Sulla pubblicità dei lavori:
Cappellacci Ugo , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA IN MATERIA DI RIORDINO DELLE PROFESSIONI SANITARIE
Audizione di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE e, in videoconferenza, di Paolo Notaro, direttore della struttura complessa di terapia del dolore presso il Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano, e di Luigi Maria Terracciano, professore ordinario di Anatomia patologica, rettore di
Humanitas University
.
Cappellacci Ugo , Presidente ... 3
Cartabellotta Nino , presidente della Fondazione GIMBE ... 3
Cappellacci Ugo , Presidente ... 6
Notaro Paolo , direttore della struttura complessa di terapia del dolore presso il Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano ... 6
Cappellacci Ugo , Presidente ... 8
Terracciano Luigi Maria , professore ordinario di Anatomia patologica, rettore di Humanitas University ... 8
Ciocchetti Luciano , Presidente ... 10
Quartini Andrea (M5S) ... 10
Girelli Gian Antonio (PD-IDP) ... 11
Ciancitto Francesco Maria Salvatore (FDI) ... 12
Ciocchetti Luciano , Presidente ... 12
Cartabellotta Nino , presidente della Fondazione GIMBE ... 12
Notaro Paolo , direttore della struttura complessa di terapia del dolore presso il Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano ... 14
Terracciano Luigi Maria , professore ordinario di Anatomia patologica, rettore di Humanitas University ... 16
Ciocchetti Luciano , Presidente ... 16
ALLEGATO: Presentazione informatica illustrata dal presidente della Fondazione GIMBE Nino Cartabellotta. ... 17
Sigle dei gruppi parlamentari:
Fratelli d'Italia: FdI;
Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista: PD-IDP;
Lega - Salvini Premier: Lega;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Berlusconi Presidente - PPE: FI-PPE;
Alleanza Verdi e Sinistra: AVS;
Azione - Popolari europeisti riformatori - Renew Europe: AZ-PER-RE;
Noi Moderati (Noi con l'Italia, Coraggio Italia, UDC e Italia al Centro) - MAIE - Centro Popolare: NM(N-C-U-I)M-CP;
Italia Viva - il Centro - Renew Europe: IV-C-RE;
Misto: Misto;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-+Europa: Misto-+E.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
UGO CAPPELLACCI
La seduta comincia alle 14.25.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante la resocontazione stenografica e la trasmissione attraverso la web-tv della Camera dei deputati.
Audizione di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE e, in videoconferenza, di Paolo Notaro, direttore della struttura complessa di terapia del dolore presso il Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano, e di Luigi Maria Terracciano, professore ordinario di Anatomia patologica, rettore di Humanitas University .
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE e, in videoconferenza, di Paolo Notaro, direttore della struttura complessa di terapia del dolore presso il Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano, e di Luigi Maria Terracciano, professore ordinario di Anatomia patologica, rettore di Humanitas University, nell'ambito della indagine conoscitiva in materia di riordino delle professioni sanitarie.
Ricordo che l'odierna audizione sarà svolta consentendo la partecipazione in videoconferenza sia dei deputati che dei soggetti auditi secondo le modalità stabilite dalla giunta per il Regolamento.
Saluto tutti i nostri ospiti e li ringrazio di aver accolto l'invito della Commissione. Ricordo che allo svolgimento delle relazioni, da contenere, se è possibile, nei dieci minuti, potranno seguire domande da parte dei deputati alle quali seguirà la replica del soggetto audito.
La documentazione sarà resa disponibile ai deputati attraverso l'applicazione Geo Camera e sarà altresì pubblicata sul sito internet della Camera dei deputati.
Do quindi la parola al presidente Cartabellotta, che ha delle slide da proiettare.
NINO CARTABELLOTTA, presidente della Fondazione GIMBE. Grazie, presidente. Buongiorno a tutti, onorevoli deputati. Approfitto per fare a tutti gli auguri di buon anno, visto che siamo a inizio dell'anno.
Ho preparato, in occasione di questa indagine conoscitiva, alcune analisi nuove che possono esservi utili. Le slide, ovviamente, saranno messe a disposizione della Commissione, insieme a un testo di cui stiamo completando la preparazione.
Ho preparato una presentazione dove, dopo alcune premesse iniziali sulle difficoltà del computo del personale sanitario in Italia, ci sono due sottopunti dove si parla dei numeri sul personale dipendente. È una cosa che abbiamo sviluppato in questi giorni, dopo la pubblicazione dell'ultimo rapporto sulla spesa sanitaria da parte della Ragioneria generale dello Stato, per quello che riguarda la spesa pubblica sul personale.
Il primo problema nasce dal fatto che noi oggi in Italia non abbiamo un sistema univoco che raccoglie i dati sul personale sanitario. Ci sono due grandi banche dati: il conto annuale della Ragioneria generale dello Stato e un report del Ministero della salute. Come vedete (vedi slide n. 4), sono due banche dati che si integrano una con l'altra. Hanno una larga parte in comune, fatta prevalentemente di personale dipendente,Pag. 4 però hanno poi dei numeri separati. Questi sono i dati relativi all'anno 2022, che ovviamente finiscono per sottostimare la situazione attuale, tenendo conto che sono dati che risalgono a più di due anni fa.
Come vedete (vedi slide n. 5), le unità di personale dipendente nel conto annuale della Ragioneria generale dello Stato, che è quello che di fatto viene utilizzato per la maggior parte delle analisi, sono poco più di 680.000. Questi professionisti sono persone che fanno riferimento al contratto collettivo nazionale della sanità, il CCNL Sanità.
La classificazione del Ministero della salute è, invece, un po' più analitica (vedi slide n. 6), perché parte dalla struttura in cui lavorano i professionisti e li divide in: dipendenti, dipendenti delle strutture equiparate, universitari, o altro rapporto di lavoro. Il numero totale, quindi, risulta essere superiore, perché qua dentro ci stanno anche i professionisti che non fanno riferimento al CCNL Sanità.
Dal punto di vista dell'analisi delle fonti, è interessante rilevare che, quando noi andiamo a guardare i benchmark nazionali nei confronti degli altri Paesi, si fa riferimento ai dati riportati dall'OCSE, che, come vedete (vedi slide n. 7), indicano per i medici circa 250.000 medici per l'anno 2022. L'ostacolo sta nel fatto che l'OCSE, che poi peraltro è il dato ISTAT dei conti SHA, considera i medici dal giorno della laurea al giorno del pensionamento. Quindi, non è forza lavoro del Servizio sanitario nazionale (SSN). Infatti, come vedete, la Ragioneria generale dello Stato considera circa 108.000 dipendenti su 250.000 medici. Poi ce ne sono circa 60.000 convenzionati, e sono quelli della SISAC, e circa 12.000 dell'AIOP, dell'ospedalità privata. Quindi, anche andando a sommare tutte queste sottocategorie, siamo ben lontani da quelle 250.000 unità. La domanda diventa: tutti questi medici, cosa fanno in Italia se non stanno né nel pubblico, né nel privato accreditato, né sono medici convenzionati? Verosimilmente, fanno un'attività di tipo libero professionale.
Per gli infermieri, ci sono meno variabilità per il fatto che comunque nell'OCSE vengono contabilizzati gli infermieri dipendenti (vedi slide n. 8). È importante conoscere questi dati perché, in assenza di un dato univoco sul personale sanitario, noi oggi non disponiamo di un sistema informativo che ci permette di sapere, in tempo reale, quali sono le reali carenze.
