XIX LEGISLATURA
CAMERA DEI DEPUTATI
N. 2067
PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
FRATOIANNI, CONTE, BONELLI, SCHLEIN, BRAGA, FRANCESCO SILVESTRI, ZANELLA, SCOTTO, BARZOTTI, MARI, AIELLO, CAROTENUTO, FOSSI, GRIBAUDO, LAUS, SARRACINO, TUCCI, ORLANDO, GUERRA, GRIMALDI
Disposizioni per favorire la stipulazione di contratti volti alla riduzione dell'orario di lavoro
Presentata il 1° ottobre 2024
Onorevoli Colleghi! — Tutta la vicenda contemporanea del tempo di lavoro è legata a doppio filo alla storia delle innovazioni tecnologiche, che hanno comportato soprattutto modifiche dell'organizzazione del lavoro: dal mondo artigiano alla manifattura, dalla manifattura alla fabbrica Taylor-fordista, dal fordismo all'organizzazione flessibile e da ultimo agli «algoritmi».
Come ha osservato il professor Domenico De Masi nei suoi studi, l'uomo ha sempre cercato strumenti per ridurre i suoi sforzi: dalle mani, agli animali, agli schiavi, agli utensili, alla meccanica, all'elettronica, al digitale e all'intelligenza artificiale. Da sempre, lo scopo principale è lavorare meno. Tuttavia, spesso le innovazioni tecnologiche causano, da un lato, fasi di disoccupazione e, dall'altro, fasi caratterizzate da un incremento del lavoro derivante dall'obiettivo di chi possiede le nuove tecnologie di produrre di più.
Ogni passo in avanti per la riduzione del lavoro è stato il frutto della mobilitazione dei lavoratori e si può dire che, dalla fine dell'Ottocento agli anni '80 del Novecento, si sia fatta strada una sorta di convergenza fra il movimento operaio (e in generale tutti i lavoratori e le lavoratrici) che chiede una riduzione dell'orario lavorativo e un aumento del salario, e le imprese, che vogliono la libertà di sperimentare e di applicare le innovazioni tecnologiche, promettendo che la modernizzazione porterà con sé maggiore benessere, più ricchezza e minore fatica per tutti.
La data del 1° maggio, che rappresenta la ricorrenza più significativa del movimento operaio internazionale, inserita tra le festività celebrate in tutto il pianeta, nasce da uno sciopero volto a rivendicare la giornata lavorativa di otto ore: è il 1° maggio 1886 quando a Chicago gli scioperanti sono attaccati senza preavviso dalla polizia, che lascia a terra due morti e molti feriti e al presidio del giorno, dopo l'esplosione di un ordigno, apre il fuoco sulla folla, ferendo dozzine di persone e uccidendone undici.
In Italia, alla fine dell'Ottocento nelle filande le operaie lavorano in media 16 ore al giorno. Ci vorrà una legge del 1899 per fissare un massimo di 12 ore. Nel 1919 viene siglato dalla Federazione impiegati operai metallurgici (FIOM) l'accordo sindacale per le 48 ore di lavoro settimanale, in cui è accolta la storica rivendicazione del movimento operaio della giornata lavorativa di 8 ore. Nel 1923, con un decreto, le 48 ore diventano «l'orario legale» per tutti.
Negli anni '30, con la disoccupazione di massa causata della crisi del 1929, vi sono spinte anche dal settore delle imprese per ridurre ulteriormente gli orari di lavoro, tanto che l'allora senatore del Regno Giovanni Agnelli propone la settimana lavorativa di 32 o di 36 ore.
I rinnovi contrattuali del biennio 1962- 1963 segnano in Italia il culmine della ripresa delle lotte operaie negli anni del «miracolo economico» e siglano una riduzione dell'orario settimanale a 44 ore in quasi tutte le categorie. Successivamente, con l'espansione degli anni '60 e le lotte dei lavoratori, fra il 1967 e il 1970 vengono riconosciuti quasi in tutta Europa il sabato festivo, un aumento delle ferie retribuite e le 40 ore di lavoro settimanale. Il monte lavorativo annuo passa da 2.400 a 1.800 ore pro capite.
