Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni
Titolo: Il controllo di costituzionalità delle leggi
Serie: Rassegna costituzionale   Numero: 1/Gennaio - Marzo 2023
Data: 11/05/2023
Organi della Camera: I Affari costituzionali

 

 

 

 

Il controllo di costituzionalità delle leggi

 

______________________

 

 

RASSEGNA TRIMESTRALE

DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE

______________________

 

 

 

ANNO III NUMERO 1 - GENNAIO-MARZO 2023

 

 

 


 

 

Servizio Studi

Tel. 06 6706-2451 - studi1@senato.it - Twitter_logo_blue.png @SR_Studi

 

 

 

 

 

 

Servizio Studi

Tel. 06 6760-2233

Ha coordinato il Dipartimento Istituzioni con la collaborazione dei Dipartimenti competenti

Tel. 06 6760-9475 st_istituzioni@camera.it - Twitter_logo_blue.png @CD_istituzioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del primo trimestre dell’anno 2023. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.

Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.

 

RCost_III_1.docx

 


 

I N D I C E

 

1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore........................................................................................ 3

2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali........... 7

§  2.1 Tabella di sintesi (gennaio – marzo 2023)............................................... 7

§  2.2 La sentenza n. 2 del 2023 in materia di divieto di possesso o uso del cellulare da parte del questore...................................................................... 10

§  2.3 La sentenza n. 6 del 2023 in materia di procedimento di approvazione del documento di programmazione strategica del sistema portuale (DPSS) 13

§  2.4 La sentenza n. 35 del 2023 in materia di decorrenza dei termini per la richiesta di indennizzo del danno da vaccino............................................... 21

3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (gennaio-marzo 2023).................................................................... 25

§  3.1 La sentenza n. 25 del 2023 in materia di imposizione al personale militare di profilassi vaccinali non previamente individuate in sede legislativa...................................................................................................... 29

§  3.2. La sentenza n. 29 del 2023 in materia di attribuzione alle Province di risorse finanziarie per l'esercizio delle funzioni fondamentali..................... 34

§  3.3 La sentenza n. 47 del 2023 in materia di contraddittorio endoprocedimentale negli accertamenti fiscali............................................ 37

4. Altre pronunce di interesse........................................................ 41

§  4.1 Le sentenze nn. 14, 15 e 16 del 2023 in materia di obblighi di vaccinazione contro il COVID-19 per alcune categorie di soggetti............. 41

 


1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore

La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).

 

Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.

La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).

Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza

di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In quest’ultimo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.

La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).

Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.

La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).

Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).

 

Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).

Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.

Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.

Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.

Più di recente, la Corte ha utilizzato la tecnica decisoria dell'“incostituzionalità differita”: in questi casi, pur ritenendo una normativa comunque non conforme a Costituzione, la Corte omette di dichiararne l’incostituzionalità ai sensi dell’art. 136 Cost., e si limita a rinviare con ordinanza la trattazione della causa di un certo periodo, affinché il legislatore possa intervenire medio tempore per introdurre una disciplina conseguente al portato della pronuncia.

In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.

 

L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XIX è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).

 


2. Le pronunce di illegittimità
costituzionale di norme statali

2.1 Tabella di sintesi (gennaio – marzo 2023)

 

Sentenza

Norme dichiarate illegittime

Parametro costituzionale

Oggetto

 

 

 

 

Sentenza n. 2/2023

del 20 dicembre 2022 – 12 gennaio 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 75

Senato Doc VII, n. 14

 

art. 3, comma 4, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia)

 

 

illegittimità parziale

 

articolo 15 Cost.

Misura di prevenzione che, secondo l’interpretazione della Corte di cassazione, include i telefoni cellulari nella nozione di «apparato di comunicazione radiotrasmittente» di cui il questore può vietare – con l’avviso orale “rafforzato” – il possesso o l’utilizzo.

 

Sentenza n. 3/2023

del 23 novembre 2022 – 20 gennaio 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 76

Senato Doc VII, n. 15

 

art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen.

 

 

illegittimità parziale

 

 

articoli 3 e 27, terzo comma, Cost.

Esclusione della possibilità, per i condannati per il delitto di incendio boschivo, di sospendere l’esecuzione della pena detentiva in caso di condotta colposa

 

 

Sentenza n. 6/2023

del 10 novembre 2022 – 26 gennaio 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 78

Senato Doc VII, n. 16

 

art. 4, comma 1-septies, lett. a), D.L. 10 settembre 2021, n. 121 (conv. L. n. 156/2021)

 

 

 

illegittimità parziale

 

articoli 5 e 120 Cost.

 

 

 

 

 

 

 

Mancata previsione dell’intesa della regione, in luogo del parere, ai fini dell’approvazione del documento di programmazione strategica del sistema portuale (DPSS)

 

 

 

articolo 118 Cost.

 

Previsione che assegna al Documento di programmazione strategica di sistema (DPSS) la competenza a ricomprendere negli ambiti portuali le ulteriori aree, pubbliche e private, assoggettate alla giurisdizione dell'Autorità di sistema portuale

 

 

 

articoli 3 e 9 Cost.

Previsione che sottrae le zone ricomprese negli ambiti portuali al vincolo paesaggistico delle aree costiere, imponendo alle regioni la modifica dei piani paesistici

 

Sentenza n. 18/2023

del 10 gennaio – 10 febbraio 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 89

Senato Doc VII, n. 17

 

art. 37, primo periodo, L. 17 ottobre 2017, n. 161

 

 

illegittimità parziale

 

articoli 3 e 24, primo comma, Cost.

Introduzione, con valenza retroattiva, di un termine di decadenza per far valere i diritti del creditore nei confronti dei beni oggetto di confisca penale allargata ovvero di confisca preventiva ai sensi del Codice antimafia

 

Sentenza n. 25/2023

del 12 gennaio – 20 febbraio 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 92

Senato Doc VII, n. 18

 

art. 206-bis, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Cod. ordinamento militare)

 

 

illegittimità parziale

 

articolo 32 Cost.

Imposizione al personale militare della somministrazione di specifiche profilassi vaccinali, senza che esse siano previamente individuate in via legislativa

Sentenza n. 35/2023

del 9 febbraio – 6 marzo 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 98

Senato Doc VII, n. 19

 

art. 3, comma 1, L. 25 febbraio 1992, n. 210

 

 

illegittimità parziale

 

articoli 2 e 32 Cost.

Previsione che la decorrenza dei termini per la richiesta di indennizzo da vaccino decorra solo dalla conoscenza del danno e non anche dalla conoscenza della sua indennizzabilità

 

Sentenza n. 40/2023

del 11 gennaio – 10 marzo 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 99

Senato Doc VII, n. 20

 

art. 4, D.Lgs. 19 novembre 2004, n. 297

 

 

illegittimità parziale

 

articoli 3, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU

Previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria fissa e non graduabile tra un minimo e un massimo per le inadempienze alle prescrizioni o agli obblighi impartiti dalle competenti autorità pubbliche agli organismi di controllo delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche protette

Sentenza n. 45/2023

del 6 febbraio – 17 marzo 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 103

Senato Doc VII, n. 21

 

art. 630, terzo comma, del codice di procedura civile

 

 

illegittimità parziale

 

articolo 111, secondo comma, Cost.

Disposizione che consente il reclamo al tribunale in composizione collegiale avverso la decisione del giudice dell’esecuzione di estinzione del processo senza prevedere che del collegio non possa fare parte il giudice che ha emanato la decisione oggetto di reclamo

 

 


 

2.2 La sentenza n. 2 del 2023 in materia di divieto di possesso o uso del cellulare da parte del questore 

 

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 2 del 12 gennaio 2023, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 15 della Costituzione, l’articolo 3, comma 4 del Codice antimafia (D.lgs. n. 159 del 2011), nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo.

Le disposizioni oggetto della sentenza

Risulta nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’articolo 3, comma 4 del Codice antimafia nella parte in cui prevede che il questore, nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato” nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi, possa vietare loro di possedere o utilizzare «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», e perciò anche telefoni cellulari.

 

I motivi del ricorso

 

Il Tribunale ordinario di Sassari e la Corte di cassazione, Sezione Quinta penale - con motivazioni sostanzialmente analoghe – avevano sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del Codice antimafia, nella parte in cui prevedeva che il questore, nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato” nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi, potesse vietare loro di possedere o utilizzare qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, inclusi anche i telefoni cellulari.

Secondo i giudici rimettenti tale disposizione, attribuendo all’autorità amministrativa il potere di proibire il possesso o l’utilizzo di strumenti essenziali per comunicare, avrebbe violato la riserva di giurisdizione contemplata dall’articolo 15 della Costituzione.

 La disposizione impugnata, poi, si sarebbe posta in contrasto anche con l’articolo 3 della Costituzione, in quanto non essendo l’avviso orale “rafforzato” adottato dall’autorità giudiziaria nell’ambito di un procedimento assistito dalle garanzie del contraddittorio, idoneo a consentire una modulazione degli effetti del divieto in base alle esigenze del caso concreto, si sarebbe determinato un sacrificio sproporzionato della libertà di comunicazione rispetto alla contrapposta esigenza di prevenzione dei reati.

Ed ancora, potendo il divieto del questore riguardare anche l’accesso a internet, secondo i giudici a quo, la norma censurata avrebbe comportato l’impossibilità di disporre, senza limiti di durata, di strumenti essenziali non solo per comunicare, ma anche per ricevere informazioni, con conseguente violazione dell’articolo 21 della Costituzione, che tutela la libertà di espressione, anche nella sua “dimensione passiva”.

Da ultimo, la disposizione impugnata avrebbe violato anche l’articolo 117, comma primo, della Costituzione in relazione agli articoli 8 e 10 della CEDU. Sottolineando, sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, l’importanza della possibilità di accedere alla rete internet ai fini del rispetto dell’art. 10 CEDU, e considerando che l’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU comprende certamente anche le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica, l’avviso orale rafforzato dal divieto di possedere e utilizzare il telefono cellulare – pur perseguendo uno scopo legittimo, ovvero la prevenzione dei reati – non si sarebbe fondato – secondo i giudici rimettenti - su una sufficiente base legale, risultando la qualità della legge nazionale non idonea a soddisfare lo standard di prevedibilità ed accessibilità elaborato dalla Corte di Strasburgo, proprio a causa della mancata previsione della durata della misura.

