Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
Titolo: | Il controllo di costituzionalità delle leggi |
Serie: | Rassegna costituzionale Numero: 3/Luglio - Settembre 2022 |
Data: | 07/11/2022 |
Organi della Camera: | I Affari costituzionali |
Il controllo di costituzionalità delle leggi
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RASSEGNA TRIMESTRALE
DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
______________________
ANNO II NUMERO 3 - LUGLIO-SETTEMBRE 2022
Servizio Studi
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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del terzo trimestre dell’anno 2022. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.
Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.
RCost_II_3.docx
I N D I C E
1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore........................................................................................ 3
2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali........... 7
§ 2.1 Tabella di sintesi (luglio – settembre 2022)............................................. 7
§ 2.2. La sentenza n. 169 del 2022 su un'abrogazione con effetto retroattivo di un premio incentivante la permanenza in servizio................................... 10
§ 2.3. La sentenza n. 179 del 2022 in materia di mancato coinvolgimento del sistema delle regioni nel riparto di fondi che incidono su materie di competenza regionale................................................................................... 13
§ 2.4. La sentenza n. 195 del 2022 in materia di procedimento per l’acquisto della cittadinanza per matrimonio................................................................ 17
§ 2.5. La sentenza n. 205 del 2022 in materia di responsabilità civile dei magistrati...................................................................................................... 21
3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (luglio-settembre 2022).................................................................. 25
§ 3.1. La sentenza n. 175 del 2022 in materia di introduzione di una nuova fattispecie penale da parte del legislatore delegato non sorretta dai principi e dai criteri direttivi della delega legislativa................................................ 30
§ 3.2. Sentenza n. 180 del 2022 in materia di ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina delle misure di prevenzione e quella dell’informazione interdittiva antimafia....................................................... 33
§ 3.3. La sentenza n. 183 del 2022 in materia di licenziamento illegittimo.... 37
§ 3.4. La sentenza n. 202 del 2022, sulla tutela dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni domestici per eventi verificatisi in ambienti diversi da quelli in cui dimora il nucleo familiare dell'assicurato. 40
§ 3.5. La sentenza n. 203 del 2022 sulla impossibilità di intervenire nel giudizio di responsabilità amministrativa, per il terzo non evocato in giudizio dal pubblico ministero contabile.................................................... 43
La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).
Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.
La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, ma solo da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza
di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In questo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.
La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.
La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).
Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).
Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).
Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.
Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.
Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.
L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XVIII è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).
Sentenza |
Norme dichiarate illegittime |
Parametro costituzionale |
Oggetto |
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del 25 maggio – 1 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 914[1] Senato Doc VII, n. 165
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art. 130, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Riduzione dell’onorario dell’ausiliario del magistrato, nei casi di ammissione al patrocinio a spese dello Stato |
del 25 maggio – 1 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 915 Senato Doc VII, n. 166
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art. 2751-bis, numero 3), cod. civ. e art. 1, comma 474, L. n. 205/2017
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Privilegio generale mobiliare sui crediti per provvigioni non estesa al credito di rivalsa per l'imposta sul valore aggiunto (IVA) sulle provvigioni dovute per l'ultimo anno di prestazione in favore dell'agente che svolga una prestazione di opera continuativa e coordinata |
del 9 giugno – 5 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 917 Senato Doc VII, n. 167
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art. 1, comma 261, L. 23 dicembre 2014, n. 190
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Illegittimità costituzionale della disposizione che ha abrogato, con effetto retroattivo, il premio previsto, in occasione del pensionamento, per i controllori del traffico aereo rimasti in servizio nelle forze armate alla data del 22 gennaio 2004
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del 25 maggio – 12 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 919 Senato Doc VII, n. 168
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art. 538 cod. proc. pen.
illegittimità parziale
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articoli 3, 24 e 111 Cost. |
Sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto - Possibilità che il giudice decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile |
del 23 giugno – 12 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 920 Senato Doc VII, n. 169
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art. 168-bis, quarto comma, cod. pen.
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Divieto di concedere la messa alla prova più di una volta in caso di continuità tra più reati |
del 23 giugno – 14 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 921 Senato Doc VII, n. 170
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art. 7, comma 1, lettera b), D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 e art. 10-bis, D.Lgs 74 del 2000, limitatamente ad alcune parole
illegittimità parziale
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art. 25, secondo comma, 76 e 77, primo comma, Cost. |
Introduzione di nuova fattispecie penale da parte del legislatore delegato non sorretta dai principi e dai criteri direttivi della delega legislativa. |
del 21 giugno – 19 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 925 Senato Doc VII, n. 171
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art. 1, commi 202 e 649, L. 30 dicembre 2020, n. 178
illegittimità parziale
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articoli 117, quarto comma, 118 e 119 e articolo 120 Cost. |
Mancato coinvolgimento delle regioni nella determinazione delle modalità e dei criteri di ripartizione di fondi che incidono in materie di competenza regionale, concorrente o residuale, di volta in volta individuate
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del 26 aprile – 25 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 3 (XIX legislatura) Senato Doc VII, n. 172
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art. 22, comma 8, D.L. 24 aprile 2017, n. 50, conv. in L. n. 96/2017
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articoli 3 e 41 Cost. |
Sostegno finanziario, con norma provvedimento, in favore di enti di promozione sociale e culturale, individuati dalla legge |
del 23 giugno – 26 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 11 (XIX legislatura) Senato Doc VII, n. 173
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art. 5, L. 5 febbraio 1992, n. 91
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Esclusione, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, della morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento di acquisizione della cittadinanza per matrimonio |
del 6 luglio – 15 settembre 2022
Camera Doc VII, n. 20 (XIX legislatura) Senato Doc VII, n. 174
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art. 2, comma 1, L. 13 aprile 1988, n. 117 (nel testo antecedente la riforma della L. 27 febbraio 2015, n. 18) |
articoli 2, 3 e 32 Cost. |
Mancata risarcibilità, nella disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati vigente fino al 2015, dei danni non patrimoniali per lesioni di diritti inviolabili diversi dalla libertà personale |
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 169 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 261, della legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità 2015), nella parte in cui ha disposto l’abrogazione dell’articolo 2262, commi 2 e 3, del Codice dell’ordinamento militare (decreto legislativo n. 66 del 2010).
L'illegittimità è ravvisata nell'abrogazione con effetto retroattivo di un premio per i controllori di volo, incentivante la permanenza in servizio nell'amministrazione militare, da erogarsi al momento della cessazione dal servizio per raggiunti limiti di età.
L'annullamento ex post della normativa premiale, ad effetti incentivanti conseguiti ed alla vigilia del prodursi delle condizioni per l'erogazione del premio, è stata ritenuta collidere con il principio di ragionevolezza insito nell'articolo 3 della Costituzione.
Nella precedente rassegna costituzionale (riferita al trimestre aprile-giugno 2022) si è avuto modo di richiamare, in tema di limiti alla retroattività delle leggi, la sentenza n. 145 del 2022. Su questo medesimo riguardo, per ulteriori profili vale richiamare la sentenza n. 169 in esame.
Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è l'articolo 1, comma 261 della legge di stabilità 2015 (legge 23 dicembre 2014, n. 190).
Esso abroga i commi 2 e 3 dell'articolo 2262 del Codice dell'ordinamento militare (decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66).
Siffatti commi concernono premi residuali al personale dell'Esercito italiano, della Marina militare e dell'Aeronautica militare, addetto al controllo del traffico aereo.
Sono premi originariamente previsti dalla legge n. 365 del 2003, le cui previsioni sono state successivamente trasposte nell'unitario corpo normativo del Codice dell'ordinamento militare.
Il comma 3 citato prevede che agli ufficiali e ai sottufficiali dell'Esercito italiano, della Marina militare e dell'Aeronautica militare, addetti al controllo del traffico aereo, i quali abbiano superato il quarantacinquesimo e non superato il cinquantesimo anno di età, sia corrisposto un premio, in unica soluzione al raggiungimento dei limiti di età per la cessazione dal servizio.
Si tratta di misura premiale rispondente all'obiettivo di incentivare la permanenza del personale controllore di volo nell'Amministrazione militare, disincentivandone l'esodo verso l'Ente nazionale di volo (ENAV), più appetibile quanto a condizioni economiche.
Il giudice a quo impugnava solo l'abrogazione di tale comma 3 dell'articolo 2262 del Codice. Tuttavia il giudice delle leggi ha, nella sua declaratoria di illegittimità costituzionale, censurato l'abrogazione altresì del comma 2. Esso prevede l'erogazione di un premio a quel medesimo personale, il quale pur non avendo superato il quarantacinquesimo anno di età alla data del 22 gennaio 2004, non abbia potuto contrarre tutti i periodi di ferma volontaria - premio da corrispondere del pari in unica soluzione, al raggiungimento dei limiti di età per la cessazione dal servizio.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia ha promosso questioni di legittimità costituzionale della disposizione della legge di stabilità 2015 abrogativa della misura premiale sopra ricordata, ritenendola lesiva degli articoli 3, 36 e 97 della Costituzione.
L'articolo 3 rileva soprattutto in relazione al canone di ragionevolezza e di legittimo affidamento, poiché il legislatore avrebbe fatto venire meno le aspettative di conseguimento del beneficio economico, sulla cui base i controllori di volo hanno deciso nel 2003 di proseguire il rapporto con l'amministrazione militare.
L'articolo 36 sarebbe inciso - secondo il giudice a quo - perché l'abrogazione del premio dopo oltre un decennio dalla sua introduzione e dall'esercizio dell'opzione di restare nei ruoli dell'Amministrazione militare anziché transitare in quelli dell'ENAV, avrebbe alterato retroattivamente il compenso promesso e l'equilibrio tra prestazione resa e retribuzione percepita.
L'articolo 97 rileverebbe perché l'abrogazione retroattiva, inducendo un'azione amministrativa iniqua, colliderebbe con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.
