Sulla pubblicità dei lavori:
Battilocchio Alessandro , Presidente ... 2
Audizione di Fabio Giglioni, professore ordinario di diritto amministrativo, Università La Sapienza di Roma:
Battilocchio Alessandro , Presidente ... 2
Giglioni Fabio , professore ordinario di diritto amministrativo ... 2
Battilocchio Alessandro , Presidente ... 12
Iaria Antonino (M5S) ... 12
De Maria Andrea (PD-IDP) ... 13
Iaria Antonino (M5S) ... 13
De Maria Andrea (PD-IDP) ... 14
Battilocchio Alessandro , Presidente ... 14
Giglioni Fabio , professore ordinario di diritto amministrativo ... 14
Battilocchio Alessandro , Presidente ... 16
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ALESSANDRO BATTILOCCHIO
La seduta inizia alle 14.35.
Sulla pubblicità dei lavori
PRESIDENTE. Comunico che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite l'impianto audiovisivo a circuito chiuso e la trasmissione in diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione di Fabio Giglioni, professore ordinario di diritto amministrativo, Università La Sapienza di Roma.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Fabio Giglioni, professore ordinario di diritto amministrativo presso La Sapienza di Roma.
Con il professore approfondiremo alcuni aspetti in particolare legati alla funzione, al ruolo del terzo settore e alle possibili interazioni e sinergie attivabili con le amministrazioni locali, con le amministrazioni pubbliche in generale.
Come accennavo, questo è uno dei temi che riscontriamo nel corso dei nostri sopralluoghi esterni, con una grande voglia di partecipazione, una grande voglia di presenza all'interno della comunità da parte di associazioni, di gruppi, di realtà riconducibili al terzo settore, che viene resa non sempre agevole dal rapporto con la normativa esistente e con i vincoli ai quali le amministrazioni pubbliche devono, ovviamente, attenersi. È un aspetto cruciale che stiamo riscontrando, una tematica che ci interessa approfondire anche nel corso dei vari incontri. Come Commissione, abbiamo parlato di questo aspetto, di questo ambito, quindi l'audizione di oggi sicuramente fornirà ulteriori preziosi elementi al nostro lavoro.
Cedo la parola al professor Giglioni.
FABIO GIGLIONI, professore ordinario di diritto amministrativo. Signor presidente, ringrazio lei e tutti i componenti della Commissione per questo invito.
Io ho pensato di strutturare il mio intervento iniziale, lasciando – immagino – anche uno spazio, eventualmente, per un confronto sulla base delle sollecitazioni che verranno, su quattro punti.
Farei un'introduzione di carattere generale, che mi consente anche di dare un affresco generale di quello che in questo momento è in campo, con riferimento al tema dell'amministrazione condivisa. Poi dirò che cosa intendo per «amministrazione condivisa».
In un secondo punto proverò a dare – forse è utile alla Commissione – anche qualche suggerimento di intervento normativo, che può essere utile per potenziare il ruolo in modo particolare degli enti del terzo settore e della società civile.
Un terzo punto affronta un nodo sul quale mi soffermerò dopo, che lascio adesso un attimo in sospeso.
Un quarto punto riguarderà il ruolo dell'amministrazione, che non va trascurato. È indubbiamente importante intervenire sul piano normativo, ma c'è tutto un tema che riguarda l'attuazione e l'esecuzione che mette in gioco il ruolo dell'amministrazione, sul quale mi soffermerò un po'.
Innanzitutto, faccio un'introduzione di carattere generale. Come è stato detto, sono professore ordinario di diritto amministrativo presso La Sapienza, ma il tema che affronterei oggi, quello dell'amministrazionePag. 3 condivisa, che tra poco dirò cos'è, è un tema rilevante per i miei interessi scientifici, ma non solo per questo. Io ho coniugato l'attività scientifica con un'attività sociale, chiamiamola così, attraverso un'associazione che si chiama LabSus (Laboratorio per la sussidiarietà), che è stata fondata all'indomani della modifica del Titolo V della Costituzione, quando è stato introdotto il principio di sussidiarietà orizzontale.
Noi abbiamo visto da subito il principio della sussidiarietà orizzontale come un potente principio per enfatizzare il ruolo della società civile nella risoluzione di problemi di interesse generale. Coniugo, quindi, questi due aspetti un po' scientifici e un po' di interesse, di carattere sociale.
Che cos'è il tema di nostro interesse, l'amministrazione condivisa? È una cosa molto semplice: trovare soluzioni giuridiche che permettano di valorizzare l'apporto che cittadini, organizzazioni civiche, enti del terzo settore danno per la soluzione di problemi di interesse generale, una cosa che – come vedete – sembrerebbe molto semplice, molto banale.
Ieri, per preparare questo nostro incontro, ho visto anche qualche audizione che c'è stata in questa Commissione. Devo dire che l'audizione del presidente del CNEL, il professor Brunetta, ha preparato perfettamente questo mio intervento. In qualche modo, mi colloco sulla scia di quell'intervento, quindi do per presupposto tutto quello che avete ascoltato da lui, che ho trovato molto condivisibile. In particolare, c'è un aspetto che voglio riprendere. Lui ha detto che nelle politiche pubbliche, ma non solo nelle politiche pubbliche, i giuristi spesso sono chiamati anche a interrogarsi su come realizzare le cose, come fare le opere, come fare gli interventi che hanno un impatto sulle infrastrutture.
Probabilmente è vero che il nostro Paese ha bisogno di contributi che vadano in questo senso, perché noi abbiamo difficoltà significative nel fare cose, però lui ha altrettanto ragione nel dire che spesso ci si dimentica: e il giorno dopo che succede di quelle opere, di quelle infrastrutture, di quelle cose create? Se non c'è una programmazione, un investimento su come gestire il «dopo», tutto quello viene vanificato. In qualche modo, io mi preoccupo del «dopo». L'amministrazione condivisa è il «dopo», è come la società civile può essere ingaggiata per dare una soluzione a problemi di interesse generale.
In questo senso, l'amministrazione condivisa è un nuovo modello amministrativo che si aggiunge a quelli tradizionali che già conosciamo. Quali sono quelli tradizionali? Abbiamo il modello classico, secondo cui i cittadini sono degli amministrati, quindi l'amministrazione dice cosa si può e cosa non si deve fare, ordina la società. C'è il modello dei servizi: i cittadini domandano servizi e, in qualche modo, l'amministrazione si preoccupa di garantirli, direttamente o indirettamente. Un altro modello è quello in cui l'amministrazione si preoccupa di regolare l'attività della società civile, quindi regola (modello regolatorio).
Vi sembrerà strano, ma la cosa curiosa è che il nostro ordinamento fino a pochi anni fa non aveva uno strumentario per quei cittadini che, invece, intendevano collaborare con l'amministrazione per risolvere problemi di interesse generale. Se un cittadino ha un'idea, ha un progetto, ha delle capacità, ha il tempo (perché anche il tempo è una risorsa straordinaria) per risolvere problemi di interesse generale, come è possibile intercettarlo? Quali sono gli strumenti giuridici? Vi assicuro che fino a qualche anno fa non c'era uno strumentario di carattere giuridico. Al massimo si poteva tollerare l'intervento dei cittadini e molto più spesso si diceva «no, tu non sei autorizzato a farlo, non sei legittimato a farlo, perché è l'amministrazione titolare dell'interesse pubblico».