Come aveva messo in evidenza l'illustre economista Adam Smith, l'aumento della produttività permette di produrre la stessa quantità di prodotto con una minore quantità di mano d'opera. Tale evoluzione ha permesso di porre le basi materiali per la riduzione dell'orario di lavoro e per l'aumento dei salari reali. Ciò è quanto successo, seppur con oscillazioni significative, fino agli anni '70 e in particolare nel breve periodo che va dal secondo dopoguerra alla crisi del petrolio del 1973. A partire da questo momento la relazione fra incremento del prodotto per occupato e aumenti salariali entra in crisi.
Così, anche la parola della riduzione dei tempi di lavoro comincia a cambiare: la tristemente nota «marcia dei 40.000» quadri e impiegati della Fabbrica Italiana Automobili Torino (FIAT) del 14 ottobre 1980 segna la frattura dell'unità fra i salariati del ceto medio e gli operai. Per tutti gli anni '80 e '90 gli orari contrattuali rimangono stabili (nel «pacchetto Treu» del 1997 l'orario è fissato a 40 ore settimanali), tuttavia si avvia un processo regressivo. Aumentano gli orari di fatto, i tempi di lavoro si intensificano e molte attività vengono esternalizzate, finché si avvia una riorganizzazione complessiva degli orari, con la famosa «flessibilità»: i turni si diversificano e si estendono, si diffondono il lavoro festivo e notturno e le imprese cominciano a gestire unilateralmente l'orario di lavoro individuale.
La storia dei diritti dei lavoratori in Italia diventa una parabola discendente. Dal culmine raggiunto con il cosiddetto «statuto dei lavoratori» (legge 20 maggio 1970, n. 300) si è andati man mano perdendo diritti. L'Italia da decenni insegue il miraggio della flessibilità che ha portato a una quasi stagnazione dell'economia: dal cosiddetto «pacchetto Treu» (legge 24 giugno 1997, n. 196) alla cosiddetta «legge Biagi» (legge 14 febbraio 2003, n. 30), dalla discussione sull'articolo 18 della legge n. 300 del 1970 fino al «jobs act» (legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Ecco, dunque, che arriviamo alla situazione attuale: se ci concentriamo sull'aumento dei salari osserviamo che in Italia dal 1990 al 2017 il prodotto per lavoratore è aumentato del 18 per cento, mentre le retribuzioni reali medie sono aumentate meno del 3 per cento. Il dato aggiornato dal 1990 al 2020 evidenzia una diminuzione del 2,9 per cento delle retribuzioni reali a cui va aggiunto l'elevato tasso di inflazione riscontrato nel 2021, nel 2022 e nel 2023. Le somme derivanti da questa enorme differenza sono finite «nelle tasche» di chi non vive del proprio salario, cioè i detentori di capitale. In altre parole, i lavoratori percepiscono, sotto forma di salario, meno del valore di quanto producono.
La parabola della riduzione dei salari, invocata per aumentare la competitività, corre in parallelo a quella dell'aumento degli orari. Inoltre, con l'innalzamento dell'età pensionabile aumentano le ore lavorate nell'arco della vita. Aumenta anche l'intensità delle prestazioni richieste nella stessa unità di tempo. L'innovazione tecnologica nei processi produttivi riduce il tempo di lavoro necessario per unità di prodotto, ma non determina il calo dell'orario individuale: ne conseguono solo esuberi di personale, quindi un aumento della disoccupazione e maggiori profitti che alimentano un'economia sempre più finanziarizzata.
