Sulla pubblicità dei lavori:
Boldrini Laura , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SULL'IMPEGNO DELL'ITALIA NELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE PER LA PROMOZIONE E TUTELA DEI DIRITTI UMANI E CONTRO LE DISCRIMINAZIONI
Boldrini Laura , Presidente ... 3
Miccio Rossella , rappresentante di ... 4
Boldrini Laura , Presidente ... 5
Miccio Rossella , rappresentante di ... 5
Boldrini Laura , Presidente ... 5
Miccio Rossella , rappresentante di ... 5
Boldrini Laura , Presidente ... 6
Visone Giovanni , rappresentante di ... 6
Boldrini Laura , Presidente ... 7
Donini Antonio , rappresentante di ... 7
Boldrini Laura , Presidente ... 9
Battiston Giuliano , rappresentante di ... 9
Boldrini Laura , Presidente ... 10
Gruppioni Naike (IV-C-RE) ... 10
Boldrini Laura , Presidente ... 11
Miccio Rossella , rappresentante di ... 11
Visone Giovanni , rappresentante di ... 12
Donini Antonio , rappresentante di ... 13
Battiston Giuliano , rappresentante di ... 14
Boldrini Laura , Presidente ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari:
Fratelli d'Italia: FdI;
Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista: PD-IDP;
Lega - Salvini Premier: Lega;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Berlusconi Presidente - PPE: FI-PPE;
Azione - Popolari europeisti riformatori - Renew Europe: AZ-PER-RE;
Alleanza Verdi e Sinistra: AVS;
Italia Viva - il Centro - Renew Europe: IV-C-RE;
Noi Moderati (Noi con L'Italia, Coraggio Italia, UDC e Italia al Centro) - MAIE: NM(N-C-U-I)-M;
Misto: Misto;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-+Europa: Misto-+E.
PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
LAURA BOLDRINI
La seduta comincia alle 11.35.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la resocontazione stenografica e la trasmissione attraverso la web-tv della Camera dei deputati.
Audizione, anche in videoconferenza, di rappresentanti di Afgana , Emergency , United against Inhumanity e Intersos .
PRESIDENTE. L'ordine del giorno del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'impegno dell'Italia nella comunità internazionale per la promozione e tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni, l'audizione, anche in videoconferenza, di rappresentanti di Afgana, Emergency, United against inhumanity e Intersos.
Ricordo che la partecipazione da remoto è consentita alle colleghe e ai colleghi, secondo le modalità stabilite dalla Giunta per il Regolamento.
Anche a nome dei componenti del Comitato, saluto e ringrazio per la disponibilità a prendere parte ai nostri lavori la dottoressa Rossella Palma, rappresentante di Emergency; il dottor Giovanni Visone e la dottoressa Chiara De Stefano, rappresentanti di Intersos; e il dottor Giuliano Battiston, rappresentante di Afgana. Saluto e ringrazio, inoltre, collegati in videoconferenza, la dottoressa Rossella Miccio, rappresentante di Emergency, e il dottor Antonio Donini, rappresentante di United against inhumanity.
L'audizione odierna nasce dalla necessità di approfondire la grave situazione umanitaria e dei diritti umani in Afghanistan, a quasi tre anni dal ritiro delle truppe multinazionali e dal contestuale ritorno al potere dei talebani. Tra l'altro, proprio ieri si è concluso a Doha il terzo incontro, promosso dalle Nazioni Unite, degli Inviati Speciali per l'Afghanistan, a cui per la prima volta hanno partecipato anche le autorità de facto talebane; oggi, invece, è previsto l'incontro tra la Sottosegretaria Generale delle Nazioni Unite, Rosemary Di Carlo, e i rappresentanti della società civile afghana, compresi i difensori dei diritti umani e dei diritti delle donne.
Segnalo che nell'ultimo intervento al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – svoltosi il 21 giugno scorso – la Rappresentante speciale per l'Afghanistan, Roza Otunbayeva, ha sottolineato che il divieto dell'accesso delle donne e delle ragazze all'istruzione e al lavoro e la loro esclusione da molti aspetti della vita pubblica hanno causato danni incalcolabili alla loro salute mentale e fisica, oltre a minare i mezzi di sussistenza. Le detenzioni arbitrarie per presunte violazioni del codice di abbigliamento islamico costituiscono un'ulteriore violazione dei diritti umani e comportano un enorme stigma per donne e ragazze. Ciò ha anche un effetto dissuasivo tra la popolazione femminile in generale, con numerose donne che hanno timore persino a farsi vedere in pubblico.
Nel rapporto congiunto di UN Women, dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan sulla condizione delle donne nel Paese asiatico, si evidenzia che il 57 per cento delle donne si sente insicuro ad uscire di casa senza il mahram (tutore maschio); inoltre, Pag. 4solo l'1 per cento ha dichiarato di avere un'influenza «buona» o «piena» sul processo decisionale, in forte calo rispetto al 17 per cento registrato nel 2023.
Più in generale, in Afghanistan si continuano a registrare gravi violazioni dei diritti civili, dei diritti economici, politici e sociali della popolazione, manifestazioni pubbliche di violenza, comprese le punizioni corporali e capitali, e l'emarginazione delle minoranze, che nel caso degli Hazara assume i contorni della persecuzione.
La signora Otunbayeva ha altresì ricordato che, a fronte di questo quadro, più di 7 miliardi di dollari sono stati forniti da donatori internazionali per l'assistenza umanitaria e più di 4 miliardi per sostenere i bisogni essenziali del popolo afghano dopo la presa del potere da parte dei talebani. Eppure, l'Afghanistan continua ad essere afflitto da una povertà di massa, che rende la popolazione ancora più vulnerabile ai numerosi disastri naturali a cui abbiamo assistito negli ultimi anni a causa del cambiamento climatico.
Concludo segnalando ai nostri ospiti che nella deliberazione sulla proroga delle missioni internazionali per il 2024, che è stata recentemente esaminata dal Parlamento, il Governo italiano sottolinea che, «se, da un lato, si continua a rigettare l'ipotesi di un riconoscimento del Governo talebano, dall'altro, prosegue un'interazione pragmatica allo scopo di facilitare le attività di assistenza e spingere i talebani a migliorare le condizioni di vita della popolazione, nella consapevolezza che un completo isolamento dell'Afghanistan avrebbe conseguenze negative sia per la popolazione, sia per la sicurezza e la stabilità internazionali».
Forniti questi elementi di contesto, mi fa piacere dare la parola a voi, con interventi di circa cinque minuti ciascuno.