 

La decisione della Corte costituzionale

La Corte ha ritenuto fondate le questioni sollevate in relazione all’articolo 15 della Costituzione.

Secondo la Corte, “è difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione attuale di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare”, anche considerando che “il telefono cellulare ha assunto un ruolo non paragonabile a quello degli altri strumenti evocati dai rimettenti”.

Se è vero quindi che esigenze di prevenzione e difesa sociale ben possono giustificare misure restrittive, anche incidenti su diritti fondamentali, ciò deve avvenire nel rispetto delle garanzie costituzionali, il che non avviene nel caso della disposizione impugnata, perché la misura limitativa non è disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza nemmeno la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria.

Nel richiamare la propria giurisprudenza, la Corte ha ribadito, con riferimento alla riserva di giurisdizione, il significato sostanziale dell’intervento dell’autorità giudiziaria, il quale risulta “associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa”.

Ne consegue che “la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione limitative della libertà protetta dall’articolo 15 della Costituzione è necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale”.

Pertanto, secondo la Corte, se al questore può essere attribuito il potere di proporre che a un determinato soggetto sia imposto il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare, tuttavia il rispetto dell’articolo 15 della Costituzione impone che “la decisione non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione”.

Per queste ragioni la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 3, comma 4, del Codice antimafia, “nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo”.


 

2.3 La sentenza n. 6 del 2023 in materia di procedimento di approvazione del documento di programmazione strategica del sistema portuale (DPSS)

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 6 del 2023, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 4, comma 1-septies, lett. a), del d.l. n. 121 del 2021 (Disposizioni urgenti in materia di investimenti e sicurezza delle infrastrutture, dei trasporti e della circolazione stradale, per la funzionalità del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, del Consiglio superiore dei lavori pubblici e dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali), introdotto, in sede di conversione, dalla legge n. 156 del 2021, nella parte in cui, sostituendo l'art. 5, comma 1, della legge n. 84 del 1994 (Riordino della legislazione in materia portuale):

-        non prevede che il documento di programmazione strategica di sistema (DPSS) sia accompagnato da una relazione illustrativa che descriva i criteri seguiti nel prescelto assetto del sistema e gli indirizzi per la futura pianificazione;

-        prevede che il documento di programmazione strategica di sistema (DPSS) «è approvato dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, che si esprime sentita la Conferenza nazionale di coordinamento delle Autorità di sistema portuale di cui all'articolo 11-ter della presente legge», a seguito di parere della regione territorialmente interessata da esprimere nel termine di quarantacinque giorni, anziché «è approvato, nei quarantacinque giorni successivi all'acquisizione del parere del comune, previa intesa con la regione territorialmente interessata, dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili che si esprime sentita la Conferenza nazionale di coordinamento delle Autorità di sistema portuale di cui all'articolo 11-ter della presente legge. In caso di mancanza di accordo si applicano le disposizioni di cui all'art. 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241 in quanto compatibili»;

-        della stessa disposizione è dichiarata incostituzionale la parte che consente al DPSS di ricomprendere nell’ambito portuale assoggettato alla giurisdizione dell’Autorità di sistema portuale «ulteriori aree, pubbliche e private»;

-        nella medesima disposizione è, infine, dichiarata incostituzionale la previsione che sottopone le aree ricomprese dal DPSS negli ambiti portuali al medesimo regime delle “zone territoriali omogenee B”, che non sono assoggettate al vincolo paesaggistico previsto in generale per i territori costieri compresi in una fascia di 300 metri dalla linea di battigia ai sensi dell’art. 142 del codice dei beni culturali (decreto legislativo n. 42 del 2004).

 

Le disposizioni oggetto della sentenza

Oggetto specifico della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’art. 4, comma 1-septies, lettera a), del d.l. n. 121 del 2021, come convertito dalla legge n. 156 del 2021, il quale ha modificato l'articolo 5 della legge 28 gennaio 1994, n. 84.

In particolare, la norma ha introdotto, in luogo del precedente “Piano regolatore di sistema portuale”, un nuovo “Documento di programmazione strategica di sistema” (DPSS).

Ne ha poi meglio descritto il contenuto relativo all’individuazione e alla ripartizione degli ambiti portuali – estesi sino a ricomprendere le «ulteriori aree, pubbliche e private, assoggettate alla giurisdizione dell’Autorità di sistema portuale» – ed ha eliminato il suo accompagnamento ad apposita relazione illustrativa.

Per quel che concerne l’aspetto procedimentale, ne ha previsto: l’adozione da parte del Comitato di gestione dell’Autorità di sistema portuale (AdSP); la sottoposizione, mediante conferenza di servizi asincrona, al parere dei comuni e delle regioni territorialmente interessati, da rendere entro quaranta giorni, scaduti i quali si intende espresso «parere non ostativo»; l’approvazione da parte del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili.

Con riguardo all’incidenza della disposizione censurata sulla materia della tutela paesaggistica, essa ha, da un lato, equiparato le aree ricomprese negli ambiti portuali delimitati dal DPSS (o, nelle more di sua approvazione, dal piano regolatore portuale, PRP) alle «zone territoriali omogenee B previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, ai fini dell’applicabilità della disciplina stabilita dall’articolo 142, comma 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio» e, dall’altro, ha imposto alle regioni l’adeguamento del proprio piano paesaggistico alle nuove disposizioni nel termine di quarantacinque giorni.

 

I motivi del ricorso

La Regione Toscana ha impugnato l’art. 4, commi 1-septies, lettere a), b) ed e), 1-novies del d.l. n. 121 del 2021, introdotti in sede di conversione, per violazione degli artt. 9, 77, secondo comma, 117, terzo e quarto comma, 118, primo e secondo comma, Cost. e del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, dal canto suo, ha censurato le medesime disposizioni, nonché la lettera c) del comma 1-septies e il comma 1-octies dello stesso art. 4 del d.l. n. 121 del 2021, anch’essi introdotti con la relativa legge di conversione, per contrasto con i predetti parametri nonché con l’art. 72, primo comma, e 117, secondo comma, lettera s), Cost. e con gli artt. 4, primo comma, numeri 9), 11) e 12), 5, primo comma, numero 12), 6, primo comma, numero 3), 8 e 11, primo comma, della legge Cost. n. 1 del 1963, con le relative norme di attuazione (dettate dal d.lgs. n. 111 del 2004), nonché con i princìpi di legalità, uguaglianza, ragionevolezza e buon andamento, di cui complessivamente agli artt. 3, 23 e 97 Cost.

In considerazione della identità, anche solo parziale, delle norme impugnate e delle censure proposte, i giudizi sono stati dunque riuniti, trattati congiuntamente e decisi con un’unica sentenza.

 

La decisione della Corte costituzionale

La Corte ha ritenuto parzialmente fondati i motivi del ricorso e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-septies, lettera a, del d.l. n. 121 del 2021, nei termini che si sono anticipati.

Tra le numerose questioni promosse dalle ricorrenti – che, per ragioni sistematiche ed espositive, la Corte ha disaminato suddividendole per gruppi tematici, individuati secondo il loro oggetto –, soltanto alcune di quelle riferite al documento di programmazione strategica di sistema ed altre afferenti alla tutela paesaggistica sono state ritenute fondate.

 

Anzitutto, la Consulta ha ritenuto fondata la censura, formulata sotto il profilo della violazione del principio del buon andamento, relativa all’abrogazione della norma che prevedeva la relazione illustrativa di accompagnamento al DPSS (previgente art. 5, comma 1-bis, lettera c, della legge n. 84 del 1994).

Secondo la Corte costituzionale, il principio di leale collaborazione impone, infatti, che l’AdSP accompagni il DPSS da un documento esplicativo. Diversamente, per i ristretti termini assegnati alle valutazioni e per la complessità di queste anche sul piano tecnico, regioni e comuni non sarebbero posti nella condizione di esprimersi con la dovuta consapevolezza.

Per tale ragione ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 1-septies, lettera a), del d.l. n. 121 del 2021, come convertito, nella parte in cui, sostituendo l’art. 5, comma 1, della legge n. 84 del 1994, non prevede che il DPSS sia accompagnato da una relazione illustrativa che descriva i criteri seguiti nel prescelto assetto del sistema e gli indirizzi per la futura pianificazione.

 

La Consulta ha ritenuto fondata anche la censura volta a lamentare l’assenza di un idoneo strumento collaborativo con le autonomie territoriali nel procedimento di approvazione del DPSS.

Questo riveste, infatti, i caratteri di documento di programmazione di una area vasta (in quanto attiene all’intero sistema portuale) che pone le premesse, i confini e le regole della successiva pianificazione delle singole aree portuali e che individua il reticolo di collegamento tra i porti e le infrastrutture logistiche di terra e, in quanto tale, incide su una considerevole porzione del territorio regionale. In particolare, nella funzione rimessagli di individuazione e delimitazione dell’ambito portuale e delle sue sotto aree (portuali, retroportuali, interazione porto-città e collegamenti infrastrutturali), tale documento finisce per stabilire ciò che è di competenza pianificatoria dell’AdSP (aree portuali e retroportuali) e ciò che spetta invece alla pianificazione di comuni, regioni e altri enti competenti (interazione porto-città e collegamenti infrastrutturali).

La disciplina è stata quindi ricondotta dalla sentenza alle competenze concorrenti in materia di “porti civili” e di “governo del territorio” ed è stata individuata l’intesa tra lo Stato e la regione interessata quale strumento collaborativo idoneo.

 

La Consulta, in particolare, ha rammentato che, escluso il ricorrere di puntuali previsioni che impongano l’intesa, come di norme costituzionali che impongano che la collaborazione regionale debba consistere in essa (sentenza n. 214 del 2006), i necessari strumenti di collaborazione non sono univoci, ma si diversificano «in relazione al tipo di interessi coinvolti e alla natura e all’intensità delle esigenze unitarie che devono essere soddisfatte» (sentenza n. 62 del 2005) nonché alle competenze incise.

