Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
Titolo: | Il controllo di costituzionalità delle leggi |
Serie: | Rassegna costituzionale Numero: 3/Luglio - Settembre 2023 |
Data: | 06/12/2023 |
Organi della Camera: | I Affari costituzionali |
Il controllo di costituzionalità delle leggi
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RASSEGNA TRIMESTRALE
DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
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ANNO III NUMERO 3 - LUGLIO-SETTEMBRE 2023
Servizio Studi
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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del terzo trimestre dell’anno 2023. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.
Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.
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I N D I C E
1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore 3
2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali............. 7
§ 2.1. La sentenza n. 166 del 2023: conformità tra norma delegata e norma delegante in materia di dispensa dal servizio per i giudici onorari.................................................... 10
§ 2.2. La sentenza n. 181 del 2023 in materia di indennizzo per i soggetti danneggiati dalla vaccinazione raccomandata anti-papillomavirus (anti-HPV)...................... 13
§ 2.3. La sentenza n. 184 del 2023 in materia di limite di mandati relativi a cariche direttive nelle strutture territoriali delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate 18
3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (luglio-settembre 2023).......................................................................................................................... 23
§ 3.1. La sentenza n. 146 del 2023 in materia di preclusione dal beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova per l’imputato di omicidio stradale attenuato dal concorso di colpa della vittima........................................................................................ 26
§ 3.2. La sentenza n. 161 del 2023 in materia di procreazione medicalmente assistita e termine per la revoca del consenso informato................................................................. 29
4. Altre pronunce di interesse.................................................................... 31
§ 4.1. La sentenza n. 136 del 2023 in materia di enti di area vasta in Sicilia 31
§ 4.2. La sentenza n. 159 del 2023 in materia di ristori alle vittime di crimini del Terzo Reich 35
§ 4.3. La sentenza n. 183 del 2023 in materia di valutazione in concreto del preminente interesse del minore adottato a mantenere rapporti socio-affettivi con la famiglia di origine 39
La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).
Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.
La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza
di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In quest’ultimo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.
La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.
La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).
Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).
Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).
Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.
Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.
Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
Più di recente, la Corte ha utilizzato la tecnica decisoria dell'“incostituzionalità differita”: in questi casi, pur ritenendo una normativa comunque non conforme a Costituzione, la Corte omette di dichiararne l’incostituzionalità ai sensi dell’art. 136 Cost., e si limita a rinviare con ordinanza la trattazione della causa di un certo periodo, affinché il legislatore possa intervenire medio tempore per introdurre una disciplina conseguente al portato della pronuncia.
In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.
L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XIX è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).
Di seguito è riportato, in forma tabellare, l’elenco delle pronunce della Corte Costituzionale – depositate nel periodo luglio-settembre 2023 – che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme statali:
Sentenza |
Norme dichiarate illegittime |
Parametro costituzionale |
Oggetto |
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del 10 maggio – 4 luglio 2023
Camera Doc VII, n. 177 Senato Doc VII, n. 31
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art. 299, primo comma, cod. civ.
illegittimità parziale |
articoli 2 e 3 Cost. |
Impossibilità, con la sentenza di adozione, di aggiungere, anziché anteporre, il cognome dell'adottante, nel caso di consenso tra adottante e adottato maggiore d’età |
del 21 giugno – 11 luglio 2023
Camera Doc VII, n. 183 Senato Doc VII, n. 32
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art. 69, quarto comma, codice penale
illegittimità parziale |
articoli 3 e 27, terzo comma, Cost |
Divieto di prevalenza della circostanza attenuante della lieve entità del danno patrimoniale (art. 62, primo comma, numero 4, cod. pen.) sulla recidiva reiterata (art. 99, quarto comma, cod. pen.)
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del 7 giugno – 11 luglio 2023
Camera Doc VII, n. 184 Senato Doc VII, n. 33
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art. 2, comma 1, L. 24 marzo 2001, n. 89
illegittimità parziale |
articoli 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU |
Inammissibilità della domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito il rimedio preventivo all’irragionevole durata del processo consistente nel deposito, nei giudizi davanti alla Corte di cassazione, di un’istanza di accelerazione del giudizio entro un termine definito
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del 7 giugno – 18 luglio 2023
Camera Doc VII, n. 191 Senato Doc VII, n. 34
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art. 103, comma 1, D.L. 19 maggio 2020, n. 34 (conv. L. n. 77/2020)
illegittimità parziale |
articolo 3, primo comma, Cost. |
Previsione che la domanda per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o stranieri possa essere presentata solo da datori di lavoro stranieri in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, invece che da datori di lavoro stranieri regolarmente soggiornanti in Italia |
del 24 maggio – 27 luglio 2023
Camera Doc VII, n. 203 Senato Doc VII, n. 35
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art. 21, comma 2, D.Lgs. 13 luglio 2017, n. 116
illegittimità parziale |
articolo 76 Cost. |
Violazione dei principi e criteri direttivi dettati dal legislatore delegante.
Nel caso di specie la disposizione delegata viola il parametro di cui all’art. 76 Cost. perché, di contro al principio e criterio fissato nella legge di delega, prevede una sola indistinta causa di dispensa del magistrato onorario – l’assenza dal servizio per qualsiasi impedimento per oltre un semestre –, obliterando quella parte della norma di delega che, nel richiamarlo espressamente, prevede invece che lo specifico impedimento per motivi di salute debba essere permanente per far scattare la dispensa. |
del 7 giugno – 27 luglio 2023
Camera Doc VII, n. 204 Senato Doc VII, n. 36
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art. 145, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (TU spese di giustizia)
illegittimità parziale |
articolo 3 Cost. |
Mancata previsione, nel procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno promosso dal pubblico ministero, che le spettanze dell’ausiliario del magistrato siano anticipate dall’erario, così come stabilito nei procedimenti di interdizione e di inabilitazione promossi dal PM. |
del 6 luglio – 28 luglio 2023
Camera Doc VII, n. 214 Senato Doc VII, n. 37
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art. 18-bis, comma 1, lettera c), e comma 2, L. 22 aprile 2005, n. 69 (mandato d’arresto europeo)
illegittimità parziale |
articoli 11 e 117, primo comma, Cost. |
Mancata previsione che la Corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano e sia sufficientemente integrata in Italia, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia |
del 6 giugno – 26 settembre 2023
Camera Doc VII, n. Senato Doc VII, n. 38
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art. 1, comma 1, L. 25 febbraio 1992, n. 210
illegittimità parziale |
articoli 2, 3 e 32 Cost. |
Mancata previsione del diritto a un indennizzo a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione contro il contagio da papillomavirus umano (HPV) |
del 5 luglio – 29 settembre 2023
Camera Doc VII, n. Senato Doc VII, n. 39
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art. 16, comma 2, ultimo periodo, D.Lgs. 23 luglio 1999, n. 242 |
articoli 2, 3 e 18 Cost. |
Divieto assoluto per i presidenti e i membri degli organi direttivi delle strutture territoriali delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate della possibilità di candidarsi nell’ambito degli organi direttivi qualora abbiano già svolto tre mandati elettivi |
Con la sentenza n. 166 del 2023, depositata il 29 settembre, la Corte Costituzionale ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR del Lazio con riferimento all’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo n. 116 del 2017 nella parte in cui prevede che “il magistrato onorario è dispensato, anche d’ufficio, per impedimenti di durata superiore a sei mesi”, anziché “il magistrato onorario è dispensato, anche d’ufficio, per infermità che impedisce in modo definitivo l’esercizio delle funzioni o per altri impedimenti di durata superiore a sei mesi”. Ciò per violazione dell’articolo 76 della Costituzione in quanto la richiamata norma del decreto legislativo non dava corretta attuazione al principio di delega di cui all’articolo 2, comma 10, lettera a), della legge n. 57 del 2016. Tale principio di delega infatti prevede che a tutti i magistrati onorari si applichi il regime di cui all’articolo 9 della legge n. 374 del 1991, il quale a sua volta prevede, appunto, che “il magistrato onorario è dispensato, anche d’ufficio, per infermità che impedisce in modo definitivo l’esercizio delle funzioni o per altri impedimenti di durata superiore a sei mesi”.