L'amministrazione condivisa è proprio questo: una messa in campo di strumenti attraverso i quali le amministrazioni incoraggiano, ingaggiano i cittadini per risolvere problemi di interesse generale.
Chiudo questa parte generale introduttiva dando un affresco di quello che oggi c'è. Fino a qualche anno fa non c'era nulla, ma da qualche anno c'è una dotazione di strumenti che il nostro ordinamento conosce. Inizio da una cosa che subito ci dà un Pag. 4po' il segnale di un punto importante. La prima sperimentazione di soluzioni che vanno nella direzione dell'amministrazione condivisa ha riguardato regolamenti comunali. Attenzione, non norme di legge, non il legislatore, ma una sperimentazione avvenuta a livello locale, che si è diffusa a macchia d'olio.
Faccio riferimento ai regolamenti comunali per la collaborazione tra amministrazioni locali e cittadini per la gestione dei beni comuni urbani. Un primo regolamento è stato approvato a Bologna proprio dieci anni fa, si è festeggiato a febbraio scorso il decennale, e poi si è diffuso in tutta Italia, attraversandola dal nord al sud, con maggioranze politiche diverse. Regolamenti spesso adottati all'unanimità o con larghissima maggioranza. Che cosa dicono, semplicemente? Dicono che, se i cittadini hanno progetti da realizzare, possono presentare questi progetti per risolvere problemi di interesse generale, che possono riguardare la messa in cura di uno spazio pubblico degradato, l'attivazione della scuola anche nel pomeriggio, quindi quando la scuola è chiusa, il recupero di un parco abbandonato e così via. Presentano, dunque, un progetto e, con il dialogo con l'amministrazione, si può arrivare a stipulare un patto di collaborazione. Il patto di collaborazione è il primo strumento che il nostro ordinamento ha conosciuto che possiamo ritenere di amministrazione condivisa. Questo nasce da una sperimentazione. Ripeto: non è l'esecuzione di una norma di legge. Ovviamente, i legislatori sono intervenuti, qualche legislatore regionale è intervenuto, ma dopo. Questo è un punto importante.
Passo a un secondo aspetto importante. È intervenuta anche un'altra normativa molto significativa, quella del Codice del terzo settore. Mi riferisco in particolare agli strumenti di coprogettazione, coprogrammazione e convenzioni. Sono tre strumenti diversi, per la verità, ma tutti e tre strumenti che ingaggiano una relazione tra amministrazione e cittadini per adottare interventi che hanno rilievo di carattere generale, che soddisfano gli interessi generali, che nel Codice del terzo settore sono elencati nell'articolo 5. Questi strumenti sono molto importanti e, in qualche modo, riecheggiano anche il patto di collaborazione. Pur con le loro differenze, per esempio le convenzioni hanno un campo di applicazione un po' più restrittivo rispetto alla coprogettazione, però l'idea è sempre la stessa: amministrazioni e cittadini si mettono insieme – in questo caso i cittadini sono gli enti del terzo settore, perché stiamo parlando del Codice del terzo settore – e insieme decidono che tipo di intervento adottare per risolvere un problema sociale, di interesse pubblico in generale. Questo è un secondo pezzo che dà sostanza all'amministrazione condivisa.
Il terzo proviene dalle leggi regionali, come dicevo. Molte regioni nel frattempo sono intervenute: Lazio, Umbria, Emilia-Romagna, Toscana, Puglia sono regioni che hanno legiferato nel senso sempre di dare sostegno all'amministrazione condivisa.
Il panorama attuale cosa ci consegna ancora? L'importantissimo articolo 6 del Codice dei contratti pubblici, e qui arriviamo a un primo nodo. Il Codice dei contratti pubblici è il vero demone – diciamo così – delle pubbliche amministrazioni e spesso anche degli enti del terzo settore. Come diremo tra poco, il Codice dei contratti pubblici ha delle regole e ha delle logiche, che immagino tutti conoscano, che rispondono a certe esigenze di interesse pubblico. La domanda è: queste esperienze (la coprogettazione, i patti di collaborazione) possono coesistere con il Codice dei contratti pubblici? La faccio breve, non vi annoio raccontandovi tutta la storia, ma vi assicuro che su questo c'è stato negli ultimi anni uno scontro molto forte con il Consiglio di Stato, che aveva assunto inizialmente un atteggiamento molto ostile alla riduzione di spazio del Codice dei contratti pubblici. Oggi, però, la realtà è diversa, perché c'è stata una sentenza della Corte costituzionale nel 2020 che ha riconosciuto il modello dell'amministrazione condivisa come un modello che regola le relazioni tra amministrazioni e soggetti terzi, soggetti della società civile, caratterizzati da rapporti che la Corte ha definito non sinallagmatici, cioè rapporti Pag. 5che non hanno natura patrimoniale, non sono fondati sul do ut des.
Questi tipi di rapporti – dice la Corte – non fanno parte del Codice dei contratti pubblici. Il Codice degli appalti pubblici si occupa dei rapporti patrimoniali, e questi stanno fuori. Questo ha consentito, dunque, all'amministrazione condivisa di avere uno spazio autonomo. Arrivo all'articolo 6 del Codice dei contratti pubblici, approvato nel 2023, entrato in vigore pienamente quest'anno. Cosa dice l'articolo 6, sostanzialmente? Il modello dell'amministrazione condivisa è estraneo al Codice dei contratti pubblici. Quindi, ha separato il destino di queste due relazioni. Questo è un punto molto importante.
Un'ultima annotazione, e finisco l'affresco iniziale. Altrettanto significativo è l'articolo 10 del decreto legislativo n. 201 del 2022, ossia la disciplina sui servizi pubblici locali. Tradizionalmente, il nostro Paese ha una storia molto significativa, importante, anche nobile – diciamo così – delle municipalizzate, che sono state anche un fattore importante nella storia del nostro Paese. L'idea era che gli enti locali, le amministrazioni locali potevano istituire, qualora ritenuto di interesse particolarmente rilevante, un servizio pubblico e decidere loro di istituirlo. Cosa dice oggi l'articolo 10? Dice che ancora gli enti locali possono fare questo, ma, prima di fare questo, questo è il punto, questa è la novità, devono verificare se, in base al principio di sussidiarietà orizzontale, non ci siano da parte della comunità, da parte dei cittadini auto-organizzazioni in grado di garantire le utilità di quel servizio pubblico, vale a dire che l'ente locale può istituire un servizio pubblico accertato che non c'è la capacità della comunità di auto-organizzarsi per realizzare quel servizio. Questo è un altro elemento importante, che dà spazio ancora una volta all'amministrazione condivisa.
La logica è sempre quella: se i cittadini sono in grado di auto-organizzarsi e di soddisfare interessi di carattere generale, il compito dell'amministrazione è innanzitutto di sostenerli. Adesso non entro nei dettagli, ma nell'articolo 11 si dice che, se ci sono, quei cittadini vanno agevolati, vanno favoriti, vanno incentivati.
Questo è il quadro che noi abbiamo oggi. Come vedete, oggi siamo in una situazione nella quale l'amministrazione condivisa ha guadagnato uno spazio importante nel nostro ordinamento giuridico, senza, a parte l'articolo 6 del Codice dei contratti pubblici, che vi sia una legge sull'amministrazione condivisa. Noi non abbiamo una legge, però questo fenomeno carsico ha permesso di arrivare a questo punto.
