Doc. XXII, n. 17




RELAZIONE

Onorevoli Colleghi! - La decisione del Governo di promuovere una banca per il sud ha provocato reazioni diverse tra chi ritiene utile per le politiche di sviluppo territoriale un istituto bancario al servizio di un territorio circoscritto, chi, invece, giudica la proposta un espediente propagandistico e chi si dichiara contrario a qualsiasi intervento pubblico nell'economia, ritenendo sufficiente la capacità del mercato, liberato da vincoli e da costrizioni, di risolvere i problemi dell'arretratezza. La proposta, nella formulazione iniziale, non affronta la complessa problematica del credito nelle regioni meridionali, premessa indispensabile per stabilire a quale domanda di credito dovrà dare risposta il nascente istituto.
Il primo e più urgente problema riguarda il maggiore costo del denaro nel Mezzogiorno, 1,7 per cento in più rispetto al centro-nord nel primo trimestre del 2009, dato che conferma l'andamento storico di tassi non omogenei nella realtà economica duale del Paese, non corretto dalla lieve flessione del differenziale registrata nel 2008. Gli intermediari finanziari hanno sempre sostenuto che l'anomalia è dovuta al maggiore rischio dell'attività nelle economie deboli, prescindendo dalla considerazione che il merito del credito va riferito non a un parametro oggettivo, quale la salute dell'economia nei territori, bensì a valutazioni soggettive che investono la persona del debitore, e in particolare la sua storia di imprenditore, le garanzie che si offrono e la puntualità nell'adempimento del contratto; né è razionale l'altra tesi che il cliente «buono» soccorre quello in difficoltà, logica questa che, invece, guida giustamente la nascita dei consorzi di garanzia collettiva dei fidi. La banca del sud difficilmente potrà calmierare il costo del denaro, supplire, cioè, alle deficienze del sistema locale delle banche minori: per la soluzione del problema, l'esperienza suggerisce lo strumento legislativo che imponga di praticare lo stesso tasso a parità di condizioni di solvibilità del cliente e indipendentemente dal luogo dove questi esercita l'attività imprenditoriale. Il Mezzogiorno presenta, per il settore del credito, una maggiore tenuta pur nelle difficoltà generali del momento, significativamente documentata da una crescita di insolvenze delle aziende meridionali più contenuta e da un aumento degli incagli percentualmente inferiore (38 per cento sud, 57 per cento centro-nord).
Se il credito erogato nel Mezzogiorno ha un costo maggiore, non sempre giustificato da un esponenziale pericolo di dover affrontare le procedure incerte e lunghe del suo recupero coattivo, la conseguenza si riflette sui costi di produzione già gravati da una serie di economie esterne, quali la posizione geografica decentrata che fa lievitare i costi di trasporto, le insufficienti infrastrutture materiali e immateriali, la lentezza decisionale delle procedure autorizzative, il controllo del territorio da parte delle organizzazioni delinquenziali, l'inesistenza di una diffusa cultura di impresa e la lontananza dei grandi mercati di consumo. Questo quadro sollecita la riflessione su molti interrogativi, sui quali bisognerà soffermarsi prima di far nascere una nuova banca con forte caratterizzazione locale, che si riassumono di seguito: una banca per il sud è necessaria per dare le risposte rimaste inevase dal sistema oppure per completare l'offerta di credito ovvero per intervenire nel capitale di rischio? In una parola, quale modello di banca, assente nel panorama del credito nel sud, può contribuire al suo sviluppo?
Serve una banca di credito ordinario che faccia raccolta e affidamenti, oppure è necessario un istituto che intervenga nel capitale di rischio per operare ricapitalizzazioni delle imprese o il salvataggio per quelle in difficoltà?
L'erogazione del credito al consumo non ha incontrato nel passato particolari difficoltà: tra il 2008 e il 2009 ha dato buoni risultati, superiori a ogni aspettativa, mentre ha rallentato, invece, il credito alle imprese, in particolare per quelle con meno di venti addetti. Si può ritenere che il sistema del credito nel suo complesso si è comportato come una qualsiasi azienda: ha investito dove era più conveniente, cercando di limitare il rischio e di massimizzare i profitti, contraendo drasticamente gli affidamenti e concentrando gli sforzi nella raccolta per impieghi più sicuri e convenienti.