La questione
La questione di legittimità costituzionale è sollevata dal TAR del Lazio con ordinanza del 6 ottobre 2022, con riferimento all’articolo 76 della Costituzione in materia di delegazione legislativa. Oggetto della questione è l’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo n. 116 del 2017 nella parte in cui dispone che “il magistrato onorario è dispensato, anche d’ufficio, per impedimenti di durata superiore a sei mesi” in difformità con il criterio stabilito dall’articolo 2, comma 10, lettera a), della legge delega n. 57 del 2016 che rinvia all’articolo 9, comma 2, della legge n. 374 del 1991, il quale, a sua volta, indica che “il magistrato onorario è dispensato, anche d’ufficio, per infermità che impedisce in modo definitivo l’esercizio delle funzioni o per altri impedimenti di durata superiore a sei mesi”. In altre parole, secondo la norma richiamata dal principio di delega, l’infermità costituisce causa di dispensa solo quando impedisca “in modo definitivo” l’esercizio delle funzioni mentre la durata ultrasemestrale come causa di dispensa è prevista solo per gli altri impedimenti.
Il caso concreto all’origine della questione di legittimità costituzionale è quello di un magistrato onorario, C.I., che era stato dispensato dall’incarico di viceprocuratore onorario della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Trento per essersi assentato per malattia, con diagnosi di “dilatazione aneurismatica dell’arteria media destra dell’encefalo”, per oltre sei mesi (dal 19 settembre 2017 al 6 luglio 2018), senza risultare tuttavia impedito in modo definitivo all’esercizio delle funzioni.
La decisione della Corte
Come già ricordato, la sentenza stabilisce l’illegittimità costituzionale dell’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo n. 116 del 2017 nella parte in cui prevede che “il magistrato onorario è dispensato, anche d’ufficio, per impedimenti di durata superiore a sei mesi”, anziché “il magistrato onorario è dispensato, anche d’ufficio, per infermità che impedisce in modo definitivo l’esercizio delle funzioni o per altri impedimenti di durata superiore a sei mesi”. Questo perché è questa seconda formulazione a corrispondere al testo dell’articolo 9, comma 2, della legge n. 374 del 1991, norma che il principio di delega indica come regime da applicare (articolo 2, comma 10, lettera a), della legge n. 57 del 2016).
Il caso concreto affrontato dà occasione alla Corte per ricostruire alcuni principi in materia di legislazione delegata; in particolare:
§ la verifica di conformità della norma delegata a quella delegante richiede lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico che, condotto, in parallelo, tocca, da una parte, la legge di delegazione e, dall’altra, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretare nel significato compatibile con la delega stessa;
§ la legge delega è dunque fondamento e limite del potere legislativo delegato; essa, se, da una parte, non deve contenere enunciazioni troppo generali o comunque non idonee ad indirizzarne l’attività, dall’altra, come già affermato dalla Corte nella sentenza n. 104 del 2017, «può essere abbastanza ampia da preservare un margine di discrezionalità e un corrispondente spazio entro il quale il Governo possa agevolmente svolgere la propria attività di “riempimento” normativo, la quale è pur sempre esercizio delegato di una funzione “legislativa”», essendo il legislatore delegato chiamato «a sviluppare e non solo ad eseguire le previsioni della legge di delega»;
§ al tempo stesso, se la delega non esclude in capo al legislatore delegato ogni discrezionalità, tuttavia la maggiore o minore ampiezza di quest’ultima va apprezzata e ritenuta, come già segnalato dalla sentenza n. 153 del 2014, «in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega», poiché «per valutare se il legislatore abbia ecceduto i margini di discrezionalità occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente» .
Alla luce di tali criteri la sentenza n. 166 del 2023 afferma che il richiamo del principio di delega alla norma della legge n. 374 del 199, che costituisce in modo inequivoco una regula iuris riduce i margini di discrezionalità e il cosiddetto “potere di riempimento del legislatore delegato”. Da questo la dichiarazione di illegittimità costituzionale sopra richiamata.
La Corte Costituzionale, con la pronuncia in titolo, ha sancito il diritto a un indennizzo a favore di chi abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione raccomandata contro il contagio da papillomavirus umano (HPV) [1].
Il giudice rimettente[2] aveva sottoposto alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’articolo 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992, che stabilisce che “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e ai modi stabiliti dalla presente legge”. Il giudice ha sollevato la questione con riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., osservando, sotto il profilo della rilevanza della questione medesima, che la vaccinazione contro il papillomavirus umano era raccomandata e che era stato accertato il nesso di causalità tra la relativa somministrazione e lo sviluppo di una patologia permanente. Secondo il giudice a quo, stante l’impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata[3], solo la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della stessa disposizione avrebbe potuto consentire di riconoscere alla parte danneggiata il diritto all’indennizzo[4].
In punto di non manifesta infondatezza della questione, rispetto ai parametri anzidetti, il rimettente aveva sostenuto che le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo richiederebbero di far gravare sulla collettività l’onere del pregiudizio subito da chi si sia attenuto al comportamento raccomandato dalle autorità sanitarie competenti, in difesa della salute di tutti.
La Corte ha reputato la questione fondata in riferimento a tutti i parametri evocati.
Nella sentenza in esame si rammenta che, a fronte della previsione legislativa di un diritto all’indennizzo correlato alle ipotesi in cui l’ordinamento impone un obbligo di vaccinarsi, la Corte si è pronunciata più volte al fine di estendere il medesimo diritto in presenza di vaccinazioni che le autorità pubbliche sanitarie raccomandano a difesa della salute collettiva[5].
Vengono riepilogate le ragioni e le condizioni di tale estensione, che per la Corte rappresenta, al ricorrere dei presupposti, una “necessità costituzionale”.
Ai fini dell’indennizzo, non è decisivo il carattere obbligatorio della vaccinazione, in quanto la scelta tecnica dell’obbligatorietà o della raccomandazione, oltre a essere frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra singoli e autorità pubblica, può dipendere da condizioni sanitarie differenti nella popolazione di riferimento, spesso correlate a diversi livelli di rischio: tutti profili che non possono condizionare la previsione o l’assenza del diritto all’indennizzo.
Ciò che rileva è che il danneggiato dal vaccino si sia attenuto a un comportamento che oggettivamente persegue la finalità di proteggere la salute generale, in presenza di un interesse pubblico alla promozione della salute collettiva tramite il trattamento sanitario[6].
Affinché, dunque, si instauri una corrispondenza fra il comportamento individuale e l’obiettivo della tutela della salute collettiva è necessario e sufficiente, da un lato, che l’autorità pubblica promuova campagne di informazione e di sollecitazione dirette a raccomandare la somministrazione del vaccino non solo a tutela della salute individuale, ma con la precipua funzione di assicurare la più ampia immunizzazione possibile a difesa della salute collettiva e, da un altro lato, che la condotta del singolo si attenga alla profilassi suggerita dall’autorità pubblica nell’interesse generale[7].
Tramite la campagna vaccinale - sottolinea la Corte - l’autorità pubblica fa appello all’autodeterminazione dei singoli (o alla responsabilità genitoriale, ove si tratti di vaccinazioni raccomandate ai minori), ingenerando negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie. Di conseguenza, in ambito medico, raccomandare e prescrivere finiscono per essere percepite quali azioni egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo[8], cioè la tutela della salute individuale e collettiva.
La ragione determinante del diritto all’indennizzo risiede nel perseguimento con la propria condotta dell’interesse collettivo alla salute e non nella obbligatorietà in quanto tale del trattamento, la quale è semplicemente strumento per il perseguimento di tale interesse[9].
Nel caso di specie, in esito alla propria verifica sulla natura della vaccinazione, la Corte ha ritenuto che il trattamento sanitario fosse raccomandato al singolo ai fini della più ampia tutela della salute come interesse della collettività: ciò è stato desunto dalla circostanza che, nel periodo in cui la ricorrente si era sottoposta alla somministrazione del vaccino anti-HPV, nella Regione Lazio, e – più in generale – nel territorio nazionale, era in atto una estesa campagna vaccinale, campagna preceduta da un parere favorevole del Consiglio superiore di sanità e da un’intesa in un sede di Conferenza Stato-regioni, e sottoposta inoltre ad un’attività di monitoraggio.
In attuazione dell’intesa anzidetta, le regioni si erano impegnate a gestire la somministrazione dei vaccini e a partecipare al programma di valutazione della loro efficacia e sicurezza, verificando l’impatto epidemiologico sulla popolazione sia attraverso la rigorosa raccolta dei dati sia garantendo un’adeguata partecipazione ai programmi di studio in atto o di futura attivazione.
Ad avviso della Corte, l’attitudine della descritta campagna vaccinale a ingenerare un affidamento nella popolazione non viene scalfita dal fatto che essa sia stata inizialmente demandata alle regioni, dal momento che si è sempre svolta nel quadro dell’intesa Stato-regioni e dietro diretto coordinamento del Ministero della salute.