Passo al secondo punto, qualche suggerimento di intervento normativo per l'amministrazione condivisa. Proprio per le ragioni che ho appena spiegato, devo dire la verità, non ritengo sia opportuno approvare una legge di carattere generale che riguardi tutto questo insieme di cose. Perché non lo ritengo opportuno? Come forse avete capito, le relazioni dell'amministrazione condivisa sono relazioni molto delicate, molto fragili. Siccome il punto è capire nel concreto quando un'esperienza, quando un progetto di cittadini è veramente utile alla comunità, pensare di risolvere questo con una legge a monte rischia di creare problemi più che risolverli. Quindi, un intervento legislativo, se ci deve essere, deve essere un intervento di accompagnamento di questi processi più che di definizione.
Vi dico una cosa banale. Ai sensi di quel regolamento e anche di altre esperienze, cos'è un cittadino attivo? Un cittadino attivo, secondo i regolamenti comunali dell'amministrazione condivisa, è chiunque presenti un progetto, quindi un singolo, un'associazione, un ente del terzo settore, ma anche un gruppo, ma anche un'impresa, ma anche un insieme di cittadini. L'elemento importante è capire se quel progetto attiva una comunità per risolvere problemi di interesse generale. Se con una legge cominciamo a definire che cos'è un cittadino attivo, abbiamo già ingessato tutto il processo. Quindi, la mia idea è che forse non è il caso di fare una legge di carattere generale.
Personalmente userei come modello l'esempio europeo. Spesso l'Unione europea approva direttive o regolamenti che hanno Pag. 6un contenuto omogeneo, ma che sono tutti interventi di modifica di precedenti direttive o regolamenti. Ebbene, se dovessi suggerire una soluzione, immaginerei un disegno di legge con un contenuto omogeneo, integro, integrale, che però agisce su norme già presenti facendo piccoli interventi di manutenzione, piccoli cambiamenti, qualche integrazione. Lo immaginerei così, più che un nuovo disegno di legge che intende definire tutto.
Su quali punti agirei? Per esempio, penso che sia opportuno inserire un nuovo articolo alla legge n. 241 del 1990, la legge più importante delle pubbliche amministrazioni, che preveda la disciplina dei patti di collaborazione civica (la chiamerei così). A che cosa servirebbe questo articolo aggiuntivo? A far sì che effettivamente l'amministrazione condivisa venga riconosciuta come nuovo modello amministrativo. Da parte della dottrina giuridica e anche da parte della giurisprudenza ormai c'è consapevolezza di questo. Ciò che manca è un riconoscimento anche legislativo che possa dare un conforto ulteriore alle amministrazioni. Dunque, proporrei un articolo leggero che integri la legge n. 241 e che lasci pensare che questo è un altro modello di amministrazione, che non sostituisce gli altri – su questo voglio essere ben chiaro – perché noi abbiamo bisogno dell'amministrazione che ordina, abbiamo bisogno dell'amministrazione che eroga servizi, abbiamo bisogno dell'amministrazione che opera ma – questo è il punto – abbiamo bisogno anche di un'amministrazione che si fida dei cittadini e che sa ingaggiarli e attivarli. Questo è un articolo che può consacrare questo passaggio. Quindi, proporrei un intervento di questa natura.
Un altro intervento che riterrei utile è sull'articolo 55 del codice del terzo settore o, per meglio dire, non tanto sull'articolo 55 ma, in questo disegno di legge immaginario che ho pensato, un intervento che spieghi il contenuto dell'articolo 55. Qual è il punto? Questo articolo, come diceva bene anche il presidente Brunetta, contiene uno degli aspetti più importanti della riforma del terzo settore, che è l'istituto della coprogettazione, che per molti versi è assai simile ai patti di collaborazione, con la differenza che la coprogettazione la fanno gli enti del terzo settore. Però, qual è il nodo che si sta scorgendo? È che la giurisprudenza, a dispetto di tanti cambiamenti e di tante evoluzioni che sono state fatte, soprattutto la giurisprudenza amministrativa, sempre per preservare il ruolo del codice dei contratti pubblici, dice che lo spazio per la coprogettazione è ammesso solo in quelle relazioni che sono gratuite.
Il Consiglio di Stato o il giudice amministrativo considera gratuite quelle relazioni in cui al massimo le amministrazioni si impegnano a garantire i rimborsi dei costi diretti sostenuti dagli enti del terzo settore. C'è però – siamo più realisti del re – una giurisprudenza europea, e penso ai casi molto noti agli studiosi, i casi Spezzino, Casta e ASADE, in cui il giudice europeo riconosce la legittimità di alleanze tra amministrazioni e soggetti che noi chiamiamo del terzo settore all'unica condizione che queste relazioni non producano profitti. L'affidamento riservato di servizi e interventi agli enti del terzo settore non deve produrre profitti, altrimenti saremmo in una logica diversa, torneremmo alla logica, che richiamavo in precedenza, di natura patrimoniale. Però, la Corte di giustizia europea dice che, fatta eccezione per questa condizione, non ha alcun rilievo se l'amministrazione rimborsa costi diretti ma anche costi indiretti, ovvero i costi in termini di organizzazione dell'intervento, che è un punto molto importante.
L'altro aspetto importante che chiede la Corte di giustizia – questo lo darei per scontato – è che questi affidamenti rispettino il principio di pubblicità, di trasparenza e di imparzialità. Però, fatta eccezione di queste due importanti condizioni, non ce ne sono altre. Invece, il giudice amministrativo nazionale ancora assume un atteggiamento restrittivo e impedisce alla coprogettazione di avere un campo, di avere sviluppo, ed è molto importante. Allora, forse un intervento normativo lo farei su questo punto.
Vi è un altro fulcro di interventi normativi che riguarda la parte ultima del codice del terzo settore, ovverosia tutte Pag. 7quelle misure di favor (le chiamerei così) nei confronti degli enti del terzo settore, quali finanziamenti, concessioni di immobili e cose di questo tipo. Qui ci sono molte forme di sostegno agli enti del terzo settore, che personalmente dividerei in due tipologie. La prima è la tipologia di sostegno legata alla realizzazione di un progetto, di un intervento: ti do l'immobile, ti concedo lo spazio per realizzare un certo intervento; oppure, ti do una sovvenzione perché ritengo che quell'intervento specifico per il quale ti proponi sia meritevole di sostegno. Su queste forme di sostegno direi che non ci sono grandi problemi. Anzi, vedo molte similitudini con tutto quello che abbiamo detto fin qui, l'amministrazione condivisa e così via. Questo è quello che avviene frequentemente.
Più problematico è il caso in cui le amministrazioni sostengono gli enti del terzo settore non per specifici progetti, ma li sostengono in quanto enti del terzo settore. Questo ha una spiegazione: il codice del terzo settore intende promuovere i soggetti del terzo settore. Però, il punto è che, se io concedo un bene o un contributo che non è legato a una specifica progettualità, ma lo concedo semplicemente perché tu sei un soggetto del terzo settore, qui sorgono più problemi, dal momento che io devo spiegare innanzitutto perché te e non un altro, devo adottare procedure trasparenti.
Peraltro, su questo il codice fa alcune differenziazioni che a volte non appaiono del tutto logiche. Per esempio, alcuni favor, alcune forme di sostegno vengono date alle organizzazioni di volontariato e non alle associazioni di promozione sociale, senza che ci sia un nesso logico in questo, perché spesso sono due soggetti che fanno cose molto simili. Certo, hanno caratteristiche strutturali un po' diverse, ma non così tali da giustificare tante differenziazioni. Io penso che su questo si possa intervenire, da un lato, per garantire una maggiore semplificazione e, dall'altro, per mettere più a garanzia queste norme. D'altronde, se non erro, qualcosa è già stato sollevato di fronte alla Corte costituzionale, secondo me anche con ottime possibilità di ottenere una censura da parte della Corte. Dunque, su questo interverrei.