Faccio ora riferimento alle unità di personale del SSN del Ministero della salute (vedi slide n. 10) che, come dicevo, sono più omnicomprensive poiché prendono in considerazione anche altri contratti di lavoro: 625.000 dipendenti, quasi 85.000 da strutture equiparate, quasi 9.000 universitari e quasi 9.000 che hanno altro rapporto di lavoro, prevalentemente contratti di lavoro a termine.
Se andiamo a guardare la distribuzione regionale, sul dato del Ministero della salute, per quello che riguarda i medici (vedi slide n. 11), a fronte di una media nazionale di 2,11, ci sono delle differenze relativamente modeste: si va dall'1,80 della Campania al 2,64 della Sardegna. Cosa ben diversa, invece, è per gli infermieri (vedi slide n. 12), che, in particolare nelle regioni in piano di rientro, hanno dei numeri molto più bassi non solo della media nazionale, ma soprattutto delle regioni che stanno in cima alla distribuzione di infermieri per mille abitanti: siamo quasi al 50 per cento tra Liguria, Emilia-Romagna, Sicilia e Campania. Questo ci fa capire che il regime di piano di rientro ha sacrificato in particolare, in questi anni, il personale infermieristico che, come sappiamo, oggi è quello che, di fatto, presenta le maggiori carenze.
Rispetto al dato europeo, ho provato a riassumere gli ultimi dati. Quello che risulta dai dati OCSE (vedi slide n. 14) è che in Italia non mancano medici e nemmeno i laureati. Però, abbiamo una progressiva fuga dal SSN, che non è oggi stimabile, se non da dati indiretti, che vengono soprattutto da associazioni di categoria. Quindi noi non sappiamo, di questi 4,2 medici per mille abitanti, quanti non lavorano nel sistema pubblico e nel privato accreditato.
Sugli infermieri, la situazione è particolarmente critica, non soltanto per la carenza – 6,5 rispetto a 9,8 della media OCSE –, ma soprattutto perché non abbiamo Pag. 5delle riserve. Si laureano 16,4 infermieri per centomila abitanti, rispetto ai quasi 45 della media OCSE. Questa è una grave carenza, peraltro consolidata dal fatto che, nell'ultimo anno accademico, ci sono stati tanti posti in scienze infermieristiche quanti sono stati gli iscritti.
Le carenze che riguardano la professione medica potrebbero essere definite selettive, poiché riguardano alcune specialità. Questi sono i dati relativi all'ultimo concorso delle scuole di specializzazione in medicina, per l'anno 2024-2025 (vedi slide n. 15), con le scuole di specializzazione che hanno avuto un tasso di adesione sotto il 50 per cento. Ce ne sono alcune di particolare rilevanza per la sanità pubblica, a parte la ben nota medicina d'urgenza, come la radioterapia e tutte le specialità di laboratorio, quali anatomia patologica, indispensabili per la sopravvivenza della sanità pubblica.
Poi abbiamo una grossa carenza di medici di medicina generale (vedi slide n. 16), che oggi è particolarmente evidente nelle regioni grandi del nord, la Lombardia, il Veneto e l'Emilia-Romagna. Per una strana evoluzione della gobba pensionistica, invece, nel 2026 questa carenza riguarderà prevalentemente le regioni del sud.
Passo alla parte più interessante e più nuova di queste analisi effettuate sui dati della Ragioneria generale dello Stato (vedi slide n. 19). Nel corso di questi anni, riguardo ai sei capitoli con cui la Ragioneria generale dello Stato classifica la spesa sanitaria, abbiamo avuto sostanzialmente una riduzione importante della spesa dedicata al personale dipendente, dal 33,5 per cento della spesa totale nel 2012 al 30,6 per cento nel 2023. Quindi, al di là della cifra assoluta, l'impatto della spesa per il personale dipendente, negli anni, si è progressivamente ridotto. Le colonne ci fanno vedere quant'è il valore assoluto che noi abbiamo speso per i dipendenti del SSN. È rimasto sostanzialmente stabile, è un po' aumentato negli ultimi anni, ma se andiamo a guardare l'incidenza percentuale sulla spesa sanitaria totale, il trend è sostanzialmente in diminuzione, perché noi passiamo dal 33,5 per cento nel 2012 al 30,6 per cento. Non è un fatto recente, ma risale più o meno a undici anni fa. Il dato interessante è che, negli anni, abbiamo sottratto al personale sanitario circa 28 miliardi, di cui 15,5 negli ultimi quattro anni. Quindi, al di là dei numeri sul finanziamento pubblico del SSN, è evidente che abbiamo la ragionevole certezza che buona parte del definanziamento è stato assorbito dal personale dipendente.
Le ultime due considerazioni vengono da questa valutazione. Questa è la spesa pro capite per il personale dipendente (vedi slide n. 23). Per ogni cittadino italiano, la quota del fabbisogno sanitario nazionale ripartito alle regioni che viene destinato al personale vede grandi differenze. È chiaro che la provincia di Bolzano, grazie anche all'indennità per il bilinguismo, ha la quota più elevata, mentre le regioni del Centro-Sud hanno la spesa più bassa. Questo grafico coincide in larga misura con quello che vi ho fatto vedere poco fa sulla distribuzione dei medici e degli infermieri nelle varie regioni italiane. Il dato interessante è che, se noi andiamo a incrociare la spesa per il personale dipendente con il numero dei professionisti operativi, si viene a realizzare un grafico di questo tipo (vedi slide n. 25). Nella parte alta della classifica, ci sono buona parte delle regioni in piano di rientro. Questo significa che in queste regioni, probabilmente, oggi ci sono troppe unità di personale che costano tanto, verosimilmente tanti direttori di unità operativa semplice o complessa, e meno personale che costa meno.
Paradossalmente, in queste regioni, noi abbiamo una spesa sanitaria elevata rispetto al numero dei professionisti sanitari (vedi slide n. 26). Nel quadrante in basso a destra ci sono le regioni che hanno una spesa elevata per il personale, ma un basso numero di professionisti sanitari. In quello in alto a sinistra, invece, le regioni che hanno attuato le politiche più virtuose per la gestione del personale sanitario. Quindi, spendono meno, ma hanno più personale. Questo, ovviamente, è legato al fatto che le regioni nel quadrante in alto a sinistra sono quelle che garantiscono meglio l'erogazione dei livelli essenziali di assistenza Pag. 6(LEA). C'è, quindi, una correlazione diretta tra l'efficienza nella gestione del personale e la capacità di erogare i LEA.
Faccio un'ultima considerazione sui servizi di fornitura di personale medico e infermieristico, riprendendo i dati dell'ANAC pubblicati nel febbraio del 2024 (vedi slide n. 28). Negli ultimi quattro anni, il fenomeno dei gettonisti ha avuto un impatto per la pubblica amministrazione di circa 1,7 miliardi che, come sapete, non vengono contabilizzati nelle spese per il personale, ma vengono contabilizzati nei beni e servizi. C'è un trend differente tra medici e infermieri. Per gli infermieri si faceva ricorso a questa forma di arruolamento prima della pandemia. Nel periodo successivo, invece, la percentuale dei medici è molto più elevata, soprattutto per quello che riguarda i medici di pronto soccorso.