Inoltre, è rilevante per la Corte[10] che l’attività delle regioni abbia trovato ampi riscontri e corrispondenze nei piani vaccinali nazionali (in particolare nei piani di prevenzione vaccinale 2012-2014, 2017-2019 e 2023-2025) e in atti ulteriori che prescindono da riferimenti territoriali specifici.
Ravvisando il presupposto della prolungata e diffusa campagna di informazione e di raccomandazione da parte delle autorità sanitarie pubbliche, la Corte ha concluso che la disposizione oggetto di censura, nel non prevedere il diritto all’indennizzo per il vaccino anti-HPV raccomandato, si pone in contrasto con tutti i parametri costituzionali evocati nell’ordinanza di rimessione: è lesiva dell’art. 2 Cost., poiché vìola il principio di solidarietà che impone alla collettività di essere, per l’appunto, “solidale” con il singolo che subisce un danno per essersi attenuto alla condotta raccomandata dalle pubbliche autorità a tutela dell’interesse collettivo[11]; è in conflitto con l’art. 3 Cost., in quanto irragionevolmente pregiudica chi spontaneamente si attiene alla condotta richiesta dagli organi preposti alla difesa del diritto alla salute della collettività, rispetto a coloro il cui comportamento è adesivo a un obbligo giuridico presidiato da rimedi deterrenti[12]; vìola l’art. 32 Cost., poiché priva di ogni tutela il diritto alla salute di chi si è sottoposto al vaccino (anche) nell’interesse della collettività[13].
Per tali ragioni, con la tecnica additiva già utilizzata in passato in casi analoghi, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992, nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione contro il contagio da papillomavirus umano (HPV).
Con la sentenza n. 184 del 2023, depositata il 29 settembre, la Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 16, comma 2, ultimo periodo, del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242 («Riordino del Comitato olimpico nazionale italiano - CONI, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59»), nella formulazione previgente rispetto alle modifiche poi apportate dall’art. 39-bis del decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, là dove stabiliva il divieto assoluto e definitivo, per chi avesse già svolto tre mandati, di ricoprire cariche direttive nelle strutture territoriali delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate.
La questione di legittimità costituzionale è sollevata dal TAR Lazio sezione prima-ter, nell’ambito del giudizio a quo promosso da un ricorrente, che aveva svolto sette mandati consecutivi nel Comitato regionale Toscana della Federazione italiana tennis (oggi Federazione italiana tennis e padel - FITP), dal 1981 al 2008, avverso l’atto con cui il Presidente dello stesso Comitato aveva respinto la sua candidatura alla carica di consigliere del Comitato, in ragione del superamento del limite massimo di tre mandati, ai sensi dell’art. 54, comma 2, dello statuto FITP e dell’art. 1.1.4 del regolamento organico FITP, modificati, appunto, sulla base dell’art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 242 del 1999.
Tale disposizione, nel testo applicabile ratione temporis alle vicende in esame e rispetto al quale la pronuncia costituzionale è resa, stabiliva per le federazioni sportive nazionali e le discipline sportive associate (DSA), che «[i]l presidente e i membri degli organi direttivi restano in carica quattro anni e non possono svolgere più di tre mandati» (secondo periodo) e che «[l]a disciplina di cui al presente comma si applica anche agli enti di promozione sportiva, nonché ai presidenti e ai membri degli organi direttivi delle strutture territoriali delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate» (ultimo periodo).
Nelle more del giudizio, la disciplina è stata superata – come anticipato – dall’art. 39-bis del decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, che ha ammesso la candidatura anche per ulteriori mandati, sia pur con regole peculiari quanto ai voti necessari.
Negli atti di rimessione, il TAR Lazio assume violati i seguenti parametri costituzionali: a) gli artt. 2, 3 e 18 Cost., in quanto la «definitiva incandidabilità» degli interessati, dopo lo svolgimento del terzo mandato, rappresenterebbe una misura sproporzionata ed irragionevole rispetto agli obiettivi che il legislatore si era prefissato, «soprattutto se si tratta di incidere su un’associazione di diritto privato che contribuisce allo sviluppo della personalità dell’individuo nell’ambito di una formazione sociale come la Federazione sportiva»; b) l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 11 CEDU e all’art. 12 CDFUE, che garantiscono la libertà di associazione, per le stesse ragioni appena esposte; c) gli artt. 41 e 42 Cost., perché «le restrizioni della libertà di iniziativa privata» non dovrebbero mai «sfociare nell’arbitrarietà e nell’incongruenza – e quindi nell’irragionevolezza – delle misure adottate per assicurare l’utilità sociale»; d) gli artt. 2 e 48 Cost., in quanto le disposizioni censurate limiterebbero in misura sproporzionata rispetto agli obiettivi prefissati «il diritto di elettorato passivo, avente carattere inviolabile, peraltro nell’ambito di un ente di diritto privato in cui […] si esplica la personalità».
Ai fini che qui rilevano, la Corte dichiara innanzitutto la perdurante rilevanza della questione: infatti, in base al principio tempus regit actum, il rimettente, nel giudizio a quo, è chiamato a definire il ricorso applicando le norme all’epoca vigenti, risultando così le successive modifiche dell’art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 242 del 1999 ininfluenti nell’ottica del sindacato cui il giudice costituzionale è chiamato.
Nel merito, la Corte ritiene fondata la questione sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 18 Cost.
A questa conclusione, la pronuncia giunge prendendo le mosse dalla natura delle federazioni sportive nazionali e discipline sportive associate, qualificate come espressione di un fenomeno organizzativo nel quale «la connotazione privatistica della forma associativa dalle stesse [federazioni] rivestit[a] convive, per definizione, con la valenza pubblicistica di parte delle attività svolte» (la Corte cita qui Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 15 luglio 2021, n. 5348), e nel quale, dunque, tale seconda caratteristica non fa venir meno la prima, ossia la natura associativa privata delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate. Con la conseguenza che il riferimento alla libertà di associazione ex 18 Cost. è pertinente, come conferma del resto la sentenza n. 160 del 2019 della Corte, secondo cui «anche il sistema dell’organizzazione sportiva, in quanto tale e nelle sue diverse articolazioni organizzative e funzionali, trova protezione nelle previsioni costituzionali che riconoscono e garantiscono i diritti dell’individuo, non solo come singolo, ma anche nelle formazioni sociali in cui si esprime la sua personalità (art. 2 Cost.) e che assicurano il diritto di associarsi liberamente per fini che non sono vietati al singolo dalla legge penale (art. 18)».
In questa prospettiva, l’art. 18 tutela i diritti di coloro che si sono associati non solo come diritti individuali, ma anche come situazioni giuridiche strettamente interconnesse e funzionali pure alla libertà delle associazioni in quanto tali, nella misura in cui ne assicurano essenzialmente l’autonomia normativa e organizzativa.
Su queste basi, la Corte evidenzia come la garanzia costituzionale della libertà delle associazioni, che in questo caso perseguono anche finalità pubblicistiche, non preclude qualsivoglia intervento legislativo limitativo dell’autonomia organizzativa dell’ente; dunque, il vaglio di legittimità costituzionale di misure come quella gravata si sostanzia nella verifica della non irragionevolezza e della non sproporzionalità del bilanciamento operato in concreto con esse, tenuto conto dello scopo perseguito e delle modalità prescelte per il suo raggiungimento.
Al riguardo, sulla base della ratio della disposizione, la Corte ritiene legittima la finalità perseguita dal legislatore, che mira a soddisfare interessi riconducibili agli artt. 2, 3 e 18 Cost., consentendo che i tesserati delle federazioni sportive e delle discipline sportive associate (DSA) possano candidarsi alle cariche direttive locali con possibilità di successo non menomate dalla presenza di dirigenti “di lungo corso”, ed essendo diretta a ripristinare, attraverso il meccanismo predisposto, una effettiva par condicio degli associati, che potrebbe di fatto risultare alterata dal presumibile vantaggio di cui gode chi è già in carica. La disposizione stimola e favorisce così – in linea peraltro con il «principio di democrazia interna», che l’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 242 del 1999 pone alla base dell’autonomia delle stesse federazioni sportive – una maggiore partecipazione dei tesserati agli organi direttivi. Al tempo stesso e per le stesse ragioni – secondo la Corte – il divieto in questione tutela anche l’interesse della federazione, la cui efficienza e la cui imparzialità potrebbero essere compromesse dalla formazione di un “gruppo di potere” interno all’organo direttivo, che ne metta a rischio la stessa autonomia.
