Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3
Seguito dell'audizione di Mario Mori, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo e di Giuseppe De Donno, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo, nell'ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D'Amelio:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3
Mori Mario , generale dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 3
Colosimo Chiara , Presidente ... 11
Nave Luigi ... 12
Colosimo Chiara , Presidente ... 12
Nave Luigi ... 12
Colosimo Chiara , Presidente ... 12
Verini Walter ... 12
Colosimo Chiara , Presidente ... 12
Gasparri Maurizio ... 13
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 13
Colosimo Chiara , Presidente ... 13
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 13
Colosimo Chiara , Presidente ... 14 ... 15
Maiorano Giovanni (FDI) ... 15
Colosimo Chiara , Presidente ... 15
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 15
Colosimo Chiara , Presidente ... 15
Verini Walter ... 15
Colosimo Chiara , Presidente ... 17
Mori Mario , generale dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 17
Verini Walter ... 18
Mori Mario , generale dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 18
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 19
Colosimo Chiara , Presidente ... 19
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 20
Colosimo Chiara , Presidente ... 21 ... 21
Cantalamessa Gianluca ... 21
Mori Mario , generale dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 22
Colosimo Chiara , Presidente ... 22
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 22
Colosimo Chiara , Presidente ... 25
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 25
Colosimo Chiara , Presidente ... 26
De Corato Riccardo (FDI) ... 26
Mori Mario , generale dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 27
Colosimo Chiara , Presidente ... 28
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 28
Colosimo Chiara , Presidente ... 28
Provenzano Giuseppe (PD-IDP) ... 28
Colosimo Chiara , Presidente ... 29
Provenzano Giuseppe (PD-IDP) ... 29
Colosimo Chiara , Presidente ... 29
Provenzano Giuseppe (PD-IDP) ... 29
Colosimo Chiara , Presidente ... 29
Provenzano Giuseppe (PD-IDP) ... 29
Colosimo Chiara , Presidente ... 29
Provenzano Giuseppe (PD-IDP) ... 29
Colosimo Chiara , Presidente ... 29
Mori Mario , generale dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 30
De Donno Giuseppe , colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo ... 30
Colosimo Chiara , Presidente ... 31
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO
La seduta comincia alle 10.35.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Buongiorno a tutti. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso, nonché via streaming sulla web-tv della Camera.
Seguito dell'audizione di Mario Mori, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo e di Giuseppe De Donno, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo, nell'ambito del filone di inchiesta sulla strage di via D'Amelio.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione di Mario Mori, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo e di Giuseppe De Donno, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo, nell'ambito del filone di inchiesta sulla strage di via d'Amelio. Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell'audito o dei colleghi e in tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Do la parola al generale Mori per il finale della sua relazione e poi passiamo direttamente alle domande. Prego, generale.
MARIO MORI, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo. Buongiorno a tutti. Mi riallaccio alle dichiarazioni rilasciate dal dottor Giuseppe De Donno nell'audizione del 16 aprile scorso. L'indagine mafia-appalti con i suoi contenuti sostenuti in maniera convinta prima da Giovanni Falcone, poi da Paolo Borsellino, ridefiniva l'approccio investigativo alle indagini sulla gestione degli appalti pubblici, individuando in molti tra politici e imprenditori non già le vittime dell'organizzazione mafiosa bensì dei concorrenti nel loro illecito condizionamento. Già nel giugno del 1990 davanti alla Commissione parlamentare dell'epoca, il dottor Falcone aveva fatto comprendere l'ampia dimensione del fenomeno che interessava l'intera Sicilia e presentava potenziali connessioni a livello nazionale. La partecipazione di personalità politiche emersa durante l'indagine, delineata ma non ancora compiutamente definita nelle dimensioni, apriva nell'inchiesta prospettive delicate, ma ineludibili. La determinata presenza della componente mafiosa manifestatasi in più procedimenti giudiziari connessi alla problematica degli appalti, sviluppati anche fuori dalla Sicilia, consentiva e avrebbe logicamente imposto di tenere unite le varie vicende che emergevano progressivamente nelle indagini. In pratica, per la prima volta in un'inchiesta di questo tipo, avrebbe potuto essere ipotizzato nei confronti di tutti i responsabili accertati il reato di concorso in associazione per delinquere di tipo mafioso, rendendo quindi più incisiva l'azione di contrasto delle istituzioni. Le annotazioni del ROS fornivano le prime indicazioni su attività e protagonisti di uno spaccato significativo della borghesia siciliana non solo imprenditoriale, ma anche politica, amministrativa e delle professioni. In quel contesto emergevano anche una serie di rapporti, per noi preoccupanti, tra più di un magistrato ed Pag. 4esponenti collegati a personalità e ambienti discutibili, se non proprio criminali. Valgano al riguardo la notoria frequentazione dei due capi delle Procure più importanti della Sicilia, Pietro Giammanco e Gabriele Alicata, con i discussi esponenti politici Mario d'Acquisto e Salvo Lima; la difficile situazione personale del magistrato agrigentino Fabio Salamone a fronte dell'inchiesta che riguardava direttamente il fratello Filippo, uno dei maggiori protagonisti del condizionamento illecito degli appalti pubblici in Sicilia; la parentela del magistrato Francesco Messineo con Sergio Maria Sacco, fratello della moglie – Sacco, più volte indagato per reati di mafia e sempre scagionato, compreso un arresto nell'ambito delle indagini per l'omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, nel 2009, e quindi nel periodo in cui Messineo dirigeva la procura di Palermo, verrà condannato per associazione per delinquere finalizzata alla ricettazione, per aver operato, d'intesa con un gruppo criminale legato al noto esponente mafioso di Partinico, Vito Vitale; la posizione dell'aggiunto della Procura della Repubblica di Palermo, Vittorio Aliquò, la cui cognata, Giulia Gemmato Aliquò, era la più diretta collaboratrice del commercialista palermitano Piero Di Miceli, il professionista che all'epoca tutelava gli interessi mafiosi in tutti i più importanti procedimenti fallimentari tenuti a Palermo; lo stretto e non del tutto lineare rapporto tra il Di Miceli e il dottor Pietro Giammanco, Procuratore della Repubblica di Palermo; l'acquisto nell'anno 1980 a Palermo da parte del dottor Guido Lo Forte, sostituto procuratore cointestatario dell'indagine mafia-appalti di un alloggio dell'Immobiliare Raffaello, gestita da imprenditori notoriamente legati ad ambienti mafiosi; altri appartamenti nello stesso periodo, sempre da parte dell'Immobiliare Raffaello, erano stati venduti ai familiari del dottor Giuseppe Pignatone, anch'egli cointestatario dell'indagine del ROS sugli appalti; il conflitto di interessi prospettatosi al dottor Giuseppe Pignatone, coassegnatario dell'altra indagine del ROS sulla società SIRAP, che coinvolgeva anche l'attività del padre Francesco; le accuse, successivamente giudicate infondate, rivolte dai collaboratori di giustizia Giovanni Drago e Gaspare Mutolo ai magistrati Giuseppe Prinzivalli, all'epoca Procuratore della Repubblica di Termini Imerese, Pasquale Barreca, Francesco d'Antoni e Domenico Mollica presidenti di Corte d'assise d'appello palermitani e Carlo Aiello, consigliere di Corte di cassazione, indicati come responsabili di aver aggiustato una serie di processi di mafia; il suicidio del dottor Domenico Signorino, pubblico ministero del maxiprocesso a Cosa nostra, avvenuto in coincidenza con le accuse di collusione con ambienti mafiosi, a lui rivolte dai pentiti Drago e Mutolo.
Le archiviazioni proposte e ottenute dalla Procura di Palermo in merito alla nostra inchiesta che seguivano mancate deleghe di indagine, a cominciare da quelle delle annotazioni dell'agosto del 1990, coinvolgenti alcune personalità politiche, dimostravano che l'iniziativa non aveva ottenuto la considerazione che, anche per le sue potenziali prospettive, noi carabinieri ritenevamo meritasse e che il chiaro interesse mostrato da Giovanni Falcone e poi da Paolo Borsellino avrebbero almeno consigliato. Questo non fu solo il nostro giudizio, ma anche quello di Giovanni Falcone, appunto, che in più occasioni e, in particolare, dopo i pochi arresti del luglio 1991, aveva commentato con grande delusione gli sviluppi dell'inchiesta confidando alla giornalista Liana Milella che riteneva riduttiva la scelta di arrestare solo certe persone e che non si volevano sviluppi di alcun genere nei confronti dei politici. Le iniziative assunte da parte dei requirenti incaricati della trattazione delle indagini sugli appalti, sono state quindi un prodotto di un approccio parziale che, oltre a indebolirne l'intrinseca potenzialità, ne ha danneggiato lo sviluppo. Valgano al riguardo la consegna senza omissis già nel luglio del 1991 alle difese degli indagati dell'annotazione base dell'indagine mafia-appalti, a cui ha fatto seguito il 14 agosto 1992 la parziale archiviazione relativa a molti soggetti indicati nella annotazione del 16 febbraio 1991. Tutto ciò, mentre, sempre nel luglio 1991, il procuratore Giammanco, dopo aver suddiviso Pag. 5l'indagine attivando altri uffici giudiziari siciliani, realizzandone così una scontata dequalificazione sotto l'aspetto del reato associativo, con un atto illecito volto a svalutarla completamente, aveva inviato l'annotazione base del ROS al Ministro della giustizia, tentando di farla passare come un'informativa di natura politica, senza poi tenere conto, come si seppe poi in tempi successivi, che già dopo pochi giorni dalla sua consegna, grazie sempre al Procuratore Giammanco, l'annotazione del ROS era in mano a Cosa nostra.
L'insieme delle attività che poi prenderà la denominazione giornalistica di dossier mafia-appalti, ha rappresentato obiettivamente per me e per Giuseppe De Donno una serie di brucianti sconfitte. Infatti, più volte, nel corso dell'attività sviluppata in Sicilia, ci è stata chiusa «la porta in faccia», come si dice, costringendoci ogni volta a ricominciare da capo, fino a obbligarci a desistere. Mi riferisco precisamente: all'estromissione dell'attività d'indagine del dottor Alberto Di Pisa che, trascinato in uno scandalo da cui solo dopo parecchi mesi sarà giudicato del tutto estraneo, fu costretto ad abbandonare l'inchiesta condotta da noi carabinieri su di un comitato d'affari, riconducibile a Vito Ciancimino, che avrebbe dovuto interessare anche l'allora sindaco di Palermo, Leoluca Orlando; al voltafaccia del professor Giuseppe Giaccone, sindaco di Baucina, che, dopo aver rivelato a Giovanni Falcone come veniva alterato il sistema degli appalti in Sicilia, affidato per legge alla protezione dell'Alto commissario antimafia, si pentì di essersi pentito; alla mancata possibilità di sviluppare a livello regionale e nazionale i contenuti delle nostre informative preliminari del luglio-agosto 1990, riguardanti le attività di personalità politiche, non essendoci mai state concesse deleghe di indagine al riguardo; alla tragica morte del dottor Paolo Borsellino che, oltre alla sua vita e a quella della scorta, stroncò anche le possibilità di collegare la nostra inchiesta a quella milanese «Mani pulite», possibilità che avrebbe potuto segnare, all'esito, non solo un fondamentale momento di contrasto a un sistema illecito che drenava rilevanti risorse pubbliche, ma anche una rigenerazione dell'intero sistema economico nazionale; all'archiviazione di una parte significativa della nostra indagine, a 25 giorni dalla morte di Paolo Borsellino, che la stava sostenendo, decisa dal GIP Sergio La Commare, dando anche l'impressione di essere stata non casualmente depositata il 14 agosto 1992, in un periodo cioè di scontato disinteresse per qualsiasi attività che non fosse quella dello svago e del riposo, così da farla passare, come avvenne, sotto un pressoché tombale silenzio; alla decisione tranciante, assunta dal dottor Gabriele Alicata, Procuratore della Repubblica di Catania, a cui si deve la disarticolazione dell'inchiesta che il dottor Felice Lima e il capitano De Donno avevano impostato sulle dichiarazioni del geometra Li Pera, depotenziando e alla fine rendendola carente sotto l'aspetto del reato associativo con il suo smembramento tra le procure di Caltanissetta, Catania e Palermo; all'omesso collegamento di tale inchiesta di Massa Carrara con la nostra su mafia-appalti che avrebbe imposto di dare comunque una dimensione nazionale all'azione di contrasto al fenomeno dell'illecito nella concessione degli appalti pubblici; all'impedita possibilità per i carabinieri del ROS di potere partecipare alle indagini connesse alla formale collaborazione di Angelo Siino, malgrado le iniziali e lunghe indagini svolte dal Reparto sull'imprenditore; al rifiuto opposto a Vito Calogero Ciancimino di esporre la sua versione sul condizionamento degli appalti pubblici, fornito cioè da chi quel sistema, che coinvolgeva anche politica e imprenditoria, aveva gestito in prima persona e per lungo tempo.
In questo contesto poi si è verificato addirittura l'impensabile, cioè che l'annotazione del ROS, depositata nel febbraio 1991, quasi nell'immediatezza, e prima ancora delle conclusioni delle attività proprie della polizia giudiziaria, secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti mai smentite, era stata consegnata a Cosa nostra dal titolare dell'indagine, cioè il Procuratore della Repubblica di Palermo in carica, tramite due personalità politiche, gli onorevoli Mario d'Acquisto, già vicepresidente della Camera Pag. 6dei deputati e presidente della Regione Siciliana, e Salvo Lima, parlamentare nazionale poi europeo. In tal modo, già nella primavera del 1991, Cosa nostra poteva definire le sue contromisure: valgano soprattutto, ma non solo, le stragi di Capaci e di via d'Amelio. Gli atti attribuiti in particolare a Pietro Giammanco, se posti in essere da un qualsiasi cittadino italiano, appena conosciuti, avrebbero comportato l'immediata emissione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per concorso aggravato in associazione per delinquere di tipo mafioso. Invece, nessun ufficio requirente o singolo magistrato ha sentito all'epoca obbligo morale, prima che professionale, di denunciare pubblicamente i fatti, così da chiarire in particolare gli aspetti che investivano il mondo politico e giudiziario e che, se adeguatamente sviluppati, avrebbero forse potuto dare una più ampia portata alle indagini sulle vicende connesse alle stragi del 1992-1993 che ancora oggi presentano vuoti conoscitivi.