Inizio con la dottoressa Rossella Miccio, rappresentante di Emergency, che è collegata in videoconferenza.
ROSSELLA MICCIO, rappresentante di Emergency, intervento in videoconferenza. Buongiorno, presidente, buongiorno a tutti. Grazie mille per questa opportunità.
Noi siamo molto contenti di parlare di Afghanistan oggi, perché dall'estate 2021 il Paese è uscito dai radar. In realtà, avevamo già partecipato ad un'audizione, ad ottobre 2021, presso le Commissioni riunite esteri e difesa del Senato proprio per parlare della partecipazione dell'Italia nell'intervento internazionale in Afghanistan, quella che è stata la più costosa missione militare italiana all'estero; parliamo di oltre 8,7 miliardi di euro spesi per quella missione, che è stata anche la più lunga nella storia repubblicana. In quell'occasione avevamo avuto modo di sottolineare quanto nei vent'anni precedenti – quindi nei vent'anni di guerra a cui ha partecipato l'Occidente – non fosse stata costruita alcuna autonomia economica e finanziaria del Paese e quanto l'Afghanistan fosse dipendente dagli aiuti internazionali, ribadendo quindi l'urgenza di non abbandonare gli afghani e le afghane. Purtroppo, abbiamo constatato che è esattamente quello che è successo.
A giugno 2023, durante un'audizione presso le Commissioni riunite esteri e difesa della Camera per parlare della deliberazione Missioni – a cui accennava prima Lei, presidente –, avevamo sottolineato che per la prima volta l'Afghanistan era scomparso. Tra l'altro, dal 2021 ad oggi non sono più stati resi disponibili i dati relativi alla cooperazione italiana nel Paese; addirittura ormai l'Afghanistan non è più considerato Paese prioritario.
Dal nostro punto di vista, invece, siamo convinti e sosteniamo con forza che la cooperazione non deve essere subalterna alle missioni militari, in particolare considerando che la situazione in Afghanistan non è affatto migliorata per la popolazione civile dall'agosto 2021, come diceva poco prima anche Lei, presidente. Il deterioramento sul terreno è, invece, l'esito – prevedibilissimo – di un approccio fallimentare sostenuto per vent'anni dall'Occidente, che non ha creato una società resiliente, sostenibile e pacifica. Non siamo andati ad affrontare le cause della conflittualità interna alla comunità afghana.
Per quel che ci riguarda – l'accesso alle cure nel Paese – non abbiamo visto alcun miglioramento negli ultimi tre anni, anzi. Lo scorso anno abbiamo pubblicato un rapporto proprio sull'accesso alle cure in Pag. 5dieci province afghane, nel quale abbiamo messo in luce come, nonostante la guerra sia formalmente finita, le condizioni socio-sanitarie siano drasticamente peggiorate. A ciò si accompagna la carenza di cure per le malattie croniche, esito di problemi strutturali del sistema pubblico che rendono l'accesso alle cure essenziali praticamente un percorso ad ostacoli. Oltre l'80 per cento degli afghani intervistati si è visto costretto a prendere denaro in prestito per curarsi e il 70 per cento [problemi di audio]. Questi ospedali sono collegati a quaranta centri di salute e posti di primo soccorso in dieci province del Paese.
Oltre ad aver curato oltre 7 milioni di afghani in questi anni, siamo anche molto orgogliosi di aver garantito agli oltre 1.700 colleghi e colleghe afghane, una...
PRESIDENTE. Qui abbiamo un problema. Stiamo perdendo l'audio, che ogni tanto salta. Magari conviene ricollegarsi.
ROSSELLA MICCIO, rappresentante di Emergency, intervento in videoconferenza. Esco e rientro?
PRESIDENTE. Proviamoci, grazie. L'abbiamo seguita fino a quando ha detto che dopo la fine della guerra le condizioni di salute, purtroppo, sono peggiorate.
ROSSELLA MICCIO, rappresentante di Emergency, intervento in videoconferenza. Abbiamo pubblicato un rapporto lo scorso anno sull'accesso alle cure in dieci province afghane, che mette in luce come le conseguenze dirette della guerra si siano aggiunte a carenze croniche e strutturali del sistema pubblico, rendendo l'accesso alle cure essenziali un percorso ad ostacoli. L'86 per cento degli afghani intervistati ha dovuto prendere in prestito denaro per curarsi; il 70 per cento ha dovuto posticipare le cure; più di un partecipante su cinque, quindi il 20 per cento, ha dichiarato di aver perso un parente o un amico perché non ha più avuto accesso alle cure di cui aveva bisogno. Questo è un dato decisamente allarmante per noi.
Proprio per questo motivo noi continuiamo ad essere nel Paese con tre ospedali chirurgici, un centro pediatrico e un centro di maternità, gestito interamente da personale femminile, che sono collegati a quaranta centri di salute e posti di primo soccorso in dieci province del Paese. Anche in questi centri di salute abbiamo personale femminile che lavora, che viene formato da noi. In questi ventiquattro anni di lavoro, oltre ad aver investito circa 180 milioni di euro, abbiamo garantito le cure, gratuite e senza discriminazioni, ad oltre sette milioni di afghani, ma soprattutto abbiamo garantito una formazione professionale e un lavoro dignitoso ad oltre 1.700 membri del nostro staff locale, con particolare orgoglio per quello che riguarda la popolazione femminile, che sappiamo bene essere una delle più vulnerabili; lo è sempre stata, anche prima del 2021, ancora di più lo è oggi, ma proprio con orgoglio rivendichiamo questo nostro lavoro, questa presenza, che per esempio oggi garantisce la possibilità per alcune specializzande – quindi, dottoresse afghane – di fare un percorso di specializzazione di quattro anni non solo in ostetricia e ginecologia, ma anche, per esempio, in anestesia – ne abbiamo due a Kabul –, in un contesto tendenzialmente ad appannaggio degli uomini. Pensiamo che questo sia un modello di inclusione ed empowerment per le comunità locali, quindi non soltanto per le donne, ma per la comunità intesa nel suo senso più ampio. Speriamo che questo sia anche lo strumento da usare come grimaldello per sviluppare sempre più i diritti delle donne e delle bambine, oggi purtroppo negati.
Abbiamo sperimentato quanto l'eredità di una guerra sopravviva alla fine delle ostilità sul campo e ancora oggi - nei primi quattro mesi del 2024 - continuiamo a ricevere una media di dieci feriti al giorno, da arma da fuoco o da arma da taglio. Quindi, è una società ancora estremamente violenta. Soltanto da gennaio ad aprile di quest'anno abbiamo ricoverato più di duecento pazienti per ferite da schegge o da mina e quasi uno su due era un minore di diciotto anni; questo vi dà l'idea di quello Pag. 6che è ancora oggi l'Afghanistan. Soprattutto la nostra preoccupazione è che, in un Paese in cui ci sono più kalashnikov che libri di scuola, queste condizioni di sicurezza piuttosto precarie in cui il Paese vive oggi si potrebbero deteriorare in maniera importante.
