XIX Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 73 di Mercoledì 12 febbraio 2025

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 

Audizione di Salvo Palazzolo, giornalista:
Colosimo Chiara , Presidente ... 3 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 3 
Colosimo Chiara , Presidente ... 5 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 6 
Colosimo Chiara , Presidente ... 7 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 7 
Colosimo Chiara , Presidente ... 8 
Provenzano Giuseppe (PD-IDP)  ... 8 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 9 
Colosimo Chiara , Presidente ... 11 
D'Attis Mauro (FI-PPE)  ... 11 
Colosimo Chiara , Presidente ... 11 
Russo Raoul  ... 11 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 12 
Colosimo Chiara , Presidente ... 13 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 13 
Colosimo Chiara , Presidente ... 14 
Serracchiani Debora (PD-IDP)  ... 14 
Colosimo Chiara , Presidente ... 15 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 16 
D'Attis Mauro (FI-PPE)  ... 16 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 16 
Colosimo Chiara , Presidente ... 18 
Sallemi Salvatore  ... 18 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 19 
Rando Vincenza  ... 20 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 22 
Colosimo Chiara , Presidente ... 23 
Nave Luigi  ... 23 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 24 
Colosimo Chiara , Presidente ... 25 
Iannone Antonio  ... 26 
Palazzolo Salvo , giornalista ... 27 
Colosimo Chiara , Presidente ... 28

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 13.50.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso, nonché via streaming sulla web-tv della Camera.

Audizione di Salvo Palazzolo, giornalista.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Salvo Palazzolo, giornalista di la Repubblica.
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell'audito o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
  Prima di dare direttamente la parola a Salvo Palazzolo, che voglio ringraziare per la sua cortesia e disponibilità che ci aveva già dato nella settimana scorsa, a nome di tutta la Commissione voglio esprimere la nostra solidarietà, ma soprattutto la nostra vicinanza per le minacce che ha ricevuto e dirle che non è solo, ovviamente, e questa audizione lo dimostra, ma non sarà solo nemmeno dopo questa audizione.
  Siamo dalla parte di tutti i giornalisti che raccontano con coraggio cosa nostra e le mafie.
  Do la parola al nostro ospite.

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Grazie alla presidente e a tutti voi. In questi mesi ho raccontato la nuova fase che si è aperta nella lotta alla mafia, così come emerge dalle indagini della magistratura a Palermo e non solo a Palermo. Ho raccontato di mafiosi che sono usciti dal carcere, mafiosi particolari, mafiosi che sembrano arrivare dal passato, mafiosi che fino a qualche anno fa erano catalogati come perdenti, perché durante la guerra di mafia del 1981 Riina aveva sterminato delle persone e altre, invece, erano state costrette all'esilio, anche negli Stati Uniti.
  In questi ultimi mesi ho raccontato, quindi, di mafiosi che sono tornati dagli Stati Uniti, mafiosi particolari, mafiosi che non sparano, mafiosi che negli anni Settanta e Ottanta facevano affari e avevano una rete di relazioni importanti all'interno della società palermitana, con pezzi delle istituzioni e dell'economia.
  Ho raccontato di boss scarcerati dopo un lungo periodo di detenzione. Vi voglio raccontare sinteticamente la storia di Michele Micalizzi, oggetto di ordinanza di custodia cautelare della procura di Palermo, arrestato di recente, un pezzo di storia di cosa nostra, di mafia perdente.
  È accaduta una cosa molto strana. Quando il signor Micalizzi è tornato a Palermo, dopo venticinque anni di carcere, tante persone della società civile palermitana lo hanno cercato. Le indagini documentano di imprenditori, di un avvocato con cui addirittura Micalizzi ha fatto un sopralluogo qui a Roma per degli investimenti.
  Potrei raccontarvi anche di altri mafiosi cosiddetti perdenti che hanno un portafoglio pieno nel momento in cui escono dal carcere e nel DNA continuano ad avere una grande capacità di creare relazioni. La parolaPag. 4 chiave delle mie inchieste di questi mesi è «ritorno». Ho raccontato anche di uno dei mandanti del giudice Livatino, lo stiddaro Gallea, uno di quei mafiosi che sembrava avesse fatto un percorso importante in carcere, ma poi, tornato in libertà, è tornato a delinquere.
  Mi sono poi occupato di un'altra particolare categoria di mafiosi scarcerati. Vi ho raccontato dei mafiosi usciti per fine pena e di quelli in particolare della vecchia mafia, con una caratteristica particolare che lì connota per un dato di pericolosità pari ai mafiosi che sparano. Ho poi raccontato dei mafiosi che sono andati in semilibertà o in permesso premio. Mi sono occupato di questi mafiosi quasi per caso.
  Il giornalista, per come lo intendo io e come lo intendono anche altri giornalisti in Sicilia, è quello che sta sul campo, che parla con le persone che vivono nei quartieri. Un operatore sociale mi ha riferito dello stupore nel vedere un personaggio come Alfano Paolo, negli anni Ottanta era uno dei killer di Salvatore Riina, ritornato libero. Questo operatore sociale che fa un lavoro importante a Brancaccio si è stupito, mi ha chiamato e poi io ho accertato che il mafioso in questione effettivamente sta facendo un percorso in carcere e per questo ha avuto la semilibertà e pure il permesso di ritornare a Palermo per qualche giorno.
  Certo, un po' mi ha stupito il ritorno di Paolo Alfano a Brancaccio, in un territorio dove è notorio che ci sono tanti altri mafiosi scarcerati, ma questo è quello che ho raccontato. Poi è accaduta una cosa curiosa, che denota come ci sia un problema di conoscenza a proposito di questi boss scarcerati. Dopo che ho pubblicato il primo articolo, altre fonti sul territorio hanno cominciato a chiamarmi dicendomi che all'Acquasanta c'era Galatolo Raffaele, lo strangolatore dell'Acquasanta, in permesso premio pure lui, uno degli uomini più feroci di cosa nostra.
  Io da buon cattolico, o quantomeno cerco di esserlo, credo che ci possa essere la possibilità del cambiamento anche per il peggior criminale, ce lo insegnava don Pino Puglisi: quindi sono contento che anche Raffaele Galatolo abbia fatto un percorso. Certo, un po' mi ha stupito. Così come mi ha stupito sapere che in quello stesso periodo Ignazio Pullarà di Santa Maria di Gesù, anche lui uno dei killer di Totò Riina, era stato folgorato sulla via di Damasco e anche lui era diventato una persona che vuole cambiare. Sono stato contento. Ho raccontato anche di altri personaggi, di Rotolo Salvatore, ad esempio, il killer del professor Giaccone, ho raccontato di altri mafiosi, tutti con un percorso criminale importante alle spalle.
  Ma la vera notizia doveva ancora arrivare. Attraverso il mio lavoro di ricostruzione ho scoperto che di molti di questi mafiosi scarcerati, della presenza di questi scarcerati sul territorio, le istituzioni e la magistratura di Palermo, la DDA in particolare, non sapevano. Eccolo il problema, l'inchiesta giornalistica di Repubblica ha messo in evidenza una falla nel sistema.
  L'articolo 4-bis, comma 2-bis, dell'ordinamento penitenziario, prevede la possibilità che il giudice di sorveglianza non chieda il parere alle DDA qualora siano permessi ripetuti nel tempo. È accaduto ancora di più: a quanto pare, in alcuni casi non era stato chiesto nemmeno il primo permesso. Attraverso le mie fonti sul territorio ho scoperto che alcuni giudici del nord, che legittimamente avevano dato un permesso premio a un mafioso, avevano poi mandato una mail alla stazione dei Carabinieri del quartiere e poi questa comunicazione si era fermata lì. Anche un altro carcere aveva mandato una semplice comunicazione, una semplice e-mail, in questura e questa e-mail era rimasta lì. Quello che ho denunciato, quello che continuo a denunciare in questi mesi è che in Italia manca un monitoraggio costante dei mafiosi scarcerati con funzioni direttive e semidirettive che, a qualsiasi titolo, per fine pena, per semilibertà, per permesso premio, escono in libertà.
  A Palermo – l'ha documentato ieri la straordinaria indagine della procura di Palermo, che ha portato a 181 persone arrestate – molti mafiosi scarcerati erano tornati a ricoprire ruoli dirigenziali nella compagine mafiosa e soprattutto nella riorganizzazione di cosa nostra.Pag. 5
  Sarebbe possibile allora immaginare una banca dati dove ogni ufficio matricola delle carceri comunichi in tempo reale l'uscita di questi personaggi? Il monitoraggio non è soltanto questione di ordine pubblico. Avere una raccolta di dati ci aiuta a capire, e secondo me può essere anche un contributo importante per la magistratura, se queste persone escono e tornano sul territorio con il portafoglio pieno o no. Come ho verificato, in molti casi, questi scarcerati nel passato non hanno avuto nessun sequestro di beni o sequestri di beni parziali. Ovvero, come nel caso di un'altra brillante operazione della Squadra mobile e della Sezione Investigativa di Palermo del Servizio Centrale Operativo (SISCO), il protagonista dell'inchiesta, Franco Bonura, un pezzo di storia di cosa nostra, era tornato a lavorare nel settore edilizio, a costruire proprio dei fabbricati a Palermo attraverso un prestanome.
  Il monitoraggio è fondamentale e credo che ci voglia anche l'impegno di tutti noi. Il Presidente Mattarella ci dice che l'impegno per la lotta alla mafia è quello delle istituzioni, delle agenzie educative e delle associazioni. Ho riflettuto molto su questo. Che cosa unisce questi soggetti? Io credo che ad unire siano i racconti. Ognuno di noi ha una responsabilità nel raccontare. È anche un modo per non lasciare soli i giornalisti che si ritrovano spesso in situazioni complicate, colleghi che in Sicilia, in provincia, magari senza un contratto, vivono situazioni di minacce. Dobbiamo raccontare questa nuova fase, la fase del ritorno.
  Lo Stato ha dato un segnale importante con la sconfitta dei boss delle stragi, ma la mafia di Totò Riina non c'è più. Nel 2017, con la morte di Salvatore Riina, è caduta la fatwa sui mafiosi perdenti che sono ritornati. Sarebbe allora interessante avviare un monitoraggio di questi soggetti che non sono tornati soltanto a Palermo. Le indagini della procura diretta da Maurizio de Lucia riferiscono anche di investimenti in Emilia-Romagna, nel Lazio. Sarebbe interessante capire come questi scarcerati si sono riposizionati sul territorio nazionale.
  In conclusione, ringrazio questa Commissione per il lavoro di analisi, di studio e anche di sprone per tutta la società civile e per le istituzioni. Un invito costante a non essere distratti. Ieri, il Procuratore nazionale antimafia Melillo ha detto che in Italia si parla poco di mafia, che la mafia non è più nell'agenda del dibattito pubblico. Ognuno di noi deve sentirsi responsabilizzato.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei. Ha inquadrato credo perfettamente il lavoro che la Commissione ha stabilito di fare sul cosiddetto «ritorno». Peraltro, come i colleghi sanno, all'inizio di questa legislatura noi avevamo chiesto i dati sui fine pena, proprio perché ci sorprendeva il numero di quei ritorni; un numero importante che senza dubbio cambia gli equilibri sul territorio. Se a questi andiamo ad aggiungere i 4-bis e quindi quelli che escono in permesso, sappiamo che accadono delle cose.
  Approfitto, a nome di tutti, per fare i complimenti alla procura di Palermo e all'Arma dei carabinieri, per quanto ha fatto in questo ultimo periodo: l'arresto di Matteo Messina Denaro, il fermare la riorganizzazione sugli appalti dei Buscemi, il trovare nomi e cognomi dell'omicidio Mattarella o comunque andare spediti su quell'indagine, fino alla maxi operazione di ieri. Condivido e rilancio come lei la richiesta del Procuratore Melillo di rimettere al centro del dibattito pubblico il tema della criminalità organizzata. La procura di Palermo ci dà una grande mano a farlo.
  Io, però, torno al suo ruolo. Ho diversi iscritti a parlare e quindi mi alternerò con chi vuole intervenire. Faccio solo alcuni nomi: penso a Giuseppe Fava, a Mario Francese, a Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, i più noti Giancarlo Siani o Beppe Alfano. Sono alcuni dei tanti giornalisti uccisi per mano della mafia. Lei crede che in un momento in cui la mafia non fa più rumore, ma di certo, come la sua storia ci racconta, non mancano le intimidazioni e le minacce, si stia «marginalizzando», ma anche ridicolizzando il ruolo della criminalità organizzata? Crede che in questa fase chi come lei fa il giornalista «di strada» sia poco tutelatoPag. 6? Se sì, che cosa possiamo fare come Commissione parlamentare per farvi sentire più tutelati?