Vi è, poi, tutta una materia – non so se il Parlamento ha già approvato un disegno di legge, comunque so che era in discussione – di semplificazione degli enti del terzo settore, una disciplina che era fondata sull'idea forte di assicurare un grande sostegno agli enti del terzo settore, con la prospettiva di avere in cambio soggetti molto strutturati, molto forti. Capisco la ratio di questo «scambio», però poi nella realtà concreta questo rischia di mortificare molte realtà sociali. Quindi, andare verso una maggiore semplificazione in questo senso sarebbe utile.
Un altro intervento di carattere normativo che farei riguarda un punto un po' sottovalutato. Non so se merita di essere posto all'interno del codice del terzo settore oppure in altra sede. Su questo bisogna ragionarci. Però, meritano di avere uno spazio di riconoscimento tutti quei soggetti di imprenditoria di comunità (li chiamerei così). Non mi riferisco alle cooperative sociali, non mi riferisco alle imprese sociali, che ben conosciamo e conosciamo da lungo tempo. Accanto a questi soggetti ormai cominciano a esserci sempre di più cooperative di comunità, fondazioni di comunità, nuove comunità energetiche rinnovabili e solidali. Sono tutte forme in cui i cittadini si auto-organizzano – qualche volta solo cittadini, nelle fondazioni evidentemente c'è anche un intervento di qualche soggetto più strutturato – e che aggregano cittadini e organizzazioni della società civile per gestire servizi, per gestire attività, per gestire immobili che sono caduti in disuso e che sono fonte di problemi sociali. Quindi, è la comunità che si attiva. Però, questa volta non si attiva solo per curare lo spazio o il bene urbano, ma anche per garantire una redditività di questa gestione.
Questo è un tipo di soluzione che, per esempio, nelle aree interne del nostro Paese, dove è in atto un forte processo di desertificazione, spesso costituisce l'unica soluzione per tenere vive delle attività e dei servizi e anche l'unica speranza di aggregare nuovi soggetti. Quella che io chiamo imprenditoria di comunità, che è un'imprenditoriaPag. 8 particolare, che non ha, anch'essa, fini di lucro, bensì fini di crescita della comunità, ha un ruolo che viene riconosciuto in diverse regioni, ma che a livello nazionale è piuttosto sottovalutato. Allora, qui un intervento che dia enfasi a queste soggettività nuove, a queste soggettività di comunità anche di natura imprenditoriale credo sia utile e meritevole.
Il terzo punto del mio intervento tratta un tema delicato, che però penso debba essere affrontato con estrema franchezza, il tema dell'abbandono. Questa è una Commissione d'inchiesta sulle condizioni delle periferie, sui problemi del degrado, sui problemi della sicurezza, per cui credo che nessuno di noi possa nascondere la verità, e la verità è che spesso questi problemi di ordine sociale, criminale e di altra natura allignano in quei beni, in quegli spazi che sono abbandonati. Quindi, credo che noi dobbiamo porci un grande tema: come affrontare l'abbandono di beni sicuramente nelle dimensioni urbane, nelle città, ma anche fuori dalle città. Pensate ai drammatici eventi di cronaca di questa estate: sono tutti nati da aree abbandonate.
Mi sono chiesto, traendo spunto dalla mia esperienza, qual è il problema dell'abbandono. Sono principal investigator (PI) di una ricerca che ha in campo la rigenerazione delle aree periferiche attraverso strumenti innovativi di rigenerazione e che intende affrontare proprio il tema dell'abbandono, così come sono stato componente della ormai non più presente Commissione per la riforma della normativa nazionale in materia di pianificazione del territorio, standard urbanistici e in materia edilizia, che su questo pure aveva fatto degli interventi. Dunque, qual è il problema dell'abbandono? Che noi ci dobbiamo scontrare con il tema della proprietà. Questo è il vero nodo delicato e difficile. Però, io penso che non possiamo eludere questo tema.
Qui nessuno vuole mettere in discussione l'istituto della proprietà, che fa parte del nostro ordinamento, direi anche delle nostre istituzioni democratiche, però secondo me si può oggettivamente porre il tema se la tutela della proprietà oggi deve essere difesa negli stessi termini in cui era difesa nell'Ottocento, ovvero se noi viviamo nello stesso contesto sociale. Nell'Ottocento bisognava affermare le libertà, bisognava formare un nuovo ceto sociale e la proprietà era il dominio assoluto del proprietario, quindi anche il disinteresse era totalmente tutelato secondo quella logica. Oggi noi possiamo difendere una proprietà di cui il proprietario si disinteressa, che il proprietario abbandona? Questo è un tema. Guardate, riguarda sia il proprietario pubblico che il proprietario privato. Non sto dicendo che valga solo per uno dei due. Io credo che la proprietà si sia caricata di tanti diritti, perché così è nata nell'Ottocento e c'era bisogno che si caricasse di tanti diritti, però forse è ora di riconoscere che la proprietà si deve caricare anche di qualche responsabilità. Quindi, il tema dell'abbandono, nel momento in cui crea problemi di natura sociale, bisogna che in qualche modo sia affrontato.
Quali sono le difficoltà? Innanzitutto vi è una difficoltà dal punto di vista giuridico. Se siamo convinti che questo sia un nodo da affrontare, il primo tema è che ciò che chiamiamo abbandono in termini giuridici non è niente. L'abbandono è un fatto: il disinteresse del proprietario verso la propria proprietà. Ma non è un elemento di carattere giuridico. L'elemento di carattere giuridico, secondo il nostro codice civile, è la rinuncia. Il proprietario può rinunciare alla proprietà e, peraltro, accollarla allo Stato. Questo è un altro elemento che sottolinea il diritto, ma poco la responsabilità.
Il primo tema, quindi, è definire l'abbandono. Questo è un tema sicuramente difficile. Noi non abbiamo una disciplina di carattere generale su questo. Però, voglio dirvi anche che non è vero che il tema non esiste in assoluto. Per esempio, nel testo unico in materia di foreste e filiere forestali è definito che cos'è un terreno abbandonato e viene specificato quando un terreno si considera abbandonato. E che cosa consente questo? Si dà un tempo al proprietario, eventualmente anche consorziandosi con altri, di agire per riutilizzare quel bene abbandonato che sta creando problemi, in questo caso problemi di carattere idrogeologico, problemi che attengono ai sistemi Pag. 9ecologici e così via. Se, però, questo intervento non c'è – sto parlando di una legge statale che già esiste – le regioni possono intervenire sul bene e utilizzarlo nel modo che credono più pertinente rispetto ai fini di interesse generale. Quindi, vedete che l'intervento in questo caso è di surrogazione delle regioni in caso di abbandono. È un esempio pratico per dire che non ci muoviamo nel vuoto.
