Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
Titolo: | Il controllo di costituzionalità delle leggi |
Serie: | Rassegna costituzionale Numero: 2/Aprile - Giugno 2023 |
Data: | 04/08/2023 |
Organi della Camera: | I Affari costituzionali |
Il controllo di costituzionalità delle leggi
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RASSEGNA TRIMESTRALE
DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
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ANNO III NUMERO 2 - APRILE-GIUGNO 2023
Servizio Studi
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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del secondo trimestre dell’anno 2023. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.
Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.
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I N D I C E
1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore 3
2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali............. 7
§ 2.1 Tabella di sintesi (aprile – giugno 2023).................................................. 7
§ 2.2. La sentenza n. 65 del 2023 in materia di improcedibilità nei confronti dell'imputato colpito da infermità «psicofisica»............................................................................ 10
§ 2.3. La sentenza n. 70 del 2023 sul mancato coinvolgimento degli enti territoriali 13
§ 2.4. La sentenza n. 88 del 2023 in materia di permesso di soggiorno......... 17
§ 2.5. La sentenza n. 94 del 2023 in materia di divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata.................................................................................. 24
§ 2.6. La sentenza n. 111 del 2023 in materia di diritto al silenzio dell’imputato sulle domande relative a qualità personali........................................................................... 27
§ 2.7. La sentenza n. 113 del 2023 sull’introduzione di disposizioni estranee nei decreti-legge 31
§ 2.8. La sentenza n. 119 del 2023.................................................................. 35
3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (aprile-giugno 2023) 39
§ 3.1. La sentenza n. 71 del 2023, sull’erogazione di contributi statali sul fondo di solidarietà comunale con vincolo di destinazione......................................................... 42
§ 3.2. La sentenza n. 130 del 2023, sul differimento e sul riconoscimento in modalità rateale dei trattamenti di fine servizio o di fine rapporto dei dipendenti pubblici......... 45
4. Altre pronunce di interesse.................................................................... 49
§ 4.1. Sentenza n. 110 del 2023, in materia di leggi “irrimediabilmente oscure” 49
§ 4.2. - Sentenza n. 129 del 2023 sul diritto all’indennizzo per soggetti che abbiano subito danni irreversibili da vaccinazione non obbligatoria................................................. 51
La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).
Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.
La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza
di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In quest’ultimo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.
La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.
La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).
Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).
Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).
Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.
Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.
Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
Più di recente, la Corte ha utilizzato la tecnica decisoria dell'“incostituzionalità differita”: in questi casi, pur ritenendo una normativa comunque non conforme a Costituzione, la Corte omette di dichiararne l’incostituzionalità ai sensi dell’art. 136 Cost., e si limita a rinviare con ordinanza la trattazione della causa di un certo periodo, affinché il legislatore possa intervenire medio tempore per introdurre una disciplina conseguente al portato della pronuncia.
In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.
L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XIX è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).
Sentenza |
Norme dichiarate illegittime |
Parametro costituzionale |
Oggetto |
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del 23 febbraio – 7 aprile 2023
Camera Doc VII, n. 65 Senato Doc VII, n. 22 |
art. 72-bis, comma 1, codice di procedura penale
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Previsione dell’improcedibilità nei soli casi di infermità «mentale», anziché in quelli di infermità «psicofisica»
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del 23 febbraio – 14 aprile 2023
Camera Doc VII, n. 124 Senato Doc VII, n. 23
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art. 1, comma 537, L. 30 dicembre 2021, n. 234 |
articoli 117, terzo comma, e 120 Cost. |
Mancato coinvolgimento degli enti territoriali tramite intesa in sede di Conferenza unificata in materia di “governo del territorio” |
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art. 1, comma 721, lett. a, L. 30 dicembre 2021, n. 234 |
articolo 117, quarto comma, Cost. |
Invasione della competenza regionale residuale in materia di “formazione professionale” di una disposizione statale che circoscrive l’applicazione dei tirocini curriculari a soggetti con difficoltà di inclusione sociale, escludendo la possibilità per le regioni di introdurre, in sede di accordo, ogni diversa scelta formativa |
del 9 marzo – 8 maggio 2023
Camera Doc VII, n. 136 Senato Doc VII, n. 24 |
articolo 4, co. 3 e articolo 5, co. 5, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (TU immigrazione) |
articoli 3 e 117, primo comma, Cost, quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU |
Automatismo del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno anche in caso di condanna per fatti di reato di minore entità (nel caso di specie reati di c.d. piccolo spaccio e di vendita di merci contraffatte), senza prevedere che l’autorità verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente |
del 18 aprile – 12 maggio 2023
Camera Doc VII, n. 142 Senato Doc VII, n. 25 |
articolo 69, comma 4, codice penale
illegittimità parziale
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articoli 3, primo comma, 25, secondo comma e 27, terzo comma, Cost. |
Divieto di prevalenza, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, delle circostanze attenuanti sulla aggravante della recidiva reiterata |
del 5 aprile – 18 maggio 2023
Camera Doc VII, n. 143 Senato Doc VII, n. 26 |
art. 210, comma 1, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare)
illegittimità parziale
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articolo 3, Cost. |
Previsione che non contempla, accanto ai medici militari, anche gli psicologi militari tra i soggetti a cui non sono applicabili le norme relative alle incompatibilità inerenti all'esercizio delle attività libero professionali, nonché le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio Sanitario Nazionale |
del 6 aprile – 5 giugno 2023
Camera Doc VII, n. 155 Senato Doc VII, n. 27 |
art. 64, comma 3, del codice di procedura penale art. 495, primo comma, del codice penale
illegittimità parziale
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articolo 24, Cost. |
Mancata previsione che la persona sottoposta a indagini sia avvertita della facoltà di non rispondere non solo alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma anche a quelle relative alle proprie qualità personali Mancata esclusione della punibilità in caso di false dichiarazioni, rese nell'ambito del procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere |
del 6 aprile – 6 giugno 2023
Camera Doc VII, n. 157 Senato Doc VII, n. 28 |
art. 93, commi 1-bis e 7-bis, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) |
articolo 77, secondo comma, Cost. |
Introduzione in sede di conversione di un decreto-legge di disposizioni estranee agli ambiti e alle finalità del decreto-legge |
dell’11 maggio – 15 giugno 2023
Camera Doc VII, n. 162 Senato Doc VII, n. 29
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art. 3, comma 3, L. 20 novembre 2017, n. 168
illegittimità parziale
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articoli 3 e 42, secondo comma, Cost. |
Inalienabilità delle terre di proprietà privata gravate da usi civici |
del 24 maggio – 15 giugno 2023
Camera Doc VII, n. 163 Senato Doc VII, n. 30 |
art. 629, codice penale
illegittimità parziale
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articoli 3 e 27, terzo comma, Cost. |
Mancata previsione di una attenuante nella disciplina sanzionatoria stabilita per il reato di estorsione, quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. |
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 65 del 2023, ha dichiarato illegittimo l’art. 72-bis, comma 1, c.p.p., che prevede la definizione del procedimento con sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere per irreversibile incapacità mentale dell’imputato, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico» dell’imputato.
La pronuncia di illegittimità costituzionale riguarda l’art. 72-bis, comma 1, c.p.p. e, in via consequenziale, gli articoli 70, comma 1, 71, comma 1, e 72, commi 1 e 2, c.p.p.
Il Tribunale di Lecce, con ordinanza del 2 dicembre 2021, solleva una questione di legittimità costituzionale inerente l’art. 72-bis c.p.p., in relazione al fatto che la sentenza di non luogo a procedere ivi prevista può essere pronunciata dal giudice soltanto quando l’irreversibile incapacità dell’imputato a partecipare coscientemente al processo derivi da una patologia di origine mentale e non fisica; ciò, ad avviso del giudice rimettente, costituirebbe una violazione dell’art. 3 della Costituzione per l’irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie connotate dalla medesima esigenza, ovvero far cessare un processo che, destinato a non essere mai celebrato, assorbe inutilmente risorse pubbliche e altrettanto inutilmente infligge all’imputato una «sofferenza psicologica aggiuntiva a quella derivante da una situazione di salute già compromessa».
La Corte, nell’affrontare le questioni di illegittimità costituzionale proposte, ritiene necessario dare conto dell’evoluzione normativa in tema di partecipazione al processo dell’imputato affetto da patologie irreversibili e della propria giurisprudenza in merito.
Prima ancora dell’introduzione dell’art. 72-bis c.p.p. ad opera della legge n. 103 del 2017, che ha segnato il punto di svolta in materia, prevedendo la definizione del procedimento con sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere per irreversibile incapacità mentale dell’imputato, la Corte costituzionale aveva elaborato una linea giurisprudenziale vertente intorno al principio dell’intangibilità del diritto dell’imputato all’autodifesa, nella prospettiva dell’art. 24 Cost., principio non a caso posto alla base della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 70, comma 1, del codice di procedura penale, limitatamente alle parole «sopravvenuta al fatto», le quali, riferite all’infermità mentale quale causa di sospensione del processo, esponevano l’imputato al rischio di subire una condanna in condizioni di minorata difesa, «nei casi in cui l’infermità di mente, non coincidente con la totale incapacità di intendere o di volere, risalga al tempus commissi delicti e perduri nel corso del procedimento» (sentenza n. 340 del 1992).
L’autodifesa rappresenta, per la Corte, uno strumento autonomo e ulteriore rispetto alla difesa tecnica, «soprattutto nell’ambito di quegli atti che richiedono la diretta partecipazione dell’imputato (si pensi all’interrogatorio e all’esame ed alle conseguenti facoltà esercitabili al riguardo)» (v. sentenza n. 281 del 1995) ed il suo esercizio deve quindi essere assistito da garanzie di effettività. Tale assunto è stato ampiamente sviluppato nella sentenza n. 39 del 2014, in cui viene precisato che la partecipazione cosciente al processo «non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui, ma necessariamente comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa». Pertanto, «quando non solo una malattia definibile in senso clinico come psichica, ma anche qualunque altro stato di infermità renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell’imputato, in modo tale da impedirne una effettiva partecipazione – nel senso ampio che si è detto – al processo, questo non può svolgersi».