Specificamente, nelle materie di potestà legislativa concorrente, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto adeguato il parere obbligatorio, anche non vincolante, per atti generali o regolatori di carattere “tecnico” e per provvedimenti puntuali incidenti su interessi specifici (sentenze n. 278 del 2010, n. 214 del 2006, n. 285 e n. 383 del 2005), e piuttosto, richiesto l’intesa, ora nella forma debole ora in quella forte, in relazione ad atti di programmazione o di ripartizione delle risorse o ad atti incidenti su rilevanti interessi regionali (tra le altre, sentenze n. 123 del 2022, n. 165 del 2011 e n. 285 del 2005; nella specifica materia portuale, sentenze n. 261 del 2015, n. 79 del 2011 e n. 378 del 2005).

 

La Corte ha pertanto ritenuto che, nell’esercizio di tale rilevante funzione programmatoria, non si possa prescindere da uno strumento collaborativo tra Stato e regioni, quale l’intesa, nella fase di approvazione.

Per tali ragioni, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 1-septies, lettera a), del d.l. n. 121 del 2021, come convertito, nella parte in cui, sostituendo l’art. 5, comma 1-bis, della legge n. 84 del 1994, prevede che il DPSS «è approvato dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, che si esprime sentita la Conferenza nazionale di coordinamento delle Autorità di sistema portuale di cui all’articolo 11-ter della presente legge», a seguito di parere della regione territorialmente interessata da esprimere nel termine di quarantacinque giorni, anziché «è approvato, nei quarantacinque giorni successivi all’acquisizione del parere del comune, previa intesa con la regione territorialmente interessata, dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili che si esprime sentita la Conferenza nazionale di coordinamento delle Autorità di sistema portuale di cui all’articolo 11-ter della presente legge. In caso di mancanza di accordo si applicano le disposizioni di cui all’art. 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241 in quanto compatibili».

 

Fondata è stata ritenuta, altresì, la questione con la quale la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha censurato la competenza del DPSS a ricomprendere negli ambiti portuali «le ulteriori aree pubbliche e private assoggettate alla giurisdizione dell’Autorità di sistema portuale», esterne alla sua circoscrizione (art. 4, comma 1-septies, lettera a, del d.l. n. 121 del 2021, come convertito, nella parte in cui sostituisce l’art. 5, comma 1, lettera b, seconda parte, della legge n. 84 del 1994).

La norma è stata, perciò, dichiarata costituzionalmente illegittima perché in contrasto con le necessarie condizioni di esercizio della chiamata in sussidiarietà.

In particolare, la Corte ha ritenuto che «la previsione – peraltro dai contorni oscuri ? contrasta con la necessità che la disciplina statale “in attrazione” regoli la funzione amministrativa in termini di pertinenza e stretta indispensabilità».

Il legislatore statale, infatti, non indica alcun criterio, geografico o funzionale, per l’individuazione di tali imprecisate zone, esterne tanto all’ambito portuale di ciascun porto, quanto al sistema, rimettendo così alla stessa Autorità chiamata all’esercizio delle funzioni amministrative l’individuazione del perimetro territoriale in cui esse possono essere esercitate.

Per tali ragioni, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-septies, lettera a), del d.l. n. 121 del 2021, come convertito, nella parte in cui sostituisce l’art. 5, comma 1, lettera b), della legge n. 84 del 1994, limitatamente alle parole «che comprendono, oltre alla circoscrizione territoriale dell’Autorità di sistema portuale, le ulteriori aree, pubbliche e private, assoggettate alla giurisdizione dell’Autorità di sistema portuale».

 

Le questioni aventi ad oggetto le disposizioni che incidono sulla tutela paesaggistica sono state ritenute fondate in riferimento agli artt. 3 e 9 Cost., con assorbimento delle ulteriori censure.

Come si è già ricordato, l’art. 4, comma 1-septies, lettera a), del d.l. n. 121 del 2021, come convertito, ha equiparato le aree ricomprese negli ambiti portuali delimitati dal DPSS (o, nelle more di sua approvazione, dal piano regolatore portuale, PRP) alle «zone territoriali omogenee B previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, ai fini dell’applicabilità della disciplina stabilita dall’articolo 142, comma 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio», imponendo alle regioni l’adeguamento del proprio piano paesaggistico alle nuove disposizioni nel termine di quarantacinque giorni.

 

L’art. 142, comma 1, cod. beni culturali prevede, tra gli altri, il vincolo paesaggistico (relativo) per «i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare».

Nella stessa disposizione il legislatore individua, poi, delle ipotesi, nominate e tassative, di deroga alla protezione paesaggistica ex lege, ricomprendendo tra queste le aree che, alla data del 6 settembre 1985, “erano delimitate […] negli strumenti urbanistici […] come zone territoriali omogenee […] B”».

Tale specifica esclusione dal regime di tutela è stata prevista dal legislatore del 1985, in una con l’introduzione dei relativi vincoli paesaggistici, per consentire nei centri abitati l’ultimazione delle costruzioni consentite dai piani regolatori generali in precedenza adottati (decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1985, n. 431, recante «Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale»).

 

La Corte costituzionale ha ritenuto che l’assimilazione operata dallo Stato tra tali zone urbane di completamento e le zone portuali costituisca una forzosa assimilazione di situazioni eterogenee, riscontrandovi perciò la lamentata violazione del principio di uguaglianza per ingiustificata omologazione di situazioni differenti.

 

La Consulta ha ritenuto che la disposizione censurata violi, al contempo, l’art. 9 Cost. in relazione ai parametri interposti costituiti dagli artt. 135 e 143 cod. beni culturali sulla copianificazione paesaggistica.

 

Questi, in particolare, rispettivamente, impongono l’obbligo di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con espresso riferimento, tra l’altro, alle aree tutelate direttamente dalla legge ai sensi dell’art. 142 e, nello specifico, per tali aree richiedono che il piano provveda alla loro ricognizione e identificazione, nonché alla «determinazione di prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione».

Secondo la Corte costituzionale il «sistema di pianificazione delineato dal codice di settore rappresenta […] attuazione dell’art. 9, secondo comma, Cost. ed è funzionale a una tutela organica e di ampio respiro, che non tollera interventi frammentari e incoerenti» (sentenza n. 187 del 2022; nello stesso senso, sentenze n. 24 del 2022, n. 257 e n. 124 del 2021).

In particolare, la protezione del paesaggio, in quanto valore primario e assoluto «richiede una strategia istituzionale ad ampio raggio, che si esplica in un’attività pianificatoria estesa sull’intero territorio nazionale […] affidata congiuntamente allo Stato e alle Regioni» (sentenze n. 240 e n. 130 del 2020, n. 86 del 2019 e n. 66 del 2018) e proprio «in questa prospettiva il codice dei beni culturali e del paesaggio pone, all’art. 135, un obbligo di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento [tra l’altro] alle aree tutelate direttamente dalla legge ai sensi dell’art. 142» (ancora sentenza n. 240 del 2020).

 

Secondo la Consulta, nel sottrarre le zone ricomprese negli ambiti portuali al vincolo paesaggistico delle aree costiere e nell’imporre alle regioni il conseguente obbligo di modifica dei piani paesistici, la disposizione impugnata incide in via unilaterale sull’assetto della pianificazione paesaggistica, ponendosi perciò in contrasto con il menzionato principio, per di più risolvendosi, a causa della descritta assimilazione tra zone urbane di completamento e zone portuali, in un arretramento della protezione del bene paesaggistico.

 

La Corte ha, quindi, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 1-septies, lettera a), del d.l. n. 121 del 2021, come convertito, che introduce il comma 1-septies all’art. 5 della legge n. 84 del 1994.

 

 

Merita infine richiamare, tra le questioni di costituzionalità non accolte:

-        quella relativa alla assunta violazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione, sollevata per via della presunta disomogeneità delle norme impugnate, inserite nel corso dell’iter di conversione, rispetto al testo originario del decreto-legge.
La Corte ha ricordato che, secondo il suo costante orientamento, la legge di conversione rappresenta una legge «funzionalizzata e specializzata» alla stabilizzazione dell’originario decreto-legge, con la conseguenza che non può aprirsi a oggetti eterogenei rispetto a quelli originariamente contenuti nel d.l., ma può solo contenere disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico (da ultimo, sentenze n. 245 del 2022, n. 210 del 2021 e n. 226 del 2019). Diversamente, l’iter procedimentale semplificato, previsto dai regolamenti parlamentari, «potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare» (sentenza n. 32 del 2014). La Corte ha, peraltro, precisato che la violazione dell’art. 77 Cost. si determina solo quando le disposizioni aggiunte in sede di conversione siano totalmente «estranee» o addirittura «intruse», cioè tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione (sentenza n. 251 del 2014), rimarcando che solo la palese estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto-legge (sentenza n. 22 del 2012), oppure la «evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge» (sentenza n. 154 del 2015), possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale delle norme introdotte con la legge di conversione (sentenze n. 247 e n. 226 del 2019). Nel caso in esame, la Consulta ha ritenuto che l’assunto che le norme censurate, approvate in sede di conversione, siano del tutto estranee al contenuto originario del decreto-legge che le contiene, non possa essere condiviso, rigettando pertanto la censura formulata.