Il dato delle ore lavorate in Italia è ben al di sopra di quello dei Paesi con il PIL pro capite più alto. Mentre in Germania si lavora, in media, 1.356 ore all'anno, in Italia questa cifra è di 1.723 ore. Secondo gli ultimi dati elaborati dall'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, l'Italia, subito dopo la Grecia e l'Estonia, è il Paese dell'eurozona dove si lavora per il più elevato numero di ore settimanali (circa 33), ossia 3 ore in più rispetto alla media (di 30 ore), addirittura 7 in più rispetto alla Germania, dove l'orario è già attualmente ridotto ai minimi termini (26 ore a settimana). Seguono i Paesi Bassi (28 ore) e il Granducato del Lussemburgo, l'Austria e la Francia (tutti con 29 ore di lavoro settimanali). In perfetta corrispondenza con la media – con 30 ore di lavoro settimanali – sono la Finlandia e il Belgio. Una fotografia che mostra una situazione ben diversa da quella spesso descritta dalla retorica dominante, che descrive i lavoratori del sud Europa come «scansafatiche».
Tuttavia, a ben guardare, più che un aumento generalizzato vi è una polarizzazione marcata dei tempi di lavoro. Da un lato, lavoratori a tempo pieno il cui orario di lavoro spesso si allunga al di là delle 40 ore settimanali. Dall'altro, l'esercito crescente dei lavoratori part-time. La retorica dominante associa agli impieghi part-time la possibilità di disporre di una maggiore quantità di tempo libero. Tuttavia, questa interpretazione si scontra con la realtà di un tessuto lavorativo caratterizzato da bassi salari. Circa il 54,8 per cento dei lavoratori part-time italiani preferirebbe un impiego a tempo pieno (fonte dell'Ufficio statistico dell'Unione europea), ma non ha un'altra alternativa (la media europea è del 25 per cento). E numerose evidenze, a partire dal rapporto annuale dell'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) del 2024, indicano che la condizione di sottoccupazione legata al part-time involontario è causa di povertà lavorativa.
E qui occorre sottolineare come proprio nel tempo di lavoro si individui una delle ragioni principali di una persistente disparità salariale uomo-donna. Insomma, l'occupazione part-time è una questione prevalentemente femminile: dai dati del Forum diseguaglianze e diversità del 2024, nel 61,5 per cento delle imprese le persone occupate part-time sono costituite quasi esclusivamente da donne. Come ha analizzato Claudia Goldin, quando i salari sono connessi essenzialmente al tempo impiegato nel lavoro, è la donna lavoratrice a rinunciare a un maggior numero di ore di lavoro. Questo anche perché, con la migrazione del lavoro delle donne da settori un tempo ritenuti «femminili» verso realtà produttive a forte caratterizzazione maschile, il maggior attaccamento degli uomini alla realtà produttiva «senza orario» penalizza, sul piano economico, le donne che rinunciano a ore lavorate per dedicarsi alla dimensione familiare.
E l'iniqua distribuzione del lavoro assume anche caratteristiche generazionali: come rileva lo studio del 2023 «La generazione della policrisi» a cura della rivista «Il Mulino», in Italia, nella fascia tra i 25 e i 29 anni, a essere occupate sono 2 persone su 3, il valore più basso di tutta l'Unione europea; oltre un terzo dei giovani arriva a 30 anni senza un impiego stabile e «con il timore di trovarsi nel pieno dell'età adulta senza lavoro o con una occupazione precaria». Inoltre, la quota dei NEET – not in education, employment or training, ossia l'indicatore atto a individuare la quota di popolazione di età giovanile che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione – nella fascia di età 15-34 anni in Italia è la più alta d'Europa, superiore anche a quella della Grecia, circa 4 volte superiore a quella della Svezia, mentre i lavoratori anziani sono l'unica categoria in costante crescita occupazionale. Le giovani generazioni, le più colpite dalla precarietà, dall'abbassamento dei salari e della qualità del lavoro, hanno cominciato a percepirlo come totalizzante a fronte di scarse ricompense, come dimostra il fenomeno delle grandi dimissioni.
