Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
Titolo: | Il controllo di costituzionalità delle leggi |
Serie: | Rassegna costituzionale Numero: 2/Aprile - Giugno 2024 |
Data: | 02/08/2024 |
Organi della Camera: | I Affari costituzionali |
Il controllo di costituzionalità delle leggi
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RASSEGNA TRIMESTRALE
DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
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ANNO IV NUMERO 2 – APRILE-GIUGNO 2024
Servizio Studi
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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del secondo trimestre dell’anno 2024. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.
Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.
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I N D I C E
1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore........................................................................................
3
2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali...........
7
§
2.1 Tabella di sintesi (aprile – giugno 2024)..................................................
7
§
2.2 La sentenza n. 66 del 2024 in materia di diritti della coppia in caso di rettificazione di sesso, nel passaggio tra unione civile e matrimonio..........
13
§
2.3 La sentenza n. 77 del 2024 in tema di norme retroattive volte ad interferire su giudizi in corso.......................................................................
16
§
2.4 La sentenza n. 80 del 2024 in materia di natura tributaria dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco..........................................
21
§
2.5 La sentenza n. 85 del 2024 in materia di regime relativo alle telefonate con i figli minori per i condannati per reati di criminalità organizzata che abbiano accesso ai benefici penitenziari......................................................
24
§
2.6 La sentenza n. 90 del 2024 in materia di limitazioni all’obbligo restitutorio dell’anticipazione della NASpI..................................................
28
§
2.7 La sentenza n. 98 del 2024 in materia di inconferibilità di incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico esercitato da enti locali......................................................................................................
32
§
2.8 La sentenza n. 99 del 2024 in materia di trasferimento temporaneo del pubblico dipendente con prole inferiore a tre anni.......................................
37
§
2.9 La sentenza n. 105 del 2024 in materia di deroghe alla normativa ordinaria di tutela della salute e dell’ambiente, in relazione ad attività produttive di interesse strategico nazionale (c.d. decreto Priolo)................
40
§
2.10 La sentenza n. 107 del 2024 in materia di incompatibilità degli amministratori locali....................................................................................
45
§
2.11 La sentenza n. 111 del 2024 in materia di contributo straordinario contro il caro bollette....................................................................................
49
3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (aprile – giugno 2024)...............................................................................
54
§
3.1 La sentenza n. 59 del 2024 sull’attribuzione della qualifica di agenti contabili........................................................................................................
57
§
3.2 L’ordinanza n. 81 del 2024 in materia di revisione del sistema nazionale di riscossione, in attuazione della delega conferita al Governo...
59
4. Altre pronunce di interesse........................................................
61
§
4.1 La sentenza n. 65 del 2024 in materia di autodichia parlamentare........
61
§
4.2 La sentenza n. 112 del 2024 in materia di neutralizzazione a fini pensionistici del riscatto degli anni di laurea...............................................
64
La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).
Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.
La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza
di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In quest’ultimo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.
La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.
La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).
Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).
Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).
Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.
Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.
Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
Più di recente, la Corte ha utilizzato la tecnica decisoria dell'“incostituzionalità differita”: in questi casi, pur ritenendo una normativa comunque non conforme a Costituzione, la Corte omette di dichiararne l’incostituzionalità ai sensi dell’art. 136 Cost., e si limita a rinviare con ordinanza la trattazione della causa di un certo periodo, affinché il legislatore possa intervenire medio tempore per introdurre una disciplina conseguente al portato della pronuncia.
In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.
L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XIX è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).
Sentenza
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Norme dichiarate illegittime
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Parametro costituzionale
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Oggetto
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del 7 marzo – 8 aprile 2024
Camera Doc VII, n. 298
Senato Doc VII, n. 68
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art. 18, comma 12, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 (conv. L. n. 111/2011)
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost.
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Mancata previsione che gli ingegneri e gli architetti, non ancora iscritti alla Inarcassa, perchè contemporaneamente iscritti presso altra gestione previdenziale obbligatoria, ma comunque tenuti all’obbligo di iscrizione alla Gestione separata INPS, sono esonerati dal pagamento delle sanzioni civili per l’omessa iscrizione con riguardo al periodo anteriore all’entrata in vigore dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata
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del 5 marzo – 18 aprile 2024
Camera Doc VII, n. 302
Senato Doc VII, n. 69
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art. 9, co. 1, D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23
illegittimità parziale
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articoli 3, primo comma, e 53, primo comma, Cost.
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Mancata previsione dell’esonero dal pagamento dell’IMU per gli immobili occupati
abusivamente relativamente ai quali sia stata presentata una tempestiva denuncia in sede penale
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del 22 febbraio – 22 aprile 2024
Camera Doc VII, n. 307
Senato Doc VII, n. 70
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art. 1, co. 26, L. 20 maggio 2016, n. 76
illegittimità parziale
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articolo 2 Cost.
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Mancata previsione della sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento dell’unione civile fino alla celebrazione del matrimonio per i componenti dell’unione che abbiano manifestato personalmente e congiuntamente al giudice, nel corso del giudizio per rettificazione di sesso, l’intenzione di contrarre matrimonio, successivamente alla rettificazione di sesso
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del 19 marzo – 30 aprile 2024
Camera Doc VII, n. 315
Senato Doc VII, n. 71
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art. 54, co. 1, D.Lgs. 30 ottobre 1992, n. 443
illegittimità parziale
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articoli 3 e 97 Cost.
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Mancata previsione dell’allineamento della decorrenza giuridica della qualifica di vice sovrintendente promosso per merito straordinario a quella più favorevole riconosciuta al personale che ha conseguito la medesima qualifica all’esito della selezione o del concorso successivi alla data del verificarsi del fatto
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del 7 marzo – 6 maggio 2024
Camera Doc VII, n. 317 Senato Doc VII, n. 72
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art. 36, co. 1 e 2, L. 27 dicembre 1997, n. 449
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articoli 3, 111 e 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 6 CEDU)
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Introduzione di una norma a efficacia retroattiva, che ha inciso su giudizi di cui era parte l’amministrazione pubblica, al precipuo fine di vanificarne o, comunque, condizionarne l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori
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del 16 aprile – 9 maggio 2024
Camera Doc VII, n. 318 Senato Doc VII, n. 73
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art. 39-bis, D.L. 1° ottobre 2007, n. 159 (conv. L. 222/2007)
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost.
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Illegittimità della previsione secondo la quale le disposizioni «in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco si interpretano nel senso che dalle stesse non sorgono obbligazioni di natura tributaria
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del 16 aprile – 13 maggio 2024
Camera Doc VII, n. 322 Senato Doc VII, n. 74
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art. 2-quinquies, co. 1, D.L.30 aprile 2020, n. 28 (conv. L. n. 70/2020)
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost.
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Irragionevolezza di un regime più restrittivo rispetto a quello ordinario, in relazione alle telefonate con i propri figli minori a carico, per i condannati per reati di criminalità “ostativi” che abbiano comunque accesso ai benefici penitenziari in quanto hanno dimostrato la rottura di collegamenti con l’organizzazione criminale
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del 16 aprile – 13 maggio 2024
Camera Doc VII, n. 323 Senato Doc VII, n. 75
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art. 628, secondo comma, c.p.
illegittimità parziale
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articoli 3 e 27, primo e terzo comma, Cost.
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Mancata previsione della attenuante delle lieve entità del fatto anche per il reato di rapina
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del 10 aprile – 20 maggio 2024
Camera Doc VII, n. 327
Senato Doc VII, n. 76
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art. 8, co. 4, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22
illegittimità parziale
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articoli 3 e 4, primo comma, Cost.
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Limitazione dell’obbligo di restituire l’anticipazione della Nuova
assicurazione sociale per l’impiego (NASpI) nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguire, per
causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale
l’anticipazione gli è stata erogata
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del 16 aprile – 20 maggio 2024
Camera Doc VII, n. 328 Senato Doc VII, n. 77
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art. 600-ter, primo comma, n. 1), c.p.
illegittimità parziale
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articoli 3 e 27, primo e terzo comma, Cost.
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Mancata previsione per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto, di una attenuante per i casi di minore gravità
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del 5 marzo – 23 maggio 2024
Camera Doc VII, n. 329 Senato Doc VII, n. 78
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art. 34, co. 2, c.p.p.
illegittimità parziale
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articolo 111, secondo comma, Cost.
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Mancata previsione dell’incompatibilità, a decidere sull’opposizione all’archiviazione per particolare tenuità del fatto, del giudice persona fisica che abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna, ritenendo sussistere la suddetta causa di esclusione della punibilità
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del 5 marzo – 4 giugno 2024
Camera Doc VII, n. 333
Senato Doc VII, n. 79
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artt. 1, co. 2, lett. f), e 7, co. 2, lett. d), D.Lgs. 8 aprile 2013, n. 39
illegittimità parziale
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articolo 76 Cost.
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Illegittimità, per contrasto con le disposizioni di delega, del divieto di conferire incarichi di amministratore di enti privati, sottoposti a controllo pubblico da parte degli enti locali, a coloro i quali nell’anno precedente abbiano svolto analoghi incarichi presso altri enti della stessa natura
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del 16 aprile – 4 giugno 2024
Camera Doc VII, n. 334 Senato Doc VII, n. 80
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art. 42?bis, co. 1, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost.
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Mancata previsione che il trasferimento temporaneo del dipendente pubblico, con figli minori fino a tre anni di età, possa essere disposto, oltre che «ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore eserciti la propria attività lavorativa», anche in una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale è fissata la residenza della famiglia.
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del 7 maggio – 13 giugno 2024
Camera Doc VII, n. 338
Senato Doc VII, n. 81
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art. 104-bis, co.1-bis.1, quinto periodo, norme att. cod. proc. pen.,
illegittimità parziale
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articoli 9, 32 e 41, secondo comma, Cost.
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Mancata previsione di un termine finale per l’operatività del meccanismo normativo che autorizza il Governo, in caso di sequestro di impianti necessari ad assicurare la continuità produttiva di stabilimenti di interesse strategico nazionale, ad adottare “misure di bilanciamento” che consentano di salvaguardare la salute e l’ambiente senza sacrificare gli interessi economici nazionale e la salvaguardia dell’occupazione, privando indefinitamente il giudice del sequestro di ogni potere di valutazione sull’adeguatezza delle misure medesime rispetto alla tutela dell’ambiente e della salute pubblica
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del 20 marzo – 18 giugno 2024
Camera Doc VII, n. 337
Senato Doc VII, n. 82
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art. 64, co. 4, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL)
illegittimità parziale
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articolo 51 Cost.
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Illegittimità della incompatibilità per gli affini entro il terzo grado del sindaco, o del presidente della Giunta provinciale, a far parte della relativa Giunta, e a essere nominati rappresentanti del comune o della provincia, ove il rapporto di coniugio dal quale il vincolo di affinità è stato determinato sia cessato
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del 4 – 27 giugno 2024
Camera Doc VII, n. Senato Doc VII, n. 83
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art. 37, co. 3, D.L. 21 marzo 2022, n. 21 (conv. L. n. 51/2022)
art. 1, co. 120, L. 29 dicembre 2022, n. 197
illegittimità parziale
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articoli 3 e 53 Cost.
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Previsione dell’inclusione nella base imponibile del contributo straordinario di solidarietà del 2022 a carico delle imprese energetiche, delle accise versate allo Stato
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La Consulta, con la sentenza n. 66 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 comma 26 della legge n. 76 del 2016 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell’unione civile, senza prevedere la sospensione degli effetti dello scioglimento, nel caso in cui le parti della disciolta unione civile manifestino la volontà di contrarre matrimonio, fino alla celebrazione del matrimonio stesso. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 70-octies, comma 5 del d.P.R. n. 396 del 2000
[1]
, nella parte in cui non prevede che l’ufficiale dello stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di sesso, proceda ad annotare, se disposta dal giudice, la predetta sospensione.
Giudice a quo nella vicenda oggetto della pronuncia è il Tribunale di Torino, il quale, nel corso di un giudizio introdotto per la rettifica di sesso da uno dei componenti di un’unione civile, aveva sollevato la questione in ragione del contrasto della normativa censurata, oltre che con l’art. 2 e 117 co. 1 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata) e 14 (divieto di discriminazione) CEDU, anche con l’art. 3 Cost., stante la disparità di trattamento rispetto alla ipotesi, speculare, in cui il percorso di transizione di genere fosse compiuto da una coppia in origine eterosessuale e unita in matrimonio. La questione era stata sollevata dal Tribunale di Torino, nel corso di un giudizio introdotto, per la rettifica di sesso da uno dei componenti di una unione civile.
Il giudice rimettente dubitava - in particolare - della legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 26 della legge n. 76 del 2016, nella parte in cui disponeva che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell’unione civile tra persone dello stesso sesso senza prevedere la possibilità di conversione in matrimonio per dichiarazione congiunta della parte e senza soluzione di continuità con il preesistente legame.
Nel caso in questione, l’attore aveva documentato il percorso di transizione dal genere maschile a quello femminile, richiedendo inoltre - in caso di accoglimento della domanda - la trasformazione dell’unione civile in matrimonio. Secondo il Tribunale di Torino la coppia unita civilmente, il cui vincolo sia cessato per l’automatismo che si accompagna alla rettificazione anagrafica di sesso di uno dei componenti dell’unione, incontrerebbe, nel caso in cui volesse mantenere una relazione giuridica riconosciuta contraendo matrimonio, un vuoto di tutela nel tempo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso e la eventuale celebrazione del matrimonio.
Il Tribunale rimettente quindi censura, in riferimento ai citati articoli costituzionali, non solo l’art.1, comma 26 della legge n.76/2016, ma anche l’art. 31, comma 4-bis, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui non prevede che la persona che ha proposto la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso e l’altro contraente dell’unione civile possano, fino alla precisazione delle conclusioni, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di unirsi in matrimonio.
Tale possibilità era riservata soltanto ai coniugi sulla base dell’art. 1, comma 27, della già citata legge istitutiva delle unioni civili: i coniugi possono infatti manifestare davanti al giudice della rettifica anagrafica di sesso la volontà di trasformare, senza soluzione di continuità o vuoti di tutela, il matrimonio in unione civile.