-        quella relativa alla assunta violazione dell’art. 72, primo comma, della Costituzione per radicale alterazione del procedimento ordinario di approvazione della legge. Secondo la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, l’apposizione in entrambi i rami del Parlamento della questione di fiducia sull’articolo unico della legge di conversione, da un lato, avrebbe impedito l’approvazione della riforma articolo per articolo da parte di ciascuna Assemblea, per come prescritto dalla norma costituzionale, e, dall’altro, avrebbe dato luogo ad un procedimento per commissione «sostanzialmente» redigente, al di fuori dei casi consentiti dai regolamenti parlamentari, impedendo ancora una volta all’aula l’esame delle singole disposizioni. Dopo aver rammentato la propria competenza a giudicare in ordine al rispetto delle norme costituzionali sul procedimento legislativo, ma non anche in ordine al rispetto delle previsioni dei regolamenti parlamentari della Camera e del Senato, per la cui eventuale violazione operano rimedi interni alle Assemblee parlamentari, alle quali sole spetta il giudizio relativo all’interpretazione e all’applicazione delle previsioni regolamentari (così, per tutte, sentenze n. 237 del 2013, n. 78 del 1984 e n. 9 del 1959), la Corte ha ritenuto che, nella specie, non sia ravvisabile alcuna violazione dell’art. 72 Cost.
In particolare, la Consulta ha dichiarato che la discussione e la votazione delle Assemblee – che sono state precedute dall’esame in sede referente da parte delle commissioni competenti – si sono concentrate sull’articolo unico del disegno di legge di conversione del decreto-legge; il che, come la medesima Corte aveva già in passato avuto modo di rilevare, non è di per sé lesivo di quanto disposto dall’art. 72 Cost. (sentenze n. 237 del 2013 e n. 391 del 1995). Invero, la circostanza che esame e votazione si siano manifestati con tali modalità «non significa (…) che le Camere non abbiano potuto decidere con piena cognizione di tutte le modificazioni apportate» (sentenza n. 391 del 1995), essendo queste tutte allegate all’articolo unico, sicché tutte potevano «formare oggetto, se non di voto separato, di discussione nell’ambito di ciascuna Camera» (ancora sentenza n. 391 del 1995).


 

2.4 La sentenza n. 35 del 2023 in materia di decorrenza dei termini per la richiesta di indennizzo del danno da vaccino

 

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 35 del 6 marzo 2023, ha dichiarato parzialmente illegittimo, per violazione della Costituzione, artt. 2 (diritti inviolabili) e 32 (tutela della salute), l’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), nella parte in cui dispone che il termine triennale di decadenza per la richiesta di indennizzo del danno vaccinale decorra dalla conoscenza, a cura dell’avente diritto, del danno e non anche della sua indennizzabilità.

Ciò in quanto la conoscenza del danno, che segna il dies a quo del triennio per la presentazione della domanda amministrativa, presuppone che il danneggiato abbia acquisito consapevolezza dell’esteriorizzazione della menomazione permanente dell’integrità psico-fisica e della sua riferibilità causale alla vaccinazione, ma non necessariamente anche della sua rilevanza giuridica e quindi dell’azionabilità del diritto all’indennizzo.

Le disposizioni oggetto della sentenza

Con l’ordinanza del 17 gennaio 2022, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, nella parte in cui la norma non prevede un diritto all’indennizzo per danni vaccinali a seguito di decadenza triennale. La Corte di Cassazione veniva chiamata a decidere sul ricorso proposto dal Ministero della salute avverso una sentenza d’appello che confermava l’applicazione all’indennizzo vaccinale della decadenza c.d. “mobile”, che estingue il diritto indennitario limitatamente ai ratei pregressi, in base al criterio previsto per i trattamenti pensionistici dall’art. 47, comma 6, del d.P.R. n. 639 del 1970 (Attuazione delle deleghe conferite al Governo con gli articoli 27 e 29 della legge 30 aprile 1969, n. 153, concernente revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), esteso in via interpretativa all’indennizzo da vaccino, in mancanza di una norma esplicita al riguardo.

La Corte ha ritenuto che la decisione di far decadere la parte istante dal diritto all’indennizzo nella sua interezza appariva incompatibile con le garanzie costituzionali, in particolare con il fondamento costituzionale delle due erogazioni – quella pensionistica e quella indennitaria – entrambe fondate sugli obblighi di solidarietà sociale fissati dalla Costituzione, ed entrambe caratterizzate da una significativa estensione temporale periodica.

I motivi del ricorso

La disparità di trattamento sul piano dell’incidenza dell’effetto decadenziale è stata giudicata irragionevole dalla Consulta, poiché sarebbe stato frustrato lo scopo dell’indennizzo per danno vaccinale, soprattutto nel caso di specie di persona danneggiata da inoculazione ricevuta in tenera età (antimorbillica e all’epoca non obbligatoria).

Ugualmente, una decadenza tombale (e non mobile) avrebbe privato il danneggiato anche dell’assegno una tantum previsto dall’art. 2, comma 2, della legge n. 210 del 1992, percentualmente ragguagliato agli anni intercorsi tra il manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento dell’indennizzo.

La decisione della Corte costituzionale

Con la segnalata sentenza la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, nella parte in cui, al secondo periodo, dopo le parole “conoscenza del danno”, non prevede “e della sua indennizzabilità”, in riferimento ai parametri di cui agli artt. 2 e 32 Cost., con assorbimento dei parametri di cui agli artt. 3 e 38 Cost., precisando che le questioni sollevate sono strettamente correlate allo specifico profilo legato all’estensione della decadenza “mobile” con diversa decorrenza del termine triennale nel caso in cui il diritto all’indennizzo non fosse previsto dalla legge al momento della conoscenza del danno e sia poi sorto soltanto per effetto della menzionata sentenza n. 107 del 2012 che ha esteso il diritto al risarcimento anche alle vaccinazioni non obbligatorie.

La Corte non ritiene precluso l’esame per effetto della circostanza che gli effetti di detta sentenza possano essere limitati dall’estinzione della pretesa indennitaria a causa della maturazione del termine perentorio triennale fissato dall’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, in quanto la limitazione temporale per consentire la conoscenza del danno collide con la garanzia costituzionale del diritto alla prestazione e del patto di solidarietà nel ricevere un indennizzo a seguito di vaccinazione con esiti infausti.

Peraltro, in relazione ai danni da vaccinazione antipoliomielitica non obbligatoria il legislatore, a seguito della sentenza della Corte n. 27 del 1998, è intervenuto con l’art. 3, comma 3, della legge n. 362 del 1999 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria), stabilendo che l’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992 spettasse anche a coloro che si fossero sottoposti a tale vaccinazione nel periodo di vigenza della legge n. 695 del 1959, e consentendo ai soggetti danneggiati di presentare la domanda entro quattro anni dall’entrata in vigore della medesima legge n. 362 del 1999.

Nel caso in ispecie, alla compressione del diritto a ottenere l’indennizzo nella fase antecedente alla sentenza n. 107 del 2012 si unisce l’illogica pretesa che gli interessati rispettassero un termine per la proposizione di una domanda relativa a un indennizzo per il quale, al momento in cui ebbero conoscenza del danno, non avevano alcun titolo.

Pertanto, ad avviso della Corte, l’effettività del diritto alla provvidenza dei soggetti danneggiati da vaccinazioni impone di far decorrere il termine perentorio di tre anni per la presentazione della domanda, fissato dall’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, dal momento in cui l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza dell’indennizzabilità del danno. Prima di tale momento, infatti, non è possibile che il diritto venga fatto valere, ai sensi del principio desumibile dall’art. 2935 c.c.

In merito, la Consulta ha sostenuto che non rilevano, a tale effetto, i maggiori oneri organizzativi e di finanza pubblica: da un lato, la deduzione è formulata in modo assertivo e privo di qualsiasi riferimento alle situazioni interessate dalla pronuncia; dall’altro, il sistema della vaccinazione di massa si fonda – nel quadro costituzionale e nella percezione sociale – sull’effettività dell’indennizzo, quale compensazione del sacrificio individuale per un interesse collettivo. E la giurisprudenza della Corte è costante nell’affermare che è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione.


3. I moniti, gli auspici e i richiami
rivolti al legislatore statale
(gennaio-marzo 2023)

 

Nel periodo considerato i moniti e gli auspici diretti al legislatore statale hanno riguardato:

·        l’imposizione al personale militare della somministrazione di specifiche profilassi vaccinali, senza che esse siano previamente individuate in via legislativa (sentenza n. 25 del 2023);

·        la necessità che le province siano dotate di risorse finanziarie idonee a garantire, anche nell’ottica della corretta programmazione su un adeguato arco temporale, l’esercizio delle funzioni fondamentali che sono chiamate a svolgere (sentenza n. 29 del 2023);

·        la mancata generalizzazione del contraddittorio preventivo con il contribuente (sentenza n. 47 del 2023).

 

 


 

 

Sentenza

Oggetto del monito

Estratto

 

 

 

Sentenza n. 25/2023

del 12 gennaio – 20 febbraio 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 92

Senato Doc VII, n. 18

 

Imposizione al personale militare della somministrazione di specifiche profilassi vaccinali, senza che esse siano previamente individuate in via legislativa

«Non sfugge a questa Corte che al legislatore […] è permesso modulare il proprio intervento normativo tenendo conto della sussistenza di particolari esigenze di flessibilità connesse allo specifico contesto nel quale l’obbligo vaccinale è introdotto. […]la ricordata esigenza di flessibilità reclama, sia l’intervento di atti normativi subordinati che, entro la cornice dell’elenco fissato in legge, specifichino – in base a criteri a loro volta legislativamente previsti – i parametri da osservarsi per selezionare i vaccini a seconda delle diverse condizioni di impiego; sia l’intervento puntuale dell’amministrazione, che, in base a questo quadro normativo, stabilisca concretamente, di volta in volta, quale profilassi imporre al militare. Ciò nell’ambito di una discrezionalità da esercitarsi sulla base di valutazioni soggette al sindacato di attendibilità tecnico-scientifica esperibile dall’autorità giurisdizionale. […] Spetta naturalmente allo stesso legislatore, in ragione della fisiologica evoluzione del dato medico-scientifico e del variare dello stesso rischio epidemiologico che connota i molteplici contesti in cui può essere impiegato il personale militare, l’onere di aggiornare, quando necessario, il catalogo dei vaccini potenzialmente obbligatori.

Fino a quando il legislatore non avrà provveduto al compito di fornire determinatezza al trattamento sanitario imposto nei termini qui indicati, resta dunque inteso che, all’esito della presente pronuncia, il comma 1 dell’art. 206-bis cod. ordinamento militare non può fondare un obbligo vaccinale per il militare.»

Sentenza n. 29/2023

del 12 gennaio – 24 febbraio 2023

 

 

Camera Doc VII, n. 95

Senato Doc VII, n.