Da ciò consegue che appare ormai superata la rigida distinzione tra malattie psichiche e fisiche ai fini del giudizio sulle effettive facoltà di partecipazione dell’imputato, non tenendo conto della diffusione delle malattie degenerative (quale quella che ha colpito l’imputato del giudizio a quo) «le quali hanno origine fisica e tuttavia possono determinare ugualmente l’impossibilità di una partecipazione attiva al processo», pur rispondendo ad una logica tradizionale.
In conclusione, la Corte afferma che il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell’imputato derivante dall’impiego dell’aggettivo «mentale» nel testo dell’art. 72-bis c.p.p., «determina un’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato, il quale non possa esercitare l’autodifesa in modo pieno a causa di un’infermità mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilità per un’infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch’essa – per riprendere la locuzione della sentenza n. 39 del 2004 – le facoltà di “coscienza, pensiero, percezione, espressione”». D’altronde il sistema prevede, ai sensi dell’art. 345, comma 2, c.p.p., la possibilità di riproporre l’azione penale qualora venisse meno lo stato di incapacità o si accertasse che lo stesso è stato erroneamente dichiarato, anche dopo la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere in ragione dello stato psicofisico dell’imputato.
La Corte per ciò dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72-bis, comma 1, c.p.p. nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico» dell’imputato e altresì l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 70, comma 1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce all’infermità «mentale», anziché a quella «psicofisica», dell’art. 71, comma 1, c.p.p., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico», e dell’art. 72, commi 1 e 2, c.p.p., rispettivamente nella parte in cui si riferisce allo stato «di mente», anziché a quello «psicofisico», e nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico».
La questione relativa all’illegittimità costituzionale dell’art. 159 c.p., proposta in via subordinata, resta assorbita dall’accoglimento della questione principale.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 70 del 2023, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 537, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), nella parte in cui non prevede che il decreto interministeriale di determinazione dell’ammontare del contributo attribuito a ciascun comune per progetti di rigenerazione urbana sia adottato previa intesa in sede di Conferenza unificata, nonché dell’art. 1, comma 721, lettera a), della medesima legge, là dove – nel demandare a un accordo tra Stato e regioni, concluso in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, la definizione di linee guida condivise in materia di tirocini extracurriculari – stabilisce che la revisione della disciplina debba avvenire «secondo criteri che ne circoscrivano l’applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale».
La Regione Veneto ha promosso plurime questioni di legittimità costituzionale di varie disposizioni dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, in riferimento a molteplici parametri. Risultano, nello specifico, oggetto della pronuncia di illegittimità in commento i commi 537 e 721, lettera a) della richiamata legge di Bilancio.
Al fine di favorire gli investimenti in progetti di rigenerazione urbana, all’articolo 1, comma 534, della legge n. 234 del 2021 si dispone che, ai comuni di cui al comma 535, sono assegnati contributi per investimenti nel limite complessivo di 300 milioni di euro per l'anno 2022. Secondo il successivo comma 537, l'ammontare del contributo attribuito a ciascun comune è determinato con decreto del Ministero dell'interno, da adottarsi entro il 30 giugno 2022, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze.
Per quanto riguarda il comma 721, esso dispone che, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della medesima legge, il Governo e le regioni concludano, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, un accordo per la definizione di linee guida condivise in materia di tirocini extracurriculari, sulla base di una serie di criteri tra i quali figura quello – previsto alla lettera a) dello stesso comma – che ne circoscrive l’applicazione a soggetti con difficoltà di inclusione sociale.
Impugnando l’articolo 1, comma 537, della legge di Bilancio per 2022 – nella parte in cui demanda la determinazione dell’ammontare del contributo per la rigenerazione urbana spettante a ciascun comune a un decreto del Ministro dell’interno, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, senza alcuna forma di coinvolgimento delle regioni –, la Regione Veneto ha sollevato una serie di censure.
Anzitutto ha lamentato l’invasione della competenza legislativa concorrente nella materia «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., alla quale, a suo avviso, la rigenerazione urbana sarebbe riconducibile.
In secondo luogo, la ricorrente ha dedotto la lesione delle competenze amministrative riconosciutele dall’art. 118, primo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., adducendo che l’eventuale chiamata in sussidiarietà sarebbe avvenuta in assenza di esigenze unitarie e non avrebbe garantito la sua stessa partecipazione.
La disposizione, infine, è stata impugnata anche per violazione del quinto comma dell’art. 119 Cost. poiché, a giudizio della ricorrente, le risorse “aggiuntive” stanziate dallo Stato sarebbero state funzionali a garantire «ordinarie competenze comunali» e non scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni.
Con riguardo all’articolo 1, comma 721, lettera a), della medesima legge, – impugnato in quanto, nel demandare a un accordo tra Stato e regioni la definizione di linee guida condivise in materia di tirocini extracurriculari, stabilisce che la revisione della disciplina debba avvenire «secondo criteri che ne circoscrivano l’applicazione in favore di soggetti con difficoltà di inclusione sociale» – la Regione Veneto ne ha lamentato il contrasto con gli artt. 3, 117, quarto comma, e 120 Cost.: oltre ad invadere la competenza legislativa regionale residuale nella materia «formazione professionale», infatti, a giudizio della ricorrente la disposizione lederebbe altresì i principi di ragionevolezza e di leale collaborazione, nella misura in cui predetermina rigidamente i criteri per la definizione delle menzionate linee guida.
Nell’affrontare le questioni relative al comma 537 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, la Corte ha anzitutto ricordato che, secondo la sua stessa giurisprudenza, gli interventi in ambito di urbanistica, di riqualificazione e rigenerazione urbana – quali quelli impugnati – vanno ricondotti alla materia di legislazione concorrente «governo del territorio» (ex multis, sentenze n. 24 del 2022, n. 202, n. 124, n. 115 del 2021, nonché n. 70 del 2020), precisando che tale competenza non può, comunque, esercitarsi in modo da vanificare l’autonomia di cui i comuni dispongono con riferimento alla pianificazione urbanistica.
Da ciò consegue che le norme dettate dallo Stato in tale ambito possono trovare legittimazione solo laddove stabiliscano princìpi fondamentali, secondo quanto previsto dall’art. 117, terzo comma, Cost., ovvero se siano dettate per effetto della «chiamata in sussidiarietà», purché in tal caso vengano garantite idonee procedure collaborative (sentenza n. 6 del 2023).
Riscontrando, in quello di specie, un tipico caso di chiamata in sussidiarietà, la Corte ha ribadito il suo orientamento costante secondo il quale, per ritenersi legittimi, gli interventi statali di “attrazione in sussidiarietà” devono esercitarsi nel rispetto della leale collaborazione e, pertanto, a fronte dell’esigenza di assicurare un esercizio unitario delle funzioni, garantire agli enti territoriali “espropriati” delle proprie prerogative costituzionali degli adeguati momenti partecipativi (ex multis, sentenze n. 6 del 2023, n. 179, n. 123 e n. 40 del 2022, n. 104 del 2021).
Siccome, nella fattispecie in esame, il coinvolgimento delle regioni non è stato garantito, la Corte ha ritenuto violate le prerogative costituzionali a quelle assegnate dall’art. 117, terzo comma, Cost., in materia «governo del territorio», oltre al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., conseguentemente dichiarando l’illegittimità costituzionale del comma 537 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, «nella parte in cui non prevede che il decreto interministeriale di riparto delle risorse sia adottato previa intesa in sede di Conferenza unificata».
Con riferimento alle questioni promosse in merito all’art. 1, comma 721, lettera a), della legge n. 234 del 2021, la Corte ha ribadito che, dopo la riforma costituzionale del 2001, la competenza legislativa esclusiva delle regioni in materia di istruzione e formazione professionale «riguarda la istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi» (sentenza n. 50 del 2005). Allo Stato spetterebbe, invece, disciplinare la formazione interna – vale a dire quella offerta in ambito aziendale dai datori di lavoro ai propri dipendenti – giacché, essendo intimamente connessa con il sinallagma contrattuale, essa attiene all’ordinamento civile.
Dal momento che – andando a circoscrivere l’applicazione dei tirocini extracurriculari a soggetti con difficoltà di inclusione sociale – la disposizione statale impugnata preclude alle regioni la possibilità di introdurre, in sede di accordo, ogni diversa scelta formativa, la Corte ha ritenuto che essa determini «un’indebita invasione» della competenza legislativa regionale residuale in materia di «formazione professionale». Conseguentemente, ne ha dichiarato l’illegittimità per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 88 del 2023, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’articolo 4, comma 3 e dell’articolo 5, comma 5, del decreto legislativo n. 286 del 1998 (recante il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero), per uno specifico riguardo.
Siffatte disposizioni del Testo unico dell’immigrazione sono state colpite dalla declaratoria di illegittimità nella parte in cui ricomprendono, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno di lavoro, una condanna (pur non definitiva) per spaccio di lieve entità o una condanna (definitiva) per vendita di merci con marchio contraffatto.
Peraltro, non si tratta di declaratoria d’illegittimità costituzionale tout court, bensì riferita a quell’automatismo ostativo – in luogo del quale la Corte ravvisa (‘additivamente’) necessario, ai fini della compatibilità costituzionale, che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del soggetto.
Solo in caso di vagliata e rilevata pericolosità sociale, dunque, il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno di lavoro conseguente alla condanna per quei reati può dirsi costituzionalmente legittimo.
È da notare come questa sentenza venga a mutare un indirizzo giurisprudenziale della medesima Corte, la quale in altra sentenza (n. 148 del 2008) dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni sopra richiamate, anche per il profilo della mancata previsione di una valutazione in concreto del grado di pericolosità sociale.
Oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è il combinato disposto dell’articolo 4, comma 3 e dell’articolo 5, comma 5, comma 5, del decreto legislativo n. 286 del 1998 (Testo unico dell’immigrazione, di seguito TUI).
L’articolo 4 del TUI ha per oggetto l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato italiano.
Il suo comma 3 prevede, tra l’altro, che non sia ammesso in Italia lo straniero il quale sia considerato una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o risulti condannato, anche con sentenza non definitiva (compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta) per i reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale (sull’arresto obbligatorio in flagranza) ovvero “per reati inerenti gli stupefacenti”, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite.
Tra i reati inerenti gli stupefacenti, rientra dunque anche lo spaccio di “lieve entità”, che è reato oggetto dell’articolo 73, comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Testo unico delle leggi in materia di sostanze stupefacenti).
