Sulla pubblicità dei lavori:
Formentini Paolo , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PROIEZIONE DELL'ITALIA E DEI PAESI EUROPEI NELL'INDO-PACIFICO
Formentini Paolo , Presidente ... 3
Margelletti Andrea , Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI) ... 3
Tirelli Franco (NM(N-C-U-I)-M) ... 6
Margelletti Andrea , Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI) ... 6
Formentini Paolo , Presidente ... 9
Margelletti Andrea , Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI) ... 9
Formentini Paolo , Presidente ... 10
Loperfido Emanuele (FDI) ... 10
Billi Simone (LEGA) ... 10
Pizzimenti Graziano (LEGA) ... 10
Onori Federica (AZ-PER-RE) ... 11
Panizzut Massimiliano (LEGA) ... 11
Formentini Paolo , Presidente ... 11
Margelletti Andrea , Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI) ... 11
Formentini Paolo , Presidente ... 14
Margelletti Andrea , Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI) ... 14
Formentini Paolo , Presidente ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari:
Fratelli d'Italia: FdI;
Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista: PD-IDP;
Lega - Salvini Premier: Lega;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Berlusconi Presidente - PPE: FI-PPE;
Azione - Popolari europeisti riformatori - Renew Europe: AZ-PER-RE;
Alleanza Verdi e Sinistra: AVS;
Italia Viva - il Centro - Renew Europe: IV-C-RE;
Noi Moderati (Noi con L'Italia, Coraggio Italia, UDC e Italia al Centro) - MAIE: NM(N-C-U-I)-M;
Misto: Misto;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-+Europa: Misto-+E.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
PAOLO FORMENTINI
La seduta comincia alle 8.20.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante la resocontazione stenografica e la trasmissione attraverso la web-tv della Camera dei deputati.
Audizione del Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI), Andrea Margelletti.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative alla proiezione dell'Italia e dei Paesi europei nell'Indo-Pacifico, l'audizione del presidente del Centro Studi Internazionali, Andrea Margelletti.
Ricordo che la partecipazione da remoto è consentita alle colleghe e ai colleghi secondo le modalità stabilite dalla Giunta per il Regolamento.
Anche a nome dei componenti del Comitato, saluto e ringrazio per la disponibilità a prendere parte ai nostri lavori il professor Margelletti, accompagnato dal dottor Tiziano Marino, esperto del desk Asia e Pacifico.
Il dottor Margelletti, tra le altre cose, dal 2012 è consigliere per le politiche di sicurezza e contrasto al terrorismo del Ministro della difesa.
In questa sede mi limito a ricordare che il CeSI-Centro Studi Internazionali, è un think tank indipendente fondato nel 2004 dal nostro ospite, che da allora ne è il presidente. L'attività dell'istituto si è da sempre focalizzata sull'analisi delle relazioni internazionali e delle dinamiche di sicurezza e di difesa, con un'attenzione particolare alle aree di crisi e alle dinamiche di radicalizzazione ed estremismo, per poi ampliare i suoi strumenti analitici anche al campo della geoeconomia e della conflict prevention. Per quanto riguarda l'area di nostro specifico interesse, segnalo che il CeSI ha istituito un apposito programma, che offre uno spazio di analisi delle condizioni politiche, economiche e sociali del sud-est asiatico per delineare le possibilità e i percorsi di sviluppo che caratterizzano i singoli Paesi e tutta la regione. Un'attenzione particolare è dedicata all'impatto che queste dinamiche possono generare nelle relazioni tra Asia, Unione europea e Italia.
Considerati i tempi stretti, do subito la parola al professor Margelletti affinché possa svolgere il proprio intervento.
ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI). Grazie, presidente. Rivolgo un affettuoso saluto agli onorevoli deputati presenti e, naturalmente, ai vostri colleghi e colleghe collegati da remoto.
Non riuscirò mai ad abituarmi ad essere audito alla Camera, è sempre un grande onore. Dato che il motto del mio istituto è «l'ovvio non è mai scontato», vi devo dire che l'emozione, invece, non è mai scontata.
Sono sinceramente lieto di essere in questo Comitato oggi, per una ragione. Quando, vent'anni fa, istituii il Centro Studi Internazionali, i primi due desks che andammo a costituire furono il desk Medio Oriente e Nord Africa – che per una serie di contiguità territoriale con il nostro Paese ha una sua logicità – e il desk Asia e Pacifico. Oggi è qui con me il dottor Tiziano Marino, che è il mio esperto del desk Asia Pag. 4e Pacifico. Se vogliamo risolvere i problemi, la prima cosa è naturalmente avere il coraggio di affrontarli. Bisogna dire onestamente che l'Europa non è più, molto probabilmente, il futuro del mondo; sicuramente non è più il centro del mondo come noi, in una qualche misura, eravamo abituati a pensare ed eravamo anche stati per molti secoli. Ovviamente, quindi, l'Asia diventa il fulcro, ed è un fulcro di opportunità, di possibilità, ma anche di problemi, perché in Asia si manifestano una serie di criticità, un po' di europea memoria di molti anni fa. Ad esempio, in Asia noi abbiamo una grande opportunità, ma un grande problema che è la Cina.
Lo dico con la massima comprensione per le ambizioni cinesi. Naturalmente, ciascuna nazione ha il diritto di voler crescere, però, onestamente, dobbiamo anche in qualche misura decidere da quale parte del fiume stare. Se, oggettivamente, il XX secolo è stato il secolo degli Stati Uniti, dalla fine della Prima Guerra Mondiale – dalla Seconda Guerra Mondiale in poi – c'è stato un ineluttabile calo delle grandi potenze coloniali europee e gli Stati Uniti, sulla base delle capacità, prima di tutto industriali e poi di implementare le proprie ambizioni politiche, sono diventati prima una delle due grandi superpotenze e poi – alla fine del conflitto, al calore bianco, della guerra fredda – sono diventati l'unica superpotenza globale.
La Cina desidera fortemente che il XXI secolo sia il secolo cinese. Da cosa lo capiamo? Io mi permetterò di farvi un esempio molto semplice, che è poco geopolitico, ma ci capiamo tra di noi. Se c'è una parola che in tutte le culture asiatiche è centrale nella quotidianità della propria vita, questa parola è «armonia». Il culto dell'armonia va dagli shintoisti ai buddhisti, a qualunque tipo di cultura asiatica. Vi basti pensare che in Asia chi alza la voce – caratteristica tipica, per esempio, di noi italiani – è considerato un debole, perché chi alza la voce non è in grado di imporre le proprie convinzioni. Quindi, apparentemente, noi dovremmo dire che l'alzare la voce da parte cinese sarebbe per loro una manifesta incapacità di progredire. Vi sono però alcuni segni.