 

Attribuzione alle province, e alle città metropolitane, delle regioni a statuto ordinario, di un contributo per l'esercizio delle funzioni fondamentali

« […] Pur dovendosi, dunque, per tutte le suddette ragioni, dichiarare l’inammissibilità della predetta questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Lazio, non può tuttavia non rilevarsi che la fattispecie in esame pone in evidenza l’intricata e farraginosa situazione legislativa da cui dipendono le risorse statali destinate alle province, che, si ricorda, sono indicate nella Costituzione come enti costituenti la Repubblica dotati di autonomia, anche finanziaria (artt. 114 e 119 Cost.), con conseguente necessità che esse siano dotate di risorse finanziarie idonee a garantire, anche nell’ottica della corretta programmazione su un adeguato arco temporale, l’esercizio delle funzioni fondamentali che sono chiamate a svolgere (ex multis, sentenze n. 10 del 2016 e n. 188 del 2015).»

Sentenza n. 47/2023

del 7 febbraio – 21 marzo 2023

 

 

Camera Doc VII, n.

Senato Doc VII, n.

 

Contraddittorio endoprocedimentale negli accertamenti posti in essere dall’Agenzia delle entrate

«[…] questa Corte deve evidenziare che, pur a fronte della mancanza, in ambito tributario, di una previsione generale sulla formazione partecipata dell’atto impositivo, si è assistito a progressive e ripetute aperture del legislatore, che hanno reso obbligatorio, in un sempre più consistente numero di ipotesi, il contraddittorio endoprocedimentale. […] Dall’analisi che precede emerge come il legislatore abbia introdotto – seppur con diversi limiti applicativi – un meccanismo di portata generale; tuttavia, avendo fatti salvi i moduli di partecipazione del contribuente alla formazione dell’atto impositivo previsti dalla normativa vigente, si è determinato un sistema composito del contraddittorio nel procedimento tributario. […] Tuttavia, dalla pluralità dei moduli procedimentali legislativamente previsti e dal loro ambito applicativo, emerge con evidenza la varietà e la frammentarietà delle norme che disciplinano l’istituto e la difficoltà di assumere una di esse a modello generale, come suggerisce il giudice a quo. […] Di fronte alla molteplicità di strutture e di forme che il contraddittorio endoprocedimentale ha assunto e può assumere in ambito tributario, spetta al legislatore, nel rispetto dei principi costituzionali evidenziati, il compito di adeguare il diritto vigente, scegliendo tra diverse possibili opzioni che tengano conto e bilancino i differenti interessi in gioco, in particolare assegnando adeguato rilievo al contraddittorio con i contribuenti. […]

Tenuto conto della pluralità di soluzioni possibili in ordine all’individuazione dei meccanismi con cui assicurare la formazione partecipata dell’atto impositivo, che ne modulino ampiezza, tempi e forme in relazione alle specifiche peculiarità dei vari procedimenti impositivi, questa Corte ritiene necessario un tempestivo intervento normativo che colmi la lacuna evidenziata. Un intervento, peraltro, che porti a più coerenti e definite soluzioni le descritte tendenze emerse nella disciplina dei procedimenti partecipativi del contribuente.».


 

3.1 La sentenza n. 25 del 2023 in materia di imposizione al personale militare di profilassi vaccinali non previamente individuate in sede legislativa

 

 

La Corte costituzionale, con la sentenza in epigrafe, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 206-bis[1], comma 1, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui autorizza la sanità militare a imporre al personale militare la somministrazione di specifiche profilassi vaccinali, senza che esse siano previamente individuate in via legislativa. Le questioni di legittimità esaminate con la pronuncia in commento erano state sollevate, in riferimento all’art. 32 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Napoli, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un tenente colonnello dell’Aeronautica militare, imputato del reato di disobbedienza continuata aggravata[2] per essersi sottratto all’ordine di sottoporsi a una profilassi vaccinale (necessaria per la partecipazione a una operazione fuori dai confini nazionali).

 

La questione

La disposizione censurata dal rimettente, al comma 1, stabilisce che la Sanità militare può dichiarare indispensabile la somministrazione, secondo appositi protocolli, di specifiche profilassi vaccinali al personale militare per poterlo impiegare in particolari e individuate condizioni operative o di servizio, al fine di garantire la salute dei singoli e della collettività. Il successivo comma 2 stabilisce le modalità di adozione e i contenuti necessari di tali protocolli, che devono essere approvati con decreto del Ministro della difesa di concerto con il Ministro della salute e recare altresì l’indicazione analitica degli adempimenti riferiti alle modalità di somministrazione dei vaccini. Il comma 3, infine, precisa che, laddove il militare da sottoporre a profilassi vaccinale rappresenti documentati motivi sanitari per non sottoporsi alla profilassi stessa, la valutazione di merito è rimessa alla commissione medica ospedaliera competente per territorio.

 

Il giudice a quo ha sostenuto, nell’ordinanza di rimessione, che la suddetta disposizione prevede, a carico del militare, un vero e proprio obbligo di sottoporsi a vaccinazione, e presta pertanto il fianco a tre distinte censure, aventi quale comune denominatore la violazione della riserva di legge prevista dall’art. 32 Cost..

Con la prima, è lamentata la duplice circostanza che le profilassi vaccinali siano, da un lato, dichiarate indispensabili da apparati amministrativi del Ministero della difesa, allo scopo, dall’altro, di impiegare il militare in «particolari e individuate condizioni operative o di servizio». Con tale locuzione, l’art. 206-bis cod. ordinamento militare renderebbe evidente come «l’interesse preponderante» perseguito dal legislatore sia quello alla «pronta, sollecita ed efficace organizzazione del servizio militare» e non, come invece dovrebbe essere, unicamente la tutela della salute dei singoli e della collettività, pure evocata dalla disposizione censurata. Infatti, per quanto l’efficienza dello strumento militare rilevi ai sensi dell’art. 52 Cost., tale esigenza non potrebbe prevalere sul «fondamentale diritto individuale alla salute, comprensivo della scelta di non sottoporsi ad un determinato trattamento sanitario».

Con la seconda censura, si evidenzia come, al fine di contenere la discrezionalità amministrativa e soddisfare la riserva di legge imposta in materia, non sarebbe sufficiente prevedere che la sanità militare possa obbligare a “specifiche” profilassi indispensabili per “particolari e individuate” condizioni operative e di servizio. Limitandosi a questo, l’art. 206-bis cod. ordinamento militare avrebbe delegato all’amministrazione sanitaria militare la scelta in punto di individuazione delle singole tipologie di trattamenti sanitari obbligatori. A prescindere dalla natura assoluta o relativa da riconoscersi alla riserva di legge in esame, la circostanza che l’art. 32, secondo comma, Cost. stabilisca che non si possa, se non per disposizione di legge, essere sottoposti a un “determinato” trattamento sanitario comporterebbe, invece, che debba essere la fonte legislativa ad individuare “ogni singola tipologia di detti trattamenti”, mentre le fonti sub-legislative sarebbero abilitate ad intervenire solo con disposizioni di dettaglio tecnico-operativo.

La terza censura, infine, sottolinea la lesione del carattere rinforzato della riserva di legge de qua. Confliggerebbe, infatti, con il “rispetto della persona umana” prescritto dall’art. 32 Cost. la circostanza che l’art. 206-bis cod. ordinamento militare consenta all’amministrazione militare di imporre la somministrazione anche di vaccini non ancora approvati in via definitiva da AIFA ed EMA, perché in fase sperimentale o perché provvisti di sola autorizzazione all’immissione in commercio condizionata.

Il rimettente ha argomentato, in punto di rilevanza della questione sollevata, che, nell’ipotesi di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, verrebbe a mancare il presupposto normativo per l’emissione dell’ordine di sottoposizione alla profilassi vaccinale, con conseguenti ricadute sulla sussistenza dell’elemento materiale e soggettivo del reato di disobbedienza contestato e dunque sul procedimento penale in corso.

Ha sottolineato, inoltre, l’impraticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione oggetto di censure: il testo dell’art. 206-bis cod. ordinamento militare non autorizzerebbe a ritenere che il militare possa sottrarsi alla vaccinazione senza incorrere in sanzioni disciplinari o penali, né sarebbe possibile leggere la disposizione nel senso che dal suo rifiuto discenda unicamente l’impossibilità, per l’amministrazione militare, di impiegarlo nella specifica condizione operativa o di servizio cui era destinato.

 

La decisione della Corte

La Corte ha ritenuto condivisibile il presupposto interpretativo da cui muove l’ordinanza di rimessione, e cioè che la disposizione censurata prevede, a carico del militare, un vero e proprio obbligo di sottoporsi a vaccinazione. A tale conclusione è giunta sia attraverso un’analisi testuale sia valorizzando le risultanze dei lavori preparatori della norma censurata[3].

Ciò posto, si è soffermata sulla doglianza considerata logicamente prioritaria, e dunque potenzialmente assorbente: quella secondo cui la riserva di legge posta dall’art. 32 Cost. non sarebbe soddisfatta nell’ipotesi in cui il legislatore deleghi a fonti secondarie o ad atti amministrativi l’individuazione delle singole tipologie di trattamenti sanitari obbligatori.

In proposito, ha ribadito, anzitutto, in linea con la propria “costante giurisprudenza”, che la legge impositiva di un trattamento sanitario risulta compatibile con l’art. 32 Cost. solo se, in primo luogo, tale trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; in secondo luogo, se vi sia la previsione che esso non incida negativamente sul suo stato di salute, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili[4]; infine, se in caso di danno ulteriore, nell’ipotesi di malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica, sia garantita un’equa indennità in favore del danneggiato.