Invece, a risultare non legittimo e quindi a determinare la pronuncia di accoglimento è il profilo della proporzionalità della misura. Ai fini della correttezza del bilanciamento – per pacifica giurisprudenza costituzionale – la norma, fra le diverse misure idonee a soddisfare l’interesse perseguito, deve selezionare la meno restrittiva degli interessi coinvolti, fra i quali qui viene in rilievo l’interesse delle federazioni sportive e delle discipline sportive associate a regolare autonomamente la propria organizzazione e i meccanismi di copertura delle cariche elettive, il diritto di candidarsi di chi ha già svolto tre mandati e la libera scelta dei componenti dell’assemblea elettiva. A questo criterio del “minimo mezzo” non risponde però la disposizione oggetto del giudizio, come argomenta la Corte: il carattere definitivo e irreversibile del divieto si risolve in una compressione oltre il necessario degli interessi in gioco, determinandone il contrasto con il principio di proporzionalità. L’obiettivo perseguito dalla norma, di favorire il ricambio e limitare rendite di posizione, può infatti – e dunque deve – essere perseguito in modi, rimessi alla discrezionalità del legislatore, che limitino nei termini di quanto strettamente necessario il sacrificio dell’interesse dell’aspirante candidato che abbia in precedenza rivestito cariche direttive. Peraltro, il giudice costituzionale osserva pure come la definitività e irreversibilità del divieto rischia di creare difficoltà nel reperimento dei candidati, considerato anche il carattere non retribuito delle cariche in questione.
Nel periodo considerato i moniti e gli auspici diretti al legislatore statale hanno riguardato:
· la possibilità di estendere il beneficio della messa alla prova con sospensione del procedimento anche per reati che sono meno gravi proprio in applicazione di attenuanti ad effetto speciale (sentenza n. 141 del 2023);
· l’irrevocabilità del consenso dell’uomo all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo, anche in caso di intervenuta disgregazione dell’originario progetto di coppia (sentenza n. 161 del 2023).
Sentenza |
Oggetto del monito |
Estratto |
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del 7 giugno – 17 luglio 2023
Camera Doc VII, n.
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Preclusione del beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova all’imputato di omicidio stradale attenuato dal concorso di colpa della vittima |
«[…] In conclusione, le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono non fondate (…). Rimane la criticità segnalata dal giudice rimettente. L’allargamento dell’area di applicazione della messa alla prova con sospensione del procedimento penale anche a reati molto gravi, in ragione delle aggravanti ad effetto speciale, non preclusive dell’accesso al beneficio, ha però lasciato immutata la perdurante mancanza di rilevanza, a tal fine, delle attenuanti parimenti ad effetto speciale, che, all’opposto, possono ridurre notevolmente la pena, talora finanche in misura inferiore a quella prevista per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. È quindi auspicabile una più ampia ammissibilità del beneficio della messa alla prova con sospensione del procedimento anche per reati che sono decisamente meno gravi proprio in applicazione di attenuanti ad effetto speciale. Di ciò non potrà non farsi carico il legislatore». |
del 24 maggio – 24 luglio 2023
Camera Doc VII, n.
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Irrevocabilità del consenso dell’uomo all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo, anche in caso di intervenuta disgregazione dell’originario progetto di coppia |
«[…] a seguito degli interventi di questa Corte, la norma che stabilisce l’irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell’ovulo si è trovata a operare in un contesto profondamente diverso da quello definito ab origine dalla legge n. 40 del 2004. […] il rapporto regola-eccezione relativo al divieto di crioconservazione originariamente impostato dalla legge n. 40 del 2004 si è, nei fatti, rovesciato: la prassi è divenuta quindi la crioconservazione – e con essa anche “la possibilità di creare embrioni non portati a nascita” (sentenza n. 84 del 2016) – e l’eccezione l’uso di tecniche di impianto “a fresco”. […] la previsione dell’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata – benché introdotta in un contesto in cui la PMA avrebbe dovuto svolgersi in uno stesso ciclo, cioè con l’unico e contemporaneo impianto di un numero limitato di embrioni e, in linea generale, senza ricorrere alla crioconservazione – mantiene un non insufficiente grado di coerenza anche nel nuovo contesto ordinamentale risultante dagli interventi di questa Corte. (…) Pur nella sua vincolatività unilaterale nei confronti dell’uomo la norma censurata appare, quindi, esprimere ancora un bilanciamento che non sconfina nella irragionevolezza. Non sfuggono, tuttavia, a questa Corte la complessità della fattispecie e le conseguenze che la norma oggetto del presente giudizio, in ogni caso, produce in capo all’uomo, destinato a divenire padre di un bambino nonostante siano venute meno le condizioni in cui aveva condiviso il progetto genitoriale. Ciò perché la regola giuridica in esame ha cristallizzato il consenso prestato prima che si disgregasse l’unità familiare, benché, in fatto (a differenza della procreazione naturale), sia ancora possibile evitare l’impianto dell’embrione a suo tempo fecondato e crioconservato. Questa Corte è consapevole che lo status di genitore comporta una modifica sostanziale dei diritti e degli obblighi di una persona, idonea a investire la maggior parte degli aspetti e degli affetti della vita. È altrettanto consapevole che il panorama del diritto comparato mostra soluzioni anche molto diversificate, sia a livello legislativo che giurisprudenziale. […] È evidentemente la consapevolezza di trovarsi di fronte a una scelta complessa, che coinvolge interessi chiaramente antagonisti, a indurre gli ordinamenti ad adottare soluzioni differenti, che riflettono le precipue caratterizzazioni che in essi assumono i principi costituzionali coinvolti. 15.– Tuttavia, resta fermo che, nel nostro ordinamento, la ricerca, nel rispetto della dignità umana, di un ragionevole punto di equilibrio, eventualmente anche diverso da quello attuale, fra le diverse esigenze in gioco in questioni che toccano “temi eticamente sensibili” (sentenza n. 162 del 2014) non può che spettare “primariamente alla valutazione del legislatore”, “alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale” (sentenza n. 221 del 2019), ferma restando la sindacabilità da parte di questa Corte delle scelte operate, al fine di verificare che con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014)» |
Con la sentenza n. 146 del 17 luglio 2023, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo all’art. 168-bis, comma 1, c.p., nella parte in cui non consente l’astratta ammissibilità della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato in ipotesi di omicidio stradale allorché non ricorra alcuna aggravante e sussistano gli estremi dell’attenuante ad effetto speciale del concorso di colpa della vittima nella causazione del sinistro mortale. La decisione è stata comunque l’occasione per la Corte per sollecitare un intervento del legislatore volto ad ampliare l’ammissibilità del beneficio della messa alla prova con sospensione del procedimento anche per reati che sono decisamente meno gravi proprio in applicazione di attenuanti ad effetto speciale.
Giudice a quo nella vicenda in esame è il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Torino, costretto a negare l'istanza per la messa alla prova a una imputata di omicidio stradale.
Nel caso in questione non ricorre nessuna circostanza aggravante, né comune né speciale; è invece ravvisabile la specifica circostanza attenuante ad effetto speciale prevista dall’art. 589-bis, settimo comma, cod. pen., che stabilisce la diminuzione della pena sino alla metà qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza della condotta del colpevole. Secondo il Gup piemontese l’accoglimento dell’istanza dell’imputata sarebbe impedito, nella fattispecie, dal superamento del limite edittale massimo di pena detentiva alla cui sussistenza l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., subordina la concessione del beneficio: infatti, salvo che si proceda per un delitto rientrante tra quelli indicati nell’art. 550, comma 2, del codice di procedura penale (reati a citazione diretta), la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere concessa solo ove si versi in ipotesi di reato punito con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, mentre il delitto di omicidio stradale è punito con la reclusione pari, nel massimo, a sette anni.
Il giudice a quo evidenzia che la preclusione alla concessione del beneficio derivante dal fatto che la fattispecie delittuosa per cui si procede sia punita con una pena edittale superiore nel massimo al limite stabilito dall’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., non sarebbe neutralizzata dal concorso della circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 589-bis, settimo comma, cod. pen.
Il giudice a quo, nel sollevare le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., nei termini indicati, osserva, in punto di rilevanza, che la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, alla luce dell’interpretazione prevalsa nel diritto vivente, sarebbe d’ostacolo all’applicazione dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova nella fattispecie concreta, cosicché la richiesta dell’imputata, nonostante la concorrenza di tutti gli ulteriori presupposti sostanziali e processuali previsti dalla legge, dovrebbe essere respinta, non essendo consentito tenere conto, ai fini dell’individuazione del limite massimo della pena detentiva astrattamente applicabile, della concorrente circostanza attenuante ad effetto speciale del concorso causale della vittima, o comunque, dell’intera portata diminuente di essa.