Il primo segno è: come si sostituisce una superpotenza, come diventi la superpotenza globale? È ovvio che se vai a dare la caccia all'unicorno bianco, cioè agli Stati Uniti, ti proponi come un modello che può sostituire gli Stati Uniti in tutte le maniere. Certamente la Cina propone un modello economico e di cooperazione internazionale diverso da quello degli Stati Uniti, ma questo non basta per essere una superpotenza. Non bastano – e lo dico da genovese – neanche i soldi. Questi sono tutti una parte di quello che ti permette di diventare una superpotenza, ma non è abbastanza, perché, per diventare una superpotenza, devi avere non solo l'oro, ma anche il ferro, cioè devi avere una capacità militare, perché gli altri Paesi devono avere paura di te. Hanno paura di te per la semplice ragione che tu sei in grado, hai le capacità e la forza politica di implementare i tuoi voleri, le tue scelte strategiche.
Da questo punto di vista, noi dobbiamo ricordare che la Cina non ha mai, negli anni recenti, testato le proprie capacità militari, perché una cosa è avere tante navi, tanti aerei e tanti uomini, un'altra cosa è saperli impiegare. Personalmente sono convinto – e spero, me lo auguro, soprattutto per il suo futuro professionale, che il dottor Marino sia d'accordo con me, questi sono i piccoli privilegi di fare il datore di lavoro – che se, facciamo un paradosso, domani mattina a Taiwan vincesse le elezioni un leader che fosse totalmente a favore di chiudere il Kuomintang e di ritornare, come la sorte dell'arto fantasma, a Pechino, di tornare in Cina, questo sarebbe per la Cina un disastro inenarrabile. Apparentemente si direbbe: «abbiamo vinto senza sparare un colpo». È nostra convinzione che la Cina abbia la necessità di uno scontro militare con gli Stati Uniti.
L'ultima volta che la Cina ha combattuto è stato nel 1979 contro i vietnamiti e i vietnamiti non hanno solo vinto, hanno sbaragliato i cinesi. Io ho i capelli bianchi, a differenza vostra, ma se fate un piccolo salto indietro negli anni Ottanta vi ricorderete che il Giappone e la Germania occidentalePag. 5 erano due superpotenze economiche, ma erano due nani politici. Quindi, se la Cina vuole diventare un gigante tout court ha la necessità di dover allontanare gli americani dal Pacifico occidentale. Come si fa questo? Attraverso uno scontro militare; non ci sono dubbi. Ed è la ragione – e qui tornerò al discorso dell'armonia – per la quale la Cina sta andando in deroga al suo tradizionale approccio armonico. Come lo sta facendo? Lo sta facendo provocando le Filippine, lo sta facendo costruendo una serie di basi dal nulla in mezzo al mare per aumentare la zona economica esclusiva, e soprattutto lo sta facendo attraverso una politica dedicata a quello di cui – mi consentirete – parlano tutti, ovvero chip, terre rare e alta tecnologia.
Mi perdonerete se per dieci secondi vi parlo di quello che noi riteniamo essere il tallone d'Achille della Cina: in un Paese di oltre un miliardo di persone, dove è in atto una dittatura – su questo non si arrabbiano neanche i cinesi, il partito unico certamente non prevede il pluralismo, potrà essere una dittatura la più illuminata possibile, ma non è un sistema pluralistico – qual è la criticità principale? La tecnologia? L'accesso alle risorse per un miliardo e rotti di persone o il cibo? Chiedo a voi – non abbiamo abbastanza capelli bianchi, perché è accaduto ancora prima di noi – se vi ricordate cos'è successo alla fine del secondo conflitto mondiale in Italia.
Faccio un esempio per tutti: la FIAT di Torino si è espansa grazie a maestranze che sono venute da tutta Italia, particolarmente dal sud. L'industrializzazione ha svuotato le campagne. I numeri sono quelli, se una persona è in fabbrica, non sta a coltivare; è un fatto oggettivo. La stessa cosa è avvenuta in Cina. L'espansione economica cinese è stata così veloce, incredibilmente veloce – la rivoluzione industriale in Gran Bretagna e in altri Paesi, come gli Stati Uniti, è stata sicuramente più lenta – che lo spostamento in città di milioni di persone ha creato un vuoto nella parte più occidentale della Cina, un vuoto di coltivatori. Pensate che fino a poco tempo fa le divisioni dell'esercito cinese erano strutturate su tre reggimenti: un reggimento in addestramento, un reggimento in operazioni e un reggimento che coltivava. Poi, a turno, ciascuno riprendeva.
Vi dico questo per due ragioni. Parto dalla prima: dal punto di vista strategico, il benessere cinese è in oltre 200-250 chilometri dalla costa, quindi sta tutto lì.
La seconda cosa non è lontana, signori – mi perdonerete se cambio continente per un attimo solo – da quello che sta avvenendo nell'Africa subsahariana, con la creazione delle mega cities, città con 20-25 milioni di abitanti.
Fanno questo perché il problema di fare il contadino è un problema legato alle condizioni climatiche, che peraltro stanno cambiando in tutto il mondo. Io lavoro tutto un anno per produrre questo, poi arriva un'alluvione, arriva la pioggia e io perdo tutto, quindi non ho guadagno. Contestualmente, davanti a me, all'orizzonte, vedo le luci delle città, dove qualunque lavoro faccio non è legato alle condizioni climatiche, se non nella difficoltà, particolarmente a Roma, di raggiungere, quando piove, il posto di lavoro, che diventa una cosa impossibile. Però, questo è, e questo è diventato motivo di attrazione, perché mentre prima la gente non conosceva e quindi rimaneva dove stava, adesso siamo tutti connessi ovunque. Quindi, sai che a duecento chilometri da casa tua, a mille chilometri da casa tua puoi vivere senza doverti spaccare la schiena e senza dover avere il rischio di perdere tutto.
La grande preoccupazione dei cinesi è il cibo, ed è la ragione per la quale la Cina in Africa sta acquisendo milioni di acri di terreno. In un Paese così grande, in teoria, non ne dovresti avere bisogno. Dall'altro punto di vista, la Cina allarga nel mare la propria sfera di influenza, sino ad andare a confliggere con gli altri Paesi, come le Filippine e come il Vietnam, o come la Corea del Sud. Perché? Per il cibo. Quello che per noi occidentali è la lotta per l'energia o la lotta per l'acqua – per esempio, in Medio Oriente o in una parte dell'Africa – in Asia, in particolare nel Far East, nell'Asia orientale, la lotta vera è per il cibo, perché questo accade in Paesi che Pag. 6diventano sempre più grandi, dove la gente si accontenta sempre di meno.