Quindi, ha rilevato che quella posta dall’art. 32 Cost. è bensì una riserva di legge relativa[5], ma “rinforzata per contenuto”, stante il necessario “rispetto della persona umana”. Inoltre, ha rimarcato che, nella materia dei trattamenti sanitari obbligatori, l’esigenza che risultino circoscritti contenuti e modi dell’intervento normativo sub-legislativo e dell’azione amministrativa è presidiata dalla Costituzione con particolare intensità, in quanto l’art. 32, secondo comma, Cost. stabilisce testualmente che a poter essere imposto per disposizione legislativa è “un determinato” trattamento sanitario. Ne consegue, ad avviso della Corte, che la previsione di un obbligo di profilassi vaccinale che non specifichi per quale scopo (ovvero per prevenire l’infezione da quale malattia) la somministrazione è pretesa non può che rendere “indeterminato” il trattamento sanitario imposto, e dunque vanificare quel carattere di precisione che la stessa Assemblea costituente[6] ha inteso imprimere nella riserva di legge ex art. 32 Cost.. Infatti - rileva ancora la Corte -, è anzitutto attraverso l’indicazione dello specifico vaccino che si realizza, ad opera del legislatore, il bilanciamento, presupposto dall’art. 32, secondo comma, Cost., tra libera determinazione individuale e tutela della salute collettiva: decidere da quale specifica patologia si intenda difendere la collettività ricorrendo a questo trattamento è il primo, indispensabile passaggio nell’ambito del percorso che il legislatore compie, assumendosene la responsabilità, verso l’obbligo vaccinale, e garantisce altresì la necessaria conoscibilità del trattamento imposto. Correlativamente, questa stessa indicazione è essenziale per consentire, nella sede del giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi, il sindacato di non irragionevolezza della scelta legislativa[7].

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte è pervenuta alla conclusione che l’art. 206-bis, comma 1, cod. ordinamento militare non adempie alla necessità che sia “determinato”, come richiede l’art. 32, secondo comma, Cost., il trattamento sanitario da imporre, poiché non predetermina i vaccini che possono essere imposti al militare, ovverosia le patologie che si intende contrastare.

La Corte ha peraltro dato atto che al legislatore è permesso modulare il proprio intervento normativo tenendo conto della sussistenza di particolari esigenze di flessibilità connesse allo specifico contesto nel quale l’obbligo vaccinale è introdotto, ed ha rilevato che questo aspetto è particolarmente evidente nel caso della profilassi destinata al personale militare; ma ha comunque ritenuto che la disposizione censurata si sia sottratta al compito “essenziale” di fornire determinatezza all’obbligo vaccinale che intende introdurre, omettendo di individuare, quantomeno, l’elenco dei vaccini che possono essere resi obbligatori alla luce delle diverse condizioni di impiego del personale militare.

Nel dichiarare per il motivo anzidetto la parziale illegittimità costituzionale della disposizione censurata[8], la Corte ha osservato che spetta al legislatore, in ragione della fisiologica evoluzione del dato medico-scientifico e del variare dello stesso rischio epidemiologico che connota i molteplici contesti in cui può essere impiegato il personale militare, l’onere di aggiornare, quando necessario, il catalogo dei vaccini potenzialmente obbligatori. Ha altresì precisato che, per effetto della declaratoria di parziale illegittimità pronunciata, fino a quando il legislatore non avrà provveduto a fornire determinatezza al trattamento sanitario imposto nei termini indicati, il comma 1 dell’art. 206-bis cod. ordinamento militare non potrà fondare un obbligo vaccinale per il militare.


 

3.2. La sentenza n. 29 del 2023 in materia di attribuzione alle Province di risorse finanziarie per l'esercizio delle funzioni fondamentali

 

La Corte costituzionale, con la sentenza in epigrafe, ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 838, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018), impugnato, in riferimento agli artt. 3, 97 e 119, commi 1, 3 e 4, Cost., in quanto assume la spesa per il personale come criterio suppletivo per il riparto dei trasferimenti statali in favore delle province, qualora non sia raggiunta l’intesa in sede di Conferenza Stato-città e autonomie locali.

L’esame nel merito della questione – la quale chiama in causa il più ampio tema del rapporto tra funzioni attribuite alle province e risorse a queste assegnate – è stato precluso dalla riscontrata genericità, ad avviso della Corte, dell’ordinanza di rimessione, nonché dalla formulazione non chiara e contraddittoria del petitum e dalla insufficiente ricostruzione del quadro normativo.

Malgrado la decisione di inammissibilità, preclusiva dell’esame nel merito, la Corte ha posto in evidenza alcune criticità dell’attuale quadro legislativo da cui dipendono le risorse statali destinate alle Province, pur indicate dalla Costituzione come enti costitutivi della Repubblica dotati di autonomia, anche finanziaria. I giudici costituzionali, formulando un monito al legislatore, hanno pertanto evidenziato la necessità che le Province siano dotate di risorse finanziarie idonee a garantire, anche nell’ottica della corretta programmazione su un adeguato arco temporale, l’esercizio delle funzioni fondamentali che sono chiamate a svolgere.

 

La questione

Il TAR Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 838, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018), impugnato, in riferimento agli artt. 3, 97 e 119, commi 1, 3 e 4, Cost.

La norma impugnata stabilisce che alle province e città metropolitane delle regioni a statuto ordinario è attribuito, per l’esercizio delle funzioni fondamentali individuate dall’art. 1 della legge n. 56 del 2014 (cd. legge Delrio), un contributo complessivo di 428 milioni di euro per il 2018, di cui 317 milioni in favore delle province e 111 milioni in favore delle città metropolitane, nonché un ulteriore contributo per le province di 110 milioni per ciascuno degli anni 2019 e 2020 e 180 milioni a decorrere dal 2021.

La norma stabilisce, inoltre, che tali risorse sono ripartite con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con il MEF, secondo criteri e importi la cui definizione è demandata ad una proposta di ANCI e UPI e alla successiva intesa da conseguire, entro il 31 gennaio 2018, in sede di Conferenza Stato-città e autonomie locali.

In caso di mancato raggiungimento dell’intesa o di mancata presentazione di una proposta, la disposizione censurata stabilisce che il decreto sia comunque adottato, entro il 10 febbraio 2018, ripartendo il contributo in proporzione, per ciascuno degli enti interessati, alla differenza, ove positiva, tra l’ammontare della riduzione della spesa corrente indicato nella tabella 1 allegata al decreto-legge n. 50 del 2017 – al netto della riduzione della spesa di personale stabilita dall’art. 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014 – e l’ammontare dei contributi di cui all’articolo 20 del medesimo decreto-legge n. 50 del 2017 e del contributo annuale di cui alla tabella 3 di quest’ultimo, nonché alle tabelle F e G allegate al DPCM 10 marzo 2017.

La norma prevede, infine, che per gli anni 2019 e successivi, ai fini della determinazione della suddetta differenza, si tiene conto dell’importo, non più dovuto dalle province, del versamento previsto, sino al 2018, dall’articolo 47 del decreto-legge n. 66 del 2014, negli importi indicati nella tabella 2 allegata al decreto-legge n. 50 del 2017 (si tratta del contributo degli enti locali alla finanza pubblica).

Nel giudizio a quo, la Provincia di Vercelli ha proposto ricorso contro il Ministero dell’interno e il Ministero dell’economia e delle finanze, nonché nei confronti della Provincia di Prato, per l’annullamento del d.m. 19 febbraio 2018, adottato in attuazione della norma impugnata, recante il riparto in favore di province e regioni a statuto ordinario dei contributi pari a 317 milioni di euro per l’anno 2018 e di 110 milioni per ciascuno degli anni 2019 e 2020, per l’esercizio delle funzioni fondamentali di cui all’art. 1 della legge n. 56 del 2014.

Il d.m., in particolare, ha riconosciuto alla Provincia di Vercelli un contributo statale di 1.200.000 euro. Tuttavia, in sede di Conferenza Stato-città e autonomie locali non si è raggiunta l’intesa per gli anni 2019 e 2020, cosicché il Ministero dell’interno ha applicato, per il riparto del contributo previsto per questi due anni, il criterio residuale indicato nella disposizione censurata.

La Provincia di Vercelli, non vedendosi riconosciuto alcun contributo per il 2019 e 2020, ha impugnato il d.m. davanti al TAR Lazio, ritenendo, tuttavia, che la lesione della propria autonomia finanziaria e organizzativa fosse riferibile direttamente al comma 838 della legge di bilancio 2018, di cui il d.m. costituirebbe automatica applicazione.

 

La decisione della Corte

La questione sollevata dal TAR Lazio attiene al rapporto tra funzioni attribuite alle province e risorse assegnate al fine di garantire il loro effettivo esercizio. La Corte, nella pronuncia, ha avuto modo di ribadire quanto già affermato in precedenti sentenze riguardo la stretta connessione tra quantificazione delle risorse funzionale e proporzionata agli obiettivi previsti dalla legislazione vigente, da un lato, e garanzia di effettività del principio costituzionale del buon andamento dell’amministrazione (sentenze nn. 10 del 2016 e 188 del 2015).

La Corte, dopo aver dichiarato la questione inammissibile per plurime ragioni, nell’ultimo paragrafo del “Considerato in diritto” (n. 7), rileva che la fattispecie in esame evidenzia il quadro legislativo intricato e farraginoso da cui dipendono le risorse statali destinate alle province, pur indicate nella Costituzione come enti costitutivi della Repubblica dotati di autonomia anche finanziaria. Conseguentemente, rileva la Corte, è necessario che queste siano dotate di risorse finanziarie idonee a garantire, anche ai fini di una corretta programmazione su un adeguato arco temporale, l’esercizio delle funzioni fondamentali ad esse attribuite. Sotto questo profilo, è stato rilevato come, al contrario, una situazione di incertezza giuridica sull’entità definitiva delle risorse disponibili – conseguenza, a sua volta, del quadro normativo intricato evocato dalla Corte – non consenta una proficua utilizzazione delle risorse stesse.

3.3 La sentenza n. 47 del 2023 in materia di contraddittorio endoprocedimentale negli accertamenti fiscali

 

 

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 47 del 2023 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 (statuto dei diritti del contribuente), impugnato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non estende il diritto al contraddittorio endoprocedimentale a tutte le modalità di accertamento in rettifica poste in essere dall’Agenzia delle Entrate, se effettuate tramite verifiche “a tavolino”.

La Corte, da un lato ha riconosciuto che “la mancata generalizzazione del contraddittorio preventivo con il contribuente, fin qui limitato a specifiche e ben tipizzate fattispecie, risulta ormai distonica rispetto all’evoluzione del sistema tributario, avvenuta sia a livello normativo che giurisprudenziale” ma dall’altro ha ritenuto che tale principio, che presenta diverse possibili declinazioni, richieda “un tempestivo intervento normativo che colmi la lacuna evidenziata”.