Ove tale preclusione fosse rimossa, consentendosi il computo della detta attenuante nella sua massima portata diminuente, con riduzione della pena sino alla metà, il dimezzamento della pena edittale massima farebbe rientrare il delitto per cui si procede tra quelli per i quali è consentita l’ammissione al beneficio, con conseguente possibilità di accoglimento dell’istanza dell’imputata.
Il giudice rimettente deduce quindi la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., avuto riguardo, in particolare, al carattere irragionevole della prevista esclusione e alla disparità di trattamento rispetto a fattispecie criminose punite con pene decisamente più elevate, per le quali, tuttavia, la sospensione del procedimento con messa alla prova sarebbe astrattamente ammissibile.
Inoltre, secondo il giudice rimettente, sarebbe violato anche l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata, precludendo all’imputato la possibilità di beneficiare, in via anticipata e in luogo della pena detentiva, di un trattamento sanzionatorio alternativo attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità diretti a consentirne la risocializzazione, contrasterebbe con la finalità rieducativa della pena.
I Giudici della Corte Costituzionale hanno ritenuto infondata la questione sollevata.
In particolare, pur dando pienamente conto dell’esistenza di una giurisprudenza maggioritaria volta ad ampliare il perimetro della concedibilità della messa alla prova, la Corte Costituzionale ha precisato che appartiene alle scelte di politica criminale del legislatore una tale scelta, la quale, laddove venisse adottata e positivizzata, non potrebbe essere limitata, certamente, alla sola attenuante di cui al settimo comma dell’articolo 589 bis c.p. ma dovrebbe riguardare in generale il criterio di computo delle attenuanti ad effetto speciale, in tutti i casi di valutazione di ammissione alla messa alla prova.
Sul punto, la Consulta precisa che “ove risultasse in giudizio che effettivamente l’evento non sia stato esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione dell’imputata del reato di omicidio stradale, in ragione del concorso di colpa della vittima, la pena potrebbe essere ridotta fino a metà di quella prevista per il reato non circostanziato e, in tal modo, soccorrerebbero altri istituti (quali le misure alternative alla detenzione, nonché la sospensione condizionale della pena), parimenti ispirati ad evitare la condanna ad una pena che possa essere percepita come non proporzionata e quindi tale da non favorire la risocializzazione del condannato”.
Tutto ciò premesso, le sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, c.p. non sono fondate, innanzi tutto in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo della denunciata disparità di trattamento, coniugata alla censura di irragionevolezza intrinseca per la mancata rilevanza delle attenuanti ad effetto speciale e segnatamente di quella prevista per il reato di omicidio stradale dal settimo comma dell’art. 589-bis c.p., considerando anche che il legislatore, pure dopo la riforma ad opera del d.lgs. n. 150 del 2022, che ha lasciato invariato, in questa parte, il disposto dell’art. 168-bis c.p., è rimasto fermo nell’iniziale scelta di individuare i reati, per i quali è consentita la messa alla prova, sulla base della pena edittale detentiva prevista in misura non superiore nel massimo a quattro anni; pena che, in quanto «edittale», è riferita alla fattispecie del reato non circostanziato.
Si tratta di una scelta di politica criminale rimessa alla discrezionalità del legislatore, il quale non irragionevolmente ha fissato una soglia di pena massima irrogabile, quale discrimen per l’accesso al beneficio, e ciò ha fatto con riferimento a quella edittale, prevista per il reato base non circostanziato, senza quindi dare rilievo alle circostanze né aggravanti né attenuanti, quantunque ad effetto speciale.
Le criticità emerse nel caso in questione non sono, secondo la Corte, del tutto prive di fondamento, tanto che in chiusura della sua decisione di non fondatezza la Corte sottolinea comunque l’esigenza che di esse si faccia carico il legislatore.
Con la sentenza n. 161 del 2023 la Corte costituzionale è stata chiamata ad effettuare una valutazione sulla legittimità della norma che, nell’ambito della procreazione medicalmente assistita (PMA), stabilisce la irrevocabilità del consenso, in particolare dell’uomo quale parte della coppia, successivamente alla fecondazione dell’ovulo.
Il giudice delle leggi ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente, giudicando non irragionevole il bilanciamento operato dal legislatore nel censurato art. 6,comma 3, ultimo periodo della legge n. 40 del 2004 che disciplina la fecondazione artificiale e che rende possibile, grazie alla crioconservazione, la richiesta dell’impianto di embrioni già fecondati anche a distanza di tempo e anche quando siano venuti meno i vincoli affettivi e giuridici del progetto di coppia per effetto della separazione dei coniugi.
Più in dettaglio, nel caso del giudizio a quo la donna aveva richiesto l’impianto dell’embrione crioconservato alla struttura sanitaria, per completare un percorso di PMA già avviato nel 2017 a seguito del consenso alla procedura reso da entrambi i coniugi, poi sospeso per effetto di ulteriori terapie preimpianto cui lei avrebbe dovuto sottoporsi. Avvenuta tuttavia la separazione della coppia nel 2019, l’anno dopo l’uomo procede alla revoca del consenso alla procedura di impianto. La donna perciò avvia un ricorso al Tribunale di Roma chiedendo che la struttura sanitaria procedesse comunque all’impianto dell’embrione, sulla scorta del dettato della norma censurata che consente la revoca del consenso esclusivamente prima che l’ovulo sia fecondato.
Il giudice solleva quindi la questione di costituzionalità in riferimento alla richiamata norma che stabilisce l’irrevocabilità del consenso, considerando la richiesta di autodeterminazione dell’uomo a non voler subire l’obbligo di diventare padre e di sottostare di fatto ad un trattamento sanitario obbligatorio. Ciò anche sulla scorta dell’interpretazione inferibile dal dettato dell’art. 5, co.1, della medesima L. 40/2004, che consente l’accesso alla PMA solo a coppie che integrano certi requisiti previsti dalla lettera della norma, vale a dire “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”: pertanto, qualora nel periodo tra la crioconservazione e l’impianto uno dei presupposti venisse a mancare, si suppone comunque permessa la revoca del consenso.
Le motivazioni della Corte volte a rigettare le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo si fondano preliminarmente sul dato testuale dell’articolo 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004 che consente la revoca del consenso solo prima che l’ovulo sia fecondato.
Inoltre, sotto il profilo della discriminazione relativa alla violata parità di trattamento e conseguente lesione del diritto di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, la Corte sottolinea che l’argomento che il divieto non sia di fatto applicabile ad entrambi i componenti della coppia, perché nel caso di rifiuto da parte della donna non sarebbe comunque possibile procedere all’impianto dell’embrione coattivamente, non prefigura disparità tra i sessi in quanto non si pone una questione di un trattamento differenziato per situazioni omogenee tra loro.
Ancora, sotto il profilo della libertà di autodeterminazione dell’uomo di diventare genitore, si fa riferimento al consenso informato che egli stesso ha firmato, che è maturato in un contesto in cui è stato reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione dell’ovulo fecondato determinante la “fondamentale assunzione di responsabilità dell’acquisizione dello status filiationis”.
Infine, oltre la considerazione della tutela della salute fisica e psichica della madre, di non secondario aspetto vi è anche la dignità dell’embrione e la tutela del suo interesse che è quello di nascere, non intaccato dalla sopravvenuta separazione dei futuri genitori, e per la quale la Corte conclude che “risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell’uomo”.
Questo non impedisce però alla sentenza di riconoscere che l’istituto dell’irrevocabilità del consenso, nei tempi attuali, opera in un contesto normativo differente da quello originario, dal momento che alcune declaratorie di incostituzionalità (v. sentenze n. 151/2009 e n. 96/2015) hanno profondamente mutato il divieto generico di crioconservazione, fino a far diventare tale pratica addirittura più frequente rispetto alle procedure di impianto “a fresco”. Ciò determina un allungamento dell’arco temporale tra la fecondazione dell’ovulo - termine ultimo, come si è detto, per la revoca del consenso - e il momento effettivo dell’impianto.
La Sentenza precisa quindi che la ricerca di un eventuale diverso punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze in campo non può che spettare al legislatore, con più specifico riferimento alla questione relativa al rispetto della vita privata, richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul punto che gli Stati in materia godono di un ampio margine di apprezzamento in tema di revoca del consenso.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 136 del 2023, ha dichiarato costituzionalmente illegittime alcune disposizioni della legge reg. Siciliana n. 16 del 2022, tra le quali, in particolare, la norma che rinviava di un anno le elezioni – dal 2022 al 2023 –, già più volte posposte, dei presidenti dei liberi Consorzi comunali e dei Consigli metropolitani, che in Sicilia sostituiscono le province, e prorogava contestualmente il mandato dei commissari straordinari nominati dalla Regione che ne svolgono attualmente le funzioni.