Impedisce l'ingresso dello straniero in Italia – sempre ai sensi dell’articolo 4, comma 3 del TUI – anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per alcuni altri reati, tra i quali taluni relativi alla tutela del diritto d’autore previsti dalla legge n. 633 del 1941, nonché quelli di cui agli artt. 473 (contraffazione, alterazione o uso di marchio segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni) e 474 (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) c.p..
Sulla scorta del dettato della disposizione del TUI, mentre per i reati inerenti gli stupefacenti è sufficiente una condanna anche con sentenza non definitiva perché scatti l’effetto ostativo sul permesso di soggiorno, per lo smercio con contraffazione del marchio, invece, è necessaria una sentenza irrevocabile.
Il giudice a quo impugnava solo la previsione dell’articolo 4, comma 3 del TUI, quale ‘sproporzionata’ nell’effetto ostativo incidente sul permesso di soggiorno a seguito di condanna dello straniero per spaccio di lieve entità o per vendita di merci con marchio contraffatto.
Tuttavia il giudice delle leggi ha, nella sua disamina, incluso l’articolo 5, comma 5 del medesimo TUI, il quale dispone che il permesso di soggiorno o il suo rinnovo siano rifiutati e, in caso di intervenuto rilascio, sia disposta la revoca, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato.
Il Consiglio di Stato (Sezione terza) ha promosso una duplice questione di legittimità costituzionale, circa l’automatismo ostativo del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno a seguito di condanna dello straniero, in un caso per spaccio di lieve entità di sostanza stupefacente, in un altro caso per vendita di prodotti con segni contraffatti.
Il Consiglio di Stato agiva quale giudice di appello, a fronte di due distinti ricorsi avverso altrettante sentenze del Tribunale amministrativo regionale che avevano respinto in primo grado i ricorsi contro il diniego, da parte dell’autorità amministrativa competente (il questore), del rinnovo del permesso di soggiorno di lavoro, a seguito di condanna dello straniero per spaccio di lieve entità o per ricettazione e vendita di merci con marchio contraffatto.
Benché fosse duplice il caso in esame, comune e unitario era considerato dal Consiglio di Stato il filo argomentativo con cui eccepire un difetto di proporzionalità e ragionevolezza (prescritte dall’articolo 3 della Costituzione) dell’automatismo ostativo, basato su una presunzione assoluta di pericolosità sociale, con un impatto sulla vita dello straniero condannato tale da poter risultare, in assenza di maggior vaglio e bilanciamento, incompatibile con l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (la quale vale come norma interposta, per effetto dell’articolo 117, comma 1 della Costituzione, che pone tra i vincoli della potestà legislativa quelli derivanti dall’ordinamento comunitario europeo).
Secondo tale articolo 8 della CEDU, “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”, e “non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Il giudice rimettente era consapevole che questione non dissimile fosse stata decisa dalla Corte costituzionale tempo addietro, con una dichiarazione d’infondatezza[1]. Tuttavia riteneva che lo svolgimento giurisprudenziale, e della Corte di giustizia europea e del giudice delle leggi italiano, in tema di proporzionalità e ragionevolezza avesse registrato un’evoluzione, sì da legittimare la riproposizione su basi aggiornate della questione.
La Corte ha ritenuto fondata la questione di illegittimità, con riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma della Costituzione (per quest’ultimo rilevando l’articolo 8 della CEDU).
Essa ha dichiarato la illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’articolo 4, comma 3, e dell’articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui ricomprende tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro – senza che sia previsto “che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente” – le condanne (anche non definitive) per smercio di lieve entità di sostanze stupefacenti (reato di cui all’articolo 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990) e le condanne (definitive) per vendita di merci con marchio o altri segni distintivi contraffatti (reato di cui all’articolo 474, secondo comma, del codice penale).
Vale ricordare altresì come l’automatismo ostativo ai fini del permesso di soggiorno si riverberi in automatismo espulsivo, in quanto l’espulsione amministrativa è ricondotta al venir meno del permesso di soggiorno dall’articolo 13, comma 2, lettera b) del TUI.
Nel vagliare la complessiva ragionevolezza e proporzionalità delle previsioni oggetto del suo esame, la Corte ha ribadito la necessità di procedere a un “conveniente bilanciamento” tra le ragioni che giustificano l’introduzione di misure che implicano l’allontanamento dal territorio nazionale di uno straniero e le confliggenti ragioni di tutela del diritto dell’interessato, fondato sull’articolo 8 CEDU, a non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga la parte più significativa dei propri rapporti sociali, lavorativi, familiari, affettivi.
Del resto, l’articolo 8 CEDU è stato man mano interpretato dalla Corte di giustizia europea in chiave di proporzionalità, secondo criteri specifici (cfr. da ultimo la sentenza della quarta sezione, 27 settembre 2022, Otite contro Regno Unito) quali: natura e serietà del reato commesso dallo straniero; lunghezza del suo soggiorno sul territorio nazionale; tempo trascorso dalla commissione del reato (considerando anche la condotta tenuta dallo straniero in tale lasso temporale); nazionalità delle persone coinvolte; situazione familiare dello straniero che dovrebbe essere allontanato (considerando le ripercussioni sul coniuge e sui figli, se ve ne siano, anche in considerazione delle difficoltà che costoro incontrerebbero nel Paese di allontanamento dello straniero).
“I richiamati criteri, atti a orientare le decisioni dell’amministrazione, presuppongono la conoscenza e la valutazione ad ampio raggio della situazione individuale dello straniero colpito dal provvedimento restrittivo, rifuggendo dal meccanismo automatico tipico delle presunzioni assolute”, scandisce ora la Corte costituzionale.
È dunque tale presunzione assoluta di pericolosità sociale insita nell’automatismo ostativo ad essere giudicata irragionevole dalla pronunzia di incostituzionalità della Corte, per reati non necessariamente sintomatici, a suo avviso, della pericolosità di chi li abbia commessi, la quale è bensì da asseverare sulla base di una specifica valutazione di elementi ulteriori rispetto alla mera commissione del fatto.
Del resto, mantenere quell’automatismo ostativo importerebbe una non ragionevole divaricazione rispetto alla disciplina normativa di fattispecie altra ma non disgiungibile, l’emersione del lavoro irregolare, per la quale la Corte costituzionale (con sentenza n. 172 del 2012) ha già caducato l’automatismo ostativo conseguente a sentenza di condanna per uno dei reati di cui all’articolo 381 del codice di procedura penale (sull’arresto facoltativo in flagranza), scisso da una valutazione discrezionale caso per caso da parte dell’amministrazione sulla pericolosità del soggetto.
Dunque anche nel caso di condanna (anche non definitiva) per spaccio di lieve entità o di condanna (definitiva) per commercio di beni con segni contraffatti, la Corte afferma la necessità che l’amministrazione compia caso per caso un proprio apprezzamento, e non ritiene proporzionati e ragionevoli così l’automatismo di un effetto ostativo ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno di lavoro come una pericolosità fatta discendere dalla mera sussistenza di una sentenza di condanna anziché da una più penetrante valutazione, in tal modo superando le conclusioni cui era pervenuta nella ormai risalente sentenza n. 148 del 2008 (che tale automatismo ostativo aveva fatto salvo).
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 94 del 2023 (relativa al c.d. “caso Cospito”), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale come modificato dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata.
Risulta nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’articolo 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, recante modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione (c.d. legge ex Cirielli), nella parte in cui, relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, codice penale.
Giudice a quo è la Corte d’Assise d’appello di Torino che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 co. 4 c.p. – come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. legge ex Cirielli) – per violazione degli artt. 3 co. 1, 25 co. 2 e 27 co. 3 della Costituzione.
Il procedimento penale, dal quale origina la questione, costituisce uno dei tasselli della vicenda giudiziaria che vede coinvolto l’anarchico insurrezionalista, Alfredo Cospito.
Questi sta scontando in carcere, dal 14 settembre 2012, una pena a 30 anni di reclusione per effetto di condanne definitive per diversi delitti tra i quali l'associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico (ex art. 270-bis c.p.), attentato con finalità terroristiche o di eversione, con esito di lesioni personali (ex art. 280, comma 2, c.p.), istigazione a delinquere (art. 414 c.p.). Nel corso dell'esecuzione della pena, viene disposta nei suoi confronti la custodia cautelare in carcere per il delitto di strage “politica” (ex art. 285 c.p.), oggetto di un procedimento pendente davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Torino, in cui Cospito, già recidivo, è coimputato per un altro delitto non colposo (c.d. recidiva reiterata, ex art. 99, comma 4, c.p.), per avere attentato, nel giugno 2006, contro la sicurezza dello Stato collocando e facendo esplodere degli ordigni presso la scuola allievi Carabinieri di Fossano. Tale attentato non ha procurato morti ma solo limitati danni a cose. Proprio per quest’ultima circostanza - secondo la Corte piemontese - si sarebbe potuto ravvisare l'attenuante della lieve entità del fatto (ex art. 311 c.p.), che, se ritenuta prevalente o equivalente all'aggravante della recidiva reiterata a carico dell'imputato, avrebbe determinato la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione da venti a ventiquattro anni (art. 65 c.p.). L’articolo 69, comma 4, c.p., come modificato dalla c.d. legge ex Cirielli, tuttavia vieta la prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata. La preclusione della prevalenza dell'attenuante ha indotto quindi la Corte d'Assise d'Appello a sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 4, c.p. per violazione di una serie di principi costituzionali della pena.
In primo luogo, secondo il giudice rimettente la norma censurata si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza (ex art. 3 Cost.), conducendo all'irragionevole equiparazione sul piano sanzionatorio di fatti di rilievo penale profondamente diversi alla luce della citata attenuante ex art. 311 c.p.
Ancora, la disposizione censurata violerebbe il principio di offensività (ex art. 25, comma 2, Cost.), impedendo al giudice di applicare la circostanza attenuante contemplata dall'art. 311 c.p. che ha una funzione di riequilibrio della sanzione in relazione al caso concreto; funzione che sarebbe preclusa dalla perpetuità della pena prevista per il reato di strage “politica” (ex art. 285 c.p.).
In terzo luogo, la totale astrazione dalla gravità dell’offesa in concreto determinata dall’inderogabile divieto di prevalenza dell’art. 311 c.p. sull’art. 99 co. 4 c.p., sempre secondo il giudice rimettente, sarebbe manifestamente incompatibile con il principio di necessaria proporzione tra pena e condotta in concreto realizzata dal reo, facendo venire meno l’idoneità e la tendenza del regime sanzionatorio alla rieducazione del condannato ai sensi dell’art. 27 co. 3 Costituzione.