È per questo che oggi qui ribadiamo che è essenziale non abbandonare l'Afghanistan ed investire in particolar modo nella salute e nella tutela dei diritti umani, perché l'ambito della salute è uno dei pochi nei quali, ad oggi, davvero si riesce a provare a lavorare in maniera costruttiva, affinché gli ospedali possano non solo continuare a garantire il diritto alla cura, ma anche essere luogo di pace e di costruzione di comunità, che per troppi decenni non hanno avuto più possibilità né prospettive future, perché prima afflitte dalla guerra e ora dalla povertà e dall'oblio internazionale.
Lei, presidente, prima sottolineava gli aiuti umanitari che il nostro Paese ha garantito in questi ultimi anni: noi, però, chiediamo con forza che non ci si limiti – né l'Italia, né la Comunità internazionale – agli aiuti umanitari, che si vada oltre e ci si impegni, con le risorse e la continuità necessaria, a mantenere finalmente le promesse fatte in vent'anni di guerra, di restare al fianco dei 35 milioni di afghani e afghane per aiutarli finalmente ad avere un futuro sicuro e dignitoso.
Grazie.
PRESIDENTE. La ringrazio. Do la parola al dottor Giovanni Visone, rappresentante di Intersos.
GIOVANNI VISONE, rappresentante di Intersos. Grazie, presidente, per questa opportunità di tornare a parlare di Afghanistan in una sede istituzionale e richiamare l'attenzione sulla gravità della crisi umanitaria in corso nel Paese e sulle responsabilità della Comunità internazionale e dell'Italia nel fornire risposte più efficaci ed adeguate alla dimensione dei bisogni.
Sono trascorsi – lo ricordavamo – quasi tre anni da quando i talebani hanno assunto il ruolo di autorità de facto nel Paese; tre anni nei quali Intersos ha confermato e rafforzato ininterrottamente la propria presenza umanitaria al fianco della popolazione afghana, testimoniando in prima persona l'impatto che la crisi e l'isolamento del Paese hanno sulla popolazione, in particolare sulle fasce più vulnerabili, e su questo tornerò.
In particolare, Intersos ha lavorato per sostenere il sistema sanitario locale ed estendere l'intervento umanitario in aree remote, rurali e montane, delle province di Kabul, Kandahar e Zabul, con particolare attenzione alle categorie più vulnerabili – ripeto –, offrendo servizi di protezione, consulenze mediche, programmi di immunizzazione, servizi per la salute materno-infantile, di emergenze e traumatologici, nonché programmi nutrizionali per bambini, donne in gravidanza e in allattamento. Solo questo elenco dà, in qualche modo, la misura della vastità dei bisogni a cui dobbiamo rispondere e di come di fronte a noi abbiamo dati estremamente critici, che vorrei ricordare: 23,7 milioni di persone, più della metà della popolazione afghana, ha bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere; oltre l'80 per cento delle famiglie vive con meno di un dollaro al giorno; i tassi di malnutrizione materno-infantili sono tra i più alti al mondo, così come l'incidenza delle morti di parto, che sono conseguenza di un sistema sanitario fragile, sostenuto, soprattutto nelle aree remote – rurali e montane – che citavo, solo dalla presenza delle organizzazioni non governative internazionali.
È ovvio che se crediamo nei valori umanitari, nei princìpi umanitari che ci rappresentano, sono dati di fronte ai quali agire è imperativo; agire a partire da una riaffermazione della non condizionalità degli aiuti umanitari e dal rifiuto di ogni logica che subordini l'azione umanitaria basata sui princìpi ad obiettivi di altro ordine. Questo, ovviamente, è un punto di discussione aperto, ma reale: tra l'azione umanitaria e altri obiettivi c'è bisogno di aprire una riflessione per fare in modo che a pagare le conseguenze di una mancanza di intervento o di decisione non sia proprio la popolazione più vulnerabile.Pag. 7
È per questo che chiediamo un rilancio dell'azione umanitaria fondato su quattro pilastri.
Il primo è garantire il pieno finanziamento del piano di aiuti umanitari per il 2024, attualmente sotto-finanziato, disponendo fondi prevedibili, flessibili, pluriennali, per sostenere una risposta efficace e prevenire un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria interna al Paese.
Il secondo è promuovere la ripresa di finanziamenti destinati allo sviluppo – prima dell'agosto del 2021 rappresentavano l'80 per cento gli aiuti all'Afghanistan – e di finanziamenti per l'early recovery, senza i quali è impossibile affrontare alla radice le cause profonde della crisi umanitaria e sostenere la ripresa dei servizi di base, in particolare dei servizi sanitari. Questa è una cosa che noi osserviamo ogni giorno nei progetti di Intersos, per garantire accesso alle cure mediche in aree remote: l'azione umanitaria emergenziale è vitale, ma, allo stesso tempo, non può essere considerata come una risposta sufficiente e sostenibile nel lungo periodo ai bisogni della popolazione, trasformando la pura resilienza della popolazione in progressiva autonomia e riducendo la dipendenza dagli aiuti. Oggi la popolazione afghana dipende dagli aiuti umanitari internazionali per sopravvivere.
Il terzo – questo è un punto importante, ovviamente i primi due non esistono senza questo – è sostenere un accesso equo ai servizi e agli aiuti per tutta la popolazione afghana, con particolare attenzione alle categorie marginalizzate, inclusi sfollati interni, returnees, persone con disabilità e, ovviamente, donne e bambini, garantendo che i loro bisogni specifici trovino ascolto e i loro diritti siano rispettati; un obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso il confronto attivo - su questo torneranno anche i colleghi dopo di me - tra organizzazioni umanitarie, stakeholders internazionali e autorità nel Paese.
L'ultimo – anche senza questo punto non si sostengono i primi tre – è riaffermare la centralità del ruolo attivo delle donne, che ancora oggi rappresentano il 50 per cento dello staff di Intersos nel Paese. Su questo, lo diceva anche la presidente di Emergency, Rossella Miccio, abbiamo preso un impegno chiaro a non fare nessun passo indietro e a misurare un impegno quotidiano al fianco delle donne afghane e delle donne che lavorano con noi, per affrontare i problemi che la presidente Boldrini giustamente citava; problemi e sfide ai diritti con cui ci confrontiamo ogni giorno. Abbiamo avvertito l'urgenza e il bisogno di restare vicino a quelle donne e di affrontare i problemi insieme, insieme a tanta parte della società civile afghana, ancora impegnata all'interno del Paese, di cui le donne sono una parte imprescindibile ed essenziale per il futuro e la crescita della società afghana.