La Corte ha ritenuto fondata la questione di illegittimità, con riferimento all'articolo 3 della Costituzione.
Ha così ritenuto affetto da irragionevolezza il modo di procedere del legislatore, il quale dapprima ha creato le condizioni onde gli interessati non abbandonassero l'amministrazione militare (mercé una misura premiale incentivante la permanenza in quel servizio), e poi, una volta raggiunto il risultato, ed alla vigilia del conseguimento delle condizioni per l'erogazione dell'emolumento, ha abrogato la norma sua attributiva.
Da quella norma discende in via diretta una situazione soggettiva che radica nei suoi destinatari un affidamento “rinforzato”.
Tale situazione, scandisce la Corte costituzionale, non può essere esposta ad un semplice ripensamento del legislatore, abrogante la norma-incentivo a distanza di dodici anni dalla sua introduzione, dopo aver raggiunto lo scopo che essa perseguiva, di contenere cioè l’esodo dei dipendenti all’epoca in servizio presso le Forze armate quali controllori di volo.
La Corte è costante nel ritenere che il valore del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica trovi copertura costituzionale nell'articolo 3 della Costituzione.
Invero tale principio - aggiunge la Corte costituzionale - non esclude che il legislatore possa adottare disposizioni modificative la disciplina di rapporti giuridici in senso sfavorevole agli interessati, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti.
“Ciò può avvenire, tuttavia, a condizione che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto”.
Occorre dunque stabilire se le disposizioni sopravvenute incidano in maniera irragionevole, e quindi costituzionalmente illegittima, sull'affidamento.
Secondo la Corte, di tale lesione costituiscono indici rilevatori:
- l'ampiezza del lasso temporale intercorrente tra il momento della definizione dell'assetto regolatorio originario e quello in cui tale assetto venga mutato con efficacia retroattiva, qui rilevando il “grado di consolidamento” della situazione soggettiva originariamente riconosciuta e poi travolta dall'intervento retroattivo;
- la prevedibilità della modifica retroattiva;
- la proporzionalità dell’intervento legislativo modificativo in peius.
Ebbene, nel caso in esame, la norma abrogativa censurata si mostra affetta da tale irragionevolezza secondo la Corte, in quanto, a fronte di una ratio incentivante della norma abrogata, produce effetti retroattivi ingiustificati, incidenti su situazioni soggettive fondate sulla legge e sulla permanenza in servizio del personale, così contraddicendo ex post il senso della normativa premiale.
Tale censura, per inciso, non investe tematica altra, riferibile alle modifiche nell’ambito di un rapporto di durata come quello previdenziale, in quanto la norma in questione riguarda solo un premio da erogarsi una tantum.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 179 del 2022, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge di bilancio 2021, nella parte in cui non prevedono forme di coinvolgimento delle regioni nella determinazione delle modalità e dei criteri di ripartizione di fondi che incidono in materie di competenza regionale, concorrente o residuale, di volta in volta individuate.
La decisione fa seguito ad altre due pronunce (cfr. sentenze n. 114 e n. 123 del 2022, per le quali si rimanda alla rassegna del secondo trimestre del 2022) che avevano già censurato ulteriori disposizioni della stessa legge di bilancio nella parte in cui non prevedevano che i decreti ministeriali ivi previsti fossero adottati previa intesa con la Conferenza Stato – Regioni ovvero con le singole regioni interessate.
Risultano nello specifico oggetto di pronuncia di illegittimità costituzionale le seguenti disposizioni della legge n. 178 del 2020 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023):
· l’art. 1, comma 202, il quale prevede che, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, siano determinati i criteri, gli importi e le modalità di erogazione del fondo finalizzato alla concessione di contributi alle imprese non industriali con sede in quei comuni in cui si sono verificate, nel corso del 2020, interruzioni della viabilità dovute a crolli di infrastrutture stradali;
· l’art. 1, comma 649, che modifica la disciplina di un fondo istituito (dal decreto legge n. 104 del 2020) a favore delle imprese esercenti servizi di trasporto di passeggeri mediante autobus, non soggetti a obblighi di servizio pubblico.
La Regione Campania, con ricorso del marzo 2021 ha promosso in via principale, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale delle suddette disposizioni della legge di bilancio 2021, ritenendo che le stesse sarebbero lesive, sotto diversi profili, di una o più delle disposizioni di cui agli articoli 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e il principio di leale collaborazione di cui all’articolo 120 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono alcuna forma di coinvolgimento delle autonomie territoriali nell’adozione dei decreti ministeriali che definiscono i criteri di riparto, gli importi e le modalità di erogazione delle risorse stanziate con i fondi in parola, sebbene questi ultimi incidano su materie di competenza legislativa concorrente (commercio con l’estero e sostegno all’innovazione per i settori produttivi) o residuale (commercio, agricoltura e trasporto pubblico locale) delle regioni.
La regione ha altresì promosso questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 597 della legge di bilancio per il 2021, per violazione dei medesimi articoli e principi della Costituzione sopra invocati. Secondo la ricorrente, tale ultima disposizione, prevedendo la creazione di una banca dati statale – in aggiunta a quelle regionali – delle strutture ricettive e degli immobili destinati alle locazioni brevi, invaderebbe l’ambito di competenza legislativa residuale regionale in materia di turismo.
Come anticipato in premessa, con due precedenti decisioni (sentenze n. 123 e n. 114 del 2022), la Corte aveva già ritenuto fondate e definito le altre questioni sollevate in via principale dalla regione ricorrente e aventi ad oggetto ulteriori disposizioni della legge di bilancio 2021, diverse da quelle sopra richiamate, in relazione a profili di legittimità costituzionale sostanzialmente analoghi a quelli oggetto della presente pronuncia. Si trattava in quel caso di disposizioni ricondotte dalla Corte alle competenze concorrenti in materia di “tutela della salute” e “ordinamento sportivo”.
Come nelle due citate sentenze e conformemente a un suo consolidato orientamento giurisprudenziale, la Corte ribadisce ancora una volta la necessità di applicare il principio di leale collaborazione nei casi in cui lo Stato preveda un finanziamento, con vincolo di destinazione, incidente su materie di competenza regionale (residuale o concorrente). In tale ipotesi, ai fini della salvaguardia del corretto riparto delle competenze, la legge statale deve prevedere strumenti di coinvolgimento delle regioni nella fase di attuazione della normativa, nella forma dell’intesa o del parere, in particolare quanto alla determinazione dei criteri e delle modalità del riparto delle risorse destinate agli enti territoriali.
Nello specifico, con riguardo alle censure avanzate sul citato comma 202 dell’articolo 1 della legge di bilancio, la Corte non ritiene irragionevole né sproporzionata la valutazione dell’interesse pubblico che ha condotto all’attrazione in sussidiarietà delle funzioni legislative in ambiti di competenza regionale, al fine di intervenire per sostenere economicamente imprese operanti in più ambiti, non industriali, alcuni dei quali di competenza regionale.
Cionondimeno, la Corte rileva che non è soddisfatta un’ulteriore condizione richiesta per l’attrazione in sussidiarietà, a partire dalla sentenza n. 303 del 2003: la disposizione impugnata non prevede, infatti, un adeguato coinvolgimento delle regioni interessate, che potrebbe realizzarsi in sede di Conferenza Stato-regioni.
La Corte ritiene quindi fondata la questione e conseguentemente dichiara la disposizione contenuta al comma 202 costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con quello dello sviluppo economico, di determinazione dei criteri, degli importi e delle modalità di erogazione del relativo fondo, sia adottato previa intesa nella Conferenza Stato-regioni.
In particolare, la Corte rileva che l’ampiezza della formula utilizzata dal legislatore («imprese non industriali») per indicare le imprese beneficiarie del fondo di cui al comma 202 è tale da intercettare anche ambiti materiali di competenza regionale residuale (ad es. commercio e agricoltura).
Richiamando alcune sue pronunce (sentenze n. 63 del 2008 e n. 242 del 2005) aventi ad oggetto norme istitutive di fondi a sostegno delle imprese operanti in vari settori (agricoltura, commercio, industria, pesca, turismo ecc.), la Corte ribadisce che «il Fondo in esame risulta diretto a perseguire finalità di politica economica – costituite dal sostegno alle imprese in difficoltà, la cui scomparsa dal mercato potrebbe danneggiare il sistema economico produttivo nazionale – che, almeno in parte, sfuggono alla sola dimensione regionale […]; e che sono, perciò, tali da giustificare la deroga al normale riparto di competenze fra lo Stato e le Regioni e la conseguente “attrazione in sussidiarietà” allo Stato della relativa disciplina, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza». In quei casi la Corte ha conseguentemente dichiarato l’illegittimità della norma impugnata nella parte in cui non prevedeva che i criteri e le modalità di attuazione dei finanziamenti fossero determinati d’intesa con la Conferenza Stato-regioni.
Merita sul punto rilevare che, in sede parlamentare, disposizioni di analogo tenore e cioè volte all’istituzione di fondi generali per il sostegno alle imprese (vale a dire senza specificare il settore di attività delle imprese) sono state invece in passato ricondotte prevalentemente alla competenza esclusiva statale in materia di “tutela della concorrenza”. Ciò sulla base del richiamo ad una precedente giurisprudenza della Corte costituzionale che ascriveva a tale competenza gli “strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese” (sentenza n. 14 del 2004, così ad esempio nel parere reso dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali nella seduta del 23 giugno 2021 sul disegno di legge C. 3132 di conversione del decreto-legge n. 73 del 2021, cd. DL sostegni-bis, con riferimento all’articolo 2 istitutivo di un fondo di sostegno per le attività economiche oggetto di provvedimenti di chiusura per l’emergenza COVID-19[2]).