Concludo con due considerazioni di carattere generale. Noi dobbiamo valutare le politiche per il personale sanitario tenendo conto di due grandi periodi. Nel periodo 2010-2019, a causa del sottofinanziamento cronico e della mancata programmazione, abbiamo avuto una serie di conseguenze: il blocco delle assunzioni, i mancati rinnovi contrattuali, il tetto di spesa sul personale, il numero insufficiente di borse di studio per gli specializzandi, per le scuole di specializzazione in medicina e anche per il corso di formazione specifica in medicina generale. In questi anni si è, insomma, consolidata una carenza quantitativa di personale sanitario.
Lo choc della pandemia, invece, ha determinato l'incremento di fenomeni quali il burnout, la frustrazione, la demotivazione dei professionisti sanitari, per cui oggi vediamo pensionamenti anticipati, licenziamenti volontari, fuga verso il privato e verso l'estero, e soprattutto mancata attrattività per il SSN. Per cui, oggi, il grande problema, al di là della carenza, è il peggioramento delle condizioni di lavoro, organizzative e di sicurezza e la disaffezione per il servizio pubblico che sta facendo andare via tanti professionisti sanitari.
Questi errori di programmazione che fanno parte degli ultimi quindici anni, il sottofinanziamento e il disinvestimento continuo, documentato oggettivamente con i dati che vi ho portato oggi, hanno prima ridotto la forza lavoro e poi demotivato tutti i professionisti, indipendentemente dalla loro professione o specialità, che si stanno progressivamente disaffezionando alla sanità pubblica. È evidente che, se si vuole rilanciare il SSN, è urgente, ma al tempo stesso prioritario, rilanciare le politiche sul capitale umano, per valorizzare la colonna portante della sanità pubblica e rendere nuovamente attrattiva la carriera nel SSN, innovando anche i processi di formazione e valutazione delle competenze professionali.
Grazie.
PRESIDENTE. Grazie a lei, presidente.
Do la parola al direttore Notaro.
PAOLO NOTARO, direttore della struttura complessa di terapia del dolore presso il Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano. Buongiorno. Pongo un tema molto preciso. C'è una criticità, pur ponendola in termini proattivi, di professionisti qualificati su un tema che è la terapia del dolore, malgrado la stessa venga riconosciuta a livello normativo tra le discipline specialistiche ospedaliere nel 2018, nei LEA nel 2017 e nella legge n. 38 nel 2010.
Quanto ai nodi più critici, ci sono problemi di formazione specialistica e di formazione curriculare per l'accesso ai concorsi per i professionisti che creano un effetto abbastanza bizzarro. Da una parte, abbiamo pazienti con dolore cronico persistente che aumentano sempre di più e costano sempre di più in termini di sostenibilità, e dall'altro, malgrado avessimo normato i profili dei professionisti, abbiamo difficoltà a fornire professionisti competenti. Storicamente la specialità identificata come in grado di fornire gli specialisti era «anestesia e rianimazione», ma le criticità successe in questi anni, non ultimo il Covid, rendono veramente problematica la possibilità di accedere a questi professionisti.
C'è, però, un altro problema. Il dolore cronico non è accompagnato a una patologia, ma è un dolore che diventa esso stesso malattia. Ha una dimensione che Pag. 7solo adesso stiamo scoprendo, che investe diverse componenti: biologica, neurologica, immunologica. I pazienti cambiano, e i pazienti con dolore persistente e dolore cronico hanno un'aspettativa di vita in Italia mediamente di trent'anni, con una prevalenza di sesso femminile. C'è un problema di prevenzione: come individuare precocemente le forme di cronicizzazione.
Abbiamo, quindi, questa criticità. Una dimensione molto complessa di bisogno di salute che è cambiata, e l'impossibilità di sistema di fornire dei professionisti adeguati per soddisfare questo bisogno, malgrado il legislatore abbia ampiamente normato tutto il sistema.
Aggiungo un altro problema, di valore, perché il concetto di cura del dolore spesso è confuso con la cura intesa come specialistica. La terapia del dolore non è, invece, mera somministrazione di farmaci. Non sono le cure palliative. Anche nella Commissione bioetica sul fine vita c'è spesso questo equivoco, quest'area grigia da identificare. La terapia del dolore è la disciplina che riconosce, tratta e previene delle sindromi dolorose e complesse, ma le tratta anche con altra tecnologia, con interventi specifici in terapia del dolore. Sono cose che tanti non conoscono. Dico che questo è un problema anche di valore nel sistema, perché lo ritroviamo addirittura nell'accordo Stato-regioni sulle norme di accreditamento 2020, e ancora prima, quando la terapia del dolore viene riconosciuta come una disciplina a sé.
Mi spiego. Qualsiasi persona laureata in medicina e chirurgia deve essere in grado di somministrare i farmaci per il dolore. Altra cosa è il trattamento della complessità. Per fare un esempio, potremmo citare il cardiologo. Se un soggetto ha l'ipertensione qualsiasi medico in qualche modo deve riuscire a intervenire. Se un paziente ha una patologia complessa, però, deve essere gestito da un professionista adeguato. È lì che stanno il gap e la confusione.
C'è un problema di valori perché, malgrado la normativa, il legislatore è stato molto lungimirante. A un certo punto, infatti, intuendo la confusione esistente sul percorso dei malati e i costi – Paesi simili al nostro investono all'anno l'1,5 per cento del PIL – identifica un codice di disciplina, il codice n. 96, per identificare questi malati che hanno un'aspettativa di vita normalissima, venti o trent'anni di vita, con un impatto sull'attività lavorativa, sull'attività produttiva, sui legami sociali, sulla spesa diretta e indiretta, sull'accesso in pronto soccorso e su una serie di comportamenti non appropriati che incidono poi anche sul tema annoso delle liste d'attesa. Il problema si pone, se non altro, per le indagini diagnostiche ad alta tecnologia, come le risonanze magnetiche e altri trattamenti particolarmente invasivi. Questo codice di disciplina n. 96, dal 2018 non viene applicato. Le regioni intervengono in maniera incostante, e i dati non pervengono al Ministero. Tant'è vero che, nonostante l'articolo 9 della legge n. 38 del 2010 obblighi a trasmettere una relazione ministeriale al Parlamento sull'applicazione della legge, l'ultima relazione è stata trasmessa nel 2019, su dati del 2017. Questo perché questi pazienti non vengono tracciati, pur essendo in Italia circa un milione coloro che hanno patologie complesse che è necessario identificare. Non sono i dieci milioni, che sono, invece, i pazienti con una qualsivoglia forma di sindrome dolorosa. Un milione sono i pazienti che hanno bisogno di risposte specialistiche e che devono, quindi, essere individuate precocemente.
Questa mancanza di tracciamento, malgrado la norma riconosca il problema, sta creando lo stesso problema che avrete sentito in alcuni Paesi anglosassoni, penso per esempio all'abuso di oppioidi. Lo stesso Ministero ha già richiamato più volte, a partire dall'anno scorso, tutta la problematica del Fentanyl e di altri farmaci, proprio perché questi pazienti non vengono tracciati. La dimensione del dolore, secondo la nuova classificazione internazionale delle patologie, a volte è tale che il dolore diventa esso stesso malattia. Quindi, abbiamo pazienti malati con dolore e pazienti malati di dolore.
