Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Osservatorio legislativo e parlamentare |
Titolo: | Le fonti per l'attività del Comitato per la legislazione |
Serie: | Documentazione e ricerche Numero: 7 |
Data: | 23/11/2022 |
Organi della Camera: | Comitato per la legislazione |
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Camera dei deputati |
XIX LEGISLATURA |
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Documentazione e ricerche
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Le fonti per l’attività del |
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n. 7 |
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23 novembre 2022 |
Servizi responsabili: |
SERVIZIO STUDI
Osservatorio sulla legislazione
( 066760-4510 – * st_osservatorio@camera.it
SEGRETERIA DEL COMITATO PER LA LEGISLAZIONE
( 0667609705- – * comitato.legislazione@camera.it
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File:
OS0001.docx
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INDICE
Sommario
Principali riferimenti normativi e regolamentari
Giunta per il regolamento - Resoconto di mercoledì 28 febbraio 2007
Legge 27 luglio 2000 n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente)
Legge 28 novembre 2005 n. 246, articolo 14 (Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005)
Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 10 settembre 2008 sull’ATN
Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 febbraio 2018.
Sentenza della Corte Costituzionale n. 116 del 2006
Sentenza della Corte Costituzionale n. 170 del 2007
Sentenza della Corte Costituzionale n. 340 del 2007
Sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 2012
Sentenza della Corte Costituzionale n. 149 del 2012
Sentenza della Corte Costituzionale n. 237 del 2013
Sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014
Sentenza della Corte Costituzionale n. 247 del 2019
Ordinanza della Corte Costituzionale n. 274 del 2019
Ordinanza della Corte Costituzionale n. 275 del 2019
Ordinanza della Corte Costituzionale n. 60 del 2020
Sentenza della Corte Costituzionale n. 61 del 2020
Sentenza della Corte Costituzionale n. 70 del 2020
Sentenza della Corte Costituzionale n. 116 del 2020
Sentenza della Corte Costituzionale n. 149 del 2020
Sentenza del Consiglio di Stato n. 9 del 2012
Il presente dossier contiene la documentazione relativa alle fonti essenziali per il funzionamento e l’attività del Comitato per la legislazione. In particolare sono riportati:
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gli articoli 76 e 77 della Costituzione in materia di delega legislativa e di decretazione d’urgenza, ambito di intervento privilegiato per il Comitato;
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l’articolo 16-bis del Regolamento che appunto individua l’ambito di competenza primario del Comitato per la legislazione nell’esame dei provvedimenti di delegazione legislativa e di autorizzazione alla delegificazione, ferma restando la possibilità per un quinto dei componenti della Commissione competente in sede referente di richiedere il parere di altri progetti di legge e di altri schemi di atti normativi; l’esame avviene con riferimento ai profili di qualità della legislazione (“omogeneità”; “semplicità, chiarezza e proprietà della formulazione”; “efficacia […] per la semplificazione e il riordinamento della legislazione vigente”); l’articolo definisce anche composizione (10 deputati, in misura paritaria tra maggioranza e opposizione) e presidenza (a rotazione) del Comitato;
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l’articolo 96-bis del Regolamento che definisce una specifica procedura di esame da parte del Comitato per i decreti-legge (il parere deve essere reso entro cinque giorni dall’assegnazione);
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alcune pronunce della Giunta per il Regolamento attinenti al Comitato: il parere del 16 ottobre 2001 sui criteri per la rotazione della presidenza (alternanza tra maggioranza e opposizione e anzianità di nomina nel Comitato o in via sussidiaria anzianità parlamentare e, quindi, anagrafica) e sulla durata del mandato del presidente (elevato in via sperimentale a dieci mesi, rispetto ai sei previsti dall’articolo 16-bis); le comunicazioni del presidente del 28 febbraio 2007 sulle modalità di deliberazione del Comitato (adozione dei pareri per “consenso”); il parere del 6 ottobre 2009 sulla possibilità, su richiesta di almeno un quinto dei componenti della Commissione competente in sede referente, di un secondo parere sui decreti-legge, come modificati in sede referente e sull’ammissibilità, nei disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, di emendamenti volti univocamente a recepire le condizioni contenute nel parere del Comitato e formulate in modo testuale, pur se non previamente presentati in Commissione né riferiti a parti del testo nuove o modificate dalla Commissione, in deroga quindi al regime ordinario di presentazione degli emendamenti in Assemblea per i provvedimenti collegati;
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la circolare del Presidente della Camera sulle regole e raccomandazioni per la formulazione dei testi legislativi del 20 aprile 2001, spesso utilizzata nei pareri del Comitato come parametro di valutazione; si richiamano in particolare il paragrafo 3, lettera a), che prescrive di privilegiare la modifica testuale ("novella") di atti legislativi vigenti, evitando modifiche implicite o indirette; il paragrafo 3, lettera e) che prescrive di non ricorrere all'atto legislativo per apportare modifiche frammentarie ad atti non aventi forza di legge, al fine di evitare che questi ultimi presentino un diverso grado di "resistenza" ad interventi modificativi successivi; il paragrafo 4, lettera ?n) ?che prescrive di evitare l'uso di termini stranieri, salvo che siano entrati nell'uso della lingua italiana e non abbiano sinonimi in tale lingua di uso corrente;
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altre norme legislative utilizzate come parametri di valutazione da parte del Comitato: la legge n. 400 del 1988 in materia di disciplina dell’attività normativa (in particolare gli articoli 13-bis con l’obbligo di abrogazione espressa; 14 con la disciplina dei decreti legislativi, 15 con le prescrizioni in materia di decreti-legge, 17 con la disciplina del potere regolamentare del Governo e della procedura di delegificazione e 17-bis con l’autorizzazione permanente al Governo all'emanazione di testi unici compilativi); la legge n. 212 del 2000, per quanto attiene le disposizioni in materia tributaria, con riguardo ai temi della certezza del diritto e della efficacia retroattiva delle disposizioni; la legge n. 246 del 2005 in materia di semplificazione normativa (in particolare l’articolo 14; nel dossier sono riportati anche i relativi provvedimenti attuativi che disciplinano l'analisi tecnico normativa, con la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 10 settembre 2008 nonché l'analisi e la verifica di impatto della regolamentazione con il DPCM n. 169 del 2017 e la direttiva di attuazione del Presidente del Consiglio dei ministri del 16 febbraio 2018);
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la giurisprudenza della Corte costituzionale rilevante per l’attività del Comitato; in particolare sono incluse:
1)
con riferimento alla decretazione d’urgenza: le sentenze n. 22 del 2012, n. 32 del 2014 e n. 247 del 2019 che hanno dichiarato incostituzionali disposizioni inserite in decreti-legge nel corso dell'iter di conversione perché eterogenee rispetto al contenuto originario del provvedimento; la sentenza n. 237 del 2013 che ha invece ammesso la possibilità di inserire nel disegno di legge di conversione disposizioni ulteriori rispetto alla semplice norma di conversione del decreto-legge, quali la proroga di termini previsti da deleghe legislative (che non possono essere inserite nei decreti-legge), purché omogenee con la materia del decreto-legge (al riguardo merita richiamare anche il costante orientamento più restrittivo della Presidenza della Camera che, a differenza di quella del Senato, ha sempre ritenuto inammissibili emendamenti volti ad inserire disposizioni di delega nel disegno di legge di conversione); la sentenza n. 244 del 2016 e la sentenza n. 149 del 2020 che hanno elaborato la categoria di “provvedimento governativo ab origine a contenuto plurimo” per descrivere quei provvedimenti nei quali “le molteplici disposizioni che li compongono, ancorché eterogenee dal punto di vista materiale, presentano una sostanziale omogeneità di scopo” (sul punto però merita la già richiamata sentenza n. 247 del 2019 ha sollevato perplessità sul ricorso ad un’altra ratio unitaria dai contorni estremamente ampi, la “materia finanziaria”, in quanto essa si “riempie dei contenuti definitori più vari” e il riferimento ad essa, come identità di ratio, può risultare pertanto “in concreto non pertinente”); l’ordinanza n. 274 del 2019 che, nel respingere il conflitto di attribuzione sollevato da alcuni parlamentari in ordine all’iter parlamentare del disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 135 del 2018, ha argomentato che “in astratto la palese estraneità delle disposizioni introdotte in fase di conversione potrebbe costituire un vizio procedimentale di gravità tale da determinare una menomazione delle prerogative costituzionali dei singoli parlamentari”, pur respingendo il ricorso perché nel caso concreto tale gravità non era dimostrata (analoghe considerazioni sono svolte nell’ordinanza n. 275 del 2019);
2)
con riferimento alla delegazione legislativa, la sentenza n. 170 del 2007, che ha consentito, in presenza di deleghe per il riassetto normativo, l'inserimento di disposizioni innovative solo nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato, cioè il Governo (orientamento ribadito dalla sentenza n. 61 del 2020), e la sentenza n. 340 del 2007 che ha censurato l'inserimento di principi e criteri direttivi che lascino al libero apprezzamento del legislatore delegato la scelta tra le diverse opzioni;
3)
con riferimento alla delegificazione, la sentenza n. 149 del 2012 che ha lasciato aperta a successive valutazioni della medesima Corte la questione della correttezza della prassi di autorizzare l'emanazione di regolamenti di delegificazione tramite decreti-legge;
4) con riferimento al corretto utilizzo delle fonti normative, la sentenza n. 116 del 2006 che ha censurato l'utilizzo di "decreti di natura non regolamentare" (la medesima posizione è stata espressa dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 9 del 2012, pure inclusa nel dossier); l’ordinanza n. 60 del 2020 che, nel respingere il conflitto di attribuzione sollevato da alcuni parlamentari in ordine all’iter del disegno di legge di bilancio per il 2020 (l. n. 160 del 2019), ha rilevato che nel caso specifico non si è verificato “un irragionevole squilibrio fra le esigenze in gioco nelle procedure parlamentari e, quindi, un vulnus nelle attribuzioni dei parlamentari grave e manifesto”; la Corte fa così emergere, come parametro di giudizio, l’esigenza di mantenere un ragionevole equilibrio fra le esigenze in gioco nelle procedure parlamentari; la sentenza n. 70 del 2020 ha affermato che “al Legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive sia innovative che di interpretazione autentica. La retroattività deve, tuttavia, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata”; la sentenza ricorda poi che la Corte ha nel corso del tempo individuato alcuni limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, relativi al “principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; alla tutela dell’affidamento legittimamente sorte nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; alla coerenza e alla certezza dell’ordinamento giuridico; al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”; la sentenza n. 116 del 2020, dichiarando l’illegittimità della disposizione di legge che approva il Programma Operativo Straordinario della Regione Molise, afferma, in materia di “leggi-provvedimento”, che l’elevazione a livello legislativo di disciplina precedentemente riservata all’azione amministrativa, pur essendo di per sé non contraria a Costituzione, impone alla Corte di valutare “il rispetto di regole che trovano la loro naturale applicazione nel procedimento amministrativo”, con particolare riferimento al ruolo svolto ordinariamente dal procedimento amministrativo, come “luogo elettivo di composizione degli interessi”: interessi che non possono essere interamente sacrificati nella “successiva scelta legislativa, pur tipicamente discrezionale, di un intervento normativo diretto”.
Art. 16-bis (*)
1. Il Comitato per la legislazione è composto di dieci deputati, scelti dal Presidente della Camera in modo da garantire la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni.
(*) Articolo approvato il 24 settembre 1997 e modificato il 20 luglio 1999.
Vedi il testo a fronte delle diverse modifiche.
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Capo XIX-bis (*)
dei disegni di legge di conversione di decreti-legge
(*) Capo approvato il 14 novembre 1981.
Art. 96-bis (*)
1. Il Presidente della Camera assegna i disegni di legge di conversione dei decreti-legge alle Commissioni competenti, in sede referente, il giorno stesso della loro presentazione o trasmissione alla Camera e ne dà notizia all'Assemblea nello stesso giorno o nella prima seduta successiva, da convocarsi anche appositamente nel termine di cinque giorni dalla presentazione, ai sensi del secondo comma dell'articolo 77 della Costituzione. La proposta di diversa assegnazione, ai sensi del comma 1 dell'articolo 72, deve essere formulata all'atto dell'annunzio dell'assegnazione e l'Assemblea delibera per alzata di mano, sentiti un oratore contro e uno a favore per non più di cinque minuti ciascuno. I disegni di legge di cui al presente articolo sono altresì assegnati al Comitato per la legislazione di cui all'articolo 16-bis, che, nel termine di cinque giorni, esprime parere alle Commissioni competenti, anche proponendo la soppressione delle disposizioni del decreto-legge che contrastino con le regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti-legge, previste dalla vigente legislazione.
Vedi il testo a fronte delle diverse modifiche
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Capo XIX -ter (*)
dell’esame degli schemi di atti normativi del governo
(*) Capo approvato il 20 luglio 1999.
Art. 96-ter
1. Gli schemi di atti normativi del Governo, trasmessi alla Camera per il parere parlamentare, sono assegnati dal Presidente alla Commissione competente per materia secondo le disposizioni dell'articolo 143, comma 4.
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Sui criteri per la determinazione del turno di presidenza del Comitato per la legislazione di cui all'articolo 16-bis, comma 2, del Regolamento.
I deputati membri del Comitato si succedono alla presidenza, alternandosi tra appartenenti a gruppi di maggioranza e di opposizione, secondo il criterio di anzianità di nomina nel Comitato e in via sussidiaria dell'anzianità parlamentare e, quindi, dell'anzianità anagrafica.
Le funzioni di vicepresidente sono assunte dal deputato cui spetta il successivo turno di presidenza secondo i criteri di cui al punto precedente e quelle di segretario dal deputato con la minore anzianità parlamentare e, in via sussidiaria, anagrafica, salvo che nei periodi in cui sia chiamato ad assumere le funzioni di presidente o di vicepresidente.
La durata del turno di presidenza, stabilita dal comma 2 dell'articolo 16-bis del regolamento in sei mesi, è fissata in via sperimentale in dieci mesi.
Comunicazioni del Presidente su questioni interpretative attinenti alle modalità di adozione dei pareri da parte del Comitato per la legislazione.
Fausto BERTINOTTI, Presidente, invita i colleghi a manifestare i propri orientamenti sulla questione concernente le modalità di adozione dei pareri da parte del Comitato per la legislazione (di cui al punto n. 4 dell'allegato).
Marco BOATO manifesta anche su tale questione la sua piena condivisione dell'indirizzo interpretativo indicato dal Presidente nelle considerazioni trasmesse ai membri della Giunta. Ammettere che in seno al Comitato per la legislazione le decisioni possano essere assunte mediante votazioni, facendo quindi prevalere posizioni maggioritarie, risulterebbe contraddittorio rispetto alle peculiari caratteristiche di un organo a composizione paritetica, cui il Regolamento affida una funzione prettamente istituzionale. In questo senso assume un chiaro significato la previsione della possibilità di inserire nei pareri eventuali opinioni dissenzienti; così come ritiene essere del tutto coerente con la natura dell'organo la soluzione prospettata e cioè che, in ipotesi di contrasto non superabile, il Comitato, tramite il suo Presidente, dia conto alla Commissione di merito - ed eventualmente anche all'Assemblea - dell'impossibilità di rendere il parere, della posizione espressa dal relatore e di quelle diverse manifestate da altri componenti dell'organo.
Osserva peraltro che l'attività del Comitato, sin dalla sua nascita, si è svolta con rigore, obiettività ed equilibrio, senza risparmiare - in talune circostanze - valutazioni critiche (spesso riprese nei dibattiti anche in Assemblea), così da consentire la piena condivisione di intenti al suo interno, come testimoniato anche dal fatto che il ricorso all'istituto della dissentig opinion è avvenuto in modo sporadico.
Antonio LEONE rileva che la soluzione individuata dal Presidente, oltre ad essere coerente sul piano interpretativo ed a garantire la piena realizzazione degli obiettivi istituzionali che hanno giustificato la stessa istituzione del Comitato per la legislazione, ha il pregio di assicurarne nel modo migliore la funzionalità, che risulterebbe invece di fatto pregiudicata, ove si affermassero modalità di deliberazione che implichino logiche di schieramento politico.
Enrico
Gianclaudio BRESSA sottolinea l'utilità della funzione «persuasiva» dei pareri del Comitato, che introducono peraltro valutazioni sui testi quasi sempre prese in considerazione dagli organi competenti. Evidenzia come, quando ciò non avvenga, sia generalmente per evidenti ragioni di urgenza della conclusione del procedimento legislativo. Esprime dunque perplessità sull'attribuzione ai pareri del Comitato di effetti vincolanti.
Dopo che Antonio LEONE si è associato alle considerazioni svolte sul valore dell'attività del Comitato e sull'opportunità di non alterarne la posizione nel procedimento legislativo, Fausto BERTINOTTI, Presidente, rileva come la riflessione sugli effetti dei pareri e sul suo eventuale rafforzamento - peraltro sollecitati anche dall'attuale Presidenza del Comitato - esuli dalla specifica questione interpretativa oggi in esame, su cui constata che
Rileva che ogni discussione inerente le disposizioni concernenti il Comitato per la legislazione possa essere utilmente sviluppata solo in sede di esame di eventuali proposte di modifica regolamentare. In particolare, per quanto concerne il seguito dei pareri del Comitato, ricorda che l'unico effetto previsto dalle norme regolamentari in caso di loro inosservanza, nel procedimento in sede referente, è quello indicato nell'articolo 16-bis, comma 6, secondo cui «qualora le Commissioni che procedono in sede referente non intendano adeguare il testo del progetto di legge alle condizioni contenute nel parere del Comitato, debbono indicarne le ragioni nella relazione per l'Assemblea».
Enrico
ALLEGATO
SULLE MODALITÀ DI DELIBERAZIONE DEL COMITATO PER
Il Presidente del Comitato per la legislazione, Franco Russo, con lettera dello scorso 23 ottobre
"
esaminate le questioni relative alla disciplina del Comitato per la legislazione poste nelle riunioni della Giunta per il Regolamento del 13 gennaio 2009 e del 16 giugno 2009; ritenuta l'esigenza di un rafforzamento dell'efficacia dei pareri espressi da tale organo, funzionale all'interesse del pieno dispiegamento dell'istruttoria legislativa per una migliore qualità della produzione normativa; valutata l'opportunità di prevedere una disciplina di carattere sperimentale; delibera il seguente parere: "In via sperimentale, ed in attesa di una compiuta riforma delle norme del Regolamento concernenti il Comitato per la legislazione, fermo restando quanto previsto dall'articolo 96-bis, comma 1, il Comitato per la legislazione, ove ne sia fatta richiesta - da avanzare entro la conclusione dell'esame degli emendamenti - da almeno un quinto dei componenti della Commissione competente in sede referente, esprime un ulteriore parere sul testo del disegno di legge di conversione e del relativo decreto-legge risultante dall'approvazione degli emendamenti in Commissione. Tale secondo parere ha ad oggetto le modifiche introdotte dalla Commissione, sempre che esse coinvolgano aspetti di competenza del Comitato, come stabiliti dal Regolamento. Il parere è reso alla Commissione competente ove ciò sia compatibile con i tempi previsti per la conclusione dell'esame in sede referente in sede di programmazione dei lavori. Diversamente, il parere sul testo del disegno di legge di conversione e del relativo decreto-legge risultante dagli emendamenti approvati in Commissione può essere utilmente reso direttamente all'Assemblea ed è annunciato dal Presidente della Camera. Resta fermo che la mancata espressione del parere da parte del Comitato - anche in relazione a quanto stabilito dalla Giunta per il Regolamento nella seduta del 28 febbraio 2007 - non determina alcun impedimento alla prosecuzione e conclusione dell'esame in Commissione e in Assemblea. Inoltre, con riferimento al parere reso dal Comitato per la legislazione sui disegni di legge collegati alla manovra finanziaria, devono intendersi ammissibili in Assemblea gli emendamenti, pur se non previamente presentati in Commissione in sede referente né riferiti a parti del testo nuove o modificate dalla Commissione stessa, volti univocamente a recepire condizioni poste nel parere del Comitato e formulate in modo testuale, così da non lasciare alcun margine di discrezionalità in ordine alle modalità di accoglimento.
Infine, in relazione ad una richiesta di revisione dei criteri per la successione dei deputati nei turni di presidenza del Comitato per la legislazione, si conferma integralmente quanto stabilito dalla Giunta per il Regolamento nella seduta del 16 ottobre
IL PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
Lettera circolare sulle regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi
20 aprile 2001
SOMMARIO
1. Titolo dell'atto legislativo ............................................................. 18
2. Aspetti generali dell'atto legislativo .............................................. 18
3. Rapporti tra atti normativi ............................................................. 44
4. Terminologia ................................................................................ 20
5. Numerazione e rubricazione degli articoli ..................................... 22
6. Numerazione e rubricazione degli articoli aggiuntivi .................... 22
7. Partizioni interne degli articoli ...................................................... 23
8. Partizioni dell'atto legislativo di livello superiore all'articolo ........ 25
9. Norme recanti «novelle» ............................................................... 26
10. Numerazione dei commi nelle «novelle» ..................................... 28
11. Riferimenti normativi interni ....................................................... 29
12. Riferimenti normativi esterni ....................................................... 30
13. Allegati ........................................................................................ 31
14. Abbreviazioni e sigle ................................................................... 32
15. Vigenza dell'atto legislativo ed efficacia di singole disposizioni ........................................................................................ 32
REGOLE E RACCOMANDAZIONI
PER
Nel presente testo le «raccomandazioni» sono riportate con opportuna evidenziazione e in carattere corsivo al termine dei paragrafi che trattano la materia corrispondente. In assenza di esplicite indicazioni i principi enunciati devono intendersi come «regole».
Le regole e le raccomandazioni del presente testo sono applicabili, con gli opportuni adattamenti, a tutti gli atti normativi di competenza statale comunque denominati
1. Titolo dell'atto legislativo.
a) Nel titolo dell'atto legislativo è esplicitato almeno l'oggetto principale della disciplina normativa. Non sono quindi adottate né espressioni generiche, né semplici citazioni per data e numero di promulgazione o emanazione di leggi e decreti (c.d. titoli «muti»). Il titolo dei progetti di legge è pertanto adeguatamente riformulato se, nel corso dell'iter, vengono introdotte rilevanti modifiche. Nel titolo sono in particolare specificati i seguenti elementi, ove essi costituiscano il contenuto esclusivo o prevalente dell'atto: 1) la presenza di deleghe legislative; 2) l'atto o gli atti oggetto di modifica; 3) la normativa comunitaria recepita o la modifica di atti di recepimento, indicando sempre la normativa comunitaria di riferimento; 4) il carattere derogatorio rispetto alla legislazione vigente. Nel titolo è inoltre indicato l'oggetto delle disposizioni tributarie eventualmente contenute nell'atto (articolo 2, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212).
2. Aspetti generali dell'atto legislativo.
a) L'atto legislativo disciplina materia omogenea. La ripartizione delle materie all'interno dell'atto è operata assicurando il carattere omogeneo di ciascuna partizione, ivi compreso l'articolo, nonché di ciascun comma all'interno dell'articolo.
b) Ogni precetto normativo contenuto nell'atto è formulato evitando qualsiasi ambiguità semantica e sintattica e rispettando, per quanto possibile, sia il principio della semplicità che quello della precisione.
c) Le disposizioni derogatorie e quelle che disciplinano casi particolari richiamano la disposizione generale cui fanno eccezione.
d) Le disposizioni contenenti deleghe legislative, ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione, recano i seguenti elementi: 1) il destinatario della delega (il Governo); 2) il termine per l'esercizio della delega e l'eventuale termine per l'emanazione di disposizioni integrative o correttive; 3) l'oggetto della delega; 4) i principi e i criteri direttivi (che devono essere distinti dall'oggetto della delega). Il termine «delega» è usato esclusivamente in presenza di una delegazione legislativa con la formula: «Il Governo è delegato ad adottare...». È inoltre sempre indicata la denominazione propria dell'atto da emanare (decreto legislativo) ed è precisato se la delega può essere esercitata con uno o più atti. Le disposizioni di delega sono contenute in un apposito articolo. Un articolo non può contenere più di una disposizione di delega.
e) Le disposizioni che attribuiscono al Governo un potere regolamentare specificano sempre se si tratta di regolamenti di esecuzione, di delegificazione, di organizzazione o ministeriali, richiamando espressamente, a seconda dei casi, i relativi commi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400. Nel caso di regolamenti di delegificazione sono altresí indicate le norme generali regolatrici della materia.
f) Le disposizioni che prevedono l'emanazione di un testo unico indicano sempre se il predetto testo è retto da una delega legislativa o da una mera autorizzazione alla raccolta di norme, nonché se il testo unico deve essere redatto ai sensi dell'articolo 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, ovvero secondo un'autonoma disciplina.
g) Le disposizioni che prevedono una pronuncia parlamentare su atti o schemi di atti non individuano l'organo parlamentare competente (salva l'attribuzione per legge della predetta pronuncia ad un organismo bicamerale) e prevedono la trasmissione dell'atto «al Parlamento».
h) Le disposizioni che prevedono adempimenti a carico delle regioni o degli enti locali o che delegano, trasferiscono o conferiscono compiti e funzioni non individuano direttamente gli organi competenti né il tipo di atto da emanare.
RACCOMANDAZIONI
Qualora l'atto legislativo contenga una disciplina organica di una determinata materia, si raccomanda che l'ordine delle disposizioni contenute nell'atto osservi la seguente sequenza:
a) parte introduttiva, contenente «disposizioni generali»: finalità dell'atto e principi generali espressi in modo da facilitarne l'interpretazione (sono da escludere norme meramente programmatiche o semplici dichiarazioni di intenti non attinenti alle finalità dell'atto); ambito di operatività dell'atto, con una definizione, chiara ma non rigida, del campo di applicazione, sia oggettivo che soggettivo; definizioni;
b) parte principale, contenente: disposizioni sostanziali e procedurali relative alla materia disciplinata; eventuali previsioni sanzionatorie; indicazione delle strutture pubbliche coinvolte nell'intervento normativo (copertura amministrativa) e disposizioni finanziarie;
c) parte finale, contenente: disposizioni relative all'attuazione dell'atto; disposizioni di coordinamento normativo (volte a chiarire anche l'ambito di applicazione delle nuove disposizioni relativamente ad altre già vigenti); disposizioni abrogative; disposizioni transitorie;
d) disposizioni sull'entrata in vigore dell'atto e sulla decorrenza (o scadenza) di efficacia di singole disposizioni.
Occorre distinguere le finalità da elementi delle fattispecie da disciplinare. È opportuno non inserire in ogni disposizione le finalità, raggruppandole nella parte introduttiva.
In un atto che contenga principi fondamentali per l'esercizio, da parte delle regioni, della potestà legislativa concorrente di cui all'articolo 117 della Costituzione, è opportuno che i predetti principi siano collocati in una parte dell'atto diversa da quella eventualmente contenente norme immediatamente applicabili in assenza di leggi regionali ovvero applicabili a decorrere da una data prefissata, in caso di mancato adeguamento della legislazione regionale ai principi medesimi.
Le disposizioni concernenti la copertura finanziaria sono preferibilmente accorpate in un unico articolo.
È opportuno che le disposizioni transitorie indichino un ambito temporale definito per la loro applicazione.
È opportuno che ciascun articolo sia costituito da un numero limitato di commi.
3. Rapporti tra atti normativi.
a) È privilegiata la modifica testuale («novella») di atti legislativi vigenti, evitando modifiche implicite o indirette.
b) Non si ricorre alla tecnica della novellazione nel caso di norma transitoria, con particolare riguardo a testi unici.
c) Se un atto ha subito modifiche, eventuali «novelle» sono riferite all'atto modificato e non agli atti modificanti.
d) Occorre inserire correttamente eventuali termini per l'adozione di atti previsti da una «novella»: infatti l'espressione «dalla data di entrata in vigore della presente legge (o del presente decreto)», inserita nella «novella», comporta la decorrenza dalla data di entrata in vigore dell'atto modificato. Pertanto, ove si intenda far decorrere il termine dalla data di entrata in vigore dell'atto modificante, occorre inserirlo in autonoma disposizione posta fuori della «novella».
e) Non si ricorre all'atto legislativo per apportare modifiche frammentarie ad atti non aventi forza di legge, al fine di evitare che questi ultimi presentino un diverso grado di «resistenza» ad interventi modificativi successivi.
f) Qualora si intenda disciplinare con legge una materia già oggetto di delegificazione, si opera non mediante «novella» di atti di rango subprimario, bensì mediante autonoma disposizione legislativa chiarendo: 1) ove possibile, le parti dell'atto secondario che sono abrogate; 2) se la modifica comporta anche un aggiornamento dei principi della delegificazione; 3) se in futuro permane l'autorizzazione già conferita al Governo a disciplinare la materia con regolamento.
g) La cosiddetta formula abrogativa esplicita innominata (del genere: «tutte le disposizioni incompatibili con la presente legge sono abrogate») non è utilizzata. Essa è superflua, essendo una inutile e, al limite, equivoca ripetizione del principio stabilito, in via generale, sulla abrogazione implicita dall'articolo 15 delle disposizioni sulla legge in generale.
h) Nell'incertezza circa la completezza dell'elenco delle disposizioni abrogate, per mettere in evidenza che tale elenco (comunque preferibile a formule generiche o implicite di abrogazione) può non essere esaustivo, si utilizza la seguente formula: «Sono abrogate, in particolare, le seguenti disposizioni:».
i) Ove con l'atto legislativo si intendano fissare principi fondamentali per le regioni ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, tale intento deve risultare chiaramente esplicitato.
l) La disposizione con la quale si intende interpretare autenticamente altra precedente disposizione è formulata utilizzando la seguente espressione: «Il comma ... dell'articolo ... della legge ... si interpreta nel senso che...». L'intento di interpretare autenticamente altra precedente disposizione è chiaramente esplicitato e, ove l'atto sia rubricato, deve risultare nella rubrica dell'articolo (in particolare, per le disposizioni tributarie, si veda l'articolo 1, comma 2, della legge n. 212 del 2000). Deve risultare comunque chiaro se ci si trovi in presenza di una disposizione di interpretazione autentica ovvero di una disposizione di modifica sostanziale alla quale si vuole dare effetto retroattivo. L'articolo 3 della legge n. 212 del 2000 vieta peraltro di attribuire effetto retroattivo alle disposizioni tributarie.
m) La modifica a norme dei testi unici «misti» previsti dall'articolo 7 della legge n. 50 del 1999 è fatta unicamente al decreto del Presidente della Repubblica (cosiddetto testo A) contenente sia le disposizioni legislative sia quelle regolamentari. In caso di sostituzione o aggiunta di articoli o commi è necessario precisare, apponendo la lettera L o R, il rango della disposizione oggetto di modifica. Ove la modifica sostituisca un intero articolo, o introduca un articolo aggiuntivo, la novella reca, dopo la parola «ART.», la lettera (L o R) corrispondente alla fonte che opera la modifica. Se la modifica comporta la sostituzione o l'aggiunta di un comma all'interno di un articolo a contenuto «misto», la lettera (L o R) è posta in calce al comma stesso. Se la sostituzione riguarda singole parole, tale indicazione è invece omessa, fermo restando che modifiche a parti di testo di livello inferiore al comma possono essere apportate solo da atti di fonte pariordinata.
RACCOMANDAZIONI
È opportuno che ogni atto legislativo contenga una disposizione che indichi espressamente le disposizioni abrogate in quanto incompatibili con la nuova disciplina recata.
Analoga previsione è contenuta nelle disposizioni legislative di delegificazione, nel quale caso l'abrogazione ha effetto dalla data di entrata in vigore delle norme regolamentari.