La Corte costituzionale osserva preliminarmente come le modifiche apportate dalla legge ex Cirielli abbiano comportato il divieto di far prevalere le attenuanti sulla recidiva reiterata nel giudizio di bilanciamento ai sensi del comma 4 dell’articolo 69 c.p. Si tratta di un meccanismo previsto dall'ordinamento penale per alcune circostanze aggravanti “privilegiate”, sottratte alla disciplina ordinaria del bilanciamento di circostanze e che ricorre quando il giudice ritiene – in via preliminare e discrezionale -che debba in concreto applicare l'aumento di pena per tale circostanza aggravante.
Diversamente, nel caso oggetto del giudizio a quo, secondo il giudice delle leggi, non si può configurare nessuna preliminare e discrezionale valutazione sull'aumento di pena, in quanto, dopo la sentenza di annullamento con rinvio della Corte di cassazione, non solo la qualificazione giuridica dei reati contestati (e prima di tutto quello, più grave, di cui all'art. 285 c.p.), ma anche il giudizio di penale responsabilità dell'imputato e la sua condizione di recidivo reiterato ai sensi dell'art. 99, comma 4, c.p. appaiono coperti dal giudicato. In particolare la riqualificazione del reato da parte della Cassazione – strage “politica” ex art. 285 c.p. (punita con l'ergastolo) e non già strage “comune” ex art. 422 c.p. senza uccisione di persone (punita con la reclusione non inferiore a quindici anni) – comporta, conseguentemente, il dispiegarsi dell'automatismo recato dalla disposizione censurata. Nel consegue che anche nel concorso di circostanze attenuanti il giudice non può che irrogare la pena edittale fissa dell'ergastolo.
La “fissità” e “indefettibilità” della pena perpetua, a motivo del divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, determina un effetto di “sterilizzazione” di qualsiasi diminuente dal bilanciamento delle circostanze, assumendo le sembianze di una pena “senza speranza”. La Corte quindi, alla luce di tali elementi, ritiene fondata la questione di legittimità prospettata dal giudice a quo, ritenendo incostituzionale l’art. art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui preclude l'ordinario bilanciamento delle circostanze attenuanti del reato che, se ritenute esclusive o prevalenti dal giudice, comportano la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione da venti a ventiquattro anni. Per il giudice delle leggi un simile meccanismo viola i principi costituzionali che presidiano la commisurazione della pena, ossia i principi di uguaglianza (art. 3 Cost), di offensività della condotta del reo (art. 25, comma 2, Cost.) e della proporzionalità della pena tendente alla rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, Cost.).
La Corte Costituzionale, con una pronuncia additiva, ha ritenuto illegittime le norme che non garantivano a chi è sottoposto a indagini o a chi è imputato in un processo penale di essere sempre espressamente avvertito del diritto di non rispondere alle domande relative alle proprie condizioni personali diverse da quelle inerenti alle proprie generalità.
Risultano nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’art. 64, terzo comma, c.p.p., relativo agli avvisi che devono essere formulati alla persona sottoposta a indagini o all'imputato prima che sia sottoposto ad interrogatorio, e l’art. 495 c.p., configurante il reato di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri.
Il Tribunale di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 c.p., in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.». In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell’art. 64, comma 3, c.p.p., «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale», nonché dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere».
Il giudice a quo ha sollevato tali questioni nell’ambito di un processo riguardante l’accertamento della responsabilità penale di un imputato proprio per il reato di cui all’art. 495 c.p. Difatti, l’imputato - accompagnato in Questura per l’identificazione nell’ambito di un procedimento penale - aveva dichiarato alla polizia di non avere mai subito condanne – circostanza poi risultata falsa - senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere.
Il giudice rimettente ha osservato che il codice di procedura penale, così come interpretato dalla costante giurisprudenza di legittimità, richiede che ogni persona sottoposta a indagini sia avvertita della propria facoltà di non rispondere soltanto alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma non alle domande relative alle circostanze personali elencate all’art. 21 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: e cioè, tra l’altro, se abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari, sociali, se eserciti uffici o servizi pubblici o ricopra cariche pubbliche, e ancora se abbia già riportato condanne penali.
Il giudice ha, allora, sollevato le menzionate questioni al fine di accertare se la citata disciplina, come interpretata alla luce del c.d. “diritto vivente, fosse compatibile con la dimensione costituzionale del c.d. “diritto al silenzio”, che è parte del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione.
Nell’affrontare le questioni di legittimità sollevate, la Corte, alla luce della propria giurisprudenza (ex multis, ord. n. 117/2019, ord. n. 291/2002 sent. n. 361/1998 sent. n. 236/1984), ha anzitutto ricordato che il diritto al silenzio, definito dall’art. 14, par. 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e
politici (PIUDCP), costituisce un «corollario implicito del diritto inviolabile di difesa di cui all’art. 24 Cost.». Tale diritto risulta anche garantito dall’art. 47 della CDFUE e dall’art. 6 CEDU.
In via generale, la Corte ha osservato che tale diritto trova concreta tutela nella vigente disciplina del processo penale per il tramite dell’art. 64, comma 3, c.p.p., per cui l’autorità giudiziaria deve, prima che abbia inizio l’interrogatorio, formulare una serie di avvertimenti, tra cui quello relativo alla «facoltà di non rispondere ad alcuna domanda» (previsto dalla lett. b). Inoltre, il codice di rito, pur non riconoscendo alla persona sottoposta alle indagini e all’imputato il diritto al silenzio rispetto alle domande relative alle proprie «generalità», prevede per l’autorità procedente l’obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini delle «conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false» (art. 66, c. 1, c.p.p.)
Le questioni esaminate dalla Corte non riguardano, tuttavia, le domande relative alle generalità della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato, bensì quelle ulteriori che l’autorità procedente – in forza dell’art. 21 norme att. c.p.p. – è tenuta a formulare quando procede ai sensi dell’art. 66, comma 1, c.p.p. Si tratta, in particolare, di ulteriori domande relative al soprannome o allo pseudonimo, alla eventuale disponibilità di beni patrimoniali, alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonché dell’invito, rivolto all’identificando, di dichiarare se sia sottoposto ad altri processi penali, se sussistano a suo carico condanne nello Stato o all’estero, e se eserciti o abbia esercitato uffici o servizi pubblici, servizi di pubblica necessità o cariche pubbliche.
Rispetto alle citate domande di cui all’art. 21 norme att. c.p.p., la Corte, nel verificare la portata interpretativa data alle disposizioni impugnate, ha ritenuto che la giurisprudenza di legittimità, pur confermando che non sussiste per la persona sottoposta alle indagini o imputata un obbligo di rispondervi, ritiene che, ove la persona interrogata risponda e affermi il falso, sia ravvisabile nei suoi confronti il citato delitto di cui all’art. 495 c.p. Inoltre, - osserva la Corte - questa stessa giurisprudenza nega che le domande di cui all’art. 21 norme att. c.p.p. rientrino nel perimetro di tutela del diritto costituzionale di difesa della persona sottoposta alle indagini o imputata, e pertanto non richiede che la persona medesima sia avvertita della facoltà di non rispondere a tali domande ai sensi dell’art. 64, comma 3, c.p.p.
La Corte ha quindi riscontrato che l’attuale consolidata interpretazione delle norme citate (il c.d. “diritto vivente”), appena descritta, non assicura pienamente il diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata di cui all’art. 24 Cost., letto anche alla luce degli obblighi internazionali e del diritto dell’Unione europea.
Difatti, il diritto al silenzio dovrebbe operare ogniqualvolta l’autorità giudiziaria «ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta».
La Corte ha quindi affermato che la dimensione costituzionale del diritto al silenzio consente, da un lato, che si possa imporre ad una persona sospettata di aver commesso un reato il dovere di indicare all’autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita), ma osta, dall’altro, a che possa ravvisarsi un dovere della persona medesima di fornire informazioni sulle circostanze sopra richiamate e, in tal modo, di collaborare nelle indagini e nel processo a proprio carico.
La Corte ha quindi deciso di accogliere le questioni di legittimità sollevate in via subordinata, in quanto ha ritenuto che la richiesta di dichiarare la «illegittimità costituzionale dell’art. 495 cod. pen., nella parte in cui comprende anche le false dichiarazioni rese da chi sia stato previamente avvertito della facoltà di non rispondere alle domande di cui all’art. 21 norme att. c.p.p.,», formulata in via principale, conseguirebbe un risultato, per un verso, eccedente, e, per un altro, inadeguato rispetto allo scopo di assicurare la conformità a Costituzione del vigente assetto normativo e giurisprudenziale, «intervenendo soltanto sul versante della punibilità delle false dichiarazioni, ma non su quello dell’imposizione alle autorità procedenti dell’obbligo di avvisare la persona interrogata della propria facoltà di non rispondere anche alle domande di cui all’art. 21 norme att. c.p.p.» .
Pertanto, con un intervento additivo, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 24 Cost., l'art. 64, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 norme att. c.p.p. e l'art. 495, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 norme att. c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, c.p.p., abbiano reso false dichiarazioni.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2023, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i commi 1-bis e 7-bis dell’art. 93 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), introdotti dall’art. 29-bis del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, e, consequenzialmente, i commi 1-ter, 1-quater e 7-ter del medesimo articolo.
Il Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei commi 1-bis e 7-bis dell’art. 93 del d.lgs. n. 285 del 1992, introdotti dall’art. 29-bis, comma 1, lettera a), numeri 1) e 2) del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.
Il comma 1-bis dell’art. 93 cod. strada, inserito dall’art. 29-bis, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 113 del 2018 in sede di conversione, stabilisce che «[s]alvo quanto previsto dal comma 1-ter, è vietato, a chi ha stabilito la residenza in Italia da oltre sessanta giorni, circolare con un veicolo immatricolato all’estero».
In base al comma 7-bis del medesimo articolo, anch’esso inserito dal citato art. 29-bis, comma 1, lettera a), numero 2), tale divieto è punito con una sanzione pecuniaria da euro 711 a euro 2.842, unitamente al sequestro del veicolo e alla confisca del medesimo nel caso in cui, entro sei mesi, il proprietario non provveda a immatricolare il veicolo in Italia o a condurlo all’estero tramite il foglio di via.