Analogamente, in riferimento alle censure avanzate alla disposizione di cui al citato comma 649 dell’articolo 1 della legge di bilancio, ritenendo che tale disposizione afferisca alla materia di competenza legislativa regionale residuale del trasporto pubblico locale, la Corte richiama la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui «la materia del trasporto pubblico locale appartiene alla competenza legislativa residuale regionale, sia pur con i limiti derivanti dall’eventuale rilievo di competenze esclusive dello Stato» (da ultimo, sentenza n. 163 del 2021).
Conformandosi alla sua consolidata giurisprudenza, la Corte ritiene fondata anche questa ulteriore questione promossa dalla regione ricorrente e, di conseguenza, dichiara l’illegittimità costituzionale del comma 649, nella parte in cui non prevede che – limitatamente alle risorse destinate alle imprese esercenti servizi di trasporto pubblico locale – il decreto del Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, di determinazione dei criteri e delle modalità per l’erogazione delle risorse del relativo fondo, sia adottato previa intesa nella Conferenza Stato-regioni.
Infine, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 597 (istitutivo, come già si è accennato, di una banca dati statale – in aggiunta a quelle regionali – delle strutture ricettive e degli immobili destinati alle locazioni brevi), è stata dichiarata inammissibile in relazione all’asserita violazione dell’articolo 119 Cost. e non fondata in relazione agli artt. 97, 117, quarto comma, e 118 Cost., nonché al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 della Costituzione. Tra le altre cose, la Corte ha rilevato la disposizione appare riconducibile alla competenza esclusiva statale in materia di “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale” (art. 117, secondo comma, lettera r).
Con la sentenza n. 195 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 5 della L. n. 91 del 1992, che disciplina l'ipotesi di acquisto della cittadinanza per matrimonio con cittadino italiano, nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del relativo procedimento per l'attribuzione della cittadinanza.
In altre parole, la morte del coniuge, dopo la presentazione dell'istanza e mentre è in corso il procedimento amministrativo per l’acquisto della cittadinanza, non può essere più causa di rigetto della domanda.
Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’articolo 5 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), che disciplina le modalità e i requisiti per l’acquisto della cittadinanza per matrimonio.
Tale disposizione, nella formulazione vigente, stabilisce che la cittadinanza per matrimonio è attribuita quando il richiedente, straniero o apolide, è coniugato con cittadino italiano da almeno due anni e dimostra di avere la continuativa residenza legale in un Comune italiano da almeno due anni dalla data del matrimonio o della naturalizzazione del coniuge. Se i coniugi hanno la residenza all'estero, la domanda di cittadinanza può essere presentata dopo tre anni dalla data di matrimonio. In ogni caso, in presenza di figli nati o adottati dai coniugi, i termini sono ridotti della metà.
Inoltre, la legge richiede che «lo scioglimento, l'annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio» o «la separazione personale dei coniugi», che ostano al riconoscimento della cittadinanza, non devono sussistere al momento dell'adozione del decreto di conferimento della cittadinanza. Infine, sono previste cause ostative all’acquisto della cittadinanza, correlate alla condanna per taluni illeciti penali (art. 6 L. n. 91/1992), a cui si aggiunge un’ulteriore preclusione, costituita dalla sussistenza di «comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica».
Sul procedimento di acquisizione della cittadinanza per matrimonio, sono intervenute alcune recenti modifiche normative. In particolare il decreto legge n. 113 del 2018 (articolo 14) ha abrogato la disposizione (art. 8, co. 2, L. 91/1992) che impediva all'amministrazione il rigetto dell'istanza di cittadinanza per matrimonio dopo due anni dalla presentazione. La norma abrogata, in pratica, assegnava alla amministrazione pubblica un termine perentorio di due anni per pronunciarsi sulla istanza di cittadinanza, con la precisazione che, una volta decorso tale termine, la domanda non poteva essere rigettata (si creava cioè una sorta di "silenzio assenso").
Parallelamente, il decreto-legge n. 113/2018 aumentava da ventiquattro a quarantotto mesi il termine massimo per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio. Tale termine è stato successivamente ridotto a «ventiquattro mesi prorogabile sino al massimo di trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda» dal decreto-legge n. 130 del 2020 (art. 4, co. 5-7) con effetti per le domande presentate a partire dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del medesimo decreto (art. 9-ter, L. 91/1992).
Infine, sempre il D.L. n. 113 del 2018 ha subordinato l'acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio (art. 5) al possesso da parte dell'interessato di un'adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro Comune Europeo di Rifermento per le Lingue (QCER).
Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dal Tribunale ordinario di Trieste, sezione civile, in relazione all’art. 5 della legge n. 91 del 1992, nella parte in cui non esclude dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti dalla legge per la conclusione del relativo procedimento.
Il giudizio a quo origina da un’istanza di cittadinanza inoltrata da una cittadina ucraina residente in Italia e coniugata da oltre due anni con cittadino italiano, dichiarata improcedibile a causa del decesso del coniuge.
Il Tribunale in particolare ha prospettato una violazione dell’art. 3 Cost., in relazione agli artt. 111 e 24 Cost.: nel caso di specie, una circostanza verificatasi nella pendenza del procedimento amministrativo (come la morte del coniuge) impedirebbe il riconoscimento del diritto alla cittadinanza. In tal modo, per il Tribunale lo stesso procedimento «finirebbe con l’assurgere, surrettiziamente, a limite all’accertamento giurisdizionale del diritto, in palese contrasto con l’art. 24 Cost.» e con il principio «del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.
Inoltre si ritiene violato anche l’art. 97 Cost., in quanto «il riconoscimento della posizione giuridica dell’individuo» verrebbe pregiudicato «dalla durata del procedimento amministrativo», in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.
Infine, il giudice a quo ritiene autonomamente violato l’art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza intrinseca della norma, che include la morte del coniuge, nella pendenza del procedimento amministrativo, fra le cause ostative del riconoscimento della cittadinanza al coniuge superstite, considerandola alla stessa stregua delle altre fattispecie previste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 91 del 1992.
Nella motivazione della sentenza la Corte costituzionale riconosce che la norma censurata è contraria al principio di irragionevolezza e dunque in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, in quanto si evidenzia una «contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata».
Poiché secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, il principio di ragionevolezza è leso in presenza di una contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata, l’iter argomentativo della Corte parte dalla ratio della disciplina di cui all’art. 5 della legge n. 91/1992, che è quella di «offrire allo straniero o all'apolide un modo di acquisto della cittadinanza agevolato rispetto ai meccanismi concessori, sul presupposto della sua appartenenza a una comunità familiare, fondata sul vincolo matrimoniale con un cittadino italiano».
In particolare, gli elementi costitutivi per il riconoscimento della cittadinanza ai sensi della legge sono «la sussistenza, al momento della presentazione dell'istanza, di un rapporto coniugale, protratto per il periodo di tempo richiesto dalla legge, in mancanza delle vicende che inficiano il matrimonio o il relativo rapporto. Se, poi, tali vicende sopraggiungono nella pendenza del procedimento amministrativo, esse vengono a configurarsi quali cause ostative al riconoscimento del diritto stesso».
Secondo la Corte la ratio delle citate cause ostative (scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché separazione personale dei coniugi) potrebbe essere duplice. Da un lato, potrebbe ravvisarsi nella scelta di far gravare su chi ha presentato la domanda il rischio del venir meno dei presupposti costitutivi del diritto nella pendenza del procedimento. In alternativa, come peraltro prospettato dal giudice a quo, potrebbe trovare giustificazione nell'esigenza di prevenire usi strumentali del matrimonio, contratto al solo scopo di conseguire la cittadinanza.
Nella motivazione della sentenza, la Corte ha spiegato che nessuna di queste due ragioni consente in ogni caso di superare il vaglio di ragionevolezza rispetto alla norma che ricomprende fra gli elementi ostativi al conferimento della cittadinanza il decesso del coniuge, verificatosi in pendenza del procedimento per il riconoscimento del diritto.
Per un verso, infatti, la morte è un evento del tutto indipendente sia dalla sfera di controllo del richiedente, sia dalla ragion d'essere dell’attribuzione della cittadinanza.
In secondo luogo, l’uso strumentale dell’istituto matrimoniale con il solo scopo di conseguire la cittadinanza «risulta del tutto alieno rispetto all’evento naturale della morte, che non consente di far presumere la sussistenza di un matrimonio fittizio».
La Corte conclude dichiarando che è irragionevole e in contrasto con l'articolo 3 della Costituzione negare la cittadinanza allo straniero (o all'apolide) sposato con un cittadino italiano ma rimasto vedovo dopo aver presentato l'istanza e prima della definizione del relativo procedimento.
In altri termini, la norma è dichiarata illegittima in quanto riferisce al momento dell'adozione del decreto di conferimento della cittadinanza anziché al momento della presentazione dell'istanza, l’accertamento del mancato scioglimento del matrimonio per morte del coniuge.
Con la sentenza n. 205 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., dell’art. 2, co. 1, legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo precedente alla modifica apportata dall’art. 2, co. 1, lett. a), L. 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui non contempla il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona anche diversi dalla libertà personale.
Risulta nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’art. 2, comma 1, della l (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della Legge n. 18/2015 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui limita il risarcimento dei danni non patrimoniali alla sola lesione della libertà personale, escludendo dalla medesima tutela gli altri diritti inviolabili della persona garantiti dall’art. 2 Cost. (compreso il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.).