Respinti in Sicilia, riproponemmo la stessa tecnica di indagine sul condizionamento degli appalti, in Campania e in Calabria, ottenendo qui significativi risultati, frutto della piena collaborazione con i magistrati delle due procure della Repubblica interessate e malgrado che, anche in queste vicende, oltre che esponenti della criminalità organizzata e dell'imprenditoria, fossero protagonisti personalità politiche. Gli esiti di queste inchieste hanno dimostrato quindi che anche in Sicilia potevano ottenersi risultati migliori se vi fosse stata collaborazione tra magistrati requirenti e investigatori. Si ha un bel dire, come sostengono anche alcuni componenti di questa Commissione, che, successivamente, le vicende a base dell'inchiesta mafia-appalti vennero riprese e trattate. Questo è vero, ma ciò è avvenuto in una fase successiva a quella connotata dalla presenza e dall'attività di Paolo Borsellino e dell'azione investigativa del ROS, che non fu più sollecitata una volta ripresa l'inchiesta. I detrattori della nostra attività omettono infatti di precisare che, con il deposito dell'informativa SIRAP del settembre 1992, cessò praticamente il rapporto di collaborazione tra la Procura di Palermo e il ROS, e non per volontà dei carabinieri. In tal modo, si evita di dover spiegare le diverse inadeguatezze da noi lamentate che hanno caratterizzato le attività di alcuni magistrati siciliani nel periodo in cui il ROS era realmente operativo nell'isola. Peraltro, i requirenti palermitani, anche in successione di tempo, hanno agito sempre in modo settoriale e con un approccio angusto rispetto all'indagine, perdendo di vista quella strategia complessiva che l'indirizzo prefigurato da Giovanni Falcone e le iniziative di Paolo Borsellino – volte a rivitalizzare mafia-appalti e a stabilire intese con Antonio Di Pietro, che conduceva «Mani pulite» – uniti ai primi esiti di altre inchieste, consentivano. Si sarebbe dovuto considerare infatti nello stesso contesto investigativo la documentazione trasmessa dalla Procura della Repubblica di Massa Carrara e quella sugli appalti nel comune di Pantelleria, inviata proprio dal procuratore Borsellino, che avrebbero dato una dimensione più ampia all'azione di contrasto, ma ciò non è avvenuto. L'impatto sul problema del condizionamento criminale degli appalti è stato inferiore a quanto potenzialmente ottenibile e comunque insufficiente per stroncare il fenomeno. Sempre in merito all'assunto che le vicende alla base dell'inchiesta mafia-appalti vengono riprese e trattate dopo la morte del dottor Borsellino, faccio osservare la circostanza che fu la Procura di Catania a trasmettere a Palermo nell'estate del 1992 una parte della propria indagine sulle dichiarazioni del geometra Li Pera e, come accennato, vi fu l'accordo per la ripartizione sulle competenze tra la procura di Milano e quella di Palermo. Un fatto è archiviare un'indagine scaturita da un'indagine di polizia giudiziaria, altro è assumere la stessa decisione quando l'indagine è in materia di collegamento con altre autorità giudiziarie.
Sul finire del secolo scorso le personalità migliori della magistratura requirente nazionale avevano compreso che il fenomeno della criminalità organizzata, per le dimensioni raggiunte e per le sue dirette implicazioni sul sistema economico nazionale, non poteva essere più combattuto con Pag. 7le normali, ma ormai inadeguate prassi giudiziarie applicate sino ad allora, bensì con un salto di qualità che ne considerasse la più ampia dimensione raggiunta. Si può ritenere che le decisioni assunte nel periodo 1989-1992 in Sicilia, siano state il frutto di un approccio che prescindeva dalla volontà di favorire l'organizzazione mafiosa, ma le azioni del Procuratore Giammanco e di qualche altro magistrato diede allora a noi carabinieri l'impressione che dietro la loro decisione ci fosse un disegno preciso, almeno quello cioè di tutelare ambiente e persone collocati in posizione di alto prestigio politico e sociale, perché, in quell'ambito, le indagini non vengono certamente condotte con la dovuta determinazione. Al riguardo faccio due nomi a puro titolo esemplificativo. Filippo Salamone, parente di un magistrato in servizio in Sicilia, e Pietro Catti De Gasperi, parente di un uomo politico che ha connotato un periodo della nostra storia. In quella fase, era proprio l'estensione dell'indagine che si voleva evitare. Così la pensava peraltro, come già ricordato, anche Giovanni Falcone. Si vedano al proposito i suoi appunti, i cosiddetti diari, e contro questa soluzione si stava adoperando con tutte le sue forze, Paolo Borsellino. L'incomprensibile e ingiustificabile dimenticanza, malgrado l'ampio margine di tempo disponibile, di interrogare sui fatti connessi alla morte di Paolo Borsellino il dottor Pietro Giammanco, l'uomo che aveva consegnato l'annotazione di base del ROS a Cosa nostra, pesa poi su queste vicende come un macigno che nessuno dei vari magistrati, coinvolti in quel complesso di indagini, a tutt'oggi ha voluto affrontare e spiegare in maniera adeguata. E non si venga a dire che il documento degli otto magistrati che, dopo la strage di via d'Amelio a minacciare le dimissioni, fu una prestigiosa denuncia contro l'operato del Procuratore, perché, in quella circostanza, costoro trattarono quasi esclusivamente problemi di sicurezza, limitandosi a chiedere l'invio in Procura di una personalità più forte, senza mettere però mai in dubbio la correttezza professionale o evidenziare gli ostacoli posti all'attività di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, ma anche di noi carabinieri, da parte di Pietro Giammanco. I malintesi e gli attriti sorti in quella circostanza per un lungo lasso di tempo hanno reso poi difficile, se non del tutto improduttivo, il rapporto tra le Procure siciliane più importanti e il ROS che, al di là dell'essere il Reparto a cui l'Arma affidava la competenza investigativa nazionale nel settore della criminalità organizzata, aveva svolto le indagini e redatto le prime informative sul condizionamento degli appalti pubblici, rappresentando già all'epoca, per i risultati conseguiti sul terreno, se non la migliore, certo una delle più efficaci espressione operative dello Stato nell'azione di contrasto alle forme criminali più evolute. Il danno alla complessiva azione repressiva portata avanti dalle istituzioni veniva accentuato anche, nella fase più grave dell'attacco mafioso allo Stato, dalle prese di posizione di alcuni magistrati, esplicitata con atteggiamenti emotivamente ben sopra le righe, se è vero che, nell'immediatezza della strage di via d'Amelio, dalla scalinata del tribunale di Palermo, uno dei più noti tra loro, il sostituto procuratore Vittorio Teresi, a nome dei colleghi e ripreso dalla stampa nazionale e dalle televisioni, aveva addirittura proposto pubblicamente di chiudere il tribunale per cinque anni – affermazione che oggettivamente costitutiva una chiara resa a Cosa nostra. Un magistrato, se consapevole delle sue attribuzioni e del ruolo ricoperto, non poteva dare un esempio così platealmente negativo non solo a chi nelle istituzioni continuava a operare con impegno e senza tentennamenti, ma soprattutto alla pubblica opinione, già di per sé intimorita e preoccupata, com'era in quei giorni quella dell'intera Nazione e della Sicilia in particolare. Anche il dottor Caponnetto, uscendo dalla camera ardente di Paolo Borsellino, esclamò «È finita!», volendo significare che, con quella morte, il contrasto a Cosa nostra subiva a suo parere un colpo decisivo, ma successivamente, con parole umanissime, se ne scusò, definendo quell'espressione un cedimento momentaneo, frutto del fortissimo dolore provato dalla circostanza. Altri invece non hanno ritenuto di Pag. 8dover fornire qualche spiegazione alle loro esternazioni.
Con la nostra assistenza professionale abbiamo suscitato la disapprovazione di alcuni magistrati di Palermo che hanno ritenuto, testuale, «ipertrofica» la nostra attività di polizia giudiziaria. Anche la Corte d'assise d'appello di Palermo, pur assolvendoci, ha giudicato improvvida per alcuni aspetti la nostra azione investigativa. Qualche altro magistrato palermitano, infine, con un'espressione che ne denota solo la personale meschinità, considerando la mia complessiva vicenda professionale, mi ha attribuito una matrice genetica «strana» – beato lui! Quindi, secondo questa valutazione, a fronte di una Procura della Repubblica che si mostrava decisamente attendista, se non addirittura remissiva verso Cosa nostra e comunque contraria anche alle iniziative dei suoi uomini migliori – vedasi il contrasto all'azione prima di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino – avremmo dovuto operare con maggiore prudenza, adeguandoci cioè a quei rituali investigativi legati a tanti lutti e a tanti insuccessi. Noi, invece, come il dovere ci imponeva, tentammo di fare qualcosa che migliorasse l'efficienza della nostra azione, avvertendo peraltro, delle attività messe in atto, ben individuate personalità istituzionali e cioè: Liliana Ferraro, direttore dell'Ufficio affari penali del ministero della Giustizia, Fernanda Contri, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, e Luciano Violante, presidente della Commissione parlamentare antimafia, oltre ovviamente ai nostri superiori gerarchici. Tutti costoro se avessero ritenuto che fossimo stati partecipi di chissà quale progetto illecito ovvero portatori di un messaggio indebito, avrebbero avuto la possibilità, anzi il dovere, di fermarci e di denunciarci, ma ciò non è avvenuto e tuttavia nessuno li ha chiamati a rispondere insieme a noi. Invece, nella mia competenza di responsabile di un Reparto di polizia giudiziaria, mi astenni di proposito dall'informare la Procura di Palermo sino a quando, nel gennaio 1993, non venne cambiata la direzione dell'ufficio e questo perché diffidavo del Procuratore Giammanco e di qualche altro magistrato.
In conseguenza della mia azione di comando, sono stato sottoposto a tre procedimenti penali. Imputato, in separati giudizi, con il mio superiore gerarchico e con tre diversi ufficiali dipendenti, chiamati in causa per vicende giudiziarie tra loro artificiosamente divise, fatti cioè oggetto di accuse formalmente distinte, ma sostanzialmente tutte riconducibili allo stesso contesto operativo, se è vero che, oltre ai nostri difensori, anche illustri giuristi, quali Giovanni Fiandaca e Tullio Padovani, hanno sostenuto la tesi che, nella successione dei processi, fosse stato violato il principio rappresentato dal ne bis in idem, a significare cioè che i procedimenti erano legati non solo da un filo investigativo unico, ma anche da una precisa correlazione giuridica. Appare comprensibile che indagini di grande impegno, sia pure condotte da investigatori e magistrati professionalmente preparati, possano presentare aspetti che a una disamina accurata, fatta però con conoscenza ottenuta a posteriori, evidenziano qualche lacuna o superficialità. A noi, dagli esponenti della Procura della Repubblica di Palermo dell'epoca e da qualche giudice di quel tribunale, non ne è stata perdonata nemmeno una. Ad altri, loro colleghi compresi, molte. Il più emblematico dei processi subiti è il procedimento giornalisticamente denominato «Trattativa Stato-mafia», quello cioè che Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e io abbiamo affrontato con l'accusa di avere minacciato il Governo della Nazione, noi che, come ufficiali dell'Arma dei carabinieri, avevamo il preciso dovere di tutelare e, a favore di non si sa chi, lo avremmo fatto d'intesa con Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, contro i quali abbiamo condotto una parte significativa della nostra vita professionale. Il procedimento, iniziato il 7 marzo 2013, con rinvio a giudizio per violenza aggravata a corpo politico, amministrativo e giudiziario, cioè, nella fattispecie, al Governo nazionale, è terminato dieci anni dopo, il 27 aprile 2023, con la nostra assoluzione per non aver commesso il fatto. L'esito dei Pag. 9processi, però, non ha ancora convinto in tutti i nostri instancabili critici, a cominciare dal dottor Antonino Di Matteo che, malgrado sia in atto componente della Procura nazionale antimafia e già rappresentante dell'accusa nel processo sulla cosiddetta «Trattativa Stato-mafia», ha scritto un libro, intitolato «Il colpo di spugna», per criticare, a mio avviso ben al di là del limite consentito alla deontologia di un magistrato in servizio, non tanto le nostre azioni, quanto e soprattutto, la decisione presa dalla Corte di cassazione. Il supremo organismo giudiziario viene accusato in pratica di aver obbedito all'ordine di assolverci perché il Paese non era ancora in grado di conoscere l'effettiva verità. In base alla tesi sostenuta dal dottor Di Matteo, vi sarebbe l'esigenza di procedere contro gli esecutori di questa serie di gravi reati da lui individuati. Tuttavia il magistrato non ha ancora indicato agli organi competenti né di quali elementi eventualmente disponga, né i nomi dei responsabili del condizionamento dei giudici della Corte di cassazione ai quali comunque sarebbe già attribuibile, allo stato, il grave illecito di essersi fatti condizionare indebitamente. Il tutto, almeno a mia conoscenza, senza che il Consiglio superiore della magistratura abbia sin qui ritenuto di prendere decisioni in merito.