In ogni caso, il contenimento del costo del lavoro (il più significativo tra i Paesi dell'eurozona) non ha generato alcun beneficio sulla competitività delle imprese, in assenza di politiche della domanda che favorissero la crescita dei consumi e degli investimenti. Invece ha permesso alle imprese italiane di essere quelle con la quota di salari più bassa e la quota di profitti più alta in Europa (come rilevato da analisi ISTAT e confermato dallo Studio Ambrosetti). La conseguenza è stata quella di impedire la ripresa dell'economia nazionale, attraverso una riduzione degli investimenti e un sempre maggiore ricorso al lavoro precario e sotto-qualificato: il risultato è l'aumento del lavoro «povero», l'abbassamento dei salari, la segmentazione del mercato del lavoro, l'aumento dei fenomeni di sfruttamento intensivo e del tasso di disoccupazione.
In tale contesto di estrema difficoltà per le condizioni lavorative, si acuiscono fenomeni di sfruttamento intensivo, con il ricorso agli straordinari e la diffusione del cottimo in comparti produttivi in espansione, come ad esempio quello della logistica e della grande distribuzione. Ciò nonostante, in anni recenti si è addirittura giunti a incentivare gli straordinari – il decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126, li ha tassati ad aliquota fissa del 10 per cento – o a firmare accordi che prevedevano aumenti dell'orario, alimentando in piena crisi occupazionale un'ulteriore concentrazione del lavoro nelle mani di pochi.
In conclusione, oggi in Italia continuiamo a lavorare mediamente 40 ore alla settimana e abbiamo 6 milioni di disoccupati, fra cui 2 milioni di giovani, con effetti negativi anche per la finanza pubblica, in termini di spese per sussidi come la Nuova assicurazione sociale per l'impiego (Naspi) o la Cassa Integrazione nonché minori entrate dalle imposte sul reddito.
La pandemia di COVID-19 ha acuito e fatto esplodere questi fenomeni, ma al tempo stesso ha reso evidente, con il maggiore ricorso a forme di lavoro agile, come la sincronicità e la compresenza siano elementi non sempre essenziali alla prestazione lavorativa. I lunghi periodi di confinamento (lockdown), che molti hanno trascorso lavorando da casa, hanno dimostrato che è possibile essere produttivi e creativi in situazioni difficili e hanno portato a un ripensamento della struttura del lavoro. Allo stesso tempo, nuovi sistemi organizzativi e tecnologici stanno consentendo incrementi di produttività e riduzione della fatica del lavoro, nonché l'indubbia possibilità di rimodulare gli orari della prestazione lavorativa.
In Europa, molti Paesi sembrano aver compreso questa realtà, ma l'idea della settimana lavorativa di 4 giorni è nata prima dell'epidemia di COVID-19: il primo esperimento fu condotto nel 2015 e 2016 a Reykjavik, con il coinvolgimento di 2.500 lavoratori, che avevano lavorato per 4 giorni invece di cinque: un «successo travolgente», con una riduzione dei livelli di affaticamento dei lavoratori senza alcun impatto negativo sulla produttività. Da allora, l'86 per cento dei lavoratori islandesi ha optato per la settimana corta.
Dopo la pandemia di COVID-19, il modello ha cominciato a diffondersi. In Belgio, all'inizio del 2022 sono state accolte le richieste dei lavoratori, introducendo per gradi la settimana lavorativa corta a parità di ore, concentrate in 4 giorni invece che in 5. Sperimentazioni di settimana lavorativa corta sono in corso in Giappone dove, nel 2019, la società Microsoft ha concesso un giorno libero settimanale in più ai propri dipendenti, con il risultato che la produttività è aumentata del 40 per cento. In Portogallo, dal 5 giugno 2023 è in corso un progetto pilota in 46 aziende per la settimana lavorativa di 4 giorni. Dal dicembre 2022, in Spagna si sperimenta la settimana lavorativa di 4 giorni, secondo un progetto che si svilupperà in un arco di 3 anni e coinvolgerà circa 200 imprese di media grandezza. L'organizzazione del lavoro a orario ridotto si sta poi diffondendo in Francia, in Germania, nei Paesi Bassi, in Danimarca, in Norvegia e in Svizzera.
