dislocazione e le caratteristiche dei presidi ospedalieri esistenti, il numero e le caratteristiche delle strutture sanitarie convenzionate esistenti nelle ASL di nuova assegnazione, il costo delle stesse e l'incremento del tetto di spesa discendente dall'assegnazione del comune di Portici al nuovo ente. (4-00355)

SVILUPPO ECONOMICO

Interrogazione a risposta in Commissione:


   PILI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   si è perso un anno e mezzo senza dare al futuro di Alcoa, e quindi del Sulcis, un solo minimo spiraglio concreto di soluzione;
   la «pseudo strategia» del Governo Monti è risultata un fallimento su tutta la linea come l'interrogante aveva più volte denunciato;
   le notizie che giungono dalla Francia, omesse da tutti, e che il Ministero dello sviluppo economico, a quanto consta all'interrogante, non ha reso note pur conoscendole, sono la conferma che nessun operatore serio del settore potrà mai impegnarsi nella ripresa produttiva se non ci sarà la soluzione del costo dell'energia;
   aver perso 480 giorni inseguendo «pseudo acquirenti» senza aver dato una minima certezza strutturale alla questione primaria dell'energia ha di fatto dimezzato i fondi destinati agli ammortizzatori sociali;
   restano solo sei mesi di copertura e poi per il Sulcis e i lavoratori dell'Alcoa sarà il tracollo;
   è impensabile che tutto questo passi con un silenzio complice di molti che rischia di far degenerare ancor di più la situazione economico-sociale del Sulcis. Occorrono decisioni immediate senza ulteriori perdite di tempo;
   è a giudizio dell'interrogante disonesto nascondere la realtà dei fatti e non prendere atto di quanto sta accadendo intorno alla compravendita dello stabilimento Alcoa di Portovesme;
   si stanno esaurendo tutti i fondi della cassa integrazione senza che niente di serio si intraveda all'orizzonte;
   tutti fanno finta di non sapere, mentre tutti sanno, che il caso francese con il processo fallimentare avviato per l'ultima compravendita di Klesch rende di fatto impossibile affidare la fabbrica del Sulcis ad un acquirente con tale precedente e in tale situazione;
   il caso francese è ufficialmente a conoscenza del Governo italiano pro tempore che ha fatto finta di niente pur di non dichiarare il fallimento della sua politica industriale;
   quella francese è una situazione analoga a quella dell'Alcoa;
   il compratore è lo stesso del caso francese, tale Klesch. Il quale ha chiesto 100 milioni di euro per «comprare» la fabbrica francese, ne chiederebbe altrettanti per Alcoa, salvo poi portare nemmeno un anno dopo i libri in tribunale e chiedere danni al vecchio proprietario per 310 milioni di euro;
   il tribunale commerciale di Lione ha, infatti, accolto la domanda di amministrazione controllata presentata il 27 marzo da KEM One, la società del gruppo svizzero Klesch che concentra le attività viniliche rilevate l'anno scorso da Arkema e che comprende sette impianti francesi della filiera del clorosoda e PVC, che occupano circa 1.300 lavoratori;
   la situazione attuale, secondo i venditori, è il frutto di un atto unilaterale del nuovo proprietario (Klesch), che non ha messo in atto i finanziamenti e le garanzie previste. Arkema (il venditore) ritiene gravi e false le accuse di Klesch e conferma infatti che l'acquirente, durante i negoziati, ha avuto accesso in piena trasparenza a tutte le informazioni necessarie per valutare la situazione finanziaria e le prospettive delle attività oggetto della transazione, come avviene di solito in questo tipo di operazioni, avendo condotto in profondità le analisi di due diligence. Insomma un caso analogo a quello di Alcoa con le stesse procedure e gli stessi personaggi;
   sarebbe opportuno che il Governo fornisse immediatamente alla Camera ogni elemento utile su questi fatti e sulla situazione relativa allo stabilimento di Portovesme;
   è indispensabile, come più volte sostenuto, un contratto bilaterale per 15 anni per fornire energia elettrica alla pari degli analoghi impianti europei e non solo;
   è indispensabile che cessino quelle che all'interrogante appaiono le complicità e le coperture verso l'Enel e si affronti una volta per tutte tale dirimente questione –:
   se non ritenga il Ministro di dover fornire urgenti chiarimenti sulla vicenda Alcoa e quali sia lo stadio della trattativa con il gruppo Klesch;
   se non ritenga di dover modificare radicalmente la fallimentare strategia sin qui perseguita dal precedente Governo che ha di fatto cercato di cambiare insegna alla fabbrica senza affrontare e risolvere radicalmente la questione fondamentale e dirimente dell'energia e del suo costo;
   se non ritenga di dover chiarire l'ammontare esatto delle risorse disponibili per gli ammortizzatori sociali e i tempi che risultano coperti da tale disponibilità;
   se non ritenga di dover con urgenza definire una strategia energetica tale da garantire alle industrie energivore del Sulcis un costo dell'energia elettrica, per un periodo minimo di 15 anni, pari a quello della media europea;
   se non ritenga di dover favorire, con tutti gli strumenti a disposizione, la stipula preventiva di un accordo bilaterale per 15 anni con il principale operatore elettrico della Sardegna, al fine di eliminare un divario di costi decisamente insostenibile sul piano infrastrutturale, economico e finanziario. (5-00092)