In generale la domanda di credito nel Mezzogiorno è finalizzata al credito di esercizio, al medio-lungo credito per investimenti in conto capitale da destinare a nuove iniziative produttive, ad ampliamenti dei beni immobili strumentali, ad acquisti di macchinari di ultima generazione e al marketing. Un elemento di debolezza è rappresentato dalla bassa patrimonializzazione delle imprese che, in molti casi, dissuade le banche dal fornire i capitali finanziari richiesti.
La mancanza di merchant bank nell'area ha aggravato il fenomeno, eppure la presenza di operatori d'affari che intervengano nella gestione apportando capitali di rischio e successivamente immettendo nel mercato l'azienda risanata potrebbe contribuire a superare le difficoltà di molte imprese.
La richiesta di credito fondata sugli investimenti creativi non ha avuto successo anche se per i giovani potrebbe essere un'opportunità capace di incentivare lo spirito di iniziativa e l'intuizione innovativa.
L'esperienza della normativa sull'imprenditoria giovanile non ha dato l'esito sperato anche per responsabilità di Sviluppo Italia Spa prima e dell'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa Spa poi, che si sono dimostrate del tutto inadeguate a guidare processi di nascita di nuove imprese. Lo sviluppo del sud, non ancora realizzato, comporta l'individuazione di iniziative capaci di incidere in profondità nella società meridionale e pertanto la conoscenza delle potenzialità esistenti è essenziale per destinare le risorse finanziarie a progetti affidabili e garantiti. L'attuale offerta di credito soddisfa la domanda che esprime la società meridionale oppure vi sono richieste inevase? L'interrogativo, più correttamente, dovrebbe essere formulato in questi termini: dopo le trasformazioni degli anni novanta, il nuovo assetto proprietario e organizzativo, nonché il management di ultima generazione del sistema bancario operante nel Mezzogiorno assolvono alla funzione di motore dello sviluppo?
Dopo gli anni novanta, per via delle acquisizioni, vi è stata una maggiore presenza delle grandi banche del Paese nell'economia meridionale, che però non si è trasformata in un'automatica espansione del credito né, a seguito della liberalizzazione, in un aumento proporzionale degli sportelli nel Mezzogiorno. Specularmente, gli impieghi di risorse nell'economia hanno avuto lo stesso andamento di forte rallentamento a fronte dei depositi delle famiglie rimasti stabili e i riflessi sull'economia, logicamente, sono stati negativi, aggravati dalla diminuzione dei trasferimenti pubblici, pur in presenza di un miglioramento del trend storico delle sofferenze e degli incagli.
Un pregevole studio del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL) sull'«Evoluzione del sistema bancario meridionale» del 2004 sostiene che «l'evidenza empirica disponibile mostra che le grandi banche con sede legale nel Mezzogiorno hanno fortemente ridotto la loro operatività nelle tradizionali zone di insediamento». Il dato assume maggiore rilievo se confrontato alle «banche con sede legale nel centro-nord che, avendo incorporato negli anni scorsi banche meridionali o avendo aperto nell'area un elevato numero di sportelli, hanno conquistato una forte quota nel mercato locale del credito». Lo studio continua così: «malgrado le elevate sofferenze nel Mezzogiorno, queste banche con sede legale nel centro-nord hanno aumentato i loro impieghi a favore delle imprese meridionali in misura analoga a quanto fatto nel resto del Paese. Perciò, diversamente da quanto viene spesso sostenuto, esse non hanno operato un drenaggio di risorse a danno del Mezzogiorno, ma hanno impiegato in modo aggressivo nell'economia locale un ammontare di fondi grosso modo equivalente a quello raccolto nel Mezzogiorno; in genere tali banche hanno inoltre praticato tassi di interesse attivi più alti rispetto a quelli delle loro concorrenti meridionali. Queste ultime banche hanno, viceversa, assunto comportamenti molto conservativi tanto che la minore crescita degli impieghi, registrata nelle regioni meridionali, è sostanzialmente imputabile alle banche con sede legale nel Mezzogiorno. Le banche meridionali di più grandi dimensioni hanno fortemente ridotto l'offerta di servizi finanziari alle imprese, spostando risorse verso i titoli di Stato o altre attività a basso rischio e verso il credito alle famiglie consumatrici; inoltre esse hanno teso a praticare, in quasi tutte le classi dimensionali di credito, tassi di interesse inferiori rispetto alla media dell'area.