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Presidente, fare il mestiere di cronista è sempre più complicato. A me piacerebbe, data l'attenzione che la Commissione ha su questi temi, che si avviasse anche una riflessione rispetto a delle norme che in questa fase storica, i giornalisti italiani lo hanno detto, rischiano di costituire una limitazione nel racconto delle mafie.
  Io ho grande rispetto per il Parlamento, per le norme che sono state stabilite, che nei fatti costituiscono un restringimento del racconto. Vi invito a fare questa riflessione. Ieri il procuratore di Palermo ricordava come le conferenze stampa sugli argomenti di mafia possano essere fatte oggi in Italia per casi eccezionali. Vi invito a riflettere, perché ho la sensazione che noi abbiamo bisogno, invece, di più incontri con la stampa. Sarà una casualità, ma non lo è: da quando le comunicazioni della magistratura e delle forze di polizia sui blitz e sulle indagini antimafia sono diminuite, sono anche diminuite in maniera vorticosa le denunce per il pizzo.
  Mi ricordo di quando qualche tempo fa un generale dei Carabinieri fece uno di quei video – oggi non è più possibile farli per le norme restrittive – in cui ringraziava i commercianti che avevano denunciato e nel dirlo si toglieva il cappello. Quello fu un video che andò virale quel giorno. Ci scrissero in tanti. Mi commuove ancora pensare a quei ragazzi che mi hanno scritto in redazione: «Salvo, noi non abbiamo mai letto un tuo articolo o un tuo libro, ma abbiamo visto questo rappresentante delle istituzioni mentre fa un gesto significativo, un video con un effetto potentissimo». Questo è un luogo di dibattito, di analisi e di riflessione, per cui credo ci possa essere uno spazio per invitare il Parlamento a una riflessione e far sì che i giornalisti, ma anche le istituzioni e la magistratura in particolare possano, sui temi della lotta alla mafia, avere la possibilità di una comunicazione più ampia. Ne abbiamo bisogno, perché nei quartieri la mafia ha già messo in campo una strategia di comunicazione e la mia paura è che, mentre noi seguiamo le importanti regole della riservatezza e della presunzione di innocenza, principi che condivido, l'organizzazione mafiosa abbiamo lanciato una grande partita per recuperare consensi nei territori.
  Tempo fa, feci un'inchiesta su un boss della mafia che distribuiva la spesa durante la stagione del Covid e scrissi un articolo; il giorno dopo quel mafioso – i Carabinieri lo stavano intercettando, dal momento che era il nuovo capomafia del quartiere Zen – scrisse su Facebook che se la mafia è quella che aiuta la povera gente, allora lui era un mafioso. Sei mesi dopo fu arrestato perché era un capomafia. Non era mai accaduto che un mafioso si palesasse su Facebook. Ma è accaduto anche dell'altro in questi ultimi tempi, un mafioso scarcerato, Francolino Spadaro, riarrestato ieri, si era fatto un selfie con un neomelodico dopo la sua scarcerazione.
  Dobbiamo affinare la nostra capacità di analisi: a fronte di una campagna di comunicazione di cosa nostra, noi, lo Stato, la società civile, la gente di buona volontà, i giornalisti devono essere in grado di fare una comunicazione attrezzata. Così, quando ieri il Procuratore ci ha detto che la conferenza stampa era un'occasione straordinaria di incontro, noi l'abbiamo ringraziato, perché in quel confronto pubblico importante abbiamo avuto un momento di riflessione. Vorremmo che si raccontassero i risultati, vorremmo che si riportassero i successi conseguiti ogni giorno non soltanto dalla procura di Palermo, ma dalle stazioni dei Carabinieri, dai commissariati di Polizia, ma non con comunicati di cinque righe, senza nomi, senza una storia. Magari dietro ognuno di quei comunicati ci sono storie straordinarie di mamme che si sono rivolte alle forze dell'ordine per fare arrestare degli spacciatori. Dobbiamo raccontare queste storie di ribellione e riscatto. Dobbiamo trovare il modo di aprire una finestra, magari un doppio binario di informazione. Soltanto così saremo vicini ai giornalisti e i giornalisti non saranno esposti. Io stesso mi sono esposto e mi trovo a girare con la scorta a Palermo, perché in una situazione di silenzio dell'informazionePag. 7 sono andato avanti a raccontare quello che tanti coraggiosi uomini delle istituzioni fanno.
  Io vorrei che i boss mafiosi e i loro complici vedessero le conferenze stampa in cui sono presenti i pezzi dello Stato, la magistratura, le forze dell'ordine, i giornalisti. Poi sarà cura dei giornalisti impegnati dare spazio anche alle ragioni della difesa. Io ho fatto una campagna contro il signor Bonura, uno degli scarcerati eccellenti, ma ho cercato il signor Bonura, chiedendogli la sua versione dei fatti. Io non faccio il poliziotto o il carabiniere – mi sarebbe piaciuto – io racconto storie. Il mio maestro mi ha insegnato che il giornalista possa parlare anche con il diavolo, ma al diavolo devo fare le domande. Allora, sarà nostra cura poi assicurare la presunzione di innocenza del signor Bonura, ma intanto raccontiamo, raccontiamo.

  PRESIDENTE. Gli articoli su Bonura sono alcuni degli articoli che più ho letto, perché mi ha colpito il fatto che lui non ha detto di essere un mafioso, ma l'ha lasciato intendere, da quello che lei ha scritto. Quindi, anche lì c'era una sorta di accusa a se stesso o di rivendicazione del ruolo della mafia, a mio avviso. Però, queste sono valutazioni che faremo in altra sede.
  Visto che ha posto questa questione e data la sua sensibilità sul tema delle giovani generazioni anche in riferimento alle nuove forme di comunicazione, io faccio spesso riferimento ai social media e, quindi, ai neomelodici e ad alcune canzoni che indubbiamente si inseriscono culturalmente nella crescita dei nostri ragazzi, tant'è che in Commissione abbiamo insediato un Comitato che si occupa proprio di questo tema – Comitato presieduto dalla senatrice Rando, che tra le altre cose sta lavorando per trasformare in legge il protocollo d'intesa «Liberi di scegliere» – le pongo questa domanda: oggi a Palermo un giovane di estrazione familiare mafiosa prenderebbe le distanze da suo padre?

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Il cronista di giudiziaria ama parlare con gli atti. Nella recente indagine su Bonura c'è un capitolo dedicato ai rimproveri del signor Bonura al figlio. Il figlio è un farmacista, è una persona perbene, il giorno in cui si rivolge a un amico carabiniere per recuperare il cellulare che ha perso, viene rimproverato sonoramente dal padre. Il quale gli dice: noi abbiamo dei valori, noi abbiamo un'educazione.
  Oggi ci sono tanti giovani a Palermo che vogliono rompere con il passato, con dei padri ingombranti, ma non possono. Allora, tutti dobbiamo cercare di riflettere su questo aspetto: come possiamo sostenere questi giovani? Forse parlando di più di questi temi, dando la possibilità in maniera inclusiva di aprire i dibattiti, di creare spazi di dibattito su questi argomenti.
  Naturalmente il tema del ritorno porta alla questione dei capitali, dei soldi, del passato. Ricordiamoci che Buscetta diede un contributo sicuramente importante, ma non parlò dei soldi del suo schieramento, di Bontate e di Inzerillo. Totò Inzerillo fu ucciso e gli altri, andandosene via, portarono il «tesoro» all'estero, ma poi questi soldi, secondo le indagini condotte dalla procura di Palermo, sono ritornati a Palermo, perché i boss un tempo perdenti si vogliono riprendere Palermo. Dunque, oggi ci sono anche dei giovani che vanno ancora liberati, perché sono dentro aziende, sono dentro sistemi familiari pieni di ricchezze. Però, lo ripeto, la magistratura fa il suo compito e lo fa benissimo, l'antimafia istituzionale continua a fare cose importanti, l'antimafia culturale invece, nonostante l'impegno di tante associazioni, penso a Libera, è ancora carente.
  Continua a resistere purtroppo una voglia di mafia, questo emerge dalle indagini. Ieri mi ha sconvolto non tanto il numero degli arrestati, 181, quanto leggere di commercianti palermitani che si rivolgono al mafioso per recuperare un credito o per dare una lezione al concorrente. Questa italica via della scorciatoia, che purtroppo emerge non soltanto dalle inchieste di Palermo, ma anche di Reggio Calabria, di Napoli e di Milano, questa voglia di mafia come riusciamo a vincerla? Personalmente non ho ricette, però è importante che l'analisi sia orientata nel modo giusto.

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  PRESIDENTE. Grazie. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIUSEPPE PROVENZANO. Grazie, presidente, anche per aver voluto, in tempi così celeri, questa audizione che io credo sia importante per una serie di ragioni.
  La prima è che questa Commissione storicamente ha avuto una relazione con i giornalisti più esposti sui temi della lotta alla mafia e noi tutti abbiamo bisogno di andare oltre la solidarietà di un giorno e mandare il messaggio chiaro alle organizzazioni criminali che questa Commissione e le forze politiche che vi partecipano stanno dalla parte di chi è più esposto semplicemente facendo il proprio lavoro, come fa Palazzolo, che lo svolge con peculiare tenacia, costanza, competenza e serietà, aiutando a rompere quel silenzio che hanno lamentato prima il procuratore di Palermo all'inaugurazione dell'anno giudiziario e ieri il Procuratore nazionale antimafia.
  Nel ringraziarla, presidente, mi lasci dire che noi, soprattutto in momenti così importanti, dovremmo provare a organizzare i nostri lavori non in concomitanza con Commissioni in cui ci sono votazioni. Comunque, questo è un tema che lei ben conosce, per cui lo chiudo qui.
  Io ho una serie di questioni da porre a Palazzolo e lo farò brevemente in quanto mi interessano le risposte. Lei, nell'ultima fase, negli ultimi mesi, ha posto l'accento sul tema delle scarcerazioni e dei permessi premio. Il nostro è un quadro normativo – lei ha citato la sua matrice cattolica – che dobbiamo sempre valutare, considerando che siamo uno Stato di diritto e nel quadro della nostra Costituzione.
  Ci saranno e possiamo discutere di falle nelle norme, però la falla principale che emerge, a mio avviso, dalle sue inchieste riguarda l'organizzazione dello Stato. Rispetto a questa nuova fase dei boss reduci dalle guerre di mafia o dalla grande stagione di repressione degli anni Novanta, il tema non è solo che tornano in libertà, il tema è soprattutto in quale contesto tornano in libertà e quali strumenti ha lo Stato per valutare la pericolosità di quei contesti. Oggi lei ha ricordato una cosa che aveva già detto alla Commissione antimafia regionale, in Sicilia, vale a dire la necessità di predisporre un sistema di monitoraggio, che riguarda, in primo luogo, il Ministero della giustizia. Quindi, chiedo alla presidente di rinnovare tutti insieme la richiesta di una banca dati e rendere la Commissione antimafia nazionale protagonista di questo lavoro. Però, le chiedo: a chi spetta il compito della valutazione della pericolosità dei contesti in cui un beneficio previsto dalla legge può tradursi nella concreta possibilità di un'iniziativa criminale da parte di questi soggetti?
  I sistemi di sorveglianza speciale che dovrebbe mettere in campo il Ministero dell'interno dialogano come dialogano con questa vicenda più generale delle scarcerazioni e dei dati, perché ciò che emerge è che la mafia torna a esercitare e a offrire servizi di giustizia privata in questo momento ai cittadini. Quindi, se un libero cittadino può avvicinare il mafioso che torna in libertà, vuol dire che qualcosa lì non funziona.
  Altra questione. Ieri è emersa, in quella rara occasione di conferenza stampa, come ha detto lei prima, una denuncia molto significativa. In queste ore si è parlato anche dell'articolo 41-bis, ma ieri il Procuratore nazionale antimafia ha usato espressioni molto forti, dicendo che l'alta sicurezza in Italia è in mano alla criminalità organizzata. Cito a memoria, ma le parole sono più o meno quelle. L'utilizzo di droni per la consegna di telefonini, ma non solo, sono cose che abbiamo letto non solo a Palermo, anche nelle sue inchieste. Vorrei chiederle qualcosa di più su questo aspetto. Inoltre, vorrei chiedere alla Commissione di convocare con urgenza il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria su questo punto, perché io credo che le parole pronunciate ieri dal Procuratore Melillo non possano rimanere senza una risposta urgente da parte della nostra Commissione.
  Questo per quanto attiene ai contesti carcerari. Se guardiamo al contesto esterno, la preoccupazione è ancora maggiore. Lei era presente all'inaugurazione dell'anno giudiziario a Palermo, dove dalle relazioni del presidente della corte d'appello e della procuratrice generale è emerso con chiarezza Pag. 9il tema della voglia di mafia che ritorna, una descrizione di una mafia che è florida anche sul piano economico e che ricostruisce in continuazione i vertici. È di ieri la notizia di una cupola che si è rimessa in moto attraverso chat criptate, di una mafia, come è emerso anche in quella giornata, che non solo agisce e si arricchisce attraverso i suoi tradizionali affari illeciti, ma anche attraverso una presenza nell'economia legale, frutto di connivenza – queste erano le parole – di pezzi di apparato pubblico e istituzioni, in particolare nella filiera dei subappalti, attraverso la quale le mafie recepiscono non solo risorse, ma anche consenso sociale. Lei stesso prima ha parlato di lotta per il consenso. Da questo punto di vista le chiedo se, a suo avviso, le norme che ci sono state di deregolamentazione dei subappalti e via elencando stanno incrementando gli appetiti delle mafie e le occasioni in cui questa connivenza si può manifestare.
  Altra domanda e chiudo. Sempre in quella giornata – mi sono segnato le parole, perché mi hanno molto colpito – è stata denunciata l'inquietante interlocuzione riservata tra esponenti mafiosi e amministratori locali, cosa ovviamente non nuova. Il punto su cui io credo dovremmo interrogare la nostra Commissione è che questi amministratori locali non sono delle monadi, ma hanno riferimenti politici.
  Nei giorni scorsi – io stesso ho espresso solidarietà – è emersa un'intercettazione, sempre letta grazie ai suoi articoli, Palazzolo, uscita da un'inchiesta sul clan Uditore, in cui (ho letto molte dichiarazioni anche qui dei colleghi commissari) veniva attaccata Giorgia Meloni per il 41-bis. Quella stessa inchiesta vedeva la partecipazione del boss, non di uno dei mafiosi, a incontri elettorali di un esponente politico. Un galoppino elettorale di un deputato regionale in Sicilia, Figuccia, della Lega, andava a cercare il capomafia Inzerillo – quello delle intercettazioni – per partecipare ai suoi eventi elettorali.
  Lei prima ha parlato del caso Bonura, ma Bonura, oltre ai rimproveri al figlio, era uno che agiva provando a mettere in pratica quella interlocuzione con gli amministratori locali. Sempre nelle indagini su Bonura che anch'io ho letto, come la presidente, con grande attenzione, Bonura chiede al vicepresidente della quinta circoscrizione di Palermo che mi pare si chiami Lo Sardo, di Forza Italia, un favore per la moglie. Questo – voglio tranquillizzare i colleghi – potrebbe accadere anche ad altre forze politiche, ma esiste un tema che ci riguarda tutti, di sanzione politica che si mette in campo su questi comportamenti.
  Le faccio la domanda. Dal comune di Palermo si è attivato qualcosa rispetto a quello che in altro tempo probabilmente sarebbe stato perseguito come abuso d'ufficio, oggi non lo so, per sanzionare politicamente quello che, al di là delle norme, al di là del fatto che possiamo togliere permessi e tutto quello che vogliamo, ha a che fare con un meccanismo di interlocuzione che chiarisce questo contesto di pericolosità, di pervasività, nel quale, poi, si ricostruisce la filiera mafiosa a Palermo?
  Scusi, ho fatto troppe domande, ma è un'occasione preziosa anche per noi.