La Corte Costituzionale ha ritenuto di non ravvisare nella normativa oggetto di censura alcuna violazione dell’art. 3 Cost., in quanto «il vincolo derivante dall’unione civile produce effetti, pur molto simili, ma non del tutto coincidenti» con quelli del matrimonio, con la conseguenza che l’obiettiva eterogeneità delle situazioni a confronto esclude la fondatezza del dubbio di contrasto con l’art. 3 Cost. Matrimonio ed unione civile, infatti, argomenta la sentenza, trovano differente copertura costituzionale, essendo il primo, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, riconducibile all’art. 29 Cost. e la seconda alle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. (considerato in diritto 3.1.1).
In merito invece al sospetto di contrasto della disciplina censurata con l’art. 2 Cost., la Corte, dopo aver rilevato che l’unione civile costituisce una formazione sociale in cui i singoli individui svolgono la propria personalità, ed è connotata da una natura solidaristica non dissimile da quella propria del matrimonio, ha osservato che i componenti della unione civile, ove manifestino la volontà di conservare il rapporto nella diversa forma del matrimonio a seguito dello scioglimento automatico del vincolo pregresso quale effetto della sentenza di rettificazione anagrafica del sesso di uno di essi, vanno comunque incontro, nel tempo necessario alla celebrazione del matrimonio stesso, ad un vuoto di tutela, a causa del venir meno del complessivo regime di diritti e doveri di cui erano titolari in costanza dell’unione civile. Tale mancanza di tutela entra in frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di sessualità costituisce espressione. Secondo la Corte, infatti, «La evidenziata mancanza di tutela nel passaggio da una relazione giuridicamente riconosciuta, qual e? quella dell’unione civile, ad altra, qual e? il legame matrimoniale, entra irrimediabilmente in frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di sessualità costituisce certa espressione, e comporta un sacrificio integrale del pregresso vissuto. Non senza considerare che, nel tempo necessario alla ricostituzione della coppia secondo nuove forme legali, i componenti potrebbero risentire di eventi destinati a precludere in modo irrimediabile la costituzione del nuovo vincolo […]».
Alla luce di tali argomentazioni, la Consulta conviene inoltre che il competente ufficiale di stato civile, ricevuta la comunicazione del passaggio in giudicato di detta sentenza di rettificazione con dichiarazione del giudice di sospensione limitatamente agli effetti dello scioglimento del vincolo, a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione e sino al decorso del termine di centottanta giorni, dovrà procedere alla relativa annotazione.
La Corte dichiara quindi conseguentemente l’illegittimità costituzionale dell’art.70-octies, comma 5 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non prevede che l’ufficiale di stato civile competente, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione del sesso, proceda ad annotare, se disposta dal giudice, la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento dell’unione civile fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di 180 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione.
Con la sentenza n. 77/2024 la Corte Costituzionale, ponendosi nel solco della giurisprudenza costituzionale consolidata (sentenza n. 4/2024; sentenza n. 145/2022; sentenza n. 174/2019; sentenza n. 12/2018), ha ribadito, in armonia con le coordinate interpretative tracciate dalla Corte Edu, che solo «imperative ragioni di interesse generale» che trovano giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni costituzionali possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso attraverso l’emanazione di una norma avente efficacia retroattiva.
Per l’effetto, con la sentenza in commento la Corte ha dichiarato incostituzionale, per violazione degli artt. 3, 111 e 117 Cost., la legge di interpretazione autentica di cui all’art. 36, commi 1 e 2, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, in quanto, in difetto delle menzionate imperative ragioni di interesse generale, risulta strumentalmente volta ad incidere su giudizi di cui è parte l’amministrazione pubblica al precipuo scopo di vanificarne o, comunque, condizionarne l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.
Risulta, nello specifico, oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’art. 36, commi 1 e 2, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante una norma di interpretazione autentica.
Tale articolo, al comma 1, prevede che la disposizione di cui all'articolo 8, comma 12, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, secondo la quale, a decorrere dal 1° gennaio 1994, i prezzi delle specialità medicinali, esclusi i medicinali da banco, sono sottoposti al regime di sorveglianza secondo le modalità indicate dal CIPE e non possono superare la media dei prezzi risultanti per prodotti similari e inerenti al medesimo principio attivo nell'ambito della Comunità europea, deve essere interpretata nel senso che è rimesso al CIPE stabilire anche quali e quanti Paesi della Comunità prendere a riferimento per il confronto, con applicazione dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parità dei poteri d'acquisto, come determinati dallo stesso CIPE.
Al comma 2, invece, prevede che, alla data del 1° settembre 1994 fino all'entrata in vigore del metodo di calcolo del prezzo medio europeo come previsto dai commi 3 e 4, restano validi i prezzi applicati secondo i criteri indicati per la determinazione del prezzo medio europeo dalle deliberazioni del CIPE 25 febbraio 1994, 16 marzo 1994, 13 aprile 1994, 3 agosto 1994 e 22 novembre 1994.
Il Consiglio di Stato, sezione IV, con ordinanza del 13 marzo 2023, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del menzionato art. 36, commi 1 e 2, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, 113 e 117, primo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU (diritto a un processo equo), della Costituzione.
Nel rimettere la questione alla Corte, il Consiglio di Stato muove dalla considerazione che l’art. 36, comma 1, della legge n. 449 del 1997 detta un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993. Tale ultima norma ha introdotto, in sostituzione del previgente regime dei prezzi amministrati dei medicinali, la previsione che tali prezzi, esclusi i medicinali da banco, non possono superare la media dei prezzi risultanti per prodotti similari e inerenti al medesimo principio attivo nell’ambito della Comunità europea (regola del cd “prezzo comune europeo dei farmaci”). La norma di interpretazione autentica del 1997 corrisponde al contenuto di una deliberazione del CIPE stesso (quella del 25 febbraio 1994) in tema di individuazione dei criteri per la determinazione del prezzo medio europeo di acquisto delle specialità medicinali, che in particolare prevedeva che il prezzo fosse determinato prendendo a riferimento i prezzi praticati da Francia, Inghilterra, Germania e Spagna e che la media fosse calcolata utilizzando i tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete.
Tuttavia, il Supremo Giudice amministrativo rileva come tale deliberazione fosse stata precedentemente annullata dal Consiglio di Stato stesso con sentenza 27 gennaio 1997, n. 118, in quanto, discostandosi dalle prescrizioni della norma sovraordinata, aveva selezionato solo alcuni Paesi per calcolare la media europea e aveva adottato tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete e quindi diversi dal tasso di cambio ufficiale; il comma 2 dell’art. 36, strettamente connesso al precedente, risulta invece volto a confermare l’efficacia di tali criteri di determinazione per il periodo compreso fra il 1° settembre 1994 e il 1° luglio 1998, con efficacia di sanatoria.
Il recepimento a livello legislativo del contenuto della delibera del CIPE, unito al carattere interpretativo, e perciò retroattivo, delle disposizioni censurate avrebbe così avuto la concreta conseguenza, sul piano costitutivo, di neutralizzare gli effetti della sentenza di annullamento del Consiglio di Stato e, sul versante della responsabilità, di paralizzare la domanda di risarcimento del danno spiegata dal ricorrente nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero della salute e fondata proprio sulla dedotta – e accertata dal Consiglio di Stato – illegittimità della menzionata delibera del CIPE.
Invero, la natura retroattiva delle norme censurate avrebbe determinato il venir meno dell’elemento oggettivo dell’illegittimità, pur previamente accertata dal Consiglio di Stato ma superata dall’intervento legislativo, dell’azione della pubblica amministrazione, elemento (avente natura prettamente oggettiva) necessario per pronunciare la responsabilità della pubblica amministrazione: infatti, la domanda risarcitoria svolta nei confronti di una pubblica amministrazione si giustifica, di regola, per la presenza di un danno ingiusto riconducibile causalmente all’adozione di un atto illegittimo. Tuttavia, l’intervenuta sanatoria disposta dal legislatore del 1997 avrebbe fatto venir meno l’illegittimità della delibera del CIPE, annullata dal Consiglio di Stato, sicché il precedente provvedimento amministrativo sarebbe risultato legittimo ab initio e la domanda di risarcimento del danno, di conseguenza, infondata per l’assenza del carattere dell’ingiustizia del danno.
Così sinteticamente ricostruiti i termini della questione, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza di rimessione alla Corte, ha censurato il menzionato art. 36, commi 1 e 2, ritenendolo in contrasto con le seguenti disposizioni costituzionali:
a) art. 3, per intrinseca irragionevolezza derivante dal difetto dei motivi imperativi di interesse generale che, in via del tutto eccezionale, consentono al legislatore di interferire su giudizi in corso;
b) artt. 24, 111, 113 e 117, primo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, Cost., essendo le censurate disposizioni intervenute con efficacia retroattiva in pendenza di un giudizio nel quale lo Stato era parte, in modo tale da influenzarne l’esito, in violazione dei principi di effettività della tutela e del giusto processo.
Con la sentenza in esame la Corte ha accolto la questione, per violazione degli artt. 3, 111 e 117, primo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, Cost., ritenendo assorbite le ulteriori censure.
In via preliminare, la Corte ha ricordato come la natura interpretativa, e dunque retroattiva, può essere riconosciuta solamente a quelle disposizioni che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, così da imporre un determinato significato normativo a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata. Non assume quindi carattere vincolante l’autoqualificazione della norma come di interpretazione autentica ne è dirimente l’accertamento di un contrasto giurisprudenziale formatosi sulla disposizione oggetto di interpretazione autentica. Così come, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale, la Corte ribadisce la propria giurisprudenza sulla sostanziale indifferenza della distinzione tra norme di interpretazione autentica – retroattive e norme innovative con efficacia retroattiva (sentenze n. 73 del 2017, n. 108 del 2019 e n. 70 del 2020). Tale distinzione rileva, al più, perché “la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata”.
Ne consegue che, di fronte a una norma avente comunque efficacia retroattiva – che pure la Corte considera, al di fuori della materia penale, frutto del legittimo esercizio discrezionale del potere del legislatore – è necessario procedere ad uno scrutinio particolarmente rigoroso.
Tale scrutinio, peraltro, chiarisce la Corte, diviene ancor più stringente se l’intervento legislativo retroattivo incide su giudizi ancora in corso, tanto più se in essi sia coinvolta un’amministrazione pubblica.
I principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e quelli concernenti l’effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, infatti, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio.
Come pure affermato dalla Corte Edu, tale eccezionale interferenza è possibile solamente al ricorrere di «imperative ragioni di interesse generale» che trovano giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni costituzionali.
La Corte EDU, ricorda la Corte costituzionale, ha perimetrato in maniera rigorosa e restrittiva tale nozione, ravvisando la compatibilità con l’art. 6 CEDU di alcuni interventi legislativi retroattivi incidenti su giudizi in corso, solamente là dove:
a) i soggetti ricorrenti avevano tentato di approfittare dei difetti tecnici della legislazione (sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito, paragrafo 112);
b) i soggetti ricorrenti avevano cercato di ottenere vantaggi da una lacuna della legislazione medesima, cui l’ingerenza del legislatore mirava a porre rimedio (sentenza del 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X, Blanche de Castille e altri contro Francia, paragrafo 69);
c) o, ancora, quando l’intervento legislativo retroattivo mirava a risolvere una serie più ampia di conflitti conseguenti alla riunificazione tedesca, al fine di assicurare in modo duraturo la pace e la sicurezza giuridica in Germania (20 febbraio 2003, ForrerNiedenthal c. Germania, paragrafo 64).
In applicazione di tali coordinate sin qui sinteticamente ripercorse, le disposizioni oggetto delle questioni sollevate sono state dichiarate incostituzionali in quanto, in difetto delle stringenti ragioni di interesse generale, risultano finalizzate a incidere su giudizi in corso, vanificandone o comunque condizionandone l’esito (anche con riferimento ai profili risarcitori), di cui è peraltro parte la stessa pubblica amministrazione.
Nel ricostruire tale indebita finalità la Corte ha ritenuto significativa la tempistica dell’intervento legislativo censurato, collocato a ben quattro anni di distanza dalla disposizione oggetto della presunta interpretazione, quando era già in corso un nutrito contenzioso, nonché gli stessi lavori parlamentari, da cui emerge con chiarezza come l’unica finalità perseguita dalle disposizioni censurate sarebbe stata quella di chiudere il contenzioso pendente in materia di prezzo dei farmaci e determinare con maggiore esattezza gli oneri per la spesa farmaceutica (come segnalato anche, ricorda la sentenza, nel dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); da tali considerazioni emerge così la volontà del legislatore di anteporre esigenze di carattere finanziario al diritto della parte privata ad un processo equo, in violazione della citata giurisprudenza costituzionale e convenzionale.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 80 del 2024 ha dichiarato costituzionalmente illegittima, con riferimento all’articolo 3 della Costituzione, la qualificazione legislativa dell’addizionale comunale sulla tassa d’imbarco come prelievo di natura non tributaria, riconoscendone al contrario la natura fiscale.
Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, limitatamente alle parole “nonché in materia di addizionale comunale sui diritti d’imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350”.
La disposizione definisce la qualificazione dei diritti aeroportuali d’imbarco come improduttivi di obbligazioni tributarie.
Si tratta della tassa d'imbarco e sbarco sulle merci trasportate per via aerea, dei diritti di approdo, di partenza e di sosta o ricovero per gli aeromobili e del diritto di imbarco per passeggeri; dei corrispettivi dei servizi di controllo di sicurezza, nonché dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco e dei corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti
La Corte costituzionale con la sentenza n. 167 del 2018, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 1, comma 478, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», che aveva introdotto all’articolo 39-bis, comma 1, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (ossia alla medesima disposizione censurata con la sentenza in commento) il riferimento ai corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti.
La questione di legittimità costituzionale promossa dal giudice a quo consiste nella corretta qualificazione giuridica dell’obbligazione discendente dall’addizionale comunale sui diritti di imbarco.
La questione oggetto di giudizio consisteva nel riconoscimento (o meno) del privilegio di cui all’articolo 2752, terzo comma, del codice civile alla società di gestione dell’Aeroporto di Genova con riferimento all’addizionale comunale sui diritti di imbarco dovuta dalla società Alitalia Linee aeree italiane.
Posto che tale privilegio è riconosciuto solo per i crediti derivanti da imposte, tasse e tributi comunali e provinciali, appare preliminare alla definizione della natura tributaria o meno dell’addizionale comunale ai diritti d’imbarco posto che la norma oggetto di censura esclude espressamente tale natura.