Questo aspetto, che sfugge evidentemente come aspetto normativo, ricade ancora di più nella formazione degli specialisti. Tant'è vero che in tutti i dati che Pag. 8abbiamo, anche quelli riportati nelle relazioni parlamentari, spesso si fa confusione tra cure palliative e terapia del dolore. Dunque, è difficile spesso comprendere quali siano i setting assistenziali declinati nei vari sistemi, anche perché i dati si sovrappongono e si confondono.
L'invito che rivolgo a questa Commissione è che, di fronte al problema di pazienti che costano tantissimo e incidono sulla sostenibilità del sistema, è necessario cercare di prevenire, e trattarli in modo appropriato; questo passa dal loro tracciamento. Non tracciarli e non curarli costa molto di più che curarli. Ma c'è un problema di competenze. Quindi, i bisogni di questi pazienti costituiscono assieme un tema molto complesso, multidimensionale e biopsicosociale, tema che bisogna affrontare in maniera olistica, senza cedere alla tendenza di frammentare i suddetti bisogni. Questa, quindi, è una necessità, per soddisfare la quale occorre creare figure competenti e soprattutto tracciare i malati anche con l'applicazione delle normative, dimodoché si possano evidenziare le criticità, la dimensione, le caratteristiche antropologiche e sociali dei malati, e si possa riuscire a controllare gli accessi. Vi faccio un esempio. La lombalgia, reale o scambiata come tale all'accesso improprio in pronto soccorso è una delle prime cause di patologia: tre quarti di questi pazienti potrebbero non andare in pronto soccorso, se fossero riconosciuti e trattati in modo adeguato.
Credo sia un tema importante da sollevare specialmente in questa assise, dato che la garanzia del diritto alla cura dei malati passa anche per la sostenibilità del sistema. Quindi, serve innanzitutto disciplina, che vuol dire diagnosi, trattamento e follow-up. Si badi bene che per trattamento non si intendono i farmaci, che spesso complicano la situazione di questi malati. È quello che leggete riguardo ai Paesi anglosassoni. Noi non siamo diversi, i pazienti che abusano o diventano dipendenti dai farmaci, in quanto non sono controllati, rappresentano un problema reale anche nel nostro Paese.
Vi ringrazio per l'attenzione.
PRESIDENTE. Grazie a lei, dottor Notaro.
Do, quindi, la parola al rettore Terracciano.
LUIGI MARIA TERRACCIANO, professore ordinario di Anatomia patologica, rettore di Humanitas University. Buon pomeriggio a tutti. Vorrei innanzitutto ringraziarvi per l'opportunità offerta a Humanitas University di esporre il proprio punto di vista su due temi che a noi stanno particolarmente a cuore, quello degli infermieri e quello delle scuole di specializzazione in medicina.
Permettetemi di spendere due parole sul nostro ateneo. Il nostro ateneo è nato nel 2014, l'anno scorso ha festeggiato il decimo anniversario, e ospita oltre 1.700 studenti, offrendo un percorso formativo esclusivamente focalizzato sulle health sciences, ma comunque piuttosto articolato. Abbiamo sette corsi di laurea, che comprendono medicina, con una quota di studenti internazionali che raggiunge circa il 50 per cento, in collaborazione con il Politecnico di Milano. Entrambi i corsi esclusivamente in lingua inglese, corsi di laurea in infermieristica, sia triennale che magistrale, e corsi in tecniche di radiologia medica e in tecniche di laboratorio e fisioterapia. Inoltre, abbiamo tre corsi di dottorato e ventisei scuole di specializzazione medica. Infine, per completare l'offerta formativa post-graduate, abbiamo sette master, che spaziano nei campi più vari della medicina.
Un aspetto particolare di Humanitas University è proprio l'integrazione con l'attività dell'IRCCS Humanitas Research Hospital, che tra l'altro da tre anni AgeNaS indica come il migliore ospedale italiano per la qualità clinica, e questa integrazione permette agli studenti di vivere una stretta interconnessione tra formazione, ricerca e assistenza clinica, focalizzata a offrire ai pazienti cure sempre più personalizzate e ad alta complessità, anche grazie a particolari infrastrutture, quali il Simulation Center, aperto a collaborazioni con altre realtà formative, il Centro Artificial Intelligence, dove lavorano insieme ingegneri, medici e data scientists, proprio per unire esperienza clinica e utilizzo di big data e Pag. 9machine learning, un centro di ricerca con più di 10 mila punti di impact factor e dove lavorano oltre 400 scienziati, un Innovation Building inaugurato l'anno scorso, che funge da incubatore, tra l'altro, di start-up e che rappresenta uno spazio fisico in cui sperimentare nanotecnologie, artificial intelligence, tecniche biomediche e big data, pensato proprio per potenziare la sinergia tra attività clinica, mondo della ricerca e delle imprese.
Per entrare nel vivo del mio intervento, credo sia importante partire da alcuni punti fondamentali, alcuni dei quali sono già stati menzionati nell'intervento del dottor Cartabellotta. L'invecchiamento della popolazione, la sempre maggiore diffusione delle malattie croniche, la cronica carenza di personale sanitario e l'inverno demografico obbligano a una riflessione su come strutturare il sistema sanitario del futuro e in particolare, dal nostro punto di vista, sull'identificazione del ruolo che l'università può giocare nel disegnare il sistema sanitario del futuro. Le università devono, pertanto, potersi dotare di strumenti e corsi in grado di preparare il personale sanitario del futuro a gestire l'impatto della transizione sanitaria attraverso un'integrazione sempre maggiore tra ricerca clinica e innovazione, dando la possibilità a professionisti sanitari e specializzandi di erogare un set adeguato di prestazioni.
Formulerò di seguito alcuni dati e proposte per quanto riguarda il personale sanitario infermieristico. Ai dati della carenza degli infermieri, circa 60 mila infermieri in meno secondo il rapporto CREA, già menzionato dal dottor Cartabellotta, va aggiunto uno scenario ancora più preoccupante, che è la scarsa propensione degli studenti italiani a intraprendere la professione. Abbiamo circa l'1 per cento rispetto al 3 per cento degli altri Paesi dell'Unione europea. Se è vero che la carenza di infermieri appare generalizzata nell'UE, il nostro sistema risulta, comunque, meno attrattivo degli altri. Vi sono diverse ragioni. Le cause, secondo noi, sono riferibili principalmente a un percorso di carriera che prevede una crescita professionale limitata e un sistema formativo che, per differenza dei benchmark europei e dei migliori modelli internazionali, non permette l'evoluzione verso competenze e pratiche avanzate.
Ferma restando la specificità dell'atto medico, è fondamentale rendere strutturale un approccio formativo che permetta al personale sanitario, tramite apposito corso di studio specialistico, di poter svolgere in autonomia maggiori mansioni, così da permettere una riorganizzazione delle competenze tra i diversi ruoli sanitari.