 

La questione

La Corte, nel caso di specie, si è trovata a valutare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 7, dello Statuto del contribuente nella parte in cui non estende il diritto al contraddittorio endoprocedimentale a tutte le modalità di accertamento in rettifica poste in essere dall’Agenzia delle Entrate, se effettuate tramite verifiche “a tavolino”.

La disciplina del comma 7 dell’articolo 12 introduce una specifica procedura di contraddittorio con il contribuente nei confronti del quale siano effettuati accertamenti fiscali preceduti da accessi, ispezioni e verifiche nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali dello stesso. In tal caso la norma impone all’amministrazione finanziaria la compilazione del processo verbale di chiusura delle operazioni di indagine da parte degli organi di controllo, il suo rilascio al contribuente, il decorso di un termine dilatorio di sessanta giorni prima dell’adozione dell’avviso di accertamento, durante il quale questi può presentare osservazioni, e, in caso di mancato accoglimento delle stesse, un obbligo di motivazione rafforzato.

Tale procedura non è invece prevista nel caso nel quale non vi sia stato un accesso nei locali di pertinenza del contribuente.

Il giudice rimettente ha ritenuto non manifestamente infondato che tale differenza di trattamento potesse violare il principio di ragionevolezza previsto dall’articolo 3 della Costituzione.

 

La decisione della Corte

La Corte ha preliminarmente effettuato un’ampia ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali consolidati e delle progressive aperture legislative verso un pieno contraddittorio fiscale nei confronti del contribuente.

In particolare ha ricordato che la giurisprudenza della Corte di cassazione, come consolidatasi a seguito della sentenza a sezioni unite civili n. 24823 del 2015, ha interpretato «il diritto nazionale, allo stato della legislazione, nel senso che non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto confermando che l’articolo 12, comma 7, statuto contribuente, va limitato ai soli accertamenti conseguenziali ad accessi, ispezioni e verifiche presso i luoghi di riferimento del contribuente, senza che possa estendersi anche alle verifiche “a tavolino”.

Al contrario è previsto un obbligo generale di attivare il contraddittorio per l’amministrazione tributaria ogniqualvolta adotti decisioni che rientrano nella sfera di applicazione del diritto europeo (in ragione dei principi sancito dall’art. 41, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea il cui paragrafo 2 prevede espressamente «il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio»).

La Corte ha ricordato peraltro che, anche nel diritto nazionale, diversi interventi normativi, di cui dà specificamente conto, pur a fronte della mancanza, in ambito tributario, di una previsione generale sulla formazione partecipata dell’atto impositivo, hanno reso obbligatorio, in un sempre più consistente numero di ipotesi, il contraddittorio endoprocedimentale.

La Corte ricorda che si tratta di disposizioni specifiche, che prescrivono l’interlocuzione preventiva con il contribuente “con modalità ed effetti differentemente declinati a seconda della dinamica istruttoria seguita dall’amministrazione e delle esigenze, di matrice tipicamente collaborativa o più prettamente difensiva, ad essa sottese”.

In ragione di quanto detto la Corte conclude che la mancata generalizzazione del contraddittorio preventivo con il contribuente, fin qui limitato a specifiche e ben tipizzate fattispecie, “risulta ormai distonica rispetto all’evoluzione del sistema tributario, avvenuta sia a livello normativo che giurisprudenziale”.

Tuttavia proprio le diverse modalità secondo le quali può declinarsi il contraddittorio endoprocedimentale rendono il principio enunciato dall’art. 12, comma 7 non estendibile in via generale tramite una sentenza della Corte posto che “la soluzione proposta dal rimettente potrebbe creare disfunzioni nel sistema tributario, imponendo un’unica tipologia partecipativa per tutti gli accertamenti, anche “a tavolino”.

Di qui l’indirizzo al legislatore di un monito diretto a porre in essere un tempestivo intervento normativo che colmi la lacuna evidenziata.

 

Attività parlamentare

Nel disegno di legge contenente delega al governo per la riforma fiscale all’esame della VI Commissione della Camera dei deputati, l’articolo 15, comma 1, lettera b) stabilisce l’applicazione in via generalizzata del principio del contraddittorio, a pena di nullità, fuori dai casi dei controlli automatizzati e delle ulteriori forme di accertamento di carattere sostanzialmente automatizzato prevedendo una disposizione generale sul diritto del contribuente a partecipare al procedimento tributario, secondo le seguenti caratteristiche:

·        disciplina omogenea indipendentemente dalle modalità con cui si svolge il controllo;

·        termine congruo a favore del contribuente per formulare osservazioni sulla proposta di accertamento;

·        obbligo da parte dell'ente impositore di motivare espressamente sulle osservazioni formulate dal contribuente;

·        estensione del livello di maggior tutela previsto dall’articolo 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 (statuto dei diritti del contribuente).

Si ricorda inoltre che l’articolo 4, in materia di interpello, alla lettera e), tra i principi e i criteri direttivi ai quali il Governo si deve attenere indica quello di assicurare una generale applicazione del principio del contraddittorio a pena di nullità anche in tal caso in termini sostanzialmente convergenti con quanto indicato in via generale dal monito della Corte.

 


4. Altre pronunce di interesse

4.1 Le sentenze nn. 14, 15 e 16 del 2023 in materia di obblighi di vaccinazione contro il COVID-19 per alcune categorie di soggetti

 

Le sentenze nn. 14 e 15 del 2023 della Corte costituzionale hanno dichiarato infondate (o, per alcuni aspetti, inammissibili) le questioni di legittimità costituzionale oggetto delle relative decisioni e concernenti alcuni dei profili della disciplina in materia di obblighi di vaccinazione contro il COVID-19. La sentenza n. 16 del 2023 della medesima Corte ha invece dichiarato inammissibile per un motivo di natura procedurale un’ulteriore questione, relativa ad un altro profilo della suddetta disciplina.

 

Le disposizioni oggetto dei ricorsi, i motivi degli stessi e le decisioni della Corte costituzionale

Gli obblighi in materia di vaccinazione contro il COVID-19 (ora non più vigenti) sono stati posti in via transitoria da un complesso di norme che, come ricorda la Corte, è più volte stato modificato e ha riguardato varie categorie di soggetti.

Le questioni oggetto delle sentenze della Corte nn. 14, 15 e 16 riguardavano soltanto alcune categorie o altri specifici profili di tali norme transitorie.

In particolare, le questioni di legittimità costituzionale oggetto della sentenza n. 14 riguardavano: l’art. 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2021, n. 76, "nella parte in cui prevede, da un lato, l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2" per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario e, dall’altro lato, per effetto dell’inadempimento dello stesso obbligo, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie e dallo svolgimento delle prestazioni lavorative - questione sollevata "per contrasto con gli artt. 3, 4, 32, 33, 34 e 97 della Costituzione" -; l’art. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, nella parte in cui non prevede l’espressa esclusione dalla sottoscrizione del consenso informato per le ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori, e dell’art. 4 del citato decreto-legge n. 44 del 2021, come convertito, nella parte in cui non esclude l’onere di sottoscrizione del consenso informato per il caso di vaccinazione obbligatoria - questione sollevata per contrasto con gli artt. 3 e 21 della Costituzione -.

Le questioni di legittimità costituzionale oggetto della sentenza n. 15 riguardavano, "con riferimento ai parametri di volta in volta evocati e comunque complessivamente riconducibili agli artt. 2, 3, 4, 32, secondo comma, e 35" della Costituzione: l’art. 4, comma 7, nonché l’art. 4-ter, comma 2, del decreto-legge n. 44 del 2021, come convertito, "nella parte in cui, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario e per il personale che svolge la propria attività lavorativa nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, limitano ai soggetti per i quali la vaccinazione può essere omessa o differita l’adibizione a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, e non prevedono che la medesima ipotesi si applichi anche nei confronti del personale rimasto privo di vaccinazione per una libera scelta individuale"; l’art. 4, comma 5, nonché l’art. 4-ter, comma 3, del citato decreto-legge n. 44 del 2021, come convertito, "nella parte in cui, nel prevedere che «[p]er il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati», escludono", in relazione agli esercenti le professioni sanitarie, agli operatori di interesse sanitario e al personale scolastico, "l’erogazione dell’assegno alimentare previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva di categoria in caso di sospensione cautelare o disciplinare nel periodo di sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa per inadempimento dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2"; gli artt. 4-bis, comma 1, e 4, commi 1, 4 e 5, del citato decreto-legge n. 44 del 2021, come convertito, modificati dapprima dal decreto-legge n. 172 del 2021, come convertito, e poi dal decreto-legge n. 24 del 2022, come convertito, "nella parte in cui prevedono per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie l’obbligo vaccinale, anziché l’obbligo di sottoporsi indifferentemente al test molecolare, al test antigenico da eseguire in laboratorio, oppure al test antigenico rapido di ultima generazione, per la rilevazione di SARS-CoV-2".

La questione di legittimità costituzionale oggetto della sentenza n. 16 riguardava, con riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo

comma, e 36, primo comma, della Costituzione, la legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4, del decreto-legge n. 44 del 2021, come convertito, modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 172 del 2021, come convertito, "nella parte in cui, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale, non limita la sospensione dall’esercizio della professione sanitaria alle sole «prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che

comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2»".

In via di sintesi, si rileva che: tutte le questioni sono state respinte nel merito dalla Corte, ad eccezione di quella oggetto della sentenza n. 16 -quest’ultima, come accennato, ha dichiarato inammissibile la questione per un motivo di natura procedurale, rappresentato dal carattere palese del difetto di giurisdizione del giudice a quo -; inoltre, le varie questioni decise nel merito non riguardano tutti i profili delle norme transitorie in materia di obbligo di vaccinazione contro il COVID-19 e, in particolare, non riguardano tutte le categorie che, in certi periodi, sono rientrate nell’ambito di tale obbligo[9].