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Grazie, onorevole. Intanto quel giorno, quando ho pubblicato la storia del vicepresidente della circoscrizione che scavalcava mesi e mesi di prenotazione per fare la carta d'identità alla moglie del boss, tanti lettori hanno chiamato in redazione. Purtroppo a Palermo ci sono problemi per fare subito la carta d'identità. Eppure, quella notizia non ha portato a reazioni particolari nel dibattito pubblico. Come direbbe il Procuratore Melillo, la mafia non fa più notizia.
  Questo per dire che cosa? Per rispondere alle domande importanti che lei ha fatto. Ho la sensazione – e questo ve lo dice il cronista che sta in strada – che ci sia a Palermo, ma forse Palermo in questo è palcoscenico di tutto il Paese, una sorta di rilassamento. Come se, finita la mafia delle stragi, nell'opinione pubblica, nel dibattito pubblico, non ci fosse più la sensazione della pericolosità del fenomeno.
  Il signor Bonura l'ho incontrato in via Ausonia, dove abita. Ho chiesto prima nel condominio se avessero problemi per il fatto che un mafioso così pericoloso abitasse lì. Una signora inizialmente ha cominciatoPag. 10 a protestare, pensavo per Bonura, invece no: era per la casa per anziani del settimo piano, che dava loro fastidio. Ho capito allora che forse c'è qualche problema. A parte la battuta, oggi siamo di fronte a una mafia tornata invisibile.
  Io ho voluto raccontarvi quello che faccio perché ho ripreso a studiare – ed è un invito anche per gli amici studenti che devono approfondire – il processo Spatola. Il processo Spatola fu, come voi sapete, il primo processo che Giovanni Falcone fece da giudice istruttore, un'inchiesta in cui si occupò degli Inzerillo che all'epoca facevano traffico di droga, ma erano anche impegnati con tanti affari nell'ambito della massoneria. Quella vicenda andrebbe approfondita. A parte che quei boss oggi sono ritornati nelle loro strade ad avere rapporti con gli imprenditori che all'epoca conoscevano, ma ho la sensazione che ci sia un rilassamento totale anche su alcune norme che dovrebbero, invece, essere dei puntelli.
  Questa mafia, la mafia che noi non dobbiamo più chiamare «perdente», ma chiameremo «vecchia mafia», ha nel DNA soprattutto un bagaglio di relazioni. Questo è il vero tesoro di questa mafia. I rapporti che hanno con pezzi delle istituzioni, dell'economia, delle professioni non sono rapporti recenti. Bisognerebbe rileggere anche le intercettazioni di Micalizzi, il quale viene accolto come un parente da quell'avvocato, con cui fa un sopralluogo qui a Roma per aprire delle gelaterie. Come se fosse mancata quella persona. Mi chiedo: che cosa riconoscono in queste persone? Qual è l'autorevolezza di queste persone? Forse la capacità del mediare, dell'organizzare e altre relazioni.
  Siamo di fronte a una mafia invisibile che credo sia già infiltrata in pezzi delle istituzioni, della società, dell'economia. La sensazione è che siamo in ritardo. Io oggi ringrazio le istituzioni che mi tutelano con una macchina blindata e due agenti, ma penso ai commercianti che tuttora continuano a opporsi in certi contesti, penso ai sacerdoti, penso agli insegnanti che operano in territori difficili, penso a tanti ragazzi delle forze dell'ordine, ufficiali dell'Arma dei carabinieri, della finanza, che vanno nei processi a testimoniare e loro non hanno la scorta.
  C'è un'Italia – mi commuove dire questa cosa – che ogni giorno è in prima linea perché sente, vive questa emergenza. Queste, però, sono persone sole. Io non vorrei che un giorno ci ritrovassimo a piangere un rappresentante delle istituzioni, un giovane ufficiale dell'Arma, un commissario di Polizia che si è impegnato in prima linea. All'interno di questa nuova dinamica – ce lo racconta l'indagine di ieri – ci sono i capimafia scarcerati che hanno un patrimonio forte di relazioni, ma ci sono quelli più giovani che, invece, tendono al ritorno della violenza. In cosa nostra c'è un momento di fibrillazione, di imprevedibilità. La procura di Palermo ha dovuto agire – l'ha spiegato il procuratore De Lucia – con urgenza, facendo anche provvedimenti di fermo, perché ci sono tante armi in giro, c'è il rischio di azioni che una parte di cosa nostra vuole.
  È poi importante fissare dei paletti nella pubblica amministrazione, sugli appalti, nella politica. I partiti prendano un impegno con dei codici etici, con delle norme stringenti. Magari può non essere reato far scavalcare la fila e far fare subito la carta d'identità alla moglie del signor Bonura, ma è sicuramente un comportamento deontologicamente disdicevole. Esiste un codice etico all'interno di un qualsiasi partito per sanzionare un comportamento del genere?
  Come possiamo alzare le barricate? Io ho la sensazione – spero di sbagliarmi – di un qualcosa che sta arrivando, di un'onda che sta arrivando alla quale siamo impreparati. Non abbiamo posto delle paratie. Non vorrei che stessimo tornando velocemente a un passato drammatico. Vorrei mettere anche questa variabile nel nostro dibattito. Negli anni Settanta c'era questa mafia che faceva affari, ma era una mafia che faceva affari ed era infiltrata perché aveva una capacità economica forte. Questa capacità economica forte nasce anche oggi dal traffico della droga. A Palermo arrivano carichi di droga enormi. Cosa successe negli anni Settanta? All'inizio i clan erano d'accordo. A un certo punto, cominciarono a litigare. Nell'inchiesta della procura di Palermo c'è traccia di litigi Pag. 11pesanti per partite di droga scomparse, per debiti non onorati. Quando nell'ambito della droga ci sono queste questioni si comincia a sparare.
  Presidente, non so se ho risposto alle tante importanti domande. C'è una complessità del momento. Ripeto: la magistratura è in prima linea, le istituzioni democratiche devono, però, guardarsi dentro e fissare ognuna degli argini, fissare ognuna nel proprio ambito degli argini, prioritariamente enti pubblici, enti locali, appalti, subappalti. A Palermo per un certo periodo soltanto le ditte di un certo paese vincevano oppure ci sono ancora – e sarà oggetto di una mia inchiesta – strani ribassi. Su quella cosa bisogna porgere un argine, così come porgere un argine nella politica per evitare infiltrazioni che continuano ad esserci. Purtroppo il passato di Palermo, come i soldi del passato, ritorna. Non vorrei si tornasse a inquinare ancora di più la vita pubblica.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Ho iscritto il vicepresidente D'Attis, collegato da remoto.

  MAURO D'ATTIS(intervento in videoconferenza). Signor presidente, le chiedo di saltare un turno e di fare la domanda successivamente, se è possibile. Grazie.

  PRESIDENTE. Va bene. Senatore Russo.

  RAOUL RUSSO. Grazie, presidente. Ringrazio il dottor Palazzolo per la sua testimonianza, che ho potuto ascoltare solo in parte perché purtroppo ero impegnato nei lavori del Senato. Essendo palermitano, però, conosco i suoi articoli da qualche decennio.
  Una considerazione e poi un paio di domande.
  Parto dalla considerazione. Lei ha parlato, giustamente, della città di Palermo. Io aggiungo che c'è un problema anche in provincia. Mentre in città il fenomeno dei «liberati», definiamoli così, lo avverti nei quartieri popolari, molto spesso incontro amministratori locali che hanno il problema enorme, anche in paesi medio-piccoli, di dover cambiare marciapiede per non incrociare certe persone, cambiare bar, inchini al contrario, cioè processioni in cui tutti i cittadini mediamente si alzano per onorare le istituzioni che passano dietro la statua di un santo, di una Madonna e il mafioso di turno rimane volutamente seduto. Quindi, c'è anche questo meccanismo di sfida al contrario.
  Ho incrociato la mia esperienza parlamentare con i dati dell'inchiesta di ieri, in cui c'è l'altro elemento veramente drammatico della dimensione giovanile di questa mafia, della violenza giovanile, che riconosce questo modello positivo dei mafiosi. È un tema assolutamente importante, che condivido anche là dove, purtroppo, esiste una generazione tuttora abituata a chiedere alla politica non la risoluzione dei problemi generali, ma l'intermediazione per la soluzione di un problema particolare. Al famoso problema dell'evocata carta d'identità io ho sempre risposto che c'è un ottimo sportello in viale Lazio. Altri amano, invece, occuparsi di altro. È anche una questione di scelte.
  Passo alla domanda. Lei notoriamente è sempre stato anche un cronista di strada, una persona che ha sempre lavorato a contatto con la città, con i quartieri, girava con lo scooter, una persona che sapeva interrogare non solo il giudice, non solo il magistrato, ma – come ha raccontato poc'anzi – anche l'inquilino o il commerciante, cosa che chiaramente, essendo in una dimensione protetta, credo possa fare molto di meno in questo passaggio della sua vita che spero sia il più transitorio possibile.
  Secondo lei, quanto è importante, per fare un racconto obiettivo, oggettivo, che colpisca, il contatto non solo con le istituzioni, ma con il contesto? Non è più tempo semplicemente di articoli, con tutto il rispetto, fatti molto spesso dal comunicato stampa o dall'agenzia stampa. Forse è il momento di riscoprire l'inchiesta fatta di persone che camminano.
  Una considerazione da siciliano, da palermitano. Secondo lei quanto ancora la diffidenza verso le istituzioni, l'omertà vigono in Sicilia, nel Meridione? Soprattutto, Pag. 12sulla base di quanto emerge dall'inchiesta di ieri, quanto questi codici di disonore hanno inciso nel riconoscimento della personalità di questi mafiosi liberati che sono tornati a spadroneggiare?