Risulta nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’art. 13, comma 43, della legge reg. Siciliana n. 16 del 2022, che, come anticipato, rinviava al 2023 l’elezione dei presidenti dei liberi Consorzi comunali e dei Consigli metropolitani, a tal fine modificando la legge reg. n. 15 del 2015, con la quale la regione Sicilia, insieme con la legge reg. n. 8 del 2014, ha provveduto ad istituire i liberi Consorzi comunali di Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa, Siracusa e Trapani e le Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, quali enti territoriali di area vasta dotati di autonomia statutaria, regolamentare, amministrativa, impositiva e finanziaria, impositiva e finanziaria nell’ambito dei propri statuti e regolamenti, delle leggi regionali e delle leggi statali di coordinamento della finanza pubblica, i cui organi di governo sono eletti con sistema indiretto e di secondo grado. Il territorio di ciascun ente è costituito dal territorio dei comuni che fanno parte delle ‘vecchie’ province regionali.
L’iter di approvazione della riforma degli enti di area vasta in Sicilia è stato lungo e travagliato: esso origina dalle previsioni dell’articolo 15 dello statuto, che stabilisce la soppressione delle circoscrizioni provinciali prevedendo che l’ordinamento degli enti locali si basi sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, a cui solo le leggi regionali n. 8 del 2014 e n. 15 del 2015 hanno dato un seguito normativo, dettando una disciplina degli enti di area vasta in piena continuità con quanto previsto dalla legge n. 56/2014 (c.d. legge Delrio) per le regioni a statuto ordinario.
In seguito all’esito referendario del 4 dicembre 2016, la legge reg. Sicilia n. 17 del 2017 ha introdotto l’elezione diretta dei presidenti e dei Consigli dei liberi Consorzi comunali, nonché dei Sindaci metropolitani e dei Consigli metropolitani.
Tali norme, impugnate dal Governo dinanzi la Corte costituzionale sono state dichiarate illegittime con la sentenza n. 168 del 2018, in quanto ha affermato che le norme che introducono nell’ordinamento degli enti locali, l’elezione di secondo grado per gli organi di province e città metropolitane, si qualificano come «norme fondamentali delle riforme economico-sociali, che, in base all’art. 14 dello statuto speciale per la regione siciliana, costituiscono un limite anche all’esercizio delle competenze legislative di tipo esclusivo».
Dopo l’intervento della Corte, un’ulteriore modifica alla legge reg. n. 15 del 2015 ha re-introdotto le elezioni di secondo livello degli organi dei liberi Consorzi comunali e delle città metropolitane.
In particolare, la vigente disciplina prevede che i presidenti dei liberi Consorzi comunali – che nella Regione siciliana hanno preso il posto delle province – sono eletti con voto ponderato dai sindaci e dai consiglieri comunali in carica dei comuni che li compongono, fra i sindaci dei comuni appartenenti allo stesso libero Consorzio comunale il cui mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data di svolgimento delle elezioni[14]. Quanto ai Consigli metropolitani, invece, essi sono composti dal sindaco metropolitano e da quattordici o diciotto membri, a seconda della popolazione residente nella città metropolitana, eletti con voto ponderato dai sindaci e dai consiglieri comunali in carica dei comuni appartenenti alla città metropolitana, fra i sindaci e i consiglieri comunali in carica.
Nel corso di questo complesso iter normativo, per effetto di continui rinvii ad opera di una serie di leggi regionali, le elezioni degli organi degli enti di area vasta non sono state mai indette. Parallelamente le funzioni dei presidenti dei liberi Consorzi comunali sono state svolte da commissari straordinari nominati dalla Regione, il cui mandato è stato più volte prorogato.
Con la medesima pronuncia n. 136 del 2023, la Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale di altre due disposizioni della legge reg. Siciliana n. 16 del 2022 e precisamente:
- l’art. 13, comma 71, che recepiva unilateralmente nel territorio siciliano alcune semplificazioni procedimentali in materia di spettacoli dal vivo previste da norme nazionali (art. 38-bis del decreto-legge n. 76 del 2020, come conv.) per far fronte alle ricadute economiche negative conseguenti alle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da COVID-19;
- l’art. 13, comma 108, che disponeva una modifica degli effetti dei titoli abilitativi rilasciati al fine di realizzare varianti al piano urbanistico regionale (PUG) per progetti edilizi concernenti immobili da destinare a comunità-alloggio e centri socio-riabilitativi, anche qualora l’immobile non venga utilizzato a tal scopo per almeno vent’anni, come previsto dalla legge statale.
Nel prosieguo, la scheda di sintesi si sofferma in particolare sulla prima delle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime dalla Corte.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale sull’ulteriore rinvio delle elezioni degli enti di area vasta, ritenendo che con l'intervento legislativo regionale risultino violati molteplici parametri costituzionali e, in particolare:
1) i principi di democraticità di cui all’articolo 1, primo comma, Cost., in quanto i referendum e le elezioni (ancorché indirette) rappresentano il momento più alto di manifestazione della sovranità popolare» (Corte cost., sentenza n. 1 del 2014);
2) gli artt. 5 e 114 della Costituzione, sia «in quanto l’autonomia e la rappresentatività degli enti de quibus sono svuotate da un commissariamento che di fatto dura sine die», sia perché l’articolo 114 imporrebbe il dovere di istituire l’ente “città metropolitana” (Corte cost., sentenza n. 168 del 2018), obbligo disatteso dai continui rinvii;
3) il principio di ragionevolezza desumibile dall’articolo 3 Cost., poiché, secondo il ricorrente, la «situazione di eccezionalità che poteva giustificare, nell’immediatezza dell’entrata in vigore della disciplina di riforma, la proroga originariamente disposta nel 2016, non può infatti porsi come plausibile ragione giustificativa delle successive 10 proroghe che si sono susseguite in un arco temporale di sei anni: ciò che stabilizza l’eccezionalità oltre ogni ragionevole limite».
Ad avviso del Governo, infine, il legislatore regionale avrebbe interamente disatteso le disposizioni della legge n. 56/2014, i cui princìpi, per esplicita previsione normativa, valgono come princìpi di grande riforma economica e sociale per la disciplina di città e aree metropolitane da adottare dalla regione Sardegna, dalla Regione siciliana e dalla regione Friuli-Venezia Giulia, in conformità ai rispettivi statuti. In conseguenza di ciò risulterebbe violato lo stesso statuto di autonomia che attribuisce proprio alla Regione la competenza in materia di enti locali (art. 14, primo comma, lett. o) e 15, D.Lgs. 15 maggio 1946, n. 455).
La Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 43, della legge reg. Sicilia n. 16 del 2022, che modifica la legge reg. Siciliana n. 15 del 2015, per contrasto con gli artt. 3, 5 e 114 Cost.
Le argomentazioni della Corte partono dalla ricostruzione puntuale della lunga catena di rinvii delle elezioni che si sono succeduti dal 2015 all’ultima norma censurata, che ha lasciato sostanzialmente inattuato l’assetto istituzionale degli enti di area vasta in Sicilia.
Nella mancata costituzione degli organi elettivi dei liberi Consorzi comunali e dei consigli delle città metropolitane la Corte ravvisa in primo luogo un vulnus agli articoli 5 e 114 Cost., che dispongono la «natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’art. 114 Cost., come “costitutivi della Repubblica”, ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’art. 5 Cost.» (sentenza n. 50 del 2015; successivamente, sentenza n. 168 del 2018), nonché impongono alla Repubblica il dovere della concreta istituzione degli enti costitutivi e, in particolare, dell’ente territoriale Città metropolitana, a seguito della riforma del 2001. La Corte sottolinea al riguardo che un «tratto essenziale e caratterizzante» dell’autonomia di tali enti è costituito dal carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo, confermando che esso non viene meno nel caso di elezioni di secondo grado (come già la Corte aveva avuto modo di affermare nella sentenza n. 50 del 2015).
In secondo luogo, la norma censurata, non menzionando alcuna giustificazione per il rinvio delle elezioni dal 2022 al 2023 e non essendo possibile desumere alcuna ragione di tale rinvio dai lavori preparatori, risulta altresì in contrasto con il canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
La sentenza n. 159 del 2023 della Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Roma sul comma 3 dell’articolo 43 del decreto-legge n. 36 del 2022.