Facciamo un altro esempio. Abbandono, degrado. Credo che tutti voi abbiate presente un fenomeno molto diffuso, quello che passa con il nome del «non finito architettonico». Cosa vuol dire? Costruzioni, edifici, infrastrutture, opere che cominciano, e cominciano in modo del tutto legittimo, cioè sono iniziate con un titolo legittimo, però poi scade il titolo di autorizzazione, di concessione e l'opera non è finita. Il legislatore non si è mai preoccupato del «dopo», perché è sempre stato possibile rinnovare la domanda di autorizzazione e concessione, quindi riprendere i lavori e portarli a termine. La domanda è: e se questo non avviene – e la realtà ci dice che spesso non avviene – cosa succede? Che cos'è quella cosa? In termini giuridici, possiamo dire che, certo, quel soggetto ha perso il diritto di portare a termine l'opera e l'infrastruttura, però rimane, in qualche modo, proprietario, rimane non responsabile di quello che ha fatto, perché lo ha fatto sulla base di un titolo legittimo. Quindi, non si può pretendere nulla proprio perché, quando ha agito, quando ha costruito, ha costruito sulla base di un titolo amministrativo perfettamente legittimo.
Noi ci troviamo, quindi, di fronte a un problema che parrebbe non avere soluzione, che però è fonte di quei problemi di abbandono, che spesso creano degrado e così via. Se ci fossero cittadini intenzionati comunque a utilizzare quello spazio o, comunque, a immaginare una risposta creativa (enti del terzo settore) non potrebbero farlo, perché quell'opera è comunque di proprietà privata.
Su questo, però, le cose sono in movimento. È stata presentata in adunanza plenaria un'ordinanza da parte del Consiglio di Stato. C'è una dialettica in sede di giustizia amministrativa, però alcuni stanno cominciando a dire che quel «non finito» non è legittimo, perché c'è una legittimità che è data, sì, dal titolo concessionario, però, siccome l'opera non è compiuta, c'è una non conformità rispetto alla pianificazione urbanistica, rispetto alla progettualità, quindi quell'opera andrebbe considerata come un'opera abusiva, in qualche modo, in modo sostanziale, e questo dovrebbe autorizzare l'intervento del comune, proprio come si fa con gli interventi abusivi, chiedendo prima una esecuzione completa da parte del proprietario e poi, se questo non avviene, anche l'acquisizione nel patrimonio pubblico del bene, per poi avere una nuova rigenerazione, quindi magari anche una nuova progettualità con i soggetti del terzo settore.
Come vedete, qualcosa si sta muovendo sul piano, ancora una volta, della proprietà.
Un altro esempio che vi faccio riguarda una norma spesso dimenticata: l'articolo 838 del Codice civile. Cosa prevede quell'articolo? Prevede la possibilità, da parte dei comuni, di procedere a esproprio di beni abbandonati che costituiscono un problema per il decoro della città, per l'arte, per la storia e per la sanità pubblica. Questa è una norma del Codice civile, il che vuol dire del 1942, una norma che ci siamo un po' dimenticati, che dice che i comuni possono procedere a espropriazioni quando ci sono beni abbandonati che costituiscono un problema per il decoro, per quelle ragioni.
Potrei dire che questa norma può essere, da un lato, adeguata e, dall'altro lato, rilanciata. Può essere adeguata inserendo, ad esempio, tra le finalità, che possono eventualmente legittimare anche un'espropriazione, anche gli interessi di natura ambientale, che oggi sono diventati molto rilevanti, e rilanciata – non nascondiamoci il fatto che l'espropriazione per un comune costa, quindi difficilmente procederà a espropriazione di fronte a questi casi – introducendo soluzioni ablatorie non espropriative, cioè soluzioni con le quali io posso attivare l'uso del bene, ovviamente dopo aver diffidato magari il proprietario a farne Pag. 10un uso alternativo, per realizzare dei progetti, che, ancora una volta, magari possono essere realizzati sotto forma di amministrazione condivisa o, in alternativa, per applicare i cosiddetti oneri di deurbanizzazione. Lo hai abbandonato? Non lo demolisci? Allora chiedo un pagamento per il costo che questo provoca impedendomi un uso alternativo, un uso che, per esempio, mi consenta anche di utilizzare spazi verdi.
Un ultimo intervento. Questo riguarda i beni – abbiamo detto – privati e pubblici. Anche sui beni pubblici si può fare di più, per esempio prevedere disposizioni normative che obblighino l'amministrazione a realizzare progetti su beni abbandonati e in disuso. Quanti beni vediamo nelle nostre città? Penso spesso a beni del demanio militare abbandonati. Cose di questo genere ne troviamo veramente tantissime. Utilizzare, quindi, questi beni come leva di rigenerazione, come leva di aggregazione sociale. Ci sono oggi delle soluzioni, per esempio il riuso temporaneo, previsto dal Testo unico dell'edilizia, e l'intervento su beni non più coerenti con la pianificazione. Si può andare in questa direzione e anche rafforzare di più questo impiego, prevedendo, per esempio, anche forme di responsabilità per i dirigenti che non abbiano attivato progettualità o che non abbiano, per esempio, approvato un piano di riuso. È chiaro, non si può chiedere che venga fatto tutto insieme, ma almeno stabilire l'obbligo di un piano di riuso dei beni abbandonati, che dia, quindi, l'idea che c'è una progettualità, che poi deve essere eseguita. Altrimenti, attivare forme di responsabilità nei confronti dei dirigenti per inerzia.
Altrettanto si può fare. Spesso questi beni abbandonati pubblici non è detto che appartengano ai comuni, possono appartenere ad altre amministrazioni. Se anche queste altre amministrazioni sono protagoniste di abbandono, si potrebbe pensare a formule che prevedano che, se entro un certo periodo queste amministrazioni non intervengono, questi beni passano agli enti locali. Si può, eventualmente, su questo, adottare una soluzione molto simile a quella dei beni confiscati alla criminalità organizzata: passano alla destinazione degli enti locali e poi gli enti locali possono immaginare una riprogettazione, ancora una volta, con la società civile.
L'ultimo punto è quello sull'infrastruttura amministrativa. Ci tengo molto a dire che tutto questo che abbiamo disegnato enfatizza molto il ruolo della società civile, del terzo settore, dell'organizzazione civica, però – attenzione – tutto questo non sta a significare meno amministrazione. Non abbiamo bisogno di un'amministrazione che si ritrae. Abbiamo bisogno di un'altra amministrazione, un'amministrazione soprattutto capace di attivare comunità. Qui sta la sfida più grossa, perché noi – e qui che entra in gioco anche il professore di diritto amministrativo – abbiamo insegnato un diritto amministrativo, un po' come la proprietà, che risale a duecento anni fa, che aveva tutta una storia, un significato, in cui le amministrazioni erano le esclusive portatrici di interesse pubblico.
Se entriamo in una logica in cui questo interesse generale può essere condiviso anche con i cittadini, bisogna che l'amministrazione faccia anche altro, impari a fare anche altro. Però questo non vuol dire meno amministrazione, ma un'Amministrazione diversa. È un compito anche più difficile, in qualche modo. Un disinvestimento sull'amministrazione pubblica, secondo me, non porta più amministrazione condivisa, ma porta maggiori problemi.
Naturalmente, c'è uno spazio – non tanto normativo, ma in termini di stimolo forse sì – di costruzione di nuove figure professionali. Prima vi citavo il regolamento di collaborazione tra amministrazione e cittadini per la gestione dei beni comuni urbani. Ebbene, spesso questi regolamenti richiedono nuove figure professionali, che vengono chiamate «facilitatori» talvolta (il comune di Roma, per esempio, le ha chiamate così), oppure ricorrono, anche su questo, a soggetti esterni del terzo settore, che si fanno promotori e canalizzatori delle relazioni tra amministrazioni e cittadini. Comunque, c'è bisogno di nuove figure professionali. Quel luogo – cito ancora una volta il presidente del CNEL Pag. 11– dove ci sono la parte datoriale del lavoro, le pubbliche amministrazioni, i sindacati e i soggetti del terzo settore forse può essere un luogo in cui immaginare queste nuove figure professionali, perché ce n'è davvero bisogno. Questo è un punto importante.