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Grazie.
  Voglio raccontarvi di quando Inzerillo Tommaso, capostipite importante degli Inzerillo, tornato a Palermo, intercettato dalla squadra mobile nel 2016, rimproverava i suoi giovani accoliti dicendo: «Voi guardate soltanto Internet o i social, io ogni mattina compro il giornale, perché dobbiamo stare attenti».
  In quel momento mi sono reso conto che c'è un'attenzione importante da parte dei mafiosi al giornalismo d'inchiesta, quel giornalismo d'inchiesta che forse spesso non facciamo perché abbiamo sempre tante cose da fare e quindi non curiamo l'approfondimento. Però, in Sicilia, parlo della terra che conosco, ci sono tanti colleghi in provincia, spesso senza un contratto di lavoro, che rischiano.
  Mi piacerebbe – e colgo al volo questa grande attenzione che avete per l'informazione, visto che la Commissione antimafia in questo momento oggi è, consentitemi, la scorta vera dei cronisti impegnati in terre di mafia – che ascoltaste questi giornalisti, a Enna come a Ragusa, colleghi, ripeto, senza un contratto di lavoro che si vedono arrivare, lavorando da precari, richieste di risarcimento danni per 1 milione di euro, che è peggio di ricevere una busta con un proiettile.
  In questo senso forse dare voce a questi cronisti sarebbe anche importante, perché questi cronisti, in terre difficili, in Sicilia come anche in altri luoghi, anche al nord, probabilmente sul territorio riescono a cogliere cose ancora prima degli investigatori, perché parlano con la gente.
  Oggi io noto – e grazie anche per questa seconda domanda – che la gente ha tanta voglia di parlare. Non è vero che a Palermo c'è l'omertà. Quando vai sul luogo di un delitto la gente ti vuole aiutare, la gente vuole liberarsi. I giornalisti sono terminali di questi racconti.
  I giornalisti in Sicilia si espongono perché raccontano le storie di chi vive il territorio, ripeto, sacerdoti, imprenditori e commercianti.
  Io mi sento fortunato perché lavoro per un giornale come la Repubblica, un giornale solido, con una squadra di colleghi a Palermo, siamo in dieci, il collega Emanuele Lauria è il nostro capo redattore, guida una squadra di cronisti agguerriti. Ma penso ai colleghi che lavorano in piccoli giornali, in piccoli siti web. Accendiamo un faro su questi colleghi, magari insieme all'associazione della stampa, tutti insieme, per cogliere quel racconto sulle mafie che queste persone stanno vedendo. È questa la sfida.
  L'inchiesta di ieri ci racconta un fatto importante. I mafiosi hanno deciso di non fare la commissione di cosa nostra, ma si riuniscono su una chat che è criptata. La procura di Palermo ha dovuto ammettere di non essere riuscita a entrare su questa chat. Noi non conosciamo le parole che oggi i mafiosi si dicono. I Carabinieri, bravissimi, sono riusciti a cogliere queste cose perché avevano una microspia in quella stanza e hanno ascoltato quello che scrivevano, ma oggi non conosciamo le parole della mafia.
  Le indicazioni che la procura di Palermo ieri ci ha dato sono un monito per tutti. Noi non conosciamo le parole della mafia rispetto ai rapporti con la politica, rispetto ai dialoghi con il mondo della economia, della società civile. Quali sono queste parole? Sono probabilmente le vecchie parole che già i nostri martiri avevano individuato nelle loro indagini? Forse. Sono le parole di relazioni antiche che tornano? Forse, ma probabilmente sono anche parole di relazioni nuove.
  La metà dei 180 arrestati di ieri ha meno di quarant'anni di età. Questo è un altro dato inquietante. E non sono figli o parenti di qualcuno. Sono giovani che ritengono la proposta di cosa nostra più importante della proposta di altre persone.
  Qualche giorno fa riflettevo con il vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, un punto di riferimento per tutti noi, sulla possibilità di immaginare – questa è una Pag. 13battaglia anche per i laici – una pastorale, un dialogo, per offrire un'alternativa a queste persone che escono dal carcere.
  Credo fortemente che una persona possa cambiare, fermo restando che, come diceva Tommaso Buscetta al giudice Falcone, e l'indagine di ieri ce lo conferma, da cosa nostra si esce soltanto in due modi: collaborando con la giustizia o con la morte. Ieri i mafiosi lo hanno ribadito. Voglio però credere che ci possa essere anche una possibilità e una speranza per queste persone. Coinvolgiamole queste persone. Siamo più forti noi? E allora facciamo delle proposte chiare, alternative, sostenendo le associazioni che lavorano con i figli di mafia. Facciamo noi terra bruciata nelle famiglie di mafia, sostenendo associazioni come Libera e tante altre associazioni – è meritevole il lavoro che voi state facendo – offrendo un dialogo e una possibilità ai figli di Bonura, ai figli dei boss, stanandoli. Vuoi fare un percorso? Lo facciamo insieme. Io non sono per creare ghetti, non ce l'ho con gli scarcerati perché sono il ghetto. No, possiamo dialogare con loro. Dialoghiamo, ma noi siamo lo Stato, noi siamo la società civile. Io non ti isolo, ma mi devi dare segnali forti di cambiamento.
  La Corte di cassazione ha detto, e chiudo, che per la concessione dei permessi premio è necessario che il mafioso risarcisca la vittima. Ebbene, in un monitoraggio che ho fatto dei provvedimenti dei giudici di sorveglianza, non c'è alcun risarcimento alle vittime. Andrebbe fatto un monitoraggio di questi provvedimenti. C'è una giusta applicazione di tutti i principi?
  Un giudice scrive che il mafioso gli ha detto di essere nullatenente. Lo dicono tutti che non hanno niente. È così? La Cassazione fissa dei criteri rigidi. Ognuno si assuma le sue responsabilità, ma sul tema degli scarcerati l'attenzione deve essere altissima. Credo che in questo momento a Palermo cosa nostra abbia già rimpinguato i ruoli direttivi che ieri sono finiti in carcere e sono sicuramente giovani, con la pistola facile, con forti affari con trafficanti di droga. La procura di Palermo è già a lavoro.
  Cosa nostra continua a essere un'azienda e un'azienda non si può fermare.

  PRESIDENTE. Grazie. Non solo accetto il suggerimento di ascoltare i colleghi cronisti più sconosciuti che però fanno questo lavoro, ma rilancio perché credo che in questa fase chiunque ci aiuti a fare una comunicazione corretta su quanto sta avvenendo possa essere utile a livello culturale nella lotta alla mafia.
  Peraltro, approfitto per dire anche al collega Provenzano che quando abbiamo deciso di approfondire il filone sul 41-bis e sul 4-bis abbiamo ovviamente già chiesto al DAP una serie di dati che in parte ci ha già mandato, in vista dell'audizione del capo del DAP o il facente funzioni. Lo dico adesso rispetto all'inchiesta che ha fatto Palazzolo e che ci ha adesso riferito, perché mi sembra che sia più o meno la stessa cosa che risulta a noi. Approfitto per chiedergli, rispetto all'inchiesta che ha fatto, ha per caso ravvisato una strategia negli spostamenti da un istituto penitenziario ad un altro, alla ricerca di una giurisprudenza più favorevole alla magistratura di sorveglianza? Perché questo potrebbe influire sui percorsi di collaborazione con la giustizia in atto o magari futuri.

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Per quello che ho potuto cogliere dalle storie che ho raccontato – il mio monitoraggio è su Palermo, ma sarebbe interessante, come voi volete fare, un'indagine nazionale – ho colto una strategia precisa di mafiosi all'interno di gruppi, di aree, una strategia precisa (se ne parla anche nelle intercettazioni recenti di Bonura) per arrivare prima a un passaggio, poi a un altro e poi alla libertà condizionale.
  I mafiosi non stanno camminando in ordine sparso. I capi di cosa nostra, e io credo delle mafie, hanno una strategia precisa per uscire fuori dal carcere. Questa strategia va interrotta perché ci sono escamotage che abbiamo individuato, sfruttando la debolezza o il momento di distrazione che può essere anche fisiologico: abbiamo vinto la grande guerra, non c'è più la mafia delle stragi. Invece, abbiamo dimenticatoPag. 14 che ci sono questi signori con dei patrimoni ancora non sequestrati e, dico ancora di più, con delle relazioni del passato che potrebbero essere oggetto anche di ricatto per pezzi delle istituzioni, della politica e della economia, quindi mafiosi davvero pericolosi.
  Presidente, mi consenta di dire che, rispetto ai cronisti minacciati, il Ministero dell'interno da anni ormai fa un lavoro importantissimo per tenere sotto controllo le minacce ai giornalisti. C'è un osservatorio importantissimo. I giornalisti vengono sentiti e auditi. Quello può essere un importante punto di partenza anche rispetto alle storie, ai colleghi da audire in questa sede. In questo senso credo che sarebbe una cosa veramente importante, perché credo che in questo momento i giornalisti siano un po' avanti rispetto a tante altre situazioni e mettono in evidenza una serie di presenze diverse.
  Mi piace condividere con voi, come se oggi fossimo tutti insieme a riflettere su tante cose, che ho avuto notizia ieri di un provvedimento di semilibertà per l'ex capo della stidda, Orazio Paolello, il Totò Riina della stidda. Sono contento che lui stia facendo un percorso, ma sono curioso – il giornalista è curioso – e voglio comprendere le ragioni e i percorsi. Mi è capitato anche di parlare con dei sacerdoti che lavorano con queste persone, ad esempio con Formoso Giovanni, uno dei mafiosi che ha fatto la strage di Milano, che adesso è in semilibertà.
  Nel mio articolo forse sono stato un po' eccessivamente critico, sempre rispettando il giudice e rispettando tutti. Ma è un po' singolare che vada in semilibertà un mafioso che ha avuto una responsabilità importante rispetto a una strage su cui la procura di Firenze sta ancora indagando, prevedendo delle cointeressenze di soggetti delle istituzioni. Dunque, uno dei detentori di quel segreto viene messo in libertà. Lui dice che sta facendo un percorso.
  Il sacerdote che sta curando il percorso di questo mafioso mi ha detto che lui nega di avere fatto reati di mafia e la strage. Qual dunque, mi chiedo, il percorso di ravvedimento se lui nega in toto di aver fatto quello che ha fatto? Continuo a chiedermelo.

  PRESIDENTE. Ce lo chiediamo anche noi.

  DEBORA SERRACCHIANI. Signor presidente, anche da parte mia e da parte nostra un ringraziamento va ovviamente al nostro ospite per la presenza e il lavoro preziosissimo che fa quotidianamente. Anche un ringraziamento alle forze dell'ordine e alla procura di Palermo credo sia assolutamente doveroso.
  Non aggiungo molto di più a quello che lei diceva circa la necessità di far conoscere le storie. Su questo dovremmo un po' tutti riflettere sul percorso che si sta facendo al fine di limitare sempre di più il diritto di cronaca che molto spesso, invece, può sollecitare le coscienze, come lei ricordava, proprio a iniziative personali e collettive che invece servono anche come esempio sempre di più a questo Paese e sempre di più ai più giovani.
  Francamente, se continuiamo a restringere sempre di più il campo della cronaca giudiziaria, credo che questo non sarà possibile. Non le nascondo, però, presidente, un certo imbarazzo a sentire quanto sia stato importante e puntuale il lavoro della procura di Palermo e quanto sia stato importante e prezioso il lavoro fatto anche di cronaca che poi non è soltanto cronaca, nel senso che poi produce effetti, abbiamo visto, estremamente positivi, se guardo dall'altra parte a come si sta intervenendo dal punto di vista giudiziario sugli strumenti che sono a disposizione di chi le indagini le fa.
  Alla Camera ci stiamo occupando delle intercettazioni, del limite a quarantacinque giorni sulle intercettazioni. Approfitto di questa nostra audizione, presidente Colosimo, lei me lo consentirà, perché voglio anche a lei segnalare questa circostanza che peraltro non è indicazione di un partito, il Partito Democratico, o di un gruppo, ma è dentro il dossier della Camera.
  Sui quarantacinque giorni abbiamo opinioni diverse. È la politica. Noi riteniamo che vada messo un limite alle intercettazioni,Pag. 15 ma quarantacinque giorni francamente è abbastanza ridicolo.
  Lei, presidente, potrebbe dirmi che c'è la deroga per la criminalità organizzata. La deroga in quell'unico articolo è fatta con un rinvio secco all'articolo 13 della legge n. 152 del 1991.
  Il dossier della Camera ci dice: «Attenzione, perché in questo modo rimangono fuori tutti quei comportamenti monosoggettivi che comportano criminalità organizzata, ma che non sono criminalità organizzata dall'inizio e sui quali non vi sarebbe la deroga sulle intercettazioni». Cito testualmente, ma questo lo dico senza nessuna nota polemica, ma solo perché l'antimafia possa prestare attenzione a quello che sta accadendo in Commissione Giustizia, prima al Senato e oggi alla Camera, dove il dossier dell'Ufficio studi della Camera dice: «In questo modo è stata esclusa la possibilità di disporre intercettazioni sulla base della disciplina derogatoria in esame per i delitti aggravati ai sensi dell'articolo 416-bis, primo comma, del codice penale, perché commessi con metodo mafioso o con la finalità di agevolare un sodalizio mafioso».
  Francamente credo che, di fronte a questo alert, dovremmo dire qualcosa, come Antimafia. Mi scuserete, quindi, se approfitto di questa nostra audizione per dire che su quella norma, che rischia di passare – i numeri ci sono – in via definitiva, anche l'Antimafia dovrebbe porsi un problema, perché, per come è scritta, la deroga non coprirà tutte le fattispecie di criminalità organizzata e probabilmente, da come lei ce le descriveva, non copre proprio quelle fattispecie che lei sta indicando.
  Il mafioso che esce fuori non è il classico caso di scuola, esce in semilibertà e dice: «Adesso ricostituisco bene tutta la mia famiglia». No. Molto probabilmente agirà in forma monosoggettiva, soprattutto nella fase iniziale, dove è sottoposto a una sorveglianza maggiore; dopo magari si lascerà un po' più andare. Noi siamo d'accordo che si faccia il monitoraggio, siamo d'accordo che si faccia una verifica da parte della magistratura di sorveglianza, siamo d'accordo che si facciano tutti gli osservatori necessari e importanti, ma proprio nel momento in cui si deve verificare e accertare sul campo se quella persona uscita sta ricominciando daccapo, magari anche peggio, in quel momento sappiate che le intercettazioni che si possono fare dureranno soltanto 45 giorni e non sarà possibile fare una deroga.
  Francamente penso che questo sia uno di quei casi sui quali la Commissione parlamentare antimafia debba dire qualcosa. Penso che su quella proposta di legge non si sia valutato con attenzione un aspetto. Non tanto i 45 giorni. Ripeto, quella è una scelta politica. Noi non la condividiamo, ma è una scelta politica della maggioranza. Quello che, però, non è accettabile è che non si faccia una seria valutazione sulle deroghe, le quali al momento nei fatti parlano di criminalità organizzata escludendo un ampissimo range possibile di criminalità organizzata che rimarrebbe fuori nella fase più delicata, che è quella delle indagini preliminari, dove le intercettazioni di 45 giorni francamente sono una cosa altamente insufficiente, se non pericolosa.
  Mi scuserete se ne ho parlato in questa sede, ma credo che, proprio per quello che ci è stato detto finora e per la passione con cui ci è stato detto, la preoccupazione con cui ci è stato detto, non possiamo non dire che quanto sta accadendo nelle due Commissioni di giustizia di Senato e Camera contrasta ampiamente con quello che noi oggi diciamo a gran voce di voler difendere e proteggere, che non è soltanto il diritto di cronaca, ma è anche il diritto di indagine, utilizzando tutti gli strumenti che sono a disposizione e che – voglio ricordarlo – sono a disposizione anche grazie al preziosissimo lavoro fatto da persone che poi la vita l'hanno persa per quel lavoro. Cito Borsellino e Falcone non a caso perché, peraltro, proprio sul tema delle indagini preliminari, su quegli strumenti, sono coloro che più hanno agito contro la criminalità organizzata.
  Grazie.