Le questioni di legittimità - oggetto, come detto, della sentenza n. 14 - dell’obbligo di vaccinazione contro il COVID-19 per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario e della norma sulla sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie e dallo svolgimento delle prestazioni lavorative per il caso di inadempimento sono affrontate con particolare riferimento al principio costituzionale (di cui all’articolo 32, secondo comma, della Costituzione) secondo cui la previsione (nel rispetto della riserva di legge ivi posta) di un trattamento sanitario obbligatorio non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana (mentre per gli altri parametri costituzionali invocati dal giudice rimettente la sentenza rileva un vizio di inammissibilità per difetto assoluto di motivazione).

La sentenza, in primo luogo, ha valutato che l’introduzione dell’obbligo in oggetto risultava coerente con le conoscenze medico-scientifiche (ivi comprese quelle disponibili a livello internazionale), relativamente sia alla sicurezza dei prodotti vaccinali sia al loro grado di efficacia nella riduzione della circolazione del virus (virus SARS-CoV-2), nonché con la situazione di emergenza epidemiologica. In tale quadro, rileva la sentenza, l’obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario consente di perseguire, oltre che la tutela della salute di soggetti particolarmente esposti al contagio, "il duplice scopo di proteggere quanti entrano con loro in contatto e di evitare l’interruzione di servizi essenziali per la collettività". In relazione al perseguimento di tali esiti, l’introduzione dell’obbligo in esame - prosegue la sentenza - non costituisce una misura sproporzionata, in quanto un ricorso, in via alternativa e in misura capillare, a test diagnostici avrebbe comportato "costi insostenibili" (a carico del Servizio sanitario nazionale) e "un intollerabile sforzo per il sistema sanitario, già impegnato nella gestione della pandemia, tanto a livello logistico-organizzativo, quanto per l’impiego di personale" né avrebbe scongiurato il rischio di presenza, nei luoghi di cura e di assistenza, di soggetti che avessero contratto il virus nelle more tra un test e l’altro (i test si sarebbero dovuti effettuare ogni due o tre giorni).

La suddetta misura della sospensione dalla professione e dallo svolgimento delle prestazioni lavorative soddisfa a sua volta, per la Corte, il requisito di proporzionalità, in termini di sacrificio dei diritti del lavoratore sanitario rispetto alle finalità perseguite (di limitazione del contagio nelle strutture sanitarie e di mantenimento di un numero adeguato di lavoratori sanitari non positivi e quindi in servizio), considerato anche il carattere non sanzionatorio e temporaneo della sospensione (priva di conseguenze disciplinari e limitata al periodo di durata dell’obbligo di vaccinazione).

Riguardo al profilo della sicurezza dei prodotti vaccinali e della relativa somministrazione, la sentenza rileva che la vaccinazione in oggetto è stata prevista in conformità alle prassi ordinarie in materia, le quali contemplano l’anamnesi pre-vaccinale, ma non lo svolgimento di test preliminari, e che la previsione di questi ultimi non è stata oggetto di raccomandazioni (per la vaccinazione in esame) neanche a livello internazionale.

Riguardo all’altra questione di legittimità oggetto della sentenza n. 14 - questione relativa all’onere di sottoscrizione del consenso informato anche per il caso di vaccinazione obbligatoria -, la Corte rileva che la natura obbligatoria della vaccinazione non esclude la necessità della raccolta del consenso informato, la quale è connessa alla fase di emersione dei dati essenziali per una completa e corretta anamnesi pre-vaccinale (destinata a valutare la compatibilità del soggetto con la vaccinazione) e attesta la legittimità (in relazione al requisito del consenso) della materiale inoculazione del vaccino (fermo restando il diritto di rifiuto da parte del soggetto, in base alla distinzione concettuale tra trattamento obbligatorio e trattamento coercitivo).

La sentenza n. 15, con motivazioni molto simili alla sentenza n. 14, afferma che l’obbligo di vaccinazione contro il COVID-19 per gli esercenti le professioni sanitarie, gli operatori di interesse sanitario e gli altri soggetti operanti in strutture residenziali, semiresidenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie soddisfa i requisiti di proporzionalità e di eguaglianza costituzionale (nell’ambito di tale valutazione, la sentenza n. 15 fa riferimento, a differenza della sentenza n. 14[10], oltre che all’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, anche agli altri parametri costituzionali richiamati dai giudici rimettenti).

La sentenza n. 15 ha poi esaminato la questione della legittimità della mancanza di previsione, per il caso di inadempimento dell’obbligo di vaccinazione in esame da parte dei summenzionati lavoratori, della possibilità di restare in servizio, mediante l’assegnazione, da parte del datore di lavoro, ad altre mansioni - possibilità che era stata prevista in un primo tempo (per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario inadempienti) dalla normativa transitoria in materia e che restava invece applicabile per i casi di controindicazione clinica (da parte dei lavoratori appartenenti alle categorie oggetto della sentenza) alla vaccinazione -. La Corte rileva che la scelta operata dal legislatore, dopo (come detto) una prima diversa disposizione, appare dovuta alla considerazione che il criterio di assegnazione ad altre mansioni avrebbe comportato, in concreto, un rischio per la salute del lavoratore stesso, degli altri lavoratori e dei terzi, "portatori di interessi costituzionali prevalenti sull’interesse del dipendente di adempiere per poter ricevere la retribuzione", oppure lo svolgimento di attività lavorative di scarso interesse per il datore di lavoro. La Corte soggiunge che, in ogni caso, il suddetto criterio di assegnazione ad altre mansioni avrebbe costituito "un significativo fattore di rigidità organizzativa, dal quale, non irragionevolmente, si sono volute sollevare le strutture sanitarie e assistenziali", che sono state peraltro, ricorda la sentenza, le strutture più esposte all’impatto della pandemia da COVID-19. La Corte rileva che il criterio di assegnazione ad altre mansioni è stato invece previsto - sulla base, rispettivamente, di motivazioni solidaristiche e della considerazione delle diverse caratteristiche del contesto lavorativo - per i lavoratori in esame aventi una controindicazione clinica alla vaccinazione contro il COVID-19 e per il personale docente ed educativo della scuola inadempiente al medesimo obbligo di vaccinazione.

Un’ulteriore questione oggetto della sentenza n. 15 è costituita, come accennato, dalla mancanza del riconoscimento, per il periodo di sospensione del rapporto di lavoro conseguente all’inadempimento dell’obbligo di vaccinazione, dell’assegno alimentare previsto (in linea di massima, da contratti collettivi di comparti pubblici) per i casi di sospensione cautelare o disciplinare del rapporto di lavoro (la questione era stata posta con riferimento agli esercenti le professioni sanitarie, agli operatori di interesse sanitario e al personale scolastico). La Corte rileva che tale assegno è previsto con riferimento a situazioni provvisorie di incertezza, mentre nel caso in oggetto la sospensione del rapporto di lavoro è dovuta ad una scelta del lavoratore, per la quale non è irragionevole escludere la determinazione di un costo - costituito dall’assegno alimentare - a carico del datore di lavoro.

 



[1]     Introdotto dall’art. 12, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 aprile 2016, n. 91 (Disposizioni integrative e correttive ai decreti legislativi 28 gennaio 2014, n. 7 e 8, adottate ai sensi dell’articolo 1, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 244).

[2]     Imputazione ai sensi degli artt. 81, primo comma, del codice penale, 47, numero 2), e 173 del codice penale militare di pace.

[3]     La Corte ha tra l’altro evidenziato che, nel caso di specie, “né l’assenza testuale del termine “obbligo”, né la mancata espressa previsione delle sanzioni conseguenti alla sua violazione possono indurre a qualificare il precetto in parola solo alla stregua di un onere incombente sull’amministrazione militare”.

[4]     Si ricorda che, in altre occasioni, la Corte costituzionale ha affermato anche che devono ritenersi leciti i trattamenti sanitari, e tra questi le vaccinazioni obbligatorie, che, al fine di tutelare la salute collettiva, possano comportare il rischio di “conseguenze indesiderate, pregiudizievole oltre il limite del normalmente tollerabile” (sentenza n. 14 del 2023 e ulteriori pronunce ivi richiamate).

[5]     La natura relativa di tale riserva era già stata affermata, sia pure incidentalmente, nella sentenza n. 258 del 1994, richiamata dalla pronuncia in commento. Quest’ultima specifica che “l’art. 32, secondo comma, Cost. non fa ricadere sul legislatore l’obbligo di introdurre una disciplina in tutto compiuta, (..) per taluni profili è consentito l’intervento di ulteriori atti normativi in funzione integrativa.”.

[6]     In proposito, nella pronuncia in commento si ricorda che l’aggettivo “determinato” non compariva nella proposta adottata dalla Commissione per la Costituzione Fu per effetto di un emendamento presentato nel plenum dell’Assemblea che si ritenne di modificare la struttura della disposizione e di introdurre il termine “determinato”. Nell’intendimento del suo promotore (primo firmatario, on. Caronia), ne sarebbe derivata una formulazione “più precisa” (seduta del 24 aprile 1947).

[7]     Nota la Corte, al riguardo, che sono proprio il livello di gravità della specifica patologia e la sua capacità di diffondersi, insieme al grado di sicurezza della relativa profilassi vaccinale, a costituire gli essenziali elementi che entrano a far parte del giudizio di legittimità. Infatti, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la discrezionalità legislativa nell’imposizione degli obblighi vaccinali deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (sentenze n. 15 e n. 14 del 2023, n. 5 del 2018 e n. 282 del 2002). Inoltre, proprio a fronte della scelta del vaccino, la Corte è nelle condizioni di valutare la non irragionevolezza e la non sproporzionalità dell’introduzione dell’obbligo e delle specifiche conseguenze che il legislatore abbia voluto accostare alla sua violazione.

[8]     Ossia, come già riferito, nella parte in cui autorizza la sanità militare a imporre al personale militare la somministrazione di specifiche profilassi vaccinali, senza che esse siano previamente individuate in via legislativa.

[9]     Per una ricognizione di tali categorie, cfr. il punto 7.2 del "considerato in diritto" della suddetta sentenza n. 15.

[10]   Come detto, la sentenza n. 14 ha adottato, con riferimento ad alcuni parametri costituzionali, una decisione di inammissibilità per difetto assoluto di motivazione.