C'è un altro aspetto importante e innovativo sul quale le amministrazioni devono essere incoraggiate, incoraggiamento che proviene anche da quella storia che vi ho raccontato. Tutta questa attivazione della società civile è nata da sperimentazioni. Bisogna che incoraggiamo – e qui torno anche al tema delle concessioni dei beni – a dire alle pubbliche amministrazioni che non tutto si fa con le gare d'appalto. Le gare d'appalto sono uno strumento fondamentale quando parliamo di Codice dei contratti pubblici, ma se parliamo di attivazione di comunità, se parliamo di mettere i cittadini nella condizione di prendersi cura dello spazio pubblico che hanno sotto casa, della scuola, dei parchi, allora dobbiamo immaginare relazioni anche di natura informale. Non dobbiamo aver paura di usare questa espressione. Lo dice un giurista, che dovrebbe temere molto l'espressione «relazione informale», che, se correttamente intesa, diventa invece un potenziale enorme. L'attivazione dei cittadini certo non la faccio se chiedo loro un rispetto rigoroso del protocollo. È la prima mossa mortifera di qualunque spirito civico.
Bisogna trovare un equilibrio. Quale può essere una soluzione? Un buon esempio ce l'abbiamo: il Ministero del lavoro nel 2021, proprio per lanciare la coprogettazione, che era finita un po' su un binario morto, ha emanato delle linee guida, atti di soft law, le indicazioni di buone prassi, l'attivazione soprattutto di processi. Se deve esserci un impegno dell'amministrazione nazionale, del Dipartimento della funzione pubblica, credo che sia soprattutto di incoraggiare le amministrazioni a sviluppare processi, anche a costo di procedere per canali informali. Un dipendente pubblico che lascia un numero di cellulare a un cittadino per avere risposte non è un'infrazione, non è violazione di non so quale principio o carattere giuridico, ma è un modo nuovo di approcciarsi, altrimenti io non attiverò mai queste relazioni.
Certo, tutto questo deve essere costruito in una nuova relazione anche di rapporti di lavoro, per questo c'è lo sforzo anche delle parti sociali, però questo passaggio culturale va fatto, perché è importante.
Ultimi due punti. L'amministrazione condivisa possibilmente, però, non deve essere più solo la buona disponibilità dei cittadini, il bravo amministratore che sa cogliere l'opportunità, ma deve entrare sempre di più nelle politiche pubbliche di trasformazione. In tutti i processi che riguardano i cambiamenti delle città, gli interventi di amministrazione condivisa devono essere presi seriamente in considerazione. Il tema è non solo fare le infrastrutture, i cambiamenti, e qui torno a quello che diceva Brunetta, ma preoccuparci dall'inizio di come gestire dopo. Questo «dall'inizio» vuol dire che dentro le politiche pubbliche già ci deve essere l'amministrazione condivisa; anche se proiettata per una fase successiva, però è molto importante che faccia parte delle politiche pubbliche e non sia un orpello che si aggiunge a un certo punto. Finora è stato così, ma perché è stato il frutto di sperimentazioni. Noi dobbiamo cercare di farlo diventare oggetto di politica pubblica.
Ultimo punto, anche questo molto delicato e molto grande, che non ha tanto a che vedere con le norme, quanto – anche qui – con un processo culturale, riguarda una nuova riconfigurazione del rapporto tra politica e amministrazione. Quello che noi abbiamo notato, soprattutto con l'attività di LabSus, è che su questi temi la politica normalmente capisce la grande potenzialità di avere comunità attive, di avere risposta anche da parte della società civile, mentre l'amministrazione è più spaventata, perché si tratta di ripensarsi, di fare cose nuove. Questa diversità non va alimentata, nel senso di dire che deve prevalere la politica sull'amministrazione oppure se ha ragione l'uno o ha ragione l'altro. Va reimpostato un rapporto che avvicini la politica, il livello politico-amministrativo e non confonda i ruoli, perché i ruoli devono essere diversi. Sicuramente nell'attivazione della Pag. 12cittadinanza, soprattutto per i progetti di un certo rilievo, l'apprezzamento politico ci deve essere, il vaglio anche di natura politica ci deve essere. Questo può rafforzare anche l'amministrazione, che in qualche modo si vede coperta da un vaglio anche della politica.
Altrettanto, però, bisogna lasciare lo spazio all'amministrazione di saper monitorare, poi, quello che succede, di saper valutare, quindi di avere anche la forza di dire che se una cosa non funziona non funziona. Il mio public management, che è stato molto utile nella logica dell'amministrazione di regolazione, non funziona in una logica di amministrazione condivisa, perché il rapporto è diverso. Occorre reimmaginare un rapporto tra politica e amministrazione, ma il tema, come capite, è molto grande e molto profondo.
Grazie.
PRESIDENTE. Grazie, professore. È stata una relazione davvero molto interessante, ricchissima di spunti che credo necessiteranno di ulteriore approfondimento insieme. Tra l'altro, quello della sfida lanciata alle amministrazioni comunali è un tema che interessa molto questa Commissione, che è composta in buona parte da ex sindaci e sindaci in carica. Ci sono il collega De Maria, il collega Iaria, il collega De Palma, che sono collegati, che hanno tutti avuto questo tipo di esperienza.
Mi sembra molto interessante anche questo percorso che lei ha tracciato, una evoluzione partita da regolamenti comunali e che, poi, si è trasferita in tutta una serie di ulteriori atti normativi, alcuni dei quali già esistenti, per esempio l'articolo che lei ha citato del codice civile, quindi già nel 1942 c'era una prima sensibilità che andava nella giusta direzione e che, come è stato giustamente detto, va aggiornata anche sulla base delle varie evoluzioni.
Prima di lasciare la parola ai colleghi, vorrei porle due domande specifiche. Poi magari avremo modo di risentirci perché – lo ripeto – sono stati tantissimi gli spunti.
Prima questione. Lei ha parlato di una possibile ordinanza del Consiglio di Stato sul non finito. Tra l'altro, Bologna è stata citata come avanguardia. Quindi, vorrei qualche chiarimento su questa ordinanza del Consiglio di Stato che lei ha citato come un possibile atto in arrivo.
Seconda questione. Nei vari sopralluoghi esterni che abbiamo fatto abbiamo riscontrato questo aspetto della coprogettazione. C'è questa distonia tra quello che dice la giurisprudenza nazionale, che parla di relazioni gratuite, e quello che dice la giurisprudenza europea, che invece è molto più articolata. Questo mi sembra un aspetto molto interessante, che mi ha molto colpito. È uno dei temi che riscontriamo sempre nelle nostre visite esterne, anche rispetto ai costi diretti e ai costi indiretti che vanno considerati in questi percorsi di coprogettazione. Su questo le chiederei di darci qualche spunto ulteriore.
Sono stati talmente tanti i temi trattati che sicuramente avremo modo di tornarci.