  PRESIDENTE. La sollecitazione è a me, quindi non c'è domanda per l'audito, deduco.
  Se l'audito vuole esprimere un parere, prego.

Pag. 16

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Questo è un momento importante di riflessione, voglio ricordare quanto ieri il procuratore di Palermo ha detto in conferenza stampa: alla procura di Palermo mancano tredici sostituti e un procuratore aggiunto. Il compito del cronista è anche quello di raccontare le forze in campo. Potrei anche raccontarvi di uffici di polizia importanti, di eccellenza, con carenze gravi perché ci sono persone che vanno in pensione e non ci sono giovani che arrivano. Si tratta di carenze pesanti.
  In questo senso, una riflessione approfondita sarebbe necessaria. Si potrebbe fare un monitoraggio per vedere le forze in campo. E poi dovremmo vedere effettivamente quali strumenti, sia legislativi che operativi, pratici, ci sono nel contrasto alle mafie.
  Grazie.

  MAURO D'ATTIS(intervento in videoconferenza). Signor presidente, ringrazio l'audito per la disponibilità e per le parole che sta usando. I suoi interventi, le sue risposte precedenti, oltre che l'intervento iniziale, mi portano, anche un po' preoccupato, a rivolgere una domanda che si collega anche alla recente attualità. C'è stata la cattura di Messina Denaro. Qualche risposta a queste domande l'ha già data, ma volevo approfondirle. La domanda è cosa emerge, a caldo, dai racconti dell'operazione dell'altro giorno, quella della DDA di Palermo, quali valutazioni emergono, collegandolo anche alla fase della cattura di Messina Denaro. Sono tutti fatti che sembrano aver smantellato un sistema e poi ti ritrovi improvvisamente con un'operazione come quella dell'altro giorno.
  Rafforzando quello che è stato detto prima, il senso è questo: nell'opinione pubblica quanto, a Palermo, è percepita la forza, il potere di cosa nostra e quanto, invece, per contro, è indebolito questo potere dall'opera della magistratura, dello Stato, del sistema Stato, di chi combatte a mani nude con coraggio la mafia. Per esempio, a Palermo, pensando ai cosiddetti «salotti buoni», quelli che abbiamo visto nei film di mafia, ma anche nei film che ironizzavano sulla mafia – ricordo Johnny Stecchino, la cena dove c'erano tutti –, le chiedo se c'è ancora pregiudizio nei confronti di questi salotti.
  Rivolgo queste domande perché, proprio dalla sua relazione, il limite, il confine tra legale e illegale, tra mafioso e non mafioso traspare sempre di più in maniera molto sottile.
  Spostandoci in un'altra città, recentemente, come sa, è stato preso un provvedimento anche da parte degli organi competenti che ha riguardato una parte consistente di un'amministrazione comunale a Bari, dove ci sono società partecipate completamente gestite dalla mafia. Anche lì spesso la risposta è come quella che viene data dal parroco: «Mi ha detto che lui è innocente», «Non è la mafia che esiste lì, sono tutti lavoratori socialmente utili» e così via.
  Unendo i pezzi di questo puzzle con la colla degli interventi che lei ha fatto oggi, le prime conclusioni sono sconfortanti, nel senso che c'è una mafia persistente, dal punto di vista culturale, che evidentemente non abbiamo sconfitto, almeno così sembra da quello che racconta lei, costretto alle misure di sicurezza che le vengono garantite.
  Facendole queste domande più specifiche forse approfondisco di più la necessità di ricerca di una formula chiave.
  Grazie.

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Grazie a lei. Le risponderò raccontandole di quando scrissi della spesa data dal capomafia dello Zen alla gente indigente del quartiere. In quel caso, anche lo Stato si era mosso per assistere le famiglie povere. Lo Stato, però, si muove con i suoi tempi. C'era la necessità di mandare una e-mail e, se vi ricordate, le vecchine del quartiere Zen non avevano neanche il computer. Si disse, allora, che potevano far capo alle associazioni, alla parrocchia. In questa settimana che passò per dare l'aiuto statale, la mafia aveva già dato risposta il primo giorno.
  Questo esempio ci dice che probabilmente le cosche – potrebbe essere un racconto non soltanto di Palermo – sono molto più veloci sui territori. Sui territori, quindi, stiamo perdendo la battaglia. Penso a Danisinni.Pag. 17 Voglio ricordare che tra i ragazzi arrestati ieri c'è quel giovane attore che aveva interpretato il piccolo Giuseppe Di Matteo, un ragazzo difficile di quel quartiere che i registi Piazza e Grassadonia avevano aiutato pagando gli studi. Questo ragazzo, però, è finito nelle mani della mafia. Ieri abbiamo subìto una sconfitta cocente. Gaetano Fernandez è stato arrestato a 22 anni. Una promessa per il cinema, un ragazzo che poteva rappresentare una speranza per Palermo.
  Sui territori, in questo momento, stiamo perdendo. Dobbiamo dire grazie alle associazioni di volontariato, ai sacerdoti. In tante periferie di Palermo lo Stato continua a essere assente e soltanto le forze sociali sono presenti. Poi ci sono i salotti buoni, quelli che – ripeto – cercano, e su questo mi interrogo, i vecchi mafiosi. I salotti buoni hanno ripreso a flirtare, una certa borghesia palermitana ha una grande capacità di cogliere l'aria. Durante la guerra di mafia alcuni potentati vicini a Bontate e Inzerillo in una notte passarono allo schieramento corleonese. Ho la sensazione che questi stessi potentati o i loro figli, i loro eredi e questi soldi siano ritornati dal passato.
  Un filo conduttore per la Commissione – su questo abbiamo grande sintonia – è stato l'attenzione per i più giovani. In questo momento una procuratrice per i minori, la dottoressa Claudia Caramanna, che ha ricevuto ripetute minacce, sta facendo un lavoro importante. Sull'onda del protocollo «Liberi di scegliere» ha cominciato ad aprire a Palermo – non si era mai fatto – dei fascicoli civili per dare un segnale chiaro alle famiglie di mafiosi, trafficanti e spacciatori. La procuratrice per questa ragione è stata oggetto di minacce. Si sono schierati contro la procuratrice anche alcuni sacerdoti – «i figli non si tolgono» –, ma la procuratrice è andata addirittura nei quartieri per spiegare il percorso che sta facendo.
  Siamo arrivati al paradosso che chi cerca di creare alternative a Palermo è sotto accusa, è sotto minaccia. La sfida è allora culturale. Auspico che questo nostro dibattito possa essere per la Commissione un impulso per momenti di riflessioni veri. Con la passione del cronista vi dico che sono ormai stanco, stufo di quelle commemorazioni che si ripetono a Palermo con corone di fiori. Basta corone di fiori. I nostri martiri non vogliono essere ricordati con le corone di fiori o con le lapidi. Vogliono essere ricordati con la ricerca della verità e soprattutto recuperando quelle parole che non ci sono.
  Mi piacerebbe anche oggi ricordarlo da quest'aula, perché è stata una battaglia per me importante, e lo è per i cronisti siciliani. Non possiamo raccontare questa nostra terra perché continuano a mancarci le parole migliori, le parole che hanno tolto a Paolo Borsellino, a Giovanni Falcone, ad Impastato, a Dalla Chiesa, a Cassarà. Tante parole che, però, non erano nelle celle di Riina né di Messina Denaro. Forse sono ancora in qualche Palazzo delle istituzioni. Mi piacerebbe, con rispetto per questa Commissione, che si potesse lanciare ancora forte il grido di far cadere tutti i segreti.
  La vecchia mafia di Inzerillo, massone, politico, molto vicino alla politica, era anche quella di certi segreti. Solo aprendo tutti gli archivi di Stato potremmo – come sta facendo questa Commissione – cercare la verità e trovare quelle parole che ci mancano. Penso a Giovanni Falcone, al processo Spatola, ai cinquanta faldoni, all'aula bunker. Anche di questo mi piacerebbe che la Commissione si occupasse. Io ho aperto quei faldoni, che si trovano in mezzo alla polvere. Ci sono ancora i verbali scritti da Giovanni Falcone con la sua penna stilografica. Nessuno ha avuto una sola risorsa, un solo euro per informatizzare questo tesoro che è attualità, non è soltanto passato. Recuperiamo allora tutte le parole dei nostri martiri, tutti quei documenti chiusi negli archivi e offriamoli alla riflessione della società civile, della scuola, delle associazioni. Mi piacerebbe che questa Commissione si facesse parte attiva di un grande progetto culturale per aggiornare l'analisi.
  Ve lo ripeto e me lo ripeto ogni giorno: che cos'è che mi sto perdendo? Ho sempre la sensazione di non cogliere qualcosa. Quel 19 luglio ero in via D'Amelio. Avevo un taccuino bianco che è rimasto bianco, preso Pag. 18da una sensazione di sconforto, di sfiducia. Qualcuno, invece, con lucidità andò lì e portò via l'agenda di Paolo Borsellino. Ricordo sempre – ce l'ho ancora il taccuino bianco di quel pomeriggio – che c'è qualcosa che ci stiamo perdendo. Che cosa?

  PRESIDENTE. È la domanda che ci poniamo anche noi.
  Approfitto del riferimento al giovane attore arrestato ieri, per mandare, a nome della Commissione, un abbraccio di solidarietà a Nicola Di Matteo, che ovviamente ha visto questo fatto con molta amarezza, perché l'attore arrestato ha recitato in un film che tratta la storia del piccolo Di Matteo. Il fatto che si possa interpretare un ruolo in una storia così e non empatizzare con un ragazzino sciolto nell'acido mette i brividi. Questo ci fa pensare, soprattutto sotto il punto di vista culturale.

  SALVATORE SALLEMI. Buonasera, dottor Palazzolo. Le rinnovo la mia solidarietà. L'ho fatto pubblicamente e mi permetto di farlo oggi, alla sua presenza, non solo per il lavoro che fa, ma anche per quello che dice.
  Io sono d'accordo con lei. In un articolo del 9 febbraio su la Repubblica lei ha detto che la mafia vuole fare dimenticare la stagione del sangue e vorrebbe che calasse un po' di silenzio, come è stato per tanti anni, a parte il ventennio dei Corleonesi con quella mafia sanguinaria. In realtà, noi sappiamo che la mafia vive nel silenzio, vive nell'ombra, odia le eclatanze.
  Il fatto che ci sia stata un'operazione con 181 arresti, e per trovare un elenco così corposo di arresti dobbiamo andare al 1984, esattamente alla notte di San Michele per trovare a Palermo una retata così grande, vuol dire che non solo la mafia si sta riorganizzando in maniera diversa, e lo sta facendo da tempo, ma ci stava anche riuscendo.
  Però, mi permetta di essere in questo confronto schietto. Lei poco fa diceva, se non ho capito male, e se ho capito male mi correggerà, che magari lo Stato in questo momento sembra un po' distratto, almeno a livello nazionale. Io non sono d'accordo e glielo dico perché da uomo di partito quale sono, da siciliano – io sono della provincia di Ragusa, vengo da Vittoria e ho conosciuto lo scontro della stidda nel mio territorio che sta rispondendo adesso che tutti i boss stanno tornando di nuovo a piede libero – credo che questo Governo, e qui entra in campo il mio ruolo di uomo di appartenenza, abbia dimostrato seriamente di fare una lotta senza se e senza ma alla mafia, difendendo il 41-bis e l'ergastolo ostativo, quando questo non era del tutto scontato.
  Sulle intercettazioni in cui boss di mafia, uomini di malaffare, gente che cresce nell'ombra e, in merito al Presidente del Consiglio, dice: «Questa se ne deve andare, perché è un problema», è vero che ci sono tante forze dell'ordine e tante procure in prima linea, ma c'è anche un Governo in primissima linea. Mi permetta di dirglielo.
  Glielo dico da ragazzo che nel 1992, grazie anche all'iniziativa voluta dai palermitani, dal nostro amico Raoul Russo e da tutta quella comunità, decise di fare politica proprio all'esito del 1992, cioè da quelle stragi.
  Credo che questi segnali di attacco diretto, per la prima volta molto chiaro nei confronti del Governo, ci dicono che, da un punto di vista di idea da parte di questo Esecutivo di come attaccare la criminalità organizzata, siamo sulla strada giusta.
  Poi, nei territori bisogna fare di più e sempre, e su questo sono perfettamente d'accordo. Ho fatto venire il presidente della Commissione nazionale antimafia nella mia città per parlare di mafia. Noi ogni 19 luglio andiamo in una scuola per raccontare cos'è la mafia. La cosa più paradossale è che per molti studenti il silenzio della mafia è avvertito come una resa della mafia, quando in realtà non è così. Questo dobbiamo continuare a dirlo e a raccontarlo. Noi, per esempio, lo facciamo ogni 19 luglio con un evento che dice: «Parlate di mafia, continuate a parlare di mafia, sempre e comunque, in qualsiasi modo, in qualsiasi salsa».
  Dico questo perché siamo siciliani e voglio rivendicarlo. Qui entro nell'intimità – presidente, me lo consenta – di un conterraneo.Pag. 19 Sappiamo cosa significa vedere esplodere la propria città, vedere il sangue per terra. Io ricordo, per esempio, ancora i fili della limitazione dove c'erano i cadaveri e uomini coperti dalle lenzuola macchiate di rosso. Mi hanno colpito, hanno colpito la mia adolescenza, hanno forgiato la volontà di fare attività politica. Però, credo che questo Governo, e lo dico da siciliano, e qui mi spoglio dal ruolo di partito, stia facendo una cosa molto importante: attaccare a testa bassa senza se e senza ma.
  Ora entro nello specifico, se me lo permetterà. Lei poco fa ha detto una cosa importante: ci sono tante cose da scoprire ancora. Io, come tutti i colleghi, faccio parte di una Commissione che ha avuto il coraggio – mi riferisco a tutti i colleghi di maggioranza e di opposizione, grazie anche alla volontà del presidente – di rispolverare un'indagine e un vecchio caso, quello di «mafia e appalti» che ha svelato e ci continua a svelare come l'ombra, la polvere, il puzzo di tutto quello che si è taciuto negli anni è giusto che torni a galla e che attribuisca la responsabilità a chi deve essere attribuita questa responsabilità. Quindi, anche da un punto di vista parlamentare, e ora mi stacco dalla funzione di Governo, stiamo facendo un grandissimo lavoro, almeno in questa Commissione.
  Sulle intercettazioni, poi, ognuno si assume la responsabilità politica delle proprie azioni. C'è chi può indovinare, c'è chi può sbagliare, ce lo dirà la storia, ce lo diranno i fatti.
  Per quello che riguarda la sua attività nello specifico, lei ha condotto una personale indagine sulla concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione da parte di alcuni tribunali di sorveglianza ai boss mafiosi. Può riferirci quali sono i risultati di questa indagine che ha condotto? Qual è oggi lo stato dell'arte?