Interrogazioni a risposta scritta:


   FAUTTILLI. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   l'Ilva di Patrica, unità produttiva che dispone di una linea di zincatura a caldo-alluminiatura unitamente a due linee di finitura e taglio, ha comunicato di aver fatto richiesta di cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività con successiva apertura della procedura di mobilità in conformità alla legge n. 223, mettendo a rischio 80 posti di lavoro, già in cassa integrazione guadagni fino al 25 maggio 2013;
   lo stabilimento, nei mesi scorsi, era stato ridimensionato a sito per la lavorazione della carpenteria a disposizione dello stabilimento di Taranto;
   in data 2 agosto 2012 il Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico, in risposta ad un'interrogazione presentata dall'onorevole Anna Teresa Formisano, aveva assicurato che l'allora imminente applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria fosse «coerente con la finalità di preservare il sito di Patrica nella sua integrità produttiva e organizzativa all'interno degli assetti dell'Ilva»;
   nel settembre 2012, dopo incontri e scioperi ad oltranza con blocco dei cancelli, veniva prospettata una soluzione per il mantenimento del sito di Patrica, durante la convocazione del Coordinamento nazionale del gruppo Ilva spa;
   nel novembre 2012 con una convocazione presso Confindustria si è ratificato un ulteriore periodo di cassa integrazione guadagni ordinaria con annessa presentazione del nuovo piano industriale per l'Ilva di Patrica unitamente alla definizione della nuova mission produttiva dello stesso sito;
   il 26 novembre 2012 è avvenuto il sequestro del prodotto finito e semilavorato del sito di Taranto da parte della magistratura che di fatto ha comportato il blocco del piano di riconversione in attesa dell'approvazione del decreto Salva-Ilva;
   nell'aprile 2013 si è pronunciata la Consulta sul «Decreto Salva Ilva» che ha di fatto confermato la possibilità dell'Ilva di procedere a pieno regime;
   le attuali intenzioni della proprietà, inquadrate in un più generale contesto di industrie in crisi o in situazioni irreversibili, alimenterebbero una situazione di disagio sociale enorme con inevitabili ricadute su un vasto territorio –:
   quali iniziative intendano intraprendere per riavviare il progetto di salvaguardia delle attività produttive dell'Ilva di Patrica e, soprattutto, per il mantenimento dei livelli occupazionali. (4-00335)