Il presidente mi diceva che avete avuto l'occasione di incontrare l'Ambasciatore vietnamita: ecco, il Vietnam di oggi – io ci vado spesso – fa impressione. Se andate ad Hanoi o a Ho Chi Minh – io sono romantico e la chiamo ancora Saigon – vi rendete conto che in buona parte del centro città sembra di essere in via Montenapoleone a Milano. L'idea del vietnamita eroico, che si nutriva con una ciotola di riso, la lasciamo agli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta. È cambiato per tutti, è cambiato soprattutto per i Paesi ad indirizzo socialista, figuriamoci per gli altri. Vi dico questo perché vi sono in questo momento una serie di fattori confliggenti in Asia.
Come dice Bruno Vespa, io sono sempre un pessimista, è vero che ormai non mi invitano più né ai compleanni né a cena fuori perché do notizie sempre brutte, però ogni tanto mi capita di prenderci.
Parto dal primo fattore: c'è un blocco securitario tendente a non considerare l'Europa. Questo è nel Pacifico meridionale, cioè il blocco statunitense, britannico ed australiano. Si basa su due pilastri, il pilastro del riconoscimento della Cina come una criticità alla propria sicurezza, ma si basa anche sul fatto che l'Australia ha scelto di diventare una potenza regionale. Sinceramente, fino a pochi anni fa, dell'Australia avevamo notizie abbastanza relative. Facendo questo hanno scelto come partner securitari ed industriali gli americani e gli inglesi.
Credo che in quel Paese noi abbiamo perso – come italiani, non come europei – una grande opportunità, perché, a volte – e credo, onorevole, che Lei possa essere l'ultimo a darmi torto – non ci rendiamo conto dell'importanza dell'immigrazione che abbiamo avuto in una serie di Paesi e che anche le seconde, le terze, le quarte, le quinte e le decime generazioni rimangono fortemente legate al nostro Paese, per una questione di tradizione, per una questione di romanticismo, per tante valutazioni.
A volte non ci rendiamo conto che gli italiani all'estero – e non mi riferisco in questo caso a coloro che sono andati a lavorare temporaneamente o stanno studiando all'estero –, ma le comunità italiane all'estero rappresentano una capacità di lobby gigantesca per il nostro Paese.
FRANCO TIRELLI. E quasi tutti i comandanti sono figli di italiani (intervento fuori microfono).
ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI). Cosa vogliono questi Paesi? E su questo c'è la nostra vulnerabilità maggiore. Vogliono una presenza istituzionale italiana costante. Cosa vuol dire? Per molti anni si è discusso nei palazzi romani del «ci sarà vita dopo il Raccordo anulare?». Io sono genovese: abbiamo dato i natali a Cristoforo Colombo, che è genovese del Genoa e non è spagnolo, ma viaggiamo poco. Come classi politiche tendiamo a viaggiare poco o a fare viaggi, ma non a ritornare, mentre questi Paesi hanno voglia che ci sia una continuità.
Come dicevo, il primo blocco è quello securitario del sud. Poi abbiamo un secondo blocco, che è quello che un tempo era costituito dall'India e da alcuni proxy vicini all'India, e adesso devo dire fondamentalmente soltanto dall'India, perché con una politica estremamente nazionalista e religiosa, spinta dal Premier Modi, l'India ha assunto uno statement da superpotenza regionale, in totale competizione con la Cina.
Quello che unisce la Cina all'India è il fastidio nei confronti degli occidentali: non voglio dire l'odio, perché sarebbe eccessivo. Essi ritengono – a torto o a ragione, forse non con tutti i torti – che i Paesi occidentali, ed in particolare l'Europa, che producono poco e realizzano poco, insieme agli Stati Uniti li abbiano tenuti fuori dai tavoli importanti per troppi anni. Loro dicono che, ad esempio, oggi più che mai, le Nazioni Unite, in particolare i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, non riflettono più gli equilibri di potere della nostra quotidianità.
Però, tolto l'avversario comune – che è il golem occidentale o americano – poi queste due nazioni costantemente hanno criticità tra di loro. Anche le battaglie che Pag. 7fanno sull'Himalaya, che vengono svolte a pietre e a bastoni – perché non possono sparare, perché sennò vengono giù le valanghe – sono in realtà un piccolo punto del mercurio sulla nostra valutazione di come stiamo di salute, perché è una competizione a tutto campo.
La competizione è su chi guiderà l'Asia, perché anche l'India sta cercando, come già fa la Cina da molti anni, di trovare una nuova modalità di relazione internazionale.
Per esempio, pochi giorni fa, gli indiani, che noi consideriamo dei partner quasi occidentali, hanno aperto ad un importante rapporto di collaborazione con l'Iran, che in questo momento dalle nostre parti non vince la gara di Paese più apprezzato del mondo.
Questo perché? Non perché ci sia una questione legata, per esempio, al Medio Oriente, quanto perché l'Iran ha una cosa che nessun altro Paese dell'area mediorientale ha, cioè le persone. L'Iran è uno straordinario mercato. Se qualcuno di voi va negli Emirati Arabi Uniti, nel Qatar, nel Kuwait, in Oman – per non parlare dell'Arabia Saudita – si renderà conto che sono Paesi straordinariamente ricchi, ma poverissimi di persone.
L'Iran, invece, è un Paese potenzialmente ricchissimo – non è ricco per le sanzioni, nel senso che noi lo teniamo fermo – con 80 milioni di persone: se partisse l'Iran, sarebbe un mercato per chiunque. Se si approccia anche nell'ambito manufatturiero, è il mercato della vita, perché è un Paese da rifare ex novo.
L'India ha, però, in sé una criticità: mentre la Cina ha un sistema di governance orizzontale, cioè il Partito comunista cinese domina il sistema, la linea – mi perdonerete, ma mia moglie è napoletana, lo devo dire –, la livella è uguale per tutti e le grandi aziende cinesi sono fortemente influenzate dal giudizio e dai suggerimenti del Partito comunista locale, il sistema indiano è un sistema - come sottolineava prima dell'audizione l'onorevole Billi - verticale.
L'aver reso le caste illegali non ha, di fatto, posto il sistema delle caste fuori dall'environment culturale dell'India. Anche questo è un problema, perché, per superare questa cosa, il Premier Modi sta attuando una politica che io chiamerei simile, non uguale, ad Erdogan, cioè un iper-nazionalismo religioso indù.