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Grazie. Intanto posso dirvi, perché comunque non riesco poi a spogliarmi totalmente del mio ruolo di giornalista, che è bello ascoltarvi. Se io fossi oggi un cronista vi proporrei, quando voi tenete alcune audizioni, di fare partecipare – so che sono in diretta queste sedute – le scuole, i giovani, perché ascoltare questo dibattito così importante e le domande così autorevoli, anche nella diversità delle posizioni, è una grande cosa. Chiudo questa parentesi.
  Vi ringrazio. Sono giorni di grande tensione per me. Passare dallo scooter a un'auto blindata è veramente un cambiamento epocale e ringrazio la Polizia di Stato che cura la mia tutela con grande pazienza. Io continuo a fare il cronista e voglio farlo per strada e lo sto facendo anche con i ragazzi delle scorte che ringrazio. Mi consentirete questo ringraziamento particolare.
  Ringrazio questa Commissione, ringrazio la politica, ringrazio la maggioranza e l'opposizione e ringrazio soprattutto tutti quelli che hanno a cuore il tema mafia, tutti quelli che riaprono storie del passato.
  Tempo fa un amico mi disse: «Tu ti occupi di archeologia». No. Questo passato è attualità. Ho cominciato ad occuparmi di Bonura proprio perché la procura di Caltanissetta aveva acceso un faro e prima della procura di Caltanissetta voi avete acceso un faro. Chi è questo signor Bonura? Dopo aver guardato le carte del maxiprocesso ho chiesto in strada, ho chiesto a Palermo e c'era un'attualità di questo signor Bonura. Io non davo un giudizio politico, ma era il sollecitare un impegno che deve essere intanto l'impegno mio. Vi ho detto che mi sento inadeguato, mi sembra di non capire, di non avere gli strumenti perché leggo con gli occhiali della mafia corleonese una mafia che non è più quella corleonese. Io stesso mi sento inadeguato non soltanto nei contenuti, nelle forme del racconto. Non basta che noi ci occupiamo di mafia. Tutti noi dobbiamo saper raccontare questi temi. Anche qui, ci vuole un impegno. I nostri giovani non leggono i giornali.
  Se Inzerillo Tommaso è preoccupato per le inchieste sui giornali e da un'inchiesta risulta che i ragazzi oggi non leggono i giornali, ma soltanto dai 45 anni in su si legge la carta stampata, un impegno antimafia potrebbe essere quello di sostenere i giornali per diffondere il giornalismo antimafia su carta fra i giovani. La mia inchiesta è naturalmente sulle scarcerazioni. È Pag. 20l'inchiesta di un giornalista. Io stesso poi ho cominciato a fare le domande al DAP, ai magistrati, ai tecnici.
  Io mi ci sono trovato casualmente, non voglio qui attribuirmi meriti. Questa inchiesta sulle scarcerazioni nasce per la sensibilità e per il coraggio di tante persone impegnate sui territori che hanno raccontato al cronista delle presenze. Io non li ho cercati. A volte il cronista non se ne accorge e le notizie arrivano. È successo così. Quante altre notizie ci sono che non abbiamo cercato a Catania, a Reggio Calabria, a Napoli?
  La Commissione in questo senso è avanti rispetto all'ipotesi di monitoraggio. Noi dobbiamo in questo momento assumere una categoria, assieme a quella del ritorno, quella della complessità. In questo è necessario uno sforzo, da parte di tutti, mi permetto di dire, ma è il percorso che voi fate sempre, tutti insieme, perché la lotta alla mafia ha bisogno di unità. Questa Commissione lo ha dimostrato su tante cose. Poi, la diversità è comunque un valore che va preservato perché nella diversità c'è una ricchezza e si va avanti. In questa complessità però credo che a volte l'azione delle istituzioni e della società civile non sia adeguata.
  Quella chat che la straordinaria procura di Palermo e i Carabinieri non sono riusciti a decriptare ci dice che noi non siamo attrezzati. Come è possibile che l'Italia, in prima linea nella lotta alla mafia, si fermi davanti a una chat? Non è possibile. Forse sarebbe anche il momento di pensare a un impegno antimafia più ampio, e questa Commissione ne ha le capacità. Mi appello a questa Commissione come cittadino perché si faccia di più a livello europeo e mondiale. Non è possibile quello che raccontiamo noi giornalisti, che i magistrati scrivono a Telegram, scrivono a dei social e non arrivano risposte. Siamo indietro non di mesi, di anni, di secoli. Che cosa c'è in queste chat? Rapporti con la politica? Rapporti con l'imprenditoria?
  In questa chat, ci dicono i Carabinieri, non ci sono soltanto mafiosi, c'era anche un imprenditore, il re del gioco, delle scommesse on line in Sicilia, anche lui è stato arrestato. Nella chat c'erano anche un trafficante di droga e altri soggetti.
  Questo quadro delle parole che non conosciamo ci deve interrogare tutti.

  VINCENZA RANDO. Grazie, presidente, per avere accolto immediatamente e accettato di sentire Salvo Palazzolo, che ringrazio. Ho il privilegio di conoscerlo bene. Noi ci sentiamo spesso per meglio commentare alcune cose.
  A me ha fatto molto pensare e mi ha inquietato molto la dichiarazione del Procuratore Melillo quando dice che nell'alta sorveglianza continua a governare, a comandare la criminalità organizzata perché mi viene in mente quello che leggevamo tempo fa quando anche all'Ucciardone comandavano i mafiosi dentro il carcere. Niente è cambiato? Cosa è successo? Mi dispiace, eravamo in Senato e non ho potuto ascoltare inizialmente la relazione. Quanto noi sappiamo cogliere la complessità di quello che succede? Mi ha inquietato anche l'articolo quando si parla di Marchese, del genero di Letizia Battaglia. Tutto questo si confonde sempre di più. Quali sono gli strumenti? Lo diceva prima la presidente. Questa Commissione ha tentato di pensare che molto è stato fatto. Abbiamo forse la migliore legislazione al mondo, ce lo dicono tutti, che non dobbiamo indebolire. Ogni tanto c'è qualche elemento di indebolimento e alcune cose sono state già dette.
  Per la prima volta, credo, nella storia sono stati minacciati i giudici minorili. I giornalisti, in alcune situazioni storiche, lo diceva prima la presidente, sono stati anche uccisi e abbiamo un lungo elenco. I giornalisti quando raccontano la verità e hanno il «vizio» del racconto della verità spesso sono minacciati. I giudici minorili erano forse i giudici meno attenzionati dalla mafia.
  L'intento di questa Commissione – lei lo conosce bene – è quello di fare in modo che ci sia uno strumento per cui i giudici minorili possano agire, come indica anche il protocollo «Liberi di scegliere».
  Per la prima volta in questo Comitato sono stati ascoltati tutti i giudici minorili del territorio a livello nazionale e ci hanno Pag. 21raccontato delle cose che questa indagine e quella di Palermo ci dicono, ovvero che si abbassa sempre di più l'età delle persone, dei giovani che sono reclutati dentro le mafie.
  Tanto si è parlato dell'arresto di Messina Denaro, giustamente. Qualche giorno dopo era stato arrestato un sottosegretario di Stato e un senatore della Repubblica che si chiama Antonio D'Alì. Di questo arresto si è parlato poco.
  Tutto questo ci dà l'idea che ancora forse dobbiamo raccontare meglio le cose, anche il tema del concorso esterno. Non indeboliamo anche questi principi.
  Se il processo fa emergere che il senatore D'Alì si incontrava o aveva relazioni con Messina Denaro quando era latitante, questa cosa ci dovrebbe ancora di più rafforzare su quanto i concorrenti esterni aiutano e rafforzano le mafie. Questa è la complessità che viene letta.
  Non voglio fare un'analisi, perché ci sarebbero tante cose da dire. C'è un tema di etica pubblica e di etica privata, c'è un tema di tutte le agenzie culturali, che dovrebbero fare di più, come le agenzie politiche. Personalmente ho sempre dato grande importanza al tema delle misure di prevenzione – questo è un argomento su cui mi piacerebbe ragionare insieme a lei – e in particolare al tema delle misure di prevenzione patrimoniali, dato che stiamo parlando anche di interdittiva antimafia che viene prima del tema di un giudizio, che avviene nelle frequentazioni, che rompe questo legame. Non possiamo dimenticare, infatti, che anche la classe imprenditoriale su tutto questo ha preso poco le distanze. La classe imprenditoriale a volte, per taluni servizi, si rivolge proprio alle organizzazioni malavitose. Quindi, una vera rottura rigorosa rispetto a un rapporto con le mafie ancora non c'è, e non c'è né a livello nazionale né ancor più a livello regionale. Tutto questo non fa altro che rafforzare ulteriormente le mafie, nel momento in cui alcuni imprenditori, non solo chiedono i servizi, ma sono anche indifferenti. Attenzione, anche il tema dell'indifferenza è molto importante. Pertanto, le misure di prevenzione patrimoniali, che sono anche le interdittive in particolare, quelle in mano ai prefetti, che molto probabilmente, stando ai dati che ci vengono forniti, sono molte di più al nord che al sud, sono provvedimenti da rafforzare ulteriormente, perché c'è una tendenza a indebolirli o ad attaccarli. Lo stiamo vedendo.
  Altro tema è quello che riguarda i minori, tema che presenta contorni davvero inquietanti. Comunque, stiamo cercando di vedere come dare strumenti ai giudici minorili, come dare strumenti per arrivare prima. Penso alla storia di quel bambino che faceva l'attore, che poteva avere anche un bel futuro e che, invece, è stato introdotto nell'organizzazione mafiosa. Però, finora non c'erano strumenti. Erano strumenti inventati con dei protocolli. Quindi, bisogna dare anche questo. D'altronde, ciò che emerge dalla nuova indagine è quasi come se nulla fosse successo, invece molte cose sono successe. Ci sono i provvedimenti, le leggi, i processi. Che cosa è successo? Molto probabilmente manca anche uno sguardo vero di rieducazione nel sistema carcerario, perché adesso abbiamo le scarcerazioni per decorrenza dei termini, per fine pena, poi abbiamo i permessi premio. Quindi, su questo dovremmo meglio attrezzarci anche con i tribunali di sorveglianza.
  Ciò che viene fuori è che sulla mafia militare molto probabilmente siamo attrezzati, ne parliamo molto di più, invece di quella che è stata definita la «borghesia mafiosa», che ha una fisionomia anche diversa, oggi parliamo molto meno. Vi confesso che a me ha inquietato non tanto il fatto che di Messina Denaro se ne sia parlato, giustamente, quanto il fatto che di quel politico che aveva avuto rapporti con Messina Denaro non si è detto nulla, non è uscito neanche un articolo. E questo atteggiamento pesa sulla cultura di un Paese.
  Un altro tema che mi inquieta e su cui dovremmo porre maggiore attenzione – forse una volta ci siamo anche confrontati a tal proposito – è il tema dei collaboratori di giustizia. È vero che tu rompi con le mafie solo se collabori con la giustizia, altrimenti ti ammazzano. Tuttavia, oggi c'è una tendenza diversa e l'abbiamo visto in Pag. 22alcune indagini condotte al nord: i collaboratori di giustizia quando escono non hanno un futuro, questo Paese non si è attrezzato per dare un futuro ai collaboratori, ma non vengono più uccisi, vengono nuovamente assoldati. Questa scelta permette alla mafia di dare un segnale importante: «Anche se hai fatto questo, noi ti riprendiamo e ti proteggiamo». Questo è un fatto che ancora di più emerge, e lo state vedendo, ed è una delle cose che inquietano, rispetto a cui dovremmo arrivare un po' prima.
  In conclusione, mi preme sottolineare che l'indagine di Palermo, ma anche le tante indagini che si stanno conducendo a livello nazionale, stanno dando l'idea che ci sia una sorta di riorganizzazione all'interno delle mafie, per cui noi dobbiamo avere la capacità di un racconto. Qualcosa è successo. Ci sono stati i morti, ma c'è stata anche una magistratura che ha lavorato, una società civile che si è attrezzata. Molto probabilmente manca un pezzo molto forte, che è quello educativo, che è quello del ruolo della chiesa, che c'è, ma magari in maniera non sistemica.
  Questa Commissione su alcuni temi sta lavorando: penso ai minori, forse per la prima volta c'è un Comitato che ha uno sguardo diretto, penso alle case di detenzione minorile, ma la complessità si può leggere solo se si guarda a tutti i lati e non ci si limita a guardare solo la mafia militare, perché se ci limitiamo a guardare solo la mafia militare veniamo nuovamente sconfitti, in quanto la mafia militare, comunque, riuscirebbe a riproporsi e a ripresentarsi in maniera ancora più forte. La mafia militare è forte perché ha dietro l'imprenditoria e il consenso elettorale. Non c'è un rigore forte su tutto. Ecco il racconto. Quindi, un cronista come lei, per quello che ha fatto, ma anche i tanti altri cronisti che lo fanno, dovrebbero fare un'informazione ancora più strutturata, a livello nazionale, ragionando anche sulle mafie che non sono militari, perché le mafie militari – lo ripeto – sono rafforzate dalle mafie imprenditoriali e dalle mafie del consenso politico.
  Grazie.