Giudice a quo è la Corte di cassazione chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali subiti da un soggetto, per essere stato erroneamente coinvolto in un procedimento penale avviato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro, nel quale si ipotizzava un suo concorso esterno nel reato di associazione a delinquere di tipo mafioso. Il giudice rimettente ha ritenuto che ai fatti di causa, in quanto verificatisi anteriormente al 2015, dovesse applicarsi ratione temporis il testo originario dell’art. 2, l. n. 117 del 1988, non avendo la legge n. 18 del 2015 previsto una disciplina transitoria, idonea a derogare alla regola generale contemplata dall’art. 11 delle preleggi. Il Supremo giudice, nel sollevare questione di legittimità costituzionale, ravvisa, sia nell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nella sua originaria formulazione, sia nell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, un vulnus agli artt. 2, 3 e 32 Cost. In particolare, con riguardo alle questioni sollevate sulla prima norma, il giudice rimettente lamenta, rispetto a «diritti della persona», «di rango costituzionale», cui l’ordinamento giuridico «riconosce massima espansione», un sacrificio che non sarebbe ragionevolmente giustificato da esigenze di bilanciamento con i principi dell’indipendenza dei magistrati e dell’autonomia della funzione giudiziaria. Quanto alle questioni di legittimità costituzionale poste con riferimento all’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, il giudice rimettente ritiene che l’inapplicabilità della nuova formulazione dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988 a fatti verificatisi anteriormente, ma ancora sub iudice, determinerebbe una «disparità di trattamento e [una lesione] dei principi di effettività ed integralità del risarcimento correlato alla violazione di diritti primari della persona».
La Corte costituzionale ha ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo all’art. 2, co. 1, l. n. 117 del 1988. La Consulta, dopo aver ricordato il carattere di specialità dell’illecito da esercizio della funzione giudiziaria previsto dall’art. 2, l. n. 117 del 1988 e aver ripercorso l’evoluzione ermeneutica della regola generale di cui all’art. 2059 c.c., ha sottolineato con la scelta selettiva operata dall’art. 2, co. 1, l. n. 117 del 1988 si ponga in contrasto con l’esigenza di una piena tutela risarcitoria di tutti i diritti inviolabili della persona. A ben vedere, secondo la Corte, nonostante "il carattere precursore di una maggiore apertura alla risarcibilità dei danni non patrimoniali, proprio della citata disciplina (l’art. 2, co. 1, l. n. 117 del 1988), non basta a suffragare l’ipotesi di una applicazione sopravvenuta, alla responsabilità civile del magistrato, dell’art. 2059 cod. civ., raccordato con l’art. 2 Cost., nei termini di una interpretazione costituzionalmente orientata". Di qui l’irragionevolezza della disposizione censurata, ravvisabile nella scelta legislativa di impedire la piena tutela risarcitoria ai diritti inviolabili della persona diversi dalla libertà personale, che la Costituzione «riconosce e garantisce» all’art. 2 Cost. e ai quali si deve ricondurre anche il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.
Secondo il Giudice costituzionale, la selezione di un solo diritto inviolabile della persona da proteggere con il risarcimento dei danni non patrimoniali, anche fuori dai casi di reato, non è giustificata dalla esigenza di preservare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, esigenza che, a sua volta, rileva nella definizione del confine fra lecito e illecito e nella dialettica tra azione civile diretta nei confronti dello Stato e azione di rivalsa nei riguardi del magistrato. Rispettate queste condizioni e definito il confine di ciò che è illecito, non può considerarsi legittima una compressione della tutela civile del danneggiato, leso nei suoi diritti inviolabili.
Ed ancora, sempre secondo la Consulta, la limitazione prevista dalla norma censurata si traduce in una irragionevole differenziazione nella difesa civile dei diritti inviolabili della persona, «evocatrice, in tale ambito, di una insostenibile gerarchia interna a tale categoria di diritti».
La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della disposizione censurata assicura, pertanto, una piena ed effettiva tutela risarcitoria a tutti i diritti inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost. – anche diversi dalla libertà personale – offrendo la medesima protezione desumibile dalla riforma del 2015. Relativamente alle censure, relative all’art. 2, co. 1, lett. a), l. n. 18 del 2015, la Corte, nel rilevare che la norma di cui si lamentava la mancata applicazione retroattiva ha un contenuto che finisce per combaciare con quello della norma che, all’esito di questo giudizio di legittimità costituzionale sull’art. 2, co. 1, l. n. 117 del 1988 nel testo antecedente alla riforma, risulta applicabile proprio ai fatti antecedenti al 2015, ha dichiarato la non fondatezza delle questioni poste con riferimento all’art. 2, co. 1, lett. a), l. n. 18 del 2015.
Nel periodo considerato i moniti e gli inviti diretti al legislatore statale hanno riguardato:
§ l’introduzione di nuova fattispecie penale da parte del legislatore delegato non sorretta dai principi e dai criteri direttivi della delega legislativa (sentenza n. 175 del 2022);
§ l’ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina delle misure di prevenzione e quella dell’informazione interdittiva, in relazione alla preclusione della facoltà del prefetto di valutare l’impatto dell’informazione interdittiva sulle condizioni economiche del destinatario e di eventualmente escluderne gli effetti (sentenza n. 180 del 2022);
§ i criteri per la determinazione dell’indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo intimato dai datori di lavoro di piccole dimensioni (sentenza n. 183 del 2022);
§ la limitazione dell’ambito di operatività dell’assicurazione contro gli infortuni domestici ai soli immobili ove dimora il nucleo familiare dell’assicurato (sentenza n. 202 del 2022);
§ il deficit di tutela del terzo, non convenuto nel processo di responsabilità amministrativa e il cui intervento in giudizio non può essere ordinato dal giudice, né aversi su base volontaria senza aderire alla posizione del PM (sentenza n. 203 del 2022).
Sentenza |
Oggetto del monito |
Estratto |
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del 23 giugno – 14 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 921 Senato Doc VII, n. 170
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Introduzione di nuova fattispecie penale da parte del legislatore delegato non sorretta dai principi e dai criteri direttivi della delega legislativa |
«In definitiva, il legislatore delegato ha introdotto (…) una nuova fattispecie penale (omesso versamento di ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione del sostituto), affiancandola a quella già esistente (omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti), senza essere autorizzato a farlo dalla legge di delega, mentre sarebbe stato necessario un criterio preciso e definito per poter essere rispettoso anche del principio di stretta legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.) (…) Deve, quindi, escludersi che il legislatore delegato potesse intervenire in un dibattito giurisprudenziale ancora in corso per offrire un “soccorso normativo” alla tesi di maggior rigore (…) Per effetto della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale viene ripristinato il regime vigente prima (…) Spetta al legislatore rivedere tale complessivo regime sanzionatorio per renderlo maggiormente funzionale e coerente.» |
del 8 giugno – 19 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 926
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Ingiustificata disparità di trattamento tra la disciplina delle misure di prevenzione e quella dell’informazione interdittiva, in relazione alla preclusione della facoltà del prefetto di valutare l’impatto dell’informazione interdittiva sulle condizioni economiche del destinatario e di eventualmente escluderne gli effetti
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«Non è (…) implausibile il confronto che il giudice rimettente propone tra la differente disciplina dei poteri attribuiti al giudice delle misure di prevenzione, e quelli conferiti al prefetto nell’ambito dell’informazione antimafia. (…) Tali elementi di differenziazione non possono tuttavia considerarsi a tal punto significativi da richiedere necessariamente un diverso regime giuridico quanto ad una esigenza di primario rilievo, quale è, nell’un caso e nell’altro, la garanzia di sostentamento del soggetto colpito dall’una e dall’altra misura, e della sua famiglia. (…) solo nei confronti del soggetto attinto da misura di prevenzione e non in riferimento a quello colpito da interdittiva gli interessi di rilievo pubblicistico (…) sono destinati a cedere il passo all’insopprimibile esigenza di non mettere a rischio la possibilità del soggetto di sostentare sé stesso e la propria famiglia. (…) nella sentenza n. 57 del 2020 questa Corte aveva sottolineato come l’omessa previsione, in capo al prefetto, della possibilità di esercitare, adottando l’informazione interdittiva, i poteri attribuiti al giudice dall’art. 67, comma 5, cod. antimafia, nel caso di adozione delle misure di prevenzione, “meritasse indubbiamente una rimeditazione da parte del legislatore”. Questa rimeditazione, tuttavia, non risulta finora avvenuta. Per tale ragione, in considerazione del rilievo dei diritti costituzionali interessati (…), questa Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile (…) e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte» |
del 23 giugno – 22 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 1 (XIX legislatura)
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Criteri per la determinazione dell’indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo intimato dai datori di lavoro di piccole dimensioni |
« (…) Le argomentazioni addotte dal rimettente, a sostegno dei dubbi di legittimità costituzionale, prefigurano (…) una vasta gamma di alternative e molteplici si rivelano le soluzioni atte a superare le incongruenze censurate. (…) Il legislatore ben potrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano. Non spetta, dunque, a questa Corte scegliere, tra i molteplici criteri che si possono ipotizzare, quelli più appropriati. (…) Tenuto conto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte e alla luce delle innovazioni legislative intervenute (art. 3 del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87[3]), le soglie dell’indennità dovuta potranno essere rimodulate secondo una pluralità di criteri. Anche da questo punto di vista, trova conferma l’ampio spettro delle soluzioni che il legislatore, nella sua discrezionalità, potrebbe elaborare. Si profilano, dunque, ineludibili valutazioni discrezionali, che, proprio perché investono il rapporto tra mezzi e fine, non possono competere a questa Corte. Rientra, infatti, nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di “una normativa di importanza essenziale” (sentenza n. 150 del 2020), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso. Come già questa Corte ha segnalato (…), la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie. (…) questa Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte». |
del 5 – 28 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 18 (XIX legislatura) |
Limitazione dell’ambito di operatività dell’assicurazione contro gli infortuni domestici ai soli immobili ove dimora il nucleo familiare dell’assicurato |
« (…) Il quadro di riferimento consente di cogliere nella legge in esame l’occasione per il legislatore nazionale – in una prospettiva segnata dall’esigenza di far fronte al fenomeno degli infortuni domestici con la finalità di arginarne i costi per la collettività – di superare la contrapposizione tra lavoro domestico ed extradomestico, attribuendo al primo, nell’intento di colmare un vuoto di tutela, pari dignità rispetto alle altre forme di lavoro svolte fuori casa, attraverso il riconoscimento di uno strumento di garanzia assicurativa. (…) la doverosa attenzione e sensibilità ai temi della solidarietà e dell’aiuto rispetto a posizioni di bisogno segnalati dalla ordinanza di rimessione interpellano questa Corte, in una diversa prospettiva di valutazione, ad un forte richiamo al legislatore, affinché la rete sociale sia rinsaldata attraverso la individuazione dei più idonei strumenti e delle più adeguate modalità di fruizione delle prestazioni in esame».