Alla luce della precedente sentenza della Corte costituzionale n. 167 del 2018, il giudice a quo rileva come, secondo quanto la Corte aveva già sostenuto nella citata sentenza, ai fini della qualificazione di una prestazione patrimoniale obbligatoria come avente natura fiscale o meno, non rileva l’eventuale qualificazione indicata dal legislatore quanto alcune caratteristiche oggettive che fanno ritenere che una disposizione abbia natura di prelievo tributario. Si tratta dei seguenti requisiti che devono ricorrere congiuntamente: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti da tale decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese. Qualora essi ricorrano una diversa qualificazione della fattispecie da parte del legislatore “si risolve in una operazione meramente nominalistica, che non si accompagna alla modifica sostanziale degli elementi strutturali della fattispecie tributaria”.
Ad avviso del giudice a quo appare non manifestamente infondato che l’esclusione della natura fiscale dell’addizionale comunale sui diritti d’imbarco non sia conforme a quanto indicato dalla Corte.
La Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, limitatamente alle parole “nonché in materia di addizionale comunale sui diritti d’imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350”.
La Corte, con riferimento alla rilevanza della questione nel giudizio a quo, conclude in termini positivi essendo la qualificazione dell’obbligazione come tributaria essenziale per il riconoscimento del privilegio di cui all’articolo 2752, terzo comma, del codice civile.
Nel merito la Corte ripercorre le argomentazioni della precedente sentenza della Corte costituzionale n. 167 del 2018 rilevando che l’addizionale comunale procura una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, è estranea a qualsivoglia rapporto sinallagmatico tra vettore e destinatari del tributo essendo il tributo dovuto indipendentemente sia dalla volontà del vettore che dall’effettiva fruizione dei servizi coperti dal tributo medesimo. Infine il tributo è commisurato semplicemente al numero dei passeggeri che si imbarcano (e quindi latu sensu ai ricavi della compagnia aerea) ed è diretto a coprire pubbliche spese.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 85 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, nella parte in cui prevede un regime più restrittivo relativo alla corrispondenza telefonica aggiuntiva con i figli minori applicabile a tutti i detenuti o internati condannati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, senza distinguere la posizione di coloro che hanno già accesso ai benefici penitenziari.
Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70. La disposizione censurata stabilisce che, in aggiunta all’ordinaria corrispondenza telefonica settimanale con familiari e conviventi – prevista dall'articolo 39 del regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 – il detenuto può essere autorizzato a una ulteriore conversazione telefonica al giorno con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave. Tuttavia, è previsto un regime più restrittivo, applicabile quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (si tratta dei reati c.d. ostativi, cioè che impediscono, salvo specifiche eccezioni, l’accesso ai benefici penitenziari, quali ad esempio quelli di terrorismo e associazione mafiosa). In questi casi, la predetta autorizzazione supplementare non può essere concessa più di una volta a settimana.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal magistrato di sorveglianza di Padova in occasione della decisione su un reclamo presentato avverso un provvedimento della direzione del carcere che, in applicazione della disposizione censurata, aveva negato ad un detenuto il permesso ad effettuare telefonate giornaliere al figlio minorenne.
Nello specifico, il detenuto stava scontando una pena di trent’anni di reclusione per una serie di delitti, alcuni dei quali rientranti nel novero dei reati “ostativi” di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario. In relazione a questi ultimi, il Tribunale di sorveglianza di Venezia aveva già accertato l’impossibilità della collaborazione con la giustizia. Ne derivava l’inoperatività nei confronti del detenuto del divieto di accesso ai benefici penitenziari. In base alla normativa allora vigente, infatti, il divieto di accesso ai benefici penitenziari veniva sostanzialmente meno solo in caso di collaborazione con la giustizia, salvo che questa risultasse impossibile.
Il giudice a quo aveva quindi sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto legge n. 28 del 2020, «nella parte in cui prevede che l’autorizzazione ai colloqui con i figli minori non può essere concessa più di una volta alla settimana nel caso di detenuti per reati ex art. 4-bis ord. penit. per i quali non sussiste il divieto di concessione dei benefici ex art. 4-bis, l. 26 luglio 1975 n. 354». In particolare, il rimettente aveva dubitato della compatibilità della disposizione censurata con l’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo: in primo luogo, per la irragionevolezza intrinseca della disposizione stessa; in secondo luogo, per l’irragionevole disparità di trattamento tra il regime relativo alla corrispondenza telefonica vigente per i detenuti e internati per delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, o.p., ai quali non si applichi il divieto di benefici ivi previsto, da un lato, e il regime applicabile in favore dei detenuti e internati per la generalità degli altri reati, dall’altro lato.
La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione sollevata.
Il percorso logico seguito dai giudici costituzionali muove da una ricostruzione della disciplina contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, o.p., che prevede un regime penitenziario differenziato, operante nei confronti dei detenuti e internati per una serie di gravi reati, riconducibili – per lo più – a contesti di criminalità organizzata (c.d. “reati ostativi”). Si tratta, in particolare, di un regime imperniato sulla preclusione all’accesso ai benefici penitenziari, la cui ratio è connessa alla generale presunzione della pericolosità sociale del condannato, presupponendo che anche dopo il suo ingresso in carcere non vengano meno i collegamenti del detenuto con l’organizzazione criminale. Di regola, i detenuti e gli internati destinatari di tale meccanismo preclusivo hanno accesso ai benefici soltanto quando collaborino con la giustizia, perché proprio la loro collaborazione costituisce «una sorta di prova legale della rottura del vincolo associativo rispetto al singolo detenuto, che a sua volta segnala l’inizio del suo percorso rieducativo». Tuttavia, come chiarito anche da altre pronunce recenti della Corte (sent. 253 del 2019; ord. 97 del 2021), la presunzione di persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata deve sempre poter essere vinta da una prova contraria, valutabile caso per caso dal tribunale di sorveglianza.
Di conseguenza, la legge prevede oggi, anche per effetto delle modifiche intervenute con il decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162, diverse ipotesi in cui i condannati per reati “ostativi” possono in concreto essere ammessi ai benefici penitenziari, pur in mancanza di una collaborazione con la giustizia.
Nel dettaglio, il meccanismo preclusivo stabilito dall’art. 4-bis o.p. non opera con riferimento a due categorie di detenuti e internati “non collaboranti”. In primo luogo, quelli che abbiano commesso il reato antecedentemente all’entrata in vigore del decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162, e nei cui confronti sia stata riconosciuta la collaborazione “impossibile”, “inesigibile” o “irrilevante” alle condizioni oggi indicate dall’art. 3, comma 2, del citato decreto-legge. Con riferimento a questa categoria di soggetti l’accesso ai benefici avviene secondo le regole generali, salva la necessità puntuale di acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
In secondo luogo, vanno menzionati i detenuti o internati rispetto ai quali sussistano le condizioni indicate dal comma 1-bis dell’art. 4-bis o.p., nel testo oggi vigente. In particolare, con tale disposizione è stato previsto in via generale che i condannati per i reati di cui al comma 1 dell’art. 4-bis o.p., pur in assenza di collaborazione con la giustizia, possano comunque accedere ai benefici, in presenza di un’articolata serie di condizioni, tra le quali rileva l’allegazione di «elementi specifici» che «consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile».
Alla luce di questa ricostruzione normativa, la Corte ha osservato che, ogniqualvolta sia superata la presunzione di persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata, vengono meno al contempo le ragioni di una disciplina penitenziaria derogatoria sfavorevole rispetto a quella valevole per la generalità degli altri condannati.
Da tali considerazioni la Corte ha fatto discendere l’illegittimità della disposizione censurata nella misura in cui prevede un regime per la corrispondenza telefonica aggiuntiva del detenuto applicabile all’intero insieme dei detenuti per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, o.p. più restrittiva rispetto a quella che vale per la generalità degli altri detenuti e internati. Questi ultimi, infatti, possono essere ammessi a una telefonata “supplementare” giornaliera con i figli minori o con i figli maggiorenni portatori di una disabilità grave, ovvero con speciali categorie di familiari. Tutti i detenuti per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, o.p., invece, sono ammessi a una sola telefonata settimanale.
La Consulta ha rilevato che, laddove la presunzione di persistenza dei legami con l’associazione criminosa, per qualsiasi motivo, non operi, è irragionevole escludere tali detenuti– i quali possono tra l’altro beneficiare di misure che comportano l’uscita dal carcere – dall’applicazione delle regole ordinarie che vigono per la generalità dei detenuti e sottoporli a regole più severe.
Come sottolineato dalla sentenza, infatti, ogni disciplina che, a parità di pena inflitta, deroga in senso peggiorativo al regime penitenziario ordinario «può trovare legittimazione sul piano costituzionale – al cospetto della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, co. 3, Cost. – soltanto in quanto sia necessaria e proporzionata rispetto al contenimento di una speciale pericolosità sociale del condannato»; e non, invece, «in chiave di ulteriore punizione in ragione della speciale gravità del reato commesso».
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 90 del 2024, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell'articolo 8, comma 4, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 [2] , nella parte in cui la disposizione non limita la restituzione dell'anticipazione NASpI, ottenuta quale incentivo all’autoimprenditorialità, alla misura corrispondente al periodo di lavoro subordinato svolto in costanza di percezione della predetta indennità, nel caso in cui il lavoratore non abbia potuto proseguire l’attività di impresa per causa imprevedibile e sopravvenuta, a lui non imputabile.
La disposizione oggetto di censura, rappresentata dall'articolo 8, comma 4, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 22, si inserisce nel quadro normativo che regola le modalità di corresponsione dell’indennità NASpI [3] ai soggetti che, dopo aver perduto involontariamente la propria occupazione, vogliano avviare un’attività di lavoro autonomo.
Nello specifico il comma 1 dell’articolo 8 consente al lavoratore, rimasto involontariamente inoccupato, di ottenere l’integrale anticipazione del beneficio NASpI a cui ha diritto, al fine di intraprendere “un'attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa”.
Il comma 4, invece, stabilisce puntualmente che, laddove il soggetto beneficiario dell’anticipazione dell’indennità stipuli un contratto di lavoro subordinato in pendenza del periodo coperto dalla NASpI, debba restituire integralmente l’anticipazione ottenuta, “salvo il caso in cui il rapporto di lavoro subordinato sia instaurato con la cooperativa della quale il lavoratore ha sottoscritto una quota di capitale sociale”.
Tale disposizione, è stata sottoposta al vaglio dei giudici della Corte Costituzionale, in quanto la restituzione integrale del beneficio ottenuto, allorquando il prestatore non abbia potuto proseguire l'attività di impresa per causa sopravvenuta a lui non imputabile, avrebbe potuto condurre ad una lesione del principio di ragionevolezza ex articolo 3 Costituzione.
In particolare, la suddetta questione di legittimità è stata avanzata dal Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro [4] .
Il giudice a quo ha fondato l’ordinanza di rimessione sulle seguenti motivazioni.
Ad avviso del rimettente, la disposizione violerebbe il principio di ragionevolezza sotto un duplice profilo.
In primo luogo, nei casi di impossibilità sopravvenuta, l’applicazione della norma in esame metterebbe in luce un profilo di “incoerenza” tra l’integrale restituzione dell’indennità e lo svolgimento effettivo dell’attività autonoma.
Infatti, nel caso concreto, è stato giudizialmente accertato che il lavoratore aveva effettivamente iniziato e proseguito l’attività autonoma, anche grazie all’impiego di rilevanti capitali, interrompendo la stessa attività solamente a causa dell’emergenza pandemica dovuta a COVID-19.
In questo caso, pertanto, si afferma che il fondamento antielusivo che giustifica l’integrale restituzione dell’indennità NASpI percepita non può trovare ragionevole applicazione.
In secondo luogo, sussisterebbe una violazione di ragionevolezza anche in tema di sproporzione degli effetti.
Infatti, la richiesta di restituzione integrale della somma anticipata dall’Inps, interamente utilizzata per intraprendere l’attività economica autonoma, risulterebbe eccessivamente gravosa se rapportata alle perdite già subite dal prestatore.
Nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo introduce un’ulteriore motivazione.
Secondo quanto sostenuto dall’organo rimettente, sarebbe ravvisabile anche una lesione del diritto al lavoro riconosciuto dall’articolo 4, comma 1 Cost., in quanto la previsione non consentirebbe ai beneficiari di NASpI anticipata di stipulare un contratto di lavoro subordinato per tutto il periodo coperto dal beneficio, pena la restituzione integrale di quest’ultimo [5] .
La Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell’articolo 8, comma 4, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 22, circoscritta alla parte in cui non prevede una limitazione alla restituzione integrale della NASpI anticipata nei casi in cui il lavoratore abbia dovuto interrompere la propria attività autonoma per cause imprevedibili a lui non imputabili.
Nell’esporre le proprie motivazioni, la Corte è partita dalla ricostruzione effettuata con la sentenza n. 194 del 2021.
In tale pronuncia, i giudici della Consulta hanno rilevato come la corresponsione della NASpI anticipata, al lavoratore che ne faccia richiesta, abbia lo scopo “di favorire il reimpiego del lavoratore "disoccupato" in attività diversa da quella di lavoro subordinato, ossia in attività di lavoro autonomo o d'impresa”.
Ciò conduce a ritenere che la ratio dell’obbligo di restituzione integrale del beneficio de quo, previsto dall’articolo 8 comma 4, sia riconducibile ad una finalità antielusiva, “di contrasto del possibile abuso da parte di chi chiede il beneficio senza poi intraprendere, in concreto, un'attività di lavoro autonomo o di impresa” (v. sentenza Corte Cost. n. 194 del 14 ottobre 2021).
In questo contesto la predetta sentenza aveva chiarito che lo svolgimento di un rapporto di lavoro di natura subordinata, durante il periodo di spettanza della NASpI costituisce “un elemento fattuale indicativo della mancanza o insufficienza del presupposto stesso del beneficio - ossia dell'inizio, e poi prosecuzione, di un'impresa individuale (o in cooperativa) ovvero di un'attività di lavoro autonomo” (cfr. sentenza Corte Cost. n. 194 del 14 ottobre 2021).
Tuttavia, la Consulta ha rilevato come la fattispecie oggetto del giudizio di costituzionalità in questa sede, presenti delle profonde differenze con il quadro normativo appena delineato.