Naturalmente, quando noi parliamo di iper-nazionalismi religiosi vuol dire che per aggregare tu devi sempre costruire un avversario. Uno degli avversari è rappresentato, naturalmente, non soltanto dagli islamici del proprio Paese – ricordiamoci, ad esempio, che in India vi sono più islamici che non nel vicino Pakistan, che è una Repubblica islamica – ma anche, in qualche maniera, dagli occidentali, con i quali fanno grandi business – sempre molto a favore dell'India e poco delle aziende occidentali –, soprattutto in un quadro di «io voglio essere la superpotenza regionale».
Gli americani hanno sposato l'India in un quadro anticinese finché i cinesi hanno iniziato a «camminare» in maniera autonoma.
Poi abbiamo altri due dati importanti, anzi tre dati, che riguardano direttamente il nostro Paese.
Il primo dato lo vediamo con la crisi degli Houthi, con i missili che colpiscono, ed è quello securitario. Noi non possiamo rischiare, in un Paese che vive di mare e nel mare come il nostro Paese, di far sì che il Mar Mediterraneo divenga un lago, perché viviamo di commercio. Non possiamo permetterci che Napoli, Livorno, Gioia Tauro, la mia Genova divengano ancillari per sempre ad Amburgo o a Rotterdam o a Brest, perché i mercati, sulla base dei timori e delle paure securitarie, vanno da un'altra parte, perché il periplo dell'Africa è per noi la morte economica.
Noi abbiamo bisogno di aprirci di più e in questo concetto c'è la dottrina del Mediterraneo allargato sino all'Indo-Pacifico, che vede la nostra presenza commerciale e militare molto forte.
In questo devo dire che Guido Crosetto e la Marina militare stanno facendo moltissimo: fra pochi giorni ci sarà la visita in tutta l'Asia del gruppo navale con la nostra portaerei Cavour, che è parte di quella che è la diplomazia militare.Pag. 8
Mi spiego meglio: durante i tempi di pace la diplomazia la fa il Ministero degli affari esteri; in tempi dove i livelli di sicurezza sono estremamente fragili, si abbina, alla tradizionale diplomazia, anche la diplomazia militare – ed è una delle ragioni per cui Guido Crosetto sta più in aereo che a terra –, perché è fondamentale, di fronte alle fragilità, andare a creare nuove opportunità, nuovi amici e nuove alleanze. Questo è fondamentale.
Questo per dire che noi non possiamo più permetterci di essere provinciali: ne va delle nostre aziende, delle nostre grandi aziende, ma ne va soprattutto della filiera delle piccole e medie imprese, che vivono di supply chain. Se noi non avremo la nostra supply chain costantemente alimentata, vedremo prima di tutto soffrire le piccole e medie imprese, che rappresentano poi il vero grande tessuto connettivo ed economico del nostro Paese.
Non tutti gli europei sono particolarmente felici del fatto che l'Italia esca dal Mediterraneo, perché, ovviamente, andiamo a provare a limitare le loro ambizioni. Per questo io reputo che sia non importante, ma fondamentale lo sviluppo di una strategia italiana per l'Indo-Pacifico, assolutamente omnicomprensiva, che metta due punti.
Il primo: non possiamo più rimanere nel Mediterraneo, perché Suez potrebbe non essere più la Suez di prima e quindi noi dobbiamo assolutamente espanderci per vivere, non per manie di protagonismo, che onestamente non sono mai state parte del nostro DNA, ma per sopravvivere come Paese europeo e per mantenere lo stesso livello – possibilmente incrementarlo – di qualità di vita dei cittadini che vi hanno eletto.
La seconda cosa – sembrerà poco importante – è che noi siamo simpatici: l'italiano è tendenzialmente ben accetto, perché siamo curiosi, siamo sempre interessati a capire chi abbiamo davanti e che cosa abbiamo davanti. Questo si trasforma nella possibilità di aumentare il nostro livello di multilateralismo, perché noi dobbiamo renderci conto che se avremo – e io personalmente ritengo che lo avremo – un conflitto tra Stati Uniti e Cina – perché è necessario per la Cina per diventare una grande potenza – l'Italia naturalmente starà dalla parte tradizionale dell'Occidente; ma dobbiamo anche renderci conto che tutti noi – adesso fa caldo e va bene – quando arriva ottobre o novembre abbiamo voglia di fare la doccia con l'acqua calda; quindi, non vi parlerò di missili o di grandi cose, ma della doccia. Se noi non abbiamo i pezzi di ricambio per il boiler, la doccia non la possiamo più fare calda. Questo perché negli anni, credendo che il mondo non sarebbe più cambiato, pensando soltanto che il mondo era economia e non anche sicurezza, abbiamo delegato la stragrande maggioranza delle nostre piccole e grandi capacità a Paesi che adesso ne sono proprietari.
Faccio un esempio: domani mattina andate a Milano – perché a Roma l'hanno tolta –, dalla concessionaria della Rolls Royce e dite: «Ho qui i soldi per comprarla. Me la date?». Ci vuole un anno. Oppure andate a comprare una Audi, una Mercedes, una BMW o quello che volete voi. Ci vorrà un anno o un anno e mezzo di attesa. Questo perché mancano dei componenti essenziali che sono esterni alla nostra catena di approvvigionamento nazionale, cioè materiali e chip.
È la stessa ragione per la quale la Russia ha la necessità di prendere Odessa, perché se prende Odessa ha il monopolio del mercato del grano mondiale. Per dominare alcuni Paesi non hai neanche più bisogno di mandare i soldati, gli Spetsnaz russi, a piazza Colonna, ma ti basta dire – e tu sei il monopolista mondiale del grano – che non hai più voglia di mandare grano in Egitto – è una scelta tua – e l'anno dopo arrivano in Italia 15, 18, 25 milioni di migranti dall'Egitto, dal solo Egitto. Perché in Egitto, se non arriva il grano, non c'è la fame, c'è la carestia, che è una cosa diversa.
Taiwan è la capitale mondiale dei chip. Non so se qualcuno di voi si ricorda quell'infausto periodo post guerra dello Yom Kippur, dove avevamo l'austerity, l'unico momento della mia vita in cui sono andato in bicicletta e ho perso un etto.Pag. 9
Non hai bisogno di fare la guerra nel momento in cui tu domini il sistema. Vuoi un telefonino? Costa 5 mila euro. Vuoi andare in macchina? Per andare tutti in macchina dovete fare questi accordi. Non li volete fare? Non ci sono problemi, andate a piedi. Non possiamo neanche andare con le auto elettriche, perché buona parte delle risorse per le Tesla – peraltro, come voi sapete meglio di me, il principale costruttore di auto elettriche al mondo non è più Tesla, ma è cinese – viene da lì, perché hanno le terre rare, hanno i metalli pregiati e hanno i chip.