Dal mese di giugno 2022 per 6 mesi, in Gran Bretagna migliaia di dipendenti di 70 imprese di diverse dimensioni e settori hanno lavorato 4 giorni alla settimana, pur mantenendo lo stesso stipendio, per verificare l'effetto sulla produttività: 18 fra queste imprese hanno adottato la settimana corta come soluzione permanente.
Secondo l'analisi del Boston College, circa il 39 per cento dei dipendenti ha dichiarato di essersi sentito meno stressato e ha usufruito di meno giorni di malattia rispetto al passato; inoltre, il numero di dipendenti che ha lasciato l'azienda si è ridotto del 57 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
Anche in Italia, nonostante il difficile contesto, alcuni contratti aziendali stanno già prevedendo la possibilità di articolare la prestazione lavorativa su soli 4 giorni settimanali: si tratta soprattutto di grandi gruppi che si confrontano con modelli già affermati all'estero. La banca Intesa Sanpaolo è partita a gennaio del 2023 e da poco ha esteso la possibilità di sfruttare questa modalità di lavoro anche al comparto assicurativo. La multinazionale Mondelez International, che controlla i marchi Oro Saiwa, Oreo, Toblerone, Milka, Fattoria Osella, Sottilette e Philadelphia, ha scelto di seguire anche in Italia la linea seguita in Belgio, in Spagna e in altri Paesi europei, avviando la sperimentazione di 1 anno della settimana corta. Dal 1 ° luglio 2022, la Awin Italia, azienda di marketing digitale, ha introdotto la settimana corta di 4 giorni in tutte le sue sedi, a parità di salario. La società Tria spa, azienda che produce macchine per il riciclo della plastica, ha adottato la settimana corta a partire dal gennaio 2023. Analogamente, fra la fine del 2023 e l'inizio del 2024 Lamborghini e Luxottica hanno introdotto la settimana di 4 giorni a seguito di accordi sindacali favorevoli.
Secondo un sondaggio lanciato dall'Associazione italiana per la direzione del personale (Aidp) ai propri iscritti, il 53 per cento dei direttori del personale si dice favorevole all'introduzione della settimana corta (da 5 a 4 giorni lavorativi) mentre il restante 40 per cento si dichiara d'accordo solo parzialmente e solo il 6 per cento non è favorevole.
Il successo delle sperimentazioni e l'interesse crescente da parte delle aziende dimostra che la riduzione dell'orario sta diventando uno strumento desiderabile anche per le organizzazioni che lo promuovono, non solo per i lavoratori e le lavoratrici. In altri termini, uno strumento capace di ricreare le condizioni di quella convergenza di interessi fra lavoro e imprese da tempo perduta. Pertanto, occorre sostenere anche quelle realtà produttive – più piccole – che al momento non hanno da sole le forze per introdurre questo cambiamento.
Certo, ridurre la prestazione a parità di salario aumenta i costi variabili (salari e contributi) e quelli fissi (di assunzione, addestramento, licenziamento, per immobili e strumenti). Ma i primi possono essere mitigati con aumenti di produttività, incentivi pubblici, nuove misure organizzative; i secondi hanno un'incidenza bassa sul totale. In sostanza, l'aumento del costo del lavoro sarebbe compensato e superato da un aumento della sua produttività, oltre che da una riduzione del turnover e dei costi a esso correlati (nuove assunzioni, cessazioni, formazione interna del personale, e altro).