In particolare, si evidenzia come, nel caso concreto, il prestatore, grazie all’indennità percepita, abbia comunque avviato e svolto per un apprezzabile lasso di tempo l’attività di impresa.
La mancata prosecuzione di tale lavoro autonomo è da ricondurre a cause sopravvenute ed imprevedibili, non imputabili al lavoratore.
Pertanto, nel caso concreto, non è ravvisabile una carenza di “effettività e di autenticità” dell’attività di lavoro autonomo intrapresa.
Infatti, secondo quanto affermato dalla Consulta, la presenza di cause di forza maggiore (come la pandemia da COVID-19) non giustifica, ragionevolmente, la richiesta di restituzione integrale, in luogo ad una restituzione parametrata al periodo di lavoro dipendente coperto dalla percezione della NASpI.
La Corte Costituzionale ha, inoltre, osservato come la previsione normativa contrasti, nel caso di specie, con l’articolo 4, primo comma, Cost.
A tal riguardo, i giudici hanno evidenziato che, in caso di impossibilità oggettiva ed insuperabile, per causa sopravvenuta non attribuibile al lavoratore, di proseguire l’attività di impresa, l’obbligo di restituzione integrale della NASpI violerebbe il diritto al lavoro, in quanto ostativo alla stipulazione di un contratto di lavoro subordinato per il coperto dalla prestazione previdenziale.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 98 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 2, lettera f), nonché dell’articolo 7, comma 2, lettera d), del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39 (“Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190”), nella parte in cui non consentono di conferire l’incarico di amministratore di ente di diritto privato – che si trovi sottoposto a controllo pubblico da parte di una Provincia, di un Comune con popolazione superiore a quindicimila abitanti o di una forma associativa tra Comuni avente la medesima popolazione – in favore di coloro che, nell’anno precedente, abbiano ricoperto la carica di presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato controllati da amministrazioni locali (Provincia, Comune o loro forme associative in ambito regionale).
Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale sono talune disposizioni del decreto legislativo n. 39 del 2013.
Esso ha posto – sulla scorta della legge delega n. 190 del 2012 – una nuova disciplina in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di responsabilità amministrativa e di vertice nelle amministrazioni pubbliche, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico.
Un novero di incarichi è così ricompreso tra quelli per cui operi o l’inconferibilità o l’incompatibilità.
Del citato decreto legislativo n. 39, rileva l’articolo 7, comma 2, lettera d).
Si ha riguardo, in particolare, alla inconferibilità di incarichi a coloro che nei due anni precedenti siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di Province, Comuni e loro forme associative entro la medesima Regione.
Ebbene, la citata lettera d) prevede che per tali soggetti (nonché per alcuni altri, che qui non rilevano: componenti della Giunta o del Consiglio dell’ente locale o della forma associativa) si abbia inconferibilità degli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico esercitato da parte di una Provincia, di un Comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti o di una forma associativa tra Comuni avente la medesima popolazione.
Altresì rileva, ancora del decreto legislativo n. 39 del 2013, l’articolo 1, comma 2, lettera f).
Quest’ultima lettera muove in ambito definitorio, ed ha riguardo alla definizione di “componenti di organi di indirizzo politico”. Vi ricomprende, in particolare, anche le persone che partecipano a organi di indirizzo di enti di diritto privato in controllo pubblico (nazionali, regionali e locali).
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio (sez. I quater) su impugnazione da parte di un amministratore interessato, avverso delibera dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), con la quale era stata dichiarata l’inconferibilità (e correlativa nullità) di incarichi rientranti nella tipologia sopra ricordata.
È infatti da ricordare come il complesso di disposizioni poste dal decreto legislativo n. 39 del 2013 in materia di inconferibilità di incarichi faccia capo, per il profilo del controllo, all’ANAC, la quale vigila sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche, degli enti pubblici e degli enti di diritto privato in controllo pubblico, della disciplina in materia di conferimento degli incarichi, anche con l'esercizio di poteri ispettivi e di accertamento, nonché sospensivi.
Il giudice amministrativo investito della questione ha ritenuto di adire il giudizio di costituzionalità, ravvisando che la specifica disciplina di cui si tratta sia lesiva della ratio di fondo della legge delega n. 190 del 2012, circoscrivente l’inconferibilità alle sole cariche di natura politica in precedenza rivestite dal nominato.
Ne conseguirebbe un vizio di eccesso di delega (art. 76 Cost.), insieme all’illegittima e sproporzionata restrizione dell’accesso agli uffici pubblici (artt. 3 e 51 Cost.) e del diritto al lavoro del professionista interessato (artt. 3 e 4 Cost.). Ancora, dal punto di vista dell’amministrazione, si realizzerebbe una lesione dei principi di buon andamento e di efficienza dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), anche in rapporto al principio di autonomia dei piccoli Comuni (artt. 114 e 118 Cost.), i quali sarebbero ostacolati nel reperimento di professionisti idonei a ricoprire gli incarichi di responsabilità amministrativa presso gli enti privati da loro controllati.
Investito della questione di legittimità costituzionale, il giudice delle leggi ha preliminarmente valutato il profilo dell’eventuale eccesso di delega. Questo assume, nella giurisprudenza della Corte costituzionale, una pregiudizialità logico-giuridica, tale da rendere ‘assorbita’ e superflua, se il vizio di collisione con l’art. 76 della Costituzione venga rilevato, una disamina del contenuto precettivo della disposizione sotto giudizio.
La Corte ha ravvisato siffatto eccesso di delega, e dunque la fondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Le disposizioni delegate di cui si tratta (si è ricordato: l’articolo 1, comma 2, lettera f), e l’articolo 7, comma 2, lettera d), del decreto legislativo n. 39 del 2013) si pongono – secondo la Corte costituzionale – al fuori da un coerente sviluppo delle scelte della legge di delegazione, e dunque esulano dall’ambito entro cui è tenuta a mantenersi la discrezionalità del legislatore delegato.
La legge di delegazione (la legge n. 190 del 2012: “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione”) pone, come criterio direttivo della disciplina delegata circa i criteri di conferimento nonché i casi di non conferibilità di incarichi dirigenziali, il riferimento ai soggetti estranei alle amministrazioni che, per un congruo periodo di tempo, non inferiore ad un anno, antecedente al conferimento “abbiano fatto parte di organi di indirizzo politico o abbiano ricoperto cariche pubbliche elettive”.
Ancora: “i casi di non conferibilità devono essere graduati e regolati in rapporto alla rilevanza delle cariche di carattere politico ricoperte, all'ente di riferimento e al collegamento, anche territoriale, con l'amministrazione che conferisce l'incarico”.
Così l’articolo 1, comma 50, lettera c) della legge delega n. 190 del 2012.
La lettera b) del medesimo comma 50 dispone, al contempo, che per un periodo inferiore ad un anno dal conferimento dell’incarico, si abbia inconferibilità dell’incarico per coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto cariche in enti di diritto privato sottoposti a controllo o finanziati da parte dell'amministrazione conferente l'incarico.
Tale risulta pertanto la disciplina delle condizioni ostative, per quanto riguarda gli incarichi o situazioni di provenienza.
Altro il profilo degli incarichi di destinazione. Tra questi rientrano gli incarichi che comportano “funzioni di amministrazione e gestione”, secondo il dettato della legge delega n. 190 del 2012 (articolo 1, comma 49; e loro limitato sarebbe da intendersi il richiamo dell’articolo 1, comma 50, lettera d)).
Ma per quanto riguarda gli incarichi di provenienza ostativi, prosegue la Corte costituzionale, la legge delega (articolo 1, comma 50, lettera c)) si è limitata ad indicare solo quelli di natura ‘politica’, con esclusione di quelli di natura amministrativo-gestionale (salvo il caso di mancato decorso di un anno quale periodo di ‘raffreddamento’: è la sopra citata lettera b)).
Siffatta delimitazione agli incarichi di natura ‘politica’ costituisce, nell’argomentazione della Corte, “l’esito di un bilanciamento operato dal legislatore delegante, che ha ritenuto di sacrificare, entro un certo limite, le istanze pur ricollegabili a interessi costituzionalmente protetti – come l’efficienza dell’agire amministrativo e l’accesso al lavoro dei professionisti – a fronte dell’interesse a garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa, anche nella forma ampiamente anticipata della ‘apparenza’ di imparzialità”.
Prosegue la Corte. “L’ulteriore estensione della garanzia preventiva anche ad ipotesi prive di qualsiasi percepibile collegamento con lo svolgimento di cariche o incarichi ‘politici’ appare, dunque, estranea all’obiettivo perseguito dal legislatore delegante e finisce, anzi, per pregiudicarlo”.
“Sotto questo profilo, pertanto, si coglie l’aspetto di maggiore frizione della legge delegata rispetto alle previsioni della legge n. 190 del 2012, in quanto l’enucleazione delle ipotesi di inconferibilità è stata estesa lungo un versante – per l’appunto, quello degli incarichi privi di connotazione politica – che non era stato voluto dal legislatore delegante”.
Donde un eccesso di delega, rilevato della Corte costituzionale.
Esso si concreta nella inclusione, tra le ragioni di inconferibilità di nuovi incarichi, dell’esercizio di pregresse esperienze di natura non politica.
E la definizione di “componenti di organi di indirizzo politico” (art. 1, comma 2, lettera f), del decreto legislativo n. 39 del 2013) risulta ricomprendere in modo improprio anche persone che abbiano preso parte a organi privi di rilevanza politica, quali, per quanto qui interessa, quelli di indirizzo “di enti di diritto privato in controllo pubblico”.
“In tal modo, si è operata una commistione tra incarichi politici e incarichi di mera gestione amministrativo-aziendale, che devono invece essere tenuti distinti”, afferma la Corte.
Ne segue, ai fini della definizione del giudizio a quo, l’illegittimità costituzionale delle disposizioni richiamate (art. 1, comma 2, lettera f), ed art. 7, comma 2, lettera d), del decreto legislativo n. 39 del 2013), nella parte in cui non consentono di conferire l’incarico di amministratore di ente di diritto privato – che si trovi sottoposto a controllo pubblico da parte di una Provincia, di un Comune con popolazione superiore a quindicimila abitanti o di una forma associativa tra Comuni avente la medesima popolazione – in favore di coloro che, nell’anno precedente, abbiano ricoperto la carica di presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato controllati da amministrazioni locali (provincia, comune o loro forme associative in ambito regionale).
Con riferimento alla sentenza illustrata, si fa presente, altresì, che l Presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, con lettera in data 23 luglio 2024, ha trasmesso alle Camere una segnalazione in materia di modifica della fattispecie di inconferibilità di cui all'articolo 7 del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, alla luce della commentata sentenza n. 98 del 2024. L’Autorità segnala, che, “essendo stata dichiarata l'incostituzionalità unicamente dell'art. 7, co. 2, ultima parte, lett. d), del d.lgs. n. 39/2013, sarebbe opportuno un apposito intervento normativo volto ad escludere la rilevanza, per tutte le fattispecie di inconferibilità considerate nell'articolo 7 del d.lgs. n. 39/2013, dell'incarico in provenienza in questione, per il medesimo vizio posto a fondamento della sentenza della Corte Costituzionale in epigrafe, in modo da assicurare alle disposizioni in commento la dovuta coerenza costituzionale”.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 99 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell'articolo 42-bis del d.lgs. n. 151 del 2001 per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che il trasferimento temporaneo del dipendente pubblico, con figli minori fino a tre anni di età, possa essere disposto, oltre che presso “una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l'altro genitore eserciti la propria attività lavorativa”, anche presso “una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale è fissata la residenza della famiglia”.
La presente pronuncia esamina la conformità costituzionale dell’articolo 42?bis, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151(T.U. a tutela della maternità e della paternità).
In particolare, la disposizione censurata stabilisce che il pubblico dipendente, genitore con figli minori di tre anni, su propria richiesta può essere trasferito presso “una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l'altro genitore esercita la propria attività lavorativa”, per un periodo, anche frazionato, complessivamente non superiore a tre anni.
La norma specifica, inoltre, che l’istanza di trasferimento è subordinata alle seguenti condizioni: a) sussistenza di un posto vacante nella sede di destinazione di posizione retributiva equivalente; b) assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione.
Nel caso di specie, il giudice a quo ha sollevato una questione di legittimità costituzionale nella parte in cui l’art. 42-bis subordina il temporaneo trasferimento del pubblico impiegato al fatto che “il coniuge del richiedente abbia la propria attività lavorativa (e non l’attività lavorativa o la residenza del nucleo familiare, ove le nozioni non coincidano) nella stessa Provincia o Regione ove è ubicata la sede di servizio presso la quale si domanda il trasferimento” [6] .
Infatti, come evidenziato dal Consiglio di Stato, la ratio sottesa all’art. 42-bis è quella di garantire l’unità familiare durante i primi anni di vita del figlio “consentendo ad entrambi i coniugi di prendersene cura”. Pertanto, la scelta di limitare il trasferimento del dipendente “solo nella provincia o regione in cui si trova la sede di servizio dell’altro coniuge” risulta essere irragionevole alla luce delle finalità che mira a realizzare la norma censurata.
A fronte delle considerazioni appena richiamate, quindi, un’interpretazione letterale dell’art. 42-bis condurrebbe ad un esito irragionevole, dunque, contrario all’art. 3 Cost., nonché ad una violazione degli intessi costituzionalmente garantiti della famiglia, della genitorialità e dell’infanzia, tutelati, rispettivamente, dagli artt. 29, 30 e 31 Cost.
Il Consiglio di Stato conclude il proprio atto di promovimento asserendo che non è possibile accogliere neanche un’interpretazione adeguatrice (come prospettata dal giudice di prime cure), in quanto essa risulterebbe preclusa dal “chiaro tenore letterale della disposizione”. Pertanto, appare necessaria una pronuncia della Consulta.
La questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 42-bis d.lgs. 151/2001 e sollevata dal Cons. di Stato è stata ritenuta fondata dalla Corte Costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost.
La Consulta, in particolare, riprende il principio già espresso in altre pronunce secondo cui le scelte operate dal legislatore concernenti l’individuazione dei requisiti per accedere ai benefici pubblici devono ispirarsi, in ogni caso, al principio di ragionevolezza (v. ex multis sentenze n. 232 del 2018 e n. 213 del 2016 [7] ).