4. Terminologia.
a) Per evitare equivoci o dubbi interpretativi e per agevolare la ricerca elettronica dei testi, i medesimi concetti ed istituti sono individuati con denominazioni identiche sia nel titolo sia nei vari articoli e negli allegati, senza fare ricorso a sinonimi. I concetti e gli istituti utilizzati in un atto sono gli stessi utilizzati in precedenti atti normativi per le medesime fattispecie, salvo che il fine esplicito della disposizione sia di rinominarli.
b) Nella formulazione dei precetti è adottata la massima uniformità nell'uso dei modi verbali, la regola essendo costituita dall'indicativo presente, escludendo sia il modo congiuntivo sia il tempo futuro.
c) È evitato l'uso del verbo servile diretto a sottolineare la imperatività della norma («deve»; «ha l'obbligo di»; «è tenuto a»).
d) È evitata la forma passiva (in particolare il «si» passivante) quando con il suo impiego non risulta chiaro l'agente o il destinatario cui la disposizione si riferisce.
e) È evitata la doppia negazione.
f) Se in un atto legislativo si intende porre una formulazione disgiuntiva assoluta («aut... aut») e non relativa («vel») e dal contesto non risulta evidente tale intento, il dubbio è sciolto ripetendo la disgiunzione «o» due volte. È evitato l'impiego dell'espressione «e/o».
g) Nell'uso di una enumerazione è espresso chiaramente il carattere tassativo o esemplificativo della stessa.
h) Qualora sia necessario ripetere più volte in uno stesso testo la medesima espressione composta, è consentita la sua sostituzione con una denominazione abbreviata, riportando nella prima citazione l'espressione stessa per esteso seguita dalla denominazione abbreviata che sarà usata al suo posto, preceduta dalle parole «di seguito denominato/a».
i) Il verbo «abrogare» è utilizzato con riferimento a disposizioni di atti legislativi di livello non inferiore al comma (o alla lettera se il comma è diviso in lettere; oppure al numero o alla ulteriore unità minima in cui è ripartito il numero). Quando si intenda invece riferirsi a periodi (frasi sintatticamente complete che terminano con il punto) o parole è usato il verbo «sopprimere» (ad esempio: «Il comma ... è abrogato»; «Il terzo periodo del comma ... è soppresso»; «Al comma ... le parole: ... sono soppresse»).
l) Per evitare forme enfatiche di redazione del testo, le lettere iniziali maiuscole sono limitate ai soli casi di uso corrente. In ogni caso, all'interno di uno stesso testo legislativo, si seguono criteri rigorosamente uniformi.
m) È evitato l'uso di termini stranieri, salvo che siano entrati nell'uso della lingua italiana e non abbiano sinonimi in tale lingua di uso corrente.
n) La parola straniera assunta nella lingua italiana è usata esclusivamente al singolare, salvo i casi già entrati nell'uso.
o) Con riferimento a termini, è usata l'espressione «proroga» quando il termine non è ancora scaduto e l'espressione «differimento» quando il termine è già scaduto.
p) Nel caso di procedure volte a consentire una manifestazione concorde di volontà da parte di più soggetti pubblici, sono usati, a seconda dei casi: 1) il termine «intesa» per le procedure tra soggetti appartenenti a enti diversi (ad esempio, tra Stato, regioni ed altri enti territoriali); 2) il termine «concerto» per le procedure tra più soggetti appartenenti allo stesso ente (ad esempio, tra diversi Ministri).
RACCOMANDAZIONI
I termini attinti dal linguaggio giuridico o da un linguaggio tecnico sono impiegati in modo appropriato, tenendo conto del significato loro assegnato dalla scienza o tecnica che li concerne. Se un termine tecnico-giuridico ha un significato diverso da quello che lo stesso termine ha nel linguaggio corrente, occorre fare in modo che dal contesto sia chiaro in quale delle due accezioni il termine è impiegato.
È opportuno ricorrere a definizioni allorché i termini utilizzati non siano di uso corrente, non abbiano un significato giuridico già definito in quanto utilizzati in altri atti normativi ovvero siano utilizzati con significato diverso sia da quello corrente sia da quello giuridico.
È opportuno che i termini stranieri entrati nell'uso della lingua italiana e privi di sinonimi in tale lingua di uso corrente siano corredati da una definizione.
È opportuno che, ove si ricorra a denominazioni abbreviate ai sensi della lettera h), queste contengano almeno una parola che specifichi il contenuto relativamente alla materia trattata, al fine di agevolare la ricerca elettronica.
È opportuno che, ove siano previsti termini, questi siano espressi in mesi (anziché in giorni o anni), salvo che la disposizione fissi una data determinata.
Con riferimento a quanto previsto alla lettera p), ove non sia possibile fare ricorso ai termini «intesa» e «concerto», si raccomanda l'uso del termine «accordo», in particolare con riferimento ai rapporti tra pubbliche amministrazioni e privati.
5. Numerazione e rubricazione degli articoli.
a) Gli articoli degli atti legislativi recano una numerazione progressiva secondo la serie naturale dei numeri cardinali. Pertanto anche nel caso di atti consistenti di un articolo unico, detto articolo è contrassegnato come «ART. 1».
b) Oltre alla numerazione progressiva secondo la serie naturale dei numeri cardinali, gli articoli recano, di norma, anche una rubrica. In ogni caso si segue il criterio della uniformità: o di rubriche sono corredati tutti gli articoli o nessuno lo è. Recano sempre una rubrica gli articoli dei disegni di legge finanziaria, comunitaria, dei disegni di legge collegati alla manovra finanziaria, nonché degli atti contenenti deleghe legislative e disposizioni di delegificazione. L'articolo unico, peraltro, non è corredato di rubrica.
6. Numerazione e rubricazione degli articoli aggiuntivi.
a) Gli articoli aggiuntivi , da inserire con «novelle» in testi legislativi previgenti, sono contrassegnati con il numero cardinale dell'articolo dopo il quale devono essere collocati, integrato con l'avverbio numerale latino (bis, ter, quater, eccetera).
b) Il tipo di numerazione di cui alla lettera a) è adottato anche per gli articoli aggiuntivi inseriti dopo l'ultimo articolo del testo previgente.
c) Anche in caso di articolo unico non recante la numerazione cardinale, gli articoli aggiuntivi sono denominati: ART. 1-bis, ART. 1-ter, e via dicendo.
d) Articoli aggiuntivi che debbano essere collocati prima dell'articolo 1 di un atto legislativo previgente o dell'articolo unico non recante la numerazione cardinale sono contrassegnati con i numeri «01» , «02», «03», eccetera.
e) Gli articoli da inserire in testi legislativi previgenti, e che si renda indispensabile collocare in posizione intermedia tra articoli aggiunti successivamente al testo originario, sono contrassegnati con il numero dell'articolo dopo il quale vengono inseriti, integrato da un numero cardinale (l'articolo inserito tra l'1-bis e l'1-ter diviene quindi 1-bis.1). L'articolo inserito tra l'1 e l'1-bis è denominato 1.1 . Un ulteriore articolo inserito tra l'1.1 e l'1-bis, successivo all'1.1, è indicato come 1.1.1, e cosí di seguito.
f) Gli articoli aggiuntivi, per la rubricazione, si conformano alla impostazione del testo nel quale vanno ad inserirsi: tali articoli sono pertanto dotati di rubrica solo nel caso in cui gli articoli di quel testo ne siano dotati, a meno che, con espressa decisione, non si stabilisca di apporre rubriche anche ai rimanenti articoli dell'atto legislativo.
7. Partizioni interne degli articoli.
a) Ogni articolo si divide soltanto in commi. Il comma termina con il punto a capo.
b) Tutti gli atti legislativi sono redatti con i commi numerati.
c) In uno stesso articolo, i commi sono contrassegnati con i numeri cardinali, seguiti dal punto.
d) Il comma unico di un articolo è contrassegnato con il numero cardinale «1».
e) Ogni comma può suddividersi in periodi, cioè in frasi sintatticamente complete che terminano con il punto, senza andare a capo. Si va a capo soltanto alla fine del comma. Le uniche eccezioni ammissibili sono: la suddivisione del comma in lettere anziché in periodi; il comma che reca una «novella». Nei riferimenti normativi l'espressione « periodo» è impiegata esclusivamente con riferimento a frasi che terminano con il punto. L'espressione «capoverso» è utilizzata esclusivamente in presenza di «novelle», secondo quanto previsto al numero 9, lettera f).
f) Quando il comma si suddivide in lettere (seguite dalla parentesi), si va a capo dopo i due punti con cui termina la parte introduttiva del comma stesso (denominata «alinea»), nonché alla fine di ogni lettera; non si va a capo all'interno di una lettera, a meno che questa, a sua volta, non si suddivida in numeri, nel qual caso si va a capo sia dopo l'alinea della lettera sia alla fine di ogni numero. Qualora si renda necessario introdurre una ulteriore ripartizione all'interno del numero, si fa ricorso alla suddivisione: 1.1, 1.2, 1.3, eccetera. Al termine di una partizione in lettere o numeri non è ammesso l'inserimento di un periodo autonomo rispetto alla lettera o al numero prima di passare al comma o alla lettera successivi.
g) Le lettere utilizzabili all'interno di un comma sono quelle dell'alfabeto italiano (non quindi le lettere j, k, w, x, y). Se le lettere dell'alfabeto non sono sufficienti ad esaurire la elencazione, si prosegue a lettere raddoppiate (aa), bb), cc)) e, se occorre, triplicate (aaa), bbb), ccc)), e cosí via.
h) L'impiego dei numeri cardinali seguiti dalla parentesi, per contrassegnare le suddivisioni interne ad un comma, è consentito soltanto all'interno di una suddivisione in lettere, non in alternativa a questa.
i) L'impiego di trattini o di altri segni per contraddistinguere partizioni interne di un comma diverse dai periodi, dalle lettere e dai numeri non è consentito.
8. Partizioni dell'atto legislativo di livello superiore all'articolo.
a) Le partizioni che contraddistinguono articoli singoli e gruppi di articoli all'interno di un atto legislativo sono denominate in modo uniforme con i seguenti termini: sezione, capo, titolo, parte, libro. Tali partizioni, ove utilizzate, comprendono tutti gli articoli dell'atto.
b) Per l'uso delle partizioni di cui alla lettera a), si adotta la sequenza: capo, come partizione di primo livello, recante uno o più articoli, eventualmente scomponibile in sezioni; titolo, come partizione di secondo livello, comprendente uno o più capi; parte, come partizione di terzo livello, comprendente uno o più titoli; libro, come partizione di quarto livello, comprendente una o più parti.
c) In riferimento alla sequenza di cui alla lettera b), è escluso l'impiego di una partizione superiore quando non sia stata utilizzata quella inferiore. Fa eccezione la sezione, che può essere utilizzata solo come eventuale partizione interna di un capo.
d) Le partizioni di livello superiore all'articolo possono essere corredate di rubriche, purchè sia rispettato il principio della uniformità enunciato al numero 5.
e) Le partizioni di livello superiore all'articolo recano una numerazione continua all'interno di ogni partizione immediatamente superiore. Ogni partizione è contrassegnata con un numero progressivo in cifre romane.
9. Norme recanti «novelle».
a) Le norme recanti «novelle» si compongono di due parti: la parte introduttiva (denominata «alinea») e la parte consistente nella «novella» in senso stretto. Questa può comprendere uno o più capoversi, come previsto alla lettera f).
b) L'alinea della norma recante «novella» contiene il dispositivo volto a precisare il rapporto, di sostituzione o di integrazione, tra la norma previgente e quella recata dalla «novella»: esso termina con i due punti, ai quali fa seguito la parte novellistica, inscritta fra virgolette, in apertura e in chiusura.
c) L'alinea non si limita a stabilire, genericamente, l'inserimento o l'aggiunta della «novella» nel testo previgente, ma indica sempre l'esatta collocazione della parte novellistica in detto testo, precisando quindi dopo quali parole o dopo quale comma o dopo quale articolo la «novella» vada inserita.
d) La «novella» redatta in termini di sostituzione integrale di un articolo, di un comma numerato, di una lettera o di un numero ripete, all'inizio del virgolettato, l'indicazione del numero o della lettera (ad esempio: «L'articolo 86 della legge ... è sostituito dal seguente: (a capo) "ART. 86 (eventuale rubrica se presente nel testo novellato) 1."»).
e) Se la parte novellistica consiste di uno o più commi, lettere o numeri, essa viene riportata, fra virgolette, a capo, dopo i due punti con cui si conclude l'alinea. Se, viceversa, la «novella» consiste di un periodo o di più periodi o di semplici parole da inserire, in sostituzione o in aggiunta, nella norma previgente, la «novella» stessa è riportata, tra virgolette, di seguito all'alinea (e, quindi, senza andare a capo).
f) I riferimenti a norme recanti «novelle» sono effettuati denominando «capoverso» la «novella» in senso stretto, quando questa sostituisce o introduce un intero comma nel testo previgente; se la parte novellistica comprende una pluralità di commi da inserire o sostituire nel testo previgente, essi assumono la denominazione di «primo capoverso», «secondo capoverso», «terzo capoverso», e via dicendo , nel caso di commi non numerati. Qualora i commi introdotti dalla «novella» siano numerati, essi assumono la denominazione caratterizzata dal rispettivo numero cardinale (capoverso 1, capoverso 2, eccetera).
g) Nei riferimenti a partizioni di un articolo non rispondenti ai criteri indicati al numero 7 e al presente numero, non sono usate espressioni diverse da quelle sopra indicate né impiegate le medesime («alinea», «capoverso») con significati diversi da quelli stabiliti al numero 7 e al presente numero. Tali casi sono risolti altrimenti: ad esempio, con citazioni testuali (le parole «...» oppure le parole da «...» a «...» sono sostituite dalle seguenti: «...»).
h) Le citazioni e le «novelle» relative ai codici penali utilizzano, anche nel virgolettato, le denominazioni «comma» e «periodo». Non sono pertanto utilizzate le denominazioni originariamente in uso in tali testi («prima parte» e «capoverso»).
i) Nelle «novelle» è evitata l'utilizzazione di numeri corrispondenti ad articoli o commi abrogati in precedenza.
l) Qualora si intenda sostituire un insieme di articoli o di commi numerati con un numero minore di articoli o di commi, sono sostituiti espressamente gli articoli e i commi in corrispondenza dei quali se ne introducano di nuovi identificati con i medesimi numeri, e sono abrogati gli articoli e i commi cui non corrispondano nuovi articoli o commi con il medesimo numero.
m) Anche quando un'intera partizione superiore all'articolo venga sostituita da una nuova partizione, contenente un numero minore di articoli, gli articoli per i quali non sia previsto un nuovo contenuto testuale sono espressamente abrogati.
n) Qualora i commi di un articolo modificato non siano numerati, non si procede alla sostituzione di un comma con più commi, ovvero alla sostituzione di più commi adiacenti con un comma solo. Ciò per non alterare la sequenza dei commi eventualmente richiamati nello stesso atto o in altri atti.
RACCOMANDAZIONI
L'unità minima del testo da sostituire con una «novella» è preferibilmente il comma (o comunque un periodo, o una lettera di un comma, o un numero contenuto in una lettera), anche quando si tratti di modificare una singola parola o un insieme di parole.
Conviene che ogni norma recante una «novella» ad un determinato atto costituisca un articolo a sé stante, anziché un comma di un articolo recante più «novelle» a diversi atti legislativi.
Le norme recanti «novelle» ad un medesimo testo sono preferibilmente collocate rispettando l'ordine del testo novellato.
Qualora si intendano apportare modificazioni a più commi di uno stesso articolo è opportuno formulare la disposizione nel modo seguente: «All'articolo ... della legge ... sono apportate le seguenti modificazioni:» cui seguono più lettere nell'ambito dello stesso comma , ciascuna delle quali indica le modificazioni a uno o più commi.
Se vi è la necessità di apportare modifiche testuali dello stesso tenore ad uno stesso atto è opportuno usare una formula riassuntiva del tipo: «l'espressione y, ovunque ricorra, è sostituita dalla seguente: z».
10. Numerazione dei commi nelle «novelle».
a) Nella «novella» recante sostituzione integrale di un articolo di un atto legislativo previgente, nel quale i commi sono numerati, i commi del nuovo testo sono ugualmente contrassegnati con numeri cardinali. Se la «novella» sostituisce singoli commi dell'articolo del testo previgente con un pari numero di commi, i commi che costituiscono la «novella» sono contrassegnati con lo stesso numero cardinale dei commi sostituiti.
b) Se la «novella» introduce nuovi commi, anche mediante la sostituzione di singoli commi con un numero maggiore di commi, questi sono contrassegnati con lo stesso numero cardinale del comma dopo il quale sono collocati, integrato con l'avverbio numerale latino bis, ter, quater, e via dicendo. Tale criterio è seguito anche per i commi aggiuntivi inseriti dopo l'ultimo comma o , rispetto all'articolo previgente composto di un comma unico, quando il comma aggiuntivo debba essere inserito dopo detto comma unico.
c) Commi aggiuntivi, inseriti in un testo legislativo previgente i commi del quale non siano numerati, non sono numerati. La numerazione va invece apposta quando la nuova formulazione riguardi non singoli commi soltanto, ma un intero articolo del testo previgente. Tuttavia articoli aggiunti o sostituiti nella Costituzione e nei codici che recano commi non numerati non recano i commi numerati.
d) Per gli atti legislativi i cui articoli recano commi non numerati, i commi aggiuntivi inseriti da successive «novelle» sono citati con il numero ordinale risultante dalla loro collocazione nella nuova sequenza dei commi; in altri termini la numerazione della sequenza originale dei commi si intende modificata in dipendenza dell'aggiunta dei nuovi commi. Uguale criterio è seguito in caso di abrogazione di commi. Pertanto nella citazione dei commi si fa riferimento alla sequenza di essi vigente alla data di entrata in vigore dell'atto legislativo che rinvia ai medesimi.
e) Commi aggiuntivi, inseriti in un testo legislativo previgente i commi del quale siano numerati, che debbano essere collocati prima del comma 1, sono contrassegnati con i numeri «01» , «02», «03», eccetera.
f) I commi che si renda indispensabile inserire tra due commi numerati aggiunti successivamente ad un testo previgente sono contrassegnati con il numero del comma dopo il quale sono inseriti, integrati da un numero cardinale. Il comma inserito tra l'1-bis e l'1-ter diviene quindi 1-bis.1. Il comma inserito tra l'1 e l'1-bis è denominato 1.1. Un ulteriore comma inserito tra l'1.1 e l'1-bis, successivo all'1.1, è indicato come 1.1.1, e così di seguito.
g) Se si devono operare ulteriori modifiche che non possono essere apportate seguendo i criteri fissati nelle lettere precedenti, l'articolo è integralmente sostituito, applicando la regola indicata nel primo periodo della lettera a).
11. Riferimenti normativi interni.
a) Nei riferimenti interni, cioè agli articoli ed ai commi del medesimo atto legislativo che opera il riferimento, la citazione degli articoli è completata con l'espressione «della presente legge» solo quando (e in questo caso l'integrazione diventa obbligatoria) ulteriori riferimenti ad altre fonti normative possano, nel contesto, produrre incertezze interpretative.
b) La medesima regola di cui alla lettera a) si applica alla citazione di un comma all'interno di uno stesso articolo; in questo caso, cioè, l'espressione «del presente articolo» è utilizzata soltanto se ulteriori riferimenti ad altre fonti normative o ad altri articoli possano, nel contesto, produrre incertezza.
c) Nei riferimenti interni a testi recanti la numerazione dei commi, la citazione dei commi stessi è fatta sempre con riferimento al numero cardinale e non con l'uso del numero ordinale.
d) Nei riferimenti interni è sempre evitato l'uso delle espressioni «precedente» e «successivo». Tali espressioni sono superflue, stante la necessità di citare sempre il numero degli articoli o dei commi, e tra l'altro possono determinare problemi di coordinamento e dubbi di individuazione in caso di modifiche successive al testo in oggetto.
12. Riferimenti normativi esterni.
a) Nei riferimenti esterni, cioè ad atti diversi dall'atto legislativo che opera il riferimento, la citazione è fatta con la indicazione della data (giorno, mese, anno) di promulgazione o emanazione della legge o del decreto citato, corredata con il relativo numero e omettendo il titolo dell'atto, salvo quanto previsto alla lettera c). In caso di ripetute citazioni di una stessa legge o decreto, è ammessa – limitatamente peraltro alle citazioni successive alla prima – la semplice indicazione del numero e dell'anno, omettendo il giorno e il mese.
b) Per i riferimenti esterni ad un atto che abbia subito successive modificazioni, effettuati relativamente al testo vigente al momento dell'adozione dell'atto che opera il riferimento, è usata la formula «e successive modificazioni» (omettendo le parole «e integrazioni», che possono essere fonte di equivoci interpretativi) solo quando tali modificazioni riguardino la disposizione richiamata e non altre dello stesso atto in cui la disposizione è collocata. Per evitare possibili dubbi di legittimità costituzionale, ove il riferimento si intenda operato al testo vigente ad una data determinata, tale intento deve risultare in maniera chiara ed inequivoca. Ove si tratti della Costituzione o dei codici, la indicazione «e successive modificazioni» è omessa in quanto il riferimento si intende sempre fatto al testo vigente.
c) I riferimenti contenuti nei provvedimenti in materia tributaria sono fatti indicando anche il contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio (articolo 2, comma 3, della legge n. 212 del 2000).
d) Non sono ammessi i riferimenti a catena (si rinvia all'articolo x che a sua volta rinvia all'articolo y), effettuando il riferimento sempre alla disposizione base.
e) Quando si intende riferirsi a disposizioni modificate, il riferimento è fatto sempre all'atto che ha subito le modifiche e non all'atto modificante.
f) Nei riferimenti esterni a testi recanti commi non numerati la citazione dei commi stessi è fatta sempre con riferimento al numero ordinale. Nel caso in cui l'articolo sia costituito da un unico comma non numerato, il riferimento è fatto all'articolo.
g) Nei riferimenti esterni a testi recanti la numerazione dei commi, la citazione dei commi stessi è fatta sempre con riferimento al numero cardinale e non con l'uso del numero ordinale.
h) È evitata l'espressione «ultimo – penultimo comma» o «ultimi due commi» quando ci si riferisce a commi non numerati.
i) È evitato l'uso delle espressioni: «articoli ... o commi ... e seguenti». È sempre indicato con precisione il numero degli articoli o dei commi cui si intende fare riferimento.
l) Per i decreti convertiti in legge, il riferimento è fatto con la formula: «decreto-legge x, convertito (, con modificazioni ,) dalla legge y».
m) I testi unici o i complessi di disposizioni sono citati con la formula: «testo unico ... (o disposizioni ...) di cui al decreto del Presidente della Repubblica (o altro atto) ...».
n) Il riferimento ai testi unici «misti» previsti dall'articolo 7 della legge n. 50 del 1999 è operato unicamente al decreto del Presidente della Repubblica (cosiddetto testo A) contenente sia le disposizioni legislative sia quelle regolamentari. Nella citazione sono omesse le indicazioni (L o R) poste in calce a ciascun comma o a fianco della intestazione di ciascun articolo.
o) I regolamenti governativi e ministeriali sono citati con l'esplicita menzione del termine «regolamento» che individua la natura dell'atto e con la formula: «regolamento di cui al ...».
p) Per i decreti e gli altri atti non numerati comunque pubblicati nella Gazzetta Ufficiale, sono indicati, oltre all'organo emanante e alla data (giorno, mese, anno) di emanazione, anche il numero e la data (giorno, mese, anno) della Gazzetta Ufficiale in cui l'atto è stato pubblicato.
q) I decreti ministeriali o interministeriali non sono richiamati in modo innominato, ma con la indicazione specifica del Ministro o dei Ministri che li hanno emanati, omettendo gli eventuali Ministri «concertati».
r) I riferimenti alle direttive e ai regolamenti comunitari sono fatti con le formule: «direttiva 95/337/CEE del Consiglio (o altro organo emanante), del 27 luglio 1995»; «regolamento (CEE) n. 737/ 95 del Consiglio (o altro organo emanante), del 26 aprile 1995». La sigla CEE è sostituita da CE per gli atti adottati dopo l'entrata in vigore del trattato di Maastricht(1° novembre 1993). Dal
s) I riferimenti ad accordi internazionali sono fatti con la seguente formula: «Accordo firmato a ... il ...» integrata, sulla base dei dati a disposizione, da una delle seguenti formule: 1) «ratificato ai sensi della legge ...»; 2) «la cui ratifica è stata autorizzata dalla legge ...»; 3) «reso esecutivo ai sensi della (oppure "di cui alla") legge ...».
t) Quando è necessario citare partizioni di atti comunitari o internazionali è seguita la terminologia adoperata in tali testi.
RACCOMANDAZIONI
Le partizioni dell'atto normativo sono citate, preferibilmente, in ordine decrescente e separate da virgole (esempio: «articolo 1, comma 2, lettera b»).
Le partizioni di livello superiore all'articolo nella loro interezza sono citate, preferibilmente, in ordine decrescente, a partire dalla partizione di livello più alto (esempio: «titolo I, capo II, sezione I»).
È opportuno evitare, nei riferimenti, il rinvio ad altre disposizioni operato con l'espressione: «in quanto compatibili».
13. Allegati.
a) Tabelle, quadri, prospetti, elenchi, eccetera, non sono inseriti nel testo degli articoli né in allegato ad essi, ma in allegato al testo legislativo, dopo l'ultimo articolo. All'inizio di ciascun allegato è citato l'articolo (o il primo articolo) che rinvia all'allegato stesso (tranne che nel caso di allegato contenente le modificazioni apportate in sede di conversione a decreti-legge). Gli allegati non contengono nelle note esplicative ulteriori disposizioni sostanziali, che devono invece trovare collocazione nell'articolato.
14. Abbreviazioni e sigle.
a) Le abbreviazioni (troncamento della parte finale della parola o di altre parti che compongono la parola) sono escluse dal testo degli atti legislativi, con la sola eccezione dell'abbreviazione della parola: «Articolo» in «ART.» , ma limitatamente alla intestazione di ciascun articolo.
b) Se un ente, un organo o un qualunque istituto (ad esempio: imposta sul valore aggiunto; valutazione di impatto ambientale) è citato ripetutamente nel medesimo atto legislativo, è ammesso che, dopo la prima citazione (recante la denominazione per esteso e la sigla tra parentesi), le successive siano effettuate con la sola sigla.
c) Anche al fine di agevolare la ricerca informatica, le lettere che compongono la sigla non sono separate da punti.
15. Vigenza dell'atto legislativo ed efficacia di singole disposizioni.
a) Occorre distinguere fra data di entrata in vigore dell'atto legislativo nel suo complesso e decorrenza dell'efficacia di sue singole disposizioni. Nel primo caso è usata l'espressione: «La presente legge entra in vigore il ...». Nel secondo caso è usata la seguente diversa espressione: «Le disposizioni dell'articolo x hanno effetto a decorrere da ...».
b) Il termine iniziale per le ipotesi di diversa decorrenza di singole disposizioni è individuato in date certe (la pubblicazione e, preferibilmente, l'entrata in vigore) e non in date più difficilmente note alla generalità (l'approvazione, la promulgazione o l'emanazione).
c) La data da cui decorre la cessazione dell'applicazione o l'abrogazione di determinate disposizioni è definita ricorrendo a riferimenti temporali individuabili con certezza.
d) Se si intende fare rivivere una disposizione abrogata o modificata occorre specificare espressamente tale intento.
Sede, 20 aprile 2001
Il Presidente
VIOLANTE
Articolo 13-bis (Chiarezza dei testi normativi)
1. Il Governo, nell'ambito delle proprie competenze, provvede a che:
a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate;
b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo ovvero la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento o il principio, contenuto nelle norme cui si rinvia, che esse intendono richiamare.
2. Le disposizioni della presente legge in materia di chiarezza dei testi normativi costituiscono princìpi generali per la produzione normativa e non possono essere derogate, modificate o abrogate se non in modo esplicito.
3. Periodicamente, e comunque almeno ogni sette anni, si provvede all'aggiornamento dei codici e dei testi unici con i medesimi criteri e procedure previsti nell'articolo 17-bis adottando, nel corpo del testo aggiornato, le opportune evidenziazioni.
4. La Presidenza del Consiglio dei ministri adotta atti di indirizzo e coordinamento per assicurare che gli interventi normativi incidenti sulle materie oggetto di riordino, mediante l'adozione di codici e di testi unici, siano attuati esclusivamente mediante modifica o integrazione delle disposizioni contenute nei corrispondenti codici e testi unici (30).
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(30) Articolo aggiunto dal comma 1 dell'art. 3, L. 18 giugno 2009, n. 69. Vedi, anche, la Dir. Stato 4 maggio 2010. In deroga alle disposizioni del presente articolo vedi l'art. 18, comma 2, D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 177.
Articolo 14 (Decreti legislativi)
1. I decreti legislativi adottati dal Governo ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione sono emanati dal Presidente della Repubblica con la denominazione di «decreto legislativo» e con l'indicazione, nel preambolo, della legge di delegazione, della deliberazione del Consiglio dei ministri e degli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione.
3. Se la delega legislativa si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina, il Governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più degli oggetti predetti. In relazione al termine finale stabilito dalla legge di delegazione, il Governo informa periodicamente le Camere sui criteri che segue nell'organizzazione dell'esercizio della delega.
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Articolo 15 (Decreti-legge)
1. I provvedimenti provvisori con forza di legge ordinaria adottati ai sensi dell'articolo 77 della Costituzione sono presentati per l'emanazione al Presidente della Repubblica con la denominazione di «decreto-legge» e con l'indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l'adozione, nonché dell'avvenuta deliberazione del Consiglio dei ministri.
2. Il Governo non può, mediante decreto-legge:
a) conferire deleghe legislative ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione;
b) provvedere nelle materie indicate nell'articolo 72, quarto comma, della Costituzione;
c) rinnovare le disposizioni di decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due Camere;
d) regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti;
e) ripristinare l'efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non attinenti al procedimento.
3. I decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.
4. Il decreto-legge è pubblicato, senza ulteriori adempimenti, nella Gazzetta Ufficiale immediatamente dopo la sua emanazione e deve contenere la clausola di presentazione al Parlamento per la conversione in legge.
5. Le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest'ultima non disponga diversamente. Esse sono elencate in allegato alla legge.
6. Il Ministro di grazia e giustizia cura che del rifiuto di conversione o della conversione parziale, purché definitiva, nonché della mancata conversione per decorrenza del termine sia data immediata pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
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Articolo 17 (Regolamenti)
Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato che deve pronunziarsi entro novanta giorni dalla richiesta, possono essere emanati regolamenti per disciplinare:
a) l'esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi, nonché dei regolamenti comunitari;
b) l'attuazione e l'integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;
c) le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge;
d) l'organizzazione ed il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge;
e) [l'organizzazione del lavoro ed i rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti in base agli accordi sindacali]
2. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l'esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l'abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall'entrata in vigore delle norme regolamentari.
3. Con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del ministro o di autorità sottordinate al ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere. Tali regolamenti, per materie di competenza di più ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge. I regolamenti ministeriali ed interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo. Essi debbono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei ministri prima della loro emanazione.
4. I regolamenti di cui al comma 1 ed i regolamenti ministeriali ed interministeriali, che devono recare la denominazione di «regolamento», sono adottati previo parere del Consiglio di Stato, sottoposti al visto ed alla registrazione della Corte dei conti e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale.
4-bis. L'organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri sono determinate, con regolamenti emanati ai sensi del comma 2, su proposta del Ministro competente d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri e con il Ministro del tesoro, nel rispetto dei princìpi posti dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, con i contenuti e con l'osservanza dei criteri che seguono:
a) riordino degli uffici di diretta collaborazione con i Ministri ed i Sottosegretari di Stato, stabilendo che tali uffici hanno esclusive competenze di supporto dell'organo di direzione politica e di raccordo tra questo e l'amministrazione;
b) individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, centrali e periferici, mediante diversificazione tra strutture con funzioni finali e con funzioni strumentali e loro organizzazione per funzioni omogenee e secondo criteri di flessibilità eliminando le duplicazioni funzionali;
c) previsione di strumenti di verifica periodica dell'organizzazione e dei risultati;
d) indicazione e revisione periodica della consistenza delle piante organiche;
e) previsione di decreti ministeriali di natura non regolamentare per la definizione dei compiti delle unità dirigenziali nell'ambito degli uffici dirigenziali generali.