Le considerazioni svolte permettono di trarre una prima conclusione: le banche, specie se di grandi dimensioni, che hanno mantenuto la propria sede legale nel Mezzogiorno hanno reagito alla crisi di gran parte del sistema bancario mediante un forte aumento della loro avversione al rischio; al contrario i gruppi bancari o le banche del centro-nord, che sono penetrate nel mercato meridionale del credito mediante incorporazione di banche locali e/o il rafforzamento diretto della loro rete territoriale, hanno attuato nell'area una politica più espansiva degli impieghi. Pur con tutte le cautele imposte da una semplice inferenza empirica, ciò sembra suggerire che l'ampliamento per linee interne dei canali distributivi o l'incorporazione di un sottoinsieme delle banche meridionali da parte di gruppi bancari centro-settentrionali si sono tradotti in un apprezzabile sostegno allo sviluppo economico del Mezzogiorno e che, viceversa, le acquisizioni senza incorporazione di un'ampia quota delle restanti banche meridionali (soprattutto le più grandi) da parte di gruppi bancari centro-settentrionali ha favorito strategie di estrema cautela nelle politiche di impiego di tali banche e non ha così fornito un adeguato sostegno allo sviluppo economico del Mezzogiorno».
Se l'interpretazione del rapporto delle banche con il Mezzogiorno, elaborata dallo studio del CNEL, fosse, più che un'ipotesi di lavoro, una corretta analisi degli effetti prodotti dai processi di concentrazione verificatisi negli anni novanta, dovremmo chiederci se è utile al Mezzogiorno una banca per il sud.
Un istituto ordinario non rappresenta la novità di cui necessita un'area in ritardo di sviluppo poiché esiste già una rete più che sufficiente per le esigenze del territorio, ma è necessario immaginare strumenti innovativi. Le esperienze del passato di istituti erogatori di credito agevolato o di sezioni speciali di banche si sono esaurite senza aver inciso significativamente nell'economia delle regioni meridionali. Ripetere il percorso dell'Isveimer o della sezione di credito industriale del Banco di Napoli non è proponibile considerato che il credito assistito dal contributo pubblico per l'abbattimento degli interessi non ha incoraggiato lo spirito imprenditoriale, né ha colmato le diseconomie esterne del territorio.
Se si vuole potenziare l'erogazione del credito a breve e a medio-lungo termine non occorre fondare una nuova azienda, è sufficiente unificare in un contenitore i crediti regionali a medio termine, affidarli a una guida esperta e capace e dotarli di adeguati capitali; in tal modo si otterrebbe il risultato di rilanciare aziende obsolete, già presenti, però, nel territorio di riferimento e, di conseguenza, in grado di avere una buona conoscenza del tessuto imprenditoriale.
Il problema dell'inesistenza di capitale di rischio esterno all'azienda e pronto a correre in soccorso in caso di necessità, si risolve con le finanziarie regionali che attualmente danno l'impressione di non essere utilizzate convenientemente per la loro debolezza professionale e per il basso livello di capitalizzazione. Fondendo le attuali finanziarie in un unico istituto, con un capitale finanziario importante, sottoscritto dalle regioni, dal Tesoro, dalla Cassa depositi e prestiti Spa, dagli enti locali, dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e dai privati, si può dare vita a una moderna merchant bank.
L'iniziativa di fondare un istituto di credito nel Mezzogiorno non può prescindere da una riflessione sulle cause che hanno provocato l'acquisizione delle maggiori banche meridionali da parte delle grandi aziende del nord. Esisteva, senza dubbio, un fattore di debolezza comune a tutti gli istituti meridionali costituito dalla sottocapitalizzazione che rendeva più opprimente e limitativa delle possibilità di espansione l'esistenza delle sofferenze e degli incagli e non si può negare il ritardo nell'adeguamento organizzativo alle nuove tecnologie o l'incidenza poco rilevante dei profitti non derivanti dal servizio di intermediazione o, ancora, il peso del costo del personale. Erano comunque problemi risolvibili come hanno dimostrato le fasi successive e l'unico argomento che sembrava avere un fondamento, ossia la debolezza del mercato a garantire la capitalizzazione, a ben vedere non era consistente poiché la proprietà in mano pubblica avrebbe potuto garantire il reperimento dei capitali necessari. Meriterebbe, inoltre, un approfondimento il ruolo inattivo o negativo svolto dai ceti dirigenti del Mezzogiorno che hanno assistito, salvo qualche rara eccezione, alla spoliazione senza opporsi, immobilizzati dalle liti e dalle contrapposizioni e, in alcuni casi, soddisfatti della distruzione di grossi centri di potere economico diretti da amici del politico avversario. Quasi sempre le aziende pubbliche venivano utilizzate da chi le dirigeva anche in funzione di collettori di voti e nei momenti di scadimento dello spirito pubblico il fenomeno assumeva particolare rilevanza. Questo è il motivo della mancata reazione delle elìte meridionali ai processi di concentrazione della proprietà bancaria in capo ai conglomerati del nord.