Dato che noi non possiamo permetterci di diventare tutti degli straordinari salutisti in cinque minuti e fare a meno dei boiler dell'acqua calda a casa, ovviamente noi abbiamo la necessità, come tanti altri Paesi, di ricostruire un minimo di filiera nazionale, ma questo necessita di tempo.
Per fare questo, abbiamo bisogno di mantenere vivo il tradizionale multilateralismo italiano – quindi con i cinesi dobbiamo, che ci piaccia o meno, ancora un po' parlare – e dall'altra parte agire sul mercato nazionale affinché quello che avevamo delegato in una qualche misura possa essere ricostruito per interessi strategici nazionali. Altrimenti, poi ce lo daranno i nostri alleati e amici europei, ma non è detto che i costi politici siano inferiori a quelli dei costi politici eventualmente della Cina.
Si è parlato molto del Corridoio indo-mediorientale...
PRESIDENTE. Proprio ieri abbiamo approvato una risoluzione, qui in Commissione, chiedendo che l'Italia nomini un Inviato speciale, così come ha fatto la Francia.
ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI). Noi del Centro Studi Internazionali ci crediamo non molto, ma moltissimo, e ci crediamo moltissimo perché abbiamo visto la fragilità di Suez, e non mi riferisco solo agli Houthi. Vorrei ricordare alcuni incidenti che hanno bloccato per settimane lo Stretto – poi speriamo siano stati degli incidenti e non delle prove tecniche – dove si è fermato tutto.
Noi abbiamo bisogno anche di altre vie e anche qua sono vie dove gli italiani possono giocare un ruolo determinante, che debbono essere, però, vie dove Suez in qualche maniera non voglio dire che sia bypassato, perché è un termine poco carino, ma sia alternativo, perché non possiamo permetterci di fermarci.
Il mio suggerimento – mi avvio alla chiusura e ancora vi ringrazio dell'indulgenza con la quale mi avete ascoltato – è quello che abbiamo avanti davanti a noi non voglio dire sfide, ma opportunità molto grandi, che non sono soltanto economiche, ma sono fondamentalmente legate al concetto globale di sicurezza nazionale: economia e securitario insieme.
I mercati ci sono, le opportunità ci sono, la competizione è in atto. Qualcuno è partito prima di noi – normalmente tutti –, però il fatto che quelli siano partiti prima non vuol dire necessariamente che siano in vantaggio, ma magari hanno fatto qualche errore che, partendo noi successivamente, potremmo evitare di fare.
Ci sono alcuni Paesi che io esplorerei con particolare interesse, come l'Indonesia, il più grande Paese islamico del mondo, come le Filippine. Con le Filippine noi italiani non sfruttiamo il leverage religioso. È uno dei più grandi Paesi cattolici del mondo – molto più di noi –, prerogativa sulla quale non incidiamo particolarmente. Difendiamo, correttamente, le minoranze cristiane in tutto il mondo, ma non vogliamo stringere rapporti fortissimi con chi, invece, è un'altra potenza cattolica. Ci preoccupiamo delle potenze islamiche, ma non facciamo massa con le potenze cristiane e cattoliche.
Il Vietnam è un Paese che vuole crescere, vuole volare e sente sopra di sé il peso di una Cina estremamente ingombrante. Loro stanno sviluppando una sorta di socialismo simil cinese, socialismo molto capitalistico sotto alcuni punti di vista. I francesi, per quanto abbiano lasciato un'impronta molto forte – si mangia molto bene francese, sia a Saigon sia ad Hanoi –, sono una potenza coloniale. Gli inglesi non sono Pag. 10visti bene e non sono visti particolarmente bene neanche gli olandesi in quell'area. Noi, che avevamo interessi coloniali da altre parti del mondo e poi siamo stati coloniali in una maniera un po' diversa da tutti gli altri, secondo me, potremmo offrire rapporti bilaterali.
L'utilità della difesa è quella di una strategia anche di diplomazia marittima, che possa permettere di inviare e far conoscere, ma per far questo, lo ripeto, è inutile muoversi mettendo un pezzo di puzzle alla volta se non hai una figura di riferimento. Abbiamo tutti bisogno di una sorta di road map, che speriamo voi possiate licenziare nel più breve tempo possibile, perché è una grande possibilità per il nostro Paese.
Vi ringrazio ancora per l'attenzione. Resto, naturalmente, a vostra disposizione per eventuali domande.
PRESIDENTE. Grazie davvero per il contributo enorme ai nostri lavori.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
EMANUELE LOPERFIDO. Signor presidente, ringrazio il dottor Margelletti per la relazione. Non capita spesso di riuscire a rimanere concentrati per un tempo così lungo, a dimostrazione di quanto era interessante e anche ben descritta quell'area e anche la posizione dell'Italia.
Mi permetto di chiederle, a questo punto, un commento – ne abbiamo letti tanti in questa settimana – rispetto al viaggio del Presidente cinese in Francia, Serbia e Ungheria.
SIMONE BILLI. Signor presidente, anch'io ringrazio il presidente Margelletti per la sua disponibilità. È vero, gli argomenti trattati sono enormi. Si potrebbe parlare, penso, per giorni di queste cose. Mi vorrei incentrare su un paio di riflessioni che ha fatto durante il suo discorso. È vero, una potenza globale non può fare a meno e non può fare affidamento esclusivamente sulla sua potenza economica e commerciale. Di conseguenza, la Cina potrebbe cercare di dimostrare la propria forza militare in qualche modo. Però la spesa militare aggregata dei Paesi dell'Unione europea, ad oggi, è addirittura superiore a quella della Cina. Ciò implica che noi, come Paesi europei, probabilmente non dobbiamo spendere di più, ma dobbiamo cercare di spendere molto meglio le risorse che abbiamo a disposizione.
Come ha detto anche Lei, non possiamo più permetterci di essere provinciali, come Paese, ma anche come Unione europea. L'Unione europea non può permetterselo. La diplomazia militare, quindi, è fondamentale. In Europa abbiamo cercato di fare questo già dal 2009:ci sono alcune direttive sugli appalti, sui trasferimenti intra-Unione europea, sugli investimenti che vanno in questa direzione, però, a mio personale avviso, sono ancora assolutamente insufficienti, sia per quanto riguarda il nostro Paese sia per quanto riguarda l'Unione europea. Chiedo, quindi, delle sue brevi considerazioni al riguardo.
Ribadisco che gli argomenti in ballo potrebbero essere innumerevoli, però mi vorrei focalizzare su questi temi.