Articolo 17-bis (Testi unici compilativi)
1. Il Governo provvede, mediante testi unici compilativi, a raccogliere le disposizioni aventi forza di legge regolanti materie e settori omogenei, attenendosi ai seguenti criteri:
a) puntuale individuazione del testo vigente delle norme;
b) ricognizione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni;
c) coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti in modo da garantire la coerenza logica e sistematica della normativa;
d) ricognizione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restano comunque in vigore.
2. Lo schema di ciascun testo unico è deliberato dal Consiglio dei ministri, valutato il parere che il Consiglio di Stato deve esprimere entro quarantacinque giorni dalla richiesta. Ciascun testo unico è emanato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa ulteriore deliberazione del Consiglio dei ministri.
3. Il Governo può demandare la redazione degli schemi di testi unici ai sensi dell'articolo 14, numero 2°(gradi), del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, di cui al regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, al Consiglio di Stato, che ha facoltà di avvalersi di esperti, in discipline non giuridiche, in numero non superiore a cinque, nell'ambito dei propri ordinari stanziamenti di bilancio e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato. Sugli schemi redatti dal Consiglio di Stato non è acquisito il parere dello stesso, previsto ai sensi dell'articolo 16, primo comma, numero 3°(gradi), del citato testo unico di cui al regio decreto n. 1054 del 1924, dell'articolo 17, comma 25, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e del comma 2 del presente articolo (39).
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(39) Articolo aggiunto dal comma 2 dell'art. 5, L. 18 giugno 2009, n. 69.
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Articolo 1 (Princìpi generali)
1. Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono princìpi generali dell'ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali.
3. Le regioni a statuto ordinario regolano le materie disciplinate dalla presente legge in attuazione delle disposizioni in essa contenute; le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, ad adeguare i rispettivi ordinamenti alle norme fondamentali contenute nella medesima legge.
4. Gli enti locali provvedono, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, ad adeguare i rispettivi statuti e gli atti normativi da essi emanati ai princìpi dettati dalla presente legge.
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Articolo 2 (Chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie)
1. Le leggi e gli altri atti aventi forza di legge che contengono disposizioni tributarie devono menzionarne l'oggetto nel titolo; la rubrica delle partizioni interne e dei singoli articoli deve menzionare l'oggetto delle disposizioni ivi contenute.
2. Le leggi e gli atti aventi forza di legge che non hanno un oggetto tributario non possono contenere disposizioni di carattere tributario, fatte salve quelle strettamente inerenti all'oggetto della legge medesima.
3. I richiami di altre disposizioni contenuti nei provvedimenti normativi in materia tributaria si fanno indicando anche il contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio.
4. Le disposizioni modificative di leggi tributarie debbono essere introdotte riportando il testo conseguentemente modificato.
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Articolo 3 (Efficacia temporale delle norme tributarie)
1. Salvo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono.
3. I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati
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Articolo 14 (Semplificazione della legislazione)
4. La verifica dell'impatto della regolamentazione (VIR) consiste nella valutazione, anche periodica, del raggiungimento delle finalità e nella stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull'organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni.
5. Con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definiti entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge:
a)
i criteri generali e le procedure dell'AIR, compresa la fase della consultazione;
b)
le tipologie sostanziali, i casi e le modalità di esclusione dell'AIR;
c)
i criteri generali e le procedure, nonché l'individuazione dei casi di effettuazione della VIR;
d)
i criteri ed i contenuti generali della relazione al Parlamento di cui al comma 10.
6. I metodi di analisi e i modelli di AIR, nonché i metodi relativi alla VIR, sono adottati con direttive del Presidente del Consiglio dei ministri e sono sottoposti a revisione, con cadenza non superiore al triennio.
8. Il DAGL assicura il coordinamento delle amministrazioni in materia di AIR e di VIR. Il DAGL, su motivata richiesta dell'amministrazione interessata, può consentire l'eventuale esenzione dall'AIR.
9. Le amministrazioni, nell'àmbito della propria autonomia organizzativa e senza oneri aggiuntivi, individuano l'ufficio responsabile del coordinamento delle attività connesse all'effettuazione dell'AIR e della VIR di rispettiva competenza. Nel caso non sia possibile impiegare risorse interne o di altri soggetti pubblici, le amministrazioni possono avvalersi di esperti o di società di ricerca specializzate, nel rispetto della normativa vigente e, comunque, nei limiti delle disponibilità finanziarie.
10. Entro il 31 marzo di ogni anno, le amministrazioni comunicano al DAGL i dati e gli elementi informativi necessari per la presentazione al Parlamento, entro il 30 aprile, della relazione annuale del Presidente del Consiglio dei ministri sullo stato di applicazione dell'AIR.
11. È abrogato l'articolo 5, comma 1, della legge 8 marzo 1999, n. 50.
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Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 10 settembre 2008 sull’ATN
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(1).Tempi e modalità di effettuazione dell'analisi tecnico-normativa (ATN). (2)
(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 18 settembre 2008, n. 219.
(2) Emanata dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
IL PRESIDENTE
DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Vista la legge 23 agosto 1988, n. 400, recante la disciplina dell'attività di Governo e l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e successive modificazioni; (3)
Vista la legge 28 novembre 2005, n. 246, recante «Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005», e successive modificazioni e, in particolare, l'art. 14;
Visto l'art. 5, comma 2, della legge 8 marzo 1999, n. 50, recante «Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - legge di semplificazione 1998», e successive modificazioni;
Visto l'art. 6 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, recante «Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell'art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59»;
Vista la direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 marzo 2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio
Vista la direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 21 settembre 2001, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 249 del 25 ottobre 2001 sulla sperimentazione dell'analisi di impatto della regolamentazione sui cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni;
Visto l'art. 11, comma 2, della legge 6 luglio 2002, n. 137, recante «Delega per la riforma dell'organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici», e successive modificazioni;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 luglio 2002, recante «Ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei Ministri», ed in particolare l'art. 17;
Visto il decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 marzo 2006, n. 80, recante «Misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione» e, in particolare, l'art. 1, che ha previsto l'istituzione del Comitato interministeriale di indirizzo e guida strategica per le politiche di semplificazione e la qualità della regolazione;
Visto il decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, recante «Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri», e successive modificazioni, e in particolare l'art. 1, comma 22-bis, che ha previsto l'istituzione dell'Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 12 settembre 2006, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 255 del 2 novembre 2006, con il quale è stato costituito il Comitato interministeriale di indirizzo e guida strategica per le politiche di semplificazione e la qualità della regolazione;
Visti i successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri 12 settembre 2006 e 5 dicembre 2006, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale n. 23 del 29 gennaio 2007, con i quali è stata costituita l'Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione, denominata «Unità»;
Visto l'accordo fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, le province, i comuni e le comunità montane in materia di semplificazione e miglioramento della qualità della regolamentazione del 29 marzo 2007;
Visto il piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 15 giugno 2007;
Vista la relazione al Parlamento sullo stato di attuazione dell'AIR, trasmessa dal Presidente del Consiglio dei Ministri al Parlamento il 13 luglio 2007, ai sensi dell'art. 14, comma 10, della legge n. 246 del 2005;
Vista la deliberazione del Comitato interministeriale di indirizzo e guida strategica per le politiche di semplificazione e la qualità della regolazione, adottata nella riunione del 29 novembre 2007;
Considerata l'opportunità di aggiornare, nell'ambito dell'attività del Governo, gli strumenti normativi volti alla verifica dell'incidenza della normativa in via di adozione sull'ordinamento giuridico vigente;
Considerata la necessità, in particolare, di ridefinire e rendere più efficace la disciplina relativa alla «Relazione tecnico-normativa» contenuta nella direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 marzo 2000, anche al fine di tenere conto delle modifiche costituzionali intervenute con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e di dare maggiore rilievo, nell'attività normativa, ai profili comunitari e internazionali;
Emana
la seguente direttiva:
(3) Capoverso così corretto da Comunicato 6 dicembre 2008, pubblicato nella G.U. 6 dicembre 2008, n. 286.
[Testo della direttiva]
1. La presente direttiva definisce tempi e modalità di effettuazione dell'analisi tecnico-normativa (ATN) sostituendo la precedente direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 marzo 2000 relativa all'analisi tecnico-normativa e all'analisi dell'impatto della regolamentazione.
6. La relazione è accompagnata dall'indicazione del referente dell'amministrazione proponente cui è possibile segnalare l'opportunità di eventuali correzioni e/o integrazioni della relazione ATN prima della discussione del provvedimento.
8. Per i regolamenti di cui all'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, le relazioni sono trasmesse alla Presidenza del Consiglio dalle amministrazioni competenti all'atto della comunicazione.
9. La relazione contenente l'ATN è redatta secondo lo schema di cui alla scheda A allegata alla presente direttiva che sostituisce lo schema allegato alla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 marzo 2000.
10. Conformemente alla griglia metodologica allegata, la relazione contenente l'ATN rappresenta, unitamente alle altre relazioni previste a corredo degli atti normativi, uno strumento idoneo a supportare la qualità della regolazione e ad assicurare la trasparenza nell'iter di proposta, modifica e approvazione dei provvedimenti normativi del Governo.
a) l'individuazione della effettiva necessità dell'intervento normativo, al fine di prevenire l'iter di eventuali atti normativi non necessari;
b) la conformità alla Costituzione, prevenendo possibili censure di legittimità costituzionale e riducendo al minimo la possibilità di incertezza giuridica conseguente alla pendenza di giudizi di costituzionalità;
c) che la normativa si inserisca in modo coerente e sistematico nel quadro giuridico vigente;
d) il rispetto delle competenze delle regioni e delle autonomie territoriali;
e) l'utilizzo diffuso, ove possibile, degli strumenti di semplificazione;
f) il coordinamento con altre eventuali iniziative normative all'esame del Parlamento sul medesimo o analogo oggetto;
g) la compatibilità dell'intervento con l'ordinamento comunitario, anche alla luce della giurisprudenza e di eventuali giudizi pendenti sul medesimo o analogo oggetto, e con gli obblighi internazionali;
h) il miglioramento della posizione italiana nell'ambito delle procedure d'infrazione azionabili da parte della Commissione Europea nonché dei giudizi di condanna della Corte europea dei Diritti dell'uomo;
i) la sistematica e uniforme applicazione delle regole di redazione normativa, anche con riferimento alla correttezza delle definizioni e dei riferimenti normativi e alla corretta applicazione delle tecniche di modificazione e abrogazione delle disposizioni vigenti;
l) l'incidenza positiva del provvedimento sul corretto funzionamento concorrenziale del mercato, sull'ampliamento delle libertà dei soggetti dell'ordinamento giuridico, sui processi di liberalizzazione e restituzione delle attività, anche economiche ed imprenditoriali, ai meccanismi della società aperta.
13. Le amministrazioni possono richiedere il supporto tecnico del DAGL nella redazione dell'ATN in tutte le relative fasi.
14. Se il DAGL ritiene carente o insufficiente l'ATN, restituisce lo schema all'amministrazione proponente con le osservazioni e indicazioni operative cui attenersi nella redazione, integrazione o rettifica. In ogni caso, la carenza o l'insufficienza dell'ATN precludono l'iscrizione del provvedimento alla riunione preparatoria del Consiglio dei Ministri e sono comunque rilevate e segnalate dal DAGL al Presidente del Consiglio dei Ministri, prima della discussione dello schema in Consiglio dei Ministri o, in caso di regolamento di cui all'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, prima della sua adozione.
16. Il DAGL effettua il monitoraggio sul recepimento e sullo stato di attuazione delle disposizioni della presente direttiva, anche con riferimento alla predisposizione della relazione annuale al Parlamento del Presidente del Consiglio in materia di AIR ai sensi dell'art. 14, comma 10 della legge n. 246/2005, e può trasmettere alle amministrazioni raccomandazioni e note esplicative volte a supportarne l'attuazione.
Allegato A
Griglia metodologica per la stesura della relazione tecnico-normativa
[] Amministrazione proponente: ..............................................
[] Titolo: ...................................................................................
[] Indicazione del referente dell'amministrazione proponente (nome, qualifica, recapiti): ...............................................................
PARTE I. ASPETTI TECNICO-NORMATIVI DI DIRITTO INTERNO
1) Obiettivi e necessità dell'intervento normativo. Coerenza con il programma di governo.
2) Analisi del quadro normativo nazionale.
3) Incidenza delle norme proposte sulle leggi e i regolamenti vigenti.
4) Analisi della compatibilità dell'intervento con i principi costituzionali.
5) Analisi delle compatibilità dell'intervento con le competenze e le funzioni delle regioni ordinarie e a statuto speciale nonché degli enti locali.
6) Verifica della compatibilità con i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza sanciti dall'articolo 118, primo comma, della Costituzione.
7) Verifica dell'assenza di rilegificazioni e della piena utilizzazione delle possibilità di delegificazione e degli strumenti di semplificazione normativa.
8) Verifica dell'esistenza di progetti di legge vertenti su materia analoga all'esame del Parlamento e relativo stato dell'iter.
9) Indicazioni delle linee prevalenti della giurisprudenza ovvero della pendenza di giudizi di costituzionalità sul medesimo o analogo oggetto.
PARTE II. CONTESTO NORMATIVO COMUNITARIO E INTERNAZIONALE
10) Analisi della compatibilità dell'intervento con l'ordinamento comunitario.
11) Verifica dell'esistenza di procedure di infrazione da parte della Commissione Europea sul medesimo o analogo oggetto.
12) Analisi della compatibilità dell'intervento con gli obblighi internazionali.
13) Indicazioni delle linee prevalenti della giurisprudenza ovvero della pendenza di giudizi innanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità europee sul medesimo o analogo oggetto.
14) Indicazioni delle linee prevalenti della giurisprudenza ovvero della pendenza di giudizi innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'uomo sul medesimo o analogo oggetto.
15) Eventuali indicazioni sulle linee prevalenti della regolamentazione sul medesimo oggetto da parte di altri Stati membri dell'Unione Europea.
PARTE III. ELEMENTI DI QUALITA' SISTEMATICA E REDAZIONALE DEL TESTO
1) Individuazione delle nuove definizioni normative introdotte dal testo, della loro necessità, della coerenza con quelle già in uso.
2) Verifica della correttezza dei riferimenti normativi contenuti nel progetto, con particolare riguardo alle successive modificazioni ed integrazioni subite dai medesimi.
3) Ricorso alla tecnica della novella legislativa per introdurre modificazioni ed integrazioni a disposizioni vigenti.
4) Individuazione di effetti abrogativi impliciti di disposizioni dell'atto normativo e loro traduzione in norme abrogative espresse nel testo normativo.
5) Individuazione di disposizioni dell'atto normativo aventi effetto retroattivo o di reviviscenza di norme precedentemente abrogate o di interpretazione autentica o derogatorie rispetto alla normativa vigente.
6) Verifica della presenza di deleghe aperte sul medesimo oggetto, anche a carattere integrativo o correttivo.
7) Indicazione degli eventuali atti successivi attuativi; verifica della congruenza dei termini previsti per la loro adozione.
8) Verifica della piena utilizzazione e dell'aggiornamento di dati e di riferimenti statistici attinenti alla materia oggetto del provvedimento, ovvero indicazione della necessità di commissionare all'Istituto nazionale di statistica apposite elaborazioni statistiche con correlata indicazione nella relazione economico-finanziaria della sostenibilità dei relativi costi.
D.P.C.M. 15 settembre 2017, n. 169. Regolamento recante disciplina sull'analisi dell'impatto della regolamentazione, la verifica dell'impatto della regolamentazione e la consultazione. |
(1) Pubblicato nella Gazz. Uff. 30 novembre 2017, n. 280.
IL PRESIDENTE
DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Visto l'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, recante la disciplina dell'attività di Governo e l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, e successive modificazioni;
Visto l'articolo 5, comma 2, della legge 8 marzo 1999, n. 50, recante «Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998», e successive modificazioni;
Visto l'articolo 6 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, recante «Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59»;
Visto l'articolo 11, comma 2, della legge 6 luglio 2002, n. 137, recante «Delega per la riforma dell'organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei ministri, nonché di enti pubblici», e successive modificazioni;
Vista la legge 28 novembre 2005, n. 246, recante «Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005», e successive modificazioni e, in particolare, l'articolo 14, comma 5, il quale prevede che con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definiti: a) i criteri generali e le procedure dell'AIR, compresa la fase della consultazione; b) le tipologie sostanziali, i casi e le modalità di esclusione dell'AIR; c) i criteri generali e le procedure, nonché l'individuazione dei casi di effettuazione della VIR; d) i criteri e i contenuti generali della relazione al Parlamento di cui al comma 10;
Vista la legge 11 novembre 2011, n. 180, recante «Norme per la tutela della libertà d'impresa. Statuto delle imprese»;
Visto l'articolo 1 della legge 17 maggio 1999, n. 144, recante «Misure in materia di investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all'occupazione e della normativa che disciplina l'INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali»;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1°
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11 settembre 2008, n. 170 «Regolamento recante disciplina attuativa dell'analisi dell'impatto della regolamentazione (AIR), ai sensi dell'articolo 14, comma 5, della legge 28 novembre 2005, n. 246»;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 novembre 2009, n. 212 «Regolamento recante disciplina attuativa della verifica dell'impatto della regolamentazione (VIR), ai sensi dell'articolo 14, comma 5, della legge 28 novembre 2005, n. 246»;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21 dicembre 2012, n. 262, «Regolamento recante disciplina dei nuclei istituiti presso le amministrazioni centrali dello Stato con la funzione di garantire il supporto tecnico alla programmazione, alla valutazione e al monitoraggio degli interventi pubblici», e in particolare l'articolo 5;
Vista la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 febbraio 2009 «Istruttoria degli atti normativi del Governo», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 82 dell'8 aprile 2009;
Vista la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 16 gennaio 2013, «Disciplina sul rispetto dei livelli minimi di regolazione previsti dalle direttive europee, nonché aggiornamento del modello di relazione AIR, ai sensi dell'articolo 14, comma 6, della legge 28 novembre 2005, n. 246», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 12 aprile 2013;
Visto l'accordo fra Governo, regioni e autonomie locali in materia di semplificazione e miglioramento della qualità della regolamentazione, ai sensi dell'articolo 9, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Rep. Atti n. 23/CU), del 29 marzo 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2007;
Visto l'accordo interistituzionale «Legiferare meglio» tra il Parlamento europeo, il Consiglio dell'Unione europea e la Commissione europea del 13 aprile 2016;
Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso dalla Sezione consultiva per gli atti normativi nell'adunanza del 7 giugno 2017;
ADOTTA
il seguente regolamento:
Capo I
Disposizioni di carattere generale
Art. 1. Oggetto e destinatari della disciplina regolamentare
1. Il presente regolamento disciplina le procedure e le modalità di effettuazione dell'analisi dell'impatto della regolamentazione (AIR) e della verifica dell'impatto della regolamentazione (VIR), nonché delle correlate fasi di consultazione, ai sensi dell'articolo 14, comma 5, della legge 28 novembre 2005, n. 246 e successive modificazioni.
2. Il presente regolamento si applica alle Amministrazioni statali, di seguito Amministrazioni, ad esclusione delle autorità amministrative indipendenti.
Art. 2. Obiettivi e articolazione delle attività di analisi e verifica dell'impatto, nonché di consultazione
1. AIR, VIR e consultazione sono strumenti che, tra loro integrati, concorrono alla qualità del processo normativo, dall'individuazione dei fabbisogni e delle priorità, all'ideazione degli interventi, alla loro attuazione, sino alla loro revisione, secondo un approccio circolare alla regolamentazione.
2. AIR, VIR e consultazione coadiuvano le scelte dell'organo politico di vertice dell'Amministrazione e contribuiscono alla loro trasparenza.
3. Obiettivo dell'AIR è quello di offrire, nel corso dell'istruttoria normativa, attraverso un percorso trasparente di analisi, basato sull'evidenza empirica, un supporto informativo in merito all'opportunità e ai contenuti dell'intervento normativo. L'AIR è riservata ad iniziative normative di impatto significativo su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni.
4. Nello svolgimento dell'AIR, le Amministrazioni procedono all'individuazione e alla comparazione di opzioni di regolamentazione alternative, inclusa quella di non intervento, valutandone la fattibilità e gli effetti previsti.
5. Obiettivo della VIR è quello di fornire, attraverso un percorso trasparente di valutazione, un supporto informativo, basato sull'evidenza empirica, in merito alla perdurante utilità, all'efficacia e all'efficienza di norme vigenti di impatto significativo su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, al fine di confermare o correggere le politiche adottate, proponendo interventi di integrazione, modifica o abrogazione.
6. Nello svolgimento della VIR, le Amministrazioni procedono, anche in assenza di una precedente AIR, alla comparazione della situazione sociale ed economica attuale con quella esistente all'epoca della formulazione delle norme, nonché alla valutazione degli effetti rilevati in relazione a quelli attesi.
7. Per le attività di AIR e di VIR, le Amministrazioni, nei limiti delle risorse disponibili, istituiscono apposite unità organizzative, in attuazione dell'articolo 14, comma 9, della legge 28 novembre 2005, n. 246, che assicurino un'adeguata capacità di acquisizione di dati e il possesso di professionalità per l'applicazione dei metodi di analisi di cui all'articolo 3, inclusa la gestione delle fasi di consultazione e di monitoraggio, coinvolgendo le strutture competenti nelle materie di volta in volta oggetto delle iniziative di regolamentazione, nonché altre amministrazioni ed enti pubblici in possesso di informazioni rilevanti ai fini delle procedure valutative. La direttiva di cui all'articolo 3, comma 1, contiene indicazioni sull'organizzazione delle funzioni di valutazione nelle Amministrazioni.
8. Competente a svolgere l'AIR e la VIR è l'Amministrazione proponente il provvedimento normativo. Per gli atti normativi che coinvolgono più Amministrazioni, gli uffici competenti effettuano in comune l'AIR e la VIR, fermo restando quanto previsto dall'articolo 5, comma 2 e dall'articolo 12, comma 5.
9. In materia di AIR, di VIR e delle relative attività di consultazione, il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri, di seguito DAGL, verifica la qualità dei processi valutativi e delle relazioni che li rendicontano, fornisce supporto metodologico e promuove il rafforzamento delle competenze del personale e delle capacità istituzionali delle Amministrazioni, è referente unico delle Amministrazioni per i rapporti in ambito interno, europeo e internazionale.
10. Per le attività di cui al comma 9, il DAGL si avvale del Nucleo istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'articolo 1 della legge 17 maggio 1999, n. 144, le cui valutazioni sono pubblicate sul sito istituzionale del Governo contestualmente alle corrispondenti relazioni AIR e VIR.
Art. 3. Metodi di analisi e modelli di relazioni AIR e VIR
1. Con direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'articolo 14, comma 6, della legge 28 novembre 2005, n. 246, sono indicate le tecniche di analisi e di valutazione e determinati i modelli di relazione da utilizzare per l'AIR e per la VIR, anche con riguardo alle fasi di consultazione e di monitoraggio.
2. In sede di Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in attuazione dell'articolo 2, comma 3, della legge 29 luglio 2003, n. 229, sono definite forme di cooperazione su tecniche, modelli e procedure di analisi e verifica dell'impatto della regolamentazione, nonché in materia di scambio di esperienze, di messa a disposizione di strumenti e di basi informative, di procedure di valutazione congiunta, riferite anche alla regolazione europea.
Art. 4. Programmazione dell'attività normativa
1. Ciascuna Amministrazione, entro il 30 giugno e il 31 dicembre, comunica al Sottosegretario di Stato con funzioni di Segretario del Consiglio dei ministri, per il tramite del DAGL, il Programma normativo semestrale, che contiene l'elenco delle iniziative normative previste nel semestre successivo, fatti salvi i casi di necessità ed urgenza, indicando per ciascuna di esse:
a) una sintetica descrizione dell'oggetto e degli obiettivi;
b) la sussistenza di eventuali cause di esclusione dall'AIR, esplicitandone le motivazioni;
c) le procedure di consultazione programmate.
2. Ai fini dell'istruttoria normativa il Programma indica altresì:
a) le Amministrazioni coinvolte nel procedimento;
b) i pareri da acquisire, inclusi quelle delle autorità indipendenti;
c) gli eventuali termini legislativamente previsti per l'adozione dell'atto.
3. Il DAGL verifica la sussistenza delle cause di esclusione indicate nel Programma normativo e, qualora ritenga che le stesse non sussistano, ne dà comunicazione all'Amministrazione.
4. Le iniziative normative previste, il cui procedimento di formazione e presentazione non si sia concluso nel semestre, vengono, a cura dell'Amministrazione proponente, riportate al semestre successivo aggiornandone i termini.
5. Eventuali modifiche al Programma normativo nel corso del semestre di riferimento sono comunicate tempestivamente al Sottosegretario di Stato con funzioni di Segretario del Consiglio dei ministri, per il tramite del DAGL.
6. I Programmi normativi, comunicati ai sensi del comma 1, e le eventuali modifiche, sono pubblicati sul sito istituzionale del Governo e sui siti delle rispettive Amministrazioni proponenti.
Capo II
Analisi dell'impatto della regolamentazione
Art. 5. Ambito di applicazione dell'AIR
1. La disciplina dell'AIR si applica agli atti normativi del Governo, compresi gli atti normativi adottati dai singoli Ministri, i provvedimenti normativi interministeriali e i disegni di legge di iniziativa governativa.
2. Per interventi normativi che riguardano diversi settori o materie, l'AIR è svolta distintamente per ciascun settore o materia. In tal caso, l'Amministrazione proponente redige la relazione AIR generale che si compone delle singole relazioni AIR settoriali o per materia. Per interventi normativi proposti congiuntamente da due o più Amministrazioni, l'AIR è svolta dalle amministrazioni co-proponenti per i rispettivi profili di competenza. Le stesse amministrazioni provvedono a redigere un'unica relazione AIR.
Art. 6. Casi di esclusione dell'AIR
1. L'AIR è esclusa con riguardo a:
a) disegni di legge costituzionale;
b) norme di attuazione degli statuti delle Regioni a statuto speciale;
c) disposizioni direttamente incidenti su interessi fondamentali in materia di sicurezza interna ed esterna dello Stato;
d) disegni di legge di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali;
e) norme di mero recepimento di disposizioni recate da accordi internazionali ratificati;
f) leggi di approvazione di bilanci e rendiconti generali;
g) testi unici meramente compilativi;
h) provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 17, commi 4-bis e 4-ter, della legge 23 agosto 1988, n. 400 e successive modificazioni.
2. L'Amministrazione proponente, laddove non abbia indicato la sussistenza di una causa di esclusione dall'AIR nel Programma normativo, la comunica al DAGL almeno trenta giorni prima della richiesta di iscrizione del provvedimento all'ordine del giorno della riunione preparatoria del Consiglio dei ministri. Tale termine può essere ridotto su richiesta dell'Amministrazione per motivate ragioni di urgenza.
3. Il DAGL verifica la sussistenza della causa di esclusione e, qualora ritenga che la stessa non sussista per la valutata non riconducibilità del provvedimento in tutto o in parte alle materie di cui al comma 1, chiede l'effettuazione dell'AIR, subordinando all'acquisizione della relazione AIR l'iscrizione del provvedimento all'ordine del giorno della riunione preparatoria del Consiglio dei ministri.
4. In caso di esclusione dell'AIR, ove sia richiesto dalle Commissioni parlamentari o dal Consiglio dei ministri, la relazione illustrativa che accompagna il provvedimento viene integrata con l'indicazione degli impatti attesi su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, nonché della comparazione delle eventuali opzioni regolatorie considerate.
Art. 7. Richiesta di esenzione dall'AIR
1. L'Amministrazione proponente, in attuazione della disposizione di cui all'articolo 2, comma 3, richiede al DAGL l'esenzione dall'AIR in relazione al ridotto impatto dell'intervento, in presenza delle seguenti condizioni, congiuntamente considerate:
a) costi di adeguamento attesi di scarsa entità in relazione ai singoli destinatari, tenuto anche conto della loro estensione temporale;
b) numero esiguo dei destinatari dell'intervento;
c) risorse pubbliche impiegate di importo ridotto;
d) limitata incidenza sugli assetti concorrenziali del mercato.
2. I regolamenti da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, possono essere esentati dall'AIR, in ragione del ridotto impatto dell'intervento, con dichiarazione a firma del Ministro, da allegare alla richiesta di parere al Consiglio di Stato ed alla comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988.
3. L'esenzione di cui al comma 1 può essere richiesta anche con riferimento a specifici aspetti della disciplina.
4. La richiesta di esenzione reca le motivazioni riferite a ciascuna delle condizioni di cui al comma 1.
5. L'Amministrazione non può ottenere l'esenzione se la richiesta, corredata delle informazioni di cui al comma 1, non è comunicata almeno trenta giorni prima della richiesta di iscrizione del provvedimento all'ordine del giorno della riunione preparatoria del Consiglio dei ministri, e pubblicata sul sito dell'Amministrazione.
6. In ogni caso, la relazione illustrativa che accompagna il provvedimento contiene il riferimento alla esenzione disposta e alle ragioni giustificative di cui al comma 1.
7. In caso di esenzione dall'AIR, ove sia richiesto dalle Commissioni parlamentari o dal Consiglio dei ministri, la relazione illustrativa che accompagna il provvedimento viene integrata con l'indicazione degli impatti attesi su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, nonché della comparazione delle eventuali opzioni regolatorie considerate.
Art. 8. Fasi dell'AIR
1. L'Amministrazione avvia l'AIR contestualmente all'individuazione dell'esigenza di un intervento normativo.
2. L'AIR, fatte salve le indicazioni contenute nella direttiva di cui all'articolo 3, comma 1, si articola nelle seguenti fasi:
a) analisi del contesto e individuazione dei problemi da affrontare, con riferimento all'area o settore di regolazione in cui si inserisce l'iniziativa normativa, tenendo conto delle esigenze e dei profili critici di tipo normativo, amministrativo, economico e sociale constatati nella situazione attuale, anche avendo riguardo al mancato conseguimento degli effetti attesi da altri provvedimenti vigenti, che motivano il nuovo intervento;
b) individuazione dei potenziali destinatari, pubblici e privati, dell'intervento e definizione della loro consistenza numerica;
c) definizione degli obiettivi dell'intervento normativo, coerenti con l'analisi dei problemi di cui alla lettera a);
d) elaborazione delle opzioni, anche di natura non normativa, inclusa quella di non intervento (c.d. opzione zero);
e) valutazione preliminare delle opzioni, con riguardo all'efficacia, alla proporzionalità e alla fattibilità, e conseguente individuazione delle opzioni attuabili;
f) comparazione delle opzioni attuabili, valutandone e, ove possibile, quantificandone i principali impatti di natura sociale, economica, ambientale e territoriale per le diverse categorie di destinatari; la valutazione tiene anche conto degli effetti sulle PMI, degli oneri amministrativi, degli effetti sulla concorrenza e del rispetto dei livelli minimi di regolazione europea;
g) individuazione dell'opzione preferita, delle condizioni specifiche per la sua attuazione e delle modalità di effettuazione del monitoraggio e della successiva valutazione.
3. Nello svolgimento dell'AIR l'Amministrazione ricorre alla consultazione, secondo quanto stabilito dagli articoli 16 e 17, nonché ad evidenze di tipo quantitativo, ivi comprese quelle desumibili da relazioni degli organi di controllo o di vigilanza.
4. L'analisi di impatto tiene conto degli esiti delle VIR eventualmente realizzate, anche con riferimento a norme connesse per materia.
Art. 9. Presentazione e verifica della relazione AIR
1. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 10 per i decreti-legge, per ogni iniziativa normativa, per la quale non sia stata verificata dal DAGL la sussistenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 6 o non sia stata concessa l'esenzione ai sensi dell'articolo 7, l'Amministrazione proponente elabora la relazione AIR, che documenta l'analisi di cui all'articolo 8 e i risultati delle valutazioni svolte.
2. La relazione AIR è trasmessa al DAGL, per la relativa verifica, contestualmente alla richiesta di iscrizione del provvedimento all'ordine del giorno della riunione preparatoria del Consiglio dei ministri.