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del 7 – 28 luglio 2022
Camera Doc VII, n. 19 (XIX legislatura) |
Divieto per l’autorità giudiziaria, nel processo di responsabilità amministrativa, di ordinare la chiamata in causa di soggetti non evocati dal PM e deficit di tutela del terzo
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«Il filo conduttore delle censure mosse dalla Corte rimettente è quello di un denunciato deficit di tutela del terzo, il quale (…) in nessun caso può essere chiamato in giudizio per iniziativa officiosa del giudice, ma non di meno è interessato all’accertamento, che il giudice è chiamato a compiere, nel momento in cui il giudice stesso prefigura una sua responsabilità concorrente nella causazione del danno erariale, seppur al solo fine di dimensionare la responsabilità parziaria di ciascun convenuto in giudizio, destinatario dell’azione promossa dal PM. (…) una volta esclusi, sia la chiamata (ex art. 47 citato, ormai abrogato), sia l’intervento (ex art. 107 cod. proc. civ., per la preclusione posta dalla disposizione censurata) in giudizio del terzo per ordine del giudice (per le ragioni sopra esaminate) – rimarrebbe l’ipotesi di un’iniziativa volontaria del terzo stesso (…) Queste, però, sono scelte di sistema, che vedono nel codice di giustizia contabile solo una traccia, non sufficiente per un intervento additivo di questa Corte (…). Sono, in definitiva, scelte devolute al legislatore, il quale «dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute» (sentenza n. 58 del 2020); scelte, pertanto, precluse a questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 143 e n. 13 del 2022, n. 213, n. 148 e n. 87 del 2021 e n. 80 del 2020). (…) Tuttavia, il denunciato deficit di tutela del terzo, non convenuto e il cui intervento in giudizio non può essere ordinato dal giudice, né aversi su base volontaria senza aderire alla posizione del PM, chiama il legislatore a intervenire nella materia compiendo le scelte discrezionali ad esso demandate, quando si discuta nel processo della concorrente responsabilità del terzo stesso, pur se al fine di accertare l’eventuale responsabilità parziaria dei soggetti convenuti in causa.».
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La Corte costituzionale, con la sentenza n. 175 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli articoli 25, secondo comma, 76 e 77, primo comma, della Costituzione, di una disposizione di un decreto delegato (recante la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario), nella parte in cui introduceva di fatto una nuova fattispecie penale di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta. Ad avviso della Corte il legislatore delegato sarebbe intervenuto senza essere autorizzato dalla delega legislativa, mentre sarebbe stato necessario un criterio preciso e definito al fine di garantire anche il rispetto del principio di stretta legalità in materia penale. Per effetto della conseguente reviviscenza della normativa precedente, che era stata peraltro oggetto di un contrasto giurisprudenziale di legittimità, la Corte ricorda che spetta al legislatore rivedere il complessivo regime sanzionatorio oggetto della disposizione dichiarata illegittima, al fine di renderlo maggiormente funzionale e coerente.
La Corte è stata investita della questione sollevata dal Tribunale ordinario di Monza, in composizione monocratica, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 76, 77, primo comma, della Costituzione, nell’ambito di un procedimento penale per il reato di omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, per un importo eccedente la soglia di punibilità contemplata dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000.
Ad avviso del rimettente, per effetto della disposizione censurata (art. 7 del decreto legislativo n. 158 del 2015), la predetta fattispecie di reato sarebbe stata novellata sotto due profili: in primo luogo, restringendo il perimetro di rilevanza penale attraverso l’innalzamento della soglia di punibilità (da cinquantamila a centocinquantamila euro); in secondo luogo, ampliando la fattispecie mediante l’inserimento del riferimento alle ritenute dovute sulla scorta della mera presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta (cosiddetto modello 770), in aggiunta alle ritenute certificate, già contemplate dalla norma.
Richiamando i principi consolidati della giurisprudenza costituzionale in tema di riserva di legge in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.) e di eccesso di delega (artt. 76 e 77, primo comma, Cost.), il rimettente afferma che nella fattispecie in esame sarebbe evidente il contrasto tra i criteri e i principi fissati nella delega e la disposizione censurata del decreto legislativo.
In particolare, l’estensione della fattispecie incriminatrice del delitto di omesso versamento delle ritenute non troverebbe alcuna copertura nella delega legislativa di cui all’art. 8 della legge 11 marzo 2014, n. 23 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita). Tale disposizione – secondo il rimettente - avrebbe infatti delegato il Governo alla «revisione del sistema sanzionatorio penale tributario», limitando lo spazio d’azione del legislatore delegato alla mera «possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto conto anche di adeguate soglie di punibilità».
La Corte giudica sussistente il denunciato eccesso di delega (artt. 76 e 77, primo comma, Cost.) ritenendo che lo stesso, concernendo l’introduzione di una fattispecie di reato da parte del legislatore delegato, vada valutato congiuntamente al rispetto della riserva di legge e del principio di stretta legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.
Come da sua consolidata giurisprudenza, la Corte ricorda infatti che, in materia penale, il legislatore delegante deve configurare i principi e criteri direttivi in modo molto preciso, definendo non solo la specie e l’entità massima delle pene, ma dettando altresì il criterio, in sé restrittivo, del ricorso alla sanzione penale solo per la tutela di determinati interessi rilevanti, a garanzia della riserva di legge e del principio di stretta legalità (così nelle precedenti sentenze n. 53 del 1997 e n. 49 del 1999 e nella ordinanza n. 134 del 2003).
Avallando la ricostruzione della questione operata dal rimettente, la Corte ritiene che la disposizione censurata abbia introdotto una nuova fattispecie di reato, prevedendo come condotta penalmente rilevante ciò che prima costituiva un illecito amministrativo tributario.
Ne deriva che il legislatore delegato ha introdotto (nell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000) una nuova fattispecie penale (omesso versamento di ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione del sostituto), affiancandola a quella già esistente (omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti), senza essere autorizzato a farlo dalla legge di delega, mentre sarebbe stato necessario un criterio preciso e definito per poter essere rispettoso anche del principio di stretta legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.).
Più nel dettaglio, la scelta del legislatore delegato di inserire le parole «dovute sulla base della stessa dichiarazione o» nella fattispecie incriminatrice del delitto di omesso versamento delle ritenute di cui all’art.10-bis contrasta con gli artt. 25, secondo comma, 76 e 77, primo comma, Cost., non essendo sorretta dai principi e dai criteri direttivi della delega legislativa.
In conclusione, assorbito l’ulteriore parametro invocato dal rimettente (i.e. art. 3 Cost. sotto il profilo della violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza.), la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale sia della disposizione impugnata (art. 7, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 158 del 2015), sia dell’art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000, come modificato dalla predetta disposizione, limitatamente alle parole «dovute sulla base della stessa dichiarazione o». In via consequenziale, la Corte dichiara inoltre l’illegittimità della lettera a) della disposizione impugnata, nella parte in cui ha inserito nella rubrica del reato previsto dall’art. 10-bis le parole «dovute o».
Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale viene ripristinato il regime previgente al d.lgs. n. 158 del 2015, che aveva introdotto la disposizione censurata.
Ciò comporta, da una parte, che il mancato versamento da parte del sostituto, per un importo superiore alla soglia di punibilità, riguardi le ritenute certificate e, dall’altra, che il mancato versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione, ma delle quali non c’è prova del rilascio delle relative certificazioni ai sostituiti, torni a costituire un illecito amministrativo tributario.
Infine, la Corte rivolge un monito al legislatore invitandolo a rivedere il predetto regime sanzionatorio, che era stato peraltro oggetto di contrasto giurisprudenziale in seno alla Cassazione, al fine di renderlo maggiormente funzionale e coerente.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 180 del 2022, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo all’art. 92 del d.lgs. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui non attribuisce al prefetto il potere di escludere o limitare la rigida applicazione delle decadenze e dei divieti derivanti dall’emissione un’informazione antimafia interdittiva ancorché, in conseguenza di tali limitazioni, verrebbero a mancare gli indispensabili mezzi di sostentamento all’interessato e alla sua famiglia. Al tempo stesso, la Corte ha invitato il legislatore, come fatto nella precedente sentenza n. 57 del 2020, ad una rimeditazione della disciplina, segnalando che «un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente».
La Corte, nella sua argomentazione, prende le mosse dal confronto con la disciplina dell’art. 67 comma 5 del medesimo Codice, disposizione che, benché riferita al diverso procedimento – di natura giudiziaria, e non amministrativa – dell’applicazione di una misura di prevenzione personale, consente al giudice di escludere alcuni divieti e decadenze quando la loro integrale applicazione produca l’effetto di far mancare all’interessato e alla sua famiglia i necessari mezzi di sostentamento; la disposizione censurata, invece, pur determinando, dal punto di vista effettuale e in chiave economico-imprenditoriale, le medesime decadenze e i medesimi divieti della menzionata misura di prevenzione, non consente al prefetto di modulare la portata dell’interdittiva, anche quando dall’applicazione di quest’ultima derivi il venir meno dei mezzi di sostentamento dell’interessato e della sua famiglia.
Tale disomogeneità di disciplina fra i due istituti citati, pur a fronte dell’identità di effetti e della comune necessità di assicurare il diritto della persona a veder garantiti i propri mezzi di sostentamento, è foriera, secondo la Corte, di un’ingiustificata disparità di trattamento che deve essere risolta, rilevati i profili di discrezionalità che la risoluzione del problema evidenziato porta con sé, in primo luogo, dal legislatore e solo a seguito dell’eventuale inerzia di quest’ultimo dalla Corte.