Accogliendo con favore il lavoro congiunto del Ministero della salute e del Ministero dell'università e della ricerca per rivedere i corsi di laurea infermieristici, con l'inserimento di tre nuove aree di specializzazione, suggeriamo alcune proposte di sistema che hanno l'obiettivo di innalzare il livello formativo. In primis, per rendere strutturali le esperienze di task sharing, già sperimentate in diversi contesti regionali. Per l'area di pronto soccorso, emergenza-urgenza ad esempio, noi suggeriamo l'adozione di protocolli formativi uniformi a livello nazionale per gli infermieri coinvolti nell'attività di «see and treat», in modo da incentivarne l'adozione in tutte le regioni e, quindi, cercare di oltrepassare e abbattere i confini regionali. Istituire corsi di studio specialistici in infermieristica a indirizzo clinico, per garantire l'acquisizione di competenze cliniche da parte di personale infermieristico in alcune aree più critiche – l'assistenza territoriale e le cure intensive nell'emergenza – abilitanti anche alla prescrizione infermieristica di trattamenti assistenziali e tecnologie specifiche. Per dare maggior spazio agli studenti lavoratori, avviare specifici corsi di laurea in infermieristica rivolti a lavoratori OSS, che prevedano orari delle lezioni compatibili con le attività lavorative, e con riconoscimento dell'esperienza professionale acquisita sotto forma di crediti formativi. Noi riteniamo che la figura dell'operatore sociosanitario possa rappresentare un serbatoio importante a cui attingere per incrementare il nostro numero di infermieri.
Venendo ora al tema degli specializzandi in medicina, vorrei avanzare alcune proposte, che sono principalmente orientatePag. 10 a due obiettivi: autonomia e qualità. La possibilità di ricorrere a un maggiore e migliore coinvolgimento degli specializzandi appare non solo un'esigenza organizzativa delle strutture ma un accorgimento fondamentale per valorizzare la formazione in medicina, rendendo, quindi, il sistema formativo italiano più competitivo rispetto ai modelli europei, che sono benchmark di estrema rilevanza, come abbiamo sentito nell'intervento precedente.
I dati sui flussi in uscita dei medici negli anni, oltre 10 mila tra il 2005 e il 2015, secondo i dati comunicati dal Ministro Schillaci, rendono, infatti, evidente come, in assenza di rapidi e strutturati accorgimenti, il nostro Paese rischi di compromettere significativamente l'investimento pubblico in formazione, alimentando il flusso in uscita di medici laureati e, di conseguenza, la carenza di personale medico.
La necessità di allineare gli accessi alle scuole di specializzazione e il numero dei laureati è una questione che è stata affrontata dal Governo attraverso una maggiore disponibilità di borse di studio finanziate a livello centrale e regionale. Alla soluzione quantitativa, però, a parer nostro deve accompagnarsi una revisione qualitativa del percorso formativo dei giovani medici, in grado di soddisfare le esigenze che emergono quotidianamente dalla pratica clinica. Le scuole di specializzazione devono, pertanto, garantire al medico un percorso di formazione che gli permetta di sviluppare un'autonomia graduale, responsabile e certificata.
Avanzo alcune proposte. In primis, istituire meccanismi uniformi di verifica, controllo e consultazione da parte dei medici strutturati delle attività sanitarie svolte dal medico in formazione, in relazione al progressivo grado di autonomia operativa e gestionale sviluppato nel tempo, prevedendone la relativa certificazione da parte della scuola di specializzazione. Prevedere per i medici in specializzazione la progressiva autorizzazione all'esercizio dell'attività clinica nel contesto ospedaliero di riferimento, in coerenza con il grado di autonomia professionale certificata. Individuare criteri uniformi a livello nazionale per la definizione degli standard, non solo quantitativi ma anche qualitativi, che devono essere conseguiti dai medici specializzandi, per anno di corso frequentato e per tipologia di attività assegnate nel progetto formativo individuale. Supportare la partecipazione del medico in formazione specialistica all'attività di ricerca – questo è un tema che, come università, ci sta particolarmente a cuore – sia in relazione alla preparazione della tesi che per la conduzione autonoma di studi epidemiologici, ad esempio, e di sperimentazioni controllate. Infine, rafforzare i meccanismi di remunerazione aggiuntiva per gli specializzandi, già approvati con la legge di bilancio, sulla base dell'autonomia conseguita durante la specializzazione e da differenziare a seconda della scuola di specializzazione scelta.
Vi ringrazio per la vostra attenzione.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
LUCIANO CIOCCHETTI
PRESIDENTE. Grazie a lei.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
ANDREA QUARTINI. Ringrazio i nostri interlocutori, che hanno raffigurato un quadro piuttosto preoccupante per molti versi.
Una prima domanda vorrei rivolgerla al presidente Cartabellotta. La novità è che abbiamo un numero importante di personale utilizzato in maniera impropria. Mi rifaccio all'ultima slide, quella che vedeva la Lombardia da sola in basso a sinistra, le regioni più performanti in alto a sinistra, le regioni meno performanti in basso a destra. Più performanti e meno performanti vuol dire, a parità di personale, riuscire a dare un servizio migliore. Ebbene, questa idea di sgretolamento del sistema sanitario nazionale pluriregionale è un elemento di criticità che andrebbe affrontato? Questa è la domanda.
Arrivo al dunque. L'idea di rivedere il Titolo V della Costituzione, soprattutto rispetto alla sanità, va in quella direzione. È un'idea che dovremmo assolutamente perseguire,Pag. 11 ma è in netta controtendenza rispetto all'autonomia differenziata, in quanto l'autonomia differenziata rischia di amplificare quel fenomeno, al di là della carenza di personale, che è certamente uno degli elementi più critici. Da un punto di vista tecnico, considero il modello per intensità di cure ancora a rischio da un punto di vista operativo, quindi forse il decreto ministeriale n. 70 andrebbe rivisto. Però, il tema è quello della capacità di un sistema omogeneo in grado di mettere tutto il territorio nazionale nelle stesse condizioni.
Vorrei rivolgere due domande anche al direttore Notaro e al rettore Terracciano. Il direttore Notaro ci ha fatto capire quanto si possa correre il rischio anche di dipendenza, o comunque il rischio di non tracciabilità, nell'ambito della terapia del dolore. Senza pensare a scenari stile Fentanyl, è importante poter fare una mappatura adeguata. D'altra parte, dobbiamo anche superare alcuni schemi ideologici rispetto alle sostanze e al loro abuso, essendo più «laici». La stigmatizzazione di chi utilizza questi farmaci sotto prescrizione medica, sotto una valutazione attenta da un punto di vista medico, deve essere una preoccupazione. Questa preoccupazione si supera soltanto se c'è una capacità di presa in carico, una mappatura, una tracciabilità di queste persone. Chiaramente, anche il rischio di vedersi ritirare la patente è un tema significativo rispetto a questi pazienti. Mi chiedevo, perciò, quanto anche questo possa mettere un pochino a rischio la compliance di questi pazienti.
Infine, mi rivolgo al professor Terracciano: mi sembrava interessante questa idea di rendere più attrattiva la professione infermieristica, nell'ambito delle figure professionali e anche in materia retributiva. Però anche l'idea di prevedere per gli OSS un percorso di scienza infermieristica mi sembra interessante. Così come mi è sembrata interessante l'idea di riuscire a rivedere in maniera più completa il percorso di studi rispetto anche ad alcuni temi, ad esempio la presa in carico dei pazienti, che potrebbe ridare quel livello di autonomia e responsabilità alla professione medica.
In questo senso, chiederei se ha una sua idea di medico «autore», inteso come autonomia e responsabilità, quindi con la capacità di avere un rapporto più olistico rispetto all'attuale situazione.