In particolare, i giudici costituzionali ribadiscono che, al fine di verificare se una norma sia rispondente al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., occorre compiere uno scrutinio che individui la ratio della norma oggetto di censura e, successivamente, verificare se i criteri di selezione di accesso al beneficio siano ragionevoli con la finalità perseguita.
La sentenza esaminata in questa sede richiama la pronuncia n. 44 del 2020 che esplicita chiaramente il sindacato svolto dalla Consulta ai sensi dell’art. 3, primo comma, Cost., il quale “muove dall’identificazione della ratio della norma di riferimento e passa poi alla verifica della coerenza con tale ratio del filtro selettivo introdotto”.
Nel caso di specie, sottolinea la Corte, il legislatore, nel limitare il trasferimento temporaneo del pubblico dipendente solamente presso “una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa”, ha introdotto un requisito che circoscrive in maniera irragionevole la platea di soggetti che possono accedere alla misura del trasferimento.
Infatti, la disposizione censurata esclude in radice la possibilità di ottenere il beneficio considerato “per quei dipendenti pubblici che hanno deciso di fissare la residenza familiare (ove vive il figlio minore) in una regione o provincia diversa da quelle in cui lavorano entrambi i genitori”.
Si comprende, allora, come una simile esclusione si ponga in contrasto con l’obiettivo perseguito dall’art. 42-bis che è quello di ricomporre il nucleo familiare, al fine di assicurare il sostegno e la promozione di beni costituzionalmente garantiti, quali la famiglia, l’infanzia e la parità dei genitori nell’accudire i figli, in situazioni in cui i genitori si trovano a vivere separati per esigenze di servizio.
Peraltro, la mancata previsione di poter chiedere il trasferimento anche presso una sede localizzata presso la Provincia o la Regione in cui è ubicata la residenza familiare non tiene adeguatamente conto delle trasformazioni che hanno investito sia le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, grazie anche alle nuove tecnologie, sia i sistemi di trasporto.
Tali mutate condizioni si ripercuotono, inevitabilmente, anche sulla complessità dell’organizzazione della vita familiare (v. sent. 209/2022).
Per le suesposte ragioni la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42?bis, comma 1, del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151nella parte in cui non prevede la possibilità per il dipendente pubblico di chiedere il trasferimento anche “ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale è fissata la residenza della famiglia”.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 105 del 2024, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 1-bis.1 dell’art. 104-bis norme att. cod. proc. pen., introdotto dal decreto-legge 2/2023, nella parte in cui non prevede che le misure ivi indicate si applichino per un periodo di tempo non superiore a trentasei mesi.
L’art. 6 del D.L. n. 2/2023 ha introdotto, nell’art. 104-bis norme att. cod. proc. pen., un nuovo comma 1-bis.1 al fine di disciplinare i poteri del giudice nei casi di sequestro preventivo di stabilimenti industriali o parti di essi dichiarati (ai sensi della disciplina recata dall’art. 1 del D.L. n. 207/2012, c.d. decreto ILVA [8] ) di interesse strategico nazionale, o di impianti o infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva. In tale ottica si prevede tra l’altro che, ove necessario per realizzare un bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute, dell’ambiente e degli altri eventuali beni giuridici lesi dagli illeciti commessi, il giudice detta le prescrizioni necessarie, tenendo anche conto del contenuto dei provvedimenti amministrativi a tal fine adottati dalle competenti autorità. La medesima disposizione inoltre, al fine di garantire la prosecuzione delle attività citate, in ragione della loro strategicità, prevede che il giudice autorizzi la prosecuzione dell’attività se, nell’ambito della procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale, sono state adottate misure con le quali si è ritenuto realizzabile il bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente e degli altri eventuali beni giuridici lesi dagli illeciti commessi.
In attuazione delle disposizioni recate dal D.L. n. 2/2023, il D.P.C.M. 3 febbraio 2023, nel dichiarare di interesse strategico nazionale gli stabilimenti della società ISAB srl, ha riconosciuto l’impianto di depurazione consortile gestito da IAS spa sito in Priolo Gargallo (nonché l’impianto gestito da Priolo Servizi scpa sito in Melilli) quale infrastruttura necessaria ad assicurarne la continuità produttiva, disponendo l’applicazione dell’art. 6 del D.L. n. 2/2023, e demandando a un apposito decreto ministeriale di definire le misure per il bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute, dell’ambiente.
Conseguentemente è stato quindi adottato il D.M. 12 settembre 2023, con cui sono state definite le misure testé menzionate in relazione agli stabilimenti e impianti succitati. Con tale decreto – in estrema sintesi – sono stati individuati i limiti di emissione nell’ambiente che gli impianti devono rispettare e disciplinato il monitoraggio del rispetto dei limiti stessi.
La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Siracusa con l’ordinanza del 12 dicembre 2023. Il GIP ha infatti ritenuto che la disciplina dettata dal legislatore con il nuovo comma 1-bis.1 dell’art. 104-bis norme att. cod. proc. pen. non offra adeguata tutela alla vita e alla salute umana, nonché all’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, privilegiando in modo eccessivo l’interesse alla continuità produttiva di impianti, per quanto considerati di interesse strategico nazionale, in violazione degli articoli 2, 32, 9 e 41 Cost. Lo stesso GIP lamenta il venir meno – per effetto della disposizione censurata – di ogni potere discrezionale dell’autorità giudiziaria nella gestione dello stabilimento sottoposto a sequestro, una volta che l’autorità governativa abbia indicato le misure di bilanciamento cui allude la disposizione censurata. Ciò appare al rimettente incongruo, al metro dei parametri costituzionali, ogniqualvolta le misure predette risultino insufficienti ad offrire adeguata tutela all’ambiente, o addirittura alla vita e alla salute delle persone su cui potenzialmente ricadono le conseguenze nocive dell’attività produttiva. Nel caso in questione, in particolare, il rimettente ritiene che il decreto interministeriale con cui sono state adottate le misure di bilanciamento si sarebbe limitato a innalzare i parametri di accettabilità degli scarichi di varie sostanze nocive per la salute umana nelle matrici aria e acqua da parte del depuratore di Priolo Gargallo, prevedendo altresì un sistema a suo avviso inefficace di monitoraggio del rispetto di tali limiti.
Nella sentenza in commento, la Corte costituzionale evidenzia che la disposizione censurata non condiziona (come invece ha previsto l’art. 1 del D.L. 207/2012, c.d. decreto ILVA succitato, che ha superato indenne il giudizio della Consulta: v. sentenza n. 85 del 2013) la prosecuzione dell’attività dello stabilimento o impianto sequestrato al rispetto delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA) riesaminata [9] , bensì all’osservanza di generiche “misure” di bilanciamento, senza chiarire in esito a quale procedimento tali misure debbano essere adottate – e con quali garanzie di pubblicità e di partecipazione del pubblico, oltre che delle diverse autorità locali a vario titolo competenti in materia ambientale e di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro – e senza chiarire, nemmeno, se ed eventualmente in quale misura i valori limite di emissione possano discostarsi dalle migliori tecnologie disponibili di settore, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività.
L’elemento più critico della suddetta disciplina tuttavia, concerne la mancata previsione di un termine finale di operatività della disposizione censurata, a differenza, di quanto previsto dall’art. 1 del D.L. 207/2012.
In mancanza di un tale termine, la disposizione in esame finirebbe per autorizzare, potenzialmente senza alcun limite di durata, un meccanismo basato su un’autorizzazione che proviene direttamente dal Governo nazionale e il cui effetto è quello di privare indefinitamente il giudice del sequestro di ogni potere di valutazione sull’adeguatezza delle misure medesime rispetto alla tutela dell’ambiente e della salute pubblica, e mediatamente rispetto alla tutela della stessa vita umana.
La Corte sottolinea che non può considerarsi di per sé incompatibile con la Costituzione la previsione di un meccanismo che consenta allo stesso Governo nazionale di intervenire a dettare, in via interinale, misure che consentano nell’immediato di assicurare continuità produttiva a uno stabilimento di interesse strategico nazionale che sia stato attinto da un sequestro penale, vincolando al contempo il giudice a consentire la prosecuzione dell’attività. Tale compressione degli ordinari poteri del giudice è giustificabile, secondo la Corte, qualora le misure adottate dal Governo siano funzionali all’obiettivo di ricondurre gradualmente l’attività stessa, nel minor tempo possibile, entro i limiti di sostenibilità fissati in via generale dalla legge, in vista appunto di una tutela effettiva della salute e dell’ambiente. In altre parole, le misure in questione – che dovranno mantenersi all’interno della cornice normativa fissata dal complesso delle norme di rango primario in materia di tutela dell’ambiente e della salute – dovranno tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinata dall’attività delle aziende sequestrate, e non già, invece, a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni.
La mancata fissazione di un termine massimo di operatività della deroga (che nel caso dell’ILVA era stato fissato in 36 mesi e come tale ritenuto congruo dalla Corte costituzionale) finirebbe per configurare un sistema di tutela dell’ambiente parallelo a quello ordinario, e per di più dai contorni del tutto generici e come tali, ad avviso della Corte, inidonei ad assicurare che, a regime, l’esercizio dell’attività di tali stabilimenti e impianti si svolga senza recare pregiudizio alla salute e all’ambiente. Per questi motivi, la disposizione in esame viene ritenuta costituzionalmente illegittima dalla Consulta, per contrasto con gli artt. 9, 32 e 41, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che le misure di bilanciamento indicate si applichino per un periodo di tempo non superiore a trentasei mesi (termine del resto fissato dallo stesso Governo nel decreto interministeriale 12 settembre 2023 per il completamento degli interventi in esso prescritti).
Nel motivare la propria decisione la Corte ricorda che la legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 (Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente) ha attribuito espresso rilievo costituzionale alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni (art. 9, terzo comma, Cost.) e ha inserito tra i limiti alla libertà di iniziativa economica menzionati nell’art. 41, secondo comma, Cost. le ragioni di tutela dell’ambiente, oltre che della salute umana. La stessa Corte ricorda inoltre che già da epoca anteriore alla riforma dell’art. 117, secondo comma, Cost. – la cui lettera s) affida alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, facendone per la prima volta oggetto di menzione espressa nel testo costituzionale – la giurisprudenza della Corte medesima ha riconosciuto l’esistenza di un «diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività» alla salvaguardia dell’ambiente, precisando che esso «comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale», intesi tutti quali «valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.)» (sentenza n. 210 del 1987; sentenza n. 641 del 1987; sentenza n. 126 del 2016). Con la riforma costituzionale del 2022, quindi, secondo la Corte, viene consacrata direttamente nel testo della Costituzione il mandato di tutela dell’ambiente, inteso come bene unitario, comprensivo delle sue specifiche declinazioni rappresentate dalla tutela della biodiversità e degli ecosistemi, ma riconosciuto in via autonoma rispetto al paesaggio e alla salute umana, per quanto ad essi naturalmente connesso; e vincola così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa.
Peculiare è altresì, secondo la stessa Corte, la prospettiva di tutela oggi indicata dal legislatore costituzionale, che non solo rinvia agli interessi dei singoli e della collettività nel momento presente, ma si estende anche (come già, del resto, prefigurato da numerose pronunce di questa Corte risalenti a epoca anteriore alla riforma, quali ad esempio le sentenze n. 46 del 2021 e n. 237 del 2020) agli interessi delle future generazioni, nei cui confronti le generazioni attuali hanno un preciso dovere di preservare le condizioni perché esse pure possano godere di un patrimonio ambientale il più possibile integro.
La Corte sottolinea inoltre che, per altro verso, la tutela dell’ambiente – nell’interesse, ancora, dei singoli e della collettività nel momento presente, nonché di chi ancora non è nato – assurge ora a limite esplicito alla stessa libertà di iniziativa economica, il cui svolgimento non può «recare danno» – oltre che alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, come recitava il testo previgente dell’art. 41, secondo comma, Cost. – alla salute e all’ambiente. La Corte conclude affermando che tali chiare indicazioni del legislatore costituzionale – lette anche attraverso il prisma degli obblighi europei e internazionali in materia – sono state puntualmente considerate nel vagliare la legittimità della disposizione in esame.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 107 del 2024, ha dichiarato illegittimità costituzionale dell’articolo 64, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nella parte in cui prevede che non possono far parte della giunta, né essere nominati rappresentanti del comune e della provincia, gli affini entro il terzo grado del sindaco o del presidente della giunta provinciale, anche quando l’affinità derivi da un matrimonio rispetto al quale il giudice abbia pronunciato, con sentenza passata in giudicato, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili per una delle cause previste dall’articolo 3 della legge n. 898 del 1970.
Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’articolo 64, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, recante il testo unico degli enti locali (TUEL).
Il citato articolo 64 dispone che la carica di assessore è incompatibile con quella di consigliere comunale e provinciale (comma 1) e che se un consigliere comunale o provinciale assume la carica di assessore nella rispettiva giunta, cessa dalla carica di consigliere (comma 2). Tali disposizioni si applicano esclusivamente nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti (comma 3). La disposizione censurata è quella di cui al comma 4 che preclude al coniuge, agli ascendenti, ai discendenti, ai parenti e affini entro il terzo grado, del sindaco o del presidente della giunta provinciale, di far parte della rispettiva giunta e di essere nominati rappresentanti del comune e della provincia.
La disposizione, in applicazione del principio di imparzialità della pubblica amministrazione, sancito dall'art. 97 della Costituzione, mira ad evitare il rischio anche potenziale di commistione tra gli interessi pubblici dell'ente territoriale che il sindaco ha l'obbligo di garantire e gli interessi privati di suoi prossimi congiunti, al fine di assicurare soprattutto nei confronti di tutti gli amministrati la serenità della scelta amministrativa discrezionale (cfr. Corte di Cassazione, sez. I, sent. 7 febbraio 2001, n. 1733; Cons. di Stato, Sez. IV, 23 febbraio 2001, n. 1038).