La Corte è stata investita dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria della questione di legittimità costituzionale dell’art. 92 del d.lgs. 159/2011 per contrarietà agli articoli 3 – 4 – 24 della Costituzione nella parte in cui non consente al prefetto di calibrare gli effetti decadenziali e interdittivi che conseguono all’emanazione un’informazione antimafia allorché ciò si renda necessario per consentire al destinatario del provvedimento e alla sua famiglia la conservazione dei mezzi necessari di sostentamento.
Le censure formulate dal Giudice remittente si fondano su plurime argomentazioni.
In primo luogo, con riguardo all’art. 3 della Costituzione, il Tar prende le mosse dalla diversa disciplina prevista dall’art. 67 del medesimo decreto, indicata quale tertium comparationis cui è agganciato il vaglio di ragionevolezza della Corte. Tale disposizione, come noto, consente al giudice responsabile dell’emanazione di una misura di prevenzione personale di calibrare gli effetti del proprio provvedimento escludendo alcuni dei divieti e decadenze che altrimenti ne conseguirebbero allorché ciò si renda necessario per impedire che vengano meno all’interessato e alla sua famiglia i necessari mezzi di sostentamento.
In secondo luogo, il Tar afferma la contrarietà della disciplina censurata rispetto all’art. 4 della Costituzione; invero, la pervasività della misura dell’informativa, in ragione degli effetti interdittivi che tale provvedimento porta con sé nei rapporti con la P.A. e nelle attività sottoposte a regime autorizzatorio, determinerebbe un’eccessiva compressione del diritto al lavoro – tutelato persino in capo a un detenuto e invece non salvaguardato in capo a colui che sia destinatario di una misura volta a prevenire un evento anche solo potenziale, per di più adottato all’esito di una valutazione condotta sulla base dello standard probatorio del “più probabile che non”.
Infine, il Tar lamenta la violazione dell’art. 24 della Costituzione, atteso che la disposizione scrutinata prevede un contraddittorio procedimentale meramente eventuale che impedisce, pertanto, al destinatario di sottoporre all’autorità prefettizia le conseguenze derivanti dall’emanazione di un’informativa antimafia, conseguenze aventi, in casi analoghi a quello in esame, una diretta ed immediata ricaduta su diritti fondamentali della persona.
La Corte chiarisce, in via preliminare, che il richiamo operato ai parametri di cui agli artt. 4 e 24 della Costituzione assume un ruolo meramente ancillare rispetto alla doglianza principale, articolata intorno alla violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione per ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina vigente in materia di misure di prevenzione personale. Quest’ultima, infatti, all’art. 67 comma 5, come sopra riferito, consente al giudice di poter calibrare gli effetti e mitigare le conseguenze della misura di prevenzione personale emanata quando la rigida applicazione di quest’ultima rischi di determinare il venir meno dei mezzi di sostentamento all'interessato e alla sua famiglia.
Infatti, pur riconoscendo il differente ambito di operatività e la diversa natura dei provvedimenti in esame, uno di natura giurisdizionale, l’altro di natura amministrativa, la Corte mette in evidenza come tanto la misura di prevenzione personale quanto l’informazione antimafia siano strumenti privi di carattere sanzionatorio-punitivo, ma che si caratterizzano per avere natura anticipatoria e una chiara finalità preventiva, essendo volte, la prima, a ridurre il rischio che il soggetto commetta reati, la seconda, ad impedire fenomeni di infiltrazione mafiosa nell’ambito dei rapporti economici con la pubblica amministrazione.
In ogni caso, chiarisce la Corte, occorre che sia adeguatamente tutelata la necessità di garantire un’esigenza di primo rilievo, quale è, nell’uno e nell’altro caso, la garanzia di sostentamento del soggetto colpito dall’una e dall’altra misura; ne segue che la previsione, esclusivamente riferita alle misure di prevenzione e non anche all’informativa antimafia, di temperarne gli effetti interdittivi allorché questi comportino il venir meno dei mezzi di sostentamento dell'interessato e della sua famiglia integra un’ingiustificata disparità di trattamento.
Per queste ragioni le doglianze sollevate dal Giudice remittente e, per vero, già in nuce incidentalmente rilevate nella sentenza n. 57 del 2020, sono condivise dalla Corte.
Non sono stati, infatti, ritenuti idonei ad assicurare un equo bilanciamento delle contrapposte esigenze di garantire, da un lato, la salvaguardia dell’ordine pubblico economico e, dall’altro, il diritto della persona a veder garantiti i necessari mezzi di sostentamento né la natura temporanea dell’interdittiva, atteso che comunque l’orizzonte minimo di dodici mesi è idoneo a determinare conseguenze potenzialmente irrimediabili sulla sopravvivenza dell’impresa, né l’istituto del controllo giudiziario dell’impresa, funzionale a realizzare la “bonifica” della stessa dalle infiltrazioni mafiose, e non il sostentamento dell’interessato e della sua famiglia.
Rilevando, tuttavia, che la risoluzione del quesito posto coinvolge rilevanti profili di discrezionalità, sicché la pronuncia di illegittimità della Corte sarebbe caratterizzata da un cospicuo tasso di manipolatività, la Corte ha dichiarato la questione inammissibile e invitato il legislatore a provvedere.
La discrezionalità invocata dalla Corte, infatti, coinvolge molteplici profili, derivanti anzitutto dalla dirimente circostanza che il procedimento volto all’emanazione di una misura di prevenzione ha natura giurisdizionale, a differenza di quello strumentale all’emanazione di un’interdittiva, che ha natura amministrativa, sicché una soluzione, di mera estensione della disciplina derogatoria del primo al secondo, potrebbe non essere del tutto in linea con la complessiva disciplina su cui tale estensione finirebbe per innestarsi. In secondo luogo, la Corte mette in evidenza come una strategia normativa in astratto percorribile per porre rimedio alla questione in esame sia quella del rafforzamento e dell’innovazione di strumenti già presenti, quali, in particolare, il controllo giudiziario o le misure amministrative di prevenzione collaborativa, la cui disciplina solo dal legislatore può essere modificata in modo organico. Infine, la Corte sottolinea l’alto tasso di discrezionalità politica che caratterizza la scelta di applicare dei limiti alle decadenze e alle esclusioni derivanti da un’informativa antimafia, quando ciò rischi di determinare il venir meno dei mezzi di sostentamento all'interessato e alla sua famiglia, a qualunque tipo di impresa – sicché in tal caso occorre precisare quali soggetti dovrebbero essere presi in considerazione per tale giudizio – ovvero riservare tale trattamento di protezione alle sole imprese esercitate in forma individuale, in cui tale istanze di protezione sembrano essere prima facie più pregnanti.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 183 del 2022 ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 9, comma 1 del D.Lgs. n. 23/2015, laddove prevede che, nel caso in cui il licenziamento illegittimo sia stato intimato da un datore di lavoro con un numero di dipendenti pari o inferiore a quindici (o a cinque se trattasi di imprenditore agricolo), l’ammontare dell’indennità dovuta al lavoratore sia ridotto della metà, rispetto ai valori indicati dal medesimo decreto nella generalità dei casi, e comunque non possa superare le sei mensilità.
Tuttavia, secondo la Consulta, un’indennità costretta entro l’esiguo divario, previsto dal D.Lgs. n. 23/2015, tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza. Inoltre, la normativa vigente conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro.
Ciò chiarito, la Corte costituzionale afferma di non poter porre rimedio al vulnus riscontrato, evidenziando, piuttosto, la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro con meno dipendenti.
La Corte è investita dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che, ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300/1970, l’ammontare delle indennità che il medesimo decreto prevede all’articolo 3, comma 1, siano corrisposte al lavoratore a seguito di un licenziamento giudicato illegittimo (da sei a trentasei mensilità), sia dimezzato e non possa in ogni caso superare il limite di sei mensilità.
L’articolo 18, ottavo comma, fissa come requisito dimensionale per l’applicazione delle disposizioni contenute al medesimo articolo, ai commi dal quarto al settimo, la presenza di più di quindici dipendenti (cinque nel caso di imprenditore agricolo). Il successivo comma nono disciplina le modalità con cui è calcolato il numero di dipendenti, che dunque comprende anche i lavoratori assunti a tempo indeterminato parziale, per la quota orario effettivamente svolto, ma non il coniuge o i parenti entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
In base all’articolo 9 del D.Lgs. n. 23/2015, i datori di lavoro con un numero di dipendenti fino a quindici (o cinque in caso di imprenditore agricolo), sono quindi condannati al pagamento di un’indennità da tre a sei mensilità, nel caso in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo o per giusta causa.
Secondo il tribunale di Roma, lo stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità sarebbe inidoneo a soddisfare il test di adeguatezza e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata alla lavoratrice licenziata senza giustificato motivo o giusta causa.
Il rimettente osserva che la distinzione delle tutele in base ai requisiti occupazionali del datore di lavoro si fonda su un elemento esterno al rapporto di lavoro e ritiene che l’indennità massima prevista non garantisca un’equilibrata compensazione né svolga la necessaria funzione deterrente. Ciò in contrasto con l’articolo 24 della Carta sociale europea, che impone un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione nel caso di licenziamento senza valido motivo. La norma, inoltre, non consentirebbe alcun adeguamento dell’importo riconosciuto alle peculiarità del caso concreto, alla gravità della violazione e al più significativo criterio della dimensione economica e finanziaria dell’impresa.
Per tali ragioni, il tribunale ordinario di Roma prospetta il contrasto con gli articoli 3, primo comma, 4, 35, primo comma e 117, primo comma, della Costituzione.
La Corte, pur riconoscendo che la modulazione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi è demandata all’apprezzamento discrezionale del legislatore, ricorda come esso sia vincolato al rispetto del principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e di trascurare la specificità del caso concreto.
Sottolinea, inoltre, l’importanza della valutazione del giudice chiamato ad attuare la necessaria personalizzazione del danno subito dal lavoratore. Rileva, invece, che un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti.