I processi di acquisizione sono stati pilotati dalla Banca D'Italia che non ha mai chiarito quale ruolo abbia avuto, né a quale disegno si sia ispirata. Alla vigilia della realizzazione della moneta unica il sistema del credito italiano ha dovuto fronteggiare il problema di una patrimonializzazione inferiore rispetto alle banche concorrenti dei maggiori Paesi dell'Unione europea e probabilmente la Banca D'Italia ha facilitato la nascita dei grandi gruppi che ha comportato la fine del sistema bancario del sud. Un'altra ipotesi potrebbe essere la sfiducia della stessa Banca d'Italia nella capacità di rigenerazione dei management meridionali, troppo condizionati dai fattori ambientali, e la convinzione che l'unica via percorribile era il trasferimento della proprietà.
Suscita qualche perplessità l'opinione che il sistema del credito nel Mezzogiorno fosse giunto, negli anni novanta, al capolinea, per cui era necessario procedere al salvataggio con una linea d'azione radicale. Se questa diagnosi fosse corretta non si spiegherebbe l'andamento più che normale dei conti delle singole banche che hanno reso buoni utili agli acquirenti iniziali e che continuano a dare profitti agli attuali.
Il risultato, comunque, è inequivocabile: alla fine dei diversi passaggi proprietari delle azioni l'affare per le banche del nord è stato di grosse dimensioni, come si può constatare seguendo le vicende delle maggiori banche del Mezzogiorno.
Nel 1994 le tre maggiori banche meridionali occupavano circa il 50 per cento del mercato del credito nel territorio di riferimento nelle seguenti percentuali: Banco di Napoli 30 per cento, Banco di Sicilia 14 per cento e Banco di Sardegna 4 per cento. A questi dati vanno aggiunti quelli delle casse di risparmio e delle banche di credito cooperativo, molti significativi nei territori di influenza. La Cassa di risparmio di Calabria e Lucania arrivava a controllare il 40 per cento del credito calabrese e oltre il 25 per cento di quello lucano. Si evince chiaramente come il sottosistema bancario meridionale fosse egemone nelle regioni a sud di Roma e come, per la capillare organizzazione sportellare, potesse contare su un insediamento stabile difficilmente aggredibile.
Il Banco di Napoli manifestò le prime difficoltà nei conti del 1994 con una perdita dichiarata alla fine dell'anno di 592 milioni di lire, che innescò la crisi del gruppo dirigente con le dimissioni del consiglio di amministrazione. Il nuovo consiglio provvide a una più esatta valutazione del rischio, valutando in maniera meno approssimativa i crediti dubbi, e dalla verifica emerse la possibilità che gli affidamenti di difficile esigibilità coprissero l'intero capitale sociale.
Il Ministero del tesoro nel 1996 ricapitalizzò l'istituto immettendo nel capitale sociale 1.033 milioni di lire, ritenuti necessari per realizzare il disegno che si voleva perseguire, consistente:
1) nell'assumere il controllo della banca estromettendo il proprietario di maggioranza locale, la Fondazione Banco di Napoli, titolare del 70 per cento delle azioni;
2) nel trasferire i crediti dubbi a un'altra banca «spazzatura», denominata Sga, con garanzia dello Stato per le eventuali, sebbene certe, perdite, in applicazione del cosiddetto «decreto Sindona» (decreto del Ministro per il tesoro 27 settembre 1974, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 256 del 2 ottobre 1974);
3) nel procedere per ultimo alla privatizzazione con il metodo della gara pubblica.

L'asta, pertanto, offriva al mercato la più antica banca meridionale, autorizzata a emettere moneta nel passato, perlomeno fino allo scandalo della Banca Romana del 1895, di consolidato insediamento territoriale e con un'ampia rete di sportelli, per giunta depurata dalle probabili perdite di affidamenti mal riposti. Alla gara parteciparono il Mediocredito Centrale, di proprietà del Tesoro e il gruppo formato dall'INA per il 51 per cento e dalla BNL per il 49 per cento, all'epoca controllate entrambe dallo Stato. Il Ministero del tesoro si orientò per l'accoppiata INA-BNL, nonostante l'offerta di questo gruppo fosse inferiore e, in tal modo, nel 1997 il tandem «banca-assicurazione» acquistò per 32 milioni di lire il 60 per cento del Banco di Napoli. Alla vigilia dell'asta furono trasferite le partite di dubbia esigibilità e le partecipazioni esistenti nel portafoglio del Banco, valutate in 6.392,7 milioni di lire, sebbene le stesse fossero state valutate al lordo 8.695,6 milioni di lire.