Nel rimettere la questione alla Corte costituzionale, il giudice a quo aveva, invero, sollevato dubbi di costituzionalità rispetto all’articolo 78 del codice civile che, nel disciplinare il rapporto di affinità, lo definisce come il vincolo che intercorre tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge (primo comma), prevedendo che tale vincolo non cessi per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati e che, al contrario, venga meno se il matrimonio sia dichiarato nullo (terzo comma). Tale disposizione non disciplina, invece, la sorte che il rapporto di affinità subisce nelle ipotesi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Secondo la prospettazione del giudice rimettente, l’articolo 78, terzo comma, del codice civile e l’articolo 64, comma 4, del TUEL definirebbero, dunque, rispettivamente la regola generale e quella specifica, derivata in via applicativa dalla prima, secondo cui si declina, in termini di permanenza o di cessazione, il rapporto di affinità, in caso di scioglimento o cessazione degli effetti del vincolo matrimoniale da cui esso deriva, nella materia delle incompatibilità alle nomine politiche negli enti locali.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte di cassazione nel corso del giudizio, innanzi ad essa instaurato, su ricorso dell’ex coniuge divorziato della sorella del sindaco del Comune di C., il quale era entrato a far parte della Giunta municipale su designazione del sindaco stesso, che lo aveva altresì nominato in sua rappresentanza quale vicesindaco. Il ricorrente aveva impugnato la decisione della Corte d’appello di Napoli che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accertato la sua incompatibilità a svolgere l’ufficio indicato.
Nel rimettere la questione alla Consulta, il giudice a quo ha formulato un dubbio di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 2, 3 e 51 della Costituzione, rispetto all’art. 78, terzo comma, del codice civile, «implicitamente richiamato dall’art. 64, comma 4, T.U.E.L., nella parte in cui stabilisce che “l’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati. Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all’art. 87, n. 4”, così prevedendo che il vincolo di affinità permanga per il parente del coniuge divorziato, malgrado il rapporto di coniugio da cui tale vincolo è stato determinato sia ormai sciolto, e impedendo la partecipazione di quest’ultimo alla giunta municipale a seguito di designazione ad opera dell’ex coniuge di un parente».
Nell’ordinanza di rimessione la Corte di cassazione osserva che, in seguito all’introduzione della legge n. 898 del 1970 – la quale, come è noto, ha introdotto nell’ordinamento l’istituto del divorzio –, il legislatore non ha provveduto a modificare l’articolo 78 del codice civile che, quale norma generale, disciplina gli effetti che la morte del coniuge e la dichiarazione di nullità del vincolo coniugale da cui deriva il rapporto di affinità producono su quest’ultimo.
Secondo la Cassazione, la nullità e il divorzio godono della comune natura di «atto contrastante con la fonte del rapporto di affinità», e si fondano entrambi «su un interesse contrario al protrarsi della vita coniugale». Ma, mentre in caso di nullità «il venir meno del vincolo coniugale comporta la cessazione del rapporto di affinità e abilita l’(ormai ex) affine a ricoprire la carica pubblica», l’accesso a detta carica è «precluso all’affine del divorziato, il cui vincolo permane, benché il rapporto coniugale da cui deriva sia parimenti venuto meno», in contrasto con il principio di eguaglianza
Il giudice a quo ha, dunque, dedotto anzitutto l’ingiustificata disparità di trattamento riservato agli affini nei casi in cui il rapporto matrimoniale si sia sciolto o sia cessato all’esito della pronuncia di divorzio rispetto a quello riconosciuto agli affini stessi il cui presupposto vincolo matrimoniale sia venuto meno, invece, in seguito alla sentenza di nullità del matrimonio.
Il medesimo giudice ha, altresì, denunciato la violazione, ad opera della norma impugnata, del diritto di accesso agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, nonostante il diritto di elettorato passivo risulti tra quelli inviolabili.
Nel ritenere i motivi del ricorso fondati, la Corte costituzionale ha, tuttavia, delimitato l’oggetto della sua decisione, circoscrivendolo all’articolo 64, comma 4, del TUEL, quale specifica declinazione di una regola generale, tracciata dall’articolo 78, terzo comma, c.c., «che non vive se non nei singoli, e differenti, contesti di riferimento».
Dal momento che, nelle diverse situazioni previste dall’ordinamento, lo status di affine può, «di volta in volta», produrre effetti «di attribuzione o di limitazione del diritto», cui corrisponde «un bilanciamento operato dal legislatore e le correlate posizioni di favore o sfavore», la Corte costituzionale ha, infatti, ritenuto che le censure sulla legittimità delle norme in discussione dovessero essere portate direttamente alla disciplina specialistica di settore.
La Corte muove dalla considerazione, costantemente affermata, che il diritto di tutti i cittadini ad accedere in condizioni di eguaglianza agli uffici pubblici e alle cariche elettive, di cui all’art. 51 Cost., va ricondotto «alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 della Costituzione» quale «aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica» (sentenza n. 141 del 1996) e «svolge il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino» (sentenza n. 60 del 2023).
Sempre secondo la Corte, «le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale, e ciò in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione».
Pertanto, pur a fronte della necessità di coniugare il diritto all’elettorato passivo con gli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost. – che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione –, le cause di incompatibilità alle cariche politiche, che su quel diritto incidono direttamente, possono considerarsi costituzionalmente legittime solo se «non introducano differenze nel trattamento tra categorie omogenee di soggetti che siano manifestamente irragionevoli e sproporzionate al fine perseguito».
In conclusione, la Corte ha ritenuto la disciplina in questione manifestamente irragionevole, osservando tra l’altro che, mentre l’ex coniuge del sindaco non sarebbe soggetto alle incompatibilità in esame, lo sarebbe, invece, l’affine anche dopo che il matrimonio dal quale il vincolo di affinità è derivato sia cessato, così sganciandosi del tutto la sussistenza della causa di incompatibilità dal rapporto di riferimento.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 111 del 2024 ha dichiarato costituzionalmente illegittima, la disposizione dell’articolo 37, comma 3 del decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21, come modificato dai successivi interventi normativi, che disciplina il contributo straordinario contro il caro bollette, nella parte in cui include nella base imponibile del contributo straordinario medesimo l’importo dell’accisa.
Sono invece dichiarati inammissibili o non fondati gli altri motivi di ricorso.
Oggetto della pronuncia della Corte è l’articolo 37 del decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21, in materia di contributo straordinario contro il caro bollette.
La norma introdotta dal citato decreto-legge è stata oggetto di successive modifiche. Nel testo vigente essa prevede che è istituito, per l'anno 2022, un contributo a titolo di prelievo solidaristico straordinario a carico dei soggetti che esercitano nel territorio dello Stato, per la successiva vendita dei beni, l'attività di produzione di energia elettrica, dei soggetti che esercitano l'attività di produzione di gas metano o di estrazione di gas naturale, dei soggetti rivenditori di energia elettrica, di gas metano e di gas naturale e dei soggetti che esercitano l'attività di produzione, distribuzione e commercio di prodotti petroliferi. Il contributo è dovuto, altresì, dai soggetti che, per la successiva rivendita, importano a titolo definitivo energia elettrica, gas naturale o gas metano, prodotti petroliferi o che introducono nel territorio dello Stato detti beni provenienti da altri Stati dell'Unione europea.
La base imponibile del contributo solidaristico straordinario è costituita dall'incremento del saldo tra le operazioni attive e le operazioni passive, riferito al periodo dal 1° ottobre 2021 al 30 aprile 2022, rispetto al saldo del periodo dal 1° ottobre 2020 al 30 aprile 2021. In caso di saldo negativo del periodo dal 1° ottobre 2020 al 30 aprile 2021, ai fini del calcolo della base imponibile per tale periodo è assunto un valore di riferimento pari a zero. Il contributo si applica nella misura del 25 per cento nei casi in cui il suddetto incremento sia superiore a euro 5.000.000. Il contributo non è dovuto se l’incremento è inferiore al 10 per cento. Ai fini del calcolo del saldo si assume il totale delle operazioni attive, al netto dell'IVA, e il totale delle operazioni passive, al netto dell'IVA, indicato nelle Comunicazioni dei dati delle liquidazioni periodiche IVA. Sono precisate alcune ipotesi di esclusione dalla base imponibile e la disciplina del contributo con riferimento agli appartenenti ad un Gruppo IVA. Il contributo non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi e dell'imposta regionale sulle attività produttive.
La questione di legittimità costituzionale è stata promossa dalla Corte di giustizia tributaria di Roma con cinque ordinanze del 27 giugno 2023, in riferimento agli artt. 3, 23, 41, 42, 53 e 117 Cost. relativa all’articolo 37 del decreto-legge n. 21 del 2022. Successivamente con tre ordinanze di rimessione la Corte di giustizia tributaria di Milano ha sollevato, sulla stessa norma questioni di legittimità costituzionale sostanzialmente analoghe.
Le ordinanze della Corte di giustizia tributaria di Roma sono state dichiarate inammissibili dalla Corte per omessa ricostruzione del quadro normativo di riferimento, in quanto, in accoglimento di un’eccezione presentata dalla difesa statale la Corte ha convenuto che i giudici rimettenti di Roma non avrebbero tenuto conto delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 120, della legge n. 197 del 2022 all’art. 37 del decreto-legge n. 21 del 2022, come convertito e modificato.
Tale obiezione non è applicabile alle censure mosse dalla Corte di giustizia tributaria di Milano
Queste ultime ordinanze rilevano che il legislatore non avrebbe identificato il presupposto del contributo straordinario, con conseguente violazione dell’art. 23 Cost., nonché degli artt. 3 e 53 Cost. per mancata individuazione di un indice idoneo di capacità contributiva e che la struttura dell’imposizione, basata sugli incrementi differenziali dei saldi delle liquidazioni periodiche IVA dei due periodi temporali messi a confronto (2021/2022), non consentirebbe di raggiugere lo scopo di tassare eventuali extraprofitti perché la risultanza di questi saldi non potrebbe mettere in evidenza un incremento di utili di tipo congiunturale dovuto ad attività speculativa, venendo omessi i costi di acquisto di beni strumentali, quelli del personale o quelli relativi ai «differenziali realizzati sui contratti derivati.
Il contributo straordinario, gravando sul fatturato IVA, avrebbe nella sua base imponibile anche il calcolo delle accise che, come rileva il giudice a quo «non possono rappresentare in alcun modo un incremento rilevante di “ricchezza” tassabile».
Anche i periodi temporali presi a riferimento non sarebbero idonei al perseguimento della finalità seguita dal legislatore, da un lato perché troppo brevi e dall’altro perché non significativi a causa delle disposizioni emergenziali dovute alla diffusione del COVID-19.
Vi sarebbe anche la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della disparità di trattamento all’interno dello stesso mercato energetico che all’esterno del medesimo.
Inoltre, si prospetta la violazione degli artt. 42, 53 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Prot. addiz. CEDU, in quanto il contributo straordinario avrebbe effetti confiscatori ed espropriativi del patrimonio delle società.
Infine, la Corte di giustizia tributaria di Milano censura la disposizione contenuta nel comma 3-ter dell’articolo 37 del decreto-legge n. 21 del 2022, come convertito e più volte modificato, per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, in quanto la stessa si porrebbe in contrasto con la struttura dell’IVA che non consentirebbe di correlare le componenti attive con corrispondenti componenti passive; la suddetta esclusione, inoltre, opererebbe solo se, in modo del tutto casuale, i correlati «acquisti afferenti» siano stati compiuti entro i periodi temporali presi a riferimento dalla disposizione censurata.
La Corte con riferimento alle argomentazioni sviluppate ha innanzi tutto ricostruito la straordinarietà del quadro nel quale è intervenuta la disposizione oggetto di giudizio rilevando da un lato che i fattori di instabilità internazionale (guerra in Ucraina) avevano avuto un effetto molto significativo sui prezzi dei prodotti energetici connessi alle importazioni dalla Russia con conseguenze molto rilevanti su famiglie e imprese alle quali sono state riconosciute specifiche agevolazioni a copertura delle quali è stato individuato lo strumento del contributo straordinario oggetto di censura.
La sussistenza di tali fatti supera la censura mossa alla selezione specifica (e a detta del giudice a quo, potenzialmente discriminatoria) del settore energetico quale soggetto passivo di tale imposta.
La Corte chiarisce che il prelievo istituito dall’art. 37 ha, nella sostanza, natura tributaria in quanto si concretizza in un prelievo coattivo che determina una definitiva decurtazione patrimoniale a carico dei soggetti passivi, non integra la modifica di un rapporto sinallagmatico e le relative risorse, connesse a uno specifico indice di capacità contributiva, sul piano teleologico, sono finalizzate, come si è descritto, al concorso alle pubbliche spese.
La Corte esclude che l’oggetto del tributo sia rappresentato dalla tassazione degli extraprofitti mentre il presupposto del tributo si identifica con l’incremento di un saldo differenziale conseguente la vendita, a determinate condizioni, di prodotti energetici da parte di taluni soggetti operanti nel settore energetico in un particolare contesto temporale, rigettando la questione in merito alla violazione dell’articolo 23. Allo stesso modo la Corte, sulla base di un’analitica descrizione del contesto economico e dei dati sull’andamento degli utili nel periodo di riferimento, ha valutato non arbitrario, ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione, che il fortissimo aumento dei prezzi dei prodotti energetici nell’eccezionale situazione congiunturale e lo specifico mercato in cui le imprese energetiche operano siano stati identificati dal legislatore – al verificarsi di una serie di condizioni – come un indice rivelatore di capacità contributiva.
Diversa invece l’opinione della Corte in merito ai mezzi utilizzati dal legislatore. Infatti secondo la Corte “è solo tenendo conto del carattere del tutto sui generis del contesto in cui è stato calato il temporaneo intervento impositivo che può eccezionalmente ritenersi non irragionevole lo strumento utilizzato dal legislatore, ovvero il riferimento ai dati relativi alla determinazione dell’imponibile dell’IVA [anziché all’IRES] nonostante il loro oggettivo grado di approssimazione nell’intercettare la maggiore forza economica delle imprese energetiche”.
Ciò considerato tuttavia la Corte rileva che l’imposizione deve comunque conservare il rispetto di una soglia essenziale di non manifesta irragionevolezza, oltre la quale lo stesso dovere tributario finirebbe per smarrire la propria giustificazione in termini di solidarietà, risolvendosi invece nella prospettiva della mera soggezione al potere statale.