Per via della stretta connessione riscontrata tra le disposizioni censurate e le altre inserite nell’art. 93 cod. strada dal medesimo art. 29-bis, la Corte costituzionale si è consequenzialmente pronunciata anche sui commi 1-ter, 1-quater e 7-ter.
Il comma 1-ter, art. 93, cod. strada prevede l’unica eccezione al menzionato obbligo di immatricolazione con riferimento al veicolo «concesso in leasing o in locazione senza conducente da parte di un’impresa costituita in un altro Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo che non ha stabilito in Italia una sede secondaria o altra sede effettiva, nonché nell’ipotesi di veicolo concesso in comodato a un soggetto residente in Italia e legato da un rapporto di lavoro o di collaborazione con un’impresa costituita in un altro Stato membro dell’Unione europea o aderente allo Spazio economico europeo che non ha stabilito in Italia una sede secondaria od altra sede effettiva». Affinché, sulla base di tali presupposti, la circolazione dei veicoli con targa estera possa considerarsi lecita, «a bordo del veicolo deve essere custodito un documento, sottoscritto dall’intestatario e recante data certa, dal quale risultino il titolo e la durata della disponibilità del veicolo. In mancanza di tale documento, la disponibilità del veicolo si considera in capo al conducente».
Il comma 1-quater disciplina le modalità di rilascio del foglio di via «al fine di condurre il veicolo oltre i transiti di confine», mentre il comma 7-ter stabilisce le sanzioni per la mancata osservanza delle disposizioni di cui al comma 1-ter.
Il giudice rimettente ritiene che le disposizioni censurate, introdotte, in sede di conversione, nel Capo II del Titolo II del d.l. n. 113 del 2018, contenente «Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa», siano «del tutto estranee al fenomeno mafioso o alla materia della sicurezza pubblica», ritenuti ratio dominante del d.l..
A suo giudizio, infatti, l’inasprimento del trattamento sanzionatorio riservato a chi, residente in Italia da più di sessanta giorni, vi circoli con veicolo immatricolato all’estero perseguirebbe l’obiettivo di contrastare il fenomeno della cosiddetta esterovestizione dei veicoli, vale a dire la condotta di chi, essendo residente in Italia, utilizzi veicoli immatricolati all’estero e intestati (eventualmente anche in maniera fittizia) a terzi, «al fine di evitare il pagamento dell’imposta di bollo e degli oneri fiscali connessi all’assicurazione per la responsabilità civile, di rendere più difficile la riscossione delle sanzioni amministrative per gli illeciti commessi e, più in generale, di sfuggire ai controlli del fisco, occultando indici della propria capacità contributiva, evidentemente difforme da quella dichiarata».
Ritenendo l’obiettivo in questione estraneo a quelli perseguiti dal d.l. n. 113 del 2018, il Tribunale di Napoli ha rilevato una interruzione del «nesso di interrelazione funzionale» tra decreto-legge e legge di conversione che avrebbe, così, determinato una violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
La Corte costituzionale, nel ritenere la questione fondata, ha anzitutto chiarito che, alla luce della sua costante giurisprudenza, la legge di conversione va intesa come un atto normativo a competenza funzionalizzata e specializzata, in quanto rivolto unicamente a stabilizzare gli effetti del decreto-legge e, pertanto, emendabile solamente da «disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico» (sentenza n. 6 del 2023 e, analogamente, sentenze n. 245 del 2022, n. 210 del 2021 e n. 226 del 2019).
Per i decreti-legge a contenuto ab origine plurimo ed eterogeneo – in quanto diretti a «fronteggiare situazioni straordinarie, complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse» – la Corte ha precisato che «occorre considerare specificamente il profilo teleologico, cioè l’osservanza della ratio dominante che li ispira»; cosa che vale, in particolare, «per le disposizioni introdotte nel corpo del decreto-legge in sede di conversione, le quali devono potersi collegare al contenuto già disciplinato dal medesimo decreto, così da consentire una verifica sulla continuità delle rispettive rationes ispiratrici».
È, pertanto, attraverso la verifica della coerenza tra le disposizioni inserite in sede di conversione e quelle originariamente adottate in via di straordinaria necessità e urgenza, avendo riguardo al collegamento con «uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge, ovvero alla sua ratio dominante» (sentenza n. 245 del 2022) che, per questo genere di provvedimenti governativi, occorre misurare la continuità tra legge di conversione e decreto-legge.
A tale riguardo la Consulta ha specificato che soltanto «la palese estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto-legge o la evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione» (sentenza n. 181 del 2019, nonché, nello stesso senso, sentenze n. 247 e n. 226 del 2019).
Con riguardo al d.l. n. 113 del 2018 (intitolato «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata»), la Corte costituzionale ha rilevato l’impossibilità di individuare, all’interno del suo testo originario, una unica ratio, ritenendo, con ciò, di dover riferire l’omogeneità delle disposizioni censurate agli ambiti e alle finalità delle altre previsioni contenute nel capo e nel titolo in cui esse sono state inserite.
Tenendo conto, perciò, della finalità perseguita dalle disposizioni del Titolo II, Capo II – consistente nel rafforzare i dispositivi di sicurezza pubblica, con particolare riguardo alla criminalità di matrice terroristica e mafiosa –, la Corte ha ritenuto che le disposizioni censurate fossero «del tutto estranee all’impianto del decreto originario». A tale proposito la Consulta ha osservato che, «Avendo ricondotto il divieto di circolazione al requisito della residenza, di per sé non indicativo di alcuna connessione con finalità di sicurezza pubblica, le disposizioni censurate si rivelano […] effettivamente indirizzate a contrastare la prassi della cosiddetta esterovestizione dei veicoli, consistente […] nella sottrazione agli adempimenti di natura fiscale, tributaria e amministrativa gravanti sui proprietari di veicoli al fine di ottenere vantaggi indebiti quali l’evasione di tributi e pedaggi, la non assoggettabilità a sanzioni e la fruizione di premi assicurativi più vantaggiosi. Che sia questa, e non altra, la ratio della previsione censurata si desume anche dal regime contenuto nel richiamato art. 93, comma 1-ter, cod. strada, che subordina la liceità della circolazione di veicoli con targa estera, per i residenti da più di sessanta giorni in Italia, all’esibizione di documenti attestanti la sussistenza di un contratto di leasing, locazione o comodato con una società situata in altro Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo. Si tratta, come è evidente, di requisiti e condizioni che rinvengono la loro unica ragione giustificativa in finalità che nulla hanno a che fare con la sicurezza pubblica e, tanto meno, con la repressione della criminalità, e di quella mafiosa in particolare, rivelandosi funzionali unicamente ad attestare la veridicità dell’intestazione del veicolo a soggetti aventi sede al di fuori dei confini nazionali, così da evitare il conseguimento degli indebiti vantaggi che si ottengono ricorrendo alla prassi di intestazioni di natura fittizia».
Considerata la «palese estraneità» delle disposizioni censurate agli ambiti e alle finalità del d.l. n. 113 del 2018, la Consulta ne ha riscontrato «il carattere di norme “intruse”», sia rispetto all’oggetto della disciplina che alla ratio complessiva del provvedimento di urgenza, nonché all’esigenza di «coordinamento rispetto alle materie “occupate” dall’atto di decretazione» (sentenza n. 247 del 2019).
Per tali ragioni, essa ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost, dell’art. 93, commi 1-bis e 7-bis, cod. strada, introdotti dall’art. 29-bis del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, e consequenzialmente – per via della stretta connessione esistente tra le disposizioni, tutte inserite nell’art. 93 cod. strada dal medesimo art. 29-bis –, dei commi 1-ter, 1-quater e 7-ter dell’art. 93 cod. strada.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 119 del 2023, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 42, secondo comma, Cost. l’art. 3, comma 3, della L. 168/2017 (Norme in materia di domini collettivi), nella parte in cui prevede l’inalienabilità delle terre di proprietà di privati sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati.
Il comma 3 della L. 168/2017 (Norme in materia di domini collettivi) prevede che il regime giuridico dei beni collettivi di cui al comma 1 del medesimo articolo 1 (comprese, quindi, le terre di proprietà di privati sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati, di cui alla lettera d del comma 1) “resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusacapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale”.
Nonostante la norma censurata abbia letteralmente carattere ricognitivo, la Corte ritiene che essa, al di là della sua formulazione letterale, rivesta, per quanto concerne l’inalienabilità delle terre di proprietà di soggetti privati, carattere innovativo, essendo pacifico, prima dell’entrata in vigore della norma medesima, che non vi fossero limiti alla circolazione inter vivos e mortis causa della proprietà privata gravata da usi civici, che si trasmetteva con l’uso civico inerente al fondo e con il vincolo paesaggistico (quest’ultimo introdotto, sulle zone gravate da usi civici, dall’art. 1, primo comma, lettera h, del DL 312/1985).
La norma censurata, come interpretata dalla Corte, ha, dunque, introdotto l’inalienabilità della proprietà privata gravata da uso civico.
Il giudice a quo (tribunale in funzione di giudice dell’esecuzione immobiliare) assume la violazione degli artt. 3, 24 e 42 Cost.
Quanto all’art 3 Cost., il giudice a quo reputa violato il principio di uguaglianza, in quanto vengono disciplinate in modo uguale situazioni giuridiche differenti, assoggettando al medesimo regime di inalienabilità sia i domini collettivi costituenti il demanio civico, sia la proprietà privata gravata da uso civico, con un’irragionevole compressione del diritto del proprietario privato, atteso che la circolazione del bene non comporterebbe di per sé la cessazione dell’uso civico e sarebbe pertanto del tutto irrilevante per la comunità cui spetta il diritto di uso civico.
Quanto all’art. 24 Cost., il giudice a quo assume la violazione della garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti di cui al primo comma dell’articolo medesimo, con riferimento ai creditori del proprietario, che verrebbero privati del diritto di procedere all’esecuzione forzata sul bene gravato da uso civico senza peraltro che ciò si traduca nella tutela dei diritti della collettività titolare dell’uso civico.
Quanto all’art. 42 Cost., il giudice a quo ritiene la norma censurata lesiva del regime di proprietà privata ivi sancito, in quanto la compromissione, derivante dall’inalienabilità del bene, del diritto di proprietà non sarebbe giustificata dalla funzione sociale, dal momento che l’alienazione del bene non interferirebbe con l’esercizio degli usi civici gravanti sul bene medesimo.