Inoltre furono ceduti gli sportelli ubicati nel centro-nord e i crediti a medio-lungo termine e si procedette a una consistente riduzione del personale. La cura produsse effetti immediati e dal 1997, la Banca per eccellenza nell'immaginario collettivo riprese a distribuire utili. L'ipotesi di costruire un grande gruppo bancario-assicurativo s'infranse sugli scogli della privatizzazione della BNL e sul mancato controllo di quest'ultima da parte del primo gruppo assicurativo del Paese. Le opposizioni e le manovre dei concorrenti riuscirono a bloccare l'iniziativa, indebolita anche dalla visione non coincidente dei massimi dirigenti. Il San Paolo IMI disturbò il disegno e per ridimensionarlo tentò di acquistare un pacchetto di azioni significative dell'INA per poterla controllare; a quest'azione rispose la società Assicurazioni generali Spa lanciando un'offerta pubblica d'acquisto (OPA) sulla compagnia assicurativa nazionale. Come sempre avviene in questi casi, dalla guerra si passa all'esame dell'accordo possibile nella salvaguardia dei reciproci interessi e così fu decisa la spartizione dell'oggetto conteso. In base a tale accordo la società Assicurazioni generali Spa ebbe il via libera per l'OPA sull'INA e il San Paolo IMI acquistò la maggioranza delle azioni del Banco di Napoli per una somma di circa 300 milioni di lire, comprensiva della successiva OPA sul pacchetto di minoranza, imposta dalla Commissione nazionale per le società e la borsa. Successivamente, con decorrenza 1o gennaio 2003, la banca torinese incorporò per fusione il Banco di Napoli, stabilendo un con-cambio di un'azione per ogni sei della ex banca napoletana. Gli sportelli, portati in dotazione dal Banco, furono 580 localizzati in Campania, Puglia, Calabria e Basilicata.
Il Banco di Sicilia iniziò il percorso di perdita dell'autonomia alla vigilia degli anni novanta: una modesta direzione e scelte affrettate provocarono perdite consistenti del suo patrimonio che costrinsero il Ministero del tesoro, azionista di maggioranza, a rinnovare i vertici della banca. Il rinnovamento sembrò dare risultati positivi, emersi chiaramente nell'esercizio del 1996, frenati l'anno successivo da un evento non previsto: la crisi della Sicilcassa e la sua acquisizione da parte del Banco di Sicilia.
Il Banco di Sicilia, sottoposto al doppio impegno di risanare i propri conti, disegnando contemporaneamente un'organizzazione più moderna e rafforzando il patrimonio, e di assumersi il compito del rafforzamento della Sicilcassa, non riuscì a reggere. Le difficoltà spinsero il Tesoro a cedere al Mediocredito centrale due terzi delle azioni (pari al 40 per cento) in cambio di un apporto di capitale di 516,4 milioni di lire. Prima della cessione furono concessi i benefìci del decreto Sindona per 1.700 milioni di lire e per 516,4 milioni di lire al Fondo interbancario di tutela dei depositanti. Nello stesso periodo il Tesoro, in previsione della cessione del Mediocredito centrale alla Banca di Roma, divenuta Capitalia, trasferì la rimanente quota del 20 per cento allo stesso Mediocredito che arrivò, in tal modo, al controllo del 60 per cento del Banco di Sicilia.
Nel 1999 la Banca di Roma acquisì il Mediocredito centrale che a sua volta possedeva la proprietà del pacchetto di maggioranza della più importante banca siciliana, seconda del Mezzogiorno e titolare di un portafoglio importante che conteneva, tra l'altro, il controllo della Sicilcassa.
Significativa è la sorte delle tre casse di risparmio, Carical, Caripuglia e Carisalerno, finite nell'orbita della Cariplo e, alla fine del percorso, fonte di un affare colossale.