3. Il DAGL, ai fini dell'iscrizione all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri, verifica l'adeguatezza e la completezza delle attività di analisi, documentate nella relazione AIR, e la correttezza dei metodi di valutazione applicati. Il DAGL può richiedere integrazioni e chiarimenti alle Amministrazioni proponenti, formulando eventuale avviso ostativo in caso di mancato adeguamento della relazione AIR. L'avviso ostativo è comunicato al Sottosegretario di Stato con funzioni di Segretario del Consiglio dei ministri, ai fini della decisione in ordine all'iscrizione del provvedimento all'ordine del giorno della riunione preparatoria del Consiglio dei ministri.
4. Per i disegni di legge governativi e i regolamenti che introducono restrizioni all'accesso e all'esercizio di attività economiche, la relazione AIR è trasmessa dall'Amministrazione proponente al DAGL successivamente all'acquisizione del parere dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato ai sensi dell'articolo 34, comma 5, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, unitamente a tale parere.
5. All'atto della richiesta di parere al Consiglio di Stato, gli schemi regolamentari sono corredati di relazione AIR già verificata dal DAGL. Per i regolamenti da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in caso di mancato riscontro o mancata richiesta di chiarimenti o integrazioni da parte del DAGL entro sette giorni dalla ricezione della relazione AIR, la relazione stessa si intende positivamente verificata.
6. Per l'iscrizione all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri le proposte di atti normativi sono corredate di relazione AIR, salvo quanto diversamente disposto dagli articoli 6 e 7.
7. La relazione AIR che accompagna il provvedimento, verificata dal DAGL, è trasmessa al Parlamento ed è pubblicata sul sito istituzionale dell'Amministrazione proponente, nonché sul sito istituzionale del Governo.
Art. 10. AIR sui decreti-legge
1. L'AIR svolta a supporto della predisposizione dei decreti-legge, fatte salve le indicazioni contenute nella direttiva di cui all'articolo 3, comma 1, si articola almeno nelle seguenti fasi:
a) individuazione dei problemi da affrontare, con riferimento all'area o settore di regolamentazione in cui si inserisce l'iniziativa normativa, con illustrazione delle esigenze e delle criticità di tipo normativo, amministrativo, economico e sociale constatate nella situazione attuale, che motivano l'intervento;
b) definizione degli obiettivi dell'intervento normativo, coerenti con l'analisi dei problemi di cui alla lettera a);
c) individuazione dei potenziali destinatari, pubblici e privati, dell'intervento e definizione della loro consistenza numerica;
d) valutazione dell'intervento, con descrizione e, ove possibile, quantificazione dei principali impatti (benefici e costi attesi) per categoria di destinatari e per la collettività nel suo complesso;
e) individuazione delle condizioni specifiche per l'attuazione dell'intervento e delle relative modalità di effettuazione del monitoraggio e della successiva valutazione.
2. L'Amministrazione proponente elabora la relazione AIR che documenta l'analisi di cui al comma 1 e i risultati delle valutazioni svolte.
3. La relazione AIR che accompagna i decreti-legge è presentata al DAGL per la relativa verifica contestualmente alla richiesta di iscrizione del provvedimento all'ordine del giorno della riunione preparatoria del Consiglio dei ministri. Gli esiti della verifica del DAGL sono comunicati al Sottosegretario di Stato con funzioni di Segretario del Consiglio dei ministri. Non si applica l'articolo 9, comma 3.
4. La relazione AIR che accompagna i decreti-legge, verificata dal DAGL, è trasmessa al Parlamento e pubblicata sul sito istituzionale del Governo.
Art. 11. Partecipazione all'analisi dell'impatto dei progetti di atti dell'UE - AIR in fase ascendente
1. Ai fini della relazione di cui all'articolo 6, comma 4, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, le Amministrazioni svolgono un'analisi di impatto sui progetti di atti dell'Unione europea significativi per il loro impatto nazionale, secondo le indicazioni metodologiche e procedurali fornite dalla direttiva di cui all'articolo 3, comma 1.
2. Obiettivo dell'analisi di cui al comma 1 è fornire in tempo utile elementi informativi volti ad evidenziare gli effetti attesi delle proposte normative all'esame delle istituzioni dell'Unione europea e supportare il Governo nel corso delle procedure di consultazione avviate da tali istituzioni, nonché nell'ambito dell'attività legislativa a livello europeo.
3. Le Amministrazioni, entro trenta giorni dalla pubblicazione del programma di lavoro della Commissione europea, comunicano al DAGL l'elenco dei progetti di atti dell'Unione europea sui quali sarà svolta l'analisi di impatto di cui al comma 1, nonché, successivamente, le eventuali modifiche a tale elenco.
4. L'analisi di impatto di cui al comma 1 è avviata contestualmente alla comunicazione di cui al comma 3.
5. In riferimento ai progetti di atti dell'Unione europea di cui al comma 3, il Comitato tecnico di valutazione (CTV) comunica al DAGL le consultazioni promosse dalla Commissione europea a cui le Amministrazioni, nonché lo stesso CTV, intendono partecipare.
6. Ai fini della consultazione delle parti sociali e delle categorie produttive nella fase di formazione della posizione italiana su iniziative dell'Unione europea, di cui all'articolo 28 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, il CTV e le Amministrazioni competenti per materia, nei casi di svolgimento dell'analisi di impatto di cui al comma 1, seguono le indicazioni metodologiche e procedurali fornite dalla direttiva di cui all'articolo 3, comma 1. Le Amministrazioni si avvalgono dei risultati di tali consultazioni, nonché degli altri elementi dell'analisi di impatto, per partecipare alle consultazioni promosse dalla Commissione europea.
7. Il DAGL, ove ne ravvisi l'esigenza, provvede a convocare, anche su richiesta dell'Amministrazione competente, nonché del CTV, riunioni di coordinamento per lo svolgimento dell'analisi di impatto di cui al comma 1, inclusa la consultazione delle parti sociali e delle categorie produttive di cui al comma 6.
8. Ai fini della redazione della relazione di cui all'articolo 6, comma 4, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, i risultati dell'analisi d'impatto di cui al comma 1 sono trasmessi tempestivamente al DAGL per la loro verifica. I risultati dell'analisi, eventualmente integrati dall'Amministrazione competente a seguito di tale verifica, sono inviati al Dipartimento per le politiche europee e sono inseriti nella relazione di cui all'articolo 6, comma 4, della legge 24 dicembre 2012, n. 234.
Capo III
Verifica di impatto della regolamentazione
Art. 12. Programmazione e ambito di applicazione della VIR
1. Ogni Amministrazione predispone, sentito il DAGL, sulla base dei criteri di cui al comma 7 e della direttiva di cui all'articolo 3, comma 1, un «Piano biennale per la valutazione e la revisione della regolamentazione» relativo agli atti normativi di competenza in vigore su cui intende svolgere la VIR. Nel piano rientrano le leggi di conversione di decreti-legge per le aree di regolamentazione di competenza dell'Amministrazione, gli atti normativi nei quali sono previste clausole valutative, nonché gli atti normativi nei quali è prevista l'adozione di disposizioni correttive o integrative.
2. Il piano biennale di cui al comma 1 è adottato, tenuto conto degli esiti della consultazione di cui all'articolo 18 e della verifica di cui al comma 9, con decreto ministeriale, entro il 31 dicembre dell'anno precedente il biennio di riferimento. Con le stesse modalità si procede all'adozione di eventuali aggiornamenti.
3. Laddove il piano biennale non sia adottato nei termini previsti, lo stesso è adottato entro trenta giorni dalla scadenza dei termini medesimi dal Presidente del Consiglio dei ministri, con proprio decreto.
4. Il DAGL, per provvedimenti di particolare rilevanza e impatto, può coordinare lo svolgimento della VIR, inclusa la consultazione.
5. La VIR può essere svolta anche con riguardo ad un insieme di atti normativi, tra loro funzionalmente connessi. Per gli atti normativi che coinvolgono più Amministrazioni, anche di altri livelli istituzionali, gli uffici competenti possono effettuare in comune la VIR.
6. L'Amministrazione assicura il monitoraggio dell'attuazione degli atti normativi, attraverso la costante raccolta ed elaborazione delle informazioni e dei dati necessari all'effettuazione della VIR, con particolare riguardo a quelli relativi agli indicatori individuati nelle corrispondenti AIR, secondo le indicazioni contenute nella direttiva di cui all'articolo 3, comma 1.
7. L'individuazione degli atti o insiemi di atti normativi da includere nel piano di cui al comma 1 è effettuata, anche tenuto conto degli esiti della consultazione di cui all'articolo 18, sulla base dei seguenti criteri:
a) rilevanza rispetto agli obiettivi perseguiti dalle politiche a cui gli atti si riferiscono;
b) significatività degli effetti, anche con riferimento alle previsioni delle relazioni AIR, ove disponibili;
c) problemi e profili critici rilevati nell'attuazione;
d) modifiche nel contesto socio-economico di riferimento, incluse quelle derivanti dal progresso tecnologico e scientifico.
8. Il piano di cui al comma 1 contiene le seguenti informazioni:
a) l'elenco degli atti o insiemi di atti che l'Amministrazione intende sottoporre a VIR nel biennio di riferimento, articolato per anno;
b) l'indicazione, per ogni atto o insieme di atti, dei motivi prioritari per i quali l'Amministrazione ritiene di svolgere la verifica di impatto, con riferimento ai criteri di cui al comma 7;
c) l'indicazione, per ogni atto o insieme di atti, di eventuali altre amministrazioni coinvolte nel processo di valutazione;
d) i tempi previsti per l'avvio e la conclusione di ogni VIR;
e) una sintesi degli esiti delle consultazioni di cui all'articolo 18.
9. Successivamente alla consultazione di cui all'articolo 18 e prima dell'adozione, il piano di cui al comma 1 è inviato al DAGL, che ne verifica la rispondenza alle previsioni del presente articolo ed alla direttiva di cui all'articolo 3, comma 1.
10. Una volta adottato, il piano biennale è pubblicato sui siti del Governo e dell'Amministrazione che ne ha curato la redazione. Analogamente si procede per la pubblicazione degli eventuali aggiornamenti.
11. Ove non prevista nel piano biennale, la VIR è comunque effettuata ove sia richiesto dalle Commissioni parlamentari o dal Consiglio dei ministri.
Art. 13. Fasi della VIR
1. La VIR, fatte salve le indicazioni contenute nella direttiva di cui all'articolo 3, comma 1, si articola nelle seguenti fasi:
a) analisi della situazione attuale e dei problemi, ricorrendo a evidenze quantitative e verificando anche il grado di attuazione della normativa in esame, con riferimento, se del caso, ai diversi livelli istituzionali coinvolti;
b) ricostruzione della logica dell'intervento, in relazione ai problemi che si intendevano affrontare e agli obiettivi che si intendevano conseguire, alle azioni poste in essere, ai soggetti direttamente e indirettamente coinvolti, all'evoluzione registrata nel contesto di riferimento;
c) valutazione dell'intervento, applicando i seguenti criteri: 1) efficacia, verificando il grado di raggiungimento degli obiettivi e la misura in cui gli effetti osservati derivano dalla regolazione in esame o da ulteriori fattori che sono intervenuti nel tempo; 2) efficienza, in relazione alle risorse impiegate; 3) perdurante utilità della regolazione rispetto alle esigenze e agli obiettivi delle politiche attuali; 4) coerenza dell'insieme delle norme che disciplinano l'area di regolazione in esame, anche con riferimento ad eventuali lacune, inefficienze, sovrapposizioni, eccesso di costi di regolazione;
d) definizione di ipotesi di revisione, abrogazione, miglioramento dell'attuazione delle norme in esame, alla luce dei risultati del processo valutativo.
2. Nello svolgimento della VIR l'Amministrazione ricorre alla consultazione, secondo quanto stabilito dagli articoli 16 e 18, nonché ad evidenze di tipo quantitativo, ivi comprese quelle desumibili da relazioni degli organi di controllo o di vigilanza.
3. Ai fini della VIR, l'Amministrazione tiene conto dei risultati di eventuali ulteriori analisi, comunque denominate, previste per il monitoraggio e la valutazione degli atti oggetto della stessa.
Art. 14. Presentazione e verifica della relazione VIR
1. L'Amministrazione elabora la relazione VIR, che documenta l'analisi di cui all'articolo 13 e i risultati delle valutazioni svolte.
2. La relazione VIR è inviata al DAGL, che verifica l'adeguatezza e la completezza delle attività di analisi e la correttezza dei metodi di valutazione applicati. Il DAGL può richiedere integrazioni e chiarimenti alle Amministrazioni proponenti, ai fini della validazione della relazione VIR.
3. La relazione VIR, una volta validata, è pubblicata sul sito dell'Amministrazione che ha condotto la verifica di impatto, nonché sul sito del Governo, e trasmessa al Parlamento.
Art. 15. Partecipazione alle valutazioni d'impatto della normativa europea
1. Le Amministrazioni partecipano, per le materie di rispettiva competenza e anche coinvolgendo altri livelli istituzionali, alle attività di valutazione della normativa promosse dalle istituzioni dell'Unione europea, con specifico riguardo a quelle relative a norme che disciplinano materie di particolare rilievo per le politiche nazionali. Della partecipazione è data informazione preventiva al DAGL, al Dipartimento della funzione pubblica e al Dipartimento per le politiche europee.
2. Ai fini di cui al comma 1, le Amministrazioni valutano gli effetti della normativa europea a livello nazionale, anche partecipando ai gruppi di lavoro e alle consultazioni che le istituzioni dell'Unione europea pongono in essere per valutare la normativa europea.
3. Per lo svolgimento delle valutazioni di cui al comma 2, le Amministrazioni seguono le indicazioni fornite dalla direttiva di cui all'articolo 3, comma 1, e consultano preventivamente i destinatari nazionali della normativa europea.
4. Il DAGL, ove ne ravvisi l'esigenza, provvede a convocare, anche su richiesta dell'Amministrazione competente, riunioni di coordinamento per lo svolgimento della valutazione di impatto della normativa europea, inclusa la consultazione.
5. I risultati delle valutazioni svolte ai sensi del presente articolo sono trasmessi tempestivamente al DAGL, ai fini della verifica, nonché al Dipartimento della funzione pubblica e al Dipartimento per le politiche europee.
Capo IV
Consultazioni
Art. 16. Disciplina generale delle consultazioni
1. Nel corso dell'AIR, salvo casi straordinari di necessità e urgenza, nonché della VIR, l'Amministrazione competente all'iniziativa regolatoria consulta i destinatari dell'intervento.
2. L'obiettivo della consultazione è acquisire elementi che, nel caso dell'AIR, possono afferire agli aspetti critici della situazione attuale, alle opzioni di intervento, alla valutazione degli effetti attesi, e, nel caso della VIR, riguardano la valutazione dell'efficacia dell'intervento, della sua attuazione e dei suoi principali impatti.
3. La consultazione può essere aperta, se rivolta a chiunque abbia interesse a parteciparvi, o ristretta, se rivolta a soggetti predefiniti dall'Amministrazione sulla base degli interessi coinvolti. I contributi forniti dai soggetti consultati sono finalizzati ad arricchire le informazioni a disposizione dell'Amministrazione, senza obbligo di riscontro per l'Amministrazione, e non costituiscono vincolo per l'istruttoria normativa. L'Amministrazione ricorre alla consultazione aperta o ristretta, in via alternativa o congiunta, tenendo conto dell'ambito e dei destinatari dell'intervento normativo, nonché dei fabbisogni informativi correlati al processo valutativo.
4. Le tecniche di svolgimento delle consultazioni sono indicate nella direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 3, comma 1.
5. L'Amministrazione assicura la conoscibilità delle iniziative di consultazione, tramite il proprio sito istituzionale.
6. Le consultazioni si svolgono secondo principi di trasparenza, chiarezza e completezza di informazione nell'esposizione di analisi e proposte, nel rispetto delle esigenze di speditezza connesse al processo di produzione normativa e di congruenza dei temi introdotti rispetto alle questioni oggetto dell'iniziativa regolatoria. Le stesse sono gestite tenendo conto dei costi e dei tempi che la partecipazione comporta e privilegiando soluzioni meno onerose per i consultati, nonché curando la chiarezza e sinteticità dei documenti usati durante il loro svolgimento.
Art. 17. Consultazione aperta nell'AIR
1. L'Amministrazione, nei casi in cui ricorra alla consultazione aperta nel corso dell'AIR, pubblica, in un'apposita sezione del proprio sito istituzionale, un documento preliminare sull'iniziativa normativa che dia conto, almeno, dei profili critici della situazione attuale, degli obiettivi e delle opzioni di intervento. Dell'avvio della consultazione aperta è data contestuale comunicazione al DAGL.
2. Chiunque vi abbia interesse può inviare, entro il termine di cui al comma 3, commenti per via telematica secondo le modalità stabilite dall'Amministrazione.
3. Per inviare commenti è stabilito un termine congruo, comunque non inferiore a quattro settimane. I contributi ricevuti dai soggetti che hanno partecipato alla consultazione sono pubblicati, salvo diversa richiesta degli autori e sempre che non sussistano ragioni di riservatezza, sul sito istituzionale dell'Amministrazione. Sono prese in considerazione solo le osservazioni e le proposte pertinenti all'oggetto della consultazione e rese in forma non anonima.
4. Trascorsi dodici mesi dalla conclusione della consultazione, gli atti ad essa relativi possono essere rimossi dai siti istituzionali.
5. Per ogni consultazione aperta l'Amministrazione indica sul proprio sito istituzionale un indirizzo di posta elettronica a cui è possibile rivolgersi per ottenere informazioni e chiarimenti sulle modalità di consultazione.
6. L'Amministrazione garantisce adeguata e tempestiva pubblicità, anche attraverso il proprio sito istituzionale, alle iniziative di consultazione aperta in corso e concluse. Delle stesse è data notizia anche in una apposita sezione del sito istituzionale del Governo.
Art. 18. Consultazione aperta nella VIR
1. Prima dell'adozione, il piano di cui all'articolo 12 è sottoposto a consultazione, mediante pubblicazione in apposita sezione del sito istituzionale dell'Amministrazione che ne ha curato l'elaborazione, per almeno quattro settimane. Dell'avvio della consultazione è data contestuale comunicazione al DAGL.
2. Entro il termine di cui al comma 1, chiunque vi abbia interesse può inviare, attraverso le modalità definite dall'Amministrazione proponente, commenti per via telematica riferiti agli atti inclusi nel piano e all'applicazione dei criteri di cui all'articolo 12, comma 8, nonché proposte di ulteriori atti da includere nel piano.
3. L'Amministrazione responsabile della VIR ricorre alla consultazione aperta durante lo svolgimento della verifica di impatto, al fine di raccogliere opinioni, dati e valutazioni sull'efficacia degli atti sottoposti a verifica, sugli impatti prodotti sui destinatari e sui profili critici riscontrati. Dell'avvio della consultazione è data contestuale comunicazione al DAGL.
4. Ai fini della consultazione aperta nel corso della VIR, l'Amministrazione pubblica, in una apposita sezione del proprio sito istituzionale, i documenti necessari e utilizza strumenti di indagine volti a raccogliere opinioni, dati e proposte dai destinatari degli atti sottoposti a valutazione.
5. Chiunque vi abbia interesse può inviare, entro il termine di cui al comma 6, commenti per via telematica secondo le modalità stabilite dall'Amministrazione.
6. Il termine entro cui è possibile inviare commenti è di almeno quattro settimane. I contributi ricevuti dai soggetti che hanno partecipato alla consultazione aperta, svolta sia in riferimento al piano di cui all'articolo 12, comma 1, sia nel corso della VIR, sono pubblicati, salvo diversa richiesta degli autori e sempre che non sussistano ragioni di riservatezza, sul sito istituzionale dell'Amministrazione. Sono prese in considerazione solo le osservazioni e le proposte pertinenti all'oggetto della consultazione e rese in forma non anonima.
7. Trascorsi dodici mesi dalla conclusione della consultazione aperta, gli atti ad essa relativi possono essere rimossi dai siti istituzionali.
8. Per ogni consultazione aperta l'Amministrazione indica sul proprio sito istituzionale un indirizzo di posta elettronica a cui è possibile rivolgersi per ottenere informazioni e chiarimenti sulle modalità di consultazione.
9. L'Amministrazione garantisce adeguata e tempestiva pubblicità, anche attraverso il proprio sito istituzionale, alle iniziative di consultazione aperta in corso e concluse. Delle stesse è data notizia anche in apposita sezione del sito istituzionale del Governo.
Capo V
Relazione al parlamento
Art. 19. Relazione annuale al Parlamento sullo stato di applicazione dell'AIR e della VIR
1. La relazione annuale sullo stato di applicazione dell'AIR e della VIR, da presentare al Parlamento ai sensi dell'articolo 14, comma 10, della legge 28 novembre 2005, n. 246, riporta i seguenti elementi informativi:
a) numero di AIR e di VIR concluse nell'anno;
b) numero e casi di esclusione e di esenzione dall'AIR;
c) numero di relazioni AIR integrate su richiesta del DAGL, del Parlamento, o su sollecitazione del Consiglio di Stato in sede consultiva;
d) metodologie applicate, scelte organizzative adottate dalle amministrazioni;
e) numero di consultazioni realizzate nel corso dell'AIR e della VIR e relative metodologie;
f) piani biennali per la valutazione e la revisione della regolazione redatti ai sensi dell'articolo 12 e loro aggiornamenti;
g) riferimenti alle esperienze di AIR e di VIR presso le istituzioni dell'Unione europea, le autorità indipendenti, le regioni, gli enti locali, evidenziando le migliori pratiche anche a livello internazionale;
h) eventuali criticità riscontrate a livello di Amministrazioni nello svolgimento delle AIR e delle VIR;
i) iniziative per la formazione e il miglioramento delle capacità istituzionali nello svolgimento dell'AIR, della VIR e delle consultazioni.
2. Entro il mese di febbraio ciascuna Amministrazione trasmette al DAGL una relazione con gli elementi informativi di cui al comma 1 relativi all'anno precedente. In particolare, il Dipartimento degli affari regionali, sentita, ove occorra, la Conferenza Unificata, fornisce le informazioni riguardanti le attività delle regioni e degli enti locali.
Capo VI
Disposizioni finali
Art. 20. Disposizioni abrogate
1. Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11 settembre 2008, n. 170, e il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 novembre 2009, n. 212, sono abrogati.
Art. 21. Disposizioni finali e transitorie
1. Il presente decreto si applica a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della direttiva prevista dall'articolo 3, comma 1.
2. In sede di prima applicazione il piano di cui all'articolo 12 è adottato entro centoventi giorni dalla pubblicazione della direttiva prevista dall'articolo 3, comma 1.
3. Le Amministrazioni si adeguano alle indicazioni sull'organizzazione delle funzioni di valutazione di cui all'articolo 2, comma 7, entro centoventi giorni dalla pubblicazione della direttiva prevista dall'articolo 3, comma 1.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
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(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 10 aprile 2018, n. 83.
(2) Emanato dal Consiglio dei Ministri.
Consiglio dei Ministri
Dir. Stato 16/02/2018
Approvazione della Guida all'analisi e alla verifica dell'impatto della regolamentazione, in attuazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 15 settembre 2017, n. 169.
Pubblicata nella Gazz. Uff. 10 aprile 2018, n. 83.
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Vista la legge 23 agosto 1988, n. 400, recante la disciplina dell'attività di Governo e l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, e successive modificazioni;
Visto l'art. 5, comma 2, della legge 8 marzo 1999, n. 50, recante «Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998», e successive modificazioni;
Visto l'art. 6 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, recante «Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, a norma dell'art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59»;
Visto l'art. 11 della legge 6 luglio 2002, n. 137, recante «Delega per la riforma dell'organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei ministri, nonché di enti pubblici», e successive modificazioni;
Visto l'art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246, recante «Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005», e successive modificazioni;
Visto in particolare, l'art. 14, comma 6, della predetta legge n. 246 del 2005, il quale prevede che i metodi di analisi e i modelli di AIR, nonché i metodi relativi alla VIR, sono adottati con direttive del Presidente del Consiglio dei ministri;
Vista la legge 11 novembre 2011, n. 180, recante «Norme per la tutela della libertà d'impresa. Statuto delle imprese»;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 16 dicembre 2016, di delega di funzioni alla Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri on. avv. Maria Elena Boschi;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 15 settembre 2017, n. 169«Regolamento recante la disciplina sull'Analisi dell'impatto della regolamentazione, la Verifica dell'impatto della regolamentazione e la Consultazione», e in particolare l'art. 3, comma 1, il quale, in attuazione del richiamato art. 14, comma 6, della legge n. 246 del 2005, prevede che con direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri sono indicate le tecniche di analisi e di valutazione e determinati i modelli di relazione da utilizzare per l'AIR e per la VIR, anche con riguardo alle fasi di consultazione e di monitoraggio;
Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1°(gradi) ottobre 2012, recante «Ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei ministri», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 288 dell'11 dicembre 2012, e successive modificazioni;
Vista la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 febbraio 2009«Istruttoria degli atti normativi del Governo», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 82 dell'8 aprile 2009;
Ritenuto di dover dare attuazione alla disposizione di cui al richiamato art. 3, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 15 settembre 2017, n. 169;
EMANA
la seguente direttiva:
Consiglio dei Ministri
Dir. Stato 16/02/2018
Approvazione della Guida all'analisi e alla verifica dell'impatto della regolamentazione, in attuazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 15 settembre 2017, n. 169.
Pubblicata nella Gazz. Uff. 10 aprile 2018, n. 83.
1. E' approvata la «Guida all'analisi e alla verifica dell'impatto della regolamentazione» di cui all'allegato 1, che costituisce parte integrante della presente direttiva.
2. La relazione che documenta l'analisi dell'impatto della regolamentazione (AIR) è redatta in conformità al modello di cui all'allegato 2, che costituisce parte integrante della presente direttiva.
3. La relazione che documenta la verifica dell'impatto della regolamentazione (VIR) è redatta in conformità al modello di cui all'allegato 3, che costituisce parte integrante della presente direttiva.
4. E' abrogata la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 16 gennaio 2013, «Disciplina sul rispetto dei livelli minimi di regolazione previsti dalle direttive europee, nonché aggiornamento del modello di relazione AIR, ai sensi dell'art. 14, comma 6, della legge 28 novembre 2005, n. 246», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 12 aprile 2013.
GUIDA ALL'ANALISI E ALLA VERIFICA DELL'IMPATTO DELLA REGOLAMENTAZIONE
Introduzione: obiettivi, destinatari e struttura della Guida
La Guida fornisce indicazioni tecniche e operative alle amministrazioni statali per l'applicazione degli strumenti per la qualita' della regolazione, necessari a migliorare l'efficacia, l'efficienza e la trasparenza delle scelte pubbliche.
Le indicazioni in essa contenute si propongono di supportare e migliorare lo svolgimento dell'Analisi dell'impatto della regolamentazione (Air), della Verifica dell'impatto della regolamentazione (Vir) e delle relative attivita' di consultazione, secondo le disposizioni di cui all'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246, e al DPCM 15 settembre 2017, n. 169 (d'ora innanzi, Regolamento).
La Guida illustra cosa sono l'Air, la Vir e le relative fasi di consultazione, in che modo esse affiancano e supportano l'attivita' normativa, che ruolo hanno gli attori che intervengono nelle relative procedure, qual e' il collegamento tra le due analisi. Soprattutto, essa descrive i principali strumenti e le tecniche cui occorre fare ricorso per svolgere adeguatamente un'Air e una Vir e predisporne le relazioni conclusive (d'ora innanzi, rispettivamente, Relazione Air e Relazione Vir).
Il presente documento, curato dal Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi (DAGL) della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il supporto del Nucleo Air1 , sostituisce la "Guida alla sperimentazione dell'analisi d'impatto della regolamentazione" approvata con la Circolare del 16 gennaio 2001, n. 1. Nella elaborazione della Guida si e' tenuto conto delle difficolta' che hanno caratterizzato il ricorso all'Air e alla Vir nel nostro ordinamento, dei suggerimenti pervenuti da coloro che, all'interno delle amministrazioni, si sono cimentati con questi strumenti e dell'esperienza accumulata dall'Ufficio studi, documentazione giuridica e qualita' della regolazione del DAGL, specialmente attraverso l'esame e la verifica delle Relazioni Air e Vir.
La Guida e' stata redatta tenendo in considerazione, con i dovuti adattamenti al contesto italiano, le indicazioni contenute nelle linee guida sulla Better regulation della Commissione Europea2 , anche al fine di assicurare il necessario coordinamento tra l'attivita' di analisi della regolazione svolta a livello nazionale e quella realizzata in ambito europeo. Inoltre, la Guida tiene conto delle indicazioni contenute nella comunicazione della Commissione Europea "Adeguatezza della regolamentazione dell'Unione europea"3 e delle metodologie elaborate nell'ambito del Regulatory Fitness and Performance Programme (REFIT).
________________________________________________________________
1 "Nucleo Air" sta per "Gruppo di lavoro Air del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici" del Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica (DIPE) della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici del DIPE e' stato istituito con il DPCM del 25 novembre 2008. Con successivo DPCM del 15 luglio 2009 la composizione del Nucleo e' stata ampliata con l'istituzione di uno specifico Gruppo di lavoro, brevemente Nucleo Air, costituito da quattro esperti e dedicato prevalentemente allo svolgimento di funzioni di supporto metodologico e operativo al DAGL in materia di Air e Vir.
2 European Commission, Better Regulation Guidelines, SWD(2015) 111 final, 19 maggio 2015.
3 COM(2012) 746 final del 12 dicembre 2012.
Il documento e' organizzato come segue. Il cap. 1 illustra il concetto di ciclo della regolazione, sottolineando l'importanza di utilizzare una pluralita' di strumenti di valutazione e partecipazione che accompagnino le diverse "fasi evolutive" di un intervento normativo. Il cap. 2 e' dedicato alla programmazione normativa e al nesso tra questa e l'analisi di impatto. Il cap. 3 fornisce indicazioni sull'organizzazione delle funzioni di valutazione all'interno delle amministrazioni. I capp. 4, 5 e 6 sono dedicati all'Air: nel cap. 4 si descrivono gli obiettivi, l'ambito di applicazione dell'Air e la relativa procedura; nel cap. 5 si analizzano nel dettaglio le diverse fasi dell'analisi di impatto e si forniscono indicazioni operative per il loro svolgimento e per la redazione della Relazione che da' conto delle attivita' svolte; il cap. 6 e' dedicato alla procedura Air per i decreti-legge; il cap. 7 descrive le modalita' di partecipazione alle attivita' di analisi di impatto poste in essere a livello europeo (Air in fase ascendente). I capp. 8 e 9 sono dedicati agli obiettivi, alle procedure, all'ambito di applicazione e alle fasi della Vir, fornendo, anche in questo caso, indicazioni operative per lo svolgimento della valutazione e per la redazione della Relazione finale; nel cap. 10 si illustrano le modalita' di partecipazione alle attivita' di valutazione ex post della normativa europea. Il cap. 11 e' dedicato alle consultazioni nell'Air e nella Vir e illustra, in particolare, le finalita' e le procedure di consultazione, nonche' le modalita' per dare conto del loro svolgimento, delle osservazioni e dei dati raccolti. Le Appendici alla Guida forniscono alcuni strumenti operativi da utilizzare nello svolgimento dell'Air e della Vir.
All'interno del testo sono state predisposte delle "Schede" che approfondiscono aspetti specifici.
Alcuni riferimenti metodologici sono infine riportati nella bibliografia.
1.
Il ciclo della regolazione
Il sistema normativo incide sul benessere e sulla vita degli individui, delle imprese, degli enti e delle organizzazioni pubbliche e private, sulla concreta capacita' di tutelare gli interessi pubblici, sulla competitivita', l'attrattivita' e, in ultima analisi, la crescita del Paese. Affinche' il quadro regolatorio sia efficace, coerente con i bisogni della collettivita', ma anche attento ai costi che le norme impongono ai destinatari, e' indispensabile assicurare una adeguata qualita' delle norme: un concetto che non coincide con una maggiore o minore regolazione, ma che attiene al modo in cui le norme sono pensate, scritte, comunicate, attuate, valutate e, se necessario, corrette.