   FERRARESI, DELL'ORCO, DE LORENZIS, GRILLO, MUCCI, SPADONI, PAOLO BERNINI, SARTI, RIZZO, LOREFICE e DALL'OSSO. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   il gruppo Berco spa opera nel settore metalmeccanico specializzato nella fabbricazione di componenti e sistemi sottocarro per macchine per il movimento terra cingolate e attrezzature per la revisione e la manutenzione del sottocarro. È inoltre produttore di macchine utensili per la ricondizionatura dei motori a combustione interna;
   il gruppo Berco dal 1999 è di proprietà di ThyssenKrupp, ed opera sul territorio nazionale, con quattro stabilimenti, a Imola, Castelfranco, Busano e, il maggiore, a Copparo (Ferrara), per un totale di 2.630 lavoratori, di cui 2.000 nel sito ferrarese;
   attualmente il gruppo Berco sta utilizzando il terzo anno di Cassa integrazione guadagni straordinaria per alta e complessa ristrutturazione a fronte di un piano industriale discusso fra le parti ad aprile 2010;
   il 30 aprile del 2013, è scaduto il piano industriale per ristrutturazione e con esso anche l'utilizzo dell'attuale ammortizzatore sociale (CIGS);
   ThyssenKrupp da giugno 2012 ha avviato la vendita del gruppo Berco, ma ad oggi non si hanno notizie in merito allo stato della vendita;
   il gruppo Berco sta perdendo significative quote di mercato, ciò è anche determinato dalle incertezze relative agli assetti proprietari;
   l'azienda Berco, nonostante gli impegni presi nel 2010 con la presentazione del piano industriale triennale, non ha attuato strategie adeguate ad aumentare i volumi produttivi così come in esso individuati e, al momento attuale non fa fronte neppure al perdurante calo degli stessi (il budget della produzione 2013 è a 158.00 tonnellate, ossia meno 15 per cento rispetto 2012);
   in corso di attuazione del piano industriale il personale è già stato ridotto di circa 470 unità di cui 270 a Copparo;
   l'amministratore delegato Lucia Morselli e il vice presidente Franco Tatò (nuovi vertici dell'azienda) negli incontri in ambito sindacale ed istituzionale anziché presentare un piano industriale per il rilancio produttivo degli stabilimenti del gruppo, hanno comunicato un ulteriore programma di ristrutturazione che prevede 611 esuberi, la chiusura dello stabilimento di Busano Canavese (Torino), l'esternalizzazione di attività e la cancellazione degli attuali accordi aziendali;
   pertanto in data 19 aprile 2013 la dirigenza ha comunicato alle organizzazioni sindacali l'avvio formale della procedura di mobilità per 611 lavoratori del gruppo, di cui la maggior parte nello stabilimento di Copparo di Ferrara;
   l'assenza di un piano industriale base indispensabile per il confronto fra le parti, evidenzia che i licenziamenti sono funzionali esclusivamente alla riduzione dei costi fissi, al fine di rendere maggiormente appetibile sul mercato la vendita dell'azienda;
   nella provincia di Ferrara è in atto un pesante processo di deindustrializzazione che ha visto nell'ultimo quinquennio la cessazione di importanti aziende metalmeccaniche quali Oerlickon, Alcoa, Bbs, Metallurgica Lux, Decotrain, Tmqs, Barbi ed altre sono in crisi: Ferrara Promozioni Industriali, Tecopress, Tfc Galileo, Lamborghini Calor; mentre aziende chimiche quali Basell hanno deciso di tagliare 105 posti di lavoro al centro ricerche Giulio Natta;
   la recente cosiddetta riforma Fornero, aumentando l'età e gli anni contributivi per il diritto alla pensione, ha ulteriormente peggiorato la situazione dei lavoratori/trici delle aziende cessate e/o in crisi, lasciando senza stipendio e pensione decine di migliaia lavoratori, oggi definiti esodati;
   le organizzazioni sindacali hanno richiesto una disponibilità al confronto che parta dalla discussione di un piano industriale serio, finalizzato al recupero delle quote di mercato perse, all'aumento dei volumi produttivi e all'attivazione di ammortizzatori sociali a medio termine a partire dai contratti di solidarietà, invece dei licenziamenti;
   in data 8 e 23 aprile 2013 sono state effettuate due giornate di sciopero a sostegno della vertenza, con presidi davanti alla sede di Copparo e davanti al comune, scioperi e manifestazioni a cui hanno aderito la totalità dei dipendenti;
   la comunicazione dell'avvio della procedura di mobilità ha ulteriormente accentuato una già gravissima tensione sociale;
   l'azienda non ha partecipato al previsto incontro del 17 aprile 2013 presso il Ministero dello sviluppo economico –:
   cosa i Ministri interrogati intendano fare affinché:
    a) non venga dato corso alla procedura di mobilità;
    b) sia fatta chiarezza sui futuri assetti proprietari del gruppo Berco;
    c) la vendita del gruppo Berco sia un'opportunità per lo sviluppo delle attività produttive e dell'occupazione ed avvenga nel rispetto del protocollo definito a tal proposito all'interno del sistema di relazioni industriali di ThyssenKrupp, (Best Owner, Fair Owner, Comitato di accompagnamento);
    d) sia sviluppato un serio piano industriale in grado di recuperare le quote di mercato perse e aumentare i volumi produttivi a partire dallo stabilimento di Copparo;
    e) siano salvaguardati gli attuali livelli occupazionali attraverso l'utilizzo di ammortizzatori sociali a partire dai contratti di solidarietà. (4-00341)