GIAN ANTONIO GIRELLI. Signor presidente, ringrazio anch'io per le relazioni particolarmente utili e interessanti, partendo da un dato. Fa un po' impressione ragionare sul personale sanitario in mancanza di una fonte precisa che faccia il quadro della situazione. È estremamente complicato e forse è anche il motivo per cui, nel corso di tanti anni, non c'è mai stata un'azione politica capace ed efficace nell'intervenire sulle carenze che via via stavano maturando.
Mi sembra di aver colto, in maniera molto chiara, che il numero dei medici ci pone leggermente sopra la media OCSE. Semplicemente, ne abbiamo molti non collocati all'interno del SSN, sia esercitato da pubblico-privato che fuori da tutta questa organizzazione. Quindi, il personale va dove vuole e non dove serve, ma soprattutto rischia di non dare risposte ai bisogni dei cittadini. La domanda è: come si può intervenire riguardo a questo, e quali sono le leve in un quadro frammentato, come quello che abbiamo, in ventuno modelli sanitari?
Sul tema infermieristico vorrei sapere cosa ne pensate della figura del cosiddetto «assistente infermiere», che è stata oggetto di grande discussione. È vero che la Conferenza Stato-Regioni lo ha approvato; è altrettanto vero che l'Ordine ha dato un parere – non si sa quanto autoreferenziale – positivo. Tuttavia, incontrando varie realtà territoriali, ho avuto modo di sentire prevalentemente reazioni negative. Questo si collega anche alla proposta, che a volte sullo sfondo emerge, di permettere alla figura dell'infermiere di fare prescrizioni di alcune tipologie di farmaci.
Traduco un'osservazione che mi è stata fatta: calcolando come sono sottopagati e le condizioni in cui sono costretti a lavorare, ci manca solo che si aumentino le loro responsabilità. Prima bisogna affrontare i primi due aspetti, e poi investire su possibili ampliamenti della figura.Pag. 12
Ho trovato, altresì, molto interessante la figura, per esempio, della terapia del contrasto al dolore, che dà un po' la dimensione di come, e parlo dal mio punto di vista, molte volte in sanità si ragioni su schemi fissi di alcune figure professionali, mentre non ci si accorge che la scienza e la ricerca ci consegnano branche sempre più diverse. Quindi, c'è la necessità di investire e collocare all'interno delle figure professionali novità di non poco conto.
Le università, da questo punto di vista, hanno un'automatica capacità di adeguarsi al contesto scientifico che si crea, oppure hanno bisogno di qualche spinta in più, innovativa, che le portino a essere sempre allineate rispetto alle potenzialità?
FRANCESCO MARIA SALVATORE CIANCITTO. Signor presidente, ringrazio gli auditi.
Dalle vostre audizioni è emerso che esiste una problematica di attrattività di alcune specializzazioni nell'area medica e della professione di infermiere. Ritengo che il problema dell'attrattività di alcune specializzazioni mediche, come medicina d'urgenza, ortopedia, chirurgia, sia determinato da due problematiche fondamentali. Una è il rischio della responsabilità professionale e della denunzia penale, quindi del contenzioso penale che emerge, un rischio che chi esegue questa professione nei pronto soccorso e nella medicina di urgenza ha, quindi se ritenete che questa sia una problematica da affrontare per rendere più attrattive queste specializzazioni. L'altro, secondo me, è un problema di natura economica. Essendo specializzazioni più a rischio, hanno necessità di avere indennità maggiorate rispetto ad altre.
Queste, secondo me, sono le due criticità. Chiedo a voi di darmi conferma.
Per quanto riguarda, invece, gli infermieri, dalle audizioni degli Ordini e dei sindacati di categoria sono emersi una scarsa attrattività e un altissimo abbandono già durante il corso di laurea, determinati, secondo me, da due motivi. Il primo è l'impossibilità di fare carriera. Infatti, mi è piaciuta molto l'idea del Magnifico Rettore Terracciano, che parlava di corsi di specializzazione per infermieri, quindi della possibilità di creare all'interno di questa professione un avanzamento di carriera che la renda più attrattiva, che determini contemporaneamente una crescita professionale accompagnata da una crescita di retribuzione. Su questo, quali sono i modelli che avete sviluppato?
Si è poi parlato di criticità dell'autonomia. A me hanno colpito due elementi fondamentali: la standardizzazione della qualità e quantità della formazione, e la standardizzazione della prestazione sanitaria. Il modello sanitario deve essere unico, non può variare da regione a regione. Questo già lo dice la Costituzione quando parla di garantire la salute del cittadino. Poi ci può essere il modello unico che viene gestito dalla regione. Secondo me, quindi, l'autonomia deve conciliarsi con un modello elaborato dal Governo centrale contenente gli standard qualitativi e quantitativi delle prestazioni.
PRESIDENTE. Prima di dare la parola per le risposte alle domande, voglio soltanto chiedere al professor Notaro e al professor Terracciano se possono mandarci anche la documentazione scritta di quello che ci hanno comunicato. Sono sicuramente emerse - come anche i colleghi hanno testimoniato - proposte importanti, che saranno utili per il documento conclusivo dell'indagine conoscitiva che, come Commissione, andremo ad approvare, con l'obiettivo di mettere mano e di aiutare una riorganizzazione del sistema delle professioni sanitarie, la cui esigenza emerge anche dalle considerazioni che ciascuno di voi qui ha portato e anche degli altri auditi.
Do, adesso, la parola agli auditi per le risposte alle domande.
NINO CARTABELLOTTA, presidente della Fondazione GIMBE. Signor presidente, la ringrazio.
Provo a rispondere in maniera comune per le domande che hanno un substrato sostanzialmente simile. Parto dal problema della revisione del Titolo V e del rapporto Stato-Regioni. Al di là di questo pendolo che negli ultimi otto anni è oscillato tra la restituzione allo Stato di tutti i poteri e Pag. 13l'autonomia differenziata, credo ci sia un ragionevole compromesso: quello della maggiore capacità di indirizzo dello Stato nei confronti delle regioni, con relativa verifica, cosa che oggi avviene in maniera molto leggera, direi quasi con una sorta di accordo politico informale tra Governo e regioni. Abbiamo un nuovo sistema di garanzia fatto di 76 indicatori, ma ne stiamo, di fatto, utilizzando soltanto 23.
Riprendo alcuni dati che vi ho fatto vedere. I piani di rientro prevedevano di ottimizzare la spesa del personale, però lo Stato doveva controllare come le regioni del Centro-Sud ottimizzavano questa spesa. Mantenere tanto personale che costa troppo e tagliare quello che costa poco crea carenza di forza lavoro, per cui le modalità di monitoraggio non sono state adeguate. Ciò su cui bisogna puntare, a mio avviso, è una maggiore capacità di controllo, ma questo richiede una maggiore compattezza anche del Governo centrale. Oggi, ci sono dodici direzioni generali al Ministero, sotto quattro dipartimenti, l'AgeNaS, l'Istituto superiore di sanità, l'AIFA; occorre maggiore compattezza, perché l'indirizzo e la verifica devono essere univoci.
La mia impressione, rispetto alla deriva degli ultimi anni, è che anche la Conferenza delle regioni si sia indebolita. C'è una Conferenza un po' più sfilacciata, con contrasti nord-sud e partitici. Quando ci sono due poli indeboliti che fanno compromessi al ribasso, inevitabilmente, tutto ricade sulla popolazione.