Rispetto a questi obiettivi - così come, ricordiamolo, anche nel garantire sostegno diplomatico e materiale a milioni di afghani e afghane rifugiati nei Paesi vicini, di cui non ci dobbiamo dimenticare - riteniamo che l'Italia, anche per il legame con la storia recente dell'Afghanistan e per le missioni che si ricordavano, debba rilanciare una politica trasparente di aiuti e tornare ad assumere un ruolo più forte nelle sedi internazionali e nell'Unione europea.
Grazie.
PRESIDENTE. Molte grazie. Do la parola al dottor Antonio Donini, rappresentante di United Against Inhumanity, collegato in videoconferenza.
ANTONIO DONINI, rappresentante di United against Inhumanity, intervento in videoconferenza. Signora presidente, ringrazio Lei e il Comitato per averci dato l'opportunità di parlare della situazione afghana.
United Against Inhumanity (UAI) è un movimento internazionale di individui, di gruppi della società civile che si mobilitano intorno all'inumanità delle guerre e all'erosione del diritto di asilo. Noi abbiamo un piccolo programma con esperti afghani e facciamo advocacy intorno alla situazione afghana. Io stesso ho lavorato in Afghanistan per circa sette anni, prima per l'ONU e poi come ricercatore.Pag. 8
I colleghi di Emergency e di Intersos hanno dato un quadro – appoggio totalmente la loro analisi – sulla gravità della situazione umanitaria, ma anche della situazione di isolamento dell'Afghanistan. Io vorrei aggiungere un paio di punti specifici. La popolazione dell'Afghanistan, come abbiamo sentito, subisce i contraccolpi di quarantacinque anni di guerra e di fallimento di interventi internazionali e, più recentemente, delle politiche economiche imposte dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali. Bisogna ricordare che fino all'agosto del 2021 l'assistenza allo sviluppo dei Paesi occidentali copriva circa il 75 per cento del fabbisogno del bilancio dello Stato, praticamente finanziava la quasi totalità delle attività di istruzione pubblica e di salute; adesso c'è un'assenza pressoché totale di aiuti allo sviluppo.
Inoltre – ed è questo il punto sul quale mi voglio soffermare –, a questa assenza totale di aiuti allo sviluppo si aggiungono misure di ritorsione economica contro la popolazione. Il caso esemplare di questa ritorsione è quello delle riserve della Banca centrale afghana (DAB), che sono state confiscate unilateralmente, con un ordine esecutivo del Presidente Biden, nel febbraio 2022: sono ben 7 miliardi di dollari di riserve afghane, che appartengono al popolo afghano, in gran parte economie di individui e fondi messi in sicurezza da imprese afghane, depositati nella Federal Reserve di New York; altri 2,5 miliardi sono sparsi per varie banche in giro per l'Europa e una piccola quantità anche in banche italiane. La DAB, la Banca centrale, è stata, in pratica, tagliata fuori dal sistema bancario internazionale e non è più stata in grado, dal 2022 in poi, di svolgere le sue normali attività di sostegno all'economia e alle transazioni internazionali.
Nel settembre del 2022 Washington ha annunciato la creazione in Svizzera di un Fondo afghano di 3,5 miliardi di dollari – la metà di quelli che erano stati confiscati –, con lo scopo di finanziare attività a beneficio del popolo afghano. Purtroppo, finora non è stato speso nemmeno un centesimo di questi fondi, che, in realtà, adesso sono aumentati, con circa 300 milioni di dollari di interessi.
Inoltre, a causa delle sanzioni contro i talebani, le banche internazionali si rifiutano o sono riluttanti a condurre transazioni finanziarie con l'Afghanistan, con privati afghani, per via delle sanzioni o per via della percezione che potrebbero violare le norme, anche se ci sono state recentemente delle misure prese dalla Federal Reserve per permettere alle banche di lavorare; per ora, però, risulta molto difficile fare transazioni da parte dell'Afghanistan.
Varie ONG, negli Stati Uniti e in Europa – compresa UAI – e molti economisti internazionali hanno preso posizione e chiesto la ricapitalizzazione urgente della DAB, sottolineando che le riserve sequestrate appartengono al popolo afghano e non ai talebani. Per noi di UAI il congelamento delle riserve sovrane del Paese è un fattore critico nel crollo dell'economia e del settore bancario. In pratica, si tratta di una rappresaglia economica contro la popolazione, che non ha alcuna responsabilità per il ritorno dei talebani al potere.
Emergency, Intersos e Afgana si associano a questa posizione: l'unica opzione etica, morale, responsabile e realistica per assicurare la sopravvivenza e il futuro di milioni di afghani – che sono a rischio non solo per la crisi umanitaria, ma anche per la crisi dell'occupazione, perché l'economia è praticamente in uno stato di stallo –, è la ricapitalizzazione graduale della Banca, con un monitoraggio internazionale. Ci sono proposte pronte per fare questa ricapitalizzazione.
A chi dice che questi soldi potrebbero consolidare il potere dei talebani noi, da un punto di vista umanitario, chiediamo se è accettabile affamare deliberatamente la popolazione perché non siamo d'accordo con le autorità che la controllano; senza un'economia funzionante non si può rispondere ai bisogni essenziali della popolazione.
Gli aiuti umanitari sono, ovviamente, molto importanti, ma non sono un sostituto al funzionamento dell'economia. Per fare in modo che l'economia torni a funzionare, i talebani e l'Occidente devono in qualche modo parlarsi. Sarebbe un piccolo passo Pag. 9pragmatico, il che non significa assolutamente un riconoscimento politico del regime.
Grazie di questa opportunità.
PRESIDENTE. Grazie, dottor Donini. Anche questo è uno spunto molto interessante. Chiedo di intervenire al dottor Giuliano Battiston, rappresentante di Afgana.
GIULIANO BATTISTON, rappresentante di Afgana. Signora presidente, La ringrazio per questa opportunità.
Parto individuando tre crisi che si alimentano a vicenda nel Paese: c'è una crisi umanitaria, di cui ci è stato dato conto, una crisi fortissima di diritti e anche, in un certo senso, una crisi di interesse della comunità internazionale.