A tal fine e' necessario ricorrere a un approccio che consideri l'intero "ciclo della regolazione"4 . Quest'ultimo parte dalla definizione delle priorita' d'azione, che derivano dall'agenda politica dell'esecutivo, procede con la formulazione dell'intervento regolatorio, la sua adozione, l'attuazione delle previsioni in esso contenute, la manutenzione delle regole e l'eventuale revisione di quelle ritenute inefficaci o che abbiano prodotto effetti indesiderati. A ognuna di queste fasi corrispondono uno o piu' strumenti di "better regulation" che, rispetto alla formulazione dell'intervento, si collocano ex ante (programma normativo e Air), al momento dell'adozione di un provvedimento (drafting), nel corso della sua attuazione (monitoraggio) e valutazione (Vir). In ciascuna fase, inoltre, e' fondamentale l'apporto degli stakeholders, da assicurare attraverso opportune forme di partecipazione.
_______________________________________________________________
4 Ocse, The Oecd Report on Regulatory Reform System, Parigi, 1997; Ocse, Recommendation of the Council on regulatory policy and governance, Parigi, 2012.
La necessita' di rendicontare e diffondere in modo trasparente sia all'interno dell'amministrazione, sia all'esterno, i risultati delle analisi svolte nel corso del ciclo della regolazione e le motivazioni delle scelte operate, richiede la predisposizione di una serie di documenti.
La Figura 1 illustra il nesso tra fasi del ciclo di regolazione (in bianco), strumenti di better regulation (in blu) e relazioni prodotte (in grigio).
Figura 1 - Ciclo della regolazione e strumenti di qualita' delle regole
(figura omissis)
Il corollario di questa visione ciclica della regolazione e' l'integrazione tra l'Air, la Vir (che riguarda la valutazione in itinere ed ex post) e le consultazioni e spiega il motivo per cui i contenuti dell'Air sono funzionali allo svolgimento della Vir.
Esiste, infatti, un legame "bidirezionale" tra i due strumenti: da un lato, le fasi che caratterizzano la valutazione ex ante (identificazione degli obiettivi, degli indicatori e dei destinatari dell'intervento, analisi degli effetti attesi, ecc.) rappresentano un riferimento fondamentale per la conduzione di quella in itinere ed ex post; dall'altro, valutazioni che consentano di evidenziare fallimenti dell'intervento regolativo, oltre che del mercato, possono fornire un rilevante supporto alla verifica della c.d. "opzione zero", nell'ambito di analisi ex ante per successivi interventi di correzione e manutenzione.
2. Programmazione dell'attivita' normativa
Per lo svolgimento efficiente del ciclo della regolazione e l'utilizzo degli strumenti per la qualita' della regolazione e' essenziale la programmazione dell'attivita' normativa, cioe' la definizione di un'agenda delle priorita' dell'esecutivo. Il Regolamento prevede, al riguardo, che ciascuna amministrazione, con cadenza semestrale, comunichi al DAGL il proprio programma normativo, che contiene l'elenco delle iniziative previste nel semestre successivo, fatti salvi, ovviamente, i casi di necessita' e urgenza.
Il programma indica per ciascuna iniziativa:
a) una sintetica descrizione dell'oggetto, degli obiettivi e delle relative motivazioni;
b) la sussistenza di eventuali cause di esclusione o la volonta' di richiedere l'esenzione dall'Air, esplicitandone le motivazioni;
c) le procedure di consultazione programmate.
Il programma indica, altresi', gli eventuali termini previsti per l'adozione dell'atto. I programmi sono pubblicati sul sito del governo e su quello dell'amministrazione proponente.
I programmi sono pertanto preposti non solo a orientare l'attivita' normativa, ma anche a dare impulso al ciclo della regolazione e all'attivazione degli strumenti per la qualita' della regolazione. La programmazione normativa, infatti, una volta a regime, costituisce la premessa per l'organizzazione e lo svolgimento delle Air e delle relative consultazioni: solo conoscendo la tempistica prevista per i principali provvedimenti, infatti, le amministrazioni sono in grado di organizzare le attivita' e le analisi necessarie per svolgere l'Air e le consultazioni, superando il cronico affanno con cui in passato sono state realizzate.
3. Organizzazione delle funzioni di valutazione
Nell'ambito delle amministrazioni statali i principali attori delle procedure di Air e Vir sono l'amministrazione competente e il DAGL.
L'amministrazione competente:
a) comunica al Sottosegretario di Stato con funzioni di Segretario del Consiglio dei Ministri, per il tramite del DAGL, il programma normativo semestrale;
b) comunica al DAGL il piano biennale per la valutazione e la revisione della regolamentazione;
c) comunica al DAGL l'eventuale sussistenza di cause di esclusione dall'Air;
d) invia al DAGL l'eventuale richiesta di esenzione dall'Air;
e) istituisce i gruppi di lavoro per lo svolgimento delle procedure valutative, dandone di volta in volta comunicazione al DAGL;
f) svolge l'Air e la Vir, incluse le consultazioni;
g) trasmette al DAGL le Relazioni Air e Vir;
h) comunica al DAGL le informazioni necessarie per la presentazione al Parlamento della relazione annuale del Presidente del Consiglio dei Ministri sullo stato di applicazione dell'Air.
All'interno dell'amministrazione, l'Ufficio responsabile del coordinamento delle attivita' connesse all'effettuazione dell'Air e della Vir, individuato ai sensi dell'art. 14, comma 9, della legge 246 del 2005, assicura il coordinamento e la pianificazione delle attivita' di valutazione, nonche' la coerenza delle metodologie applicate con le indicazioni contenute in questa Guida e con il Regolamento. Esso, inoltre, cura i rapporti con il DAGL, nonche' con le altre amministrazioni, nei casi di effettuazione dell'Air e della Vir per interventi normativi che coinvolgono competenze di piu' amministrazioni.
Tuttavia, come chiaramente mostrato dall'esperienza italiana ed estera, tale ufficio non puo' essere chiamato a svolgere l'analisi e la verifica d'impatto: sono, infatti, le direzioni tecniche che detengono le necessarie competenze e informazioni per lo svolgimento dell'Air e della Vir e che spesso costituiscono il centro propulsivo dell'attivita' normativa.
E' evidente, peraltro, che un'analisi delle diverse tipologie d'impatto che una iniziativa normativa puo' produrre, cosi' come una valutazione degli effetti conseguiti da un intervento normativo, richiedono competenze trasversali, che possono variare in base al provvedimento considerato e non esaurirsi in quelle di cui dispongono le direzioni tecniche.
A tal fine, per lo svolgimento di ogni Air e Vir, l'ufficio responsabile del coordinamento istituisce un gruppo di lavoro assicurando il coinvolgimento, oltre che delle direzioni competenti, di professionalita' giuridiche, economiche e statistiche, attingendo, ad esempio, ai Nuclei di valutazione istituiti ai sensi della legge 17 maggio 1999, n. 144, all'ufficio di statistica, all'ufficio legislativo. Ove necessario, l'ufficio responsabile del coordinamento puo' avvalersi di esperti o di societa' di ricerca specializzate, nel rispetto della normativa vigente e, comunque, nei limiti delle disponibilita' finanziarie.
Detto ufficio coinvolge, inoltre, altre amministrazioni ed enti pubblici in possesso di specifiche informazioni, rilevanti ai fini della valutazione, quali, ad esempio, istituti di ricerca pubblici collegati con l'amministrazione proponente, ISTAT e altri enti appartenenti al SISTAN, altri enti di ricerca pubblici, Regioni ed enti locali.
Per gli atti normativi che coinvolgono piu' amministrazioni, gli uffici competenti effettuano in comune le valutazioni, prevedendo anche che specifiche attivita' del processo di analisi possano essere realizzate da una delle amministrazioni. In tali casi e' necessario che il gruppo di lavoro sia integrato con personale proveniente dalle diverse amministrazioni coinvolte.
Il DAGL svolge un'azione di coordinamento e monitoraggio delle procedure valutative e dell'applicazione della Guida, fornendo, su richiesta delle amministrazioni, supporto metodologico anche nel corso dello svolgimento di Air e di Vir.
Il Dipartimento, con il supporto del Nucleo Air e sulla base del Regolamento e della Guida, verifica l'adeguatezza e la completezza delle attivita' di analisi, documentate nelle relazioni Air e Vir, e la correttezza dei metodi di valutazione applicati. Quanto all'Air in fase ascendente e alla valutazione di impatto a livello europeo, si rinvia ai capp. 7 e 10.
(omissis…)
(il testo integrale della direttiva è consultabile nel sito www.gazzettaufficiale.it)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Annibale MARINI Presidente
- Franco BILE Giudice
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Franco GALLO "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
Nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), convertito, con modificazioni, in legge 28 gennaio 2005, n. 5 , promosso con ricorso della Regione Marche notificato il 22 marzo 2005, depositato in cancelleria il 30 marzo 2005 ed iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2005.
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché l'atto di intervento della AS.SE.ME Associazione Sementieri Mediterranei;
udito nell'udienza pubblica del 7 febbraio 2006 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi l'avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche e l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. - Con ricorso notificato il 22 marzo 2005 e depositato il 30 marzo 2005, la Regione Marche, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, ha promosso in via principale questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), nel testo convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5 , per violazione degli artt. 117, commi primo, secondo, lettera s), terzo, quarto, quinto e sesto, e 118 della Costituzione, anche in relazione agli artt. 9, 32, 33, 72, 76 e 77 della Costituzione.
2. - La Regione ricorrente sostiene, in primo luogo, che il procedimento legislativo di conversione del decreto-legge n. 279 del 2004 sarebbe viziato, stante la «assenza palese dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza» richiesti dall'art. 77 della Costituzione , ciò che ridonderebbe nella lesione dell'autonomia legislativa regionale, in quanto essa verrebbe ad essere compressa nella materia oggetto di decretazione d'urgenza.
Erroneamente il legislatore statale, infatti, avrebbe stimato di essere obbligato a conferire attuazione alla raccomandazione della Commissione 2003/556/CE del 23 luglio 2003 (recante orientamenti per lo sviluppo di strategie nazionali e migliori pratiche per garantire la coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche), trattandosi di atto privo di contenuto vincolante; al contrario, si sarebbe ricorsi alla decretazione d'urgenza, nonostante il carattere «estremamente delicato e rischioso» della materia, e nonostante «le regole relative alla coesistenza delle colture [...] «siano rinviate all'adozione di un provvedimento successivo, di livello regolamentare» da adottarsi «per di più [...] in termini ampi e inammissibili (anche in violazione dell'art. 76 Cost. )».
Sarebbe stato invece necessario realizzare forme di «consultazione e di dibattito ampio e condiviso», in sé incompatibili con la natura del decreto-legge, anche in attuazione di quanto previsto dagli artt. 9 e 32 della Costituzione , nonché dal decimo "considerando" della direttiva 2001/18/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio), e dal protocollo di Cartagena, reso esecutivo con la legge 15 gennaio 2004, n. 27 (Ratifica ed esecuzione del Protocollo di Cartagena sulla prevenzione dei rischi biotecnologici relativo alla Convenzione sulla diversità biologica, con Allegati, fatto a Montreal il 29 gennaio 2000).
Da ciò la dedotta lesione dell'art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, con riferimento agli artt. 72, 76, 77 e 117, primo comma, della Costituzione.
In secondo luogo, le norme impugnate violerebbero l'art. 117, commi secondo, terzo, quarto e quinto della Costituzione, con riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione , poiché, fondandosi sull'«erroneo presupposto di fatto», secondo cui gli organismi geneticamente modificati (OGM) non comporterebbero irreversibili danni all'ambiente, all'agricoltura e alla salute (in difetto di una preventiva «valutazione dell'impatto ambientale, economico e agronomico»), verrebbero ad impedire alla legge regionale la tutela «della salute umana, animale e vegetale» secondo «i principi della prevenzione e della precauzione», tramite, in particolare, l'individuazione di «criteri di esclusione delle colture transgeniche, in considerazione delle particolari condizioni del territorio regionale».
La Regione sarebbe perciò legittimata a denunciare anche la violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in forza del «diritto-dovere e, quindi, dell'interesse ad intervenire, nel caso di inadempimento statale, a tutela della popolazione di cui la stessa è espressione».
In terzo luogo, le norme impugnate verterebbero nella materia «agricoltura» (come individuabile anche alla luce dell'art. 32 del Trattato CE e dell'art. 2135 del codice civile ), oggetto di potestà legislativa residuale della Regione, sicché lo Stato, legiferando, avrebbe violato l'art. 117, quarto comma, della Costituzione ; sarebbe, infatti, «evidente che solo le Regioni possono adottare le misure necessarie ad assicurare la coesistenza tra forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica, stabilendo le aree "OGM free", le quote di colture OGM, il numero ed il tipo di varietà vegetali che devono coesistere, le distanze tra le aree a coltivazione transgenica e quelle a coltivazione convenzionale, le pratiche regionali di gestione delle imprese agricole».
In quarto luogo, quand'anche lo Stato avesse proceduto ad attuare la normativa comunitaria, ciò dovrebbe ritenersi precluso al di fuori delle materie attribuite in via esclusiva dall'art. 117, secondo comma, della Costituzione, sicché la legge impugnata violerebbe anche l'art. 117, quinto comma, della Costituzione.
In quinto luogo, gli artt. 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, e l' art. 8 del decreto-legge n. 279 del 2004, nel testo risultante a seguito della conversione in legge, avrebbero altresì carattere dettagliato, in violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione , al pari dell'art. 7, che, nell'attribuire ad un comitato in cui sarebbe privilegiata la rappresentanza di membri statali il compito di proporre linee guida per la coesistenza, opererebbe una «palese sottrazione alle Regioni (titolari della competenza legislativa esclusiva nella materia "agricoltura" e di competenza legislativa concorrente nell'"alimentazione"), del controllo del settore, riservando agli organi regionali solo un ruolo esecutivo marginale nella regolazione degli OGM».
Con specifico riguardo agli artt. 2, comma 2, 3, comma 2, 5, commi 3 e 4, 7, comma 4, e all'art. 8, la Regione ricorrente ribadisce il carattere dettagliato di tali previsioni, con conseguente violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, in relazione alla materia «tutela della salute».
Inoltre, l'art. 1 non terrebbe conto del «valore fondamentale della ricerca scientifica» quale strumento preliminare di valutazione dell'impatto ambientale, con ciò ledendo il valore costituzionalmente protetto dell'ambiente, alla cui tutela non può ritenersi estranea la legislazione regionale.
Gli artt. 1, 2, comma 2, 3, comma 2, 5, commi 3 e 4, 7, comma 4, e l'art. 8 si porrebbero perciò in contrasto con l'art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione «anche in relazione all'art. 117, secondo comma, lettera s), e agli artt. 9, 32 e 33» della Costituzione.
In sesto luogo, l'art. 3, comma 1 (che affida ad un decreto ministeriale «non regolamentare», adottato a seguito di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, la definizione delle «norme quadro per la coesistenza»), l'art. 4, comma 3-bis, (che demanda al predetto decreto la determinazione delle modalità di funzionamento del fondo di ripristino dei danni conseguenti all'inosservanza del piano di coesistenza) e l'art. 7, comma 2, (che attribuisce ad un decreto ministeriale, adottato anch'esso a seguito di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, l'organizzazione e le modalità di funzionamento del comitato di cui alla stessa disposizione) e comma 4 (che prevede il ricorso alle modalità di cui all'art. 3, comma 1, in ordine alle misure concernenti l'omogeneizzazione delle modalità di controllo) violerebbero l'art. 117, sesto comma, della Costituzione , «dovendosi escludere la possibilità per lo Stato di intervenire nella materia oggetto di intervento (agricoltura) con atti normativi di rango sublegislativo», cui le Regioni non soggiacciono nell'ambito della propria competenza legislativa.
In particolare, premessa l'irrilevanza della qualificazione legislativa dell'atto quale «non regolamentare», la Regione ricorrente evidenzia che esso non si limita ad esprimere un mero «coordinamento tecnico», poiché pone in essere «norme quadro» per la coesistenza, benché lo stesso art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ), escluda il ricorso da parte dello Stato agli atti di indirizzo e coordinamento, nelle materie di cui all'art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione.
Ove, invece, si ritenesse che il Governo intenda «autodelegare se stesso» in deroga all' art. 15, comma 2, lettera a), della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), sarebbe leso l'art. 76 della Costituzione, che impone il ricorso alla legge in ordine all'atto di conferimento della delega legislativa.
In settimo luogo, anche l'art. 5, commi 3 e 4, (in relazione all'obbligo di conservare registri aziendali sulle modalità di gestione adottate da chi mette a coltura OGM e di definire, da parte di Regioni e Province autonome, modalità e procedure per la raccolta dei dati) e l'art. 7 (che istituisce il Comitato consultivo presso il Ministero delle politiche agricole e forestali) sarebbero illegittimi, per violazione dell'art. 117, sesto comma, e 118 della Costituzione , poiché disciplinerebbero «funzioni amministrative relative ad una materia di competenza legislativa regionale», senza che sussista alcuna ragione giustificatrice per la sottrazione delle stesse al livello regionale.
In ottavo luogo, l'invocata competenza legislativa regionale in materia di «agricoltura» imporrebbe, in forza del principio del parallelismo, che la disciplina dell'illecito amministrativo spetti anch'essa alla Regione, sicché sarebbe illegittimo l'art. 6 del decreto-legge impugnato, mediante il quale lo Stato, al comma 1, ha introdotto sanzioni amministrative pecuniarie, in caso di violazione del piano di coesistenza.
Infine, la ricorrente, con riguardo all'art. 3 e all'art. 4 del decreto legge impugnato, lamenta che l'adozione del piano di coesistenza da parte della Regione stessa debba avvenire attraverso l'adozione di un «provvedimento», e non tramite l'utilizzo della fonte ritenuta discrezionalmente più idonea nel rispetto dei principi internazionali e comunitari, quali potrebbe essere anche la legge regionale.
3. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
La difesa erariale contesta, anzitutto, la riconducibilità delle norme impugnate alla materia «agricoltura».
Esse, infatti, si inserirebbero «nell'ambito di una produzione normativa, a livello europeo e nazionale, finalizzata, da un lato, a non vietare l'immissione in commercio di organismi geneticamente modificati, in coerenza con il principio di libertà di iniziativa economica, e dall'altro a circoscrivere tale facoltà mediante l'adozione di precauzioni tecniche idonee a contenere il rischio di impatto ambientale e di danno alla salute».
In particolare, l'Avvocatura dello Stato fa presente che nella direttiva 2001/18 CE e nel decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 224 (Attuazione della direttiva 2001/18/CE concernente l'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati), che le ha conferito attuazione, al principio di libera circolazione degli OGM si accompagnano misure precauzionali che, anche in relazione al Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza, impongono «una valutazione preventiva del "rischio ambientale", nell'ambito della quale prevede vengano considerati anche i potenziali danni alla salute umana e animale».
In tale contesto, e a fronte di iniziative legislative regionali intese a vietare la produzione e la coltivazione di specie che contengano OGM sull'intero territorio regionale - lo Stato rammenta in proposito proprio la legge della Regione Marche 3 marzo 2004, n. 5 (Disposizioni in materia di salvaguardia delle produzioni agricole, tipiche, di qualità e biologiche), impugnata innanzi a questa Corte -, le norme impugnate avrebbero lo scopo precipuo di «tutelare l'ambiente dai rischi di commistione delle diverse colture», come reso esplicito in particolare dagli artt. 1, 2 e 3 del decreto-legge n. 279 del 2004.
La stessa ricorrente, aggiunge lo Stato, riconosce che sarebbe invocabile la potestà legislativa esclusiva di cui all'art. 117, primo comma, lettere e) e s), della Costituzione, sicché il decreto-legge n. 279 del 2004 non avrebbe affatto invaso la sfera di competenza legislativa regionale.
Quand'anche fosse richiamabile la potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute e degli alimenti, infatti, dovrebbe ritenersi che le norme impugnate si limitino a determinare i principi fondamentali, «rinviando alle Regioni la definizione dei piani per un'effettiva coesistenza»; quanto al decreto ministeriale di cui all' art. 3 del decreto-legge n. 279 del 2004, esso «dovrebbe avere natura di atto di coordinamento tecnico», in quanto «finalizzato a raccordare le numerose e diverse normative di carattere tecnico che le Regioni dovranno emanare con l'adozione dei piani di coesistenza».
Né si potrebbe contestare al legislatore statale di avere trascurato i profili legati alla ricerca scientifica preliminare, che, estranei alle norme impugnate, trovano tuttavia disciplina nel decreto ministeriale 19 gennaio 2005, n. 72 (Prescrizioni per la valutazione del rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare, relativamente alle attività di rilascio deliberato nell'ambiente di OGM per qualsiasi fine diverso dall'immissione sul mercato), in attuazione dell' art. 8, comma 6, del d.lgs. n. 224 del 2003 in punto di «valutazione del rischio per l'agrobiodiversità». Vengono per tale via disciplinati, in particolare, i protocolli tecnici per la gestione del rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare in caso di emissione deliberata nell'ambiente di OGM, ed è inoltre garantita la consultazione ed informazione pubblica di cui all' art. 12 del d.lgs. n. 224 del 2003. Le Regioni, cui sarebbe precluso inibire sull'intero proprio territorio le coltivazioni di OGM in base alla decisione della Commissione 2003/653/CE del 2 settembre 2003 (relativa alle disposizioni nazionali sul divieto di impiego di organismi geneticamente modificati nell'Austria superiore, notificate dalla Repubblica d'Austria a norma dell'art. 95, paragrafo 5, del trattato CE), potrebbero in ogni caso delimitare, sulla base del piano di coesistenza, aree "OGM free".
Infine, lo Stato reputa conforme a Costituzione il ricorso alla decretazione d'urgenza. Per un verso, posto che le norme impugnate esulerebbero dalla sfera di competenza legislativa regionale, la censura fondata sulla violazione dell'art. 77 della Costituzione sarebbe inammissibile. Per altro verso, dovrebbe escludersi la evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, alla luce della necessità di prevenire l'introduzione da parte di leggi regionali di divieti all'utilizzo di OGM, in contrasto con la normativa comunitaria (la Commissione CE, osserva la parte resistente, avrebbe già autorizzato la commercializzazione e la coltivazione nel territorio comunitario di 17 varietà geneticamente modificate), e nel contempo della necessità di «evitare il rischio che l'assenza di alcuna regolamentazione al riguardo consentisse liberamente l'utilizzo di colture transgeniche senza l'adozione delle necessarie cautele».
Rileva, pertanto, il Presidente del Consiglio dei ministri, che il decreto-legge in questione e la conseguente intesa in Conferenza Stato-Regioni del 3 febbraio 2005 permetterebbero «di differire la coltivazione di colture OGM fino al luglio 2006, in attesa dei piani di coesistenza regionali».
Inoltre, la decretazione d'urgenza poggerebbe sulla necessità di conferire tempestiva attuazione alla raccomandazione 2003/556/CE del 23 luglio 2003 (Raccomandazione della Commissione recante orientamenti per lo sviluppo di strategie nazionali e migliori pratiche per garantire la coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche), la quale, a propria volta, si sarebbe «resa necessaria» in forza dell' art. 43 del regolamento CE n. 1829/2003 del 22 settembre 2003 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati), che ha introdotto l'art. 26-bis nella direttiva 2001/18/CE , il quale impegna gli Stati membri ad adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti.
Infine, l'invocato obbligo di consultazione del pubblico sarebbe già stato assolto sulla base delle procedure previste dalla direttiva 2001/18/CE , posto che la raccomandazione 2003/556/CE avrebbe ad oggetto i soli prodotti OGM già autorizzati sulla base di tale normativa comunitaria.
4. - È intervenuta in giudizio l'Associazione Sementieri Mediterranei (AS.SE.ME), «che rappresenta statutariamente gli interessi delle industrie sementiere nazionali», concludendo per l'accoglimento del ricorso.
In via preliminare, l'Associazione ritiene di poter fondare l'ammissibilità del proprio intervento sulla circostanza per cui il ricorso alla decretazione d'urgenza avrebbe impedito lo svolgimento delle consultazioni con la cittadinanza, imposte dal Protocollo di Cartagena, recepito dall' art. 23 della direttiva 2001/18/CE, sicché l'intervento in giudizio costituirebbe «il solo strumento offerto dall'ordinamento per reagire contro la lesione del proprio diritto di partecipare al processo decisionale relativo agli organismi viventi modificati».
Nel merito, l'interveniente sottolinea il carattere irreversibile dei danni a salute ed ambiente che la coltivazione di OGM «a cielo aperto» potrebbe comportare, invitando questa Corte a disporre istruttoria sul punto.
In ragione di tali premesse, l'interveniente sottolinea come la Regione Marche abbia vietato, con la citata legge regionale n. 5 del 2004, la coltivazione di OGM sul proprio territorio; posto che il ricorso dello Stato avverso tale legge è stato dichiarato inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 150 del 2005, «dovrebbe concludersi nel senso della radicale inapplicabilità della disciplina statale introdotta dal decreto legge impugnato», poiché la Regione avrebbe già esercitato la propria potestà legislativa nella materia «agricoltura».
5. - Nell'imminenza dell'udienza, la Regione Marche ha depositato memoria, insistendo per l'accoglimento del ricorso.
Dopo avere replicato alle deduzioni dell'Avvocatura dello Stato, la ricorrente ribadisce che «la immissione nella specificità territoriale della coltura e delle tecniche di produzione transgeniche» non potrebbe «non essere classificata all'interno della materia "agricoltura"», oggetto di potestà legislativa residuale della Regione, tenendo conto della «specificità territoriale» e corrispondendo ai «differenti bisogni delle agricolture nazionali».
Viene altresì sostenuto nuovamente che l'intervento legislativo statale porrebbe norme di dettaglio in materia oggetto di competenza concorrente (tutela della salute), precludendo alla Regione la individuazione di uno standard di tutela più rigoroso, anche a presidio dell'ambiente.
Tale potestà regionale sarebbe inoltre conseguente al principio comunitario di precauzione, il quale comporterebbe «l'illegittimità di una normativa comunitaria che imponga ai singoli Stati il divieto di misure precauzionali più rigide» e la garanzia che «le finalità ambientali possono essere realizzate dalla normativa regionale in materia di competenza propria o concorrente proprio al fine di una maggiore protezione dell'ambiente».
In attuazione di tale principio, prosegue la Regione Marche, sono intervenute numerose leggi regionali, non impugnate dallo Stato.
La ricorrente insiste anche sulla già denunciata violazione dell'art. 117, sesto comma, della Costituzione, poiché lo Stato, tramite gli artt. 3, comma 1, 4, comma 3-bis, 7, comma 2, 7, comma 4, dell'impugnato decreto-legge n. 279 del 2004, avrebbe inteso disciplinare materia di competenza regionale, mediante un atto normativo «di rango sublegislativo», seppure artatamente qualificato quale «non regolamentare», allo scopo di eludere la previsione costituzionale.
In conclusione, la Regione Marche insiste nelle censure già svolte e conclude nuovamente affinché le norme impugnate siano dichiarate costituzionalmente illegittime.
Motivi della decisione
1. - La Regione Marche ha impugnato gli articoli 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), nel testo convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5 , per violazione degli artt. 117, commi primo, secondo, lettera s), terzo, quarto, quinto e sesto, e 118 della Costituzione, anche in relazione agli artt. 9, 32, 33, 72, 76 e 77 della Costituzione.
La ricorrente afferma, anzitutto, la «assenza palese dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza» richiesti dall'art. 77 della Costituzione , posto il carattere non vincolante della raccomandazione 2003/556/CE e la necessità, invece, sulla base della normativa comunitaria ed internazionale, di realizzare in materia forme di «consultazione e di dibattito ampio e condiviso»: da ciò la violazione degli articoli 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, con riferimento agli artt. 72, 76, 77 e 117, primo comma, della Costituzione.
Tutte le norme impugnate sarebbero altresì in contrasto con l'art. 117, commi secondo, lettera s), terzo, quarto e quinto della Costituzione, con riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, poiché pregiudicherebbero interventi regionali a tutela dell'ambiente e della salute umana, animale e vegetale, secondo i principi di prevenzione e precauzione.
Inoltre, tutte le norme censurate violerebbero l'art. 117, quarto comma, della Costituzione, giacché recherebbero una disciplina vertente nella materia "agricoltura", oggetto di potestà legislativa residuale: la minuziosa disciplina contenuta, in particolare, negli articoli 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 7 e 8 del decreto-legge impugnato, sottrarrebbe in modo palese alle Regioni il controllo del settore agricolo relativo agli OGM.
La natura dettagliata di tali norme le renderebbe anche illegittime con riferimento alle materie oggetto di potestà legislativa concorrente dell' "alimentazione" e della "tutela della salute".
Né lo Stato potrebbe appellarsi ad obblighi di attuazione della normativa comunitaria al di fuori delle materie indicate dall'art. 117, secondo comma, della Costituzione, se non violando anche l'art. 117, quinto comma, della Costituzione.
Inoltre, premesso che la tutela dell'ambiente non potrebbe essere prerogativa esclusiva dello Stato, laddove incida su interessi di competenza regionale, le disposizioni impugnate lederebbero l'articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione "anche in relazione all'art. 117, secondo comma, lettera s), e agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione".
Gli articoli 3, comma 1, 4, comma 3-bis, e 7, commi 2 e 4, del decreto-legge impugnato violerebbero anche il sesto comma dell'art. 117 della Costituzione, poiché tali disposizioni disciplinerebbero l'adozione di "atti normativi di rango sublegislativo" in una materia che è oggetto di potestà legislativa residuale della Regione. Qualora, invece, si ritenesse che tali atti abbiano carattere primario, sarebbe leso l'art. 76 della Costituzione.
Gli artt. 5, commi 3 e 4, e 7 del decreto-legge impugnato violerebbero anche gli articoli 117, sesto comma, e 118 della Costituzione, poiché disciplinerebbero funzioni amministrative di spettanza regionale, in difetto dei presupposti per allocare tali competenze a livello centrale.
L'art. 6 del decreto-legge impugnato, a sua volta, violerebbe il principio del parallelismo tra competenza a disciplinare una determinata materia ed introduzione di sanzioni amministrative pecuniarie vertenti sulla medesima.
Infine, illegittimamente gli articoli 3 e 4 del decreto-legge impugnato imporrebbero l'adozione dei piani di coesistenza mediante "provvedimento", anziché mediante legge regionale.
2. - Preliminarmente va dichiarata la inammissibilità dell'intervento dell'Associazione Sementieri Mediterranei (AS.SE.ME), dal momento che il giudizio in via principale si svolge di norma esclusivamente fra i titolari delle competenze legislative in contestazione, secondo quanto questa Corte ha già più volte affermato (fra le molte, le sentenze n. 51 del 2006, n. 383, n. 336 e n. 150 del 2005, n. 196 del 2004).
3. - Inammissibile è la censura sollevata dalla Regione ricorrente in riferimento alla mancata consultazione delle popolazioni interessate prima di adottare le norme impugnate, secondo quanto prescriverebbe la normativa comunitaria ed internazionale: anche volendosi prescindere dalla dubbia riferibilità delle disposizioni comunitarie e internazionali richiamate ai procedimenti legislativi, le Regioni non sono legittimate a far valere nei ricorsi in via principale gli ipotetici vizi nella formazione di una fonte primaria statale, se non «quando essi si risolvano in violazioni o menomazioni delle competenze» regionali (in particolare le sentenze n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e n. 50 del 2005).
Del pari inammissibili sono le censure che la ricorrente svolge, evocando a parametro l'art. 117, secondo comma, lettera s), anche in relazione agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione.
I suddetti parametri, secondo la ricorrente, sarebbero invocabili in forza del "diritto-dovere" della Regione «ad intervenire nel caso di inadempimento statale, a tutela della popolazione di cui la stessa è espressione in ordine a materie e valori costituzionalmente garantiti». Al riguardo, tuttavia, va osservato che il perimetro, entro il quale assumono rilievo gli interessi al cui perseguimento è tesa l'attività legislativa, risulta rigorosamente conformato dalle norme costituzionali attributive di competenza, sicché non è concesso alla Regione di dedurre, a fondamento di un proprio ipotetico titolo di intervento, una competenza primaria riservata in via esclusiva allo Stato, neppure quando essa si intreccia con distinte competenze di sicura appartenenza regionale: saranno, semmai, queste ultime a poter essere dedotte a fondamento di un ricorso di legittimità costituzionale in via principale promosso da una Regione.