Per quanto riguarda la questione che sollevava l'onorevole Girelli, la problematica della fuga dal SSN, racconto la situazione con una metafora idraulica. Noi oggi abbiamo, sostanzialmente, una vasca dove c'è uno scarico troppo aperto e che si apre sempre di più, ma che è anche conseguenza dell'involuzione prestazionistica che stiamo affidando alla risposta che deve dare il SSN. Intendo che aver enfatizzato troppo il tema delle liste d'attesa, inevitabilmente, ha spostato l'attenzione, anche da parte dei giovani professionisti, a volersi formare come medico che deve erogare prestazioni e non come medico del SSN che deve prendere in cura il paziente, dalla prevenzione alla diagnosi, alla terapia, alla riabilitazione, alle cure palliative.
Per cui, alla fine, quello che sta succedendo oggi è che stiamo sfornando professionisti che non vogliono fare alcune specialità, o perché sono troppo rischiose dal punto di vista medico-legale o, principalmente, perché non hanno nessuno sbocco rispetto all'attività privata. In quell'elenco che ho fatto vedere, l'anatomia patologica ha un rischio medico-legale praticamente nullo. Lo stesso vale per tutte le medicine di laboratorio, microbiologia, virologia, che però hanno in comune la caratteristica di non prestarsi agilmente all'attività privata. La mia preoccupazione è che, sfornando più professionisti sanitari, quindi aprendo di più il rubinetto, noi non li lasciamo nel SSN, ma li portiamo verso il privato. Non il privato convenzionato, ma il privato puro, che sta emergendo in varie regioni italiane, soprattutto del nord, che non ha intenzione di convenzionarsi, quindi di ricevere denaro pubblico, ma che di fatto sta creando il secondo binario, la sanità per i ricchi, dove si paga di tasca propria oppure si è coperti da un'assicurazione o da fondi sanitari integrativi. Questo è il rischio nelle dinamiche future del servizio sanitario e dei giovani medici: non riuscire a trattenerli nel servizio pubblico. Per cui, alla fine, noi li formiamo pagandoli con il denaro pubblico, ma rischiamo di trasferirli non al privato accreditato, che di fatto è un pezzo di servizio pubblico, bensì al privato puro, in quel secondo binario che rischia di portarci verso non una tutela dei diritti, ma una sanità basata sul libero mercato.
Passo alla questione posta dall'onorevole Quartini, legata al decreto ministeriale n. 70 e al decreto ministeriale n. 77. Credo che la lentezza con cui sta andando avanti questo tavolo congiunto per la revisione del decreto ministeriale n. 70 e del decreto ministeriale n. 77 venga fuori dal fatto che non si fanno riforme coraggiose che vadano ad abbattere dei silos innanzitutto organizzativi, e penso alle varie aziende sanitarie territoriali ospedaliere, IRCCS, ciascuna delle quali ha un proprio budget e fa fatica a far decollare le cosiddette reti per patologie croniche. Sulle reti, per l'emergenza-urgenza,Pag. 14 stiamo andando bene un po' in tutta Italia, ma su quelle per le patologie croniche abbiamo difficoltà. Nessuna regione, per esempio, ha sperimentato adeguatamente il budget di rete, perché ci vogliono accordi interaziendali. Noi abbiamo, quindi, grandi silos che, inevitabilmente, non permettono di attuare tutte le innovazioni, da un lato organizzative e dall'altro tecnologiche.
Sulla questione degli infermieri è inutile dire che io sono straordinariamente preoccupato. Se ce ne sono pochi, se mancano iscrizioni al corso di laurea in scienze infermieristiche, l'unica possibilità nel breve termine è quella dell'importazione. Se ne è parlato come fosse un peccato mortale, però i dati parlano chiaro. La problematica non è legata soltanto alle basse retribuzioni. Su questo va detto - non ho portato i dati economici - che l'Italia è il Paese, sia prendendo il periodo 2001-2019 sia 2020-2023, dove il potere di acquisto della retribuzione infermieristica praticamente con il livello più basso di tutti i Paesi dell'OCSE. Sicuramente c'è una problematica di tipo economico, questo è vero, ma c'è anche quella di tipo motivazionale, dal punto di vista delle prospettive di carriera, perché l'infermiere ha una carriera sostanzialmente inesistente. Aggiungerei la problematica organizzativa e di sicurezza sul lavoro. Quello che sta succedendo nel sistema pubblico è che quante più persone se ne vanno tanto più quelle che restano soffrono dal punto di vista organizzativo. Si alimenta, quindi, come un circolo vizioso, questa problematica di chi scappa dal servizio pubblico.
Gli interventi politici dovrebbero trattenere quelli che stanno dentro, prima di creare nuove figure, perché il rischio è che mettiamo nel sistema nuove persone, mentre quelle che stanno dentro se ne vanno via. L'attrattività, in questo momento, va potenziata con strumenti che in parte sono stati inseriti nella legge di bilancio, ma che sicuramente potranno essere integrati con altri che, durante questo anno o nell'anno successivo, potranno essere messi in atto dal Governo.
Se devo lanciarvi un messaggio, però, io guarderei non soltanto ai numeri, ma a queste dinamiche preoccupanti di fuga di un personale che viene formato e va a lavorare non per il privato convenzionato, ma per un privato puro, che in questo momento si sta espandendo con le smart clinic e altri tipi di attività, che spesso hanno dietro grandi gruppi finanziari il cui interesse, ovviamente, è solo quello del profitto.
PAOLO NOTARO, direttore della struttura complessa di terapia del dolore presso il Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano. Signor presidente, cerco di rispondere sinteticamente alle questioni poste. La necessità della tracciabilità è innegabile. Questi pazienti, pur senza entrare troppo in articolazioni mediche, che fanno un uso di farmaci analgesici maggiori a 60 mg equivalenti di morfina per dolore cronico sono pazienti che dovrebbero essere iper-monitorizzati. Nel momento della prescrizione, bisognerebbe prevedere anche una de-prescrizione, cioè una strategia di uscita. Questo riguarda tutti i farmaci oppioidi, tra i quali includo anche la cannabis a uso terapeutico.
Il problema, che è già presente in Italia, delle dipendenze e dei comportamenti impropri dei pazienti, è l'idea molto «facile» che a tanto dolore serve tanto farmaco oppioide. È un'idea un po' rozza: tanto dolore, tanti farmaci. In realtà, bisogna capire che tipo di dolore e quali sono i meccanismi del dolore. Il problema c'è già in Italia. Questi farmaci alterano i comportamenti delle persone, ma non è un problema dei farmaci, bisogna saperlo, e non è neanche un problema dei pazienti, che sono tanti, peraltro con una netta prevalenza del genere femminile.