La Corte ha esaminato prioritariamente le censure relative agli artt. 3 e 42, secondo comma, Cost attinenti all’irragionevole compressione del diritto di proprietà, reputandole fondate, con conseguente assorbimento delle ulteriori censure.
La Corte ha preliminarmente osservato che l’esigenza, sottesa alla disciplina degli usi civici, di tutela dell’ambiente e del paesaggio, a beneficio di interessi generali che si protendono anche verso le generazioni future, evoca una finalità idonea a plasmare la proprietà privata al fine di renderla coerente con la funzione sociale, ma ha nel contempo rilevato come la disciplina volta a conformare la proprietà privata nella sua relazione con gli interessi generali non debba essere affetta da illogicità, incoerenza, intrinseca irragionevolezza e sproporzione rispetto all’obiettivo prefissato.
Ciò premesso, la Corte rileva come nel caso di specie le ragioni di salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, attratte nella funzione sociale della proprietà, si realizzino semplicemente preservando la piena tutela degli usi civici, in quanto essi stessi assicurano la conservazione della destinazione paesistico-ambientale del territorio, e come tali istanze non siano minimamente intaccate dalla circolazione della proprietà privata gravata da usi civici, in quanto detta proprietà circola unitamente agli usi civici e al vincolo paesaggistico, con la conseguenza che chiunque acquisti il fondo non può compiere alcun atto che possa compromettere il pieno godimento promiscuo degli usi civici.
L’inalienabilità della proprietà privata gravata da usi civici non presenta dunque, ad avviso della Corte, alcuna ragionevole connessione logica con la conservazione degli stessi e, per il loro tramite, con la tutela dell’interesse paesistico-ambientale e regola un profilo della proprietà medesima che, sotto qualunque prospettiva lo si consideri, si dimostra totalmente estraneo alla tutela di interessi generali.
Ne discende, conclude la Corte, un’irragionevole conformazione e un’illegittima compressione della proprietà privata.
La norma censurata si pone, pertanto, in contrasto con gli artt. 3 e 42, secondo comma, Cost.
Nel periodo considerato i moniti e gli inviti della Corte rivolti al legislatore statale hanno riguardato:
§ la revisione dei meccanismi di perequazione nella disciplina del Fondo di solidarietà comunale in coerenza con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’articolo 119 Cost. (sentenza n. 71 del 2023);
§ la ridefinizione delle norme sul differimento e sul riconoscimento in modalità rateale dei trattamenti di fine servizio o di fine rapporto dei dipendenti pubblici (sentenza n. 130 del 2023).
Sentenza |
Oggetto del monito |
Estratto |
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del 23 febbraio – 14 aprile 2023
Camera Doc VII, n. 125
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Meccanismi di perequazione nella disciplina del Fondo di solidarietà comunale |
«all’interno del Fondo di solidarietà comunale e in aggiunta alla tradizionale perequazione ordinaria – strutturata, fin dalla sua istituzione, secondo i canoni del terzo comma dell’art. 119 Cost. e quindi senza alcun vincolo di destinazione – è stata, dunque, progressivamente introdotta, a partire dal 2021, una componente perequativa speciale, non più diretta a colmare le differenze di capacità fiscale, ma puntualmente vincolata a raggiungere determinati livelli essenziali e obiettivi di servizio. Questa nuova determinante del Fondo (…) presenta caratteri tipicamente riconducibili al quinto comma dell’art. 119 Cost.(…). In tal modo, tuttavia, si è realizzata, all’interno dell’unico FSC storicamente esistente, un’ibridazione estranea al disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria, il quale, a tutela dell’autonomia degli enti territoriali, mantiene necessariamente distinte le due forme di perequazione. Quanto detto conferma come nell’unico fondo perequativo relativo ai comuni e storicamente esistente ai sensi dell’art. 119, terzo comma, Cost., non possano innestarsi componenti perequative riconducibili al quinto comma della medesima disposizione, che devono, invece, trovare distinta, apposita e trasparente collocazione in altri fondi a ciò dedicati, con tutte le conseguenti implicazioni, anche in termini di rispetto, quando necessario, degli ambiti di competenza regionali. (…) la rimodulazione auspicata nel petitum della ricorrente non rappresenta l’unica possibilità di rispondere a tale esigenza. In conclusione, quindi, il compito di adeguare il diritto vigente alla tutela costituzionale riconosciuta all’autonomia finanziaria comunale – anche nel rispetto del principio di corrispondenza tra risorse e funzioni (ex plurimis, sentenza n. 135 del 2020) – al contempo bilanciandola con la necessità di non regredire rispetto all’“imprescindibile” (sentenza n. 220 del 2021) processo di definizione e finanziamento dei LEP (la cui esigenza è stata più volte, come detto, rimarcata da questa stessa Corte), non può che spettare al legislatore, dato il ventaglio delle soluzioni possibili. (…). Questa Corte, pertanto, non può, al momento, che arrestarsi e cedere il passo al legislatore, chiamandolo però a intervenire tempestivamente per superare, in particolare, una soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’art. 119 Cost.». |
del 19 – 23 giugno 2023
Camera Doc VII, n. 173
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Differimento e rateizzazione del versamento dei trattamenti di fine servizio spettanti ai dipendenti pubblici |
«Questa Corte deve farsi carico della considerazione che il trattamento di fine servizio costituisce un rilevante aggregato della spesa di parte corrente e, per tale ragione, incide significativamente sull’equilibrio del bilancio statale (…). Non è da escludersi, pertanto, in assoluto che, in situazioni di grave difficoltà finanziaria, il legislatore possa eccezionalmente comprimere il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio. Tuttavia, un siffatto intervento è, anzitutto, vincolato al rispetto del criterio della ragionevolezza della misura prescelta e della sua proporzionalità rispetto allo scopo perseguito. Un ulteriore limite riguarda la durata di simili misure. La legittimità costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore è, infatti, condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere “eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso” (ordinanza n. 299 del 1999). Ebbene, il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997 (…) oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità. (…) A ciò deve aggiungersi che la perdurante dilatazione dei tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio rischia di vanificare anche la funzione previdenziale propria di tali prestazioni, in quanto contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell’attività lavorativa. (…) Al vulnus costituzionale riscontrato con riferimento all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, questa Corte non può, allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore. Deve, infatti, considerarsi il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta; ciò che richiede che sia rimessa al legislatore la definizione della gradualità con cui il pur indefettibile intervento deve essere attuato. (…). La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata. La lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento della corresponsione delle prestazioni in esame esige, infatti, un intervento riformatore prioritario, che contemperi l’indifferibilità della reductio ad legitimitatem con la necessità di inscrivere la spesa da essa comportata in un organico disegno finanziario che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria». |
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 71 del 2023, ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 172, 174, 563 e 564, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (legge di bilancio per il 2022), impugnato, in riferimento agli artt. 5 e 119, primo, terzo, quarto e quinto comma, della Costituzione, in quanto le suddette disposizioni intervengono sulla disciplina del Fondo di solidarietà comunale incrementandone la dotazione, ma assoggettando le risorse statali aggiuntive a specifici vincoli di destinazione, legati alla realizzazione di specifici “obiettivi di servizio”, in maniera incoerente con la disciplina costituzionale degli strumenti di perequazione, cui dovrebbero essere destinate le risorse aggiuntive statali.
Malgrado la decisione di inammissibilità, preclusiva dell’esame nel merito, la Corte ha posto in evidenza alcune criticità dell’attuale quadro legislativo da cui dipendono le risorse statali destinate ai comuni del Fondo di solidarietà comunale, con riguardo specifico alle norme che rifinanziano il Fondo apponendo vincoli di destinazione.
La regione Liguria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 172, 174, 563 e 564, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (legge di bilancio 2022), in riferimento agli artt. 5 e 119, primo, terzo, quarto e quinto comma, Cost.
Le norme impugnate incrementano la dotazione del Fondo di solidarietà comunale con somme destinate specificamente al finanziamento delle funzioni fondamentali dei comuni in ambito sociale, finalizzate, in particolare, al potenziamento e allo sviluppo dei servizi sociali comunali svolti in forma singola o associata dai Comuni delle Regioni a statuto ordinario e dei comuni della Regione Siciliana e della Sardegna (comma 563) e al potenziamento degli asili nido (comma 172), nonché all'incremento del numero di studenti disabili, frequentanti la scuola dell'infanzia, primaria e secondaria di 1° grado, privi di autonomia, a cui viene fornito il trasporto per raggiungere la sede scolastica (comma 174).
Tali risorse, inserite nell'ambito del Fondo di solidarietà comunale dalla legge di bilancio per il 2021 ed integrate dalla legge di bilancio per il 2022, vengono ripartite tra i comuni sulla base di criteri perequativi espressamente indicati dalla norma, che fanno riferimento ai fabbisogni standard per le funzioni "Servizi sociali", "Asili nido" ed "Istruzione".
Per assicurare che le risorse aggiuntive vengano effettivamente destinate dai comuni al potenziamento dei predetti servizi, le norme prevedono la determinazione di specifici obiettivi di servizio e l'attivazione di un sistema di monitoraggio e di rendicontazione dell'utilizzo delle risorse e di verifica del raggiungimento di determinati livelli di servizi offerti.
Le risorse integrative assegnate con il vincolo di destinazione all'attivazione di nuovi servizi in campo sociale sono peraltro recuperate a valere sul Fondo di solidarietà comunale nel caso in cui, a seguito del monitoraggio, risultassero non destinate ad assicurare il livello dei servizi definiti sulla base degli obiettivi di servizio.
La questione di legittimità costituzionale delle predette disposizioni promossa dalla regione Liguria mira all’eliminazione dei vincoli di destinazione imposti alle maggiori risorse stanziate a valere sul FSC, nella convinzione che tali somme aggiuntive dovrebbero essere destinate alla perequazione verticale da parte dello Stato, da ripartire dunque tra i comuni in base alla differenza tra le capacità fiscali e i fabbisogni standard, come approvati dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard. Sarebbe questo, infatti, il criterio proprio del fondo perequativo stabilito dall’art. 119, terzo comma, Cost., come declinato dal legislatore ordinario dall’art. 1, comma 449, lettera c), della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (legge di bilancio per il 2017).
La Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Liguria riguardo alle norme che rifinanziano il fondo di solidarietà comunale apponendo vincoli di destinazione, in considerazione del «ventaglio di soluzioni» idonee a rimediare al vulnus alla Costituzione prodotto.
La Corte ha, però, ritenuto opportuno rivolgere un deciso monito al legislatore per un urgente intervento di riforma, perché «una soluzione perequativa ibrida» non è coerente con l’art. 119 Cost.
In particolare, la Corte ha sottolineato come all'interno del FSC, in aggiunta alla tradizionale perequazione ordinaria – strutturata secondo i canoni del terzo comma dell'art. 119 Cost. e, quindi, senza alcun vincolo di destinazione, in conformità alla valorizzazione dell'autonomia finanziaria disposta dal comma terzo medesimo – sia stata «progressivamente introdotta, a partire dal 2021, una componente perequativa speciale, non più diretta a colmare le differenze di capacità fiscale, ma vincolata a raggiungere determinati livelli essenziali e obiettivi di servizio», che presenta «caratteri tipicamente riconducibili al quinto comma dell'art. 119 Cost., il quale prevede la possibilità per lo Stato di effettuare «interventi speciali», diretti soltanto a determinati enti territoriali, assegnando «risorse aggiuntive» con un vincolo di destinazione, quando lo richiedano, per quanto qui interessa, «la coesione e la solidarietà sociale», la rimozione di «squilibri economici e sociali», o infine, «l'effettivo esercizio dei diritti della persona» (ex multis, sulle caratteristiche della perequazione di cui al quinto comma dell'art. 119 Cost., da ultimo, sentenza n. 123 del 2022)».
La Corte ha stigmatizzato la coesistenza nel FSC di componenti perequative riconducibili anche al quinto comma dell'art. 119 Cost., considerandola «un'ibridazione estranea al disegno costituzionale dell'autonomia finanziaria, il quale, a tutela dell'autonomia degli enti territoriali, mantiene necessariamente distinte le due forme di perequazione», e chiarendo, dunque, che «nell'unico fondo perequativo relativo ai comuni storicamente esistente ai sensi dell'art. 119, terzo comma, Cost., non possano innestarsi componenti perequative riconducibili al quinto comma della medesima disposizione, che devono, invece, trovare distinta, apposita e trasparente collocazione in altri fondi a ciò dedicati, con tutte le conseguenti implicazioni, anche in termini di rispetto, quando necessario, degli ambiti di competenza regionali».
La Corte invita quindi il legislatore a intervenire tempestivamente per superare questa «soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell'autonomia finanziaria di cui all'art. 119 Cost.».
Peraltro, si è osservato nella sentenza, «risulta palesemente contraddittorio che, a fronte di un vincolo di destinazione funzionale a garantire precisi LEP, la “sanzione” a carico dei comuni inadempienti possa poi consistere nella mera restituzione delle somme non impegnate»: questa soluzione, infatti, «non è in grado di condurre al potenziamento dell’offerta dei servizi sociali e lascia, paradossalmente, a dispetto del LEP definito, del tutto sguarnite le persone che avrebbero dovuto, grazie alle risorse vincolate, beneficiare delle relative prestazioni».
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 130 del 2023, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della norma sul differimento dei trattamenti di fine servizio o di fine rapporto dei dipendenti pubblici e della norma che prevede, a partire dal differimento medesimo, il riconoscimento secondo modalità rateali dei trattamenti in oggetto che superino un determinato importo; la dichiarazione di inammissibilità riconosce, con limitato riferimento ai trattamenti spettanti nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio, o per collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianità massima di servizio, la fondatezza delle questioni poste dall'ordinanza di rimessione, concludendo, tuttavia, che la ridefinizione delle norme – e in particolare del termine di differimento (per i trattamenti spettanti nelle fattispecie suddette) – deve essere operata dal legislatore, mediante scelte discrezionali di rimodulazione; queste ultime possono distinguere anche in base all’importo complessivo del trattamento e devono essere in ogni caso operate anche considerando i relativi effetti di finanza pubblica.
La Corte costituzionale era stata chiamata dal TAR Lazio, a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79, e dell’articolo 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78.
La prima disposizione richiamata prevede un differimento del riconoscimento dei trattamenti di fine servizio o di fine rapporto, comunque denominati, dei dipendenti pubblici; tale termine è pari a ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro ovvero a dodici mesi per i casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio nonché per i casi di collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianità massima di servizio[2]. Alla corresponsione l'ente erogante provvede entro i tre mesi successivi al suddetto termine dilatorio, decorsi i quali sono dovuti gli interessi.
La seconda disposizione oggetto dell’ordinanza di rimessione del TAR Lazio prevede che, per i dipendenti delle amministrazioni inserite nell’elenco ISTAT relativo al conto economico consolidato (elenco comprensivo delle pubbliche amministrazioni e di altri soggetti), i trattamenti di fine servizio o di fine rapporto, comunque denominati, ferma restando l’applicazione del differimento summenzionato, sono riconosciuti in unica soluzione soltanto qualora l'ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, sia complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro; la quota eventualmente eccedente tale soglia è riconosciuta, entro un limite di ulteriori 50.000 euro, con un termine di dodici mesi rispetto al termine per il riconoscimento della quota precedente, mentre l’eventuale quota residua è riconosciuta a distanza di ulteriori dodici mesi. Resta fermo che l’erogazione di ogni quota è effettuata entro i tre mesi successivi al relativo termine dilatorio, decorsi i quali sono dovuti gli interessi.
Nella suddetta ordinanza di rimessione, si ritiene che le disposizioni censurate, nel prevedere, rispettivamente, il differimento e la rateizzazione dei trattamenti in oggetto, si pongano in contrasto con la garanzia costituzionale della giusta retribuzione (di cui all’articolo 36 della Costituzione).
La sentenza n. 130 ha, come accennato, dichiarato inammissibili le questioni in oggetto; essa, pur riconoscendo, con limitato riferimento ai trattamenti di fine rapporto o di fine servizio spettanti nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio, o per collocamento a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianità massima di servizio, la fondatezza delle questioni sollevate, ha rilevato che la ridefinizione delle norme deve essere operata dal legislatore, mediante scelte discrezionali di rimodulazione; queste ultime possono distinguere anche in base all’importo complessivo del trattamento e devono essere in ogni caso operate anche considerando i relativi effetti di finanza pubblica – e, quindi, se del caso, anche in base a un criterio di gradualità nel tempo dell’applicazione della nuova normativa, a partire dai trattamenti meno elevati. Una rimodulazione per fasce di importo del trattamento – osserva sempre la Corte nella parte conclusiva delle motivazioni – è già presente nelle suddette modalità rateali, ma gli effetti di essa vanno riconsiderati dal legislatore tenendo conto del differimento generale del termine di liquidazione.
Più in particolare, nelle motivazioni, la sentenza ricorda che la giurisprudenza della medesima Corte ha già ricondotto anche i trattamenti di fine servizio o di fine rapporto (comunque denominati) dei dipendenti pubblici nella nozione di "retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale", in considerazione della finalità – propria degli istituti in oggetto – di accompagnamento del lavoratore in una fase di vita "delicata" e "più vulnerabile" (sia per motivi anagrafici sia per il venir meno della retribuzione), oltre che in considerazione della natura lavoristica di tali trattamenti, in quanto derivanti dall’attività lavorativa prestata.
La sentenza riconosce altresì (anche in tal caso, in conformità a precedenti pronunce della Corte) che il summenzionato principio costituzionale della giusta retribuzione concerne non solo l’ammontare della stessa – ivi compresi, come appena detto, i trattamenti di fine servizio o di fine rapporto –, ma anche la tempestività dell’erogazione e che, in tale quadro, devono essere valutate anche le esigenze di contenimento della spesa pubblica, sottostanti a norme restrittive in materia.
Nell’ambito di tali valutazioni, la Corte:
- da un lato, conferma l’orientamento espresso nella precedente sentenza n. 159 del 20 marzo 2019-9 maggio 2019, relativo alla legittimità costituzionale del termine di ventiquattro mesi per i trattamenti di fine servizio o di fine rapporto derivanti da cessazioni dal servizio anticipate rispetto ai limiti di età o di servizio[3], in quanto tale termine è riconducibile alla categoria di incentivi alla permanenza in servizio; questi ultimi sono giustificati sia per finalità di contenimento della spesa pubblica sia per finalità di utilizzo delle professionalità (dei dipendenti pubblici) già acquisite;
- dall’altro lato, formula di nuovo il monito già contenuto nella citata sentenza n. 159, relativo all’esigenza di una revisione del duplice meccanismo di differimento e di eventuale riconoscimento rateale dei trattamenti in oggetto derivanti da cessazioni per limiti di età o di servizio. Tale meccanismo compromette, ribadisce la nuova sentenza, il principio costituzionale della giusta retribuzione, posto a tutela della dignità umana.
Nella motivazione del monito in oggetto, la Corte rileva anche il pericolo della svalutazione monetaria, insito nel differimento del trattamento o delle quote di trattamento (in quanto gli interessi di mora – ed esclusivamente tali interessi – sono riconosciuti solo dopo che siano decorsi tre mesi dal termine previsto per il riconoscimento del trattamento o della quota di trattamento, ma non per i periodi precedenti i vari termini dilatori, né per il primo trimestre successivo a questi ultimi).
La Corte ritiene infine insufficienti le misure presenti nell’ordinamento che consentono al dipendente pubblico un finanziamento ad un tasso agevolato per fruire in via anticipata del trattamento o di una quota di esso. Tali misure – rileva la sentenza in oggetto – hanno carattere oneroso per il dipendente, in quanto prevedono il riconoscimento di un tasso di interesse – o anche di altre somme, a titolo di spese – in favore del soggetto finanziatore.
Con la sentenza n. 110 del 2023 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale una norma di legge regionale perché fortemente problematica sul piano della qualità della normazione. In particolare, la Corte sostiene che una norma radicalmente oscura, quale quella oggetto del sindacato in questione, si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione.