Quanto agli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione , fermo quanto appena precisato circa l'ambito entro cui interessi, principi e valori costituzionali assumono rilievo ai fini del giudizio in via principale delle leggi promosso dalle Regioni, non può che ribadirsi che queste possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza legislativa soltanto se esso si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali, senza che possano avere rilievo denunce di illogicità o di violazione di principi costituzionali che non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra le molte, sentenze n. 383 e n. 50 del 2005; n. 287 del 2004).
4. - L'esame nel merito delle questioni di costituzionalità poste alla Corte esige un previo chiarimento del quadro normativo comunitario e nazionale in tema di organismi geneticamente modificati (OGM).
4.1. - La direttiva 2001/18/CE del 12 marzo 2001 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati, che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio) costituisce il testo normativo fondamentale, in punto sia di "immissione in commercio" di OGM (tale essendo, ai sensi dell'art. 2, comma 1, numero 2, di detta direttiva «un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l'accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale»), sia di "emissione deliberata" di OGM nell'ambiente.
Tali nozioni, benché distinte e fondate su separate previsioni normative (sentenza n. 150 del 2005), sono nel loro insieme sufficientemente ampie per ricomprendervi ogni fase dell'impiego di OGM in agricoltura, una volta superate le complesse fasi di autorizzazione previste dalla medesima direttiva: tali procedure comportano una penetrante valutazione, caso per caso, degli eventuali rischi per l'ambiente e la salute umana, connessi all'immissione in commercio, ovvero anche all'emissione di ciascun OGM ai fini dell'uso agricolo.
Le originarie disposizioni in tema di coltivazione degli OGM sono state specificate dalla decisione della Commissione n. 2002/623/CE del 24 luglio 2002 (recante note orientative ad integrazione dell'Allegato II della direttiva 2001/18/CE ) che ha ulteriormente arricchito i criteri cui attenersi per la valutazione del rischio ambientale, anche con particolare ed espresso riferimento alle "pratiche agricole".
Sulla base di tali presupposti, il regolamento n. 1829/2003 del 22 settembre 2003 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli alimenti ed ai mangimi geneticamente modificati), disciplinando con analoghe forme di tutela il regime degli alimenti geneticamente modificati, ha chiarito (art. 7, comma 5) che «l'autorizzazione concessa secondo la procedura [...] è valida in tutta la Comunità», ed ha introdotto nel corpo della direttiva 2001/18/CE l'art. 26 bis, secondo il quale «gli Stati membri possono adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti». Questa stessa disposizione si riferisc espressamente anche alla «coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali ed organiche».
Con ciò si viene a completare il quadro di tutela approntato dalla normativa comunitaria in tema di OGM a presidio dell'ambiente e della salute.
Su un piano connesso, ma distinto, la raccomandazione 2003/556/CE del 23 luglio 2003 (Raccomandazione della Commissione recante orientamenti per lo sviluppo di strategie nazionali e migliori pratiche per garantire la coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali e biologiche) disciplina in modo espresso ed analitico la coesistenza tra culture transgeniche, convenzionali e biologiche nell'ambito della produzione agricola, ponendo inoltre come sua esplicita premessa il principio che «nell'Unione europea non deve essere esclusa alcuna forma di agricoltura, convenzionale, biologica e che si avvale di OGM» (primo "considerando").
Al riguardo, deve essere evidenziato che tale raccomandazione, muovendo dalla premessa secondo cui "gli aspetti ambientali e sanitari" connessi alla coltivazione di OGM sono affrontati e risolti esaustivamente alla luce del regime autorizzatorio disciplinato dalla direttiva 2001/18/CE , circoscrive espressamente il proprio campo applicativo ai soli "aspetti economici connessi alla commistione tra culture transgeniche e non transgeniche", in relazione alle "implicazioni" che l'impiego di OGM può comportare sulla "organizzazione della produzione agricola" (introduzione, paragrafo 1.1).
Si tratta di «orientamenti, sotto forma di raccomandazioni non vincolanti rivolte agli Stati membri», il cui campo di applicazione si estende dalla produzione agricola a livello dell'azienda al primo punto di vendita, ossia "dal seme al silo" (punto 1.5).
Il fatto che l'impiego di OGM autorizzati in agricoltura sia garantito dalla normativa comunitaria ha trovato ulteriore conferma nella decisione 2003/653/CE della Commissione europea del 2 settembre 2003 (relativa alle disposizioni nazionali sul divieto di impiego di organismi geneticamente modificati nell'Austria superiore, notificate dalla Repubblica d'Austria a norma dell'art. 95, par. 5, del Trattato CE), con cui, ai sensi dell'art. 95 del Trattato, è stato respinto un progetto di legge del Land dell'Austria superiore, inteso a vietare in via generale sul proprio territorio l'utilizzo di OGM, al fine di proteggere i sistemi di produzione agricola tradizionali. In questa decisione si è affermato che, in presenza delle disposizioni comunitarie in materia miranti a "ravvicinare la legislazione degli Stati membri", questi ultimi non possono impedire la coltivazione delle sementi OGM autorizzate, ma semmai eventualmente utilizzare la apposita "clausola di salvaguardia" di cui all'art. 23 della medesima direttiva, peraltro sempre in riferimento all'impiego di singoli OGM.
4.2. - Per ciò che riguarda la normativa italiana in questa materia, il decreto legislativo 8 luglio 2003 n. 224 (Attuazione della direttiva 2001/18/CE concernente l'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati), recependo la direttiva 2001/18/CE , pone un'analitica e complessa disciplina di tutela allo specifico fine di «proteggere la salute umana, animale e l'ambiente relativamente alle attività di rilascio di organismi geneticamente modificati» (art. 1, comma 1).
Con specifico riguardo all'impiego di OGM in agricoltura, l'art. 8, comma 2, lettera c), del medesimo d.lgs. n. 224 del 2003 impone che la notifica preliminare all'emissione nell'ambiente di OGM, necessaria ai fini dell'autorizzazione da parte dell'autorità nazionale competente, contenga la «valutazione del rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare, in conformità alle prescrizioni stabilite dal decreto» di cui al successivo comma 6.
E' palese la strumentalità della disciplina così approntata rispetto a finalità di tutela dell'ambiente e della salute: il Ministro dell'ambiente è individuato come "autorità nazionale competente" (art. 2); presso il Ministero dell'ambiente viene costituita una "Commissione interministeriale di valutazione" (con una presenza solo minoritaria di rappresentanti regionali) (art. 6); si regolano analiticamente procedure di autorizzazione, controllo, vigilanza, sanzionate anche penalmente, e si introduce l'obbligo di risarcimento per chi provochi, in violazione delle disposizioni del decreto legislativo stesso, danni "alle acque, al suolo, al sottosuolo e ad altre risorse ambientali" che non siano eliminabili "con la bonifica ed il ripristino ambientale" (art. 36).
Il decreto interministeriale previsto dall' art. 8, comma 6, del d.lgs. n. 224 del 2003 è stato adottato in data 19 gennaio 2005 (Prescrizioni per la valutazione del rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare relativamente alle attività di rilascio deliberato nell'ambiente di OGM per qualsiasi fine diverso dall'immissione sul mercato): questo testo normativo reca dettagliate previsioni concernenti il "rischio per l'agrobiodiversità, i sistemi agrari e la filiera agroalimentare", attribuendo ad un decreto interministeriale il potere di definire "i protocolli tecnici operativi per la gestione del rischio delle singole specie GM" (art. 1, comma 2). Al tempo stesso, alcune funzioni vengono attribuite alle Regioni e queste compongono in maggioranza il Comitato tecnico di coordinamento, che opera presso il Ministero delle politiche agricole e forestali.
In particolare, si prevede che la emissione degli OGM nell'ambiente, per qualsiasi fine diverso dalla immissione sul mercato, debba avvenire in appositi "siti" - e cioè terreni di proprietà o gestiti "da istituti di ricerca pubblici, università, enti di sviluppo agricolo, sistema delle agenzie per la protezione dell'ambiente (APAT/ARPA), regioni e province autonome, enti locali" - individuati dalle Regioni interessate (art. 3).
4.3 - In tale contesto è stato approvato il testo normativo oggetto del presente giudizio e cioè il decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), successivamente convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5 : testo normativo che esplicitamente si dichiara attuativo della raccomandazione 2003/556/CE , al fine di disciplinare il «quadro normativo minimo per la coesistenza tra le colture transgeniche, e quelle convenzionali e biologiche» ed esclude, invece, dalla propria area di competenza le colture per fini di ricerca e sperimentazione autorizzate ai sensi del d.m. 19 gennaio 2005 .
Gli artt. 1 e 2 del decreto-legge impugnato muovono dalla sussistenza del principio, di derivazione comunitaria, di coesistenza tra le colture transgeniche e quelle convenzionali e biologiche, per poi articolarlo in alcune regole generali.
L'adozione delle "misure di coesistenza" necessarie per dare ulteriore attuazione a tale principio è, peraltro, affidata dall' art. 3 del decreto-legge n. 279 del 2004 ad un decreto "di natura non regolamentare" del Ministro per le politiche agricole e forestali, "adottato d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, emanato previo parere delle competenti Commissioni parlamentari". A questo atto è attribuito il potere di definire "le norme quadro per la coesistenza", in coerenza con le quali le Regioni approveranno i propri piani di coesistenza, adottando appositi "provvedimenti" (artt. 3 e 4); questo stesso atto statale individua "le diverse tipologie di risarcimento dei danni" per inosservanza delle misure del piano di coesistenza e definisce "le modalità di accesso del conduttore agricolo danneggiato al Fondo di solidarietà nazionale"; esso disciplina inoltre le forme di utilizzo "di specifici strumenti assicurativi da parte dei conduttori agricoli" (art. 5, comma 1-ter) e definisce "le modalità di accesso del conduttore agricolo danneggiato al Fondo di solidarietà" (art. 4, comma 3-bis); infine, con un atto analogo si deliberano le norme sulle "modalità di controllo" (art. 7, comma 4).
In questo contesto, il piano di coesistenza è adottato con "provvedimento" di ciascuna Regione e Provincia autonoma e «contiene le regole tecniche per realizzare la coesistenza, prevedendo strumenti che garantiscono la collaborazione degli enti territoriali locali, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza» (art. 4.1).
Fino all'adozione dei singoli piani di coesistenza, «le colture transgeniche, ad eccezione di quelle autorizzate per fini di ricerca e di sperimentazione, non sono consentite» (art. 8).
Infine l'art. 7 prevede un altro organo consultivo nazionale, il "Comitato consultivo in materia di coesistenza tra colture transgeniche, convenzionali e biologiche", a composizione mista e con una presenza minoritaria di esperti designati dalla Conferenza permanente Stato-Regioni.
5 - Alla luce del quadro normativo appena indicato è possibile affrontare il merito delle questioni poste dalla Regione ricorrente.
Infondata è anzitutto la censura relativa alla lesione dell'art. 77 della Costituzione sulla base della asserita palese carenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, anche a volerla considerare ammissibile in quanto intesa a far valere in via indiretta una lesione delle competenze regionali.
Premesso che, rispetto alla sussistenza dei presupposti di cui all'art. 77 della Costituzione , il sindacato di questa Corte è circoscritto a verificare l'eventuale carattere "evidente" della loro supposta carenza (tra le molte, le sentenze n. 272 del 2005 e n. 62 del 2005, n. 6 del 2003), vi è da considerare nel caso in questione la necessità di superare con immediatezza la situazione prodotta dalla vigenza di diverse leggi regionali che prescrivevano, in termini più o meno rigorosi, il divieto di impiego, ovvero l'obbligo di attenersi a particolari limitazioni di impiego, degli OGM autorizzati dalla Comunità europea, mentre la raccomandazione 2003/556/CE muove dal presupposto che sia lecito nel diritto comunitario l'impiego nella produzione agricola di OGM, purché autorizzati. Specie dopo la decisione 2003/653/CE della Commissione europea, può essere pacificamente escluso l'asserito manifesto difetto di una situazione di straordinaria necessità ed urgenza ai fini dell'adozione di un testo normativo che eliminasse o riducesse una situazione di evidente contrasto con il diritto comunitario, e consentisse di avviare, pur nel doveroso rispetto delle competenze regionali, un procedimento di attuazione del principio di coesistenza tra colture, con la celerità imposta dall' "imminente approvvigionamento delle sementi per la prossima campagna di semina".
6 - Per risolvere le ulteriori questioni poste dal ricorso della Regione ricorrente, occorre confrontare il complesso quadro normativo in tema di organismi geneticamente modificati con la ripartizione delle competenze che è contenuta nel Titolo V della Costituzione.
Non vi sono dubbi che il d.lgs. 8 luglio 2003 n. 224 , di ricezione della direttiva 2001/18/CE , ed il d.m. 19 gennaio 2005 , che ad esso ha dato attuazione, operano in un'area normativa riconducibile in via primaria alla tutela dell'ambiente, e solo in via secondaria alla tutela della salute e della ricerca scientifica. D'altronde appare significativo del condiviso primato in materia dello Stato, pur in presenza di alcune competenze regionali, sia il riconoscimento in esse di un ruolo sostanzialmente secondario delle Regioni, sia la stessa mancata impugnativa di questi atti normativi statali da parte delle Regioni.
Diverso è l'esito del processo di individuazione della materia entro cui ricondurre la coltivazione degli organismi geneticamente modificati a fini produttivi. Il decreto-legge n. 279 del 2004, oggetto di ricorso, è stato espressamente adottato «in attuazione della raccomandazione della Commissione 2003/556/CE del 23 luglio 2003» (art. 1), atto comunitario che disciplina l' "organizzazione della produzione agricola" per gli aspetti "economici" conseguenti all'utilizzo in agricoltura di OGM ed, invece, estraneo a profili "ambientali e sanitari". Si tratta di un atto comunitario che si inserisce in un preesistente quadro normativo vincolante, relativo alla prevenzione di potenziali pregiudizi per l'ambiente e la salute umana legati all'impiego di OGM. Inoltre, nel formulare tale raccomandazione, la Commissione europea muove dal presupposto, ormai non più controverso nel diritto comunitario, costituito dalla facoltà di impiego di OGM in agricoltura, purché autorizzati.
Per la parte, quindi, che si riferisce al principio di coesistenza e che implicitamente ribadisce la liceità dell'utilizzazione in agricoltura degli OGM autorizzati a livello comunitario, il legislatore statale con l'adozione del decreto-legge n. 279 del 2004 ha esercitato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di tutela dell'ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione), nonché quella concorrente in tema di tutela della salute ( art. 117, terzo comma, della Costituzione ), con ciò anche determinando l'abrogazione per incompatibilità dei divieti e delle limitazioni in tema di coltivazione di OGM che erano contenuti in alcune legislazioni regionali.
Infatti, la formulazione e specificazione del principio di coesistenza tra colture transgeniche, biologiche e convenzionali, rappresenta il punto di sintesi fra i divergenti interessi, di rilievo costituzionale, costituiti da un lato dalla libertà di iniziativa economica dell'imprenditore agricolo e dall'altro lato dall' esigenza che tale libertà non sia esercitata in contrasto con l'utilità sociale, ed in particolare recando danni sproporzionati all'ambiente e alla salute.
Va aggiunto che l'imposizione di limiti all'esercizio della libertà di iniziativa economica, sulla base dei principi di prevenzione e precauzione nell'interesse dell'ambiente e della salute umana, può essere giustificata costituzionalmente solo sulla base di «indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi, di norma nazionali o sovranazionali, a ciò deputati, dato l'essenziale rilievo che, a questi fini, rivestono gli organi tecnico scientifici» (sentenza n. 282 del 2002).
Inoltre, l'elaborazione di tali indirizzi non può che spettare alla legge dello Stato, chiamata ad individuare il «punto di equilibrio fra esigenze contrapposte» (sentenza n. 307 del 2003), che si imponga, in termini non derogabili da parte della legislazione regionale, uniformemente sull'intero territorio nazionale (sentenza n. 338 del 2003).
Sulla base di tali premesse, sono da ritenersi non fondate le censure rivolte avverso gli artt. 1 e 2 del decreto-legge n. 279 del 2004, giacché tali disposizioni, nel fornire una definizione di colture transgeniche, biologiche e convenzionali (art. 1), e nell'affermare il principio di coesistenza di tali colture, in forme tali da "tutelarne le peculiarità e le specificità produttive", sono espressive della competenza esclusiva dello Stato nella materia "tutela dell'ambiente", e della competenza concorrente nella materia "tutela della salute".
7. - Venendo all'esame delle questioni poste sulle ulteriori disposizioni impugnate, la Corte osserva che, mentre il rispetto del principio di coesistenza delle colture transgeniche con le forme di agricoltura convenzionale e biologica inerisce ai principi di tutela ambientale elaborati dalla normativa comunitaria e dalla legislazione statale, invece la coltivazione a fini produttivi riguarda chiaramente il «nocciolo duro della materia agricoltura, che ha a che fare con la produzione di vegetali ed animali destinati all'alimentazione» (come si esprime la sentenza di questa Corte n. 12 del 2004). Infatti, il decreto-legge n. 279 del 2004, mentre esclude in modo espresso dalla sua area di efficacia proprio le colture transgeniche realizzate sulla base del d.m. 19 gennaio 2005 , atto di attuazione del d.lgs. 8 luglio 2003 n. 224 (che, a sua volta, recepisce la direttiva 2001/18/CE ), mira palesemente a disciplinare la produzione agricola in presenza anche di colture transgeniche.
Ciò non toglie che questa disciplina, pur essenzialmente riferita alla materia agricoltura, di competenza delle Regioni ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost. (sentenze n. 282 e n. 12 del 2004), debba o possa essere accompagnata dal parallelo esercizio della legislazione statale in ambiti di esclusiva competenza dello Stato (come, ad esempio, per quanto attiene alla disciplina dei profili della responsabilità dei produttori agricoli) o in ambiti di determinazione dei principi fondamentali, ove vengano in gioco materie legislative di tipo concorrente.
Tale non è tuttavia il caso degli artt. 3, 4 e 7 del decreto-legge n. 279 del 2004, quali convertiti dalla legge n. 5 del 2005.
In queste norme anzitutto si stabiliscono le modalità per adottare le "norme quadro per la coesistenza" (art. 3), prevedendo un atto statale dalla indefinibile natura giuridica (cui peraltro si attribuisce la disciplina di materie che necessiterebbero di una regolamentazione tramite fonti primarie). In secondo luogo, si prevede lo sviluppo ulteriore di queste "norme quadro" tramite piani regionali di natura amministrativa (art. 4). Scelte del genere sono peraltro lesive della competenza legislativa delle Regioni nella materia agricoltura, dal momento che non può essere negato, in tale ambito, l'esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni per disciplinare le modalità di applicazione del principio di coesistenza nei diversi territori regionali, notoriamente molto differenziati dal punto di vista morfologico e produttivo. Infine, neppure appare giustificabile la creazione di un nuovo organo consultivo statale, strettamente strumentale all'esercizio dei poteri ministeriali di cui all'art. 3 (art. 7).
Tali disposizioni devono pertanto essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
Del pari, va dichiarata la illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 6 del decreto-legge n. 279 del 2004, quale convertito dalla legge n. 5 del 2005, dal momento che la regolamentazione delle sanzioni amministrative spetta al soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina della materia la cui inosservanza è in tal modo sanzionata (fra le molte, le sentenze n. 63 del 2006; n. 384 e n. 50 del 2005).
Quanto agli artt. 5, commi 3 e 4, ed 8, prescindendosi in questa sede dalle censure avanzate dalla ricorrente, appare sufficiente per la loro dichiarazione di illegittimità costituzionale la constatazione che le loro discipline si pongono in nesso inscindibile con le norme che questa Corte ha appena ritenuto illegittime, con particolare riferimento alle "norme quadro" statali di cui all' art. 3 del decreto-legge n. 279 del 2004 ed ai piani di coesistenza regionali di cui all' art. 4 del medesimo testo normativo.
Del pari va dichiarato illegittimo l'art. 6, comma 2, recante sanzioni penali in caso di inosservanza del divieto posto dall'art. 8, a causa del suo stretto rapporto con quanto disciplinato in tale ultima disposizione.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile l'intervento in giudizio dell'Associazione Sementieri Mediterranei;
dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli 3, 4, 6, comma 1, e 7 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279 (Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5;
dichiara la conseguente illegittimità costituzionale degli articoli 5, commi 3 e 4, 6, comma 2, e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 5, commi 3 e 4, 6, 7 e 8 del decreto-legge 22 novembre 2004, n. 279, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5, sollevata dalla Regione Marche in relazione agli articoli 9, 32, 33 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del decreto-legge n. 279 del 2004, convertito in legge con modificazioni dalla legge n. 5 del 2005, sollevate dalla Regione Marche in relazione agli articoli 72, 76, 77, 117, commi primo, terzo, quarto e quinto della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2006.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco BILE; Giudici: Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 134, comma 1, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nonché degli artt. 15 e 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 (Misure per favorire l'iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza), promosso con ordinanza del 12 aprile 2006 dal Tribunale di Napoli nel procedimento civile vertente tra Sterilfarma s.r.l. e Belmont s.r.l., iscritta al n. 536 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2006.
Udito nella camera di consiglio del 21 marzo 2007 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Napoli, sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale, con ordinanza del 12 aprile 2006, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 134, comma 1, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nonché degli artt. 15 e 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 (Misure per favorire l'iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza).
2. – Il rimettente premette che la controversia sottoposta al suo giudizio concerne una domanda di accertamento della contraffazione di un marchio registrato e di atti di concorrenza sleale interferenti con la tutela della proprietà industriale, riservata alla cognizione della sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell'art. 3 del decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168 (Istituzione di Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso tribunali e corti d'appello, a norma dell'articolo 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273).
Inoltre, espone che, in virtù dell'art. 134, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, «nei procedimenti giudiziari in materia di proprietà industriale e di concorrenza sleale […] ed in generale in materie di competenza delle sezioni specializzate […] si applicano le norme dei capi I e IV del titolo II e quelle del titolo III» del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366) e, quindi, il giudizio principale, tenuto conto della data di entrata in vigore del codice della proprietà industriale ex art. 245, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, è disciplinato dalle norme che regolano il cosiddetto rito societario.
2.1. – L'art. 16 della legge n. 273 del 2002 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi diretti ad assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti giudiziari nelle materie ivi indicate, anche mediante l'istituzione delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale.
Secondo il giudice a quo, la delega, esercitata con l'emanazione del d.lgs. n. 168 del 2003, è anche scaduta ed ha realizzato, dunque esaurito, i suoi effetti. Inoltre, poiché detto decreto legislativo non conteneva norme di carattere processuale, fatta eccezione per quelle in tema di collegialità dell'organo decidente e di attribuzioni del presidente della sezione, alle controversie devolute alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale (infra, sezioni specializzate) sarebbero state applicabili le norme del codice di procedura civile che disciplinano il rito ordinario.
Sotto un primo profilo, il rimettente deduce che il d.lgs. n. 30 del 2005 è stato emanato in virtù della delega prevista dall'art. 15 della legge n. 273 del 2002, il quale non costituirebbe adeguata base giuridica dell'art. 134, comma 1, del decreto delegato. L'art. 15 ha, invero, ad oggetto «il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di proprietà industriale», allo scopo di realizzare una «ripartizione della materia per settori omogenei e[d il] coordinamento, formale e sostanziale, delle disposizioni vigenti per garantire coerenza giuridica, logica e sistematica» (comma 1, lettera a), anche al fine dello «adeguamento della normativa alla disciplina internazionale e comunitaria» (comma 1, lettera b).
Inoltre, benché alcune delle disposizioni interessate dal «riassetto» avessero carattere procedurale, la delega non concerneva la disciplina delle sezioni specializzate e del rito applicabile alle controversie a queste attribuite, poiché detti profili costituivano oggetto della distinta delega prevista dall'art. 16 della legge n. 273 del 2002. Ad avviso del rimettente, sebbene la relazione ministeriale al d.lgs. n. 30 del 2005 esponga che il denunciato art. 134, comma 1, «attua ed integra le prescrizioni della L. 273/02, nella parte in cui delega il Governo per l'istituzione di sezioni specializzate», è assai dubbio che la più ampia delega dell'art. 15 di detto decreto legislativo ricomprenda quella dell'art. 16, dovendo altresì escludersi che, anche implicitamente, sia stato prorogato il termine di quest'ultima delega, avendo, peraltro, detta relazione dato atto che il d.lgs. n. 30 del 2005 ha innovato la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 168 del 2003.
Sotto un secondo profilo, l'ordinanza di rimessione deduce che il censurato art. 134, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, innovando in materia di rito applicabile innanzi alle sezioni specializzate (nonché in materia di competenza), e stabilendo che le relative controversie (anche quelle in tema di diritto d'autore) sono disciplinate dal rito societario, si porrebbe in contrasto con l'art. 76 Cost., in quanto costituisce esercizio della delega, ormai attuata e scaduta, prevista dall'art. 16 della legge n. 273 del 2002, che aveva ad oggetto l'istituzione di dette sezioni e concerneva i profili sia organizzativi, sia processuali.
2.2. – In linea subordinata, il giudice a quo sostiene che, qualora l'art. 16 della legge n. 273 del 2002 fosse interpretato nel senso che autorizzava il legislatore delegato a disciplinare il rito applicabile alle controversie di competenza delle sezioni specializzate, detta norma – ma anche l'art. 15 della stessa legge – si porrebbe in contrasto con l'art. 76 Cost., per mancanza di princípi e criteri direttivi, in quanto stabilisce soltanto che i decreti legislativi avrebbero dovuto «assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti giudiziari». Dunque, l'estensione alle controversie attribuite alla cognizione delle sezioni specializzate del rito disciplinato dal d.lgs. n. 5 del 2003, che non è solo semplificato rispetto a quello ordinario, ma è alternativo rispetto a quest'ultimo e caratterizzato da principi e presupposti del tutto diversi, non rinverrebbe adeguato fondamento nell'art. 16 della legge n. 273 del 2002.
Infine, conclude il rimettente, sulle questioni non inciderebbe il sopravvenuto art. 70-ter delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile, inserito dall'art. 2, comma 3-ter, lettera a), del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'àmbito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), aggiunto dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, d.l. 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), poiché questa disposizione ha reso applicabile il rito societario a tutte le controversie, indipendentemente dal loro oggetto, ma esclusivamente nel caso in cui le parti, concordemente, abbiano operato una tale scelta.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Napoli, sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale, con ordinanza del 12 aprile 2006, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 134, comma 1, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nonché degli artt. 15 e 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 (Misure per favorire l'iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza).
2 . – Secondo il rimettente, l'art. 134, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, nella parte in cui stabilisce che alle controversie attribuite alla cognizione delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale è applicabile il cosiddetto rito societario, disciplinato dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), si porrebbe in contrasto con l'art. 76 Cost.
La delega prevista dall'art. 15 della legge n. 273 del 2002 non concerneva, infatti, le sezioni specializzate, sotto il profilo organizzativo e della disciplina processuale, dato che queste costituivano oggetto della diversa, distinta, delega contenuta nell'art. 16 di detta legge. Inoltre, neanche la delega prevista da quest'ultima norma costituirebbe adeguata base giuridica del citato art. 134, comma 1, in quanto alla data di emanazione del decreto legislativo n. 30 del 2005 era ormai scaduta e neppure era compresa nella delega dell'art. 15, quindi non può ritenersi prorogata, neppure implicitamente.
In linea subordinata, il Tribunale di Napoli, per il caso in cui si ritenga il citato art. 134, comma 1, riconducibile alla delega di cui agli artt. 15 e 16 della legge n. 273 del 2002, censura dette norme in riferimento all'art. 76 Cost. La genericità di entrambe le deleghe e la mancanza di specifici principi e criteri direttivi non avrebbero, infatti, permesso di stabilire l'applicabilità del rito societario alle controversie attribuite alle sezioni specializzate, dal momento che tale rito non è meramente semplificato rispetto a quello ordinario, ma è alternativo rispetto a quest'ultimo e caratterizzato da principi del tutto diversi.
3. – Prima di esaminare nel merito le censure, va osservato che il Tribunale di Napoli ha denunciato sia l'art. 134, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, sia le norme della legge delega che ne costituirebbero la base giuridica (artt. 15 e 16 della legge n. 273 del 2002), ponendo i quesiti di costituzionalità in rapporto di subordinazione logica; pertanto, le questioni devono ritenersi ammissibili (ordinanze n. 14 del 2003 e n. 273 del 2002).
Il rimettente ha, inoltre, non implausibilmente motivato in ordine all'applicabilità al giudizio principale del citato art. 134, comma 1, anche se, in considerazione dell'oggetto della controversia, come identificato dalla stessa ordinanza, la questione deve ritenersi rilevante esclusivamente in riferimento alla parte della disposizione concernente i procedimenti giudiziari in materia di proprietà industriale e di concorrenza sleale.
4. – La questione avente ad oggetto l'art. 134, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, preliminare rispetto alle altre sotto il profilo logico-giuridico, è fondata.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa si esplica attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno, relativo alle norme che determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si individuano le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l'altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (ex plurimis, sentenze n. 54 del 2007; n. 280 del 2004; n. 199 del 2003).
Inoltre, qualora, come nella specie, la delega abbia ad oggetto il riassetto di norme preesistenti, questa finalità giustifica l'introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente soltanto se siano stabiliti principi e criteri direttivi volti a definire in tal senso l'oggetto della delega ed a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato (sentenze n. 239 del 2003 e n. 354 del 1998).
La norma censurata, come dedotto dal rimettente, sia pure con qualche incertezza, rinviene la sua base giuridica esclusivamente nell'art. 15 del d.lgs. n. 30 del 2005.
Decisiva è in tal senso la circostanza che nella stessa premessa del decreto legislativo n. 30 del 2005, dopo il generico riferimento alla legge delega n. 273 del 2002, è richiamato espressamente soltanto l'art. 15, non anche l'art. 16 della stessa legge. D'altra parte, il termine per l'esercizio della delega prevista dal citato art. 16 era comunque scaduto alla data di emanazione del decreto legislativo n. 30 del 2005. In particolare, detto termine era scaduto già alla data in cui è stato prorogato, per la prima volta, quello della delega conferita con l'art. 15, ad opera dell'art. 2 della legge 27 luglio 2004, n. 186, il quale aveva avuto ad oggetto soltanto il termine fissato dall'art. 15.
La delega prevista dal citato art. 15 concerne «il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di proprietà industriale» e la sua formulazione, anche in considerazione dei principi e dei criteri direttivi enunciati, è riferibile esclusivamente alle norme di diritto sostanziale, a quelle di diritto processuale previste dalle leggi speciali oggetto del riassetto, alla disciplina dei procedimenti amministrativi richiamati in detti principi e criteri, alla modalità di realizzazione della semplificazione e del riassetto normativo (in virtù del rinvio all'art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, nel testo sostituito dall'art. 1, comma 1, della legge 29 luglio 2003, n. 229, e del comma 2 di quest'ultima norma).
In tal senso, è significativo che la relazione al disegno di legge poi divenuto legge n. 273 del 2002, in riferimento alla delega prevista dall'art. 15, precisa che sua finalità era il «riordino normativo della disciplina sulla proprietà industriale», che «passa, dunque, attraverso la razionalizzazione e la semplificazione delle disposizioni di diritto sostanziale». Con detta delega, pertanto, è stato conferito al legislatore il potere di comporre in un testo normativo unitario le molteplici disposizioni vigenti nella materia, modificandole nella misura strettamente necessaria, adeguandole alla disciplina internazionale e comunitaria, organizzandole in un quadro nuovo, ponendo in rilievo i nessi sistematici esistenti tra i molteplici diritti di proprietà industriale.