Do ora la parola ai colleghi parlamentari che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
ANTONINO IARIA. Signor presidente, non ho potuto sentire tutta la presentazione in quanto ero appena atterrato rientrando da Torino, però ho sentito una parte che ho seguito (come lei, presidente, ha già detto) come amministratore, vale a dire tutta la parte legata alla possibilità di rendere le destinazioni urbanistiche flessibili. È una storia amministrativa che ho conosciuto come assessore comunale all'urbanistica e al patrimonio e ho avuto la fortuna di vedere tutte e due le sfaccettature di questo mondo delle concessioni, a partire dalla possibilità di rendere le destinazioni per usi temporanei il più possibile flessibili per riuscire a fare in modo che ci siano spazi della città o di proprietà di enti pubblici da poter utilizzare.
Altro aspetto interessante è il citato regolamento dei beni comuni. La prima versione è partita da Napoli, ma poi ha avuto anche una versione torinese, che a partire dal 2019 ha avuto anche alcune rivisitazioni. Noi a Torino – chiedo al nostro audito se è una strada che può funzionare – avevamo fatto il discorso di mettere a disposizione tutta una serie di beni del comune per poter attivare dei progetti dei beni comuni, progetti che erano aperti non Pag. 13solo alle associazioni del terzo settore, ma anche ai comitati spontanei di cittadini, che facevano un vero e proprio progetto seguito dal comune stesso come facilitatore (il termine che ha usato il professore era corretto). Quindi, il tema è che noi abbiamo aperto non solo ad enti del terzo settore, ma anche a comitati di cittadini, che non si sono per forza poi uniti in una forma giuridica.
L'aspetto, quindi, era che tutti ponevano un utilizzo degli spazi e che questo spazio era coprogettato insieme. Ebbene, l'elemento importante su cui questa Commissione può fare molto è quello di andare a semplificare tutti quegli aspetti dal punto di vista legislativo che i comuni hanno come vincoli per poter non incorrere nelle problematiche che, anche se alla fine ne abbiamo parlato in maniera leggera, sono complesse, ad esempio fare in modo che questi spazi, essendo beni pubblici, abbiano un netto e preciso sentore di evidenza pubblica per poter essere messi a disposizione, giusto per evitare qualunque tipo di sospetto che vengano dati in maniera più facile in concessione a qualcuno senza passare da questo aspetto importante che è l'evidenza pubblica.
L'aspetto di coprogettazione, quindi, può funzionare. Inoltre, come regolamenti comunali secondo me si può fare molto. Certo, se riuscissimo a fare una raccolta di regolamenti comunali che vanno in questa direzione e se come Commissione riuscissimo a fare una proposta legislativa che definisse un unico atto di indirizzo che possa aiutare il legislatore a supportare i comuni in questo passaggio non sarebbe male.
Chiedo, quindi, all'audito se conosce il caso di Torino e se lo trova simile ad altri casi che lui conosce, che possono essere analizzati e portati a sintesi per fare in modo che queste cose, se fatte bene, possano veramente funzionare.
Grazie.
ANDREA DE MARIA. Signor presidente, Bologna sta facendo da tempo queste esperienze di coprogettazione anche in alcuni comuni, anche con una forma di voto dei cittadini per scegliere il progetto preferito, con una specie di concorso per gruppi di cittadini, che appunto scelgono il progetto preferito. Il comune mette per ogni municipio, che da noi si chiama quartiere, le risorse per realizzare il progetto.
La mia impressione è che tutte le forme che promuovono la coesione sociale sono molto utili, perché crea partecipazione. Credo dovrebbe essere dentro un progetto complessivo di rafforzamento delle reti di coesione sociale e anche dei soggetti collettivi. Anche questo discorso di un recupero del ruolo della politica che ho sentito nell'ultimo pezzo secondo me è un tema molto importante, sennò rischiano di essere esperienze fini a sé stesse se non sono dentro un ragionamento generale, se non c'è una guida politica più complessiva, se non ci sono soggetti in campo un po' strutturati che aiutano nel tempo. Quindi, come mio contributo alla discussione da fare dico che sono da incentivare ulteriormente queste modalità partecipative, provando a tenerle dentro un progetto più complessivo di rafforzamento della rete della coesione sociale.
Anch'io, inoltre, ritengo che sarebbe un errore pensare a una specie di legge nazionale che irreggimenti tutto. Questo è un tipico tema che, se parliamo di rapporto tra istituzioni, va affidato agli enti locali, che sono secondo me il soggetto tipico di promozione. Casomai, si potrebbe pensare a un tema di rafforzamento di questo livello istituzionale, di come i soggetti intermedi, tipo le province e le città metropolitane, potrebbero aiutare i comuni medio-piccoli a costruire esperienze, perché l'altro rischio è che, poiché c'è un certo livello di complessità, alla fine lo si faccia solo nelle aree urbane più rilevanti in modo più strutturato. Però, qui si tratterebbe di rafforzare il ruolo delle province e delle città metropolitane, che è un altro tema che abbiamo in campo, su cui sono più d'accordo con i miei avversari politici che con i miei compagni di partito. Per una volta può succedere.
ANTONINO IARIA. Io la appoggio, onorevole De Maria.
Pag. 14 ANDREA DE MARIA. Lo so, come tutti noi che abbiamo fatto gli amministratori, diciamo così. Sarà un caso.
La cosa che dico – non so se ne avete parlato nella parte che non ho sentito – è come si può dal livello nazionale dare una sponda ai comuni, perché ci sono risorse regionali, ci sono in genere fondi comunali, almeno nelle esperienze che ho visto io, per cui il livello nazionale potrebbe mettere a disposizione risorse. Non credo ci siano risorse direttamente destinate – non so come sia strutturato il bando periferie – al sostegno di queste forme di partecipazione e coprogettazione. Magari su questo punto come Commissione potremmo avanzare una proposta.
Queste sono le cose che le volevo chiedere, professore. Magari sono cose che avete già detto perché, appunto, purtroppo ho seguito l'audizione camminando tra la Camera e la sede del PD, per cui posso essermi perso qualcosa. Comunque, mi sentivo di dire queste cose. Grazie.
PRESIDENTE. Non essendovi ulteriori richieste di intervento da parte dei colleghi parlamentari, do la parola al professor Giglioni per la replica.
FABIO GIGLIONI, professore ordinario di diritto amministrativo. Vado in ordine di questioni. Sul non finito architettonico, ciò che abbiamo adesso è un'ordinanza sollevata da una sezione del Consiglio di Stato all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Quindi, adesso il Consiglio di Stato si dovrà pronunciare in Adunanza plenaria su quel tema che ho prima indicato. Dentro il Consiglio di Stato, infatti, ci sono due orientamenti. C'è chi dice che finché l'opera è legittima rimane intangibile per quello che è stato fatto del tutto legittimamente e chi dice, dando una lettura un po' più forte, che questa è una non conformità rispetto alla pianificazione urbanistica e, quindi, come tale dovrebbe legittimare, come fa l'articolo 31 del testo unico dell'edilizia sulle opere abusive o sulle opere non conformi, l'intervento dei comuni. Quindi, siamo in attesa di questa pronuncia.
Sulla coprogettazione e sui costi confermo quello che ho detto. Qui forse vale la pena, senza soffermarsi troppo a lungo sulla questione, sottolineare che, quando è stato approvato il codice del terzo settore, questo articolo 55 che ha dato vita alla coprogettazione, è stato espresso un durissimo parere da parte del Consiglio di Stato nel 2018, perché ha ritenuto che questo articolo 55 infrangesse il codice dei contratti pubblici, ma siccome il codice dei contratti pubblici è espressione della disciplina europea doveva – questa è stata la lettura che ha dato – prevalere su tutto il resto. Quindi, il codice del terzo settore, in modo particolare la coprogettazione, doveva trovare applicazione in campi estremamente piccoli, stringati.