Le disposizioni oggetto della sentenza
Oggetto della declaratoria di incostituzionalità da parte della Corte è, tra le altre norme censurate, una disposizione in materia edilizia contenuta in una legge della Regione Molise. In particolare, la norma in questione stabiliva l’ammissibilità di “interventi” all’interno di “fasce di rispetto” contenute nelle “aree di piano”, senza precisare il significato di tali espressioni. Ancora, la disposizione utilizzava l’acronimo «V.A.» per indicare un procedimento che doveva condizionare l’ammissibilità dell’intervento, senza fornire alcuna definizione del significato dell’acronimo stesso. Infine, la disciplina censurata non si inseriva in alcuna legge preesistente e ciò rendeva impossibile ricostruirne i requisiti in via interpretativa.
I motivi del ricorso
A parere del ricorrente (Governo), la disposizione impugnata violerebbe anzitutto il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. a causa della radicale inintelligibilità della stessa, che utilizzerebbe espressioni vaghe e suscettibili delle più diverse interpretazioni; inintelligibilità che le spiegazioni offerte dalla parte resistente (Regione) alle richieste di chiarimenti non sarebbero riuscite a superare.
La decisione della Corte costituzionale
Nel ritenere fondata la questione, la Corte rileva che la disposizione impugnata abbonda di termini imprecisi o di ardua intelligibilità.
Conformandosi ad alcuni suoi precedenti in materia di sufficiente precisione delle norme penali e delle leggi che impongono limiti ai diritti fondamentali della persona, la Corte conferma che disposizioni irrimediabilmente oscure, e pertanto causa di incertezza nella loro applicazione concreta, si pongono in contrasto con il canone di ragionevolezza della legge di cui all’art. 3 Cost.
Richiamando, in particolare, la storica sentenza n. 96 del 1981 in cui affermò il principio che il legislatore penale «ha l’obbligo di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e della intellegibilità dei termini impiegati» (dichiarando di conseguenza costituzionalmente illegittimo il reato di plagio ex art. 603 c.p.), la Corte afferma che la medesima esigenza «di rispetto di standard minimi di intellegibilità del significato delle proposizioni normative e, conseguentemente, di ragionevole prevedibilità della loro applicazione» sussiste anche rispetto alle norme che regolano la generalità dei rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini, ovvero i rapporti reciproci tra questi ultimi. Anche in questi ambiti, ciascun consociato ha un’ovvia aspettativa a che la legge definisca in via preventiva e in maniera ragionevolmente affidabile i presupposti in base ai quali poter compiere le proprie libere scelte d’azione.
D’altra parte, prosegue la Corte, una norma radicalmente oscura vincola in maniera soltanto apparente i pubblici poteri, in violazione del principio di legalità e di separazione tra gli stessi poteri. Ciò determina un’applicazione diseguale della legge, in violazione del principio di parità di trattamento tra i consociati di cui all’articolo 3 della Costituzione.
Nel caso in esame, in ragione dell’indeterminatezza dei suoi presupposti applicativi, la disposizione impugnata non fornisce alcun affidabile criterio guida all’azione della pubblica amministrazione nei confronti del privato, in contrasto con il principio di legalità dell’azione amministrativa e con il principio di eguaglianza di trattamento tra i consociati.
Alla luce di queste considerazioni, cui sono pervenute anche altre giurisdizioni costituzionali affini a quella italiana (quali quella francese e tedesca, richiamate nella sentenza), la Corte conclude dichiarando l’illegittimità costituzionale della legge regionale impugnata per contrasto con l’articolo 3 della Costituzione.
Con la sentenza. n. 129 del 2023, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 che prevede l’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati, sollevate, con riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella parte in cui non prevede che il diritto all'indennizzo, istituito e regolato dalla stessa legge e alle condizioni in essa previste, spetti anche ai soggetti che abbiano subito lesioni e/o infermità, da cui siano derivati danni irreversibili all'integrità psico-fisica, per vaccinazione non obbligatoria, ma solo raccomandata, nel caso di specie antimeningococcica.
La Corte di cassazione (Sez. lavoro) aveva sollevato la predetta questione di legittimità costituzionale con riferimento all'art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992, che riconosce un indennizzo, a carico dello Stato, a quanti abbiano riportato, “a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica”, in quanto la norma censurata non prevede che la medesima tutela spetti anche ai soggetti che tali conseguenze abbiano patito “per essere stati sottoposti a vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata, antimeningococcica”.
La Corte remittente, in particolare, era stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso promosso dal Ministero della salute avverso la sentenza con la quale la Corte d'appello di Brescia aveva ritenuto che l'indennizzo disciplinato dalla richiamata L. n. 210/1002 dovesse essere corrisposto anche a beneficio di un minore sottopostosi, il 20 febbraio 2008 – e pertanto in modo retroattivo in quanto antecedente alla normativa urgente introdotta dal D.L. n. 73 del 2017 in materia di prevenzione vaccinale - alla vaccinazione antimeningococcica.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, richiamando il disposto dell'art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992, che concerne testualmente le sole vaccinazioni obbligatorie, afferma che la richiesta di indennizzo si presterebbe ad una lettura costituzionalmente orientata in quanto la giurisprudenza costituzionale ne ha ampliato l'ambito di applicazione ricomprendendovi anche talune vaccinazioni raccomandate, vigendo il principio della salvaguardia anche dell'interesse collettivo (sentenza n. 107 del 2012) ed essendo “doverosa la traslazione in capo alla collettività degli effetti dannosi che da tale scelta adesiva siano eventualmente derivati (sentenze n. 118 del 2020 e n. 268 del 2017)” a completamento del “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute, soprattutto in presenza di specifiche campagne di incentivazione alla vaccinazione condotte dalle istituzioni sanitarie che determinano un generale clima di affidamento.
Da qui la decisione della Cassazione di trasmettere gli atti alla Consulta, l’unica legittimata ad accertare se sussistano i requisiti per la declaratoria di incostituzionalità della norma in questione, in quanto con la Sentenza n. 268/2017, la stessa Corte Costituzionale ha indicato che “il giudice che riscontri un danno da vaccino raccomandato non può riconoscere al danneggiato il diritto all’indennizzo sulla base di una interpretazione adeguatrice dell’articolo 1, comma 1, della legge 210/1992, ma deve sottoporre la questione alla Consulta”.
La sentenza in epigrafe è rilevante in quanto, pur confermando la propria giurisprudenza in base alla quale «non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione, essendo l’obbligatorietà del trattamento vaccinale semplicemente uno degli strumenti, a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche, per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione» (sentenza n. 107 del 2012), la Corte non accoglie, per motivi di ordine procedurale, il riconoscimento dell’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati dalla vaccinazione raccomandata contro la meningite. Infatti, se è vero che l’estensione dell’indennizzo ai casi di vaccinazioni raccomandate mira a completare il "patto di solidarietà" tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e a rendere più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione (sentenza n. 268 del 2017), l’ordinanza della Cassazione è giudicata carente sotto il profilo della rappresentazione del vigente quadro normativo in quanto non opererebbe una valida soluzione interpretativa, per l’assenza di qualsiasi riferimento alla disposizione inserita dalla legge di conversione del decreto legge 7 giugno 2017, n. 73 (Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale) che ha espunto le vaccinazioni antimeningococciche dall’elenco delle vaccinazioni obbligatorie (art. 1, comma 1), prevedendo però, ai sensi del successivo art. 5-quater, che la normativa sugli indennizzi previsti dalla richiamata legge 25 febbraio 1992, n. 210 si applichi a tutti i soggetti che a causa delle vaccinazioni indicate all'articolo 1 del medesimo DL 73 del 2017 abbiano riportato lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente dell'integrità psico-fisica.
Pertanto, la Corte remittente non fonderebbe opportunamente l’argomentata richiesta di illegittimità sulla distinzione, operata nel DL 73 del 2017, dei differenti elenchi di profilassi (obbligatoria o – semplicemente – raccomandata) di cui all'articolo 1, omettendo del tutto di citare l’art. 5-quater che prevede indennizzi a favore dei soggetti danneggiati da complicanze irreversibili da vaccinazioni per tutte le vaccinazioni indicate al medesimo articolo 1, nel caso di effetti avversi che abbiano condotto lesioni o menomazioni a carattere permanente.
Ne consegue che, trattandosi di giudizi relativi a specifiche profilassi, la portata della richiesta non sarebbe suscettibile di estendersi, per via interpretativa, ad altri tipi di vaccinazioni non obbligatorie.
[1] Si tratta della sentenza n. 148 del 2008. “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 4, comma 3, e dell'art. 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 […] sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 97 della Costituzione, per avere previsto quale causa ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno la condanna, a seguito di patteggiamento, per reati inerenti agli stupefacenti e senza alcuna valutazione in concreto della pericolosità del condannato. Infatti, non è manifestamente irragionevole condizionare l'ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio nazionale alla circostanza della mancata commissione di reati di non scarso rilievo, come quelli puniti con la pena detentiva; né può considerarsi manifestamente irragionevole il fatto che non venga dato rilievo alla sussistenza delle condizioni per la concessione del beneficio della sospensione della pena, data la non coincidenza delle valutazioni sottese rispettivamente alla non esecuzione della pena e al giudizio di indesiderabilità dello straniero nel territorio italiano, costituendo altresì l'automatismo espulsivo un riflesso del principio di stretta legalità che permea l'intera disciplina dell'immigrazione e che costituisce, anche per gli stranieri, presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell'autorità amministrativa”.
[2] Si ricorda che i suddetti termini dilatori non si applicano nei casi di cessazione dal servizio per inabilità (derivante o meno da causa di servizio) e nei casi di cessazione per decesso del dipendente (comma 5 del citato articolo 3 del D.L. n. 79 del 1997, e successive modificazioni). In tali casi, l'amministrazione competente è tenuta a trasmettere, entro quindici giorni dalla cessazione dal servizio, la necessaria documentazione all'ente previdenziale, che deve corrispondere il trattamento di fine servizio o di fine rapporto nei tre mesi successivi alla ricezione della documentazione medesima, decorsi i quali sono dovuti gli interessi.
Si ricorda altresì che, per i dipendenti pubblici che accedono al pensionamento anticipato in base alla disciplina transitoria sulla cosiddetta quota 103, il termine per il riconoscimento del trattamento di fine servizio o di fine rapporto, comunque denominato, decorre dal momento in cui il diritto al trattamento pensionistico sarebbe maturato in base ad altri istituti (articolo 23, comma 1, del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 marzo 2019, n. 26, e successive modificazioni).
[3] Come detto, tale termine dilatorio non si applica nei casi di cessazione dal servizio per inabilità o per decesso del dipendente (cfr. supra, in nota).