GRAZIANO PIZZIMENTI. Anch'io mi complimento, anche perché queste esposizioni non sono semplici da sentire, per la facilità con cui vengono svolte. Si riesce a capire tutto e anche di più, perché si vede oltre rispetto a quello che, magari, almeno personalmente, si ha come visione.
Ho una curiosità: Lei ha detto, giustamente, che c'è questa tendenza, questa volontà – spero anche con dei risultati – dell'Italia in generale di andare fuori dal Mediterraneo – e fuori, io direi, dall'Adriatico e dal Tirreno – e della Cina di arrivare in Europa, da queste parti. Però non riesco a capire, a questo punto, perché è fallita la famosa Via della seta. Genova e Trieste – Lei lo sa benissimo – erano i due porti principali interessati da questo. In realtà, avevano anche firmato protocolli di intesa, era venuto Xi Jinping qui in Italia – una settimana, non so quanti giorni, di scena –, di fatto, poi, si è fermato tutto, almeno dalle notizie che ho. Secondo Lei, qual è la motivazione che ha portato a questo stop di Pag. 11un qualcosa che tutti volevano, ma che, in realtà, non è successo?
Grazie.
FEDERICA ONORI (intervento in videoconferenza). Signor presidente, anch'io ringrazio il presidente Margelletti per l'intervento, molto efficace e anche molto stimolante.
Mi scuserete se non riuscirò ad attivare il video.
Mi aveva incuriosito molto la riflessione che il presidente faceva in riferimento alla mancata opportunità per l'Italia in Australia attraverso gli italiani all'estero, ovvero il fatto che non abbiamo sfruttato in quel contesto, ma probabilmente anche in altri, il potenziale che noi abbiamo attraverso la nostra diaspora, che si caratterizza per essere particolarmente attaccata, a livello di tradizioni e radici, con il Paese d'origine. Come sa, ci sono degli eletti all'estero nel Parlamento, tra Camera e Senato. Io sono uno di questi, è lì presente con voi il mio collega Billi. Quindi, i legami, il potenziale delle comunità italiane all'estero è un argomento su cui noi lavoriamo quotidianamente. Ero interessata a sapere la sua idea su come le comunità italiane all'estero, dal suo punto di vista, potrebbero rivestire questa funzione di trait d'union con il Paese d'origine – Lei ha parlato di lobbisti dell'Italia nel Paese di residenza –, se ha presente, magari, qualche modalità, presa anche, ad esempio, da altri Paesi, che magari riescono a fare questo in maniera più efficace dell'Italia, e se poteva approfondire la riflessione in merito. Grazie.
MASSIMILIANO PANIZZUT. Signor presidente, la ringrazio. Io non faccio parte di questa Commissione. Ringrazio il dottor Margelletti per l'esposizione chiara.
Faccio una piccola auto-provocazione rispetto a qualche slogan politico di questi tempi: secondo Lei, ci vuole più Europa, più Italia, più tutte e due oppure non ce la fa ancora l'Europa?
PRESIDENTE. Do la parola al professor Margelletti per la replica.
ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI). Iniziamo dal viaggio di Xi Jinping. È un tema che si lega a tutte le domande che mi sono state poste. Conta ancora la massa? Secondo me sì, non soltanto le capacità tecnologiche ed economiche. Se il Presidente di Malta – ne parlo con tutto il rispetto possibile, naturalmente, per i maltesi – va alla Casa Bianca per incontrare il Presidente degli Stati Uniti ha raggiunto un importantissimo risultato, che si può spendere a casa propria. Certamente non è una carta che Joe Biden o qualunque altro Presidente statunitense possa giocarsi dicendo di aver incontrato il Presidente di Malta. Perché? Perché per i grandi Paesi, che non sono soltanto grandi dal punto di vista economico, ma sono anche grandi come numeri, come abbiamo detto prima, è più importante trattare l'Europa in maniera bilaterale. Quando faccio lezione e dico che i quattro attori principali del mondo sono Stati Uniti, Russia, Cina e Europa, in realtà, sto dicendo una corbelleria, perché Stati Uniti, Russia e Cina sono nazioni e l'Europa è un continente.
Onorevole, io ho una visione laica: secondo me, noi abbiamo perso al tempo di De Gaulle, con la CED – la Comunità europea di difesa – la possibilità di essere qualcosa di più come Europa. Un'Europa costruita soltanto sull'economia e non sulla politica è un'Europa di rapporti bilaterali. Noi non riusciamo a metterci d'accordo su chi prende questo numero di migranti. Sono cose che dovrebbero essere assolutamente di automatica quotidianità. Figuriamoci sui grandi temi. È per questo che, per esempio, i repubblicani americani e i cinesi vogliono dialogare con la singola nazione: perché sono molto più grosse, molto più forti. Quindi, la scelta cinese non è di arrivare in Europa, ma in ciascuno degli «x» Paesi che compongono il vecchio continente. La più grande forza dell'Europa è rappresentata dalle sue profonde radici storiche; la più grande debolezza dell'Europa è rappresentata dalle sue profonde radici storiche. Se Lei mi dice che vogliamo più Europa come è adesso, sinceramente rimango un po' perplesso. Io vorrei un'EuropaPag. 12 che avesse una governance europea, in maniera tale da poter competere con le grandi nazioni. Oggettivamente, noi dove andiamo, come Italia, come Francia, come Germania, a competere con l'India, con gli Stati Uniti, con il Brasile, con il Sudafrica o con la Cina? Come Europa, con un'economia unica, un sistema difensivo unico, ma soprattutto una governance unica. Vuol dire che quando vai a trattare il gas, quando vai a trattare l'energia, quando vai a trattare di queste cose non le tratti in trenta tavoli diversi, ma con uno solo. E ti presenti come quello che dice: «Io ti compro bilioni di metri cubi di gas. Non me li vuoi dare tu? Non mi vuoi abbassare il prezzo? Non ci sono problemi. Vado da lui». Diventi, cioè, un cliente appetibile e forte.
Noi siamo tanti discreti clienti, peraltro spesso in competizione l'uno con l'altro. Questo perché noi abbiamo scelto una politica «tafazziana» – per citare un grande lume della geopolitica internazionale – cioè quella di preferire la continuazione della competizione storica ottocentesca piuttosto che rendersi conto che il mondo è cambiato. Spero di avere risposto ad entrambi.