Quanto alla crisi dei diritti, l'elenco delle politiche discriminatorie verso le donne è particolarmente lungo e particolarmente preoccupante, tanto che il Relatore Speciale sui diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, poche settimane fa ha ribadito che si possa trattare di una vera e propria forma di apartheid di genere.
Oltre a questa crisi umanitaria, oltre a questa discriminazione di genere, oltre ad una repressione interna – di cui Lei, presidente, ha dato conto –, la società afghana, secondo noi, sconta anche una mancanza di coraggio, di creatività politica da parte della diplomazia euro-atlantica, che appare in stallo. Dalla presa del potere dei talebani la comunità euro-atlantica ha esercitato pressioni affinché venissero introdotti dei cambiamenti, basandosi su un'ipotesi. Quale? Quella che il regime talebano non potesse sopravvivere senza il proprio sostegno. Quel presupposto, però, si è dimostrato sbagliato, perché il regime è riuscito a rafforzarsi – come dimostra, tra l'altro, un rapporto di luglio 2023 della Banca mondiale – ed ha stretto, consolidato i rapporti con i Paesi dell'area, i Paesi confinanti.
Quel rapporto, quello tra i talebani e Paesi della regione, è improntato a ragioni di prossimità geografica, potremmo dire anche di opportunismo; quello, invece, con la comunità euro-atlantica è ostacolato innanzitutto dall'eredità di un conflitto molto sanguinoso e anche dalle divisioni interne, sia alla diplomazia euroatlantica sia al fronte talebano.
In particolare, le politiche discriminatorie verso le donne sono legate anche alle dinamiche interne al movimento dei talebani. I più oltranzisti hanno approfittato degli scarsi successi ottenuti dai cosiddetti «pragmatici» nell'interloquire con l'Occidente per contrarre ulteriormente i diritti delle donne, sabotando il dialogo con l'Occidente.
Ora, che fare? Alcuni suggerimenti arrivano da un assessment, da una valutazione indipendente che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha commissionato ad un ex Ambasciatore turco, resa pubblico nel novembre del 2023, in cui si dice che serve – testuale – «un impegno internazionale più integrato e coerente, che passi per una tabella di marcia basata su risultati piccoli, ma concreti».
Per questo, di fronte a quella che ci pare una impasse diplomatica, per proteggere la popolazione riteniamo ci sia bisogno di uno scarto; serve più diplomazia, ma una diplomazia dei piccoli passi, dietro le quinte, che non sia declamatoria, non sia basata su ultimatum, ma che ricerchi l'opzione che più tuteli i diritti e più soddisfi i bisogni della popolazione afghana.
Questa diplomazia, d'altro canto, in qualche modo deve anche cercare di «socializzare» i talebani, che hanno molta esperienza sul campo di battaglia – troppa esperienza sul campo di battaglia –, ma poca esperienza di diplomazia. In sintesi, serve un confronto attivo, serve un dialogo, servono canali di comunicazione aperta.
Un punto importante, che è stato, tra l'altro, confermato anche ieri e l'altro ieri durante la Conferenza di Doha – molto contestata – è che parlarsi non significa normalizzare il regime dei talebani, parlarsi non significa riconoscere il regime dei talebani, parlarsi non significa accettare le politiche repressive e discriminatorie. Però, lo accennava Giovanni Visone, tra l'inazione, tra l'impasse, da una parte, e la legittimazione, dall'altra, esiste un ampio Pag. 10spettro di possibilità che riteniamo la politica abbia la responsabilità di esplorare.
Tra l'altro, queste posizioni sono espresse anche da una parte della società civile afghana, che risiede nel Paese, che ritiene che la comunità internazionale abbia l'obbligo morale di impedire ulteriori sofferenze.
Qual è l'alternativa rispetto a questa opzione, che sicuramente è molto difficile da praticare e sulla quale nessuno ha facili ricette? L'alternativa è il disimpegno diplomatico e finanziario in nome del rispetto dei diritti umani. A noi appare una contraddizione in termini e anche un'opzione deleteria. Il disimpegno diplomatico, in particolare, porterebbe le autorità di fatto su posizioni ancora più autarchiche, ancora più repressive, perché complicherebbe il monitoraggio dei diritti umani, dell'abuso dei diritti umani, che è essenziale, e perché marginalizzerebbe i cosiddetti «pragmatici» all'interno dei talebani.
L'obiezione secondo cui rafforzare l'aiuto umanitario, riprendere quello allo sviluppo – che è stato interrotto, come abbiamo sentito –, ricapitalizzare gradualmente, attraverso un monitoraggio, la Banca centrale afghana rischi di rafforzare il regime, è un'obiezione di cui teniamo conto: è ragionevole, plausibile, ma errata, perché la società afghana potrà guadagnarsi spazi di contestazione solo se non dovrà dipendere del tutto dall'esterno, come ora, per soddisfare i bisogni essenziali.
Inoltre, come già stanno facendo alcune ONG, è possibile lavorare a progetti di sviluppo indirizzati a comunità specifiche, con una interferenza ridotta delle autorità di fatto.
L'altra preoccupazione è che prolungare lo stallo nei rapporti tra l'Occidente e Kabul non farà che consegnare definitivamente il Paese nell'orbita di Paesi come Iran, Russia, Cina, che hanno già molto rafforzato le relazioni diplomatiche con Kabul, ai quali non interessa nulla dei diritti umani negati. Secondo noi, la domanda di fondo da porsi è questa: chi pagherà le conseguenze di un disimpegno e di un isolamento? Riteniamo che le conseguenze verrebbero pagate proprio da quelle categorie che vorrebbe difendere chi nega ogni ipotesi diplomatica e negoziale, per quanto difficile.
In conclusione, a nome delle quattro organizzazioni che hanno chiesto questa audizione, noi chiediamo che l'Italia si faccia promotrice a livello internazionale dello sblocco delle riserve afgane all'estero, a partire dai fondi al momento congelati in Italia; che adotti un approccio pragmatico, flessibile e costruttivo nel confronto attivo con le autorità afgane, ponendo al centro i diritti e i bisogni della popolazione, per sostenere gli aiuti umanitari, ma anche il funzionamento dei servizi essenziali e dell'economia, che sono necessari alla popolazione; che aumenti il suo sostegno alle ONG che hanno esperienza diretta sul campo, con finanziamenti umanitari e aiuti allo sviluppo mirati direttamente alla popolazione e non alle autorità di fatto.
Grazie.
PRESIDENTE. Grazie a Lei. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
NAIKE GRUPPIONI. Presidente Boldrini, innanzitutto vorrei ringraziare Lei per aver organizzato questa audizione, perché si parla veramente poco di questa situazione incresciosa ed è incredibile che sia andata nel dimenticatoio in questa maniera.