Pertanto, alla luce di tutte le presenti riflessioni e del contesto analizzato, ridurre gli orari e redistribuire il lavoro sarebbero buone idee, per molte ragioni:
a) perché esiste una correlazione tra diminuzione dell'orario di lavoro e aumento della qualità del lavoro e della produttività: i dati dell'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sulle ore lavorate smentiscono molti luoghi comuni e danno riscontro di come, oltre un certo limite, lavorare molte ore comporti una drastica riduzione della produttività, dovuta a una mancata programmazione e organizzazione condivisa del lavoro che, provocando una sorta di stanchezza fisiologica, si ripercuote inevitabilmente sul profitto aziendale;
b) perché c'è un rapporto chiaro fra orari ridotti e tassi di occupazione più elevati: gli occupati italiani lavorano più di quelli tedeschi, eppure un tasso di occupazione come quello tedesco comporterebbe in Italia 6 milioni di lavoratori in più; a quanto risulta da vari studi, il lavoro reso disponibile dalla riduzione degli orari si tradurrebbe per circa il 50 per cento in nuova occupazione;
c) perché la riduzione dell'orario di lavoro e l'aumento dell'occupazione sono entrambi fattori che comporterebbero una riduzione dello stress lavoro-correlato, che oggi è causa del 50-60 per cento delle giornate lavorative perse per malattia secondo l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro: da anni è accertata la crescita delle patologie legate all'iperlavoro, e ne sono noti i costi sociali ed economici; pertanto, i costi sostenuti per ridurre l'orario a parità di salario sarebbero compensati dal risparmio sistemico dovuto alla riduzione delle assenze per malattia o per congedi parentali, a cui si aggiungerebbe un risparmio sul cosiddetto assenteismo, la cui incidenza è correlata all'assenza di tempo libero, e sugli infortuni sul lavoro, anch'essi connessi alla dimensione dell'orario;
d) perché avrebbe un impatto positivo sull'esistenza individuale e sociale delle persone, liberando tempo ed energie per la vita privata, la partecipazione sociale e le relazioni;
e) perché potrebbe implicare una maggiore partecipazione dei lavoratori alle decisioni dell'impresa, affidando alla contrattazione collettiva uno spazio di iniziativa nell'organizzazione del lavoro a partire dal controllo sui tempi;
f) perché la riduzione degli orari a parità di salario e l'aumento dei posti di lavoro potrebbero portare a una concorrenza fra imprese maggiormente fondata sulla piena e buona occupazione, anziché sul contenimento dei costi produttivi;
g) perché l'aumento del tempo libero per lavoratrici e lavoratori porterebbe, come dimostrano i dati empirici, a un aumento di consumi legato ai settori della cultura e dell'intrattenimento, generando crescita e lavoro;
h) perché un aumento del numero delle persone occupate determinerebbe un aumento della domanda di beni e di servizi, con conseguente crescita dell'economia e creazione di ulteriori posti di lavoro;
i) perché la crescita di produttività potrebbe riequilibrare il rapporto fra profitti e salari, ossia fra capitale e lavoro (ciò significa, ovviamente, che la riduzione dell'orario deve avvenire a parità di salario);
l) perché giornate di lavoro più brevi per uomini e donne e la diffusione di una diversa concezione del lavoro potrebbero produrre un riequilibrio di genere, tramite una maggiore assunzione di responsabilità lavorative da parte delle donne e, viceversa, familiari da parte degli uomini;
m) perché la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario potrebbe costituire la base per ricostruire la fiducia delle giovani generazioni verso il lavoro e promuovere un nuovo «patto generazionale»: proprio sul terreno del mercato del lavoro, i giovani si stanno rendendo visibili attraverso pratiche di resistenza e di negoziazione, rivendicando una qualità del lavoro che consenta di tenere insieme le esigenze di realizzazione personale e la salvaguardia degli spazi di vita privata;
n) perché la riduzione dell'orario significa anche riduzione dell'impatto ambientale del lavoro: uscire dal modello del lavoro eccessivo (overwork) porrebbe un freno a consumi insostenibili (si pensi ai cibi confezionati e ai pasti pronti), mentre un maggior tempo di svago incentiverebbe modelli di consumo con minor impatto ambientale. Ma c'è di più: ove non sia possibile l'adozione di modalità agili di lavoro, per moltissimi lavoratori dipendenti meno giornate di lavoro sarebbero non solo un risparmio sui costi del carburante e del pendolarismo, ma anche un miglioramento della relativa impronta di carbonio (l'esperimento giapponese, portato avanti dalla società Microsoft nel 2019, ha consentito di diminuire di quasi un quarto i costi dell'energia elettrica); secondo uno studio condotto nel 2012 dalla Henley Business School, grazie alla settimana lavorativa di 4 giorni, i lavoratori dipendenti percorrerebbero circa 560 milioni di miglia (900 milioni di chilometri) in meno ogni settimana.