In particolare è indicativa la vicenda della Carical, la maggiore delle tre casse, investita da un intreccio di conflitti politici, insipienza di poteri elettivi, clientelismo sfacciato e incompetenze varie, che è bene ricordare. La Cassa di risparmio di Calabria e Lucania era stata protagonista di una crescita notevole che l'aveva posta, alla fine degli anni settanta, al sesto posto delle casse di risparmio e al ventiseiesimo posto delle oltre cinquecento banche italiane. L'istituto era legato alla Democrazia Cristiana al punto che ne appariva una diretta emanazione: la sua struttura burocratica, mobilitandosi, era in grado di eleggere parlamentari, amministratori e consiglieri regionali. Da questo rapporto stretto con la politica la banca trasse vantaggi, ottenendo l'abilitazione al credito fondiario e all'intermediazione dei fondi dell'intervento straordinario. Accanto a deprecabili forme di erogazione del credito e di assunzioni condizionate dalla contiguità politica, la direzione dell'azienda fu avveduta e tecnicamente capace, come dimostrò la trasformazione della banca da piccola a grande.
Il mancato decollo economico della Calabria, le nuove gestioni subentrate al management del primo dopoguerra, ben più spregiudicate, fecero emergere alcuni punti di grave debolezza dovuti ai mali comuni delle banche meridionali e ad alcune situazioni particolari di uso improprio del credito. Questa fase culminò con l'arresto dei membri del comitato di gestione che, alla luce dell'assoluzione successiva, si dimostrò eccessiva e ingiustificata. La presenza della politica, anche in questa occasione, ebbe un ruolo determinante: gli interventi della Banca d'Italia e della magistratura, infatti, furono sollecitati dalle denunce di gestione illegale fatte attraverso interrogazioni parlamentari, amplificate dalla stampa locale. La Banca d'Italia promosse un'ispezione, iniziata nel settembre 1986 e conclusa il 16 gennaio 1987, che diede le seguenti risultanze:
1) insufficiente patrimonializzazione;
2) concessione di crediti non sempre giustificati da istruttorie rigorose sul merito;
3) personale in eccesso;
4) organizzazione inadeguata;
5) basso livello di informatizzazione;
6) esistenza di crediti non trasferiti agli incagli e alle sofferenze.

L'istituto di vigilanza, preso atto della relazione degli ispettori, propose al Ministero del tesoro lo scioglimento degli organi che avvenne con decreto 28 marzo 1987, cui seguì la nomina dei commissari. Questi, nelle persone dei dottori Rosario Filosto e Domenico Viggiani e del professore Sabino Cassese, con delibera del giugno 1987, decisa dai primi due per l'assenza del terzo, stabilirono il valore del patrimonio netto rettificato al 31 dicembre 1986 «pari ad almeno 200,4 miliardi ed una redditività positiva, attesa per l'esercizio 1987, nell'ordine di circa 17 miliardi ed ugualmente per i successivi anni». La valutazione del patrimonio netto fu fatta da un gruppo tecnico costituito dalle casse di risparmio disponibili ad acquistare e dalla stessa Carical, assistiti dalla Banca d'Italia, che costituì la base della decisione dei commissari, esplicitata nella delibera del 1987 nei seguenti termini «considerato che l'applicazione dei criteri tecnici per la determinazione del valore aziendale esposti nel documento allegato porta a collocare detto valore, con riguardo alla situazione della Carical, entro un massimo di 243,5 miliardi, tenuto conto della valutazione analitica delle poste patrimoniali e dell'attualizzazione dei sovraredditi». Inoltre i commissari sostennero che le esigenze di patrimonializzazione della Cassa venivano determinate in 240 miliardi di lire. La prima parte della delibera svela l'esistenza di un disegno preordinato che i commissari dovevano solo eseguire. Non si spiegano diversamente alcune leggerezze della procedura quali il mancato coinvolgimento degli interessi originari, rappresentati da alcuni enti locali importanti e da cinque camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, unici titolari a disporre della proprietà dell'azienda. Il valore di mercato della Cassa, fatto dal gruppo tecnico, che di fatto rappresentava solo gli acquirenti, escluse dalla trattativa i titolari della proprietà. Normalmente chi vende conosce il valore del bene che sta per alienare e comunque non delega l'acquirente a farlo. E la patrimonializzazione fissata in 240 miliardi di lire in base a quale analisi è stata ricavata? Sono più di uno gli interrogativi senza risposta e, in particolare: per quale motivo non si è pensato di affidare a una grande banca di affari il valore della Carical e l'ammontare dell'aumento del capitale o di tentare la via del mercato attraverso la sua trasformazione in società per azioni? La risposta si ricava nel prosieguo della lettura della delibera citata, infatti nella parte narrativa si legge: «visto che un gruppo di casse di risparmio, nell'ambito di un'iniziativa promossa dall'ACRI, si è dichiarato disponibile ad acquisire quote di partecipazione per un ammontare massimo di 240 miliardi nella Cassa, con l'adozione delle forme organizzative previste dalle norme transitorie dello Statuto della Cassa medesima». Gli istituti disponibili a intervenire manifestarono la loro disponibilità con una lettera che, oltre a indicare l'investimento di ciascuno, precisava che il sovrapprezzo non sarebbe dovuto essere maggiore del valore nominale. Le banche disposte a intervenire furono:
1) Cassa di risparmio delle province lombarde per 80 miliardi di lire;
2) Cassa di risparmio di Torino per 80 miliardi di lire;
3) Istituto di credito delle casse di risparmio italiane per 60 miliardi di lire;
4) Cassa di risparmio di Puglia per 10 miliardi di lire;
5) Cassa di risparmio VE per le province siciliane per 10 miliardi di lire.