   PAGLIA. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   la società Berco spa, con i suoi oltre 3.000 lavoratori occupati sul territorio nazionale, un fatturato nel 2011 di 530 milioni di euro, esportazioni in 84 paesi del 90 per cento della produzione, può ben dirsi un campione dell'economia manifatturiera italiana, nonostante la perdurante crisi del settore macchine per il movimento terra;  
   dal 1999 la società è parte del gruppo Thyssen-Krupp, che da agosto 2011 ha annunciato di volersi concentrare a livello globale su attività produttive diverse da quelle in capo a Berco spa, che di conseguenza risulta ufficialmente in vendita da agosto 2012;
   da marzo 2013 Berco spa ha un nuovo amministratore delegato, nella persona di Lucia Morselli, ma non è stato chiarito quale sia il mandato ricevuto dalla proprietà a seguito del cambio di management. In un comunicato inviato ai sindacati redatto dalla sede centrale della Thyssen-Krupp si riferisce che la «Berco deve affrontare condizioni di mercato congiunturali negative ma negli ultimi anni ha anche perso competitività ed ha partecipato in modo insufficiente alla crescita nei mercati strategici. È necessario quindi un nuovo inizio». Il Consiglio di amministrazione Berco ha deliberato «di avviare un programma di ristrutturazione per rendere la società profittevole e con nuove prospettive di sviluppo»;
   è dal 2010 che Berco sta assottigliando la propria forza lavoro. In tre anni sono stati 470 i lavoratori che con incentivi e prepensionamenti hanno lasciato l'azienda; il 30 aprile è scaduta, invece, la cassa integrazione a zero ore per altri 611 lavoratori che da giovedì 2 maggio 2013 sono privi di ammortizzatori sociali;
   considerata la situazione nella quale si trovano i lavoratori, il sospetto è che l'eventuale cessione di Berco spa non sia finalizzata al rilancio produttivo, ma al ridimensionamento. Parrebbe che per aprire una trattativa seria di cessione dell'azienda a degli investitori stranieri che sarebbero interessati servono altri tagli, e cioè proprio gli oltre 600 lavoratori con la prospettiva della mobilità;
   la procedura di mobilità è stata annunciata unilateralmente dalla proprietà, senza il coinvolgimento di sindacati e istituzioni dello Stato, aggravando un quadro di relazioni già deteriorato dalla mancata presentazione di un piano industriale –:
   quali iniziative di competenza il Governo intenda adottare a tutela della continuità produttiva dell'azienda e, in particolare, se non ritenga troppo significativa la partita della cessione per non assumere un ruolo attivo e forte per indirizzarla positivamente a tutela dell'interesse nazionale;
   come il Governo intenda muoversi a garanzia dei livelli occupazionali e della continuità di reddito dei lavoratori minacciati dalla scadenza della cassa integrazione guadagni;
   quali iniziative il Governo abbia intrapreso e intenda intraprendere per sviluppare con la multinazionale Thyssen-Krupp relazioni adeguate al livello di presenza dell'azienda sul territorio italiano, che nel 2011-2012 risultava essere la decima area globale per attività del gruppo.
(4-00361)

Apposizione di firme ad una mozione.

  La mozione Carrescia e altri n. 1-00023, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 29 aprile 2013, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Valiante, Mazzoli.

Apposizione di firme ad interrogazioni.