Il dottor Battiston ha praticamente risposto a tutte le domande che avevo; ne ho effettivamente molte, ma in particolare volevo porre l'attenzione sulle strategie che prima ha elencato nel superare le barriere culturali, perché questo è molto interessante, come fare a dialogare. Volevo capire quali fossero i punti di forza, i punti che ci uniscono a loro per lavorare con le comunità locali afgane, perché deve essere un lavoro veramente molto complicato.
Inoltre, volevo capire in che modo i Paesi occidentali – in questo momento anche di conflitto in molte parti del mondo – stanno contribuendo in Afghanistan a cercare di risolvere la situazione insieme a voi e soprattutto, come appunto Lei prima diceva, come possiamo fare noi a supportare concretamente questo percorso.Pag. 11
Grazie mille.
PRESIDENTE. Se nessuno vuole intervenire in videoconferenza, pongo io delle domande.
Il quadro è sicuramente molto complesso. Il dilemma è antico: già è stato posto questo dilemma in altre occasioni, quando già c'erano prima i talebani, perché ci ricordiamo tutti che anche all'epoca, negli anni Novanta, quando ci fu la prima comparsa dei talebani che imposero questo regime feroce, anche all'epoca ci fu un isolamento da parte della Comunità internazionale e tanti appelli affinché non si ignorassero le esigenze primarie della popolazione.
Ricordo – all'epoca lavoravo all'UNHCR – che si parlava dei «bambini blu» che morivano assiderati in Afghanistan, perché non c'era modo di dare loro i servizi di base, specialmente in alcune province dove faceva molto freddo, zone montane.
Capisco che di fronte a questo è sempre complicato riuscire a trovare il modo per sostenere le persone che non debbono e non possono diventare il capro espiatorio di un regime che non hanno scelto, ma al contempo viene il dubbio che se poi si sostiene attraverso i canali abituali questo vada a rafforzare un regime che è impresentabile.
Vengo alla domanda: in merito alle forme alternative di finanziamento che non coinvolgono le autorità, quindi gli aiuti di emergenza, voi ritenete che possano essere gestite indipendentemente dai rapporti con le autorità locali? Le persone vulnerabili chi le indica, se non le autorità locali? Quando Lei va nel villaggio e parla con i rappresentanti talebani, sono loro che hanno la lista delle persone vulnerabili, sono loro che in qualche modo decidono poi anche la gestione degli aiuti, perché funziona così. Chiedo se c'è un modo che possa garantire questo.
Nell'esperienza recente avete visto che c'è effettivamente una corresponsione da parte delle autorità locali talebane di collaborare rispetto alla distribuzione degli aiuti di emergenza verso le persone che ne hanno più bisogno? Questo avviene? Il problema di ripristinare gli aiuti allo sviluppo dipende dal fatto che questi aiuti andrebbero attraverso i canali delle autorità, o mi sbaglio? È così che verrebbero distribuiti? Attraverso comunque canali più consolidati? Con quali garanzie si possono riprendere investimenti sullo sviluppo sapendo che, però, poi verrebbero gestiti comunque da chi ha un'agenda politica non condivisibile, un'agenda che estrometterebbe comunque le donne dall'accesso anche agli aiuti?
Emergency dice che ci sono ospedali e strutture mediche gestite da sole donne e c'è anche uno sforzo nella formazione del personale. Oggi – come ha detto anche Intersos, che continua a impiegare donne – il fatto di continuare a impiegare donne, di dare istruzione secondaria alle donne, che conseguenze può avere sulle donne stesse rispetto ai rapporti con le autorità locali? Se si sa che una donna lavora, nonostante ci sia il divieto, questo non vuol dire esporre le donne a possibili rischi? Se sì, come si può arginare questo pericolo?
Noi sappiamo che le donne non possono studiare, ma allora come fa Emergency a fare la formazione? Magari si è trovato un accordo con le autorità locali per poterla fare?
Un'altra domanda è sugli aiuti: vorrei capire come arrivano gli aiuti, sia quelli di emergenza sia quelli allo sviluppo, la differenza del meccanismo. Quanto sono oggi adeguati gli aiuti? Ci sono gli appelli delle Nazioni Unite, che tipo di risposta c'è stata dalla Comunità internazionale? Qual è lo scenario per il prossimo inverno in Afghanistan? Le Nazioni Unite hanno fatto una previsione rispetto ai bisogni e all'impatto che la mancanza di fondi potrebbe avere sulla popolazione vulnerabile?
Do la parola ai nostri ospiti per le repliche.
ROSSELLA MICCIO, rappresentante di Emergency, intervento in videoconferenza. Provo a dare un po' di accenni. Parto dalla nostra esperienza diretta relativa alle donne: noi abbiamo visto che ad agosto del 2021 c'è stato questo momento di panico ,in cui molte delle nostre colleghe avevano paura ad uscire di casa, a venire a lavorare. Pag. 12Questa cosa però è durata poche settimane, due o tre, non di più.
Nonostante per la prima volta i talebani siano entrati in zone del Paese, come la valle del Panshir, dove non erano mai entrati, siamo riusciti a tenere aperte tutte le attività e a garantire che le donne riuscissero a venire a lavorare, anche viaggiando. Molte delle nostre colleghe non vivono in Panshir, ma vivono nella zona di Kabul o nella zona di Kapisa eccetera; noi garantiamo il trasporto con i mezzi di trasporto nostri. Credo che la presenza delle organizzazioni internazionali, di staff internazionale, sia anche una tutela per queste donne.
Il dialogo, purtroppo o per fortuna, con il Ministero della Sanità, con cui ci dobbiamo interfacciare sia a livello centrale sia a livello delle province, è continuo ed è fondamentale, perché, alla fine, sono loro che devono anche mettere in grado noi e i colleghi e le colleghe afgane di poter garantire nella pratica quei diritti alla cura che vi dicevo prima, a causa proprio della totale dipendenza del Paese da aiuti stranieri, che vengono poi meno.
Con questo dialogo estremamente pragmatico – prima Giuliano Battiston parlava dei piccoli passi – siamo riusciti a garantire che tutte le colleghe potessero venire in ospedale, che nuove colleghe – ostetriche, ginecologhe, e anche queste altre due dottoresse che si erano laureate un paio d'anni fa in medicina – potessero entrare in scuole di specializzazione. Ovviamente, questo ci aiuta poi a spingere affinché anche ad altre donne venga garantita la possibilità di studiare oltre le scuole primarie e di poter accedere all'educazione universitaria e specialistica.