La delibera, pertanto, si concludeva con il dispositivo di cedere la metà delle quote della Carical per 240 miliardi di lire. La lettura delle norme transitorie dello statuto, ridisegnato dai commissari con due delibere dell'aprile e del maggio 1987, riserva una sorpresa che fa capire quale era il disegno di fondo del cosiddetto «salvataggio» della Carical. La clausola di salvaguardia per i nuovi soci fu una forzatura delle regole generali e consisteva nell'attribuire la maggioranza assoluta del consiglio di amministrazione, del comitato di gestione e del direttore generale alle banche intervenute, in modo da metterle in condizione di poter controllare ogni decisione, compreso l'aumento di capitale. La nomina, alla fine della gestione commissariale, degli organi ordinari, che reintrodusse nella gestione i rappresentanti degli interessi originari, non incise sull'architettura studiata dai partecipanti e attuata dagli amministratori straordinari, per cui non fu possibile sviluppare alcuna azione di difesa degli interessi locali. La maggioranza negli organi era blindata al punto che il presidente e il vice presidente, nominati dal Ministro del tesoro, erano in minoranza. L'anomalia creata ad arte sarà decisiva per i successivi passaggi che diedero a Cariplo la proprietà piena della banca calabro-lucana. Il secondo atto fu recitato nel 1992 con la trasformazione della Carical in società per azioni, in attuazione della legge n. 218 del 1990 («legge Amato») e del decreto legislativo n. 356 del 1990. Il piano per la trasformazione in società di capitale prevedeva un aumento di capitale per 80 miliardi di lire, recepito nel decreto del Ministro del tesoro che autorizzava il nuovo assetto societario. Come era nel disegno della maggioranza degli organismi, controllati dai partecipanti, l'aumento di capitale fu sottoscritto dalla Cariplo, che provvide nel 1994 ad acquistare le azioni della Cassa di risparmio di Torino e delle altre casse di risparmio minori con un esborso di 40 miliardi di lire e con lo scambio di partecipazioni. In tal modo la Cariplo divenne proprietaria della maggioranza delle azioni e, volendo disporre dell'intero pacchetto azionario, si adoperò ad acquistare il restante 37,5 per cento di proprietà della Fondazione Cassa di risparmio di Calabria e Lucania, usando la stessa tecnica per raggiungere l'obiettivo: si trasferirono a sofferenza una massa di crediti incagliati. L'emersione dei crediti dubbi richiedeva l'inserimento nel bilancio della società del relativo passivo, previsto nel bilancio del 1996 in 369.588.506.828 miliardi di lire, di conseguenza si rendeva necessaria la ricapitalizzazione per 380 miliardi di lire, che avrebbe dovuto decidere l'assemblea dei soci, prontamente convocata. La Fondazione, non avendo la disponibilità di fare fronte all'aumento in rapporto alle azioni possedute, accettò l'offerta di acquisto della Cariplo. Il 26 luglio 1997 si concluse la vicenda con l'acquisto da parte della Cariplo delle azioni della Fondazione per 132 miliardi di lire. Ottenuta dalla banca di Milano l'intera proprietà dell'ex Cassa di risparmio di Calabria e Lucania, non fu ritenuto necessario immettere capitale fresco nel patrimonio della Carical che, pertanto, non godette di nessuna ricapitalizzazione. Nello stesso periodo Cariplo acquisì le Casse di risparmio di Puglia e di Salerno, impiegando nella prima operazione 500 miliardi di lire di ingresso e due capitalizzazioni di 200 miliardi di lire nella prima e nella seconda 20 miliardi di lire. Le tre aziende furono raggruppate nella Carime Spa, ceduta successivamente alla Banca popolare commercio e industria Spa di Bergamo al prezzo di 2.300 miliardi di lire per il 75 per cento e con un'opzione di 700 miliardi di lire del rimanente 30 per cento da esercitare entro gli otto mesi successivi. A questo punto è facile stabilire il profitto dell'investimento, pari a circa 1.500 miliardi di lire, ai quali vanno aggiunti i vantaggi fiscali derivanti dalla vendita delle sofferenze a società partecipate e il conseguente recupero fiscale delle perdite.