La conferma di una critica incondizionata, costantemente espressa in certi ambienti, rivolta più che alle nostre persone, a un indirizzo professionale che prescinde da costruzioni o ricostruzioni imposte da una linea di condotta predefinita, è costituita da molti esempi. Per brevità, qui tratterò solo, fra le tante accuse ricevute, le opinioni sostenute dall'avvocato Fabio Repici, perché espresse anche in sede di questa Commissione. Il legale dell'ingegner Salvatore Borsellino, quindi un professionista qualificato, ha esposto le sue tesi che, per quanto attiene ai fatti che hanno riguardato me e il dottor Giuseppe De Donno, alla luce degli esiti già processualmente definiti, sono del tutto prive di fondamento. Egli sostiene che la morte di Paolo Borsellino non derivi dal suo interesse per mafia-appalti, giudicato un falso scopo inventato da noi per coprire le nostre responsabilità. Infatti, citando il tenente colonnello Carmelo Canale, Repici afferma che, nel colloquio del 25 giugno 1992 tra noi e Paolo Borsellino, non si parlò dell'indagine del ROS bensì di un anonimo di cui il magistrato sospettava che il capitano De Donno fosse l'autore. Premesso che la sentenza del Borsellino quater, quindi non noi carabinieri, ha attribuito la causa più attendibile della morte del magistrato al suo manifesto interesse per l'inchiesta del ROS, osserva che Carmelo Canale ha sempre sostenuto che il tema dell'incontro alla caserma Carini era relativo al dossier mafia-appalti. L'ufficiale, davanti a questa Commissione, ha riferito che il dottor Borsellino era a conoscenza di voci, pervenutegli da alcuni colleghi, che indicavano il capitale De Donno, quale possibile autore dell'anonimo inviato al sostituto procuratore di Catania, Felice Lima, per togliere la competenza dell'indagine mafia-appalti alla procura di Palermo. Infatti quel pomeriggio, appena il magistrato Borsellino vide l'ufficiale, esclamò, testuale: «Ho sentito parlare molto male di lei, ma se si fidava Falcone, mi posso fidare anch'io». Subito dopo, ottenuta la nostra disponibilità a proseguire l'indagine mafia-appalti, ne concordò con noi i tempi e le modalità di sviluppo. D'altro canto, non si capirebbe perché, avendo dei sospetti, il dottor Borsellino – quindi non uno sprovveduto uditore giudiziario – invece di convocare formalmente il capitano De Donno nel suo ufficio, decise di recarsi in tutta riservatezza in una caserma dei carabinieri, senza redigere un atto formale che facesse poi fede della sua iniziativa. L'avvocato Repici riprende poi precise e ripetute accuse che alcuni magistrati ci rivolgono per l'addebito nei nostri confronti di un atteggiamento omertoso per l'ingiustificabile e sospetto ritardo con cui avremmo parlato dell'incontro con il dottor Paolo Borsellino. In tutte le vicende che hanno riguardato i censori del nostro operato, nelle ricostruzioni dei fatti, quando non conviene, costoro tralasciano quei singoli aspetti contrastanti con le versioni da loro sostenute che, senza qualche omissione o qualche invenzione, non starebbero in piedi. Nella fattispecie, l'avvocato Repici, che pure Pag. 10ha partecipato con incarichi professionali alla serie dei processi relativi alla strage di via d'Amelio, dimostra di ignorare il verbale di sommarie informazioni testimoniali rese nel dicembre del 1992 dall'allora capitano Giuseppe De Donno nel quadro delle indagini svolte in merito dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta. L'ufficiale, in quella circostanza, riferì ai magistrati requirenti sui contenuti dell'incontro che il precedente il 25 giugno 1992, insieme a me, aveva avuto con il dottor Paolo Borsellino. Anche e soprattutto quei magistrati che si sono distinti per le accuse rivolteci sul nostro ingiustificabile ritardo nel riferire, non hanno mai citato questo episodio che pure, stante il loro andirivieni professionale tra gli uffici giudiziari di Palermo e di Caltanissetta che ne ha contraddistinto le loro splendide carriere, non sarebbe dovuto sfuggire loro. Altri invece sono coloro che hanno parlato a distanza di troppo tempo dei loro contatti con Paolo Borsellino: i magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo erano sostituti procuratori della Repubblica in servizio alla Procura della Repubblica di Marsala quando il dottor Borsellino riferì loro – siamo nella metà di giugno del 1992 – che un amico lo aveva tradito e che la Procura di Palermo era un nido di vipere. E questa sì, a tutti gli effetti, dopo la tragica e quasi immediata morte di chi aveva pronunciato quelle parole, era una vera e propria notitia criminis che doveva essere portata subito a conoscenza degli inquirenti. Ebbene, i due magistrati, cioè non due persone giuridicamente digiune, almeno per quanto mi consta, tardarono sino al 14 e 15 luglio 2009, cioè 17 anni, a riferire formalmente ai pubblici ministeri di Caltanissetta e solo nell'anno 2012 lo fecero in sede di testimonianza processuale. Nessuno, in questo lungo periodo di tempo, a cominciare dall'avvocato Repici e dai loro celebrati colleghi, li ha mai accusati, a mia conoscenza, di ritardi ingiustificati o addirittura omertosi, forse perché, in questo caso, indagare sul nido di vipere insediato nella Procura di Palermo sarebbe risultato oltremodo scomodo per molti.
Di questi giorni è la sentenza della Cassazione che manda assolto il noto mafioso Antonino Madonia dall'accusa di essere l'autore dell'omicidio dell'appartenente alla polizia di Stato Antonino Agostino e della sua moglie. Il Madonia, malgrado il parere contrario della stessa procura di Palermo, che non aveva ravvisato nei fatti acquisiti elementi sufficienti per sostenere l'accusa, era stato rinviato a giudizio su iniziativa del Procuratore generale, Roberto Scarpinato, che aveva riaperto il caso sulla base di un esposto presentato proprio dall'avvocato Repici. In merito, la motivazione della sentenza di archiviazione da parte della Cassazione appare emblematica, sostenendo che la tenuta logica di una decisione non dipende dalla capacità di costruire una narrazione suggestiva, ma dalla corretta applicazione delle regole processuali.
In definitiva, in tutta la complessa vicenda che ci ha riguardato, se una critica istituzionalmente è stata fatta, questa è stata rivolta ai pubblici ministeri e ai giudici di primo e secondo grado nel nostro processo a cui la sentenza della VI sezione penale della Corte di cassazione ha attribuito un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Il processo penale non è un laboratorio per l'esposizione di ardita ricostruzione di storicistiche o personali visioni del mondo, mentre le argomentazioni accusatorie che avevano condannato in primo grado me e i miei colleghi nel procedimento della cosiddetta trattativa non prospettavano nulla che si riferisse a un puntuale accertamento processuale, ma erano state assunte e sviluppate da alcuni magistrati essenzialmente sulla base di esclusive interpretazioni di natura non giuridica, bensì ideologica. Una posizione questa che, nell'elaborazione del recente anno, giudiziario, il dottor Luigi Salvato, Procuratore generale della Cassazione, ha riassunto nella definizione di populismo giudiziario.
A questo punto, seguendo una diffusa tendenza nazionale, dovrei lamentarmi per la lunga azione persecutoria rivolta contro di me, ma io rifiuto questa rappresentazione vittimistica. In questi anni, con il Pag. 11sostegno della mia difesa e l'appoggio di alcuni colleghi, ho inteso replicare in tutte le sedi consentite e con tutti i mezzi leciti di cui potevo disporre alle accuse rivoltemi dai depositari di un modo di fare politica, giustizia e informazione che ritengo arrogante e iniquo perché arbitrario e in più circostanze ho espresso loro apertamente la mia totale disistima che anche oggi, in questa sede, ribadisco. L'ho inteso fare anche per i tanti che non avevano il vissuto professionale, le possibilità economiche, la documentazione, il tempo e l'ampio sostegno di cui invece io ho goduto e che quindi hanno dovuto subire, senza potere replicare, come minimo una forte e immeritata esposizione mediatica, se non, ed è peggio, gravi danni morali e materiali, uniti anche a un ingiusto discredito pubblico esteso anche ai propri familiari. Proprio da appartenente alle istituzioni dello Stato, se ritengo doveroso che verso ogni cittadino, anzi, a maggior ragione, per gli operatori in campo giudiziario, siano eseguiti i più ampi accertamenti per fatti conseguenti alla loro attività professionale, a questo punto chiedo che, per le vicende qui descritte, questo tipo di approccio sia riservato veramente a tutti coloro che hanno avuto parte. Nell'istituzione a cui ho appartenuto, per ogni dipendente oggetto di un procedimento giudiziario, al di là del relativo esito, fa seguito invariabilmente una valutazione di tipo disciplinare volta a stabilire se, oltre a eventuali illeciti penali nell'attività svolta, emergano mancanze di natura etica o di condotta. Come è avvenuto da parte dell'Arma dei carabinieri, per tutti gli ufficiali coinvolti in queste vicende, ritengo che analogamente il Consiglio superiore della magistratura e l'Ordine nazionale dei giornalisti per queste vicende dovrebbero considerare il comportamento di alcuni dei loro appartenenti o ex appartenenti. Il mondo politico, se non altro, questo esame lo affronta periodicamente attraverso l'andamento del consenso popolare e infatti il suo ricambio si è realizzato nel tempo non solo per ragioni di età.
Questa valutazione sarebbe auspicabile in particolare per alcuni tra politici, magistrati, personalità della cultura e giornalisti, protagonisti ovvero testimoni delle tragiche vicende connesse ai fatti di Sicilia qui esaminati che oggi vanno sostenendo la loro piena conoscenza dei rapporti malati fra politica e Istituzioni di quell'epoca, analizzando criticamente insufficienze, errori e conseguenti colpe. Si veda per ultima la serie RAI, intitolata «La linea della palma» che ne ha rappresentato una significativa selezione. Bene, in buona parte si può concordare con le censure espresse, ma questi severi critici, nelle analisi di quel contesto, si ricordano solo ora di indicare alcune situazioni negative e determinati personaggi da condannare. Dico allora che costoro oggi sono del tutto fuori tempo e mi permetto di sostenere che alcuni di loro sono in malafede perché, in quei momenti, ufficialmente non hanno mosso un dito o alzato una parola o una voce per contrastare e denunciare efficacemente quelle azioni criminali di cui adesso trattano con distacco e presunzione, fino a stabilire condanne e a elaborare teorie buttate lì, senza prove, e che in alcuni casi appaiono addirittura prospettazioni farsesche. Forse in quel modo alcuni cercano di scalzare qualche responsabilità personale, altri invece tentano di conseguire nuovi utili professionali. Così agendo, potranno convincere qualche ascoltatore distratto o compiacente, ma non eviteranno la disistima di chi in quei giorni era presente e quindi conosce i fatti nei loro rispettivi sviluppi.
In conclusione, se il progressivo allontanarsi degli avvenimenti rende per queste vicende sempre più difficile l'accertamento della verità sul piano giudiziario, auspico almeno che questa ricerca venga condotta sotto l'aspetto di una coerente ricostruzione dei fatti, con una serena e distaccata disamina delle responsabilità. Questo lo si deve al concetto di Stato di diritto, a coloro che hanno pagato con la vita il proprio impegno nelle Istituzioni, ai loro familiari che pretendono giustamente una spiegazione accettabile dei fatti, ma anche chi, sopravvissuto, merita che si giunga a una verità almeno logica su una pagina tragica della nostra storia nazionale. Grazie.
PRESIDENTE. Grazie mille, generale Mori. La parola al senatore Nave.
Pag. 12LUIGI NAVE. La ringrazio presidente. Ho chiesto di intervenire perché in realtà noi come gruppo del Movimento 5 Stelle, avendo letto la relazione rilasciata dal generale Mori e dal colonnello De Donno, abbiamo riscontrato delle inesattezze e falsità e quindi con atti alla mano e documenti alla mano abbiamo deciso...la prego, presidente, mi faccia completare poi ognuno farà le sue affermazioni.
PRESIDENTE. Fate concludere il collega.
LUIGI NAVE. Per questione di tempo questa mattina abbiamo consegnato una relazione che punto per punto, con documenti alla mano, certifica la falsità e addirittura la mistificazione di alcune affermazioni. Ritengo presidente – la prego di farmi completare – che queste affermazioni sono gravi perché non fanno altro che aumentare la densità, quella coltre di fumo che già di per sé avvolge le stragi di via d'Amelio e quelle del 1993-1994. Mi ritengo oggi oltremodo indignato per quanto è stato detto. Ritengo che i colleghi possano prendere atto e formulare domande sulla base di una formulazione più corretta e sana, ma questo ritengo sia a beneficio di tutti, nessuno ha detto che si tratti di verità infusa, si può leggere e confutare così come abbiamo fatto noi. Chiedo, presidente, che la seduta venga sospesa prima delle domande e rimandarla anche a questa sera o a domani, così come chiedo che il generale Mori e il colonnello De Donno vengano auditi successivamente perché devono rispondere delle affermazioni fatte, proprio in virtù della documentazione che è stata presentata. Grazie, presidente.
PRESIDENTE. Senatore Nave, rispondo molto volentieri sia nel merito sia nel metodo. O meglio, nel merito mi sarebbe piaciuto rispondere potendo leggere quello che voi avete prodotto alle 10,05 di questa mattina e quindi non permettendo a nessuno di averne accesso. Mi faccia finire, senatore Nave, mi pare di non averla interrotta, anzi le ho permesso di parlare, quindi mi fa finire. Nel merito quindi non posso sapere che cosa avete prodotto anche se le posso dire che ho visto l'elenco degli allegati e sono tutti ampiamente presenti nell'archivio della Commissione antimafia, quindi non c'era bisogno di riprodurli. Per quanto riguarda lo scritto di ben 86 pagine che avete presentato questa mattina alle 10,05, primo: non è previsto da nessun regolamento della Commissione, vi invito a studiarli, che si presenti una relazione su cui ci si esprima come gruppo parlamentare perché le relazioni in un organo democratico si presentano e si votano, e questo non è avvenuto. Fermo restando che l'avete potuta depositare in archivio. È depositata in archivio come documento libero quindi chiunque vuole la può andare a leggere. Non intendo invece per nessun motivo, nel metodo, assecondare alla sua richiesta perché l'audizione e la consegna della relazione degli auditi è avvenuta il 16 aprile. Non devo ricordare a nessuno che giorno è oggi e non devo ricordare a nessuno che c'è stato un Ufficio di presidenza la settimana scorsa dove in effetti, se avevate una documentazione così importante la potevate presentare in quella sede e quindi permettere a tutti di avere il tempo di leggerla. Evidentemente, avete preferito farlo in questo modo e in questo tempo. Le segnalo però che, se ha delle questioni da porre, questa è la sede dove porle, sempre che ci si riesca, ovviamente, perché qui si fanno le domande e si chiede agli auditi di rispondere a eventuali dubbi.
Questa è la modalità in cui lavora una Commissione d'inchiesta e questo è il modo in cui io intendo far lavorare la Commissione d'inchiesta. Iniziamo con gli iscritti a parlare, non intendo aprire la discussione su questo punto. Senatore, non è la prima volta che vediamo queste scene. Passiamo alle domande, ho già risposto sia nel merito sia nel metodo e non ci sono appigli per continuare questa discussione. La relazione è in archivio, chi vuole può accedervi.
WALTER VERINI. Non è la padrona della Commissione, è la garante delle regole.
PRESIDENTE. Nemmeno lei è il padrone della Commissione. Ho risposto e Pag. 13appunto sono garante delle regole, che valgono per tutti, senatore Verini. Prego, senatore Gasparri.
MAURIZIO GASPARRI. Vado direttamente alle domande perché il momento è importante. Sono un pragmatico. Nonostante questo tentativo di impedire questa attività della Commissione, essa però procederà. Molte cose sono state già dette e quindi voglio che ci focalizziamo su alcuni aspetti perché il documento è ampio, la materia, ahimè, è storica e da decenni caratterizza il dibattito. L'archiviazione di una parte del dossier mafia-appalti avviene nel luglio del 1992. Secondo voi poteva essere evitata o era un atto necessario in quel momento? Seconda domanda e concludo. Secondo le motivazioni del processo cosiddetto Borsellino quater e anche secondo quanto avete esposto lei e il colonnello De Donno, la causa principale della morte del dottor Borsellino va ricercata nell'interesse del magistrato per l'inchiesta mafia-appalti. Come mai in Sicilia è necessario uccidere due magistrati – quei magistrati – con le loro scorte e sviluppare un attacco frontale alle istituzioni statali, mentre nel resto d'Italia le indagini del filone «Mani pulite» – anche oggi lei ha ricordato Carrara e altre vicende relative al cemento – si sono potute sviluppare con conseguenze eclatanti e lì invece questa situazione non potrà avere lo sviluppo? Molte risposte ce le ha ricordate anche oggi, ma vorrei cominciare dal focalizzare l'archiviazione e l'impedimento a questa attività investigativa, di cui chiaramente si parlò anche nella caserma di via Carini perché Borsellino voleva andare lui dai carabinieri perché non si fidava della Procura. Questo è un fatto ormai storicamente assodato.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Se il presidente permette, potrei rispondere io alla prima domanda del senatore Gasparri.