Evidenzia poi come in un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative, che pur permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto. Il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce, invece, un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete.
Sottolinea, a tal proposito, che in un quadro dominato dall’evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli.
Constatata, dunque, l’inidoneità del sistema di tutele vigenti a consentire l’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, rileva che a tale vulnus non può porre rimedio la Corte stessa. Non ravvisa, infatti, una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l’intervento correttivo della Corte e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci.
Piuttosto, secondo la Consulta, la questione deve essere rimessa all’apprezzamento discrezionale del legislatore.
Questi, sottolinea la Corte, ha di fronte un ampio spettro di soluzioni, potendo, ad esempio, tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano.
La materia, quindi, non può che essere rivista dal legislatore in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie.
Avverte, infine, la Corte, che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà presenti.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 202 del 5 luglio 2022-28 luglio 2022, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma che, limitando l'ambito della tutela dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni domestici agli eventi verificatisi negli ambienti nei quali dimora il nucleo familiare dell'assicurato, non ricomprende le ipotesi in cui l'evento si sia verificato in ambienti in cui vivano soggetti aventi comunque uno specifico legame con l'assicurato e bisognosi di assistenza domestica; la sentenza di inammissibilità riconosce la fondatezza della questione poste dall'ordinanza di rimessione, concludendo, tuttavia, che l'estensione della tutela deve essere operata dal legislatore, mediante scelte discrezionali, relative, in particolare, all'individuazione degli specifici legami dei suddetti altri soggetti con l'assicurato e alla valutazione - connessa all'estensione in oggetto - dell'adeguatezza dell'importo del premio assicurativo.
La Corte costituzionale era stata chiamata dalla Corte d'appello di Salerno, sezione lavoro, a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'articolo 6, comma 2, lettera b), della L. 3 dicembre 1999, n. 493; tale norma specifica che - al fine dell'individuazione dell'ambito degli infortuni domestici rientranti nella tutela assicurativa obbligatoria gestita dall'INAIL - la nozione di ambito domestico concerne l'insieme degli immobili di civile abitazione e delle relative pertinenze in cui dimora il nucleo familiare dell'assicurato[4] (ivi comprese le parti comuni dell'eventuale condominio). Da tale individuazione deriva che la tutela assicurativa non comprende gli infortuni domestici occorsi all'assicurato in altri ambienti, anche nelle ipotesi in cui i soggetti ivi dimoranti abbiano con l'assicurato specifici legami e/o siano bisognosi di assistenza domestica. Il giudice rimettente prospetta che l'esclusione dalla tutela infortunistica dell'attività domestica svolta (nei suddetti altri ambienti) in favore di stretti familiari bisognosi di assistenza domestica violerebbe gli articoli 2, 3, 29, 35, 38 e 117, primo comma, della Costituzione (quest’ultimo in relazione alla Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all'equilibrio tra vita privata e vita professionale).
La sentenza n. 202 in oggetto ha ritenuto inammissibile la sottoposta questione di legittimità, in quanto la medesima questione - pur essendo fondata, sulla base di alcuni principi costituzionali - deve essere affrontata, mediante scelte discrezionali, dal legislatore.
La sentenza rileva che la disciplina (di cui al capo III della citata L. n. 493 del 1999, e successive modificazioni) dell'assicurazione obbligatoria in oggetto si inserisce nel percorso di valorizzazione del lavoro domestico-familiare e di riconoscimento (a prescindere dall'eventuale sussistenza di una remunerazione) della pari dignità del medesimo rispetto alle altre attività lavorative; nell'ambito di tale percorso - osserva la sentenza - si inseriscono anche altri interventi normativi (quale la revisione della disciplina pensionistica per le persone che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari) nonché l'indirizzo giurisprudenziale che ha affermato l'autonoma risarcibilità del danno patrimoniale subìto da chi svolge attività casalinga, in relazione alla riduzione della capacità lavorativa specifica.
Più in particolare, la sentenza rileva che la disciplina sull'assicurazione in oggetto, nell'ambito del suddetto ordine di idee, si basa su un principio di solidarietà di categoria, prevedendo: l'obbligo di iscrizione per i soggetti che svolgano in via esclusiva lavoro domestico - ferme restando le esclusioni per limiti anagrafici e la limitazione della tutela ai soggetti iscritti e in regola con i versamenti[5] -; un importo unico - determinato in base ad una valutazione del rischio medio della collettività garantita - di premio assicurativo, fermo restando l'esonero dal pagamento per i non abbienti.
La sentenza osserva altresì che la questione di legittimità sottoposta alla Corte, concernendo le forme di attività domestica che si svolgono in ambiti diversi da quello di dimora del soggetto, si connette alle tematiche delle esigenze di tutela sia delle persone anziane o comunque bisognose di assistenza domestica sia di chi presta la medesima assistenza.
In ogni caso, l'esclusione in termini generali dalla tutela assicurativa in oggetto degli eventi verificatisi nei suddetti ambiti diversi è ritenuta dalla Corte lesiva dei princìpi di eguaglianza formale, di tutela del lavoro e di specifica tutela per i casi di infortunio sul lavoro, di cui, rispettivamente, agli articoli 3, 35 e 38 della Costituzione. Tuttavia, secondo la Corte, l'individuazione delle fattispecie alle quali estendere la tutela, la definizione della disciplina delle stesse e la valutazione - connessa all'estensione medesima - dell'adeguatezza dell'importo del premio assicurativo possono essere operate soltanto dal legislatore, il quale viene quindi sollecitato dalla sentenza n. 202 ad affrontare il tema. In particolare, la Corte rileva che, nell'individuazione delle ulteriori fattispecie da ricomprendere nella tutela, rientra nella discrezionalità del legislatore la scelta dei legami tra soggetto assicurato e soggetto dimorante ai quali far riferimento; la sentenza consente che l'estensione sia limitata alle relazioni familiari o di parentela, ma prospetta anche la possibilità di estensione a relazioni di amicizia o riconoscenza o ad altre ipotesi di assistenza non retribuita - svolte, quindi, in ogni caso, con modalità da caregiver[6] - in favore di persone bisognose.
Nella XVIII legislatura e nella legislatura corrente non sono state presentate iniziative legislative sulla questione specifica oggetto della presente sentenza n. 202. Riguardo alla figura del caregiver - che, come detto, non è estranea alla questione in oggetto -, si ricorda che nella XVIII legislatura l'11a Commissione del Senato aveva intrapreso l'esame di alcuni disegni di legge in materia e che nella corrente legislatura sono state presentate nuove proposte legislative in entrambi i rami del Parlamento. Si ricorda altresì che l'ordinamento vigente già riconosce, a determinati fini, la figura del "caregiver familiare", come definita dall'articolo 1, comma 255, della L. 27 dicembre 2017, n. 205[7].
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 203 del 2022, ha dichiarato per alcuni profili la inammissibilità, per altri la non fondatezza delle questioni di legittimità sollevate relativamente all'articolo 83, commi 1 e 2 del Codice di giustizia contabile.
Al contempo, ha ravvisato una carenza di tutela, la quale “chiama il legislatore a intervenire nella materia compiendo le scelte discrezionali ad esso demandate”.
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Campania, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 83, commi 1 e 2, del Codice di giustizia contabile (Allegato I al decreto legislativo n. 174 del 2016), come modificati (dal decreto legislativo n. 114 del 2019).
Il comma 1 dell'articolo 83 del Codice prevede che nel giudizio per responsabilità amministrativa sia preclusa la chiamata in causa per ordine del giudice.
Il comma 2 prevede che quando il fatto dannoso sia causato da più persone ed alcune di esse non siano state convenute nello stesso processo, se si tratti di responsabilità parziaria il giudice ne tenga conto ai fini della determinazione della minor somma da porre a carico dei condebitori nei confronti dei quali pronuncia sentenza.
Dunque vige il divieto fatto al giudice nel processo per l'accertamento della responsabilità amministrativa, di ordinare la chiamata in causa di soggetti ulteriori rispetto a quelli convenuti in giudizio dal pubblico ministero contabile. I terzi non convenuti dal p.m. non possono essere sentiti nel processo, ancorché una loro eventuale responsabilità incida sulle determinazioni processuali per i corresponsabili convenuti, ai fini dello scomputo delle quote di responsabilità, dovendo il giudice valutare la responsabilità di tutti i soggetti concorrenti nell'illecito.
Siffatta disciplina è stata ritenuta dal giudice a quo non appropriata riguardo sia alla tutela dei terzi non convenuti sia alla compiutezza di valutazione consentita al giudice. Donde la invocata collisione con le diposizioni della Costituzione recate da: l'articolo 3, sia come principio di eguaglianza, quale ipotizzabile ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti convenuti in giudizio e quelli nei confronti dei quali il pubblico ministero contabile non eserciti l'azione di responsabilità (solo i primi potendo fornire una propria ricostruzione alternativa dei fatti, anche a discapito dei secondi, i quali, non coinvolti in giudizio, potrebbero essere dichiarati 'virtualmente' colpevoli, senza aver potuto far valere in contradditorio le proprie ragioni), sia come principio di ragionevolezza (precludendo adeguati elementi conoscitivi all'autorità giudiziaria); l'articolo 24, come diritto di difesa (non consentendosi che tutte le parti partecipino all'accertamento dei fatti in contraddittorio); l'articolo 111, per la limitazione apposta ad un effettivo contradditorio processuale.
Sono inoltre mosse contestazioni circa la corretta attuazione dei criteri direttivi della delega legislativa che presiede all'opera di codificazione di giustizia contabile, nonché circa la compatibilità con l'articolo 81 della Costituzione, là dove risulti precluso all'autorità giudiziaria di chiamare in causa i corresponsabili dell'evento dannoso, i quali, ove ne fosse accertata in giudizio la responsabilità, potrebbero essere condannati (e non solo in modo virtuale, ai fini della riduzione del danno dei soggetti evocati nel giudizio di responsabilità dal p.m.) al risarcimento in favore dell'ente.