In ragione di tale principio la Corte ritiene che l’inclusione dell’accisa nella base imponibile del tributo sopra delineato appare irragionevole in quanto per i soggetti che acquistano in sospensione d’accisa e cedono ad accisa assolta i prodotti l’inserimento dell’accisa nella relativa base imponibile comporta un notevole aumento della fatturazione non collegata ad un reale aumento di ricchezza. Inoltre le accise vengono liquidate «applicando alla quantità di prodotto l’aliquota d’imposta», per cui prescindono del tutto dal prezzo di vendita.
Inoltre la complessa dinamica applicativa delle accise determina una discriminazione orizzontale tra i soggetti passivi del contributo: perché solo per alcuni di questi, ovvero quelli che versano allo Stato l’accisa e la “caricano” nelle fatture attive, si verifica il descritto effetto distorsivo, ma non per quelli che, all’interno della filiera, possono cedere i prodotti energetici in sospensione di imposta, per i quali l’accisa non rileva, e neppure per quelli che commercializzano dopo l’immissione al consumo, per i quali il suddetto effetto non si verifica, in quanto le accise – verosimilmente – incrementeranno, con un sostanziale bilanciamento, il prezzo sia nelle fatture attive che passive.
Quanto alla natura espropriativa del contributo la Corte ribadisce la propria consolidata e antica giurisprudenza in forza della quale una legge tributaria, anche retroattiva, non dà luogo a un’espropriazione di proprietà privata, ma solo ad una obbligazione pecuniaria verso lo Stato o altro ente pubblico (sentenza n. 9 del 1959; nello stesso senso, sentenza n. 22 del 1965).
Non manca infine di ragionevolezza secondo la Corte la scelta del legislatore di fare riferimento, al fine di definire entro quali limiti le operazioni attive prive del presupposto della territorialità possano non essere considerate nella base imponibile, al rapporto di afferenza con le correlative operazioni di acquisto come disposto dal comma 3-ter dell’articolo 37 oggetto di specifico rilievo.
In ragione di ciò la Corte ha dichiarato:
§ l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 3, del decreto-legge 21 marzo 2022, n. 21, come modificato, nella parte in cui ai fini del calcolo del saldo assume il totale delle operazioni attive, al netto dell’IVA versata allo Stato e indicate nelle fatture attive, includendo nella base imponibile le accise (che secondo la Corte vanno escluse);
§ inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37 sollevate, in riferimento agli articoli 3, 23, 41, 42, 53 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
§ non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37 sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 42, 53 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU;
§ non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 3-ter, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.
Nel periodo considerato, i moniti rivolti al legislatore statale riguardano:
§ l’auspicio, in assenza di una disciplina statale organica, che il legislatore statale intervenga nella materia prendendo in adeguata considerazione l’evoluzione della figura e del ruolo dell’agente contabile con particolare riguardo alle partecipazioni societarie degli enti pubblici (sentenza n. 59 del 2024);
§ la necessità di una revisione del sistema nazionale di riscossione, in attuazione della delega conferita al Governo (ordinanza n. 81 del 2024).
Sentenza
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Oggetto del monito
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Estratto
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del 22 febbraio – 24 aprile 2024
Camera Doc VII,
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Attribuzione della qualifica di agente contabile con particolare riferimento alle partecipazioni societarie degli enti pubblici
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« [….]La disposizione regionale censurata, attribuendo autonomamente la qualifica di agenti contabili ai consiglieri di amministrazione e ai componenti del collegio sindacale, nominati dal Presidente della Regione o dai rappresentanti nelle assemblee sociali, delle società partecipate dalla Regione Calabria, esula dalla competenza del legislatore regionale. Quest’ultimo può unicamente disciplinare l’assetto organizzativo interno della gestione ed eventualmente gli ambiti della delega, ma non può attribuire la qualifica di agente contabile invadendo la competenza legislativa esclusiva statale nella materia “giurisdizione e norme processuali” (sentenze n. 160 del 2022, n. 285 del 2019, n. 8 del 2017, n. 19 del 2014). Secondo quanto stabilito dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., difatti, spetta solo allo Stato dettare la disciplina relativa alla predetta materia “giurisdizione e norme processuali” e dunque, nello specifico, quella inerente al giudizio di conto. (…) 9.– In assenza di una disciplina statale organica e tenuto conto che il giudizio di conto è materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato, questa Corte esprime l’auspicio che il legislatore statale intervenga nella materia prendendo in adeguata considerazione l’evoluzione della figura e del ruolo dell’agente contabile con particolare riguardo alle partecipazioni societarie degli enti pubblici».
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del 5 marzo – 9 maggio 2024
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Rinnovato auspicio di una revisione del sistema nazionale di riscossione, in attuazione della delega conferita al Governo
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«[…] e la norma prevede che «[l]’estratto di ruolo non è impugnabile. Il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto, per effetto di quanto previsto nell’articolo 80, comma 4, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 18 gennaio 2008, n. 40, per effetto delle verifiche di cui all’articolo 48-bis del presente decreto o infine per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione»
[…]
che, in ogni caso, questa Corte, nella richiamata sentenza n. 190 del 2023, ha precisato che il «rimedio alla situazione che si è prodotta per effetto della norma censurata coinvolge però profili rimessi – quanto alle forme e alle modalità – alla discrezionalità del legislatore e non spetta, almeno in prima battuta, a questa Corte»; […] in relazione alla «indefettibile esigenza di superare, in definitiva, la grave vulnerabilità ed inefficienza, anche con riferimento al sistema delle notifiche, che ancora affligge il sistema italiano della riscossione», la citata sentenza ha, altresì, formulato «il pressante auspicio», che non può che essere ribadito in questa sede, «che il Governo dia efficace attuazione ai princìpi e criteri direttivi per la revisione del sistema nazionale della riscossione contenuti nella delega conferitagli dall’art. 18 della legge 9 agosto 2023, n. 111 (Delega al Governo per la riforma fiscale)»»
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Con la sentenza n. 59 del 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 8 della legge della Regione Calabria n. 22 del 2007, il quale prevede l’attribuzione della qualifica di agenti contabili ai consiglieri di amministrazione e ai sindaci delle società a partecipazione regionale, nominati dal Presidente della Regione o dai rappresentanti regionali nelle assemblee, nonché la loro sottoposizione alla giurisdizione della Corte dei conti.
Secondo la Consulta la suddetta disposizione si porrebbe in contrasto con la competenza legislativa esclusiva statale in materia di giurisdizione e norme processuali, volendo dunque l’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
Con tre distinte ordinanze, in riferimento agli stessi parametri (artt. 3, 103, secondo comma, e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge della Regione Calabria 5 ottobre 2007, n. 22 (Ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario collegate alla manovra di assestamento del bilancio di previsione per l’anno 2007 ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8), il quale prevede che «[i] soggetti nominati o designati dalla Regione o proposti dai rappresentanti della Regione nelle assemblee, quali componenti degli organi di amministrazione o dei collegi sindacali delle società a partecipazione regionale sono, a tutti gli effetti, agenti contabili a materia e rispondono, in tale qualità, della corretta gestione societaria. Gli stessi devono supportare adeguatamente la Regione nell’esercizio dei diritti di azionista, rendere annualmente il conto con le modalità e termini stabiliti dalla Giunta regionale e sono assoggettati alla giurisdizione della Corte dei conti nel rispetto della legislazione statale in materia, ferme restando le responsabilità previste dal codice civile».
La questione è stata ritenuta fondata sotto il profilo della violazione della competenza legislativa esclusiva statale nella materia «giurisdizione e norme processuali» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., mentre sono risultate assorbite le censure sollevate in riferimento agli altri parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente.
Nell’argomentare la sua decisione, la Corte ha anzitutto chiarito che il giudizio avente ad oggetto azioni e quote societarie si configura come un procedimento giudiziale a carattere necessario e ineludibile, finalizzato alla salvaguardia di interessi generali della collettività connessi alla gestione del denaro o di beni pubblici.
L’indefettibile funzione di garanzia insita nella verifica della regolare gestione contabile e patrimoniale dell’ente pubblico rende, infatti, necessario l’esercizio della giurisdizione di conto su tutte le componenti patrimoniali e finanziarie, compresi i titoli azionari e partecipativi, espressamente annoverati tra i beni mobili dello Stato, ai sensi dell’art. 20, lett. c), del r.d. n. 827 del 1924.
Il giudizio di conto è volto a verificare se chi ha avuto maneggio di denaro pubblico e ha avuto in carico risorse finanziarie provenienti da bilanci pubblici è in grado di rendere conto del modo legale in cui lo ha speso, e non risulta gravato da obbligazioni di restituzione. In quanto tale, esso ha come destinatari non gli ordinatori della spesa, bensì gli agenti contabili che riscuotono le entrate ed eseguono le spese.
In quanto ricompresi nel novero di cui all’art. 11 della legge n. 59 del 1997, le Regioni e gli enti locali sono amministrazioni sottoposte al giudizio di conto ai sensi dell’art. 137 del codice di giustizia contabile.
Secondo la Consulta, nella misura in cui va ad attribuire autonomamente la qualifica di agenti contabili ai consiglieri di amministrazione e ai componenti del collegio sindacale, nominati dal Presidente della Regione o dai rappresentanti nelle assemblee sociali, delle società partecipate dalla Regione Calabria, la disposizione regionale censurata esula dalla competenza del legislatore regionale perché, in virtù di quanto stabilito dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., spetta solo allo Stato dettare la disciplina relativa alla materia «giurisdizione e norme processuali» e dunque, nello specifico, quella inerente al giudizio di conto.
La legge regionale può, pertanto, legittimamente disciplinare solo l’assetto organizzativo interno della gestione societaria ed eventualmente gli ambiti della delega di amministratori e sindaci, ma non può anche attribuire loro la qualifica di agente contabile (sentenze n. 160 del 2022, n. 285 del 2019, n. 8 del 2017, n. 19 del 2014).
Riscontrata l’assenza di una disciplina statale organica, la Corte costituzionale ha, tuttavia, espresso l’auspicio che il legislatore statale intervenga nella materia, prendendo in adeguata considerazione l’evoluzione della figura e del ruolo dell’agente contabile con particolare riguardo alle partecipazioni societarie degli enti pubblici.
La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 81 del 2024 ha dichiarato la manifesta inammissibilità, per insufficiente descrizione della fattispecie concreta e conseguente difetto di motivazione sulla rilevanza, delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del d.P.R. n. 602 del 1973, aggiunto dall’art. 3-bis del decreto-legge n. 146 del 2021, il quale prevede che il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto, per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici o per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione.
Il giudice a quo della questione, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 77, 111, 113 e 117 della Costituzione, con riferimento all’art. 12, comma 4-bis, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come aggiunto dall’art. 3-bis del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili.
La norma prevede la non impugnabilità dell’estratto di ruolo ed introduce limiti all’impugnazione del ruolo e della cartella di pagamento invalidamente notificata. In tal caso essi sono direttamente impugnabili nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto, oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici o infine per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione.
Il giudice a quo ritiene che tale disposizione contrasti con l’articolo 3 della Costituzione in quanto discriminerebbe i contribuenti che non intrattenendo rapporti con la pubblica amministrazione comunque subirebbero un danno dall’iscrizione a ruolo della cartella. Sarebbero inoltre violati il diritto alla difesa (articolo 24 della Costituzione), l’articolo 77 e 117 della Costituzione con riferimento all’utilizzo dello strumento del decreto-legge, gli articoli 111 e 113 della Costituzione, in quanto la norma censurata avrebbe «introdotto nell’ordinamento una utilità solo ed esclusivamente a favore della P.A.», precludendo «il diritto di difesa del contribuente, restringendolo a soli tre casi tassativi sempre ad esclusivo appannaggio della P.A.
La Corte costituzionale precisa che la questione posta dal giudice a quo non ha superato il vaglio di rilevanza. Ciò in considerazione del fatto che il rimettente ha omesso di indicare le concrete modalità utilizzate per la notificazione delle cartelle esattoriali e se le notificazioni fossero state o meno regolarmente effettuate, così impedendo la verifica dell’effettiva applicabilità della disposizione censurata nel giudizio a quo.
Una tale descrizione della fattispecie concreta, del tutto insufficiente, rende impossibile, secondo la Corte, verificare se la norma denunciata debba essere effettivamente applicata per definire il giudizio principale e se le ragioni esposte a sostegno dei dubbi di illegittimità costituzionale abbiano una qualche attinenza con il caso concreto oggetto del medesimo giudizio. Tale insufficiente descrizione si traduce in un’incolmabile lacuna della motivazione sulla rilevanza delle questioni (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 114 del 2021 e n. 254 del 2020);
In occasione della pronuncia la Corte ribadisce l’auspicio - già formulato nella sentenza n. 190 del 2023- , che il Governo dia attuazione alla delega conferitagli con la legge n. 111 del 2023, anche al fine di superare la grave vulnerabilità ed inefficienza del sistema delle notifiche.
Con riferimento alla specifica materia della riscossione il Parlamento ha esaminato ed ha espresso il proprio parere sullo Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di riordino del sistema nazionale della riscossione (AG. 152).
In dettaglio la Commissione VI della Camera dei deputati ha espresso il proprio parere il 28 maggio 2024. Il 12 giugno 2024 si è pronunciata la Commissione VI del Senato.
Con specifico riferimento alla disciplina delle notifiche si ricorda che il decreto legislativo n. 13 del 2024 recante disposizioni in materia di procedimento accertativo, contiene diverse disposizioni in materia di notificazioni (si tratta del decreto legislativo conseguente all’esame dell’Atto del Governo n. 105).
La Corte costituzionale ha respinto il ricorso per conflitto d’attribuzioni proposto dalla Camera dei deputati nei confronti della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato in tema di autodichia parlamentare.
Risultano, nello specifico, oggetto della pronuncia l’art. 64 della Costituzione, l’art. 12 del Regolamento generale della Camera e il Regolamento per la tutela giurisdizionale sugli atti non concernenti i dipendenti.
La Camera dei deputati aveva impugnato – con ricorso per conflitto, ai sensi dell’art. 134 della Costituzione – due sentenze: una del Consiglio di Stato (con cui era stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo sulle procedure di gara, per la selezione dei contraenti per la fornitura di un servizio) e una della Corte di cassazione (che sulla prima pronuncia aveva rigettato il ricorso della Camera medesima, proposto per motivi di giurisdizione, riaffermando la giurisdizione della giustizia amministrativa).