PRESIDENTE. Prego, colonnello.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Ritengo, ma è un mio parere, che l'archiviazione del luglio 1992 poteva essere tranquillamente evitata per vari motivi. Innanzitutto occorre ricordare una cosa fondamentale. L'informativa che presentiamo nel febbraio del 1991 non era esaustiva delle indagini svolte: il dottor Falcone ci chiese di averla a tutti i costi prima della sua partenza verso il Ministero della giustizia. Ci fu anche una discussione perché io non volevo consegnare l'informativa, sapendo che avevamo raccolto un materiale enorme che andava ancora in alcune parti sviluppato, però lo facemmo perché questa fu l'intesa con il dottor Falcone. L'informativa, oltre ad avere già chiare una serie di tante responsabilità, alla fine si concludeva con la redazione di circa 44 schede su quelli che ritenevamo i personaggi sui quali erano già stati raccolti elementi molto significativi. In più, l'archiviazione secondo me non andava fatta per un motivo molto semplice, perché l'informativa conteneva una serie di spunti investigativi che andavano sviluppati. È vero che alcune parti che furono archiviate non erano sufficienti per andare, diciamo così, in dibattimento o per ottenere delle misure, ma è anche vero che su queste parti, che erano comunque inserite in un contesto conoscitivo enorme, non ci è stata concessa nessuna delega. Quello che ho sempre lamentato – chiaramente l'archiviazione è una decisione dei magistrati della Procura, ci mancherebbe altro – è che però in quel contesto, in quel momento, sapendo ampiamente quello che avevamo fatto e quello che era successo, con la strage di via d'Amelio, sapendo l'interesse del dottor Borsellino per questa indagine, nulla vietava che ci fosse, come ne avevamo fatte tante in precedenza, una riunione in Procura per concordare come procedere. Si potevano delegare altre attività, potevamo fare altre intercettazioni telefoniche, potevamo sviluppare tutti quegli elementi che nell'informativa si diceva sarebbero stati sviluppati. A ragione di questo faccio un solo esempio. Questo diverso approccio rispetto al non prendere in considerazione quello che può portare a ulteriori conseguenze, chi invece lo prende in considerazione è il dottor Borsellino con Pag. 14l'attività che svolse a Marsala. Partendo da alcune nostre indicazioni sugli appalti di Pantelleria, la Procura di Marsala del dottor Borsellino sviluppò adeguatamente ancora le indagini che avevamo fatto e arrestò, credo, una ventina di persone solamente per alcuni appalti a Pantelleria. Allora questo metodo poteva essere usato anche con questa archiviazione, ma le dirò di più. Molto spesso siamo stati accusati del fatto che l'archiviazione fosse conseguente al fatto che la Procura non conoscesse alcuni nostri atti e che non conoscesse soprattutto l'esistenza di una serie di attività che riguardavano uomini politici o altro. Questo è stato più volte detto ed è smentito non solo dall'ordinanza della dottoressa Lo Forte a Caltanissetta, ma, siccome avevamo già eseguito le intercettazioni sulla SIRAP, il famoso consorzio della Regione Siciliana che gestiva i mille miliardi per le venti aree attrezzate nella Sicilia, è smentita anche dal fatto che, alla luce delle risultanze delle indagini, avevamo chiesto alla Procura l'autorizzazione al riascolto di quei nastri. Ascolto che facemmo e ci portò a realizzare ulteriori attività, ulteriori emergenze, tanto è vero che il 30 giugno 1992 inviammo, ben prima della richiesta di archiviazione – l'autorizzazione era stata ottenuta alcuni mesi prima – in cui notificavamo alla procura di Palermo il fatto che avevamo trascritto ulteriori telefonate, che avevamo raccolto ulteriori elementi di indagine utili. Nella nostra nota dicevamo testualmente che: «Abbiamo trascritto intercettazioni telefoniche i cui relativi verbali, salvo diverso avviso della S.V., saranno inviati successivamente e contestualmente alla nota informativa concernente le illecite attività nel campo degli appalti pubblici». La nota è del 30 giugno 1992, con protocollo n. 5434/59. Per cui noi notiziammo la procura di Palermo che c'erano altre attività e altre emergenze processuali e dicemmo tra l'altro: «salvo diverso avviso» e quindi se avessero ritenuto diversamente le avremmo depositate venendo a discutere. La Procura non ci ha chiesto niente e ha archiviato comunque. Ritengo che, in risposta alla sua domanda, tranquillamente si poteva evitare l'archiviazione. Tra l'altro, non c'era nessuna fretta di archiviare e potevamo tranquillamente continuare a lavorare e sviluppare queste attività, cosa che in realtà non avvenne.
PRESIDENTE. Prego generale.
MARIO MORI, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo. Per quanto riguarda l'altra domanda, inizialmente le inchieste «Mani pulite» e «mafia-appalti» procedettero in maniera separata, anzi ci fu prima mafia-appalti e successivamente Mani pulite, condotte ovviamente dalle due procure. Dopo la strage di Capaci, Borsellino ritenne che la causa dell'attentato a Giovanni Falcone potesse essere individuata nella sua attività di contrasto all'illecito negli appalti e quindi riprese in mano l'indagine mafia-appalti che praticamente era stata, non dico archiviata, ma messa da parte dalla Procura. Qual è la differenza tra le due indagini? Nelle indagini milanesi c'erano due protagonisti negativi, cioè l'imprenditoria e la politica. Nelle indagini in Sicilia, oltre a imprenditori e politici, c'era la terza componente, che era la mafia. Quando Borsellino si rese conto dell'attività che stava sviluppando a Milano, prese ripetutamente contatti con Di Pietro e gli chiese di unire le due indagini sulla base del fatto che c'erano alcune personalità vicine ad ambienti mafiosi che erano presenti nelle due indagini, sia in quella di Milano sia in quella di Palermo. L'intesa poi non ebbe seguito per la morte di Paolo Borsellino. Perché si è stati costretti a uccidere due magistrati in Sicilia? Perché proprio la presenza mafiosa con il condizionamento rappresentato dall'intimidazione costante, che in quegli anni era veramente opprimente a Palermo, aveva imposto un alt alle nostre indagini, attraverso l'illecita diffusione della nostra indagine di base, la frammentazione della inchiesta, divisa tra più uffici giudiziari, e gli ostacoli posti ai magistrati, in particolare a Paolo Borsellino e a Giovanni Falcone, ma, oltre a loro, anche a Felice Lima e ad Augusto Lama di Massa Carrara. Questi ultimi due, Lima e Lama, furono bloccati con artifici procedurali, gli altri due Falcone e BorsellinoPag. 15 sono stati abbattuti dalla mafia. Questa è la differenza.
PRESIDENTE. Grazie mille. È iscritto a parlare l'onorevole Maiorano.
GIOVANNI MAIORANO. Sì, grazie, presidente. Ho una domanda per il colonnello De Donno. Alla pagina 14 del libro «L'altra verità», dopo la strage di Capaci, riflettendo sulle menti raffinatissime richiamate da Falcone dopo l'attentato all'Addaura del 1989, lei dice di avere un'idea su chi potrebbero essere le menti acute, i doppiogiochisti, quelli che sventolano la bandiera antimafia mentre flirtano con un sistema infetto. La semplice domanda è: chi sono?
PRESIDENTE. Prego, colonnello.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Il libro fa essenzialmente riferimento al nostro rapporto con Vito Calogero Ciancimino e il collegamento che facciamo – mi permetta questa piccola digressione – è esattamente tra le parole che Falcone pronunciò in un'intervista a Saverio Lodato pochi giorni dopo il fallito attentato all'Addaura e alcune affermazioni che faceva Vito Calogero Ciancimino. Entrambi, chiaramente in maniera diversa e tenuto conto dell'abisso che intercorreva tra i due personaggi, sostenevano, probabilmente con forme, con idee, con prove diverse, che, oltre alla mafia, esistessero collegamenti, delle menti, delle persone che, per altri fini, condizionassero le attività di Cosa nostra. Questa tesi, per carità poi tutta da dimostrare e da verificare, stranamente però trovò una coincidenza tra il pensiero di Giovanni Falcone e il pensiero di Vito Calogero Ciancimino che, ricordo, proprio con il dottor Falcone, arrestammo due volte. Nel libro, ripercorrendo quel passaggio, quelle affermazioni e quella storia, qualche idea posso averla avuta, posso averla, però chiaramente, essendo indicazioni completamente prive di un riscontro probatorio, di un riscontro documentale, di un riscontro investigativo che tra l'altro all'epoca non furono fatti e che adesso non posso più fare. È chiaro che non mi sono addentrato in indicazioni di nomi e cognomi perché lei sa bene che questo, a parte che sarebbe totalmente arbitrario e illecito, mi esporrebbe a una serie di attività giudiziarie non potendo dimostrare le mie idee. Quello che posso dirle, se mi consente, è che in realtà dall'esperienza che abbiamo maturato, sono assolutamente convinto di quello che diceva il dottor Falcone, cioè che non esisteva e probabilmente non esiste un terzo livello, intendendo un livello politico o di altro genere sovraordinato gerarchicamente a Cosa nostra. Questo non lo credo e non credo che esista perché sono mondi completamente diversi e distanti. Esistono però una serie di convergenze di interessi ed esistono sicuramente una serie di situazioni, tra cui gli appalti pubblici, in cui, difendendo le attività di uno, automaticamente si difendono gli interessi degli altri perché il sistema è interconnesso – come dicevamo – tra Cosa nostra, imprenditoria e politica. Tra l'altro in varie affermazioni, Ciancimino sosteneva esattamente questo e lo fece in molti verbali alla Procura di Palermo, cioè che secondo lui, dietro alcuni omicidi eccellenti – dove probabilmente dietro qualcuno c'era anche lui stesso – esistevano decisioni prese altrove dalla Sicilia e che per una serie di convenienze venivano fatti eseguire poi a Palermo e quindi diventavano delitti di mafia. Tutto questo è quello che poi in realtà in parte nel libro un po' lamentiamo, cioè il fatto che questa ipotesi investigativa, chiamiamola così, non fu adeguatamente sviluppata e approfondita e rimane quindi a tutt'oggi qualcosa di non dimostrato.
PRESIDENTE. Grazie mille. Prego, senatore Verini.
WALTER VERINI. Grazie, presidente. Se avessi avuto la parola, avrei richiesto semplicemente un'ora di tempo per poter leggere perché bisogna andare avanti. Non c'era nessuna volontà ostruzionistica. Chiusa questa parentesi, credo – e prego di essere creduto – di avere qui davanti due persone che hanno servito lo Stato e che per il loro servizio sono stati anche accusati politicamente,Pag. 16 ma anche sul piano giudiziario, di aver commesso errori. Sul piano penale, il vostro percorso, e il suo in particolare, generale, è uscito indenne. Ciò non toglie che ci sono state negli anni molte questioni che – io dico purtroppo, dal mio modestissimo punto di vista – hanno diviso un mondo fatto da autorità giudiziaria, fatto da magistratura che entrambe dovevano stare, debbono stare in generale, dalla stessa parte, quella della lotta contro la criminalità organizzata, per la legalità. Quindi io ho queste persone davanti. Ciò non toglie che, avendo queste persone davanti, e lei in particolare, vorrei farle brevemente qualche domanda, anche di contesto. Lo dico sinceramente e anche con una certa umiltà: non ho tutti gli elementi che possono avere – e credo anche diversi altri membri della Commissione – tutti gli elementi che hanno persone che per tutta la vita si sono esclusivamente occupate di queste indagini, di questo contrasto, di tutte queste attività. Alcune domande mi sono venute, perché ho letto anch'io libri, interviste e altre cose. Dopo le stragi e dopo gli omicidi, quando arrivò a Palermo il magistrato Giancarlo Caselli, lei, come del resto ha fatto anche il magistrato Di Pietro in audizione, ebbe a dire che quello fu un fatto positivo. Del resto Giancarlo Caselli veniva da un'esperienza di lotta al terrorismo per la quale tutti dobbiamo semplicemente metterci sull'attenti. Della rilevanza che attribuivate al tema mafia-appalti, come elemento, come motore acceleratore dell'assassinio di Borsellino e della strage di via d'Amelio, avete subito informato il magistrato Caselli? Se questo non è avvenuto, ma se foste tornati, come risulta, a parlare di mafia-appalti soltanto nel 1997, raccontando solo qualche anno dopo del famoso incontro alla caserma Carini, questo perché, se è così, è avvenuto così? Seconda domanda. Avete lavorato e avete anche arrestato, lo ha ricordato prima il dottor De Donno, Ciancimino. Tuttavia, avevate informato Paolo Borsellino delle vostre «interlocuzioni» con Vito Ciancimino? Perché mentre, a soli due giorni dall'incontro alla caserma Carini, non risulta abbiate informato il magistrato, però il colonnello De Donno parlò con la dottoressa Ferraro, persona che ho conosciuto personalmente e che stimo. Ho anche lavorato con lei, in altri ruoli naturalmente, è stata assessore alla sicurezza al comune di Roma. Perché avete avvertito il livello politico e non avete ritenuto invece di interloquire con il livello giudiziario? Un'altra domanda, questa sì, generale, «politica» nei suoi confronti. Nella sua carriera ha svolto due ruoli fondamentali, uno quello di ufficiale dei servizi e l'altro quello di ufficiale dei carabinieri. Siccome è noto che la lotta alla mafia, secondo scuole di pensiero e di azione, può avvenire sia su un piano immediatamente di contrasto e quindi con sole interlocuzioni con la magistratura requirente, come dovrebbe fare un ufficiale dei carabinieri in generale, il fatto che voi informavate, a volte, più il livello politico, vuol dire che prevaleva, in certe occasioni, e in certi casi ha prevalso in voi, essere stato ufficiale dei servizi, quindi direttamente interlocutore del Governo, del ruolo politico? Gestire politicamente il tramonto della mafia – e lei sa a chi alludo con questa frase – oppure perché non immediatamente, e contestualmente almeno, informare l'autorità giudiziaria?
Finisco con un'ultima questione, anche questa per me molto importante e di contesto. Lei è stato direttore del SISDE, è stato capo del ROS. Davvero ha avuto non solo un ruolo fondamentale nel contrasto alle mafie, ma punti di osservazione assolutamente privilegiati, e meritoriamente privilegiati. La domanda è questa: il tema mafia-appalti certamente è stato tra le cause che hanno prodotto quegli anni, ma in quei momenti, mentre si svolgevano le questioni legate a mafia-appalti, generale, accadevano in Sicilia e nel Paese dei fatti. Lei che opinione si fece, se se ne è fatta qualcuna, in quegli anni, di alcuni omicidi importanti che ci sono stati in quegli anni in Sicilia, omicidi politici, da Salvo Lima in poi? Che impressione si è fatto del ruolo svolto a cavallo tra Mani pulite e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, che poi non è mai finita per la verità, ma in ogni caso che idea si è fatta di quello che accadde sul piano politico in quegli anni, per esempio del ruolo svolto da Marcello dell'Utri in Pag. 17Sicilia e nel Paese se lei è a conoscenza di qualche ruolo? Che idea si è fatto delle stragi di via dei Georgofili, dell'attentato al Velabro, dei fatti di Milano? Pensa davvero che non ci sia connessione tra quella stagione di attentati, omicidi, dell'assassinio di Falcone e Borsellino con un contesto che aveva anche queste cose? Davvero non è una domanda polemica, ma da uno come lei mi aspetterei, se possibile, qualche valutazione. Davvero l'ultima domanda: parlo di storia, non parlo di polemica politica. In un certo periodo capitò che c'era un signore – ribadisco il ruolo di Marcello dell'Utri – un signore che si chiamava D'Alì, che faceva il sottosegretario all'interno, mentre lei era ai servizi, c'era Tinebra, insomma protagonisti – non parlo di lei – non particolarmente brillanti del contrasto alle mafie. Lei, avendo vissuto quella stagione da protagonista in ruoli di grande osservazione, non ha avuto sentore che nel nostro Paese, quindi anche in Sicilia e quindi anche legati alle stragi Falcone e Borsellino, si muovessero interessi non soltanto legati a mafia-appalti, ma anche legati alla volontà di cambiare il sistema politico e di cambiare dopo la fine della Prima Repubblica qualche esito? Le elezioni del 1987 in Sicilia furono un primo segnale. Grazie, generale.