  L'interrogazione a risposta scritta Di Lello n. 4-00123, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 2 aprile 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Valiante.

  L’ interrogazione a risposta scritta Antezza e altri n. 4-00313, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 29 aprile 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Valiante.

Pubblicazione di un testo riformulato.

  Si pubblica il testo riformulato dell'interrogazione a risposta scritta Ventricelli n. 4-00279, già pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta n. 10 del 29 aprile 2013.

   VENTRICELLI, CASSANO, DECARO, GINEFRA, GRASSI, ORFINI e PISICCHIO. — Al Ministro per i beni e le attività culturali, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. — Per sapere – premesso che:
   nel 1999 nella città di Altamura, in provincia di Bari, durante alcuni scavi in una cava abbandonata in località Pontrelli, sono state rinvenute oltre ventimila impronte di dinosauro. La cava insiste su una roccia calcarea, indicata nel linguaggio geologico «Calcare di Altamura», su circa 12.000 metri quadrati sono impresse su un'unica superficie di strato, migliaia di impronte. Le numerose forme presenti suggeriscono un indice di diversità biologica piuttosto elevato e, inoltre, le dimensioni più piccole rispetto a quelle finora conosciute, rendono il sito di Altamura unico nel suo genere;
   l'unicità di questo ritrovamento ha reso la zona il sito paleontologico più ricco e importante d'Europa – che probabilmente non ha altri eguali nel resto del Pianeta –, vista anche l'elevatissima biodiversità rilevata che caratterizzava gli individui presenti contemporaneamente nello stesso luogo;
   le impronte repertate risalgono al cretacico superiore, tra i 70 e gli 80 milioni di anni fa, quando il clima in Puglia era di tipo tropicale (caldo umido), e testimoniano la presenza di oltre duecento animali appartenenti almeno a cinque gruppi diversi di dinosauri, erbivori e anche carnivori;
   a proposito di tali ritrovamenti, gli studiosi parlano di una scoperta di importanza mondiale: le orme sono organizzate in vere e proprie piste, e sono così ben conservate da fornire informazioni sull'apparato motorio-scheletrico, la postura e l'andatura degli animali. Sono arrivate fino ai giorni nostri, probabilmente, per la presenza, nel terreno paludoso, di tappeti di alghe che ne hanno permesso la cementazione. Dalla lettura delle impronte, e soprattutto dall'analisi delle piste, si evincerebbe che si trattava di una tranquilla zona di pascolo per grandi erbivori;
   una volta fatta tale scoperta, c’è stato un grande interesse per l'intera zona: nei primi 2 anni sono arrivati ad Altamura migliaia di visitatori ma poi, lentamente, i proprietari della cava hanno deciso di chiudere l'ingresso al pubblico per mancanza di servizi e dotazioni di sicurezza. Tale decisione ha comportato una grave perdita: sia per tutti coloro che avrebbero voluto visitare il sito e non hanno potuto farlo, sia per lo stato di conservazione delle impronte, che continuano a degradarsi a causa degli agenti atmosferici ostili;
   la situazione, però, è resa ancora più complicata da ulteriori circostanze: il terreno della cava è di proprietà privata e non si è ancora riuscito a trovare un accordo definitivo e soddisfacente con le istituzioni pubbliche. L'intera area copre 175 mila metri quadri, e la superficie in cui le impronte sono state rilevate è di 17 mila metri quadri;
   uno degli ostacoli maggiori è dettato dalla difficoltà di riuscire a quantificare il valore del sito; la stessa società che ne detiene la proprietà, alcuni anni fa ha proposto una perequazione urbanistica con il comune di Altamura di 8 milioni di euro, per trasformare un terreno della società da agricolo a edificabile con fabbricati che abbiano una cubatura equivalente a un valore di 8 milioni di euro. Il comune non ha accettato, ma non è ancora stata trovata la giusta formula per salvaguardare il sito di Cava Pontrelli;