Più in particolare, la Camera aveva domandato che fosse ristabilita (con una dichiarazione sulla spettanza del potere) la giurisdizione degli organi dell’autodichia sulle controversie sugli appalti e che le due sentenze citate fossero annullate, Nell’atto, la Camera aveva confutato una serie di argomenti contenuti in entrambe le pronunce citate.
In un primo senso, la sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 2017, la quale aveva ribadito la giurisdizione domestica per il personale delle Camere ma era sembrata escluderla per i rapporti con i terzi, non poteva dirsi giurisprudenza consolidata, dal momento che il passaggio sull’autodichia sugli appalti era un mero obiter dictum e – a ogni modo – indicava i “servizi prestati” (e non da prestare). Sicché tale espressione ben si poteva conciliare con il diritto vivente già osservato dalla Camera per cui la fase esecutiva della prestazione di servizi da parte di terzi (assegnata al giudice civile) si collocava fuori dell’autodichìa, mentre col conflitto sollevato ci si riferiva all’antecedente fase pubblicistica di selezione del contraente.
Inoltre, l’argomento per cui i terzi che aspirano a divenire parti di un contratto di appalto con la Camera sarebbero strutturalmente diversi dal personale poteva essere investito da legittimi dubbi, perché l’autodichia pacificamente si applica anche ai ricorsi contro le procedure di reclutamento, in confronto di soggetti che – per definizione – sono anch’essi terzi rispetto alla Camera.
Ancora: le sentenze della Corte costituzionale nn. 129 del 1981 e 169 del 2018 (sull’autonomia contabile degli organi costituzionali) avevano statuito che la loro autonomia normativa si troverebbe “dimezzata” se a essa non facesse da pendant un’autonomia applicativa.
Nella legislazione ordinaria, da ultimo, “risorse finanziarie, umane e strumentali” sono sempre citate assieme, quale sostrato necessario per l’esercizio di funzioni e compiti pubblici, sicché separare le risorse umane (autodichia sul personale) da quelle strumentali (foro esterno sugli appalti) sarebbe incoerente.
La Corte costituzionale non ha condiviso questi argomenti e ha affermato, in sintesi, che:
- le esigenze di tutela dell’autonomia delle Camere reclamano anche l’autodichia sui temi degli apparati serventi, intesi restrittivamente come riferiti al solo personale (punto 4.3.1. del Considerato in diritto);
- l’obiter dictum della sentenza n. 262 del 2017 si riferiva alle imprese anche nella fase pubblicistica di scelta del contraente e, pertanto, la sollecitazione della Camera a far mutare avviso alla Corte non può essere accolta;
- dal punto di vista dell’interesse, costituzionalmente rilevante, a una piena tutela giurisdizionale dei diritti dei cittadini, amministrazioni pubbliche in genere e organi costituzionali non differiscono (punto 4.3.3. del Considerato in diritto);
- l’autodichia sul reclutamento può essere tollerata – in questo quadro – perché annessa a quella, consentita in via eccezionale, sul personale in servizio e in quiescenza (punto 4.3.3. del Considerato in diritto);
- l’autodichia sul personale è, peraltro, legittima a condizione che il giudice interno sia effettivamente munito delle garanzie di imparzialità e indipendenza richieste dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte EDU;
- estendere l’autodichia ai prestatori di servizi – esterni alla Camera – comporterebbe un sacrificio eccessivo per i loro diritti;
- la corrispondenza tra autonomia e autodichia – d’altronde – non è una regola ferrea ma un criterio di massima (punto 4.3.4. del Considerato in diritto);
- è ben vero che vi sono appalti che possono essere strettamente connessi alle funzioni essenziali delle Camere ma, in tali casi, nulla impedisce loro di reinternalizzare il servizio.
In conclusione, la Corte costituzionale ha respinto il ricorso per conflitto.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 112 del 2024, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1, c. 13, della Legge n. 335 del 1995 [10] e 24, c. 2, del D.L. n. 201/2011 [11] nella parte in cui non prevede il diritto del pensionando alla neutralizzazione dei contributi versati in seguito al riscatto volontario degli anni di laurea quando, per effetto di tale riscatto, la liquidazione del trattamento pensionistico avvenga secondo il sistema di calcolo retributivo integrale in luogo del sistema misto, che avrebbe operato in assenza di riscatto e che avrebbe dato luogo ad un assegno pensionistico di importo superiore.
Preliminarmente, va qui ricordato che il principio di neutralizzazione - elaborato dalla giurisprudenza costituzionale come principio operante all’interno del sistema retributivo - fa riferimento alla facoltà del lavoratore di escludere dal calcolo del proprio trattamento pensionistico alcuni periodi contributivi, accreditati successivamente alla maturazione del diritto alla pensione, al fine di evitare una riduzione dell’assegno pensionistico.
Come affermato infatti dalla stessa Corte costituzionale, tra le altre, nella sentenza n. 82 del 2017, “quando il diritto alla pensione sia già sorto in conseguenza dei contributi in precedenza versati, la contribuzione successiva non può compromettere la misura della prestazione potenzialmente maturata”.
La questione di legittimità oggetto della sentenza in esame concerne il combinato disposto dell’art. 1, c. 13, della L. 335/1995 e dell’art. 24, c. 2, del D.L. 201/2011; in base a tale combinato disposto: l’applicazione del criterio secondo cui, per i lavoratori con un’anzianità contributiva di almeno 18 anni al 31 dicembre 1995, la quota di pensione relativa ai periodi di contribuzione antecedenti al 1° gennaio 2012 è liquidata secondo il sistema di calcolo retributivo e la quota relativa ai periodi successivi è liquidata secondo il sistema di calcolo contributivo è subordinata alla condizione che l’importo complessivo del trattamento pensionistico non ecceda in tal modo quello che sarebbe stato liquidato secondo le regole di calcolo vigenti prima della data di entrata in vigore del D.L. 201/2011, cioè secondo le regole del sistema retributivo integrale.
Il giudice rimettente, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto delle richiamate disposizioni nella parte in cui non prevede il diritto dell’assicurato alla neutralizzazione del periodo, oggetto di riscatto, del corso di studi universitari, allorché il suddetto requisito di 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 sia stato raggiunto solo per effetto del suddetto riscatto.
La questione trae origine dal ricorso di un pensionato, il quale, prima di aver maturato i requisiti per il pensionamento, al fine di incrementare l’anzianità contributiva anteriore alla data del 1° gennaio 1996 e raggiungere così il summenzionato requisito dei 18 anni per il riconoscimento del sistema di calcolo retributivo per i periodi di contribuzione anteriori al 2012, aveva proceduto a riscattare gli anni del corso di laurea. Successivamente, al momento dell’accesso al trattamento pensionistico, il soggetto interessato ha constatato che il riscatto degli anni di laurea ha determinato non solo il conseguimento di tale requisito, ma anche l’applicazione della suddetta norma di chiusura, che esclude un trattamento complessivo più elevato rispetto a quello che sarebbe derivato dall’applicazione del sistema di calcolo contributivo integrale.
Allo scopo di rientrare nel sistema di calcolo misto nel momento di accesso al pensionamento – avvenuto, nel caso di specie, con l’istituto del pensionamento anticipato cosiddetto Quota 100 -, nel giudizio principale il soggetto ha richiesto all’INPS la neutralizzazione della contribuzione da riscatto.
La questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 1, c. 13, della L. 335/1995 e dell’art. 24, c. 2, del D.L. 201/2011 è stata dichiarata dalla Corte inammissibile con riferimento all’art. 38 della Costituzione e non fondata con riferimento all’art. 3 della Costituzione.
La Corte ricorda che nella sua giurisprudenza il principio di neutralizzazione è stato applicato, nell’ambito del sistema di computo retributivo del trattamento pensionistico, alla contribuzione accreditata successivamente alla maturazione del diritto alla pensione, al fine di escludere dalla base pensionabile i contributi aggiuntivi correlati all’ultimo scorcio della vita lavorativa che potrebbero incidere in senso riduttivo sulla pensione virtualmente già acquisita (qualora, cioè, nell’ultimo periodo lavorativo si siano registrate retribuzioni inferiori rispetto a quelle precedenti e non necessarie alla maturazione del diritto alla pensione) [12] .
La Corte evidenzia che la richiesta del rimettente è volta a consentire l’applicazione del principio di neutralizzazione ai contributi riscattati non allo scopo di eliminare gli effetti nocivi che il computo di essi ha prodotto all’interno del sistema di calcolo retributivo, ma al fine di transitare ad un sistema di calcolo diverso, quello cosiddetto misto, che si sarebbe applicato in assenza del riscatto di laurea e che, secondo una valutazione ex post, risulta più conveniente per l’assicurato. Secondo la Corte, tale richiesta si pone al di fuori del perimetro applicativo del principio di neutralizzazione, che opera esclusivamente all’interno del sistema retributivo: “Solo rispetto a tale criterio di computo […] ha senso temperare la rigidità del legislatore nell’individuare il periodo su cui determinare la retribuzione pensionabile con la regola della immodificabilità in peius della prestazione pensionistica già in precedenza virtualmente acquisita”.
La pretesa di scelta del sistema di computo del trattamento pensionistico in base ad una valutazione ex post, effettuata nel momento del pensionamento, – continua la Corte – si pone in contrasto con il principio di certezza del diritto che deve pur sempre presidiare il sistema previdenziale [13] .
A sostegno della declaratoria di non fondatezza della questione sollevata, la Corte evidenzia altresì che non è condivisibile il presupposto interpretativo da cui muove il Tribunale rimettente, secondo cui la funzione svolta dal riscatto degli anni di laurea è quello di incrementare l’anzianità contributiva utile non solo ai fini dell’an, cioè del diritto alla pensione, ma anche ai fini del quantum del trattamento.
In realtà, sottolinea la Corte, richiamando anche la giurisprudenza della Corte di cassazione [14] , l’effetto del riscatto è soltanto quello di incrementare l’anzianità contributiva e l’interesse che la legge intende tutelare accordando la suddetta facoltà è, appunto, solo quello all’incremento dell’anzianità contributiva: tale interesse risulta soddisfatto dalla determinazione dell’amministrazione di ammettere il riscatto richiesto.
[1] Il citato articolo 70-octies, pur facendo parte del Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile approvato il d.P.R. n. 396 del 2000, costituisce fonte di rango legislativo in quanto introdotta dal decreto legislativo n. 2 del 2017.
[2] Il citato decreto legislativo da attuazione alla Legge delega del 10 dicembre 2014, n. 183 (cd. Jobs Act) recando disposizioni “per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati”.
[3] Si ricorda che la NASpI costituisce la prestazione previdenziale “avente la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione” (articolo 1, D.lgs. 4 marzo 2015, n. 22).
[4] Con ordinanza del 6 dicembre 2022, iscritta al n. 131 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2023.
[5] Nell’ordinanza di rimessione il giudice a quo evidenzia anche una possibile lesione dell’articolo 36 Cost. e 41 Cost., quali disposizioni a tutela, rispettivamente, del lavoro subordinato e del lavoro autonomo.
[6] Cons. di Stato Ordinanza di rimessione n. 158 del 15 novembre 2023
[7] Nelle pronunce richiamate, la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale, rispettivamente, l’articolo 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 (sent. 232/2018) e l’articolo 3, comma 3, della L. 104/1992 (sent. 213/2016), in quanto restringevano in maniera irragionevole il novero dei soggetti legittimati a fruire dei benefici (permessi o congedi) per l’assistenza dei familiari.
[8] L’articolo 1 del D.L. n. 207/2012 dispone che, con D.P.C.M., può essere definito uno stabilimento di interesse strategico nazionale quando presso di esso sono occupati un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a duecento da almeno un anno e vi sia una assoluta necessità di salvaguardia dell'occupazione e della produzione; in tal caso, il Ministro dell'ambiente può autorizzare, in sede di riesame dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA), la prosecuzione dell'attività produttiva per un periodo di tempo determinato non superiore a 36 mesi ed a condizione che vengano adempiute le prescrizioni contenute nel provvedimento di riesame della medesima autorizzazione, secondo le procedure ed i termini ivi indicati, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell'ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili. In tali casi, le misure volte ad assicurare la prosecuzione dell'attività produttiva sono esclusivamente e ad ogni effetto quelle contenute nel provvedimento di autorizzazione integrata ambientale, nonché le prescrizioni contenute nel provvedimento di riesame dell’AIA. È fatta comunque salva l'applicazione delle disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006 in materia di riesame dell’AIA (art. 29-octies, c. 4), modifica degli impianti o variazione del gestore (art. 29-nonies) e rispetto delle condizioni dell’AIA (art. 29-decies). La norma precisa inoltre che le disposizioni di cui all’articolo 1 del D.L. n. 270/2012 trovano applicazione anche quando l'autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell'impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell'autorizzazione, l'esercizio dell'attività d'impresa.
[9] In proposito nella sentenza in commento viene ricordato che “questa Corte ha in quell’occasione sottolineato che il provvedimento di riesame dell’AIA – successivo alla constatazione dell’inefficacia delle prescrizioni contenute nell’AIA originaria – «indica un nuovo punto di equilibrio, che consente […] la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere, anche con investimenti straordinari da parte dell’impresa interessata, le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni»”, nonché che “la sentenza n. 85 del 2013 ha ritenuto compatibile con le ragioni di tutela della salute e dell’ambiente una disciplina che vincola il giudice alle prescrizioni cristallizzate nell’AIA riesaminata: e cioè in un provvedimento «di derivazione europea» (sentenza n. 233 del 2021) che «costituisce l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed amministrativi in un unico procedimento, nel quale […] devono trovare simultanea applicazione i princìpi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell’AIA, con le sue caratteristiche di partecipazione e di pubblicità, rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione» (sentenza n. 85 del 2013).”.
[10] Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare.
[11] Il testo del suddetto art. 24, c. 2, è stato novellato dall’art. 1, comma 707, della L. 190/2014 (Legge di bilancio 2015).
[12] La stessa Corte, nella sentenza n. 433 del 1999, aveva infatti affermato che, se tale contribuzione aggiuntiva (sia essa obbligatoria, volontaria o figurativa) può valere ad incrementare la prestazione pensionistica, non può compromettere il livello già maturato.
[13] Cfr. la richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 82 del 2017.
[14] Cfr. le richiamate sentenze della Cassazione, sezione lavoro, del 16 maggio 1998, n. 4945, e del 28 settembre 2007, n. 20378.