Nessuno dei principi e criteri direttivi permette di ritenere che, sia pure implicitamente, il legislatore delegato sia stato autorizzato a stabilire la disciplina processuale delle controversie attribuite alla cognizione delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, mediante la previsione dell'applicabilità di un rito diverso da quello ordinario, caratterizzato da elementi peculiari rispetto a quest'ultimo, realizzando in tal modo una sostanziale innovazione del regime vigente. Peraltro, alla data di promulgazione della legge delega (12 dicembre 2002), la disciplina del processo societario non era stata ancora emanata (in quanto stabilita dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), sicché, avendo riguardo alla data della delega, non erano enunciabili neppure principi e criteri direttivi stabiliti per relationem, mediante rinvio, sia pure implicito, ad una disciplina già presente nell'ordinamento.
Il contesto normativo nel quale è inserita la delega in esame conforta questa interpretazione.
Nella stessa legge n. 273 del 2002, subito dopo l'art. 15, e cioè nell'art. 16, è stata infatti prevista una distinta ed ulteriore delega, avente ad oggetto l'emanazione di decreti legislativi diretti proprio «ad assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti giudiziari», esercitata mediante l'emanazione del d.lgs. n. 168 del 2003, che ha istituito le sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, intervenendo anche sulla disciplina del processo (sia pure limitatamente alla previsione della riserva di collegialità e delle attribuzioni del presidente della sezione: artt. 2, comma 1, e 5).
La disciplina in una stessa legge di queste due distinte deleghe, una delle quali (quella dell'art. 16) concerneva dette sezioni specializzate, in relazione ai profili inerenti sia all'organizzazione che alla disciplina del processo, è univocamente espressiva dell'intento del legislatore delegante di escludere tali profili dalla delega oggetto dell'art. 15.
Le ragioni di opportunità e la finalità di «maggiore efficienza», richiamate nella relazione ministeriale al d.lgs. n. 30 del 2005 a conforto dell'intervento sulla disciplina del processo, non giustificano, inoltre, una soluzione adottata in difetto di ogni previsione in tal senso nel citato art. 15 e che, conseguentemente, neppure rientra nella sfera di discrezionalità spettante al legislatore delegato.
Deve essere, pertanto, dichiarata, per violazione dell'art. 76 Cost., l'illegittimità costituzionale, dell'art. 134, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, nella parte in cui stabilisce che nei procedimenti giudiziari in materia di proprietà industriale e di concorrenza sleale, la cui cognizione è delle sezioni specializzate, ivi comprese quelle che presentano ragioni di connessione anche impropria, si applicano le norme dei capi I e IV del titolo II e quelle del titolo III del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, restando assorbite le ulteriori questioni.
Le considerazioni svolte valgono anche al fine di affermare che il legislatore delegato era privo del potere di stabilire che in materia di illeciti afferenti all'esercizio di diritti di proprietà industriale ai sensi della legge 10 ottobre 1990, n. 287, e degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, la cui cognizione è del giudice ordinario, ed in generale in materie di competenza delle sezioni specializzate, ivi comprese quelle che presentano ragioni di connessione anche impropria, si applicano le norme dei capi I e IV del titolo II e quelle del titolo III del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
Pertanto, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va dichiarata l'illegittimità costituzionale del citato art. 134, comma 1, anche in questa parte.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 134, comma 1, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nella parte in cui stabilisce che nei procedimenti giudiziari in materia di proprietà industriale e di concorrenza sleale, la cui cognizione è delle sezioni specializzate, quivi comprese quelle che presentano ragioni di connessione anche impropria, si applicano le norme dei capi I e IV del titolo II e quelle del titolo III del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366);
dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 134, comma 1, del decreto legislativo n. 30 del 2005, nella parte in cui stabilisce che nei procedimenti giudiziari in materia di illeciti afferenti all'esercizio di diritti di proprietà industriale ai sensi della legge 10 ottobre 1990, n. 287, e degli articoli 81 e 82 del Trattato UE, la cui cognizione è del giudice ordinario, ed in generale in materie di competenza delle sezioni specializzate, quivi comprese quelle che presentano ragioni di connessione anche impropria, si applicano le norme dei capi I e IV del titolo II e quelle del titolo III del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2007.
Il Cancelliere
F.to: FRUSCELLA
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco BILE; Giudici: Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promosso dal Tribunale di Catania, nel procedimento civile vertente tra C. M. ed altro e la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., con ordinanza del 17 gennaio 2006 iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 2006.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 giugno 2006 il Giudice relatore Francesco Amirante.
Ritenuto in fatto
1.–– Nel corso di un giudizio civile promosso da due soggetti privati contro un istituto di credito per la nullità di un contratto di acquisto di titoli mobiliari e per il rimborso delle perdite subite, il Tribunale di Catania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).
Rileva il Tribunale che, a seguito della notifica dell'atto di citazione avvenuta il 1° aprile 2005, la banca convenuta ha notificato la propria comparsa di risposta il successivo 1° giugno 2005; in data 16 giugno 2005 gli attori, eccependo la tardività della notifica della comparsa, hanno notificato alla controparte l'istanza di fissazione di udienza, chiedendo al Tribunale di considerare non contestati i fatti così come narrati nell'atto di citazione.
Ciò premesso, il giudice a quo osserva che la disposizione impugnata effettivamente ricollega alla contumacia del convenuto (cui viene equiparata la tardiva costituzione) l'effetto di una sorta di ficta confessio, dovendosi intendere come non contestati i fatti affermati dall'attore, in tal modo innovando rispetto alla consolidata giurisprudenza per cui la contumacia nel processo civile non può assumere alcun significato probatorio. Tale scelta legislativa, peraltro, appare in contrasto, anzitutto, con l'art. 76 Cost., in quanto nell'art. 12, comma 2, lettera a), della legge n. 366 del 2001 manca ogni riferimento al rito contumaciale. Richiamando, in proposito, alcune sentenze di questa Corte sulla necessità che la legge di delegazione venga interpretata tenendo presenti le finalità ispiratrici della medesima, il Tribunale di Catania sottolinea che la riforma del rito contumaciale operata dalla norma in esame non risponde, se non per «mero accidente processuale», alla finalità di riduzione dei termini processuali, il che risulterebbe ancora più evidente in un processo con più convenuti dei quali almeno uno si sia costituito tempestivamente. E, d'altra parte, nessuna volontà di riforma dell'istituto della contumacia trapela dai lavori parlamentari, poiché la relazione di accompagnamento al disegno di legge delega per la riforma del diritto societario (presentato il 3 luglio 2001) non contiene alcun riferimento alla materia in oggetto; al contrario, un preciso richiamo alla contumacia è presente nel punto 23 del disegno di legge delega per la complessiva riforma del processo civile approvato dal Consiglio dei ministri in data 24 ottobre 2003.
Ritiene quindi il giudice remittente, per le ragioni indicate, che la norma in esame sia censurabile sotto il profilo dell'eccesso di delega.
Il meccanismo della ficta confessio previsto dall'impugnato art. 13, comma 2, in caso di tardiva notifica della comparsa di risposta appare al Tribunale di Catania, «in via subordinata», in contrasto anche con l'art. 3 Cost., in quanto contrario al canone della ragionevolezza, poiché attribuisce all'attore un privilegio processuale non riscontrabile in nessuno degli altri riti regolati dal nostro sistema processuale; e tale disparità non potrebbe trovare giustificazione neppure nella peculiarità delle controversie destinate ad essere trattate col cosiddetto rito societario, poiché l'art. 70-ter delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile consente, nell'accordo delle parti, che tale rito si applichi anche ai processi ordinari.
In via «ulteriormente gradata», infine, il Tribunale di Catania ravvisa un contrasto tra la censurata disposizione e l'art. 24 Cost., in quanto la «secca previsione normativa della non contestabilità dei fatti affermati dall'attore in caso di tardiva notificazione della comparsa di risposta» costituirebbe una sanzione processuale sproporzionata del comportamento del convenuto che, come nel caso di specie, ha notificato la propria comparsa di risposta con un solo giorno di ritardo rispetto al termine fissato per legge.
Nel rito in esame, infatti, non è neppure previsto l'obbligo (si veda l'art. 2, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 5 del 2003) che l'atto introduttivo contenga l'avvertimento al convenuto circa le conseguenze negative che si possono produrre a suo carico in caso di contumacia o tardiva costituzione. Ciò comporta, secondo il Tribunale, una lesione del diritto di difesa del convenuto.
Quanto alla rilevanza, infine, il giudice a quo osserva che essa senza dubbio sussiste nel giudizio pendente, poiché si deve stabilire se la tardiva notifica della comparsa di risposta determini o meno gli effetti di non contestazione fissati dalla disposizione sottoposta a scrutinio.
2.— È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione.
Osserva l'Avvocatura dello Stato, richiamando numerose pronunce di questa Corte in ordine alla censura di eccesso di delega, che è da escludere la violazione dell'art. 76 della Costituzione. Rientra, a suo dire, nella fisiologia della delega legislativa il fatto che la legge si limiti a contenere i principi ed i criteri direttivi senza regolare integralmente tutti gli aspetti della fattispecie, sussistendo nel Governo delegato il potere di “riempimento” che la giurisprudenza costituzionale ha in più occasioni riconosciuto. La delega, d'altronde, non può eliminare ogni margine di scelta nel momento della sua attuazione, anche perché accade di frequente che il legislatore delegante faccia espresso riferimento a concetti come “clausole generali”, “ridefinizione”, “riordino” e “razionalizzazione” (sentenza n. 125 del 2003), indicando in tal modo criteri generici ma tuttavia sufficienti a delimitare il compito del legislatore delegato.
La norma impugnata non può, alla luce di siffatte considerazioni, essere considerata illegittima, perché l'art. 12, comma 2, della legge n. 366 del 2001 contiene criteri idonei e determinati: in esso si fa riferimento all'esigenza di una più rapida definizione dei procedimenti nelle materie ivi indicate, sicché non può lamentarsi una violazione dell'art. 76 Cost.
Sarebbe improprio, secondo l'Avvocatura dello Stato, invocare l'art. 3 Cost. per paragonare il trattamento riservato al contumace nel rito ordinario con quello regolato dalla disposizione in esame, perché la delega non ha vincolato il Governo a rispettare, in tutto e per tutto, l'ideologia che animava il codice di procedura vigente; anzi, ai fini della concentrazione del procedimento e della riduzione della sua durata complessiva, era necessario creare un modello processuale più agile, tale da liberare il giudice da una serie di impegni ripetitivi ed inutili; in vista di quest'obiettivo, tra l'altro, si è ritenuto opportuno affidare la fase iniziale del procedimento alla disponibilità delle parti, escludendo ogni intervento del giudice.
Sotto questo profilo, quindi, dovrebbe dirsi che la scelta di regolare diversamente l'istituto della contumacia si sia tradotta in un'attuazione piena della delega, contribuendo a determinare una maggiore concentrazione del procedimento ed una conseguente riduzione dei suoi tempi, anche in considerazione del fatto che il rito è destinato ad operare in controversie «che, per loro natura, necessitano di soluzioni immediate e che, di norma, non richiedono una complessa istruttoria».
Considerato in diritto
1.–– Il Tribunale di Catania, in composizione collegiale, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, in via subordinata in riferimento all'art. 3 Cost. e, in via ancor più gradata, in riferimento all'art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).
Il remittente riferisce che soggetti privati hanno convenuto in giudizio un istituto bancario per sentir dichiarare la nullità di un contratto di acquisto di titoli mobiliari con esso concluso e per la condanna al risarcimento dei danni subiti per la dismissione dei medesimi; che il convenuto ha notificato in ritardo la comparsa di costituzione e gli attori hanno presentato istanza di fissazione dell'udienza, la quale, ai sensi della disposizione censurata, comporta che i fatti dedotti dagli attori devono ritenersi come ammessi.
Secondo il remittente, nello stabilire la cosiddetta ficta confessio in caso di mancata o tardiva notifica della suddetta comparsa, il legislatore delegato è andato al di là della delega di cui all'art. 12, comma 2, lettera a), della legge n. 366 del 2001, la quale prevedeva soltanto la concentrazione dei procedimenti e la riduzione dei termini, ma non anche una così sostanziale modifica del procedimento contumaciale, contraria alla tradizione giuridica italiana.
Una innovazione come quella introdotta con la disposizione impugnata avrebbe richiesto una specifica direttiva, come è anche dimostrato dal fatto che nel disegno di legge di delega per la generale riforma del processo civile, approvato dal Consiglio dei ministri il 24 ottobre 2003 (Atto Camera n. 4578), al punto 23 è indicato come criterio direttivo quello cui è autonomamente, e quindi illegittimamente, ispirata la disposizione in scrutinio.
In via subordinata, il Tribunale di Catania deduce il contrasto della disposizione suddetta con l'art. 3 Cost., in quanto attribuisce un ingiustificato privilegio alla parte attrice nei procedimenti che si svolgono con il cosiddetto rito societario; in via ancor più gradata, il remittente lamenta la violazione dell'art. 24 Cost., in quanto dalla disposizione impugnata consegue l'irragionevole e perciò illegittima compressione del diritto di difesa della parte convenuta.
2.–– La questione è fondata con riferimento all'art. 76 della Costituzione.
Questa Corte ha più volte affermato che «il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante, condotto alla stregua dell'art. 76 Cost., si esplica attraverso il confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno relativo alla norme che determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l'altro relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e criteri direttivi della delega» (ex plurimis sentenze n. 7 e n. 15 del 1999, n. 276, n. 163, n. 126, n. 425, n. 503 del 2000, n. 54 e n. 170 del 2007). E, in considerazione della varietà delle materie riguardo alle quali si può ricorrere alla delega legislativa, non è possibile enucleare una nozione rigida valevole per tutte le ipotesi di “principi e criteri direttivi”. In questo ordine d'idee si è anche affermato che «il Parlamento, approvando una legge di delegazione, non è certo tenuto a rispettare regole metodologicamente rigorose…» (sentenza n. 250 del 1991).
Siffatti principi, che la Corte ribadisce, vanno però applicati non disgiuntamente da altri che pure, come si è affermato, debbono presiedere allo scrutinio di legittimità costituzionale di disposizioni di provvedimenti legislativi delegati sotto il profilo della loro conformità alla legge di delegazione e che delimitano il cosiddetto potere di riempimento del legislatore delegato. Infatti, per quanta ampiezza possa a questo riconoscersi, «il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega» (sentenza n. 68 del 1991; e, sul carattere derogatorio della legislazione su delega rispetto alla regola costituzionale di cui all'art. 70 Cost., cfr. anche la sentenza n. 171 del 2007).
Tutto ciò premesso, si rileva che la disposizione censurata – stabilendo che, se il convenuto non notifica la comparsa di risposta o lo fa tardivamente, i fatti affermati dall'attore si reputano non contestati – detta una regola del processo contumaciale in contrasto con la tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è stato attribuito il valore di confessione implicita.
La legge di delegazione era finalizzata all'emanazione di norme che, senza modifiche della competenza per territorio o per materia, fossero dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria nonché in materia bancaria e creditizia (art. 12, comma 1, lettere a e b, della legge n. 366 del 2001).
Per raggiungere le suindicate finalità, si stabiliva che il Governo era delegato a dettare regole processuali che, in particolare, potessero prevedere «la concentrazione del procedimento e la riduzione dei termini processuali».
La censurata disposizione del decreto delegato, mentre è evidentemente estranea alla riduzione dei termini processuali, neppure può essere ritenuta conforme alla direttiva della concentrazione del procedimento. La considerazione della «più rapida ed efficace definizione dei procedimenti», indicata come finalità della delega, costituisce un utile criterio d'interpretazione sia della legge di delegazione, sia delle disposizioni delegate, ma non può sostituirsi alla valutazione dei principi e criteri direttivi, così come determinati dalla legge di delegazione. Tutto ciò anche a voler trascurare il rilievo secondo il quale non sempre l'introduzione della ficta confessio contribuisce alla rapida ed efficace definizione dei procedimenti.
L'accertamento della fondatezza della questione per violazione dell'art. 76 Cost. assorbe l'esame degli altri profili di illegittimità costituzionale, del resto dallo stesso remittente prospettati in via subordinata.
Deve essere, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003, nella parte in cui stabilisce: «in quest'ultimo caso i fatti affermati dall'attore, anche quando il convenuto abbia tardivamente notificato la comparsa di costituzione, si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa».
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), nella parte in cui stabilisce: «in quest'ultimo caso i fatti affermati dall'attore, anche quando il convenuto abbia tardivamente notificato la comparsa di costituzione, si intendono non contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2007.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2-quater, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, nella parte in cui introduce i commi 5-quater e 5-quinquies, primo periodo, nell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), promossi dalle Regioni Liguria, Basilicata, Puglia, Marche, Abruzzo e Toscana, con ricorsi notificati il 27, il 26, ed il 27 aprile 2011, depositati in cancelleria il 4, il 5 ed il 6 maggio 2011, ed iscritti, rispettivamente, ai numeri 38, 39, 40, 41, 42 e 43 del registro ricorsi 2011.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2012 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi gli avvocati Giandomenico Falcon per la Regione Liguria, Marcello Cecchetti per le Regioni Basilicata, Puglia e Toscana, Stefano Grassi per le Regioni Marche e Abruzzo e l’avvocato dello Stato Beatrice Gaia Fiduccia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1.— Le Regioni Liguria (reg. ric. n. 38 del 2011), Basilicata (reg. ric. n. 39 del 2011), Puglia (reg. ric. n. 40 del 2011), Marche (reg. ric. n. 41 del 2011), Abruzzo (reg. ric. n. 42 del 2011) e Toscana (reg. ric. n. 43 del 2011) hanno promosso questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2-quater, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, nella parte in cui introduce i commi 5-quater e 5-quinquies, primo periodo, nell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), per violazione, nel complesso, degli articoli 1, 2, 3, 23, 77, 117, 118, 119, 121 e 123 della Costituzione, e del principio di leale collaborazione.
I giudizi, in considerazione della loro connessione oggettiva devono essere riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.
2.— Preliminarmente, occorre rilevare che le Regioni Liguria e Basilicata hanno impugnato genericamente i nuovi commi 5-quater e 5-quinquies della legge n. 225 del 1992, mentre le Regioni Puglia, Marche, Abruzzo e Toscana hanno impugnato l’intero comma 5-quater ed il solo primo periodo del comma 5-quinquies.
In ogni caso, anche le Regioni Liguria e Basilicata appuntano, nella sostanza, le proprie censure sul solo primo periodo del comma 5-quinquies, per cui deve ritenersi che esso costituisca l’oggetto dell’impugnativa regionale.
3.— La questione sollevata in relazione all’art. 77, secondo comma, Cost., è ammissibile e fondata.
3.1.— Questa Corte, con giurisprudenza costante, ha ritenuto ammissibili le questioni di legittimità costituzionale prospettate da una Regione, nell’ambito di un giudizio in via principale, in riferimento a parametri diversi da quelli, contenuti nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione, riguardanti il riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni, quando sia possibile rilevare la ridondanza delle asserite violazioni su tale riparto e la ricorrente abbia indicato le specifiche competenze ritenute lese e le ragioni della lamentata lesione (ex plurimis, sentenze n. 128 del 2011, n. 326 del 2010, n. 116 del 2006, n. 280 del 2004).
Con riferimento all’art. 77 Cost., questa Corte ha ribadito in parte qua la giurisprudenza sopra ricordata, riconoscendo che le Regioni possono impugnare un decreto-legge per motivi attinenti alla pretesa violazione del medesimo art. 77, «ove adducano che da tale violazione derivi una compressione delle loro competenze costituzionali» (sentenza n. 6 del 2004).
Nella fattispecie, la Regione Liguria, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., motiva la ridondanza della suddetta censura sulle proprie attribuzioni costituzionali, facendo leva sul fatto che le norme impugnate incidono su un ambito materiale di competenza legislativa concorrente («protezione civile»). Attraverso il ricorso al decreto-legge, lo Stato avrebbe vincolato le Regioni utilizzando uno strumento improprio, ammesso dalla Costituzione per esigenze del tutto diverse; inoltre, l’approvazione di una nuova disciplina “a regime”, attraverso la corsia accelerata della legge di conversione, pregiudicherebbe la possibilità per le Regioni di rappresentare le proprie esigenze nel procedimento legislativo.
Questa Corte condivide l’individuazione, operata dalla suddetta ricorrente, dell’ambito materiale di incidenza delle norme impugnate, con la conseguenza che la violazione denunciata risulta potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni (in tal senso, ex plurimis, sentenze n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003).
Ricorrono, quindi, le condizioni per prendere in esame la questione relativa alla pretesa violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. da parte delle norme statali impugnate.
3.2.— Preliminarmente, occorre osservare che le disposizioni oggetto di ricorso sono state introdotte nel corpo del d.l. n. 225 del 2010 per effetto di emendamenti approvati in sede di conversione. Esse non facevano parte, pertanto, del testo originario del decreto-legge sottoposto alla firma del Presidente della Repubblica.
Va rilevato altresì che le disposizioni di cui sopra regolano i rapporti finanziari tra Stato e Regioni in materia di protezione civile non con riferimento ad uno o più specifici eventi calamitosi, o in relazione a situazioni già esistenti e bisognose di urgente intervento normativo, ma in via generale e ordinamentale per tutti i casi futuri di possibili eventi calamitosi, di cui all’art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 225 del 1992. Si tratta quindi di una normativa “a regime”, del tutto slegata da contingenze particolari, inserita tuttavia nella legge di conversione di un decreto-legge denominato «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie».
Il preambolo di tale atto con forza di legge così recita: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di provvedere alla proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di adottare misure in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie, al fine di consentire una più concreta e puntuale attuazione dei correlati adempimenti». Le disposizioni impugnate sono state inserite, in sede di conversione, nell’art. 2, nella cui rubrica si legge: «Proroghe onerose di termini».
Da quanto sopra esposto risulta palese l’estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto-legge cosiddetto “milleproroghe”, in quanto si tratta di un frammento, relativo ai rapporti finanziari, della disciplina generale e sistematica, tuttora mancante, del riparto delle funzioni e degli oneri tra Stato e Regioni in materia di protezione civile.
3.3.— Questa Corte ha individuato, tra gli indici alla stregua dei quali verificare «se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza di provvedere», la «evidente estraneità» della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita (sentenza n. 171 del 2007; in conformità, sentenza n. 128 del 2008).
La giurisprudenza sopra richiamata collega il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. La urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare.
Da quanto detto si trae la conclusione che la semplice immissione di una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità. Ai sensi del secondo comma dell’art. 77 Cost., i presupposti per l’esercizio senza delega della potestà legislativa da parte del Governo riguardano il decreto-legge nella sua interezza, inteso come insieme di disposizioni omogenee per la materia o per lo scopo.
L’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con forza di legge», di cui alla norma costituzionale citata. Il presupposto del «caso» straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno. La scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il «caso» che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità temporale.
L’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) – là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge «deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo» – pur non avendo, in sé e per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità in un giudizio davanti a questa Corte, costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell’art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell’intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento.
3.4.— I cosiddetti decreti “milleproroghe”, che, con cadenza ormai annuale, vengono convertiti in legge dalle Camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal Governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti – pur attinenti ad oggetti e materie diversi – che richiedono interventi regolatori di natura temporale. Del tutto estranea a tali interventi è la disciplina “a regime” di materie o settori di materie, rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono quindi essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa, di cui all’art. 71 Cost. Ove le discipline estranee alla ratio unitaria del decreto presentassero, secondo il giudizio politico del Governo, profili autonomi di necessità e urgenza, le stesse ben potrebbero essere contenute in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati. Risulta invece in contrasto con l’art. 77 Cost. la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei.
4.— La necessaria omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione all’apprezzamento politico, operato dal Governo e controllato dal Parlamento, del singolo caso straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione.
4.1.— Il principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è pienamente recepito dall’art. 96-bis, comma 7, del regolamento della Camera dei deputati, che dispone: «Il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge».
Sulla medesima linea si colloca la lettera inviata il 7 marzo 2011 dal Presidente del Senato ai Presidenti delle Commissioni parlamentari, nonché, per conoscenza, al Ministro per i rapporti con il Parlamento, in cui si esprime l’indirizzo «di interpretare in modo particolarmente rigoroso, in sede di conversione di un decreto-legge, la norma dell’art. 97, comma 1, del regolamento, sulla improponibilità di emendamenti estranei all’oggetto della discussione», ricordando in proposito il parere espresso dalla Giunta per il regolamento l’8 novembre 1984, richiamato, a sua volta, dalla circolare sull’istruttoria legislativa nelle Commissioni del 10 gennaio 1997.
Peraltro, il suddetto principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è stato richiamato nel messaggio del 29 marzo 2002, con il quale il Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 74 Cost., ha rinviato alle Camere il disegno di legge di conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4 (Disposizioni urgenti finalizzate a superare lo stato di crisi per il settore zootecnico, per la pesca e per l’agricoltura), e ribadito nella lettera del 22 febbraio 2011, inviata dal Capo dello Stato ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge oggetto degli odierni giudizi.
4.2.— Si deve ritenere che l’esclusione della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77, secondo comma, Cost., che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario.
Innanzitutto, il disegno di legge di conversione del decreto-legge appartiene alla competenza riservata del Governo, che deve presentarlo alle Camere «il giorno stesso» della emanazione dell’atto normativo urgente. Anche i tempi del procedimento sono particolarmente rapidi, giacché le Camere, anche se sciolte, sono convocate appositamente e si riuniscono entro cinque giorni. In coerenza con la necessaria accelerazione del procedimento, i regolamenti delle Camere prevedono norme specifiche, mirate a consentire la conversione in legge entro il termine costituzionale di sessanta giorni.
Il Parlamento è chiamato a convertire, o non, in legge un atto, unitariamente considerato, contenente disposizioni giudicate urgenti dal Governo per la natura stessa delle fattispecie regolate o per la finalità che si intende perseguire. In definitiva, l’oggetto del decreto-legge tende a coincidere con quello della legge di conversione.
Non si può tuttavia escludere che le Camere possano, nell’esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nel merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità. Il testo può anche essere emendato per esigenze meramente tecniche o formali. Ciò che esorbita invece dalla sequenza tipica profilata dall’art. 77, secondo comma, Cost., è l’alterazione dell’omogeneità di fondo della normativa urgente, quale risulta dal testo originario, ove questo, a sua volta, possieda tale caratteristica (in caso contrario, si porrebbero i problemi esaminati nel paragrafo 3.3 e risolti dalla giurisprudenza costituzionale ivi richiamata).
In definitiva, l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge.
La Costituzione italiana disciplina, nelle loro grandi linee, i diversi procedimenti legislativi e pone limiti e regole, da specificarsi nei regolamenti parlamentari. Il rispetto delle norme costituzionali, che dettano tali limiti e regole, è condizione di legittimità costituzionale degli atti approvati, come questa Corte ha già affermato a partire dalla sentenza n. 9 del 1959, nella quale ha stabilito la propria «competenza di controllare se il processo formativo di una legge si è compiuto in conformità alle norme con le quali la Costituzione direttamente regola tale procedimento».
Considerato che le norme impugnate nel presente giudizio, inserite nel corso del procedimento di conversione del d.l. n. 225 del 2010, sono del tutto estranee alla materia e alle finalità del medesimo, si deve concludere che le stesse sono costituzionalmente illegittime, per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
5.— Come s’è detto al paragrafo 3.1, l’ammissibilità della censura riferita alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., dipende dalla denunciata lesione, ad opera delle norme impugnate, di competenze costituzionalmente tutelate delle Regioni ricorrenti. Lo scrutinio delle censure di merito dimostra, peraltro, che alcune delle questioni sollevate sono fondate, come di seguito specificato.
5.1.— Le questioni sollevate in riferimento all’art. 119, commi primo, quarto e quinto sono fondate.
5.2.— In relazione al primo comma dell’art. 119 Cost., si deve osservare che le norme impugnate, in quanto impongono alle Regioni di deliberare gli aumenti fiscali in esse indicati per poter accedere al Fondo nazionale della protezione civile, in presenza di un persistente accentramento statale del servizio, ledono l’autonomia di entrata delle stesse. Parimenti, le suddette norme ledono l’autonomia di spesa, poiché obbligano le Regioni ad utilizzare le proprie entrate a favore di organismi statali (Servizio nazionale di protezione civile), per l’esercizio di compiti istituzionali di questi ultimi, corrispondenti a loro specifiche competenze fissate nella legislazione vigente.
5.3.— Risulta violato altresì il quarto comma dell’art. 119 Cost., sotto il profilo del legame necessario tra le entrate delle Regioni e le funzioni delle stesse, poiché lo Stato, pur trattenendo per sé le funzioni in materia di protezione civile, ne accolla i costi alle Regioni stesse.
5.4.— Peraltro, l’obbligo di aumento pesa irragionevolmente sulla Regione nel cui territorio si è verificato l’evento calamitoso, con la conseguenza che le popolazioni colpite dal disastro subiscono una penalizzazione ulteriore. Né vale obiettare – come ha fatto la difesa statale – che i soggetti danneggiati non verrebbero coinvolti nell’aumento della pressione fiscale, in quanto per gli stessi è sospeso o differito ogni adempimento o versamento, ai sensi dell’art. 5, comma 5-ter, della legge n. 225 del 1992. Se infatti gli adempimenti ed i versamenti sono sospesi o differiti, le obbligazioni cui si riferiscono rimangono valide e vincolanti; tra queste rientrano gli aumenti tributari previsti dalle norme impugnate, che, scaduti i termini di sospensione o di differimento, finirebbero per gravare, pro quota, anche sulle popolazioni colpite dalla catastrofe, le quali dalle istituzioni riceverebbero in tal modo una risposta non coerente con il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.
5.5.— Le norme censurate contraddicono inoltre la ratio del quinto comma dell’art. 119 Cost.: le stesse, anziché prevedere risorse aggiuntive per determinate Regioni «per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» (quali sono quelli derivanti dalla necessità di fronteggiare gli effetti sulle popolazioni e sul territorio di eventi calamitosi improvvisi ed imprevedibili), al contrario, impongono alle stesse Regioni di destinare risorse aggiuntive per il funzionamento di organi e attività statali.
6.— La previsione contenuta nel comma 5-quater, secondo cui «il Presidente della regione interessata» è autorizzato a deliberare gli aumenti fiscali ivi previsti, si pone in contrasto con l’art. 23 Cost., in quanto viola la riserva di legge in materia tributaria, e con l’art. 123 Cost., poiché lede l’autonomia statutaria regionale nell’individuare con norma statale l’organo della Regione titolare di determinate funzioni (ex plurimis, sentenze n. 201 del 2008, n. 387 del 2007).
7.— Sono assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dalle Regioni ricorrenti.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2-quater, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, nella parte in cui introduce i commi 5-quater e 5-quinquies, primo periodo, nell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 febbraio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 16, comma 1, lettere b), c), d), e) ed f), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, promossi dalle Regioni Emilia-Romagna e Liguria con ricorsi notificati il 14 settembre 2011, depositati in cancelleria il 21 settembre 2011 ed iscritti ai nn. 98 e 99 del registro ricorsi 2011.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 maggio 2012 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Giandomenico Falcon per le Regioni Emilia-Romagna e Liguria e l’avvocato dello Stato Angelo Venturini per il Presidente del Consiglio dei ministri.
(Omissis)
4.1.— La disposizione censurata, al dichiarato fine di assicurare il consolidamento delle misure di razionalizzazione e di contenimento della spesa già adottate dal legislatore e allo scopo di realizzare ulteriori risparmi, autorizza l’emanazione di uno o più regolamenti di delegificazione che incidono su una varietà di aspetti dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni attinenti principalmente, benché non in modo esclusivo, al pubblico impiego.
Diversamente dall’interpretazione fatta propria dalle ricorrenti, le delegificazioni autorizzate dalla disposizione impugnata non possono essere ascritte interamente alla materia del coordinamento della finanza pubblica. Benché la finalità della disposizione in esame sia esplicitamente quella di perseguire il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, l’oggetto dell’intervento normativo e dei regolamenti ivi previsti interessa una molteplicità di settori. È dunque in riferimento a questi ultimi, e alla competenza legislativa che lo Stato detiene rispetto ad essi, che deve essere valutata la legittimità della previsione dei procedimenti di delegificazione.