In Cariplo negli anni novanta si confrontarono più linee sulla politica degli investimenti che si potrebbero riassumere nelle due alternative: ricerca di ottimizzare gli investimenti impiegandoli nelle aree di maggiore dinamismo economico oppure conciliazione tra massimizzazione degli utili e ruolo guida nel sistema delle casse di risparmio. Questa seconda anima di Cariplo aveva un autorevole esponente nel presidente Roberto Mazzotta, che concepì il disegno di un'egemonia proiettata in una rete che si sviluppasse su tutto il territorio nazionale. In quest'ottica s'inserì un progetto, mai decollato, nascosto nel silenzio dell'oblio, ovvero l'idea di dare vita a un grande gruppo bancario-esattoriale a sostegno dell'economia meridionale. Il progetto fu elaborato dal direttore generale della Carical, già alto dirigente dell'istituto lombardo, Francesco Trazzi, che propose un piano di rilancio della Cassa di risparmio calabro-lucana, controllata dalla Cariplo, consistente nella costituzione di una finanziaria di comando che detenesse nel suo portafoglio il controllo di una banca di credito ordinario originata dalla fusione delle tre casse di risparmio del Mezzogiorno peninsulare; da un nuovo istituto per il credito a medio termine e per investimenti nel capitale di rischio, accorpando i medio-crediti di Calabria, Basilicata e Puglia, e nella fondazione di una grande società esattoriale che assumesse la riscossione delle tasse e dei tributi da Reggio Calabria a Salerno e lungo la direttrice adriatica fino a Pescara. Il presidente di Cariplo approvò l'idea, che non fu attuata per l'arresto dello stesso onorevole Roberto Mazzotta, vittima della «caccia alle streghe» dell'epoca, assolto da tutte le accuse anni dopo. Il progetto rimase sulla carta e l'ingresso di esponenti della Lega Nord nel consiglio di Cariplo, promotori di una posizione antimeridionalista che si esprimeva nell'accusa di spreco dei risparmi lombardi nel pozzo profondo delle aziende bancarie del sud, indusse il vertice della prima cassa di risparmio italiana ad abbandonare il Mezzogiorno, comunque non dopo aver realizzato un utile stratosferico con la vendita delle tre casse di risparmio meridionali, accorpate in una unica società per azioni, denominata Carime.
Merita di essere ricordata la decisione ammirevole della Cassa centrale di risparmio VE per le province siciliane, prima della sua incorporazione nel Banco di Sicilia, presa dai dirigenti d'accordo con il personale, di destinare 1.000 miliardi di lire del fondo pensioni integrativo al prepensionamento anticipato di un certo numero di dipendenti per favorire il risanamento, con l'intento di ridurre i costi e di riportare in attivo i conti. Mai un istituto di credito è stato risanato in Italia con fondi accantonati per i dipendenti, questo è accaduto nel Mezzogiorno, anche se non è stato sufficiente a evitare la sopravvivenza nell'autonomia.
La fine del sistema delle banche meridionali, definita alcuni anni fa dal Ministro Tremonti «debancarizzazione del sud», ha avuto cause molteplici, quali la fine dell'intervento straordinario che ha provocato la cessazione dei contributi per gli investimenti in conto capitale che alimentavano le anticipazioni bancarie, la recessione degli anni novanta, la liberalizzazione degli sportelli che pose termine alle posizioni stabilizzate di controllo dominante nel territorio di riferimento, la lentezza nell'introduzione delle tecnologie nell'organizzazione interna, l'eccesso di politicizzazione nella scelta degli amministratori, le strategie, non secondarie, ma anzi determinanti, delle grandi banche di potenziare i propri patrimoni in vista del mercato unico europeo, nonché l'esigenza di aumentare la raccolta da impiegare nella rendita finanziaria, diventata, dopo gli anni novanta, l'investimento in grado di far crescere gli utili e i dividendi. Non si può, però, tacere il motivo principale rappresentato dal processo pilotato di utilizzare le aziende di credito meridionali per patrimonializzare le grandi banche del nord nel momento della nascita della moneta unica dell'Unione europea.


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