PRESIDENTE. Prego, generale.
MARIO MORI, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo. Giancarlo Caselli a Palermo arrivò il giorno dell'arresto Totò Riina e lo conoscevo dal periodo del terrorismo, avendo lavorato con lui. Lo avevo anzitempo contattato su sua richiesta e, mi sembra l'8 o il 9 gennaio, andai da lui a Torino per fare un inquadramento sulla situazione palermitana visto che dopo pochi giorni doveva assumere la direzione della Procura. Gli fu fatto un quadro dove cercai di spiegare la nostra attività. Immediatamente, se lei noterà le date, il 15 gennaio viene arrestato Salvatore Riina, dopo pochi giorni che era stato arrestato, Ciancimino ci chiede di parlare in carcere, andiamo noi due con l'autorizzazione di Caselli, preavvertito. Convinciamo Ciancimino che non era più il caso di fare un rapporto tra polizia giudiziaria e lui, ma tra lui e la Procura di Palermo e lui accettò di parlare con Caselli. Siamo quindi a gennaio del 1993. Noi ci aspettavamo, quando iniziarono gli interrogatori di Ciancimino da parte della Procura, che a sentire il Ciancimino, che era l'autore del sacco di Palermo, quindi un personaggio che nel campo del condizionamento degli appalti era veramente il numero 1 in negativo, fossero chiamati quei magistrati che negli anni precedenti e anche all'epoca, svolgevano indagini sugli appalti, quindi Pignatone, Lo Forte, Sciacchitano e, se non loro, Aliquò, Scarpinato, De Francisci e Teresi. Invece, si presentarono a interrogare per un anno circa Vito Ciancimino, Giancarlo Caselli, che conoscevo e stimavo moltissimo come magistrato, ma che non sapeva nulla di attività antimafia – me lo consentirà – e due ragazzi, Ingroia e Patronaggio, i quali, rispetto a quegli altri che prima ho citato, non sapevano nulla. Questo mi fece capire che ancora una volta c'era da parte della Procura di Palermo l'idea di non approfondire il problema degli appalti. Recentemente in una presentazione di un nostro libro c'era presente anche Antonio Ingroia, al quale chiesi: «Ma perché lei e Patronaggio e non Lo Forte e Pignatone?» e quello sa cosa mi rispose nell'aula Koch del Senato, quindi un luogo pubblico? «Sì, ma loro non volevano e siamo venuti noi». Caselli fu informato quando è iniziata la nostra attività. Anche noi abbiamo cercato di ricostruire, ma loro hanno proceduto e non hanno rilevato. Sono problemi di loro valutazione. Non entro nella valutazione di Caselli, Ingroia e Patronaggio sul merito di quello che poteva dire e non dire Ciancimino. Faccio solo un'osservazione: è stata consentita la possibilità di parlare e sono stati concessi forti sconti di pena a personaggi come Pasquale Galasso, presenti noi, che non si ricordava il numero di omicidi che aveva fatto, come Giovanni Brusca che, oltre ad aver fatto una strage e una serie di omicidi, aveva dato l'ordine di mettere nell'acido un bambino, Santino Di Matteo, reo solo di essere il figlio di un pentito. A loro è stata data la parola e sono stati dati ampi Pag. 18sconti di pena. Perché non abbiamo voluto sentire Vito Ciancimino? Come ha detto giustamente Giuseppe De Donno, Ciancimino era un criminale, che aveva commesso una serie infinita di reati e altri più gravi li aveva commissionati ai suoi compaesani – Provenzano e Riina – ma questo non cambiava la situazione. Se si voleva affrontare il problema degli appalti lo si doveva far parlare. Al termine, fatta una valutazione su quanto aveva detto, pro e contro, si dava eventualmente qualche vantaggio. Questo non l'hanno fatto e hanno lasciato quindi il dubbio che non si volesse approfondire l'argomento.
Sono stato un ufficiale dei Carabinieri che ha svolto varie attività, ma sempre ben distinte e separate. Sono stato da giovane ufficiale operativo del servizio, ma non operativo da burletta, come nei film, ho fatto l'operativo all'estero, quindi so il mestiere. Poi sono diventato un ufficiale di polizia giudiziaria, ho fatto l'attività col Nucleo speciale di polizia giudiziaria del generale Dalla Chiesa, quindi penso che del settore della criminalità organizzata me ne intendo. Successivamente sono stato nominato direttore del Servizio, sa quando? Qualche giorno dopo l'attacco alle Torri gemelle perché in quei giorni lì eravamo solo tre o quattro che potevano fare quel mestiere: hanno scelto me, potevano sciogliere altri. Nel fare questo mestiere ho sempre capito la differenza che c'era tra l'ufficiale di polizia giudiziaria Mori e l'operativo del servizio Mori: sono due mondi che, come diceva un certo politico, sono due linee parallele che non si incontrano mai e io l'ho avuto sempre presente. Circa il rapporto con i magistrati, ho avuto sempre un grande rispetto per la loro funzione, ma non ho mai consentito che mi si dicesse cosa dovevo fare una volta che mi era stata data la delega, perché una volta che mi dai la delega da quel momento lavoro io, poi ti riferisco e tu mi dici se ho fatto bene o male, questo deve essere chiaro. L'ho sempre fatto e questo mi ha portato anche qualche problema con alcuni magistrati, ma era lo stesso stile di Carlo Alberto Dalla Chiesa, che ci ha insegnato questo sistema e che, viva Dio, ha funzionato. Chiedeva come ho potuto valutare queste situazioni che avvenivano mentre ero a Palermo nella veste di responsabile del ROS. Guardi è facile parlare, anche per me è facile parlare nel 2025. Una volta con espressione direi volgare, in un Comitato nazionale, attaccai il Procuratore della Repubblica di Palermo Paino, dicendo che lui giudicava stando con il «sedere al caldo», mentre noi eravamo fuori a lavorare. Quindi so bene come si lavorava e come si cercava di fare qualche cosa. Pensavamo di essere sostenuti in maniera totale, come era avvenuto per il terrorismo e Caselli ne era un esempio. Ho lavorato con Vigna, ho lavorato con Spataro, ho lavorato con Boccassini: erano sempre dalla parte nostra, nei limiti rispettosi della procedura ovviamente. A Palermo, ma non solo a Palermo, anche a Catania, ci siamo trovati con un approccio da parte della magistratura che era di distacco, eravamo anche noi sotto inchiesta e questo io non lo tolleravo, l'ho sempre detto a tutti. Se tu mi dai una delega è segno che mi stimi, quindi mi deve far lavorare e non sospettare su tutto. Questo approccio di sospetto fu tipico di tale procura in quel contesto di pochi anni.
WALTER VERINI. Perché generale?
MARIO MORI, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo. Questo non glielo so dire. Qualcuno parlava del Palazzo dei veleni. È difficile poterlo dire e valutare adesso i fatti dell'epoca, forse la situazione la conosce il dottor Cafiero De Raho, però quella napoletana era un'altra realtà, era tutta diversa da Palermo, mancava quella sintonia che nel terrorismo abbiamo avuto, forse per cultura diversa, per impostazioni diverse, per sospetti che c'erano, diversi. All'epoca avevamo tanto da fare, non pensavamo alle sottigliezze, riscontravano questa situazione e ne prendevamo atto, fino a un certo punto, ma nel frattempo si sommavano una serie di vicende che ci facevano sempre più tenere il distacco da questa gente. Non ho capito perché Giammanco ha fatto tutto quello che ha fatto, personalmente. Le posso dire che Giammanco non era un criminale, era una personaPag. 19 inserita in quel contesto sociale, aveva le sue relazioni con il mondo imprenditoriale e delle professioni, e con il mondo della politica. Soprattutto, c'era un gruppo di persone che riteneva in quel momento, e anche successivamente, di poter fare quello che voleva, entro certi limiti, perché la legge per loro non era la stessa, la legge per il cittadino Mario Mori a Palermo, non era la stessa del dottor Pietro Giammanco, questo è pacifico, da qui tutto il resto. Mi ha parlato di Dell'Utri e di D'Alì, certo che li ho conosciuti. Come ha detto lei, ho affrontato parecchi momenti della vita in cui ho dovuto parlare con il mondo politico. Mi sono formato dal punto di vista professionale nell'attività investigativa in cui bisogna fare come faceva san Tommaso: tocco, quindi credo, non tocco, non credo. Ci siamo sempre comportati così perché così era anche il concetto di azione del Nucleo speciale di polizia giudiziaria di Dalla Chiesa: constati i fatti e riferisci. Non avevamo il tempo allora di fare valutazioni. Lei mi chiede se le posso fare adesso. Adesso le posso fare, ma non contano, le mie valutazioni in questo momento non contano, contano quelle che facevo all'epoca. Sono stato un operativo, ho fatto dei fatti, questi fatti li ho notificati, ho pagato per qualche fatto perché qualcuno li ha giudicati non corretti, la magistratura mi ha dato ragione, quindi non mi esprimo su vicende politiche che sono fuori dal mio contesto, quindi non posso rispondere.
Le posso dire una cosa. Mi ha chiesto perché non abbiamo informato Borsellino dei contatti con Ciancimino: molto semplice. Incontro Borsellino il 25 giugno del 1992. I contatti con Ciancimino erano appena iniziati e li teneva solo Giuseppe De Donno. Ciancimino per noi, allora, e successivamente, è sempre stato una fonte informativa regolata dall'articolo 203 del codice di procedura penale per cui quello che diceva andava valutato e poi si riferiva al magistrato. All'epoca, il 25 di giugno, Ciancimino non aveva ancora detto che voleva collaborare con noi, per cui non avevo motivo di parlarne perché se a Borsellino avessi dovuto raccontare tutto quello che facevamo in quei giorni non 25 minuti – quant'è stato grosso modo il nostro incontro – ma sarebbero servite delle ore. Non parlammo quindi di Ciancimino, ci ripromettemmo di farlo successivamente. Quando? Quando ci rendemmo conto che c'erano delle ostilità da parte della Procura nei nostri confronti, mettemmo le mani avanti, come si dice. Ha chiesto del perché solo al potere politico. Liliana Ferraro non era il potere politico, era l'amica e la collega più vicina a Giovanni Falcone. Parlare adesso di queste cose è difficile. Il rapporto tra me, la Ferraro, l'avvocato Contri, Luciano Violante, Caselli, non era il rapporto con il signor ministro o il dottor Violante, era un rapporto di gente che combatteva dalla stessa parte nella stessa battaglia. Andai da Contri a questo titolo e addirittura mi chiese se volessi parlare con Giuliano Amato. Le ho risposto di averlo detto a lei e che ci pensasse lei a parlargli. Erano rapporti del tutto diversi in quel momento. Giuseppe De Donno, che frequentava continuamente Giovanni Falcone, anche a Roma, incontrandosi con la Ferraro, parlò del tentativo, su mia autorizzazione, sia chiaro, perché io comandavo, io non dirigevo, io comandavo, e quindi prima di fare qualsiasi atto i miei ufficiali chiedevano la mia autorizzazione. Autorizzai io De Donno, che aveva arrestato due volte Vito Ciancimino, di fare il tentativo di portarlo dalla nostra parte. Non so come ha vissuto quel periodo, ma in quei giorni lo Stato era in ginocchio, se lo ricorda. Caponnetto diceva che era finita. Qualcuno si nascondeva da qualche parte o comunque non faceva dichiarazioni. Qualche mio collega a Palermo non usciva più, preferiva il lavoro d'ufficio. Questa è la realtà che forse molti di voi non sanno neanche che cosa sia. In questo contesto ce ne siamo altamente fregati del potere politico. Facevamo delle indagini, volevamo dei risultati e in parte li abbiamo ottenuti. Tutti i discorsi di altra natura non mi competono, non li voglio fare perché non li so nemmeno fare.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Presidente, posso aggiungere un paio di cose?
PRESIDENTE. Prego, colonnello.
Pag. 20 GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Solo per chiarire alcune situazioni. Riguardo al discorso del Procuratore Caselli. Per tutta la vicenda Ciancimino, appena Caselli diventa Procuratore a Palermo, siamo noi che avvisiamo la Procura di Palermo dei rapporti che avevamo instaurato con Ciancimino. Questa è un'altra cosa che nel tempo è stata un po' confusa: non è la Procura che scopre questa teorica, come è stato soprannominata, «trattativa», ma siamo noi che avvisiamo Caselli perché con Caselli possiamo parlare, tanto è vero che, come diceva il signor generale, andiamo in carcere a convincerlo, su autorizzazione della Procura di Caselli. Gli abbiamo parlato di mafia-appalti? Certo che ne abbiamo parlato, ma poi i rapporti anche lì sono cambiati perché, a parte la circostanza che in Procura, come accennavo prima, quando il dottor Caselli disse che il ROS era disponibile e aveva convinto Vito Calogero Ciancimino, alcuni magistrati dissero che non bisognava neanche andarlo a sentire e Ingroia nella conferenza ha fatto i nomi, erano il dottor Pignatone e il dottor Lo Forte. Nel maggio 1993 la Procura di Palermo ci concede 33 ordinanze di custodia cautelare – Riina Salvatore più 32 – perché era arrivato il fascicolo che la Procura di Catania aveva instaurato con il dottor Lima e aveva trasmesso a Palermo per competenza. Si trattava di tutta la parte SIRAP. Con il dottor Caselli facciamo questa attività, ma anche lì succede poi qualcosa di inspiegabile. È la prima volta in cui mettiamo le mani sui Buscemi, riusciamo ad arrestare alcune persone, anche se tutta la parte sviluppata a Catania viene stravolta. Anche lì succede il fatto che non riceviamo deleghe, non viene ampliata l'indagine, ma soprattutto il dottor Caselli fa addirittura una relazione in cui mi accusa, insieme con altri magistrati della Procura di Palermo, della teorica idea della doppia informativa. Vengo sottoposto a un procedimento disciplinare dal Procuratore generale della Cassazione qui a Roma dal quale vengo assolto perché non ho commesso nessun illecito perché non esisteva nessuna doppia informativa, vicenda questa acclarata anche dal procedimento a Caltanissetta quando faccio le dichiarazioni sulle rivelazioni di Angelo Siino e quindi sull'indagine a carico di alcuni magistrati. Il clima, già a maggio 1993, dopo alcuni mesi, diventa praticamente irrespirabile. Dopo quegli arresti, che furono obbligati a essere eseguiti perché da Catania arrivò l'indagine, non potemmo più parlare, la Procura non ci diede più nessuna delega e praticamente non ci autorizzò a fare più nulla.