Tale disposizione ha previsto, a fronte dell’istituzione del Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945, che le procedure esecutive fondate su titoli aventi ad oggetto la liquidazione dei relativi danni non possono essere iniziate o proseguite e i giudizi di esecuzione eventualmente promossi sono estinti.
La sentenza della Corte costituzionale ripercorre, per il riguardo storico-normativo, il tema della riparazione dei danni di guerra inferti dalla Germania nel secondo conflitto mondiale. In tale percorso si collocano gli Accordi di Bonn del 1961 tra Repubblica italiana e Repubblica Federale Tedesca, mossi dall’intento di superare le lacerazioni del passato. Da parte tedesca vi era l’impegno di versare una somma da destinare a cittadini italiani vittime delle persecuzioni nazionalsocialiste; da parte italiana si sottoscriveva una clausola liberatoria, onde quel pagamento valesse a regolare in modo definitivo tutte le questioni tra i due Stati, formanti oggetto dell’accordo (senza pregiudizio delle eventuali pretese di cittadini italiani in base alla legislazione tedesca sui risarcimenti).
Per altro verso, la sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012 rilevava come il principio dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione per gli atti funzionali importasse obblighi non rispettati dall’Italia.
Per conformarsi a tale indicazione giurisprudenziale, lo Stato italiano predisponeva l’articolo 3 della legge n. 5 del 2013, relativo all’obbligo di dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice civile italiano davanti al quale penda una controversia relativa a condotte statali per le quali la Corte internazionale di giustizia abbia escluso l’assoggettabilità alla giurisdizione di un altro stato. Tale disposizione è stata colpita – per quanto concerne il processo di cognizione – dalla pronunzia di incostituzionalità resa dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 238 del 2014.
Conseguentemente è stata riconosciuta la giurisdizione dello Stato per le azioni di accertamento e condanna promosse in sede cognitiva nei confronti di Stati esteri (la Repubblica federale tedesca, in questo caso) rispetto ad atti annoverabili quali crimini internazionali e, dunque, costituenti delicta iure imperii, perché compiuti in violazione di norme internazionali cogenti, in quanto lesivi di diritti fondamentali della persona, commessi (o iniziati con atti come la deportazione forzata) sul territorio italiano.
La sentenza costituzionale del 2014 ha portato al riconoscimento della azionabilità innanzi al giudice ordinario della domanda di risarcimento del danno, nei confronti della Repubblica federale di Germania, per gravi lesioni dei diritti umani conseguenti a condotte qualificabili quali crimini contro l’umanità, imputabili al Terzo Reich nel periodo della Seconda guerra mondiale.
Nelle argomentazioni di diritto della sentenza n. 159, la Corte ha ripreso la distinzione tra processo di cognizione e processo di esecuzione, concludendo che l’immunità dei beni dello Stato estero dall’esecuzione forzata viene in rilievo quale limite alla pignorabilità, ma non incide, invece, sulla giurisdizione.
Nel processo di cognizione, infatti, la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri per acta imperii (cui inerisce l’immunità dei beni dello Stato estero dall’esecuzione forzata) non opera quando essi risultino esser stati delicta imperii. In tal caso, non vi è l’adeguamento automatico di cui all’articolo 10, primo comma della Costituzione (secondo cui “l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”). A tale automatico adeguamento osta il “diritto al giudice”, che la Corte costituzionale ha ripetutamente compreso fra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, ove l’oggetto dell’accertamento concerna il danno da crimini di guerra, quali crimini contro l’umanità e gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona, inviolabili. Il “diritto al giudice”, sancito dall’articolo 24 della Costituzione, congiuntamente al principio posto a tutela di diritti fondamentali della persona, secondo l’articolo 2 della Costituzione, si fondono nel diritto fondamentale alla dignità umana, che opera quale ‘controlimite’ all’ingresso nell’ordinamento italiano delle norme di qualsivoglia altro ordinamento.
Per tali crimini (tra i quali rientrano quelli compiuti dalle forze del Terzo Reich) non si ha dunque immunità, la quale protegge la funzione, non anche comportamenti che non attengono all’esercizio tipico della potestà di governo e sono lesivi di diritti inviolabili, come già rilevato dalla Corte con la sentenza n. 238 del 2014.
Diverso il discorso per il processo di esecuzione (che quella sentenza non trattava). La norma ‘immunitaria’ consuetudinaria di diritto internazionale, se non preclude il diritto al giudice e alla tutela giurisdizionale né scherma la giurisdizione del giudice in sede esecutiva, tuttavia incide sulla possibilità di sottoporre beni dello Stato all’espropriazione forzata.
Se questi sono riferibili ad una funzione in senso lato pubblicistica, ossia ad attività iure imperii, vi è l’immunità (quella cosiddetta ristretta) e quindi essi non sono pignorabili nel contesto di una procedura di espropriazione forzata. Se, invece, si tratti di beni che attengono all’attività iure gestionis dello Stato, essi sono pignorabili.
In questi termini, la norma consuetudinaria di diritto internazionale (come riconosciuta dalla Corte internazionale di giustizia nella citata sentenza del 3 febbraio 2012), ha ingresso nel nostro ordinamento ex articolo 10, primo comma, della Costituzione (senza che a ciò sia di ostacolo alcun controlimite, nemmeno quello ritenuto dalla sentenza n. 238 del 2014 quanto al giudizio di cognizione).
Con riferimento alla fase dell’esecuzione forzata, dunque, il giudice nazionale incorre nel vincolo di adeguamento alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia. Pertanto non è consentita un’azione esecutiva avente ad oggetto beni di proprietà di Stati stranieri, ove questi abbiano destinazione a fini pubblicistici.
È in tale contesto che interviene l’articolo 43 del decreto-legge n. 36 del 2022, istituendo un Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani, dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945. Titolo per l’accesso al ristoro è una sentenza che sia passata in giudicato avente ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni da crimini di guerra, a seguito di azioni giudiziarie avviate alla data di entrata in vigore del decreto-legge.
Al contempo, la disposizione ha statuito che le pronunce di condanna siano eseguite esclusivamente a valere sul Fondo. Non possono essere iniziate o proseguite procedure esecutive e i giudizi di esecuzione eventualmente intrapresi sono dichiarati estinti.
Siffatta ‘preclusione’ è stata ritenuta non incostituzionale dalla Corte. L’impianto normativo in cui si pone, essa ha rimarcato, “opera un non irragionevole bilanciamento” tra princìpi tutti di rango costituzionale: da un lato, la ricomprensione nella garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti (assicurata dall’articolo 24 della Costituzione), anche della fase dell’esecuzione forzata, in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giudiziale, tanto più quando leso è un diritto fondamentale (tutelato dall’articolo 2 della Costituzione); dall’altro, il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali discendenti dai trattati, le cui disposizioni sono fin elevate a parametri interposti della legittimità costituzionale della normativa interna (ex articolo 117, primo comma, della Costituzione).
Ossia, l’indefettibilità della tutela giurisdizionale anche in executivis non è inficiata da una estinzione dei giudizi pendenti che sia corredata da disposizioni di carattere sostanziale tali da garantire, per altra via che non quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte.
La Corte rileva che, nel caso in esame, “a fronte dell’arresto della procedura esecutiva in corso vi è la tutela approntata dal Fondo ‘ristori’ con un meccanismo di traslazione dell’onere economico recato dall’obbligazione risarcitoria accertata con sentenza passata in giudicato, sì da conciliare, nel bilanciamento complessivo dei principi costituzionali in gioco, la tutela giurisdizionale delle vittime dei suddetti crimini di guerra e il rispetto degli specifici accordi internazionali in materia (l’Accordo di Bonn del 1961)”.
L’accesso al Fondo viene a configurarsi come esecuzione della sentenza passata in giudicato, avente ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni per crimini di guerra. Talché al credito risarcitorio nei confronti della Germania è sostituito un diritto di analogo contenuto sul Fondo, risultando così una adeguata tutela alternativa a quella conseguibile con l’esecuzione forzata nei confronti di quello Stato.
“L’assoluta peculiarità della fattispecie, che vede la necessità di bilanciamento tra l’obbligo di rispetto dell’Accordo di Bonn del 1961 e la tutela giurisdizionale delle vittime dei suddetti crimini di guerra, costituisce ragione giustificatrice sufficiente per una disciplina differenziata ed eccezionale, la quale – per tutto quanto sopra argomentato – segna un non irragionevole punto di equilibrio nella complessa vicenda degli indennizzi e dei risarcimenti dei danni da crimini di guerra”.
Con la sentenza, n. 183 del 2023, interpretativa di rigetto, depositata il 28 settembre, la Corte costituzionale non ha accolto le questioni di legittimità costituzionale relative all’articolo art. 27, terzo comma, della legge n. 184 del 1983, in materia di adozione dei minori.