Onorevole Billi, nella sua domanda c'è la risposta: Lei, come seconda parola, ha detto «aggregati». Primo punto: quasi tutto il budget cinese per la difesa è classificato. Noi non sappiamo quanto loro spendano veramente, perché lo mettono nel budget dell'agricoltura o di altre cose. Non mi preoccupa, però: il problema non è mai quanto spendi, il problema è sempre come spendi. Noi continuiamo a parlare di un aumento del budget fino al 2 per cento, cosa che auspico. Non è soltanto una questione di denari – di «sghei» o di «palanche», come diciamo noi –, ma soprattutto di come lo spendi. Se il 90 per cento della difesa va agli stipendi, quello che rimane per far sì che le tue forze armate siano efficaci per rispondere a quello che il Governo e il Parlamento chiedono di fare è veramente poco. Noi abbiamo bisogno di più soldi, ma soprattutto di spenderli meglio e di renderci conto che le Forze armate servono esattamente a questo, cioè a combattere.
Noi abbiamo mandato i nostri soldati in Iraq e in Afghanistan in missioni di stabilizzazione; nelle missioni di pace ci mandi i boy scout, non ci manda i soldati con lo schioppo. Ne abbiamo persi tanti perché hanno combattuto. Noi abbiamo bisogno di Forze armate efficaci, non per andare a combattere, ma per dover combattere se dovessero combattere. Le Forze armate sono un'eventualità: rompere in caso di crisi; però, quando rompi, dentro quella teca ci deve essere uno strumento che sia funzionale al Paese. Questo è, secondo me, il punto di vista.
Un altro dei problemi dell'Unione europea, o dell'Europa in senso generale: è vero, noi spendiamo tanto. È anche vero, però, che noi abbiamo numeri non particolarmente giganteschi. Le cito un esempio di questi giorni. Noi abbiamo due programmi per caccia avanzati: uno italiano, britannico e giapponese e un altro franco-tedesco, con un po' di partecipazione spagnola. La domanda è la seguente: è seria una cosa del genere? Possiamo permetterci una cosa del genere, un sistema tale per cui questi aerei – l'Italia ne potrà comprare cento? – ci vengono a costare un fantastiliardo? Non perché costa tanto in sé l'aereo, ma perché, comprandone pochi, non fai massa critica e non hai il break-even. Se noi, invece, ci considerassimo veramente europei – non dico gli «stati uniti d'Europa» – alcune scelte le dovremmo fare sulla base di una logica. Vogliamo fare un aereo? Facciamone uno che valga per tutti. Questo vorrebbe dire che quell'aereo, prima di tutto, mette a sistema le migliori tecnologie di tutti e, dall'altra parte, comprandone tanti di un modello solo, ai nostri contribuenti e a tutti noi che paghiamo le tasse ci costa di meno. Questo non all'interno di Forze armate europee, che vedo, onestamente, molto futuribili. Le Forze armate, come servizi di informazione e sicurezza, come le forze di polizia, sono strumenti di sovranità nazionale; quindi, finché non vi sarà un'effettiva governance europea, non riesco a capire – se non c'è il Ministro degli esteri europeo e, soprattutto, il Ministro della difesa, per non parlare del Presidente del consiglio, o Cancelliere, o Imperatore – Pag. 13queste Forze armate fantomatiche a chi dovrebbero rispondere.
Il punto determinante è spendere meglio e avere rapporti multilaterali con gli altri Paesi sulla base del fatto che l'alternativa non è soltanto spendere di più, ma è soprattutto il declino, se gli altri sono tecnologicamente più forti di te. Un tempo le alleanze internazionali si basavano su tre gambe. La prima: l'onorevole ed io abbiamo confini in comune – mi permetto di giocare con Lei, Presidente – quindi, lui ed io, invece che farci la guerra, scegliamo di avere un'area di comune benessere, quindi un'area di contiguità territoriale, che ci permette di crescere insieme.
Secondo caso: noi non abbiamo confini in comune. Vi cito due esempi: il primo, quello della RAU, della Repubblica Araba Unita, che per un periodo unì l'Egitto con la Siria; il secondo, quello della NATO. La NATO è un'alleanza basata su dei valori, che ha una parte di alleati in Europa – tra cui credo sia ancora Europa l'Islanda – e altri due importanti attori, Stati Uniti e Canada, dall'altra parte dell'oceano. Però condividiamo insieme dei valori. Al di là del fatto che non confiniamo tra noi, quindi, ci siamo alleati.
Il terzo esempio, del passato, era quello dove io do in sposa mia figlia a suo figlio per creare delle alleanze transnazionali per poter, in qualche maniera, superare, attraverso i legami parentali, criticità statuali.
Ora le tipologie di alleanze che si stanno creando nel mondo sono di livello tecnologico. Sei in grado di operare con me? Sei in grado di mantenere il mio standard? Siamo alleati. Altrimenti, non mi servi.
Noi, a volte, ci dimentichiamo delle cose semplici, se posso. Quanto tempo è passato dall'invenzione della ruota all'invenzione della bicicletta, che sono due ruote, una davanti all'altra? Millenni. Quanto è passato dalla costruzione della prima rete internet al fatto di avere dei devices che rendono, oramai, connessi non i devices, ma addirittura le persone? Pochi decenni. Ed è sempre più veloce. Se noi, come europei, non prenderemo questa gara della velocità creando supply chain e un decoupling europeo, e rendendoci conto che, altrimenti, scompariamo – quindi dobbiamo riconoscere la nostra fragilità per implementare la nostra forza –, è finita.
Perché è fallita la Via della seta: quanti giorni abbiamo? È fallita per una serie di ragioni. Partiamo dalla ragione cinese, dai cinesi, poi arriviamo agli europei. I cinesi, per un eccesso forse anche di aggressività nell'approcciare il mercato europeo, per una sopravvalutazione della loro capacità di rapportarsi con gli europei... Ad esempio, una delle partite che hanno perso in quegli anni è stata quella sulle squadre di calcio. Vi ricorderete che, a un certo punto, molte squadre di calcio europee erano state approcciate da proprietà cinesi. Poi molte sono fallite o sono andate male. Perché i cinesi volevano le squadre di calcio occidentali? Certamente per i soldi, certamente per il merchandising in Cina. Ma il Partito comunista cinese non dà un input del genere per il merchandising. Perché, attraverso le squadre di calcio, tu ottieni il favore dei tifosi, che sono elettori. Quindi, la creazione di un'ampia base di consenso. O il fatto che, se il tuo Governo vota contro la Cina, una serie di presidenti di squadre importanti possa dire: «Il tuo Paese fa la lotta al mio. Noi ci tiriamo fuori. Vendiamo la squadra, la mettiamo in fallimento». E succede la terza guerra mondiale, perché la gente è oggettivamente molto più interessata al bomber, all'ala sinistra, al mediano di spinta – essendo del Genoa e considerato che l'ultimo scudetto risale ai primi del Novecento, chiedo scusa se uso termini desueti – piuttosto che alla strategia del Paese. Certamente, quindi, un'aggressività troppo forte da parte cinese.