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Grazie, senatrice Rando. Oggi fa notizia che il Procuratore nazionale antimafia parli di un buco nel sistema dell'alta sorveglianza perché ieri si è tenuta una conferenza stampa e in modo autorevole un Procuratore lo ha detto. Però il cronista racconta di indagini che ci sono state anche a Palermo, con buchi evidenti nel sistema carcerario, da anni. Abbiamo raccontato di tanti casi di mafiosi che comandano dal carcere, ma in quel caso non si è tenuta alcuna conferenza stampa e non è stato fatto alcun comunicato. Tuttavia, il cronista aveva raccontato i risultati delle indagini. E qui ritorno sull'importante valore virtuoso del contributo al dibattito pubblico di una conferenza stampa fatta da un procuratore della Repubblica. Soltanto lui può parlare, è giusto che sia così, con l'equilibrio tipico di ogni procuratore della Repubblica e con le forme giuste. Quindi, nel dibattito pubblico oggi ne stiamo ancora parlando. Questo ci deve far riflettere, anche perché il tema è noto ormai da diversi anni.
  Altra questione: le misure di prevenzione. La questione sta tutta in un'altra parola chiave che voglio affidarvi e che ribadisco anche a me stesso. Venire qui per me è un esercizio importante. Mi sto segnando le parole chiave di questo racconto. Ero un po' confuso in questi giorni, ma certamente tornerò a Palermo con le idee più chiare. Il confronto con voi è stato veramente importante. Ebbene, l'altra parola chiave è questa: relazioni. La mafia di oggi non è la mafia che spara, ma è la mafia che ha relazioni. Allora mi chiedo: come è possibile – questo ha messo in evidenza la mia inchiesta sulle scarcerazioni – che le informazioni spesso siano ferme in questa Italia di eccellenza del sistema antimafia e continuino a essere ancora parcellizzate? Abbiamo, allora, la necessità – mi piacerebbe che questa Commissione se ne facesse carico – di verificare, con tutti gli uffici e i protagonisti della lotta alla mafia, come tutte queste informazioni importanti possano confluire in quella famosa banca dati che ho proposto, perché dobbiamo avere una fotografia istantanea della situazione nel suo complesso.Pag. 23
  Cosa nostra palermitana si sarà già riorganizzata. Noi non lo sappiamo, magari i bravi carabinieri di Palermo saranno già sul pezzo. Comunque, al di là di questo, sicuramente abbiamo la necessità di monitorare una situazione in continua evoluzione, perché a Palermo anche oggi staranno arrivando carichi di cocaina che non si sono fermati, saranno in corso relazioni per spartire non so che cosa, appalti o altre cose. L'azienda cosa nostra non si è fermata. Allora in che modo le relazioni sono cristallizzate? Da cronista ho la passione, come voi, per le carte, sistemo in un archivio giornalistico i provvedimenti, le sentenze, i comunicati stampa e, mettendo in ordine le cose, a volte mi accorgo di questioni che all'inizio mi erano sfuggite.
  Ebbene, oggi bisognerebbe creare e sostenere anche con un'informatizzazione maggiore tutto quello che è possibile sul concetto di relazioni, al fine di dare la possibilità non solo alla magistratura, ma anche al sistema di prevenzione antimafia di svolgere appieno il proprio lavoro. Un caso sintomatico è quello dell'ippodromo di Palermo. L'ex prefetto Antonella De Miro aveva interdetto per mafia la società che negli anni passati aveva gestito l'ippodromo, è arrivata una nuova società a cui il comune ha dato l'appalto e la procura di Palermo ha scoperto che questa società è pesantemente infiltrata da elementi di mafia. Il rinnovamento è stato peggio del vecchio. Ma la società che gestisce l'ippodromo è ancora lì, nonostante il nuovo titolare abbia subito una condanna anche per estorsione. Dunque, si pone un problema importante. Adesso giustamente il comune ha chiesto chiarimenti a questa società.
  La sensazione è che il livello di infiltrazione di questa mafia nelle istituzioni, nell'economia e nella società sia altissimo, ma ancora una volta non riusciamo a vederlo. O, comunque, abbiamo bisogno di mettere insieme tutte quelle persone che vedono. Io non voglio dimenticare e continuo a ringraziare tutte quelle persone che mi hanno consentito di fare questa inchiesta, persone che hanno visto i mafiosi scarcerati, se li si sono ritrovati davanti nei quartieri. Voglio ricordare che nel quartiere Acquasanta è tornato in permesso premio Galatolo Raffaele, noto come lo «strangolatore dell'Acquasanta». Sono contento che lui abbia fatto o stia facendo un percorso di cambiamento, mi dispiace, però, che lo Stato, che ha consentito il suo ritorno all'Acquasanta, non riesca ancora a mettere una lapide e a riconoscere vittima della mafia Lia Pipitone che era, come voi ben sapete, la figlia di un capomafia del clan Galatolo, ammazzata – ci dice la giustizia – per mano dei Galatolo, del fratello di Raffaele Galatolo, solo perché voleva essere una ragazza libera. Questo Stato non riesce a riconoscere vittima della mafia una ragazza di venticinque anni uccisa dai boss perché per la legge non è possibile, in quanto lei era figlia di un mafioso. Ma Lia aveva rotto con suo padre. E oggi per le ragazze dell'Acquasanta Lia è un simbolo di libertà. Ma le istituzioni non riescono ancora a fissare un ricordo di Lia Pipitone all'Acquasanta, però consentiamo che un Galatolo ritorni libero. In questo, mi sia consentito dire, abbiamo già perso.

  PRESIDENTE. Non solo condivido questa parte finale, ma con un pizzico d'orgoglio posso dire che la Commissione è intervenuta nel «decreto sicurezza» sulla norma di legge sul quarto grado di parentela, proprio perché chi prende le distanze da un appartenente alla criminalità organizzata è vittima.

  LUIGI NAVE. Signor presidente, ringrazio il dottor Palazzolo non solo per le sue parole, che sono sempre fonte di arricchimento, ma anche per quanto sta vivendo, portando la mia solidarietà e anche quella del mio gruppo, nell'espressione della libertà quotidiana, non solo per quello che gli piace fare, ma anche per essere fonte di informazione per noi tutti. D'altronde, noi troviamo la fonte proprio in quello che fanno i giornalisti.
  Io sono della provincia di Napoli, dove viviamo la stessa tragedia di città come Palermo. Prima ci siamo scambiati uno sguardo con il presidente, perché nelle ultime settimane sono state arrestate quasi ottanta persone di tre comuni differenti e Pag. 24quello che mi ha lasciato basito è che nel comune di Giugliano, 130 mila abitanti, terzo comune della Campania, ci sono stati venticinque arresti, tra cui l'ex sindaco e molti consiglieri o ex consiglieri comunali. Io credo di non aver mai visto una lista così lunga di persone non provenienti da ghetti, quindi professionisti, che hanno cercato la camorra. Addirittura i ROS sono venuti a capo – per questo ringrazio ancora il procuratore Gratteri e i carabinieri dei ROS per il lavoro che hanno fatto – e sono riusciti ad arrivare alle informazioni in quanto tenevano sotto controllo un tizio chiamato «zio Andrea» che era il paciere, faceva da tramite tra il clan camorristico della zona e la pubblica amministrazione. Tutti andavano a riferire a lui. Quindi, mediante intercettazioni sono venuti a capo di questa situazione che ha fatto emergere la presenza di tangenti su appalti nel settore dei rifiuti e concessioni di licenze per attività che non si dovevano fare.
  Dunque, parliamo di persone che conoscevano il territorio, persone che sapevano chi fosse questo tizio, eppure sono andate a cercarlo. Quindi qui emerge chiaramente la questione culturale, che bisogna assolutamente analizzare, perché non si tratta di ragazzi in cerca di fama, bensì di persone strutturate che utilizzano un sistema alternativo.
  A questo vorrei aggiungere un singolare episodio verificatosi nel comune di Pomigliano. Recentemente il sindaco di quel comune ha dichiarato che in quella realtà la camorra non esiste. Ringrazio ancora la presidente perché all'occasione abbiamo scritto al sindaco ricordandogli che la camorra a Pomigliano esiste eccome, facendo anche nomi di alcune famiglie camorristiche. Oggi i risultati ci sono stati, non solo perché si è insediata la commissione d'accesso, ma anche perché sono stati eseguiti diversi arresti.
  La questione è culturale per i giovani, quindi bisogna parlare sempre di più, perché è nota anche questa fama all'interno delle scuole. I professori chiamano per parlare di mafia e di camorra perché c'è un atteggiamento di replica. I giovani vivono sui social.
  Io ho fatto il giudice per la corte di assise di Napoli, l'anno prima di fare questa esperienza da senatore mi sono ritrovato all'interno di un procedimento, le famose «Chanel della camorra». Erano due cugine che si scambiavano – non abbiamo mai capito come – dei messaggi su TikTok.
  A quel punto ho fatto presente alla presidente della commissione che queste due donne si stavano scambiando messaggi pur stando entrambe in galera, condannate all'ergastolo. Ovviamente, sono state un riferimento, di certo non formativo, per i giovani.
  Parlare sempre di più con i giovani e le comunità del territorio è importante per superare poi, successivamente, quell'elemento per cui non è più la camorra che si va ad infiltrare, ma vanno loro a chiamarli. Addirittura si nota nelle intercettazioni che le due famiglie litigano – si dicono: «Non diamo una mano a questo sindaco ad essere candidato o meno, cosa ci importa?» – nel non darsi visibilità.
  È pur vero che attualmente parlare di antimafia diventa sempre più difficile. Ho l'impressione che ci sia un elemento di autoreferenzialità, per cui diventa anche difficile poterlo fare e distinguersi. Parlare di antimafia fa audience. Un po' tutti vogliono parlare di antimafia e questo non sempre poi va a beneficio dei cittadini e dei giovani.
  Dico questo per avvalorare quanto, in realtà, lei sosteneva. Io condivido i dubbi che lei ha messo in atto, ma anche le proposte. Così come vedo che c'è una difficoltà dello Stato, probabilmente non il Governo centrale, ma sui territori c'è un affanno perché c'è carenza, non solo nei tribunali e nelle procure, ma anche nel personale delle forze dell'ordine, nel quotidiano.
  Se mi trovo a parlare con i Comandi dei Carabinieri anche delle città vicine ci denunciano una carenza di personale. È un problema su cui indubbiamente bisogna intervenire.
  Grazie.