In conclusione, si tratta di riconoscere una tendenza in atto che, sulla scia di una svolta culturale e di approccio al lavoro, coinvolge e impegna lavoratori e lavoratrici, così come organizzazioni sindacali e aziende, verso la sperimentazione di nuove regole di organizzazione del lavoro, suscettibili di rappresentare il futuro della produttività sostenibile (nella sua accezione più ampia, ossia economica, sociale e ambientale).
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
(Finalità)
1. Al fine di facilitare la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, di promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro e di rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti i cittadini all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese, nonché di favorire, unitamente allo sviluppo tecnologico, l'aumento dell'occupazione e l'incremento della competitività delle imprese nonché la possibilità di aggiornamento delle competenze dei lavoratori, la presente legge favorisce la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali tra le imprese e le loro rappresentanze e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, volti alla definizione di modelli organizzativi che comportino una progressiva riduzione dell'orario normale di lavoro di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, fino a trentadue ore settimanali, a parità di salario, anche nella forma di turni distribuiti su quattro giorni settimanali, che siano accompagnati da investimenti nell'ambito della formazione e della innovazione tecnologica e ambientale.
2. I contratti collettivi di cui al comma 1 non possono prevedere clausole compensative della riduzione dell'orario di lavoro settimanale o giornaliero, tramite l'ampliamento dell'orario straordinario.
Art. 2.
(Misure di sostegno per la riduzione dell'orario di lavoro)
1. Nei trentasei mesi successivi alla data di entrata in vigore della presente legge, ai datori di lavoro privati, con esclusione del settore agricolo e del lavoro domestico, è concesso, con riferimento ai rapporti di lavoro dipendente ai quali si applicano i contratti collettivi di cui all'articolo 1, per la durata prevista dai medesimi contratti e in proporzione alla riduzione di orario di lavoro concordata, l'esonero dal versamento dei contributi a carico dei medesimi datori di lavoro in misura pari al 30 per cento dei complessivi contributi previdenziali, con esclusione dei premi e dei contributi spettanti all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Ai suddetti datori di lavoro privati delle piccole e medie imprese, identificate ai sensi della raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE, del 6 maggio 2003, l'esonero è riconosciuto nella misura del 50 per cento. Con riferimento ai contratti collettivi di cui all'articolo 1 relativi alle prestazioni lavorative individuate ai sensi del decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67, e delle professioni di cui all'allegato B annesso alla legge 27 dicembre 2017, n. 205, come definite ai sensi dell'allegato A al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 5 febbraio 2018, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2018, l'esonero contributivo è riconosciuto nella misura del 60 per cento.
2. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuati i criteri e le modalità di applicazione dell'agevolazione e di utilizzo delle risorse e per il rispetto del relativo limite di spesa.
Art. 3.
(Risorse finanziarie e ridenominazione del Fondo Nuove Competenze)
1. All'articolo 88, comma 1, secondo periodo, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, dopo le parole: «Fondo Nuove Competenze» sono inserite le seguenti: «, Riduzione dell'orario di lavoro e Nuove forme di prestazione lavorativa».
2. Al fine di sostenere la sottoscrizione dei contratti di cui all'articolo 1, la dotazione del Fondo di cui all'articolo 88 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, come modificato dal comma 1 del presente articolo, è incrementata di 50 milioni di euro per l'anno 2024 e di 275 milioni di euro per ciascuno degli anni 2025 e 2026.