Su Catania le racconto solo un episodio che è agli atti perché siamo stati citati addirittura al CSM. Chiariamo subito il dubbio sulla teoria dell'anonimo che avrei scritto per spostare la competenza da Palermo a Catania. Anche questo è un falso storico, già acclarato in sede giudiziaria. Falso storico perché a un certo punto arriva un esposto anonimo in cui si dice che a Catania stanno facendo dei lavori SIRAP. Il dottor Lima fa delle indagini, bisogna ascoltare Li Pera che sa un sacco di cose. Questo anonimo diede inizio all'indagine di Catania e all'epoca qualcuno disse che l'avesse scritto il ROS e il capitano De Donno per spostare l'indagine da Palermo a Catania. Questo è falso per un motivo molto semplice: se avessi scritto questo anonimo per portare Li Pera a Catania, l'avrei portato e avremmo iniziato. Prima di andare a Catania, chiesi l'autorizzazione per iscritto – c'è il foglio documentato con firma – ai dottori Pignatone e Lo Forte e questo mi assolve. Questa accusa me l'hanno rifatta anche quando il dottor Lo Forte mi fece la querela per diffamazione a Caltanissetta e io mi salvai da questa accusa perché non portai arbitrariamente Li Pera a Catania, chiesi il permesso della Procura di Palermo di portarlo a a Catania a farlo sentire da quei magistrati e la Procura di Palermo mi autorizzò per iscritto. Se avessi scritto l'anonimo non avrei chiesto l'autorizzazione, scrivo un anonimo per sottrarre l'indagine, non chiedevo l'autorizzazione alla procura di Palermo per andarci. Quando andiamo lì e facciamo l'indagine, il dottor Lima redige una misura cautelare nei confronti di una quarantina di persone, il dottor Alicata, al momento della firma, si inalbera gli toglie la competenza, dice che il fascicolo non è Pag. 21competenza di Catania – era tutto Catania, non c'era neanche l'associazione mafiosa – stralcia una serie di parti mandandole a varie procure e manda tutto alla Procura di Palermo. Trattiene a Catania un episodio relativo all'ospedale Cannizzaro, se non sbaglio, dove era coinvolta la famiglia Costanzo. Noi seguiamo questo spezzone che resta a Catania, la procura ci delega l'intercettazione telefonica, perché era stata richiesta una misura dell'ordinanza cautelare nei confronti dei Costanzo più altri funzionari pubblici e imprenditori, una mattina vado in Procura e la segreteria del Procuratore Alicata mi chiama dicendo che il procuratore mi vuole parlare. Vado dal procuratore che mi disse: «Capitano, mi dicono che lei è venuto a chiedere notizie sulla emissione di alcune ordinanze di custodia cautelare». Rispondo affermativamente. Con fare severo mi chiese: «A che titolo lei viene a chiedere queste informazioni?». Pensavo si fosse confuso. Rispondo: «Procuratore, sto facendo intercettazioni telefoniche, li stiamo seguendo, li pediniamo per evitare che scappino. Ci sono le intercettazioni telefoniche, è normale che vengo a chiedere quando saranno emesse le misure per prepararci per l'attività». Lui mi disse: «Ma chi ha detto che io delego voi per gli arresti?». A quel punto non le ripeto per decenza tutta la frase che dissi. «Procuratore, lei sta scherzando o sta parlando seriamente?». «Sto parlando molto seriamente». Allora gli dissi: «Per quanto mi riguarda, lei può delegare anche la forestale – all'epoca la forestale non era ancora nei carabinieri – in questo momento rientro in caserma, rimetto la delega, stacco i telefoni e non mi interesso più. Se vuole parlare con me, da questo momento in poi è lei che viene in caserma». Chiudemmo i rapporti con Catania, non ci delegò le indagini, non ci delegò gli arresti e non ci diede nessun'altra delega. Questi erano i rapporti che avevamo con alcuni magistrati. Ultime due annotazioni. Viene ripetuto ancora una volta – forse è un suo lapsus: io non ho riferito dell'incontro del 25 luglio nel 1997, lo abbiamo riferito nel 1992 quando la procura di Caltanissetta ci ha chiamato e ci ha chiesto queste cose, ci sono gli atti processuali, quindi anche questa teoria che abbiamo raccontato dell'incontro del 25 luglio anni dopo la strage, è falsa. Circa la dottoressa Ferraro, la conoscevo perché me l'aveva presentata il dottor Falcone dato che, come lei sa, si occupò della costruzione dell'aula bunker a Palermo per il maxiprocesso. Era una persona con cui avevamo creato un certo rapporto e quindi c'era una certa sintonia ed era una delle persone a cui Falcone era più legato, quindi è normale che dopo la strage ci fossero questi contatti. Andai da lei al Ministero, dove aveva preso il posto del dottor Falcone, e le parlai di questa cosa. Lei mi disse che ne avrebbe anche riferito al dottor Borsellino tant'è vero che – anche su questo c'è documentazione processuale – lei ne parlò a Borsellino in un incontro all'aeroporto credo di Roma Ciampino, non so dove si incontrarono, e la dottoressa riferisce che Borsellino non dimostrò molto interesse per questa cosa e anzi, in quella circostanza, si mise a parlare di mafia-appalti. Tra l'altro, e chiudo, il 25 giugno l'incontro fu molto stringato. Borsellino mi disse di preparare tutto quello che serviva e di fare un piano per riprendere le indagini e poi quando sarebbe tornato dalla rogatoria in Germania ne avremmo riparlato. Non abbiamo più fatto un altro incontro. Tutto qui.
PRESIDENTE. Propongo che la Commissione prosegua i lavori in seduta segreta per poter esaminare un documento riservato.
(La Commissione concorda. I lavori proseguono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica).
PRESIDENTE. La parola al senatore Cantalamessa.
GIANLUCA CANTALAMESSA. Grazie presidente. Generale, per me e per il nostro gruppo della Lega è un onore averla conosciuta. La sua presenza ha un peso, una storia e una dignità che meritano attenzione e rispetto. Lei merita per lo meno Pag. 22attenzione e riconoscimenti, se non anche risarcimenti, non solo presso l'opinione pubblica attraverso i media, ma anche da parte dei partiti politici e da parte dello Stato italiano. Come «ringraziamento» per il suo coraggio, la sua lealtà e i suoi eccellenti risultati investigativi, ha dovuto subire da parte di una parte dello Stato tre processi per ipotesi di reato che la Corte d'appello ha giudicato infondati. Non da ultimo nel maggio del 2024 – credo fosse il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno – ha ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Firenze in relazione alle stragi del 1993-1994 per reati di strage, associazione mafiosa, associazione con finalità di terrorismo internazionale e di eversione dell'ordine democratico. Credo che questo tutti i presenti lo sappiano, ma credo che sia necessario ripeterlo. Condivido l'auspicio e il pensiero del collega Verini, ma trovo che sia paradossale che è stato oggi indagato per non aver fatto nulla per impedire le stragi dopo essere stato processato per aver trattato per fermarle: è un evidente paradosso.
Passo alle domande. Se è possibile volevo avere qualche informazione in più sull'informativa cui prima si è fatto riferimento, quella del 16 febbraio del 1991 – lei vi ha fatto cenno. Di fatto, voi commettete un errore non riconoscendo in un'intercettazione telefonica in cui si discuteva di un personaggio a capo dell'organizzazione di gestione illecita degli appalti l'imprenditore Filippo Salamone, indicando invece che ci si stesse riferendo ad Angelo Siino. Questa circostanza è l'unica in cui si faceva riferimento all'imprenditore Salomone o ce ne sono state altre? Nella sua relazione ha fatto riferimento all'indagine svolta con la Procura della Repubblica di Napoli sempre sul sistema illecito di gestione di appalti pubblici, indagine che, se non erro, è stata anche oggetto di studio da parte dell'Università Federico II. Potrebbe riassumere brevemente il contesto di quell'indagine, illustrarci che tipo di rapporto instaurasse con quella magistratura e spiegarci perché quell'indagine poi è risultata così importante per la comprensione del sistema illecito di gestione degli appalti pubblici in Italia?
MARIO MORI, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo. Penso che debba rispondere De Donno che ha svolto materialmente le indagini.
PRESIDENTE. Prego colonnello.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Per quanto riguarda la vicenda Salamone – è già stato detto l'altra volta – fu un mio errore. Avevamo posto sotto controllo il consorzio CEMPES di Palermo, composto da una serie di aziende nazionali, tra cui la Tor di Valle, e si creò un problema perché la Tor di Valle non aveva vinto un appalto e si era diffusa la notizia che stesse preparando ricorso. I responsabili locali, se non ricordo male c'era l'ingegner Zito, vennero contattati affinché la Tor di Valle recedesse da questo intento. Lui fece fortunatamente una serie di telefonate con Roma e parlò con il dottor Catti De Gasperi, spiegando questa situazione e in quella telefonata gli spiegò quello che era successo dicendo che se non avessero dato fastidio, non avessero rotto il meccanismo senza fare ricorso, sarebbero stati ricompensati perché c'era una torta da mille miliardi da suddividere, che erano i mille miliardi del consorzio SIRAP. Il dottor Catti anziché dire, come si sarebbe dovuto aspettare, di andare dai carabinieri e sporgere denuncia, disse che gli stava bene, ma che con la garanzia di quello che conta, quello che inizia con la «S», facendo una serie di riferimenti. In quella circostanza, sbagliai – perché gli errori si fanno – l'individuazione e ritenni, poiché noi eravamo concentrati su Angelo Siino che ci appariva in quel momento il personaggio dominus dell'indagine, individuai nell'informativa, e lo scrissi, che il personaggio che contava, quello che inizia con la «S», era Angelo Siino. Invece in quella circostanza il riferimento era a Filippo Salamone, cosa che noi avremmo capito dopo nelle indagini successive. Questo poteva essere un accertamento molto importante perché probabilmente ci avrebbe Pag. 23consentito di fare delle valutazioni diverse. Sta di fatto che comunque Salamone era abbastanza noto nell'informativa, l'avevamo già indicato. Adesso non le cito tutte le telefonate e tutte le questioni, di cui ho gli appunti, ma già nel nostro dossier lui viene citato abbondantemente a pagina 201. A pagina 280 ci sono delle intercettazioni telefoniche. Tra l'altro l'avevamo indicato in rapporto con Spezia, che era un imprenditore che risulta poi interessato a tutta la vicenda degli appalti di Pantelleria e a tutte le altre questioni. Questa storia, siccome è stata riportata ed è stata strumentalmente usata anche per attaccarmi più volte, entra anche nelle indagini di Caltanissetta. Anche la dottoressa Loforti cita nella sua informativa il fatto che, sebbene avessimo commesso questo errore, però la figura di Salamone della ditta Impresem di Agrigento fosse ampiamente nota, ampiamente riconducibile ed era ampiamente dimostrato quale fosse il suo ruolo. Per esempio la dottoressa Loforti disse: «Senza dire che il ruolo del Salamone era emerso nella sua pienezza nell'ambito della manipolazione di appalti pubblici indetti da SIRAP e che su tale gara, alla pagina 203 della informativa, si affermava che si tornerà in un altro elaborato, così come a pagina 225 della medesima informativa si dava atto che erano stati sottoposti a intercettazioni telefoniche altre utenze riconducibili alla questione». Poi c'è tutta un'altra serie di attività e di questioni. Per cui, sì, effettivamente l'errore l'ho fatto, ma questo incise in una valutazione iniziale, ma Salamone era già noto e conosciuto e poi ritorna ampiamente, tanto è vero che viene arrestato successivamente.