Il giudizio di legittimità costituzionale ha ad oggetto l’articolo 27, terzo comma, della legge n. 184 del 1983, che prevede che con l'adozione del minore cessino i rapporti dell'adottato verso la famiglia d'origine.
La questione
La Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, terzo comma, della legge n. 184 del 1983 per violazione degli artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 CEDU, agli artt. 3, 20, comma 3, e 21 della Convenzione sui diritti del fanciullo, nonché all’art. 24 CDFUE.
Il giudice a quo, nel ricostruire l’istituto dell’adozione piena (disciplinato dal citato art. 27) ha evidenziato che, per un verso, esso comporta l’acquisizione da parte dell’adottato dello status di figlio nato nel matrimonio degli adottanti (primo comma) e per altro verso, al terzo comma dell’art. 27 – la disposizione oggetto delle censure del giudice a quo–, comporta la cessazione dei «rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali». L’adozione introdotta nel 1983 ha inteso, dunque, riprodurre, con la massima fedeltà possibile, gli effetti propri della filiazione che scaturisce dalla nascita nel matrimonio, così concependo l’istituto nei termini di una sorta di rinascita per il minore. Il duplice effetto, costitutivo ed estintivo, si collega al presupposto stesso dell’adozione: la dichiarazione di adottabilità fondata sullo stato di abbandono, che la legge identifica nella situazione in cui il minore è privo «di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi» (art. 8, comma 1, della legge n. 184 del 1983).
La formulazione del censurato art. 27, terzo comma, non consentirebbe -secondo la Corte rimettente - al giudice minorile di «indagare in concreto se la definitiva recisione dei legami con i nuclei familiari di origine, all’interno dei quali il minore abbia vissuto la relazione con i propri genitori, sia una soluzione che corrisponda al suo interesse o vi arrechi pregiudizio».
La Corte costituzionale, preliminarmente ha osservato che, in via astratta e generale, non appare irragionevole far derivare dall’accertamento dello stato di abbandono, come fa la disciplina in oggetto, la cessazione del rapporto giuridico-formale di filiazione e con esso la recisione delle relazioni parentali con la famiglia d’origine, nella presunzione che ciò corrisponda all’interesse del minore. Tuttavia, secondo la corte se tale presunzione dovesse essere interpretata in termini assoluti, così da non permettere al giudice di ravvisare in concreto un interesse dell’adottando a mantenere positive relazioni socio-affettive, si avrebbe un contrasto con i principi costituzionali posti a difesa degli interessi del minore e in specie della sua identità. Pertanto, rigettando le questioni di legittimità sollevate, la Corte ha chiarito che la disposizione censurata va interpretata nel senso che il riferimento alla cessazione dei rapporti con i componenti della famiglia d’origine riguarda sempre ed esclusivamente i legami giuridico-formali di parentela. Diversamente, per le relazioni di natura socio-affettiva non si può ritenere, in termini assoluti, che la loro cessazione realizzi in ogni caso l’interesse del minore.
Secondo la Corte, tale interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata risulta coerente con l’evoluzione sociale e il dato dell’esperienza maturato con l’applicazione della disciplina riguardante l’adozione unitamente alle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale e dal diritto vivente, che hanno indotto in varie occasioni il Legislatore ad intervenire al fine di rivedere l’assunto in base al quale l’adozione debba necessariamente implicare una radicale cancellazione del passato del minore adottato.
Pertanto, la formulazione del censurato art 27, terzo comma, così come interpretato dalla Corte, esclude che vi possa essere un divieto assoluto di preservare relazioni socio-affettive con componenti della famiglia d’origine del minore, non essendo precluso al giudice verificare in concreto che, «sulla scorta degli indici normativi desumibili dalla stessa legge n. 184 del 1983, letti nella prospettiva costituzionale della tutela del minore e della sua identità», risulti nel suo preminente interesse mantenere «significative, positive e consolidate relazioni socioaffettive con componenti della famiglia d’origine», che non possono «sopperire allo stato di abbandono» del minore stesso.
[1] In termini generali, si ricorda che l’articolo 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992 stabilisce che “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”. La normativa in tema di vaccinazioni e di correlati indennizzi, come ricorda la Corte nella sentenza in commento, è stata poi integrata da successivi interventi del legislatore: sono state rese obbligatorie e gratuite, per i minori di età da zero a sedici anni, molte vaccinazioni che in precedenza erano solo raccomandate (art. 1, commi 1 e 1-bis, del decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73, recante «Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale», convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2017, n. 119). Inoltre, con l’art. 5-quater, dello stesso d.l. n. 73 del 2017, come convertito, si è precisato che le disposizioni «di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, si applicano a tutti i soggetti che, a causa delle vaccinazioni indicate nell’articolo 1, abbiano riportato lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica». E, in sede di conversione del decreto-legge in questione, alcune vaccinazioni contemplate dal citato art. 1 (in particolare, quelle anti-meningococcica B; anti-meningococcica C; anti-pneumococcica; anti-rotavirus) da obbligatorie sono divenute raccomandate. In seguito, l’art. 20, comma 1, del decreto-legge 27 gennaio 2022, n. 4 (Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2022, n. 25, ha disposto la tutela indennitaria in caso di danni permanenti alla integrità psico-fisica conseguenti alla vaccinazione meramente raccomandata anti SARS-CoV-2.
[2] Corte d’appello di Roma, sezione quarta lavoro.
[3] In riferimento alla rilevata impossibilità di interpretazione conforme a Costituzione, si ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (v. sent. 118/2020 e altre pronunce ivi richiamate), il mero riscontro della natura raccomandata della vaccinazione, per le cui conseguenze dannose si domandi indennizzo, non consente ai giudici comuni di estendere automaticamente a tale fattispecie la pur comune ratio posta a base delle precedenti, parziali, declaratorie di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992. Infatti, per la Corte, in caso di complicanze conseguenti alla vaccinazione, il diritto all’indennizzo non deriva da qualunque generica indicazione di profilassi proveniente dalle autorità pubbliche, a quella vaccinazione relativa, ma solo da specifiche campagne informative svolte da autorità sanitarie e mirate alla tutela della salute, non solo individuale, ma anche collettiva. All’accertamento in fatto dell’esistenza di raccomandazioni circa il ricorso alla vaccinazione, che certamente spetta ai giudici comuni, deve perciò necessariamente seguire – nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale – la verifica, da parte della Corte, circa la corrispondenza di tali raccomandazioni ai peculiari caratteri che, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, finalizzano il trattamento sanitario raccomandato al singolo alla più ampia tutela della salute come interesse della collettività, ed impongono, dunque, una estensione della portata normativa della disposizione censurata.
[4] In particolare, nell’ordinanza di rimessione si prefigurava una “sentenza additiva di parziale illegittimità costituzionale”.
[5] In proposito sono richiamate le sentenze: n. 118 del 2020, con riguardo alla vaccinazione anti-epatite A; n. 268 del 2017, attinente a quella antinfluenzale; n. 107 del 2012, inerente alle vaccinazioni anti-morbillo, parotite e rosolia; n. 423 del 2000, relativa a quella anti-epatite B; n. 27 del 1998, riferita alla vaccinazione antipoliomielitica.
[6] In proposito sono richiamate la sentenza n. 423 del 2000 e le sentenze n. 118 del 2020 e n. 268 del 2017.
[7] Al riguardo sono richiamate le sentenze n. 118 del 2020, n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012.
[8] Sono in proposito richiamate la sentenza n. 5 del 2018 e la sentenza n. 137 del 2019.
[9] Al riguardo sono citate la sentenza n. 226 del 2000 e, in senso analogo, le sentenze n. 118 del 2020 e n. 107 del 2012.
[10] In linea con quanto già sostenuto dalla Corte stessa nella richiamata sentenza n. 118 del 2020.
[11] Al riguardo sono richiamate le sentenze n. 118 del 2020, n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012.
[12] In proposito sono citate le sentenze n. 268 del 2017 e n. 27 del 1998.
[13] Al riguardo sono menzionate le sentenze n. 15 del 2023, n. 5 del 2018, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990.
[14] Risulta eletto il candidato che abbia riportato il maggior numero di voti, calcolato con i criteri di ponderazione di cui ai commi 32, 33 e 34 dell'articolo 1 della legge 7 aprile 2014, n. 56 in base ai quali ciascun elettore esprime un voto che viene ponderato sulla base di un indice determinato in relazione alla popolazione complessiva della fascia demografica del comune di cui è sindaco o consigliere.