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. La sua riflessione mi ha fatto venire in mente la proposta che tanti anni fa fece un magistrato.Pag. 25 Chiedeva ai giornalisti di verificare negli ordini professionali se poi effettivamente i loro codici etici fossero applicati e se fossero irrogate le sanzioni. Intanto, sarebbe interessante vedere se questi codici etici che tanti ordini e tante associazioni si danno, anche i partiti, poi effettivamente vengono applicati. In questo credo che la Commissione antimafia, come sta facendo, sia un punto di riferimento. Ribadisce a tutti che ci sono delle regole e vanno rispettate. Forse in questo momento abbiamo bisogno di rimettere dei paletti.
  Il dibattito che oggi state facendo – vi parlo da cronista e non da audito – sembra mirato alla necessità di lanciare in Italia una costituente dell'antimafia. Ne abbiamo bisogno su tanti fronti e soltanto tutti uniti, anche, ripeto, nella diversità di posizioni politiche, si può esprimere questo concetto, perché la mafia vuole che non si parli del tema. Mi sta veramente a cuore questo concetto. L'appello dei giornalisti siciliani è che ci possano essere più occasioni di incontro, delle conferenze stampa sempre, ogni giorno, per dire alla gente dello Zen, per dire alla gente dei quartieri che comunque lo Stato è più forte.
  Il cronista vi può raccontare, e chiudo veramente, gli sguardi smarriti di quelle donne, di quei figli che ieri erano davanti la caserma dei Carabinieri. Ieri qualcuno ha detto: «È una festa per Palermo». Io voglio dire, con spirito di attenzione e di sensibilità, che non è stata una festa. Il cronista pensa anche al dolore di quelle famiglie. Io voglio raccontare anche il dolore di quelle mogli e di quei figli che si ritrovano adesso a vivere una situazione drammatica per i mariti, per i padri in carcere.
  In che modo possiamo dare un'alternativa? Questa Commissione ha un progetto in discussione per offrire speranza ai figli e alle madri. È un'occasione importantissima, concreta e può essere un messaggio per tutti. Ognuno si deve interrogare su quale alternative si possono dare.
  Mi piace ribadire in questa sede il messaggio di don Pino Puglisi, che quando divenne parroco a Brancaccio portò i suoi ragazzi della FUCI in quella periferia di Palermo, all'epoca io ero responsabile del gruppo FUCI. Don Pino voleva che l'impegno dei giovani, l'impegno delle persone di buona volontà fosse sul territorio.
  Siamo rimasti due anni a Brancaccio con don Pino, ma non abbiamo capito niente. Una settimana prima di morire don Pino mi disse: «Salvo, il prossimo anno dovete cercarvi un altro assistente». Io risposi in maniera stupida, pensando che quelle parole fossero legate ai suoi impegni: «Parrino, chiederemo al vescovo di darci una mano». Lui disse: «No, Salvo, quest'anno non ci sarò più con voi». Lui sapeva che rischiava la morte, ma è rimasto sul territorio e noi non abbiamo capito.
  Vorrei lasciarvi la preoccupazione del cronista. Io sono grato ai magistrati e alle forze dell'ordine che ci danno una strada, ma il cronista oggi continua a non capire perché tanta gente, dopo essere stata arrestata tre o quattro volte, riprende a «mafiare», come dice il procuratore di Palermo e adesso è tornata in carcere. Non sono pazzi. Che cosa tutelano? Quale patto e quali relazioni tutelano?
  Su questo dobbiamo tutti interrogarci perché veramente certezze in questa fase storica non ce ne sono.

  PRESIDENTE. Grazie.
  Per fare in modo che resti agli atti di questa Commissione, visto che questa audizione appassionata di Salvo Palazzolo ce lo permette, visto che il collega Nave ha fatto riferimento a Pomigliano, evidenzio che proprio su la Repubblica di Napoli di ieri, un collega, Dario Del Porto, inizia l'articolo così: «Il bambino di tre anni gioca sul pavimento di casa. Il cellulare della madre è in videochiamata. Dall'altra parte dello schermo c'è un detenuto del carcere di Carinola, cognato della donna. Parla di affari criminali, di persone da colpire. “Dobbiamo sparare a tutti”, dice lo zio. La madre allora chiede al figlio “Perché, sai usare la pistola?”, e il bimbo risponde “Sparo ai poliziotti vicino alla chiesa”». Tre anni.
  Quando parliamo di «Liberi di scegliere» faccio sempre riferimento alle intercettazioni che mi fece leggere il giudice Di Bella. Erano adulti, praticamente, quelli del giudice Di Bella, perché avevano otto Pag. 26anni. Qui parliamo di un bambino di tre anni. Questo viene riportato da la Repubblica di Napoli. È un pezzo dell'indagine portata avanti dalla procura di Napoli, dal dottor Gratteri e dalla procuratrice minorile Imperato, però apre uno spaccato. Io sicuramente in questo periodo sono più sensibile a questo tema, ma penso che nessuno di noi possa girarsi dall'altra parte davanti a un fatto che avviene nel 2025 a pochi chilometri da casa nostra.

  ANTONIO IANNONE. Signor presidente, sarò estremamente sintetico perché il collega Sallemi, anche con parole migliori delle mie, ha anticipato la mia riflessione.
  Desidero anch'io ringraziare il dottore Palazzolo ed esprimere solidarietà per la vita che vive, evidentemente in ossequio ad un impegno e ad una libertà di cui lo Stato deve essere grato ad ogni cittadino che fa ugualmente.
  Anch'io faccio riferimento all'articolo citato del 9 febbraio su la Repubblica, dove lei ha ripresentato il pensiero dei boss sul Presidente del Consiglio Meloni, definita, se ricordo bene, «una disonorata e una fascista».
  Detta da mafiosi, la parola «disonorata» è certamente una medaglia. Per quanto riguarda, invece, la qualifica politica, probabilmente il boss sarà stato comunista, ma sicuramente non appartenente ad un'organizzazione democratica. Però, al di là della riflessione specifica, credo che questa sia la percezione che la mafia ha dell'impegno del Governo nei confronti dell'antistato. Credo che i recenti arresti e le operazioni che si stanno realizzando su tutto il territorio nazionale siano l'emblema più importante del fatto che c'è un impegno dello Stato, al di là delle appartenenze politiche, nel contrastare le mafie con risultati che sono senza precedenti e che partono da alcuni assiomi che sono quelli che loro contestano, il 41-bis e l'ergastolo ostativo.
  Vorrei non eludere anche le grandi sollecitazioni che lei ha posto, perché noi sappiamo bene che c'è bisogno sempre di un impegno maggiore anche per osservare, in maniera sempre più puntuale, le nuove fenomenologie che si presentano.
  Credo che in questa Commissione, ma nel Parlamento tutto, ci sia consapevolezza che le mafie di oggi non sono più quelle di una volta. Credo che ci sia anche grande consapevolezza sul fatto che esistono delle zone grigie della nostra società alle quali poco interessa se l'economia sia più o meno legale o se dietro ad un'economia apparentemente legale si nascondano altri fenomeni.
  Siamo tutti consapevoli del fatto che lo Stato abbia strumenti «limitati» per combattere il fenomeno, con una situazione alla quale non si è giunti d'emblée in questo momento. Penso, per esempio, al blocco del turnover che ha riguardato anche le forze dell'ordine e che ha determinato una minore capacità per quella scellerata decisione di avere uomini e risorse per il controllo del territorio.
  Ho sentito e sento, però, qualche narrazione che, a mio giudizio, indebolisce la lotta dello Stato alla mafia. Una cosa è la lotta senza quartiere che si deve fare alla mafia, e io sono convinto che quello sia patrimonio di tutto il mondo istituzionale e politico, come intenzione, altra cosa è una certa narrazione che certi strumenti debbano o possano indebolire questa lotta.
  Credo che sia possibile coniugare una lotta senza quartiere alle mafie anche tutelando e dando garanzie ai cittadini onesti, perché il tema è anche questo. Se uno Stato commette ingiustizie o commette errori, indebolendo se stesso, rafforza quella cultura nella quale poi proliferano le mafie.
  Credo che i nostri eroi, anche i martiri della lotta alla mafia, non bastano per vincere la battaglia se a questo non si accompagna un'antimafia civile che vada a spiegare, come ha detto lei, nei contesti sociali qual è la differenza tra Stato e antistato. Noi che veniamo da territori meridionali lo sappiamo bene. Credo che la percezione dei colleghi sia chiara, come è chiara a me. Si è generata anche una certa anomia, come viene definita tecnicamente. Ci sono persone che oggettivamente non riescono a distinguere il confine tra il legale e l'illegale. Credo che molta responsabilità in questo abbiano avuto anche alcune rappresentazioniPag. 27 e modelli che sono stati magari creati per denunciare, ma che hanno funto da interinale per la camorra, per le mafie in genere, perché hanno fornito un modello di riferimento culturale che in quel clima di anomia ha generato un'attrattività di giovani e di nuove energie che, pur non essendo nel circuito mafioso, sono state attratte a quel circuito.
  Credo che sicuramente un'etica pubblica e sicuramente anche un'attenzione nel proporre modelli culturali, aiuti a scrivere quel manifesto dell'antimafia, non quella di carta, ma quella del cittadino semplice che fa il suo dovere, che, secondo me, in scala, ottiene un risultato straordinario che è quello che ci dà quel valore aggiunto per vincere la guerra.
  Grazie.

  SALVO PALAZZOLO, giornalista. Su una cosa siamo d'accordo: abbiamo bisogno, e credo che emerga chiaramente da questo incontro di oggi, di un grande racconto.
  Noi abbiamo oggi nel Paese, lo dico con grande rispetto per il Parlamento, un divieto di pubblicare le ordinanze in ossequio al diritto di innocenza. Ne prendo atto, però l'operazione di ieri della procura di Palermo con quei sei provvedimenti di arresto, un'indagine che il Procuratore Melillo ha definito di portata storica, straordinaria, oggi dovrebbe essere letta dagli studenti, dovrebbe essere letta dalle associazioni, dalla chiesa, ognuno per il proprio ambito. Il capitolo sul giovane attore dovremmo studiarlo tutti per capire dove abbiamo sbagliato. Le intercettazioni di quel povero ragazzo saranno utili alla procura per portare avanti un processo, ma dovrebbero essere oggetto di una grande riflessione civile per capire com'è finito Gaetano Fernandez a parlare con quei boss, com'è finito a dire quelle parole o com'è possibile che dei commercianti ancora si rivolgano alla mafia per avere una soluzione a un loro problema. Com'è possibile?
  Abbiamo bisogno di immergerci – questo mi hanno insegnato i miei maestri – nelle parole drammatiche della cronaca per capire cosa sta accadendo.
  Nel rispetto del diritto di innocenza, della presunzione di innocenza, i cronisti siciliani rivendicano la possibilità di raccontare. Se noi non raccontiamo quello che accade adesso, la mia paura è che domani ci ritroveremo una mafia che è andata avanti, una mafia che non abbiamo capito.
  Sapete, io ho cominciato nel peggiore dei modi il mestiere di cronista. Il 19 luglio, in via D'Amelio, davvero non ho capito cosa accadeva attorno a me. Oggi torno ad avere quella stessa paura di non capire quello che accade. Ho bisogno di leggere quelle ordinanze, ho bisogno di scriverne, ho bisogno che si apra un dibattito pubblico. Abbiamo utilizzato nelle nostre manifestazioni del sindacato dei giornalisti una parola forte: bavaglio. È una parola forte, davvero. Non voglio accendere alcun dibattito qui, però abbiamo bisogno di dire una cosa, e la ribadisco con forza: cosa nostra e le mafie oggi hanno in campo una campagna di comunicazione che vede attivi più soggetti nella società. A questa campagna di comunicazione noi dobbiamo rispondere nel modo che Borsellino ci diceva: «Parlate sempre della mafia. Alla radio, in televisione, ma parlatene». Se oggi non ne parliamo e non raccontiamo il lavoro più importante che fanno i magistrati noi restiamo indietro.
  A parte che io non voglio – e chiudo – che i nostri magistrati, i nostri carabinieri, i nostri poliziotti restino soli, perché il grande errore che è stato fatto negli anni Ottanta è stato quello di dire: «Ci sono loro, loro fanno la lotta alla mafia e noi stiamo a guardare». No. Quelle sentenze, quegli atti, quelle indagini sono fatte nel nome del popolo italiano. Dobbiamo ascoltare intanto le parole più importanti della magistratura migliore, delle forze dell'ordine migliori e farle nostre, con coraggio, con forza, con spirito di attenzione, con spirito di ascolto.
  Poi, finita questa fase in cui io racconterò i magistrati, voglio andare dai figli e dalle mogli dei boss, voglio capire quelle famiglie, voglio andare a casa di Gaetano Fernandez e capire come è potuto finire lì. Gaetano ha una nonna che si è battuta in maniera strepitosa per questo ragazzo, ma ha perso questa battaglia. Oggi, questa nonna a Danisinni è rimasta sola.Pag. 28
  Scusate la mia passione, la mia enfasi, però è un'occasione importantissima per un cronista poter raccontare ciò che si respira nelle strade a Palermo, le sensazioni. Ecco io vi ho raccontato sensazioni, sono un narratore. È chiaro che voi farete le vostre valutazioni e le vostre audizioni con i tecnici. Questa mia emozione è l'emozione dei poliziotti, dei carabinieri, dei magistrati, che ci mettono tanta passione ogni giorno. Quando il procuratore De Lucia dice che mancano tredici sostituti non è l'appello di un capoufficio per dire che mancano tredici persone in ufficio. No. È l'appello accorato di un magistrato che sta dalla mattina alla sera in ufficio, che spesso si deve fare carico anche di compiti che non sarebbero neanche suoi, per cercare di offrire un servizio giustizia. Questa passione deve arrivare e voi ve ne rendete interpreti.
  Sono sicuro che oggi abbiamo fatto una cosa importante, per la quale vi ringrazio. Torno a Palermo con un entusiasmo nuovo perché la presidente, la Commissione tutta, nella diversità delle posizioni, esprime una grande voglia di porre al centro del dibattito la questione mafia. Dobbiamo farlo capire agli scarcerati. Ho detto ai miei amici studenti che forse sarebbe il caso di regalare un calendario, magari sponsorizzato dalla Commissione antimafia, a chi esce dal carcere, sul quale c'è scritto chiaramente che siamo nel 2025. Magari in questo calendario mettiamo le foto dei nostri martiri, gli atti della Commissione antimafia e tante altre cose, perché qualcuno pensa che Palermo sia rimasta ancora al 1980.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio Salvo Palazzolo, non solo per l'enfasi e la passione, ma per gli spunti che ci ha dato sul filone che, con la sua audizione, ha aperto un ciclo di audizioni e, colleghi, una futura missione proprio in un carcere.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.55.