   dal 1999 ad oggi, l'interesse di molti cittadini verso il sito è confluito verso l'imprescindibile esigenza di dare un apporto diretto per difendere l'importante area paleontologica, il «Movimento Culturale Spiragli» che nella loro continua battaglia per la tutela di Cava Pontrelli, sono promotori dell'importanza di effettuare prima possibile un'ulteriore e accurata ricognizione dello stato dei luoghi, e dell'assoluta urgenza di tutelare e salvaguardare la paleo-superficie. In tal senso, per tramite del paleontologo Marco Petruzzelli, sono recentemente riusciti ad ottenere la disponibilità di scienziati di Manchester, Barcellona, Kracovia, Varsavia, e americani del Roky Mountain Museum e Black Hills Museum, interessati ad occuparsi;
   anche le istituzioni hanno inoltre sempre confermato il loro interesse alla risoluzione del problema, che ha avuto, in primis, come ostacolo principale la questione relativa alla proprietà nelle mani di una società privata;
   nel novembre del 2000, la paleo-superficie su cui insistono le migliaia di orme fossili di dinosauro è stata sottoposta a vincolo diretto (paleontologico) ed è stata acquisita, da tempo, al patrimonio pubblico in quanto il direttore del Ministero per i beni culturali, il 7 dicembre 2000, ha dichiarato che: «le impronte di dinosauro... appartenenti allo Stato» disponendo, in questo modo, l'inserimento di tali beni nell'elenco dei beni demaniali;
   dopo tale intervento rimane di proprietà privata la sola cava, ossia la pietraia circostante. Fino a questo momento, però, nessun ente preposto (Ministero, soprintendenza, amministrazione comunale e tutti gli altri enti locali) ha pensato di far valere una normale servitù di passaggio per l'accesso alla paleo-superficie, ossia a quello che è già patrimonio pubblico, un bene demaniale;
   dopo numerosi tentativi di accordo tra le istituzioni pubbliche e la proprietà, falliti negli scorsi anni, nel 2011 è stata avviata la pratica del Ministero per i beni e le attività culturali per l'esproprio. La soprintendenza per i beni archeologici della Puglia ha terminato la fase istruttoria per la stima del bene, e attualmente si attende che il Ministero decida, anche in base ai fondi disponibili, se procedere all'esproprio;
   gli ostacoli maggiori, tra i tanti, che hanno fino a questo momento impedito che Cava Pontrelli passasse da una proprietà privata a quella pubblica, sono stati determinati dalla difficoltà di ottenere la valutazione del bene, che non può essere fatta da un privato, ma deve essere determinata da un soggetto pubblico, come per l'appunto il Ministero per i beni e le attività culturali;
   ottenuto l'esproprio da parte dello Stato, poi, sarà necessario decidere se Cava Pontrelli sarà gestita da un ente statale o se verrà concessa una delega al comune di Altamura perché l'area possa essere amministrata e gestita direttamente dalla città murgiana; nel momento in cui sarà determinato il trasferimento di proprietà allo Stato e il bene diverrà pubblico, sarà possibile presentare progetti e valorizzare al meglio l'area archeologica, anche accedendo ai finanziamenti europei per la cultura –:
   se i Ministri interrogati non ritengano necessario intervenire, per quanto di competenza, affinché venga finalmente chiarita l'annosa vicenda che riguarda Cava Pontrelli in merito alle urgenti questioni:
    a) che attualmente impediscono la giusta valorizzazione della preziosa area archeologica;
    b) che mettono a rischio l'intera area, poiché in questi 14 anni di attesa e incertezze le 500 orme di dinosauro rimaste a cielo aperto sono state inesorabilmente rovinate dalla pioggia e dal vento, portando ad una perdita di un patrimonio di inestimabile valore;
    c) che hanno impedito la giusta valorizzazione di un'area che potrebbe portare alla città di Altamura e a tutti i paesi limitrofi importanti introiti legati ad un imponente flusso turistico;
    d) che necessitano di un'accurata e ulteriore ricognizione dello stato dei luoghi per mettere a punto un imprescindibile piano di conservazione degli stessi;
    e) che abbiano tra gli obiettivi principali la tutela e la salvaguardia della paleo-superficie, stanziando fondi per il recupero e la protezione delle orme danneggiate e, parallelamente, per uno studio specifico delle orme stesse, coinvolgendo a questo proposito il mondo scientifico. (4-00279)