Poi, come ho detto, sono intervenuti la sentenza n. 131/2020 della Corte costituzionale e il decreto «Semplificazioni» (decreto-legge n. 76 del 2020), che hanno chiarito che ciò che sta nel codice del terzo settore fa riferimento a rapporti di natura non sinallagmatica, ossia non di natura patrimoniale, e come tali non hanno nulla a che vedere con il codice dei contratti pubblici. Quindi, sono due quadri disciplinari profondamente diversi. Di questo ormai il Consiglio di Stato ha preso atto. Come sapete, il nuovo codice dei contratti pubblici è stato frutto del lavoro di una commissione guidata proprio dai magistrati amministrativi – non c'erano solo loro, ma era guidata da loro – e l'articolo 6 in qualche modo l'hanno scritto loro, quindi ormai c'è consapevolezza di questa divisione. Però, in fase di applicazione c'è ancora un po' di diffidenza. Io credo sia questo ciò che muove il Consiglio di Stato a essere ancora prudente. La sensazione è che la coprogettazione possa essere un modo per eludere i vincoli del codice dei contratti pubblici, per cui si applica ancora questo criterio della gratuità, che però – lo ripeto – non è conforme all'orientamento della giurisprudenza europea, che su questo, invece, non è così rigorosa. Quindi, se non matura in seno alla giurisprudenza nazionale questo elemento, che trova supporto nella giurisprudenza europea, forse l'intervento normativo potrebbe rivelarsi necessario.Pag. 15
Conosco il regolamento di Torino, conosco la prima versione e la versione modificata, so quali sono stati i processi che hanno portato a queste modifiche. Sicuramente lei coglie nel giusto – io lo condivido – quando afferma che c'è un possibile rischio proprio alla luce di quella sentenza della Corte costituzionale. C'è qualcuno, infatti, che oggi sostiene che l'amministrazione condivisa è solo quando si fa con gli enti del terzo settore. Questa è una lettura riduttiva di una sentenza, che ovviamente ha preso origine da una controversia. I giudici decidono su casi specifici e quel caso specifico era sul tema degli enti del terzo settore, per cui la Corte si è pronunciata su quello e, ovviamente, lì ha adattato l'amministrazione condivisa con riferimento agli enti del terzo settore. Ma questo non vuol dire che l'amministrazione condivisa si possa fare solo con gli enti del terzo settore, dal momento che c'è tutta una gamma, un florilegio di espressioni di vivacità sociale e civica che non si aggrega solo con gli enti del terzo settore e che ugualmente merita di essere sostenuto. I regolamenti, come dicevo prima, non solo quello di Torino, danno forza e sostegno anche ad altre forme civiche. Questo è bene che sia tenuto presente: l'amministrazione condivisa non si fa solo con gli enti del terzo settore.
Con riferimento agli interventi per sollevare funzionari pubblici da responsabilità per l'assegnazione di beni, io credo che andrebbe misurata questa espressione, però il tema è che certamente bisogna dare forza e coraggio a interventi che vanno nella direzione di assegnare i beni. D'altronde, se si assumono procedure trasparenti, pubbliche e imparziali all'interno di una logica anche di coprogettazione, non si rischia assolutamente nulla. Quindi, ci sono tutte le condizioni per poter perseguire questo obiettivo.
Ricordo anche, come dicevo prima, che non solo gli appalti sono un elemento di pubblicità e trasparenza, ma anche l'articolo 12 della legge n. 241 del 1990, che dice che prima di assegnare un vantaggio a soggetti terzi bisogna predeterminare i criteri. Questo è un modo sufficiente a garantire la trasparenza e la pubblicità. Quindi, l'assegnazione di beni si può fare anche sulla base di questo principio.
Sulla legge unica e sui regolamenti, non so bene se l'onorevole Iaria avesse in mente una legge specifica che ricalchi i regolamenti. Su questo anch'io sono un po' dubbioso. Come ho detto in precedenza, sarei un po' attento a fare leggi generali su questa materia. Propenderei più per interventi micro e puntuali e meno per leggi di carattere generale, perché è istintivo il carattere del legislatore di dare definizione, ma nel momento in cui dà definizione in qualche modo sta limitando i processi che poi si faranno sul territorio. Quindi, secondo me questo è un rischio. Bisogna essere estremamente attenti e agire con grande prudenza.
Qualcosa di buono i legislatori regionali hanno fatto. Ad esempio, il Lazio, la Toscana, l'Umbria hanno fatto delle leggi regionali sull'amministrazione condivisa che sono state rispettose dei processi territoriali. Allora, quello va bene, però a livello nazionale non so quanto sia utile.
Vengo alle ultime due questioni. Sulla guida complessiva, cioè su una guida politica di tutto questo processo bisogna un po' intendersi. Se il tentativo è quello di rendere l'amministrazione condivisa parte di politiche pubbliche, cioè concepire l'amministrazione condivisa, il protagonismo della cittadinanza come una missione dell'amministrazione locale, ecco, allora c'è bisogno di fare questo. Noi dovremmo intendere l'amministrazione condivisa, l'attivazione delle comunità come se fosse una funzione dell'amministrazione che si aggiunge alle altre. In questo senso, penso di sì. Se, invece, per guida complessiva si intende una preponderanza politica che però finisce un po' per fare i buoni e i cattivi delle esperienze, ecco, su questo sarei un po' più prudente, perché il rischio che poi diventi soprattutto uno strumento di consenso per la politica e non più uno strumento di rigenerazione del territorio e di attivismo è molto forte. So che non è facile stabilire un confine, però almeno tra di noi forse bisogna dircelo: se c'è un ruolo preponderante della politica che intende in Pag. 16qualche modo guidare questi processi, nel senso di dire «quello è buono, quello è cattivo», ecco, su questo avrei qualche dubbio.
Sul sostegno ai comuni, sicuramente c'è il discorso delle risorse economiche, però se per risorse economiche si intende fare dei bandi a cui i comuni possono partecipare, questo lo fanno spesso le regioni e tutto sommato che lo faccia anche lo Stato non so quanto possa aver senso. Secondo me, ciò che invece può fare l'amministrazione centrale è aiutare l'amministrazione a fare quel passo che dicevo prima, per esempio creare nuove figure professionali, dare spazio a quelle relazioni di natura informale, riconoscere un modo di amministrare che non è solo per prodotti (quanti provvedimenti hai fatto), ma anche per processi, per risultati. Su questo credo che l'amministrazione nazionale, il Dipartimento per la Funzione pubblica possa fare veramente tanto.
Qui occorre un cambio di cultura e se c'è un accompagnamento consapevole del livello nazionale secondo me si dà un grande contributo. Penso che su questo ci sia un ruolo da svolgere.
PRESIDENTE. Grazie, professore, per questo contributo davvero importante e ricchissimo di spunti, di informazioni e anche di sfide che sono state lanciate e che cercheremo di di cogliere e di portare avanti.
Le idee che lei ha lanciato su quelli che possono essere anche spunti per azioni e iniziative in campo legislativo potranno magari essere approfondite insieme in una prossima occasione.
Dichiaro chiusa l'audizione.
La seduta termina alle 16.