Rispondo anche sulla questione della guida automobilistica. Certo, questi farmaci interferiscono sulla guida automobilistica, dalla codeina in su. Questo è un dato che si deve sapere, anche alla luce della nuova normativa per quanto riguarda le sospensioni delle patenti. È chiaro che questi interferiscono, ma lì il problema è anche di natura assicurativa. Il guidatore dovrebbe denunciare che fa uso di farmaci, Pag. 15anche a uso terapeutico. Ecco perché vanno tracciati. Non è colpa delle sostanze che si utilizzano, ma del fatto che non c'è un tracciamento, non c'è consapevolezza da parte del sistema nel tacciare questi malati. Si porta aventi il concetto che «tanto dolore tanti farmaci», invece il problema, come dicevo, è proprio specialistico. Ci sono delle tecniche che intervengono direttamente sui meccanismi del dolore, permettendo di abolire o ridurre i farmaci. Bisogna capire come gestire la questione. A titolo personale, non garantirei mai a un mio paziente, anche se li utilizza da anni, che quei farmaci non interferiscano anche sulla guida automobilistica. Pensiamo alle persone che lavorano, che vanno sui pontili, che guidano le macchine o i TIR. Stiamo parlando di queste persone. Questo è un tema che va affrontato, normato e capito, ma se non si traccia il malato siamo punto e a capo. Il Ministero non riesce a portare questo tema in Parlamento, malgrado la normativa esistente, perché i dati non ci sono, non sono tracciati i malati.
L'altro aspetto che volevo toccare era se l'università ha bisogno di una spinta. Sì, ha bisogno di una spinta perché, come è già emerso, le università e tutti i sistemi lavorano a silos, fanno fatica a lavorare trasversalmente. Questo è un concetto culturale. Si racchiudono in silos. Vi dico questo anche perché l'attrattività di alcune specialità è bassissima. Ci si potrebbe chiedere cosa si tengono a fare tutte queste specialità che hanno solo venti studenti. Il problema è come renderle attrattive. Si potrebbero creare dei modelli più flessibili? Certo, ma ci vuole un po' di fantasia, come hanno fatto altri Paesi. Occorre un tronco comune e poi dei tronchi variabili, in cui lo specializzando o il medico specialista può accedere a più concorsi curriculari.
È il tema che sollevavo sulla terapia del dolore, dove una legge garantisce al cittadino le cure, ma poi quando si fanno i concorsi occorrono percorsi tortuosi per trovare i professionisti. Il problema delle università è un tema chiave perché crea l'attrattività, altrimenti si creano una serie di centri di costo. Sarò del tutto onesto: sul tema universitario, visto che assieme a me è audito anche un Magnifico Rettore, nel caso di un ordinario che ha quattro studenti, non è il caso di uscire dai silos e ragionare su sistemi più ampi di formazione trasversale? Direi di sì, anche perché noi continuiamo a rincorrere dei numeri e poi non diamo le risposte. Quindi, rispetto allo stimolo degli onorevoli, il sistema c'è. Lo dico a voi che vi battete per la tutela dei cittadini, io sono un tecnico e posso solo cercare di stimolarvi su certi temi. Per garantire la salute dei cittadini e garantire la sostenibilità questi temi vanno affrontati, perché la logica della formazione ora è a silos. Se li rendi più flessibili – vado incontro a quanto accennava il collega Cartabellotta prima – forse sei più attrattivo. Uno che lavora in medicina di urgenza non è detto che per tutta la vita debba fare medicina d'urgenza. Se si creano dei tronchi formativi comuni, si offrono possibilità di sovrapposizione.
Questo riguarda anche gli infermieri. Personalmente, ho insegnato per venticinque anni nella scuola per infermieri, quando gli infermieri, specie caposala, erano essenzialmente le suore, e ho visto centinaia e centinaia di studenti. Il problema è che il personale infermieristico non ha prospettive di sviluppo di carriera, oltre all'aspetto economico. Quindi, bisognerebbe creare un sistema più flessibile. Tutto questo si scontra con il discorso delle autonomie. Se si prevedono delle autonomie, anche marginalmente prescrittive, devi corrispondere anche un riconoscimento economico maggiore. Certamente la figura infermieristica, anche sulla terapia del dolore, come in altri Paesi, ha un ruolo importante. La si deve, pertanto, gratificare con profili di carriera oppure, a parità di responsabilità, nessuno è attratto.
Vi do un ultimo dato. La maggior parte degli studenti che conosco, e che hanno scelto infermieristica, ha tentato prima i test di medicina; non hanno scelto scienze infermieristiche. Si dovrebbe creare un'attrattiva su quella disciplina, come in altri Paesi, che dovrebbe avere più autonomia, più sviluppo di carriera e qualche gratificazione economica in più, che corrisponda a maggiori responsabilità. Anche importare Pag. 16personale risulterà fallimentare, sul lungo termine, se non si affronta il problema alla radice.
LUIGI MARIA TERRACCIANO, professore ordinario di Anatomia patologica, rettore di Humanitas University. Mi riallaccio a quanto già detto dai miei colleghi, per cui sarò molto breve.
Per quanto riguarda le scuole di specialità, non sono d'accordo completamente con il professor Notaro, perché con le reti formative abbiamo una continua esposizione dei nostri studenti di specializzazione, anche alla vita ospedaliera, e non soltanto alla vita universitaria.
Se abbiamo un problema numerico, soprattutto in alcune specialità, il discorso è molto ampio e comprende, secondo me, anche un cambiamento culturale che è avvenuto negli ultimi decenni. Se alcune specialità sono molto più gettonate, molto più richieste rispetto ad altre, entrano in gioco non solo motivi economici, ma anche motivi di cambiamenti culturali per i nostri studenti, e questo non solo in Italia, ma un po' in tutta Europa, come la work-life balance, la disponibilità sicuramente diminuita ad affrontare alcune specialità che ti mettono maggiormente alla prova e incidono anche pesantemente sulla propria vita familiare.
Credo che il discorso sia molto complesso per quanto riguarda la diminuzione di vocazione per alcune specialità, ripeto, non solo economica. Certamente sta a noi, come diceva il professor Notaro, cercare di renderle più attraenti, cercando di comunicarne meglio i caratteri di novità.
Io parlo come anatomopatologo, quindi come persona che è direttamente coinvolta. L'anatomia patologica sta vivendo una rivoluzione per quanto riguarda la disciplina, basata sull'uso sempre più marcato delle tecnologie molecolari, anche di digital pathology, quindi veramente siamo all'avanguardia. Sta a noi cercare di interessare i nostri studenti a questa disciplina e portarli sulle discipline meno richieste.
Per quanto riguarda la parte infermieristica, sicuramente un aspetto molto importante che è emerso oggi è che, in realtà, il vero problema non è quello della carenza dei medici, ma è quello della carenza del personale infermieristico. Vi è sicuramente il tema della retribuzione, che poi viene variamente percepito a seconda delle regioni, perché una cosa è guadagnare 1.500 euro a Catania, un'altra cosa è guadagnare 1.500 euro a Milano. Questo lo notiamo anche nelle richieste dei nostri corsi di laurea in scienze infermieristiche in Sicilia o in Lombardia.
Un altro aspetto parimenti importante è quello qualitativo: dare agli operatori sanitari, agli infermieri, una possibilità di avanzamento di carriera, concorsi ad hoc e maggiori competenze. Da questo punto di vista, dobbiamo attrarre una maggiore platea di possibili infermieri. Abbiamo proposto l'attivazione di corsi per gli OSS proprio perché gli OSS hanno dimostrato una vocazione in questa direzione. Siamo convinti che potrebbe essere un serbatoio importante per aumentare il numero di infermieri, rendendo loro più semplice il corso per quanto riguarda le lezioni. Insomma, è quanto già si fa per i corsi di laurea per gli studenti lavoratori.
PRESIDENTE. Grazie. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15.35.
Pag. 17ALLEGATO
Presentazione informatica illustrata dal presidente della Fondazione GIMBE Nino Cartabellotta