Per quanto riguarda l'inchiesta di Napoli, l'onorevole Cafiero la conosce benissimo. Provo a riassumerla, ma per quanto cercherò di essere sintetico, si tratta di una cosa abbastanza complessa. Con la Procura della Repubblica di Napoli credo che abbiamo forse condotto l'unica indagine di questo tipo che mai sia stata fatta in Italia, un prototipo e un laboratorio di attività che non erano state mai tentate prima e mai sono state ripetute dopo. Siamo nel 1996 e iniziavano i cantieri per la costruzione dell'Alta velocità Roma-Napoli. In alcuni cantieri gestiti dalla Calcestruzzi S.p.A., erede dell'impero Gardini, si presentarono alcuni malavitosi chiedendo il pagamento della tangente. L'amministratore delegato dell'epoca, che era una persona assolutamente perbene e coraggiosa, il dottor Parrello, si presentò in Procura dal dottor Paolo Mancuso e sporse denuncia. Il dottor Mancuso mi chiamò e mi affidò le indagini. Era una classica estorsione, di quelle che avvenivano nei cantieri. Dissi che ci avremmo lavorato. Tornando in ufficio mi chiesi perché ci avremmo dovuto lavorare come in una classica estorsione dove alla fine avremmo preso tre persone senza comprendere quale fosse il quadro complessivo. Per cui tornai in Procura ed esposi una tesi abbastanza ardita che il dottor Mancuso, persona di assoluta intelligenza e di grande acume, accolse immediatamente nonostante sul momento sembrasse folle. Sostanzialmente, proposi alla Procura di Napoli di accettare l'estorsione, sostituendo i funzionari dell'azienda Calcestruzzi con un nostro ufficiale di polizia giudiziaria, di dichiararci disponibili a pagare l'estorsione per cercare di risalire a monte il canale di gestione delle attività e quindi cercare di arrivare veramente a chi gestiva tutta la cosa. Il Procuratore della Repubblica, il dottor Agostino Cordova, accettò questa impostazione. Scegliemmo un ufficiale del ROS – all'epoca era il tenente colonnello Paticchio che comandava la sezione anticrimine di Bologna – che trasformammo nell'ingegner Varricchio. Il colonnello Paticchio ha sbagliato mestiere, non doveva fare l'ufficiale dei carabinieri, in un'altra vita deve fare o il truffatore o l'attore. A Hollywood – lo dico sempre – avrebbe vinto il premio Oscar. Entrò immediatamente nella parte con tutta una serie molto complessa di azioni, che l'onorevole Cafiero conosce benissimo perché abbiamo lavorato a lungo anche con lui. La Procura di Napoli predispose una serie di provvedimenti non semplici, perché si autorizzò un documento di copertura e altre attività molto complesse. Nel frattempo avevamo arruolato un geometra di Acerra, che aveva presentato una denuncia contro il comune. Pag. 24Casualmente la Procura ci passò questo atto – ecco quando c'è il colloquio immediato tra Procura e investigatori – ci parlò di questa indagine, ci passò questa denuncia che sembrava irrisoria, noi capimmo il personaggio, lo contattammo e lo convincemmo a lavorare per noi per cui divenne il tramite con la famiglia di Acerra, perché l'estorsione era stata fatta ad Acerra. Chiedemmo un incontro al responsabile della famiglia camorristica di Acerra dove facemmo andare l'ingegner Varricchio il quale espose questa tesi: «I lavori dell'Alta velocità sono lavori complessi, si allargano per centinaia di chilometri, sono molto lunghi. Non è una cosa che possiamo risolvere con un pagamento, ci sono tante ditte coinvolte. Io sono il responsabile del consorzio, parlate con me, noi siamo disposti a pagare, l'importante è che non succeda nulla». Quando il nostro interlocutore sentì questo discorso, disse che occorreva fermarsi perché la cosa era complicata e bisognasse andare dai Casalesi, da Michele Zagaria. Quindi passammo ai Casalesi. Riuscimmo a interloquire con i Casalesi più volte e proponemmo alla camorra questo schema di lavoro. «Siamo disposti a lavorare, vogliamo fare l'opera, l'opera è importante, non diamoci fastidio, troviamo un modo per risolvere la questione». Ci chiesero il 3 per cento dell'importo degli appalti, parliamo di migliaia di miliardi. Gli feci questa proposta. Io dirigevo tutto il lavoro. Il colonnello Paticchio stava fuori sede, ogni tanto veniva, io lo istruivo su quello che facevamo perché nel frattempo avevamo microfonato mezza Campania, avevamo preso il controllo del parcheggio dell'hotel vicino alla Procura, portavamo tutti lì a cena e mentre cenavano microfonavamo le macchine per cui ascoltavamo praticamente tutti. Sapevo quello che succedeva e preparavo Paticchio alle interlocuzioni del giorno successivo. Ci chiesero il 3 per cento degli importi, rispondemmo che il 3 per cento non era possibile perché si parlava di cifre enormi e fare tutto questo «nero» non era possibile. Il successivo passaggio fu un meccanismo al contrario. «Dateci le ditte, noi suddividiamo i lavori tra le vostre ditte, affidiamo loro i lavori e ogni ditta vi storna il suo 3 per cento, così lo diluiamo». Durante questa interlocuzione c'era tutto un altro gruppo di persone che ci giravano intorno. Ci fecero presente che c'era anche un problema politico, perché non si trattava solamente di camorra, dovevamo parlare con i politici. «Siamo qua, non c'è problema» e ci portarono alla regione Campania dal vicepresidente della giunta che ci ricevette. Tutto quello che vi sto dicendo per la prima volta è stato foto-video documentato. Avevamo videocamere – la tecnologia era diversa – dovunque, nelle macchine, anche una valigetta è entrata nella regione Campania a documentare l'incontro. Il vicepresidente della giunta ci disse che era tutto perfetto, solo che c'erano i partiti perché il tracciato passava per tanti comuni e bastava che un sindaco si opponesse e si bloccavano i lavori. Che dobbiamo fare? 3 per cento, tutto documentato. Era sempre Paticchio che parlava per il tramite del lavoro che facevamo. Ci garantì che tutti i partiti avrebbero preso il 3 per cento tranne Rifondazione Comunista e la Lega perché allora non erano nella regione Campania. «Nessun problema» si rispose «però perché non facciamo un incontro con ognuno dei vari responsabili giusto per essere sicuri che siamo d'accordo?». Chiaramente il nostro intento era avere la certezza che non fossero millanterie. «Si può fare». Mentre trattavamo con la camorra, quindi, iniziammo a trattare con tutti i partiti e incontrammo tutti i responsabili dei vari partiti chi a Roma chi a Napoli, tutto video-audio documentato. A loro facemmo lo stesso discorso e gli dicemmo: «Guardate, non vi possiamo pagare questa cifra enorme di denaro in nero. Dateci le vostre ditte, noi diamo loro i subappalti e ognuno vi storna il 3 per cento». «Perfetto, nessun problema» e cominciano ad arrivare gli elenchi. La parte politica fu molto più facile da convincere. I Casalesi invece si fecero delle domande perché tra di loro c'era il braccio destro di Michele Zagaria che aveva il dubbio che questa cosa filasse troppo liscia, fosse troppo tranquilla. Una sera fecero una riunione in un appartamento a Caserta – all'epoca c'era Tele+ ed eravamo riusciti a inserire Pag. 25una telecamera con microfono dentro il decoder di Tele+ per poter riprendere in diretta. Stavano sul divano e fecero tutta una discussione, perché soprattutto quello che si chiamava lo sceriffo – l'onorevole lo ricorderà – diceva che nel caso fossero stati carabinieri, se avessero dato i nomi delle ditte sarebbero stati completamente «fottuti». Allora uno sul divano tra quelli più propensi – tant'è vero che estrapolai questo spezzone e lo portai al signor generale – disse di aver conosciuto qualche generale dei carabinieri, ma che non gli sembravano capaci di fare una cosa simile. Al che chiamarono un avvocato e gli chiesero consiglio. Questo avvocato disse: «Chiedetegli dei soldi perché loro possono procurarsi il denaro ma non possono consegnarvelo. Quando lo consegnano e vi arrestano, al massimo si tratta di estorsione, ne arrestano due, però salvate tutto l'impianto». All'epoca ci chiesero 200 milioni di lire in contanti, richiesta che trasmisi al mio comandante. A me sono arrivati 200 milioni di lire in contanti – faccio riferimento all'onorevole Cafiero perché l'abbiamo vissuta insieme. La Procura di Napoli per la prima volta fece un provvedimento molto articolato perché, grazie, devo dire la verità, al dottor Parrella della Calcestruzzi, quest'ultima, senza andare in consiglio di amministrazione perché altrimenti avremmo disvelato tutto, accettò di versare 200 milioni su un conto corrente della Procura della Repubblica. La Procura sequestrò quei 200 milioni e autorizzò la interposizione di altra somma. Usammo il denaro e organizzammo un incontro a Caserta dove loro si presentarono – noi ascoltavamo tutto per fortuna – con sei macchine e due moto, perché sicuri che eravamo carabinieri. Riuscimmo a pedinarli nonostante fossero con otto mezzi fino a che a mezzanotte non entrarono a Caserta vecchia e cominciarono a correre per le strade. A quel punto chiaramente non potevamo più seguirli. Paticchio era con loro, mi ricordo che quella sera via radio dissi di sospendere il servizio e un mio sottufficiale quando mi chiese: «E Moro?» – era il suo nome di battaglia – risposi: «Al massimo lo vendichiamo domani mattina». Vanno in un appartamento, si guardano, Paticchio tira fuori 200 milioni in contanti, tutti pronti per l'irruzione dei carabinieri. Dopo dieci minuti Paticchio propone di andare a dormire. Questi prendono i soldi e se ne vanno. La mattina dopo Zagaria chiama e dice: «Ingegnere, siete una persona seria, a mezzogiorno al Nuovo Hotel di Caserta Sud vi diamo l'elenco delle ditte» e ci spara tutto l'elenco delle ditte della camorra. Ancora 2-3 minuti prima di concludere per arrivare al perché fu importante. Non contenti di questo proposi un altro meccanismo – questa cosa la facemmo anche con i politici – cioè di chiedere l'autorizzazione a incontrare le singole ditte perché – mi ponevo il problema processuale – un domani la ditta avrebbe potuto dire di stare in un elenco senza sapere niente. Nessun problema. Prendemmo una bellissima suite all'Hotel Terminus a Napoli che riempimmo di microspie e telecamere e convocammo tutti gli imprenditori, quelli segnalati dai politici e quelli segnalati dalla camorra. Nel frattempo facemmo entrare un secondo agente sotto copertura, che era un maresciallo bravissimo, perché bisognava entrare nel tecnicismo degli appalti, al secolo geometra Del Vecchio che a mano a mano che arrivavano chiedeva a ognuno chi lo mandava – Zagaria o un politico. «Che deve fare?» «Mi hanno detto che devo fare il nero», «Come lo fa?» «Così e così». Uno dei più grandi costruttori napoletani, settantenne, uscendo dalla stanza si rivolse al mio maresciallo e gli disse che ci doveva dare la mano perché finalmente avevano fatto una cosa come Cristo comanda con un meccanismo perfetto! Incontriamo tutti, tutto questo nell'arco di sei mesi, non di più.
PRESIDENTE. Colonnello, che anno era?
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. 1996. A un certo punto succede un imprevisto perché, dall'altra parte, il mondo politico che ci aveva segnalato le aziende aveva saputo che avevamo pagato qualcosa e volevano qualcosa, in particolare un personaggio che ci portava in giro. La storia sarebbe lunga. Pag. 26Il problema era che i Casalesi, visto che la cosa funzionava, perché gli avevamo dato 200 milioni a fondo perduto e chiaramente li avevamo persi, ce ne chiesero altri 200. Non ebbi il coraggio di rifare la richiesta al generale. Rispondemmo che glieli avremmo consegnati il giorno dopo al casello di Cassino sud. Loro vennero e chiaramente l'ingegner Varricchio non si presentò e facemmo telefonare loro dicendo che l'ingegner Varricchio aveva avuto un incidente, che era ricoverato in ospedale e quindi non sarebbe potuto venire. Per fortuna la Golf Gti in cui si trovavano l'avevamo microfonata perché alcuni di loro, gente «seria» del settore, dubitarono di questa cosa e dissero che sarebbero andati a trovarlo in ospedale. Quindi si misero in macchina e partirono per Bologna. Chiamarono la segretaria per sapere in quale clinica fosse ricoverato e noi nel frattempo ricoverammo l'ingegner Varricchio. Abbiamo ricoverato il colonnello Paticchio, gli abbiamo anche fatto una dose di anestetico per evitare che potesse essere colto da qualche crisi di riso, lo fasciammo e ingessammo – ci sono le foto, è tutto documentato – e questi arrivarono in ospedale trovando Varricchio, e quindi era «vero». In questo frangente arrivò un maresciallo dei carabinieri in divisa chiedendo loro se fossero stati parenti. Spiegò loro che era una cosa strana in quanto l'ingegnere viaggiava su una macchina molto potente, un'Audi A 6 – che loro conoscevano perché l'avevamo mostrata loro più volte – in cui c'era una valigetta piena di soldi. «Siamo noi, noi siamo i collaboratori». «Andiamo in caserma». Loro si aspettavano che consegnassimo loro i soldi che non avevamo e facemmo un verbale dicendo che però non potevamo consegnare i soldi perché erano stati sequestrati all'autorità giudiziaria a seguito dell'incidente. Questa storia finisce che, non potendo portarla avanti oltre, a un certo punto con la Procura si decise di intervenire, quindi arrestammo un sacco di persone, questa cosa venne rivelata. Finisce che tutta la parte camorristica venne condannata, tutta la parte politica no, perché, nonostante la Procura abbia fatto vari ricorsi, la Cassazione ritenne che mentre l'associazione camorristica preesistesse al nostro arrivo – considerò la presenza più che di un infiltrato di un agente provocatore, se non ricordo male. La Cassazione ritenne che invece la parte politica si fosse organizzata nel momento in cui noi eravamo arrivati, e che su questo presupposto non fossero punibili. Inoltre ritenne che, essendo noi carabinieri e non potendo pagare tangenti, il reato fosse impossibile per cui ci fu tutta una complessa discussione giuridica per cui la parte politica fu assolta. Tutto il resto è stato documentato. La Facoltà di Economia dell'Università Federico II ha inserito questa indagine nel percorso di studio per vari anni. Recentemente è stato più volte citato sia dall'Autorità anticorruzione sia da alcuni magistrati come uno strumento – quello dell'agente infiltrato non provocatore – che la magistratura dovrebbe avere quindi per scoprire questo tipo di reati. È importante perché è stata l'unica indagine di questo tipo che è stata fatta in Italia a mia memoria, ed è stata un'indagine che, al di là degli esiti giudiziari, ha documentato dal vivo – sono depositate agli atti centinaia di ore di video-registrazione – come si comportano la camorra, e la famiglia dei Casalesi ne era la parte più importante, e la politica cattiva nella gestione degli appalti pubblici. Credo che da questo punto di vista sia stato un esempio unico di questa attività.
PRESIDENTE. Indagini molto accurate e geniali sotto un certo punto di vista. È iscritto l'onorevole De Corato.
RICCARDO DE CORATO. Volevo intanto ringraziare sia il generale Mori sia il colonnello De Donno per quello che ci hanno raccontato qui in Commissione, ma soprattutto per aver svolto un ruolo importante nella vicenda di mafia-appalti. Quindi grazie generale e grazie colonnello. Voglio anche ringraziare il generale, avendo seguito «Mani pulite» nel consiglio comunale di Milano in quegli anni, ricordo che il generale Mori, almeno da parte mia, era uno dei più ascoltati perché che ci fosse qualche connessione tra le due vicende ci appariva già chiaro allora. Siccome il generalePag. 27 ha fatto riferimento ad alcune interconnessioni che ci sono state tra l'indagine che faceva il dottor Di Pietro a Milano e quella che veniva fatta a Palermo e in Sicilia da Falcone e Borsellino, volevo chiedere innanzitutto se questi nomi li ricorda e ci può essere da parte sua un riferimento circa questa connessione? A parte Gardini che ovviamente nelle due vicende era abbastanza coinvolto, credo che ci fosse qualcun altro. Siccome ne ha fatto riferimento in un passaggio veloce, ma che io ho colto, non so se lei ne abbia conoscenza, magari anche in seduta segreta, a discrezione del presidente.
Volevo fare altre due domande al generale Mori che riguardano il libro, che è stato citato da un mio collega prima, «L'altra verità», dove, a pagina 252, viene posta una questione che ritengo cruciale da parte degli autori. Dicono gli autori: «Cosa c'è stato dietro il tentativo di squalificare e criminalizzare Mori, De Donno e Subranni con il processo Trattativa?». La domanda è questa generale. Adesso che la vicenda processuale si è conclusa con la sentenza della Cassazione, pensa che ci sia una connessione con l'indagine che vi vedeva impegnati in mafia-appalti? Altra domanda, generale, sempre facendo riferimento al libro «L'altra verità», a pagina 253, alla fine del capitolo 20, ponete forse quella che ritengo la questione più importante di questo libro, e cioè la trattativa Stato-mafia non è quella oggetto del famoso processo annullato in Cassazione. Forse c'è stata un'altra trattativa interna, tutta interna, alle dinamiche politiche nel passaggio alla seconda Repubblica, per garantire la continuità del potere con uno o più architetti, che sarebbe emerso se l'indagine mafia-appalti non fosse stata depotenziata. Sempre a pagina 269 del libro, poi dite: «Abbiamo maturato una precisa idea della vera identità dell'architetto». Domanda: ci può dire almeno a quale mondo questo architetto appartiene o fa riferimento? Preciso che non avete prove per la sua personale individuazione, ma potremmo magari capire dalle sue parole qualcosa di più. Grazie generale.