Art. 4.
(Istituzione dell'Osservatorio nazionale sull'orario di lavoro)
1. Ai fini della presente legge, è istituito l'Osservatorio nazionale sull'orario di lavoro, con sede presso l'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche.
2. L'Osservatorio è presieduto da un rappresentante del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ed è composto da due esperti in materia di diritto del lavoro, da due esperti in materia di organizzazione aziendale nonché, in forma paritaria, da un numero complessivo di otto esponenti delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
3. L'Osservatorio ha il compito di:
a) monitorare le caratteristiche e gli effetti economici dei contratti collettivi di lavoro che prevedono riduzioni dell'orario di lavoro;
b) valutare l'efficacia dei sistemi formativi e di riqualificazione professionale adottati, con particolare riferimento allo sviluppo e all'applicazione di nuove tecnologie nelle imprese interessate che applicano i contratti di cui alla lettera a);
c) monitorare e valutare gli investimenti in nuove tecnologie messe in atto dalle imprese che applicano i contratti di cui alla lettera a).
4. L'Osservatorio predispone una relazione annuale sulla propria attività e la trasmette alle Camere entro il 31 dicembre di ciascuno anno. Al termine dell'applicazione delle misure di sostegno di cui all'articolo 3, la relazione indica anche le proposte di modifica della normativa in materia di orario di lavoro.
5. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono stabilite le modalità di funzionamento dell'Osservatorio.
6. L'Osservatorio si avvale delle strutture e delle risorse umane, strumentali e finanziarie del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e degli enti strumentali vigilati dal medesimo Ministero, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Art. 5.
(Referendum)
1. In mancanza della stipulazione dei contratti collettivi nazionali di cui all'articolo 1, per le medesime finalità, le rappresentanze sindacali territoriali aderenti alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, le loro rappresentanze aziendali o almeno il 20 per cento dei lavoratori dipendenti dell'impresa o dell'unità produttiva possono presentare una proposta di contratto per la riduzione dell'orario di lavoro, a parità di retribuzione, recante la determinazione delle modalità di applicazione. La proposta di contratto è portata a conoscenza di tutto il personale dipendente dell'impresa o dell'unità produttiva mediante una comunicazione aziendale ed è sottoposta, entro i successivi novanta giorni, all'approvazione del medesimo personale mediante referendum. Il referendum è svolto con la supervisione di un delegato dell'ente bilaterale competente per territorio, ove esistente, anche in un settore affine a quello in cui opera l'impresa interessata. La proposta di contratto si intende approvata se, all'esito del referendum, si è espressa favorevolmente la maggioranza dei dipendenti dell'impresa o dell'unità produttiva e, nel solo caso in cui la proposta sia stata presentata dal prescritto numero di lavoratori, se il datore di lavoro dichiara il proprio assenso entro trenta giorni dalla data di svolgimento del referendum. Nel caso di esito negativo del referendum, la proposta può essere ripresentata non prima di centottanta giorni.
Art. 6.
(Rideterminazione dell'orario normale di lavoro)
1. Al termine del periodo di applicazione delle misure di sostegno di cui all'articolo 3, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sulla base delle risultanze delle analisi e delle proposte formulate dall'Osservatorio di cui all'articolo 4, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, la durata dell'orario di lavoro normale di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, è rideterminata in misura minore. In tutti i settori in cui i contratti di cui all'articolo 1 abbiano interessato almeno il 20 per cento dei lavoratori, la rideterminazione dell'orario di lavoro normale è in ogni caso applicata in misura non inferiore al 10 per cento.
Art. 7.
(Disposizioni finanziarie)
1. Agli oneri derivanti dalla presente legge, pari a 50 milioni di euro per l'anno 2024 e a 275 milioni di euro per ciascuno degli anni 2025 e 2026, si provvede mediante corrispondente riduzione dell'autorizzazione di spesa relativa al Fondo di cui all'articolo 1, comma 200, della legge 23 dicembre 2014, n. 190.