Nel caso in esame, il pubblico ministero contabile (la Procura generale della Corte dei conti) aveva evocato in giudizio alcuni soggetti (dipendenti, segretario generale, sindaco di un Comune), a fine di loro condanna al pagamento di una somma al Comune per responsabilità erariale correlata all'omessa attivazione (nonostante la comprovata conoscenza della situazione) di qualsivoglia procedura per la riscossione dei canoni e delle indennità di occupazione di un complesso immobiliare. Alcuni convenuti, nella contestazione della propria responsabilità, deducevano che essa dovesse essere ascritta alle due società concessionarie del servizio di riscossione dei canoni e delle indennità, talché chiedevano l'integrazione del contraddittorio nei confronti delle medesime società stesse. Il pubblico ministero replicava circa la non necessità di evocare in giudizio gli altri soggetti indicati nelle difese di alcune parti convenute (ricorrendo peraltro, in ogni caso, solo un'ipotesi di litisconsorzio facoltativo).
La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibili le questioni di legittimità sollevate (ed infondata quella relativa alla violazione dell'articolo 81 della Costituzione). Ha tuttavia rivolto una sollecitazione al legislatore.
La pronuncia della Corte è corredata da una sintetica ricostruzione del complessivo quadro normativo di riferimento.
Sul piano sostanziale, la responsabilità amministrativa - la cui giurisdizione è demandata alla Corte dei conti dall'articolo 103 della Costituzione - si fonda essenzialmente sulla disposizione (articolo 82, primo comma, del regio decreto n. 2440 del 1923) secondo cui l'impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nell'esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo.
Si tratta di responsabilità distinta da quella civile - su cui si pronuncia il giudice ordinario - dei medesimi agenti pubblici nei confronti dell'amministrazione di appartenenza, che impone al danneggiante il risarcimento dei pregiudizi derivanti a terzi per effetto della propria condotta illecita (sulla scorta dell'articolo 28 della Costituzione e degli articoli 22 e seguenti del d.P.R. n. 3 del 1957, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).
Dalla diversità della responsabilità del pubblico agente sul piano civile e sul piano contabile, deriva che “l'azione di responsabilità per danno erariale promossa dal PM dinanzi alla Corte dei conti e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, poiché la prima è volta alla tutela dell'interesse pubblico generale, al buon andamento della pubblica amministrazione e al corretto impiego delle risorse, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria e integralmente compensativa, a tutela dell'interesse particolare della amministrazione attrice (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanze 23 novembre 2021, n. 36205 e 7 maggio 2020, n. 8634)”.
Sul piano processuale, il giudizio di responsabilità amministrativa è stato storicamente calibrato su quello di conto degli agenti contabili, a carattere marcatamente inquisitorio nella ricerca della verità nell'interesse dell'erario. Ed una disposizione del 1933 (art. 47 del regio decreto n. 1038) espressamente prevedeva il potere del giudice contabile di disporre la chiamata in causa di soggetti non evocati nel giudizio di responsabilità erariale dal pubblico ministero.
Tale assetto è stata messo in discussione (già entro la sezione centrale d'appello della medesima Corte dei conti) con la riforma costituzionale del giusto processo, incentrata sul principio di imparzialità del giudice.
Di qui la scelta della disciplina codicistica di giustizia contabile indi intervenuta di attribuire in via esclusiva al pubblico ministero i poteri istruttori dell'azione di responsabilità amministrativa, inclusa la chiamata in giudizio. Viene così meno un potere sindacatorio del giudice, sostanzialmente correttivo dell'azione del pubblico ministero, mediante l'ordine a lui rivolto di chiamare in giudizio un terzo perché rispondesse del danno erariale. Il giudice può soltanto, e sol qualora nel corso del processo emergano fatti nuovi rispetto a quelli posti a base dell'atto introduttivo del giudizio, ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le valutazioni di competenza, senza sospendere il processo (così il comma 3 dell'articolo 83 del Codice di giustizia amministrativa; ed in tal caso, aggiunge il comma 4, il pubblico ministero non può comunque disporre la citazione a giudizio, se non previa notifica dell'invito a dedurre).
Tale modulo processuale è ritenuto dalla Corte costituzionale compatibile con le disposizioni costituzionali delle quali il giudice a quo lamenta la violazione. Una diversa configurazione, ricalcante in definitiva la previgente disciplina del 1933, risulterebbe datata, non coessenziale alla peculiarità dello specifico giudizio di responsabilità amministrativa per danno erariale, e non compatibile con l'avvenuta esplicitazione in Costituzione (articolo 111, secondo comma) del principio di terzietà del giudice.
Una chiamata del terzo per ordine del giudice ad intervenire in giudizio equivarrebbe infatti - rileva la Corte - ad “un'inammissibile estensione officiosa della domanda del pubblico ministero, in violazione del principio di attribuzione esclusiva a quest'ultimo dell'azione di responsabilità e senza la garanzia, per il terzo, di una previa formale istruttoria e soprattutto senza il previo invito, a quest'ultimo, a dedurre e a discolparsi”.
Tuttavia la Corte rileva un profilo problematico, tale da chiamare in causa il legislatore.
Il modulo processuale su esposto, se non costituzionalmente illegittimo, pure non si direbbe tenere in debito conto il fatto che il terzo non convenuto in giudizio, non per questo rimanga estraneo alla vicenda oggetto del giudizio.
È sì vero che il terzo non convenuto (perché tale è stata la scelta, per così dire 'assolutoria', del pubblico ministero) è franco dall'azione di responsabilità nei suoi confronti (specie se fruisca di un provvedimento di archiviazione); tuttavia il terzo non convenuto potrebbe avere pregiudizio, anche sotto il profilo dell'immagine, da una pronuncia del giudice che sulla base di un diverso apprezzamento dei fatti rispetto al p.m, riducesse (o finanche escludesse) la responsabilità dei soggetti convenuti in giudizio dal pubblico ministero, per essere tale responsabilità, nella causazione del danno erariale, ascrivibile in parte (o in tutto) al terzo non convenuto medesimo.
Tanto più che, nella particolare fattispecie della responsabilità amministrativa per danno erariale, il terzo rimane non di meno esposto alla eventualità della domanda risarcitoria della pubblica amministrazione danneggiata.
Pertanto non può dirsi indifferente per il terzo non convenuto l'esito del giudizio, là dove il giudice faccia riferimento all'apporto (concorrente o finanche esclusivo) del terzo medesimo nella causazione del danno erariale, per giustificare il ridimensionamento (o addirittura l'insussistenza) della responsabilità parziaria di ciascun convenuto.
Né si dà, nella disciplina vigente, una facoltà di iniziativa volontaria del terzo, onde prender parte al giudizio (del tipo di quella prevista dall'articolo 85 del Codice di giustizia contabile, solo per sostenere le ragioni del pubblico ministero). La sua introduzione importerebbe un apposito apparecchio normativo, implicando un meccanismo di segnalazione da parte del giudice al terzo, onde quest'ultimo conosca della controversia e valuti se prender parte al giudizio (una denuntiatio litis quale prevista dall'articolo 183, comma 3 del medesimo Codice, nel giudizio pensionistico e solo in grado di impugnazione).
In breve, su questa materia si pone una scelta di sistema, devoluta al solo legislatore, nella sua discrezionalità circa la conformazione degli istituti processuali.
Conclude la Corte costituzionale: “il denunciato deficit di tutela del terzo, non convenuto e il cui intervento in giudizio non può essere ordinato dal giudice né aversi su base volontaria senza aderire alla posizione del PM, chiama il legislatore a intervenire nella materia compiendo le scelte discrezionali ad esso demandate, quando si discuta nel processo della concorrente responsabilità del terzo stesso, pur se al fine di accertare l'eventuale responsabilità parziaria dei soggetti convenuti in causa”.
[1] La numerazione dei Doc Camera e Senato è riferita alla XVIII legislatura. Di alcune sentenze è stato dato annuncio alla Camera nelle prime sedute della XIX legislatura: in questi casi, nella tabella, è indicata la numerazione della nuova legislatura.
[2] Sulla base dell’individuazione come prevalente della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, cui si affiancava però la segnalazione del concorso nella norma della competenza residuale regionale in materia di commercio, un’osservazione contenuta nel parere, non recepita, richiedeva che il decreto attuativo della norma venisse adottato previo parere in sede di Conferenza unificata (non veniva quindi richiesta l’intesa); negli stessi termini si esprimeva il 7 luglio 2021 il Comitato permanente per i pareri della Commissione Affari costituzionali della Camera.
[3] L’articolo 3del D.L. n. 87/2018 (c.d. decreto dignità) modifica i limiti minimi e massimi della misura dell'indennità in caso di licenziamento illegittimo ed incrementa, in alcune ipotesi, il contributo previdenziale addizionale concernente i rapporti di lavoro subordinato a termine.
[4] Riguardo alla nozione di nucleo familiare, la disciplina sull'assicurazione in oggetto (cfr. l'articolo 2, comma 3, del D.M. 13 novembre 2019) richiama l'articolo 4 del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, e successive modificazioni, secondo il quale agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune; il medesimo articolo 4 specifica che la famiglia anagrafica può essere costituita anche da una sola persona.
[5] A quest'ultimo riguardo, cfr. l'articolo 9, comma 3, della citata L. n. 493 del 1999 e l'articolo 5, comma 6, del citato D.M. 13 novembre 2019.
[6] Riguardo alla figura del caregiver, cfr. il successivo paragrafo.
[7] Cfr. anche i commi 254 e 256 dello stesso articolo 1 della L. n. 205 del 2017, e successive modificazioni, e l'articolo 1, comma 334, della L. 30 dicembre 2020, n. 178 (oltre ai successivi rifinanziamenti o rimodulazioni delle risorse finanziarie).