MARIO MORI, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo. Le connessioni tra l'indagine milanese «Mani pulite» e quella di mafia-appalti nascono dal fatto che le due inchieste presentavano dei personaggi in comune. Chi erano? Erano personaggi che secondo noi venivano dal Nord. Personaggio-chiave era chiaramente Gardini. Con lui c'era Panzavolta che era l'amministratore delegato di Calcestruzzi e poi c'era quel mondo mafioso che si era inserito nella Calcestruzzi e quindi si poteva stabilire il legame preciso tra imprenditoria del Nord e mafia appalti e quindi Cosa nostra. Di Pietro lo ha ammesso anche di recente: non capì inizialmente questo legame. Glielo descrisse per la prima volta Paolo Borsellino durante il funerale di Giovanni Falcone e decisero quindi di proseguire insieme. Chiaramente la morte di Paolo Borsellino ha fatto sì che ciò non avvenisse. Successivamente Di Pietro, sollecitato da Giuseppe De Donno, andò a sentire sia Vito Ciancimino sia soprattutto il geometra Li Pera, il quale gli spiegò come si sviluppava il condizionamento degli appalti. L'intendimento di Di Pietro è noto – lei ha seguito questa indagine – era quello di costringere Raul Gardini ad ammettere che in pratica la provvista della tangente Enimont, che lui aveva creato, provenisse in parte, se non tutta, dalle rimesse mafiose e probabilmente secondo Di Pietro avrebbe ammesso qualcosa. Quella mattina in cui lo doveva sentire, si suicidò. A questo punto si possono fare tutte le ipotesi, ma ripeto quello che ho detto prima al senatore Verini, a me non piacciono le ipotesi perché ho fatto un altro mestiere. Sono veramente come San Tommaso: intanto dico qualche cosa perché l'ho documentata. Anche Di Pietro si fermò di fronte al fatto che Gardini quel giorno non parlò. Dare giudizi ulteriori soprattutto dal punto di vista politico, non mi compete.
Per quanto riguarda le affermazioni che abbiamo illustrato ed espresso nel libro «L'altra verità», anche lì quello che abbiamo dichiarato è scritto e documentato, nessuno ci può contestare quanto abbiamo scritto in questo libro, ma nulla di più di quello che è scritto vogliamo dire perché sarebbe delazione e non sarebbe corretto. Pag. 28Mi limito a questo, non so se De Donno vuole aggiungere qualche cosa.
Circa l'architetto, secondo Vito Ciancimino non è di cosa Nostra, secondo Vito Ciancimino era un politico. Se vuole il mio parere, io mi sono fatto l'idea, ma non gliela dico perché non ho documenti per fare un nome. Ciancimino questo nome ce l'ha fatto, ma siccome non ci sono prove e siccome Ciancimino era un criminale, non possiamo dirlo.
PRESIDENTE. Colleghi, sull'ordine dei lavori. L'Assemblea della Camera vota alle 14 ma ci sono ancora 8 iscritti a parlare. O ammetto un ultimo intervento oppure aggiorniamo immediatamente i lavori, si tratta di mezz'ora di differenza.
Sarete costretti a tornare perché ci sono ancora molte domande.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Nessun problema.
PRESIDENTE. Va bene. Consento un ultimo intervento. La parola all'onorevole Provenzano.
GIUSEPPE PROVENZANO. Grazie presidente. Condivido anche le premesse dell'intervento che ha fatto prima il senatore Verini e mi scuso se torno su alcuni aspetti, generale. Aggiungo una premessa, presidente. Credo che chiunque di noi non abbia vissuto da protagonista quella stagione debba avere un profondo rispetto per tutti i protagonisti. Tra le manifestazioni di questo rispetto credo che non rientrino, presidente, le tifoserie da stadio a cui abbiamo assistito in questa Commissione perché rischiano di produrre una strumentalizzazione politica che non sono convinto possa portare particolari benefici non solo ai lavori di questa Commissione, ma anche agli autori stessi di questa strumentalizzazione.
Generale, se non sbaglio, sia lei sia il dottor De Donno avete in qualche modo giustificato il silenzio tra il 1993 e il 1997 sull'indagine mafia-appalti, con, se capisco bene, un deterioramento delle relazioni politiche ambientali con le Procure di Palermo e di Catania. Se però era forte in voi, scusate se ci torno, il convincimento che questa fosse la causale che spiegava la strage, come mai in quegli anni – sono stati quattro anni tra il gennaio del 1993 quando sono iniziati gli interrogatori di Ciancimino, che voi stessi avete sollecitato con la Procura, e il pentimento di Siino – non vi siete attivati, non dal punto di vista della polizia giudiziaria, su cui posso capire che vi fossero quei problemi ambientali che avete ricostruito, ma con altri canali, come avevate fatto per esempio nel caso della Ferraro, cioè con gli uomini con cui avevate combattuto dalla stessa parte o addirittura in maniera formale con esposti, eccetera? Questa è la prima domanda sulla quale vorrei tornasse.
Non penso che in questa Commissione dobbiamo rifare i processi che vi hanno visto imputati e che hanno visto un esito molto chiaro e non penso nemmeno che però in questa Commissione occorra fare la storia investigativa o la storia giudiziaria di una singola Procura, anche perché è difficile non inserire la strage di via d'Amelio in una sequenza di avvenimenti tragici che hanno segnato la storia d'Italia e la storia della nostra democrazia. Il compito di questa Commissione, io credo, dovrebbe essere quella di ricostruire il contesto storico-politico in cui maturano le scelte o le mancate scelte delle istituzioni nel contrasto alla criminalità mafiosa e che possono illuminare ancora oggi la nostra strategia di contrasto alla mafia. Alla luce degli elementi di continuità profondi che lo specifico fenomeno criminale mafioso porta dalle sue origini a oggi, tra questi c'è una indefettibile connessione tra la mafia e la politica. Come diceva Pio La Torre, la mafia è un fenomeno di classi dirigenti e quindi bisogna discutere di classi dirigenti. Come diceva Paolo Borsellino, che abbiamo ripetutamente richiamato qui oggi, mafia e politica sono due poteri che insistono sullo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. E allora, generale, io le chiedo di tornare, insisto, su alcune Pag. 29domande che le ha posto il senatore Verini alle quali lei si è sottratto dicendo che dal suo punto di vista non è rilevante quello che pensa lei, ma lo lasci dire a questa Commissione se è rilevante o no. Innanzitutto, mi lasci dire, non siamo dei magistrati e la regola di san Tommaso qui non vale, ma, anche a far valere la regola di san Tommaso, è difficile immaginare che dal suo osservatorio lei non vedesse cosa è accaduto nelle elezioni del 1987, che giudizio ha dato su quella stagione a Palermo, che significato ha avuto in una transizione politica profonda nel nostro Paese l'omicidio di Salvo Lima, quali erano gli interlocutori e i riferimenti che in quella fase si stavano attivando a Palermo. Lei era lì, non si può dire che non vedesse dall'osservatorio in cui è stato, a meno che, ma farei un torto alla sua intelligenza e alla sua conoscenza del fenomeno mafioso, lei non pensasse che il ruolo che la politica ha nel rapporto con la mafia sia esclusivamente quello di erogatrice di appalti, ma credo che così non sia. Da questo punto di vista, allora, le chiedo, soprattutto, quale legame a suo avviso rimarrebbe tra la strage di Capaci e quella di via d'Amelio, tra la strategia terroristico-mafiosa e le stragi di via dei Georgofili, via Palestro, gli attentati a Roma. Anche qui – non se la prenda se anticipo la sua risposta – difficilmente può essere mafia-appalti. L'ultimissima cosa, a proposito delle stragi, le chiedo se anche in altre funzioni, non quelle di polizia giudiziaria, non quelle del ROS, ma per esempio al SISDE, lei ha avuto modo di entrare in contatto con i fratelli Graviano direttamente o indirettamente.
PRESIDENTE. Onorevole Provenzano, fermo restando che tutte le domande sono legittime, lei non può dire al generale come deve rispondere, se lui non vuole dare un suo punto di vista.
GIUSEPPE PROVENZANO. Non ho detto come deve rispondere, ha chiesto di rispondere e di valutare noi.
PRESIDENTE. Onorevole, lei ha questo vizio che quando io parlo, mi parla sopra. Deve imparare che chi presiede non interrompe e non vuole essere interrotto. Quando ha imparato questo, poi mi risponde se mi vuole rispondere. Siccome questa audizione fin qui è sempre stata corretta, le dico intanto che i qui presenti non sono sottoposti a nessun interrogatorio, quindi è loro libertà decidere se rispondere o meno; secondo, che non è carino imboccare gli auditi con delle risposte, fermo restando che loro sono qui per indicare quale fosse il motivo per cui Borsellino indicò la Procura di Palermo come «nido di vipere» e non per fare suggestioni sull'allora situazione politica. Quindi, ferma restando la liceità di tutte le domande, la prego di avere rispetto delle risposte che vogliono o non vogliono dare. Ciò vuol dire che è mio dovere, come ho fatto in altre occasioni, mantenere il motivo dell'audizione. Prego, generale Mori.
GIUSEPPE PROVENZANO. Mi lasci dire.
PRESIDENTE. Sempre io la do la parola però, onorevole Provenzano, lei me la chiede e io gliela do, non se la prende da sé, perché funziona così.
GIUSEPPE PROVENZANO. Presidente, credo o di essermi spiegato male o lei non ha ascoltato perché io ho precisato non il modo in cui doveva rispondere il generale. Mi sono limitato a chiedere di non sottrarsi a una valutazione che ritengo possa essere rilevante per questa Commissione, così come ho specificato che noi non siamo magistrati.
PRESIDENTE. Facciamo che ho capito male io, preferisco aver capito male io, fermo restando che loro sono liberi di rispondere come credono.
GIUSEPPE PROVENZANO. Mi atterrò a ciò che lei ritiene carino nell'andamento dei lavori di questa Commissione. Non credo che lo siano il tifo e gli applausi.
PRESIDENTE. Ancora? Mi sono pentita di aver voluto prolungare questa audizione Pag. 30perché dimostrate ancora una volta di non voler un clima teso a raggiungere la verità. Non mi fa ridere senatore Verini! Prego generale. Rispondete come credete ovviamente. Ora basta, grazie. La parola al generale Mori.
MARIO MORI, generale dell'Arma dei carabinieri in congedo. Delle due domande, rispondo a quella di carattere politico perché sulla parte tecnica potrà rispondere meglio e più di me Giuseppe De Donno. Lei ha detto che, rispondendo al senatore Verini, non ho risposto. In effetti è vero e le dico anche perché. Perché su queste vicende siamo ancora molto indietro rispetto alla verità, tant'è vero che c'è ancora la Commissione antimafia. Ma perché devo fare io una valutazione politica a lei che è un politico su problemi che non mi riguardano? Io facevo l'operativo e il mio l'ho fatto, e l'ho fatto bene, molto bene, quindi mi faccia tutte le domande sulle attività che ho svolto, le risponderò. Sulla parte politica non le rispondo perché non mi compete e la domanda è provocatoria.
GIUSEPPE DE DONNO, colonnello dell'Arma dei carabinieri in congedo. Onorevole, brevissimamente. Lei chiedeva che cosa abbiamo fatto dal 1993 al 1997. Intanto a Catania il Procuratore della Repubblica ci ha tolto le deleghe e quindi le indagini non le potevamo più fare. Anche in una recente intervista del senatore Scarpinato, fatta in un programma che citava prima il generale, il parlamentare diceva che la polizia giudiziaria fa le intercettazioni, il PM non legge i brogliacci e si limita a leggere quello che gli manda la polizia giudiziaria e quindi se non gli manda le cose, è colpa della polizia giudiziaria. Non mi pare che il codice di procedura penale dica questo. È sempre facile scaricare sulla polizia giudiziaria. Ci dimentichiamo di una cosa: che il dominus delle indagini dalla riforma del 1989 è il pubblico ministero. Se il Procuratore della Repubblica di Catania mi toglie la delega io che devo fare? Quando a Palermo dopo gli arresti del 1993 abbiamo fatto delle altre attività e la procura di Palermo non mi delegò le indagini, io che cosa dovevo fare? Cosa ho fatto? Io l'ho fatto: ho avuto il coraggio di andare alla Procura della Repubblica di Caltanissetta e scrivere 50 pagine di verbale. Ho denunciato i magistrati di Palermo, l'ho messo per iscritto assumendo le mie responsabilità. Penso che nessun ufficiale di polizia giudiziaria in Italia abbia fatto quello che ho fatto io. Sono andato in Procura a Caltanissetta e ho messo a verbale quello che pensavo. L'ho fatto. C'è stato un processo: giustamente il GIP di Caltanissetta ha assolto tutti quanti, perché tra l'altro alcuni magistrati della Procura di Palermo mi hanno querelato per diffamazione. Più che denunciarlo a un'autorità giudiziaria, che dovevo fare? Quando abbiamo capito che non c'era possibilità di fare nient'altro, perché oltre questo non vedo che cosa potessimo fare, ci siamo trasferiti, ma non è che ce ne siamo andati in vacanza, siamo andati a Napoli, dove la procura di Napoli ci ha accolto. Quello che ho raccontato poco fa è stata una delle attività che abbiamo fatto, tra l'altro con l'onorevole presente qui in aula. Non è che noi ce ne siamo andati, non mi hanno messo in condizione di lavorare.
1997. Si pente Siino, la Procura di Palermo non mi chiama, delega le indagini alla Guardia di finanza, è un suo diritto. L'onorevole Cafiero penso che possa confermare che, quando si prende un arrestato in un'operazione, in genere viene dato alla forza di polizia che ha proceduto, ma non per un piacere, ma perché si presume che la forza di polizia che lo ha indagato e lo ha arrestato ne sappia molto più di tutti quanti gli altri, e Siino non ce l'hanno fatto toccare. Una regola non scritta, per carità, la Procura può delegare chi vuole, ci mancherebbe altro, ma quando il generale chiama il Procuratore Caselli e gli dice che De Donno aveva parlato con Siino e che c'erano le relazioni di servizio. «Le vuoi?». Caselli dice no. Ci convoca a Torino e ci prende a verbale in due stanze separate con quattro magistrati, ma che dovevamo fare Pag. 31più di questo? Tutte le altre deleghe, le stragi: lo chieda ai magistrati di Caltanissetta. Perché nel gruppo di indagine sulle stragi il ROS è stato delegato solamente in parte? Non ci hanno chiamato, non ci hanno fatto indagare, hanno delegato il gruppo di indagine Falcone-Borsellino. Benissimo, è stata una scelta loro. Penso che da parte nostra più di questo non potevamo fare.
PRESIDENTE. Grazie mille. Il seguito dell'audizione è rinviato a una prossima seduta.
La seduta termina alle 13.10.