Da parte nazionale, il problema è che noi abbiamo lasciato agli amministratori locali il compito di gestire la sicurezza nazionale. Arrivano le ditte cinesi in alcune città, di mare in particolare, e ti dicono: «Noi assumiamo tutti i tuoi disoccupati. Anzi, abbiamo bisogno di occupare ancora di più. Tu sarai il sindaco per i prossimi cinquecento anni». Tu pensi: «È l'occasione della mia vita». Poi arriva il Governo e dice: «No, questi entrano e si impossessano dei moli». Come è successo in Grecia, dove il Pireo è in mano per il 70 per cento Pag. 14alla Cina e per il 30 per cento all'India. Questo vi deve lasciare immaginare il significato, a livello NATO, delle capacità di manovra del Governo greco nel caso in cui si debbano prendere posizioni di un certo rigore nei confronti della Russia.
Quindi, è fallito perché i Governi italiani hanno detto agli amministratori locali di stare attenti, senza, però, ovviamente – ed è una tradizione nazionale – proporre alternative credibili nell'assorbimento dei disoccupati e nell'aumento dell'economia a livello locale. Credo che i cinesi abbiano imparato la lezione, quindi torneranno all'assalto in maniera più intelligente. Il punto vero è: l'abbiamo imparata anche noi? Quale sarà il nostro grado di risposta?
La diaspora italiana, onorevole Onori: come possiamo utilizzare le comunità italiane all'estero? Per la mia piccola esperienza, credo che i deputati e i senatori che sono stati eletti all'estero abbiano fatto in questi anni un ottimo lavoro, soprattutto dando voce a quelle comunità. Credo che il vero problema non sia quello che la diaspora italiana fa all'estero, quanto quello che noi facciamo per la diaspora italiana. Come fanno loro ad adoperarsi per un progetto di strategia nazionale se non diventano parte di una strategia nazionale, se non diamo loro le istruzioni su cosa fare? Come mi insegnò uno dei miei grandi maestri, il Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga – ci scrisse anche un libro –, gli italiani sono sempre gli altri. Noi non diamo mai la responsabilità a noi stessi. È sempre colpa di qualcun altro.
Credo che, invece, sarebbe importante rendersi conto che ci vuole una presenza istituzionale italiana nei «Paesi della diaspora» – chiamiamoli così – infinitamente più forte, sulla base, anche qui, di una road map di che cosa noi vogliamo ottenere da quel Paese. Io non ho dubbi che in Australia come in Argentina come in tanti altri Paesi del Sud America - ma non solo, anche degli Stati Uniti -, la comunità italiana sia in grado di avere una voce molto forte; anche perché è una comunità di lavoratori che ha una forza all'interno di quel Paese. Hanno, però, bisogno che voi diciate loro che cosa devono fare. Soprattutto, c'è bisogno che loro non si sentano sfruttati dove arrivano delegazioni italiane, ogni tanto, fanno loro i complimenti e poi queste delegazioni italiane scompaiono per altri anni. Secondo me, il punto vero riguarda la presenza e la continuità di questa presenza.
Ho già risposto sul «più Europa». Spero di aver risposto a tutto.
PRESIDENTE. Grazie mille.
Chiedo ancora un attimo di pazienza, perché poi tocca a noi, con la chiama in Aula.
Dal treno l'onorevole Gardini chiede di sottoporle la seguente brevissima domanda. Indonesia, il Paese musulmano più popoloso: è notizia di qualche settimana fa che la normalizzazione tra Israele e Indonesia non c'è. Rispetto a questa geopolitica legata alle religioni, che avvicina e allontana le nazioni a prescindere dai chilometri, com'è, in realtà, la situazione, al di là delle dichiarazioni ufficiali?
Mi permetto solo di dire una cosa: abbiamo parlato di Via della seta, si è accennato ad IMEC (India-Middle East-Europe Economic Corridor). L'auspicio è che funzioni la Via del cotone, per tenere tutti insieme, anche per interesse nazionale italiano. Una Via del cotone che potrebbe avere, secondo le ultime notizie, in Trieste il porto di arrivo, quindi fondamentale per noi.
ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro Studi Internazionali (CeSI). Ringrazio l'onorevole Gardini per la domanda importante sul rapporto tra laicità, interessi e religione. Onestamente, credo che in questo momento sia comprensibile che nessun Paese islamico possa, in una qualche maniera, normalizzare i rapporti con Israele, proprio perché in questa fase storica Israele si sta ponendo in una posizione estremamente complessa, anche nei confronti dei propri alleati tradizionali. Continuare a dire «noi lo facciamo lo stesso», buttando all'aria decenni di sacrifici da parte di tutti, di rapporti bilaterali e multilaterali, di supporto vero e sincero, è un peccato.Pag. 15
Credo sia più legato, oggettivamente, non alle necessità di Israele, ma ad una classe politica israeliana, che in questo momento sente un po' quello che è il «complesso di Masada», cioè il complesso dell'assedio. Le classi politiche si rinnovano, le fasi storiche si ritrovano. Credo che i rapporti tra Israele e il mondo occidentale si normalizzeranno, come è sempre stato.
Gli Accordi di Abramo – che sono stati poi bloccati, ma sono stati comunque firmati, e anche l'Arabia Saudita, che è la custode di due dei tre luoghi sacri dell'Islam, era in procinto di firmare – credo siano stati comunque un fatto che c'è stato. Credo che la strada della normalizzazione tra il mondo islamico e Israele sia un fatto ormai acclarato. Potremmo discutere sui tempi, ma non sul fatto che la strada sia quella. Correttamente, l'onorevole Gardini dice che la normalizzazione dei rapporti tra Indonesia e Israele non c'è stata. Dieci anni fa non si sarebbe neanche parlato di normalizzazione dei rapporti, ma di scontro.
Dobbiamo renderci conto che una parte del mondo ha visioni diverse dalla nostra. Non dobbiamo necessariamente assolutamente condividerle, ma ci dobbiamo convivere, perlomeno. Un rapporto sano, basato sul rispetto e non sull'appiattimento del fatto che se tu hai un'opinione questa opinione debba essere necessariamente giusta o necessariamente imposta ad altri con la violenza, ma un rapporto sano, nel rispetto delle opinioni reciproche, credo sia necessario tra il mondo figlio della Rivoluzione francese, quindi un mondo laico – togliamo la cristianità – e un mondo che, invece, è permeato di religiosità. L'inizio degli Accordi di Abramo segna una strada che sicuramente ha degli ostacoli, ha degli stop, ma è una strada che percorreremo tutti per il futuro.
Grazie.
PRESIDENTE. Grazie ancora per il contributo.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 9.30.