Il mondo dei talebani, almeno per come lo vediamo noi, è un mondo molto variegato. Sono tantissimi quelli che si rendono conto della non sostenibilità della chiusura totale rispetto alla all'educazione delle donne, banalmente, non foss'altro perché hanno bisogno di donne per poter curare le proprie donne, perché altrimenti non lo potrebbero fare. Questa cosa è uno strumento, è una leva che si può utilizzare ed è quello che noi stiamo facendo da sempre, ancora di più oggi.
L'altra cosa che volevo sottolineare era rispetto al tema aiuti umanitari, aiuti allo sviluppo eccetera. In realtà, quello che noi stiamo vedendo, per esempio oggi – nel nostro caso, nello specifico – è questo shift della comunità internazionale con un focus molto molto limitato su un'accezione di aiuti umanitari veramente sul basic-basic, che anche qui non è sostenibile se vogliamo riuscire a dare una speranza di garanzia dei diritti che sono i diritti delle donne, ma sono i diritti di tutta la popolazione; il diritto alle cure credo che sia un diritto primario, noi ce l'abbiamo nella Costituzione, quindi a maggior ragione dovremmo riconoscerlo. Però, per esempio, ti viene detto che le attività chirurgiche non possono essere più finanziate dai donatori internazionali perché non sono considerate cure umanitarie. Invece, noi sappiamo benissimo che un qualsiasi sistema sanitario, anche di base, non può prescindere da quel tipo di accesso alle cure. Basterebbe ragionare insieme – Comunità internazionale, organizzazioni internazionali e anche della società civile afgana, che pure ci sono e sono rimaste nel Paese – per poter capire come veicolare questo aiuto senza far sì che questo si trasformi poi in un riconoscimento delle autorità talebane.
Serve, però, la volontà politica di farlo, e questa volontà deve essere una volontà univoca della Comunità internazionale. Altrimenti, il rischio è che ci sia sempre di più un'estremizzazione di quella componente importantissima dei talebani che continua a negare qualsiasi necessità di dialogo con l'Occidente e poi, nella pratica, a negare i diritti delle categorie più vulnerabili.
Grazie.
GIOVANNI VISONE, rappresentante di Intersos. Grazie per le domande molto pertinenti e gli ottimi spunti. Provo a rispondere su tre punti. Intanto, una riaffermazione, una rassicurazione che non esisterebbe la nostra presenza umanitaria in Afghanistan se non esistesse la risposta umanitaria basata sui princìpi di indipendenza e imparzialità, fin dall'assessment, dall'analisi dei bisogni, che viene svolta in Pag. 13maniera indipendente dalle organizzazioni umanitarie. Poi, per chi conosce l'azione umanitaria – la presidente la conosce molto bene –, l'indipendenza è un punto fermo; poi, ovviamente, c'è la negoziazione quotidiana dell'accesso e delle condizioni per far sì che quei dati emersi da un'analisi indipendente si affermino, ma anche lì per noi c'è una chiara linea rossa.
È chiaro che noi lavoriamo perché si affermino e non possiamo fare un passo indietro rispetto ai livelli essenziali di imparzialità ed indipendenza nell'approccio alla popolazione.
L'altro punto è quello sull'engagement, che è la parola inglese che forse in italiano si traduce con «confronto attivo» e che forse spiega meglio la nostra attuale relazione quotidiana con le autorità talebane ai vari livelli, perché poi non esistono solo i livelli governativi, esistono anche i livelli locali. Ed è spesso sui livelli locali che noi creiamo le condizioni per lavorare.
Faccio un accenno anche su un settore fondamentale dell'azione umanitaria come quello della protection, che ovviamente ha bisogno, una volta individuati i bisogni, di negoziazione quotidiana e riaffermazione quotidiana di alcuni princìpi, ma in cui noi continuiamo ad assistere donne sopravvissute al rischio di violenza di genere, senza negare ovviamente l'esistenza di un fenomeno di questo tipo nel Paese; d'altronde, sarebbe difficile negarlo in qualsiasi Paese.
La parola engagement è importante perché questo engagement oggi non è impossibile: anche nel caso delle colleghe donne che sono state colpite dal divieto, dal ban dello scorso anno, l'engagement ed i successivi accordi con altri livelli delle autorità afgane, come ricordava la presidente Miccio, hanno consentito il proseguimento del loro lavoro senza che per quelle colleghe ci sia alcun rischio, perché ovviamente noi non metteremmo mai a rischio le nostre colleghe, anzi, dando una possibilità di protagonismo che in qualche modo rafforza il ruolo e la presenza delle donne nel Paese.
L'ultimo punto riguarda il livello di finanziamento del Piano di risposta umanitaria che, secondo gli ultimi dati dell'Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite (OCHA), per quest'anno è al 22,8 per cento; su 3 miliardi parliamo di 600 milioni; ed è probabilmente il record negativo mai registrato. Questo è poi il segno numerico e materiale del disimpegno di fronte al quale io non parlerei di dilemma, ma cercherei di andare oltre il dilemma e parlerei di diversi livelli. C'è un bisogno urgente, essenziale e un dovere morale di garantire la sopravvivenza della popolazione, perché quello che Lei ricordava – i bambini che morivano di freddo – è la realtà attuale dell'Afghanistan. È la realtà attuale di famiglie che all'inizio dell'inverno ci dicono: «sappiamo che uno dei nostri figli non arriverà alla primavera». È qualcosa che non possiamo accettare. Quindi, più che di dilemma parlerei di diversi livelli di quel engagement. Per questo facevo questo richiamo prima: l'aiuto umanitario non può essere condizionato, perché rappresenta il livello minimo di sopravvivenza della popolazione.
Sugli aiuti allo sviluppo, che devono riprendere, ovviamente bisogna trovare le forme perché essi siano il più possibile efficaci, indipendenti e diretti ai bisogni reali della popolazione. Anche di fronte a questa sfida non è girando lo sguardo dall'altra parte che diamo una risposta. La sfida è assolutamente sul tavolo; anzi, l'impegno a dare una risposta è stato rinviato anche troppo a lungo.
Grazie.
ANTONIO DONINI, rappresentante di United against Inhumanity, intervento in videoconferenza. Aggiungo una nota a quello che ha detto Giovanni Visone adesso. Ho visto ieri i dati del Programma alimentare mondiale che dicevano che loro hanno soldi e risorse alimentari per 1 milione di persone fino alla fine dell'anno quando i bisogni sono di 12 milioni. La crisi c'è, continua e si approfondisce.
L'idea che la ricapitalizzazione della DAB potrebbe aiutare l'economia è anche dovuta al fatto che, per il momento, per le imprese afgane, se uno vuole vendere tappeti o comprare computer dalla Germania non lo può fare perché le banche internazionali non permettono di fare transazioni. La ricapitalizzazione servirebbe anche a Pag. 14dare un boost all'economia. Questo era il primo punto.
Il secondo è sugli aiuti allo sviluppo. Ci sono aiuti di vario tipo: chi ha lavorato in Afghanistan sa benissimo che bisogna confrontarsi con le autorità locali quando si cerca di fare delle attività nel sociale e di piccolo sviluppo.
Le ONG e le Nazioni Unite hanno una grossissima esperienza, cumulata durante gli ultimi trent'anni, su come fare questo lavoro. La presidente Boldrini lo sa benissimo; questo è un livello; l'altro livello dove le cose si stanno muovendo un pochino è il livello della Banca mondiale e della ADB (Asian Development Bank), che stanno piano piano vedendo come potrebbero rilanciare, sulla base di accordi che in pratica evitano il confronto diretto con le autorità, dei progetti che erano già in corso prima del 2021. Dunque, c'è uno spiraglio, uno spiraglio che riconosce anche che i talebani, nella gestione dell'economia, sono stati molto meno corrotti e abbastanza efficaci in un certo senso, per esempio per raccogliere i dazi alle frontiere, che entrano nel bilancio dello Stato. Chiaramente il livello del bilancio è del 10 per cento di quello che era prima del 2021, però ci sono degli sprazzi che permetterebbero di fare dei passi anche sul livello più macroeconomico. Ovviamente, ci sono in attesa i cinesi che vogliono rimettere in moto l'enorme miniera di rame nel sud dell'Afghanistan. La Russia ha i Paesi della regione che sono pronti a investire. Dunque, c'è anche lì un calcolo da fare da parte dei Paesi occidentali se vogliono tagliarsi fuori dall'Afghanistan e spingerlo ancora di più verso questi Paesi limitrofi che sono autoritari, illiberali e che non sono particolarmente preoccupati per la situazione delle bambine e delle donne.
L'ultimo punto è sull'idea che gli aiuti allo sviluppo potrebbero rafforzare il regime: è chiaro che i talebani cercano di ritornare nei circuiti internazionali. Secondo me, ci sono delle responsabilità che noi abbiamo come operatori umanitari o come agenzie di advocacy per far capire quali sono le dinamiche in corso. Si è detto: «Voi volete scongelare i fondi della Banca centrale, aumentare gli aiuti allo sviluppo. Questo che conseguenze avrà?». Le conseguenze non le sappiamo, però sappiamo le conseguenze di non farlo. Come diceva prima Giuliano, se ci impuntiamo sulla questione dei diritti delle donne dobbiamo anche parlare dei diritti della popolazione in generale, se viene tagliata fuori dall'aiuto.
Come diceva un mio amico, forse è meglio, anziché sbattere la porta in faccia ai talebani, mettere un piedino nella porta, così per lasciar passare un po' di aria e lasciar passare la possibilità di fare dei piccoli passi.
Io ero il capo di OCHA in Afghanistan durante il primo periodo dei talebani e so bene come era difficile negoziare con loro. So bene anche che in certi casi è facile o possibile arrivare a delle conclusioni, perché i talebani sono un movimento abbastanza variegato; hanno un'unità di facciata, però dentro, soprattutto a livello locale, ci sono molte sfumature di grigio con le quali si può lavorare. Dunque, non dobbiamo sbattere la porta, ma aprirla un pochino e lasciar passare questo spiraglio per il futuro. Grazie.
GIULIANO BATTISTON, rappresentante di Afgana. Molto è stato detto, quindi chiudo brevemente. Gli aiuti umanitari sono troppo pochi e anche se ci fossero non sarebbero sufficienti, perché il Paese affronta troppe crisi. Quelli allo sviluppo sono indispensabili, a meno che noi non desideriamo che il Paese diventi uno Stato fallito del tutto, a meno che non ci auguriamo un progressivo cedimento delle Istituzioni, che provocherebbe una ulteriore crisi umanitaria, a meno che non ci auguriamo che ci sia un nuovo conflitto per spodestare militarmente i talebani. Le autorità di fatto ci sono, e sono destinate a restare ancora per un po' al potere; non ci piacciono, e pure di questo va preso atto.
Ci sono due ipotesi: una è quella di un impegno difficile, diplomaticamente molto difficile, ma possibile, di una diplomazia dei piccoli passi. L'altra, invece, è l'idea di chiudere completamente le porte e consegnare il Paese del tutto nelle mani delle autorità di fatto, immaginando che questa chiusura possa cambiare le loro politiche. Pag. 15Noi riteniamo di no, che il muro contro muro non faccia che aggravare la situazione già difficile della popolazione, che girarsi dall'altra parte sia una vera e propria abdicazione di responsabilità politica e morale e che quindi occorra una maggiore presenza, anche diplomatica, sebbene sia particolarmente difficile.
Grazie.
PRESIDENTE. Vi ringrazio per la qualità di questi interventi. Sono stati tutti molto approfonditi, esaustivi. Ci hanno restituito una situazione che non può essere trascurata, come temo sia stata finora. Questo è anche un imperativo etico di non ignorare quello che succede alla popolazione alla vigilia di quello che sarà un altro duro inverno.
Vedremo se riusciremo a fare magari un'interrogazione al nostro Governo in cui chiediamo di chiarire la posizione dell'Italia rispetto all'Afghanistan e anche di fornirci dati che oggi, da quanto capisco, non sono facilmente reperibili. Alla luce di quanto ascoltato oggi in questa audizione, chiediamo di evitare che ci sia un ulteriore aggravamento della situazione umanitaria da qui ai prossimi tempi, vista la vulnerabilità di gran parte della popolazione. Questo lo faremo. Grazie alle vostre testimonianze faremo questa interrogazione in cui chiederemo al Governo di sviluppare i punti che ci sono stati dati, i punti in cui si chiede esplicitamente all'Italia di farsi portavoce di queste esigenze e capofila per una riconsiderazione del tema che si diceva sulla Banca centrale afgana, che sicuramente non è secondario, perché se non ci sono transazioni possibili, non c'è economia possibile, non c'è vita. Questo senz'altro.
Vi ringrazio molto. Faremo questa interrogazione. Magari poi vi farò sapere e cerchiamo di non dimenticarci di questo bellissimo Paese, che negli ultimi decenni, purtroppo, non ha mai avuto un momento di serenità e di crescita.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 12.45.