4.2. — Infatti – a prescindere da ogni considerazione sulla correttezza della prassi di autorizzare l’emanazione di regolamenti di delegificazione tramite decreto-legge (come è avvenuto nel caso in esame) e lasciando impregiudicata ogni valutazione sulle procedure di delegificazione non conformi al modello previsto dall’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, quale è quella prevista dalla disposizione impugnata, che non determina «le norme generali regolatrici della materia», né indica espressamente le norme di rango primario da ritenersi abrogate con effetto dalla data di entrata in vigore dei regolamenti di delegificazione – occorre rammentare che la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle sole materie di competenza esclusiva (art. 117, sesto comma, Cost.). Tale principio vale per ogni tipo di regolamenti, ivi inclusi quelli di delegificazione (ex multis, sentenze n. 69 del 2011, n. 325 del 2010, n. 200 del 2009).
Nel caso sottoposto all’esame della Corte, le delegificazioni previste dalla disposizione impugnata riguardano una varietà di ambiti, alcuni dei quali di sicura pertinenza della competenza esclusiva dello Stato, altri astrattamente e in via di ipotesi suscettibili di interferire con le competenze regionali, concorrenti e residuali. In particolare, nell’ambito del pubblico impiego – oggetto di numerose previsioni di delegificazione qui censurate – si intrecciano aspetti afferenti alla competenza esclusiva dello Stato con altri che eccedono dai limiti delle competenze statali. Nessun dubbio che lo Stato abbia competenza per regolare la disciplina del personale delle amministrazioni statali, anche con fonti di natura secondaria. D’altra parte, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’impiego pubblico anche regionale deve ricondursi, per i profili privatizzati del rapporto, all’ordinamento civile e quindi alla competenza legislativa statale esclusiva, mentre i profili “pubblicistico-organizzativi” rientrano nell’ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, e quindi appartengono alla competenza legislativa residuale della Regione (ex multis, sentenze n. 63 del 2012, nn. 339 e 77 del 2011, n. 233 del 2006, n. 2 del 2004). Similmente, anche gli altri settori interessati dalla previsione di delegificazione qui impugnata presentano un’analoga commistione di competenze statali e regionali.
4.3. — Data l’ampiezza dell’intervento di delegificazione, non è possibile determinare in via preventiva e astratta quali, tra le misure che saranno eventualmente contenute nei regolamenti di delegificazione, dovranno essere ritenute vincolanti per le Regioni.
Piuttosto, occorre chiarire che i regolamenti adottati dal Governo in attuazione della disposizione impugnata si applicheranno alle amministrazioni regionali solo in quanto attengano a materie di competenza esclusiva dello Stato, tra cui rientrano in particolare gli aspetti privatizzati della disciplina del pubblico impiego.
Al di fuori dei confini delle competenze esclusive, le Regioni e le Province autonome non dovranno considerarsi tra i destinatari dei regolamenti di delegificazione, i quali esplicheranno i loro effetti solo nei confronti delle amministrazioni statali.
4.4. — È appena il caso di ribadire che, qualora i regolamenti di delegificazione fossero redatti in modo tale da vulnerare le competenze regionali, resta salva la facoltà per le Regioni di denunciarne la lesività mediante lo strumento del ricorso per conflitto di attribuzioni, sempre che ne ricorrano i necessari presupposti (sentenze nn. 322 e 200 del 2009).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi e riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse dalle Regioni Emilia-Romagna e Liguria con i ricorsi in epigrafe;
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità dell’articolo 16, comma 1, lettera c), del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011 n. 111, promossa dalla Regione Emilia Romagna in riferimento agli artt. 114, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 16, comma 1, lettere b), c), d), e) ed f), del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, in legge n. 111 del 2011, promossa dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 114, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 16, comma 1, lettere b), d), e) ed f), del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, in legge n. 111 del 2011, promossa dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 114, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 2, 3, 4, 5 e 5-bis, della legge 14 settembre 2011, n. 148 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari); del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155 (Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), e degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156 (Revisione delle circoscrizioni giudiziarie ? Uffici dei giudici di pace, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), promossi, nel complesso, dal Tribunale ordinario di Pinerolo con due ordinanze del 16 novembre 2012, dal Tribunale ordinario di Urbino con ordinanza del 21 gennaio 2013, dal Tribunale ordinario di Pinerolo con ordinanza del 19 febbraio 2013, dal Tribunale ordinario di Alba con ordinanza del 22 gennaio 2013, dal Tribunale ordinario di Pinerolo con ordinanze del 14 febbraio e del 19 marzo 2013, dal Tribunale ordinario di Sala Consilina con ordinanza del 20 febbraio 2013, dal Tribunale ordinario di Montepulciano con ordinanza del 21 dicembre 2012 e dal Tribunale ordinario di Sulmona con ordinanza del 13 marzo 2013, rispettivamente iscritte ai nn. 13, 53, 66, 72, 80, 81, 84, 105, 106 e 107 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 12, 15, 17, 18 e 21, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di M.F., di I.F. ed altri, di M.E., di B.D., di D.M.R. ed altro, di C.L., di B.F., di P.P. ed altri, nonché gli atti di intervento del Coordinamento nazionale degli ordini forensi minori, del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, dell’Ordine degli avvocati di Montepulciano, della Unione degli ordini forensi della Sicilia e del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Nicosia, del Consiglio nazionale forense, del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Urbino e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 2 luglio 2013 e nella camera di consiglio del 3 luglio 2013 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi gli avvocati Lorenzo Acquarone per D.M.R. ed altro, Federico Sorrentino per B.D. e M.E., Franco Manassero e Salvatore Walter Pompeo per M.F.,Vittorio Barosio per I.F. ed altri, Daniele Chiezzi e Fabio Andreucci per C.L., Fabrizio Politi per P.P. ed altri e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.? Il Tribunale ordinario di Pinerolo, con cinque ordinanze di rimessione, rispettivamente iscritte ai numeri 13, 53, 72, 81 e 84 del registro ordinanze 2013, il Tribunale ordinario di Alba, con l’ordinanza iscritta al n. 80 del registro ordinanze 2013, il Tribunale ordinario di Sala Consilina, con l’ordinanza iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2013, il Tribunale ordinario di Montepulciano con l’ordinanza iscritta al n. 106 del registro ordinanze 2013, il Tribunale ordinario di Sulmona, con l’ordinanza iscritta al n. 107 del registro ordinanze 2013, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari), in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 24, 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, e 81 della Costituzione. Il Tribunale ordinario di Urbino (registro ordinanze n. 66 del 2013) ha sollevato questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155 (Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. Tutti i suddetti giudici rimettenti hanno sollevato, nel complesso, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, con l’allegata tabella A – limitatamente alla disposta soppressione dei Tribunali ordinari di Pinerolo, Urbino, Alba, Sala Consilina, Montepulciano, Sulmona e aventi sede nelle province dell’Aquila e di Chieti ?, 2, 3 e 9 del suddetto decreto legislativo n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, in riferimento, nel complesso agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 70, 72, primo e quarto comma, 76 – con riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, in particolare, alle lettere a), b), d), e), f), ed ai commi 3, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 ?, 77, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, della Costituzione.
In via consequenziale, il Tribunale ordinario di Sulmona ha chiesto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 3, 4, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011, in riferimento agli artt. 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, e 81 Cost. di tutte le ulteriori disposizioni del decreto legislativo n. 155 del 2012, con le allegate tabelle; degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6, del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156 (Revisione delle circoscrizioni giudiziarie ? Uffici dei giudici di pace, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), con le allegate tabelle, nell’insieme, e con riguardo alla soppressione degli Uffici del Giudice di pace di Castel di Sangro e di Pratola Peligna, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, prima, secondo e terzo comma, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 76 – con riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 1, commi 2, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 – 77, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, Cost.
2.? Il Tribunale ordinario di Pinerolo, con ordinanze rispettivamente iscritte al n. 13 e al n. 53 del registro ordinanze 2013, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, per violazione degli artt. 70, 72, primo e quarto comma, e 77, secondo comma, Cost., e dell’art. 1 del d.lgs. n. 155 del 2012, con l’allegata tabella A, limitatamente alla prevista soppressione del Tribunale ordinario di Pinerolo, per violazione degli artt. 3, 24, 25, primo comma, 76 e 97, primo comma, Cost.
3.? Nelle suddette ordinanze, con argomentazioni analoghe, il rimettente assume la rilevanza delle questioni, atteso che la successiva udienza dei relativi giudizi si sarebbe tenuta dopo l’acquisto di efficacia del d.lgs. n. 155 del 2012, e, dunque, dinanzi al Tribunale ordinario di Torino.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente deduce che l’art.1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, costituirebbe una norma intrusa rispetto all’oggetto del decreto-legge convertito, in ragione dei principi affermati dalla Corte costituzionale, in particolare nelle sentenze n. 22 del 2012, n. 355 del 2010, n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007, che ravvisano nell’art. 77, secondo comma, Cost., il fondamento della necessaria omogeneità del contenuto della legge di conversione.
La norma di delega in esame – si deduce ? è stata introdotta per la prima volta nella legge n. 148 del 2001, con la quale all’art. 1, comma 1, veniva convertito il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), così violando sia il citato articolo 77, secondo comma, Cost., sia gli artt. 70 e 72, primo e quarto comma, Cost., non venendo rispettato il procedimento ordinario di approvazione delle leggi.
L’art. 1, con l’allegata tabella A, del d.lgs. n. 155 del 2012, limitatamente alla soppressione del Tribunale ordinario di Pinerolo, sarebbe viziato in ragione dell’illegittimità della disposizione di delega, e violerebbe l’art. 76 Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con i criteri ed i principi direttivi di cui all’art. 1, comma 2, lettere b), d) ed e), della legge n. 148 del 2011.
La disposta soppressione del Tribunale ordinario di Pinerolo, quarto ufficio giudiziario del Piemonte per popolazione dopo quelli di Torino, Novara, Alessandria, ed il suo accorpamento al Tribunale ordinario di Torino, che assimilerà anche le sezioni distaccate di Susa e di Moncalieri, comporterebbe che l’ufficio giudiziario del capoluogo resti sostanzialmente inalterato e non venga decongestionato, come stabilito dai suddetti principi direttivi.
D’altro canto l’ampliamento delle competenze del Tribunale ordinario di Ivrea che opera su un ambito territoriale ridotto e con minore popolazione, oltre ad avere una minore sopravvenienza, non concorrerebbe al riequilibrio delle competenze tra uffici limitrofi della stessa area provinciale caratterizzata da rilevante differenza di dimensioni.
4.? Il medesimo art. 1 del d.lgs. 155 del 2012 violerebbe altre disposizioni costituzionali.
Il Tribunale assume la lesione dell’art. 3, poiché il diverso trattamento riservato agli utenti del Tribunale ordinario di Pinerolo rispetto a quelli di tribunali analoghi appare arbitrario, non trovando fondamento in alcuna disposizione di legge, ed irrazionale, in quanto non assicura il raggiungimento degli obiettivi posti dal legislatore delegante.
Deduce, quindi, la lesione dell’art. 25 Cost., in quanto vi sarebbe una indebita sottrazione degli utenti della giustizia al loro giudice naturale.
Infine, il giudice a quo prospetta la lesione degli artt. 97, primo comma, e 24, Cost., in quanto la violazione dei criteri stabiliti per il migliore funzionamento della giustizia lederebbe il buon andamento dell’amministrazione ed il diritto ad una tutela giudiziaria effettiva.
5.? Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in entrambi i giudizi con atti di analogo contenuto.
Assume la difesa dello Stato che la questione come prospettata in riferimento alle norme denunciate è manifestamente infondata.
Ricorda come la disposizione di delega sia stata introdotta nel corso dell’esame del disegno di legge di conversione da parte dell’Assemblea del Senato, che il 7 settembre 2011 approvava, a seguito della fiducia posta dal Governo, il maxi emendamento, interamente sostitutivo dell’articolo unico del disegno di legge di conversione del decreto-legge.
Tale iter, tuttavia, non violerebbe gli artt. 70, 72, primo e quarto comma, e 77, secondo comma, Cost. come si rileva dall’esame dei principi enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 391 del 1995. Neppure sarebbe ravvisabile la lesione della cosiddetta riserva di assemblea, di cui al quarto comma dell’art. 72 Cost., atteso che il disegno di legge di conversione del decreto-legge è stato sottoposto alla procedura normale di esame ed approvazione, a norma degli artt. 35 del Regolamento del Senato e 96-bis del Regolamento della Camera.
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 77 Cost., in ragione della mancanza di omogeneità, prospetta l’Avvocatura dello Stato che, nella specie, appare evidente come la riduzione degli uffici giudiziari risponda ad esigenze di razionalizzazione dell’amministrazione della giustizia, con ottimizzazione dei servizi e riduzione dei costi, finalità perseguite dal decreto-legge.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, afferma, altresì, la legittimità dell’art. 1 del decreto legislativo n. 155 del 2012, per quanto attiene l’inclusione del Tribunale ordinario di Pinerolo tra le sedi soppresse, atteso che, come si rileva, altresì, dalle schede analitiche allegate alla relazione allo schema del decreto legislativo in questione, la discrezionalità nell’adozione di quest’ultimo sarebbe stata correttamente esercitata.
6.? In entrambi i giudizi, con distinti atti aventi analogo contenuto, ha spiegato intervento adesivo il Coordinamento nazionale degli ordini forensi minori.
Detta associazione non riconosciuta, cui aderiscono numerosi Ordini forensi (tra cui quello di Pinerolo), nel prospettare l’ammissibilità del proprio intervento, ha posto in rilievo, tra l’altro, come, tra i propri scopi associativi, vi sia il mantenimento in essere dei tribunali presso i quali sono istituiti gli ordini forensi associati.
7.? Nel giudizio iscritto al n. 53 del registro ordinanze 2012 si è costituito, con atto depositato il 5 aprile 2013, F.M., parte del giudizio principale, aderendo all’ordinanza di rimessione.
La suddetta parte ha dedotto, altresì, la lesione dell’art. 81 Cost., non essendo stata prevista la copertura finanziaria.
8.? Nel medesimo giudizio ha spiegato intervento, con atto depositato il 5 aprile 2013, il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo.
A sostegno della propria legittimazione all’intervento il Consiglio dell’ordine deduce che l’esito della questione di costituzionalità incide direttamente sulla propria costituzione, in quanto legata all’esistenza del tribunale circondariale di riferimento.
Il Consiglio dell’ordine, nell’aderire all’ordinanza di rimessione, impugna anche gli artt. 9 e 5 del d.lgs. n. 155 del 2012, e prospetta la violazione degli ulteriori parametri di cui agli artt. 81 e 108 Cost.
9.? Con ordinanza del 19 febbraio 2013 (registro ordinanze n. 72 del 2013), il Tribunale ordinario di Pinerolo ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, con l’allegata tabella A, 2 e 9 del d.lgs n. 155 del 2012, relativamente alla disposta soppressione del Tribunale medesimo e alla previsione che le udienze successive al 13 settembre 2013 si tengano davanti al Tribunale ordinario di Torino, in riferimento agli artt. 76, 3, 24, 25, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.
Ad avviso del rimettente, sussisterebbe il vizio di eccesso di delega, con conseguente disparità di trattamento rispetto alla sede di Ivrea, per la violazione del criterio direttivo della razionalizzazione del servizio giustizia nelle grandi aree metropolitane ? Roma, Milano, Napoli, Torino e Palermo ? che deve essere realizzato mediante il decongestionamento del tribunale metropolitano, nel caso di specie Torino, con trasferimento di carichi sugli uffici giudiziari limitrofi della stessa provincia e aumento delle dimensioni di questi.
Il bacino di utenza della provincia di Pinerolo, pari circa alla metà della popolazione della Regione Piemonte, avrebbe imposto, al contrario di come è stato stabilito, di potenziare il suddetto Tribunale e non quello metropolitano di Torino.
La soppressione in questione violerebbe, altresì, l’art. 24 Cost., in quanto una giustizia inefficiente al cui accesso siano frapposti ostacoli darebbe luogo alla mancanza di tutela giurisdizionale, e lederebbe il buon andamento degli uffici giudiziari.
Il giudice a quo prospetta, quindi, la violazione dell’art. 25, primo comma, Cost., in quanto il cittadino sarebbe distolto dal giudice naturale.
Viene, quindi, dedotta la illegittimità del decreto-legge n. 138 del 2011 e dell’art. 1, comma 2, della legge di conversione n. 148 del 2011, per la violazione, nel complesso, degli artt. 70, 72, primo e quarto comma, 76 e 77, Cost., prospettando argomentazioni analoghe a quelle esposte nelle ordinanze di rimessione n. 13 e n. 53 del 2013.
La disposta delega sarebbe viziata da irragionevolezza in quanto il risparmio di spesa è perseguito non tenendo conto dei costi diretti ed indiretti derivanti dalla riforma.
Per altro verso, sarebbe leso il principio di ragionevolezza e di uguaglianza, nonché l’art. 24 Cost., in quanto la concentrazione nei capoluoghi di provincia (art. 1, comma 2, lettera a, della legge di delegazione) fa sì che grandi parti di territorio vengano ad essere sfornite di uffici giudiziari.
Irragionevole sarebbe, altresì, la previsione di mantenere almeno tre tribunali nel distretto (art. 1, comma 2, lettera f, della legge di delegazione), a prescindere dall’estensione del distretto, della Regione, della popolazione e dei carichi di lavoro e delle sopravvenienze, tenuto conto, nella specie, che il Piemonte ha una sola Corte d’appello.
Infine, è prospettata, in relazione a tutte le disposizioni impugnate, la violazione, dell’art. 81 Cost., in ragione della mancata indicazione della copertura dei presumibili costi.
10.? È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che deduce la manifesta infondatezza della questione prospettando argomentazioni analoghe a quelle dedotte con riguardo alle ordinanze di rimessione n. 13 e n. 53 del 2013.
11.? Si è costituito nel presente giudizio incidentale B.F., parte del giudizio principale, ed è intervenuto il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, prospettando entrambi argomentazioni difensive adesive all’ordinanza di rimessione.
12.? Il Tribunale ordinario di Urbino, con ordinanza del 21 gennaio 2013 (registro ordinanze n. 66 del 2013), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 155 del 2012, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., e dell’art. 1, con la relativa tabella A, del medesimo d.lgs. n. 155 del 2012, limitatamente alla disposta sua soppressione, in riferimento all’art. 76 Cost., con riguardo al criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 2, lettera a), della legge n. 148 del 2011.
Per quanto attiene alla prima questione sollevata, il giudice a quo, deduce la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto la riforma prevista con la disposizione di delega non risponderebbe ai presupposti di necessità ed urgenza che legittimano il governo all’esercizio della potestà legislativa ai sensi dell’indicato parametro costituzionale (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 22 del 2012).
Con riguardo alla seconda questione prospettata, il rimettente osserva che il legislatore delegato sarebbe incorso in un eccesso di delega in quanto la città di Urbino, come la città di Pesaro, è Comune capoluogo della Provincia di Pesaro e Urbino, istituita con il regio decreto 22 dicembre 1860, n. 4495, riguardante la nuova circoscrizione territoriale delle Marche, come si rileva anche dallo statuto provinciale approvato con delibera del consiglio provinciale del 31 luglio 1991, n. 172, e, quindi, non doveva essere soppresso in ragione di quanto previsto dal richiamato criterio direttivo.
13.? Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, assumendo la manifesta infondatezza delle questioni sollevate con argomentazioni analoghe a quelle prospettate con riguardo agli altri giudizi incidentali.
14.? Ha spiegato intervento l’Unione degli ordini forensi della Sicilia e il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Nicosia.
Preliminarmente, l’Unione prospetta la sussistenza della propria legittimazione processuale in ragione della previsione dell’art. 29, comma 1, lettera p), della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), atteso che la disciplina in esame costituisce materia di interesse comune.
Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Nicosia deduce la sussistenza della propria legittimazione in quanto ente esponenziale dell’interesse collettivo alla conservazione del presidio giudiziario del Tribunale ordinario di Nicosia.
15.? È intervenuto nel giudizio il Consiglio nazionale forense (C.N.F.), prospettando la sussistenza della propria legittimazione ad intervenire sia perché la soppressione del Tribunale ordinario di Urbino e del relativo Consiglio dell’ordine modificherebbe l’ordinamento forense e condizionerebbe la composizione del C.N.F., sia per lo svolgimento del ruolo di raccordo istituzionale fra l’ordinamento forense ed il complesso delle istituzioni nazionali.
Nel merito, il C.N.F. condivide le argomentazioni del giudice a quo.
16.? È intervenuto nel giudizio anche il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Urbino che dopo avere sostenuto la propria legittimazione con argomentazioni analoghe a quelle del C.N.F. e del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, aderisce alle argomentazioni dell’ordinanza di rimessione.
17.? Il Tribunale ordinario di Alba, con ordinanza del 22 gennaio 2013 (r.o. n. 80 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, in riferimento agli artt. 72, primo e quarto comma, e 77, secondo comma, Cost., nonché dell’art. 1, con l’allegata tabella A, del decreto legislativo n. 155 del 2012, limitatamente alla disposta sua soppressione, per contrasto con l’art. 76 Cost.
Premette il Tribunale di essere stato adito, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile da più dipendenti del Ministero della giustizia, appartenenti al personale in servizio presso il Tribunale ordinario di Alba, la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Alba e l’ufficio UNEP del medesimo tribunale, che avevano chiesto in via d’urgenza la sospensione dell’efficacia degli atti aventi ad oggetto la procedura di interpello con la quale il personale amministrativo degli uffici giudiziari soppressi dal suddetto d.lgs. veniva invitato a presentare domanda di trasferimento a posti vacanti nel distretto. Detti atti, in quanto finalizzati a dare esecuzione alla riorganizzazione degli uffici giudiziari disposta dalla legge n. 148 del 2011 e dal conseguente d.lgs. n. 155 del 2012, sarebbero idonei a vulnerare il diritto fatto valere dai ricorrenti alla conservazione del posto di lavoro inteso anche come sua collocazione geografica.
Il Tribunale ordinario di Alba, quindi, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale ed ha sospeso, provvisoriamente, nei confronti dei ricorrenti, l’efficacia degli atti impugnati.
Osserva il rimettente che la disposizione di delega sarebbe viziata, in quanto adottata durante l’iter di conversione di un decreto-legge che non conteneva detta norma, così violando il procedimento ordinario di formazione della legge (art. 72, primo e quarto comma, Cost.).
Sarebbe, altresì, leso l’art. 77, secondo comma, Cost., atteso che lo strumento della legge delega è incompatibile con la sussistenza dei requisiti di straordinarietà ed urgenza e in ragione della eterogeneità delle disposizioni in esame rispetto a quelle originariamente contenute nel decreto-legge (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 22 del 2012).
L’art. 1 citato del decreto legislativo sarebbe viziato per eccesso di delega, così violando l’art. 76 Cost., in quanto la soppressione del Tribunale ordinario di Alba contrasterebbe con le finalità di realizzare risparmi di spesa e incrementi di efficienza di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011.
La norma censurata violerebbe, altresì, i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, lettere b) ed e), della legge n. 148 del 2011.
18.? È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo la manifesta infondatezza del ricorso in ragione di prospettazioni difensive analoghe a quelle dedotte con riguardo alle ordinanze di rimessione sopra illustrate.
19.? Si sono costituiti nel giudizio incidentale I.F., V.L., Z.M.G., parti ricorrenti nel giudizio a quo, aderendo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale.
20.? Il Tribunale ordinario di Pinerolo, con ordinanza del 14 febbraio 2013 (registro ordinanze n. 81 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, con l’allegata tabella A, del d.lgs. n. 155 del 2012, limitatamente alla sua soppressione, in riferimento all’art. 76 Cost., per la violazione dei criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, lettere b), d) ed e), ed all’art. 1, comma 3, della legge n. 148 del 2011, nonché in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, 97, secondo comma, Cost.
Secondo il rimettente, i suddetti criteri direttivi sarebbero, infatti, finalizzati a razionalizzare il servizio giustizia nelle aree metropolitane – tra le quali rientra la città di Torino ? attraverso il decongestionamento del tribunale metropolitano mediante trasferimento dei carichi sugli uffici giudiziari limitrofi. Lo stesso rimettente rileva che, in totale contrasto con gli obiettivi della legge di delegazione ed i criteri ed i principi da essa fissati e sopra richiamati, il decreto legislativo n. 155 del 2012 prevede la soppressione del Tribunale ordinario di Pinerolo, mentre in tutte le altre aree dei tribunali metropolitani (oltre a Torino, Milano, Roma, Napoli e Palermo) gli uffici giudiziari sub-provinciali sono stati mantenuti e, in alcuni casi, anche ampliati.
L’art. 3 Cost. sarebbe violato dal momento che la soppressione del Tribunale ordinario di Pinerolo fa sì che i cittadini residenti nel suo circondario siano sottoposti ad un trattamento diverso rispetto a quello di altri tribunali sub-provinciali che si trovano in aree metropolitane.
Inoltre, il decreto legislativo n. 155 del 2012, includendo il Tribunale ordinario di Pinerolo tra gli uffici giudiziari soppressi, determinerebbe la violazione dell’art. 25, primo comma, Cost., poiché distoglie i cittadini di tale circondario al proprio giudice naturale, e lederebbe anche il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.
Infine, sussisterebbe la lesione del diritto di difesa, del cittadino dell’attuale circondario del Tribunale ordinario di Pinerolo, sancito dall’art. 24 Cost., in quanto lo stesso si vedrà costretto a rivolgersi ad un tribunale, i cui livelli di efficienza potrebbero essere inferiori a quelli del Tribunale ordinario di Pinerolo.
Il giudice a quo sospetta anche dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, in riferimento agli artt. 70, 72, commi primo e quarto, 77, secondo comma, e 81 Cost., prospettando argomentazioni analoghe a quelle dedotte nelle già richiamate ordinanze del medesimo tribunale.
La disposizione di delega lederebbe, altresì, gli artt. 3 e 24 Cost., per contrasto con il principio di ragionevolezza e per la violazione del diritto di difesa del cittadino.
21.? È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che prospetta difese analoghe a quelle proposte negli altri giudizi incidentali sopra richiamati.
22.? È intervenuto nel giudizio il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, prospettando argomentazioni analoghe a quelle proposte negli altri giudizi incidentali sopra richiamati.
23.? Si è costituita la parte del giudizio a quo, M.E., aderendo all’ordinanza di rimessione.
24.? Il Tribunale ordinario di Pinerolo, con ordinanza del 19 marzo 2013 (registro ordinanze n. 84 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale analoga a quella sollevata con l’ordinanza n. 72 del 2013, impugnando le stesse disposizioni normative e prospettando le medesime argomentazioni.
25.? È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, prospettando difese analoghe a quelle proposte negli altri giudizi incidentali sopra richiamati.
26.? È intervenuto nel giudizio il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle proposte negli altri giudizi incidentali sopra richiamati.
27.? Si è costituita B.D., parte del giudizio a quo, aderendo all’ordinanza di rimessione.
28.? Il Tribunale ordinario di Sala Consilina, con ordinanza del 20 febbraio 2013 (registro ordinanze n. 105 del 2013), ha sollevato questione di legittimità dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, in riferimento agli artt. 70, 72, primo e quarto comma, e 77, secondo comma, Cost., e dell’art. 1, con l’allegata tabella A, del decreto legislativo n. 155 del 2012, nella parte in cui, dispone la soppressione del Tribunale ordinario di Sala Consilina, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, 76 e 97, primo comma, Cost.
Come per le ordinanze del Tribunale ordinario di Pinerolo e di quello di Urbino, sussisterebbe la rilevanza della questione in quanto la causa andava rinviata ad udienza successiva a quella di acquisto di efficacia del decreto legislativo n. 155 del 2012 e, quindi, nella nuova sede giudiziaria.
Le deduzioni poste a fondamento dell’impugnazione dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011 sono analoghe a quelle prospettate dalle ordinanze di rimessione sopra richiamate.
Il giudice a quo, quindi, censura l’art. 1 del d.lgs. n. 155 del 2012, nella parte in cui ha inserito il Tribunale ordinario di Sala Consilina tra gli uffici soppressi, per la violazione dell’art. 76 Cost., in relazione ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, lettere b), d) ed e), della legge n. 148 del 2011.
Ed infatti, deduce il rimettente che, in particolare, non sarebbe stato seguito, senza peraltro assicurare condizioni di efficienza del servizio giustizia, il criterio della priorità di una riorganizzazione nell’ambito provinciale, dal momento che l’ufficio in questione è soppresso ed accorpato ad altro distretto di Corte d’appello appartenente ad altra Provincia (cioè quella di Potenza), così creandosi una scissione tra giurisdizione amministrativa ed ordinaria circa l’allocazione territoriale dei relativi uffici giudiziari.
Sarebbero violati, inoltre, sia il principio di buon andamento dell’amministrazione, in ragione dei presumibili costi e di quanto realizzato dal Tribunale ordinario di Sala Consilina per l’attuazione del processo civile telematico, sia il diritto alla tutela giudiziaria effettiva.
Infine, il giudice a quo deduce, in ordine all’art. 1 del d.lgs. n. 155 del 2012, la violazione dell’art. 3 Cost., per il diverso trattamento riservato al Tribunale ordinario di Sala Consilina, rispetto agli altri uffici giudiziari, nonché la violazione del principio del giudice naturale.
29.? È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo la manifesta infondatezza della questione.
30.? Si sono costituite nel presente giudizio incidentale D.M.R. e P.C., parti del processo a quo, aderendo alle argomentazioni del giudice rimettente.
31.? Il Tribunale ordinario di Montepulciano, con ordinanza del 21 dicembre 2012 (registro ordinanze n. 106 del 2013), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, in riferimento agli artt. 3 e 24, 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, Cost., nonché, dell’art. 1, con l’allegata tabella A, del d.lgs. n. 155 del 2012, nella parte in cui ha soppresso il Tribunale ordinario di Montepulciano, sia in riferimento ai vizi della disposizione di delega, sia in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, 76 e 97, primo comma, Cost.
Il rimettente assume la violazione sia dell’iter ordinario di formazione legislativa (artt. 70 e 72, primo e quarto comma, Cost.), sia del procedimento previsto per la decretazione di urgenza (art. 77, secondo comma, Cost.).
Ad avviso del giudice a quo, la legge di delegazione violerebbe, altresì, gli artt. 3 e 24 Cost., non perseguendo, in modo razionale, il risparmio di spesa, e non considerando né, che ampi territori possono trovarsi sprovvisti di uffici giudiziari, né che il mantenere in ciascun distretto di Corte d’appello non meno di tre degli attuali tribunali pone in essere una disparità di trattamento.
Con specifico riguardo alla soppressione del Tribunale ordinario di Montepulciano rileva il rimettente che sussisterebbe, oltre all’illegittimità conseguente ai dedotti vizi della disposizione di delega, la violazione degli artt. 97, 3, 24 e 25, primo comma, Cost.
32.? È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che venga dichiarata la manifesta infondatezza della questione, con argomentazioni analoghe a quelle già sopra riportate.
33.? Si è costituita nel giudizio incidentale C.L., parte del giudizio a quo, aderendo alle argomentazioni del rimettente e prospettando, altresì, la lesione di ulteriori parametri costituzionali, indicati negli artt. 81, 97, primo comma, e 108 Cost.
34.? Ha spiegato intervento l’Ordine degli avvocati di Montepulciano, prospettando, in primo luogo, la sussistenza della propria legittimazione ad intervenire, con argomentazioni nella sostanza analoghe a quelle prospettate dagli altri Consigli dell’ordine intervenuti.
Nel merito, il Consiglio dell’ordine, aderisce all’ordinanza di rimessione.
35.? Il Tribunale ordinario di Sulmona, con ordinanza del 13 marzo 2013 (registro ordinanze n. 107 del 2013), ha sollevato le seguenti questioni di legittimità costituzionale:
in via principale, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, nonché, conseguentemente, dei commi 3, 4, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011, per contrasto con gli artt. 70, 72 primo e quarto comma, 77, secondo comma, e 81 Cost., nella parte in cui conferiscono al Governo la delega per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari;
in via consequenziale, questioni di legittimità costituzionale degli artt.1, 2 e 3, nonché, conseguentemente, degli artt. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11 del d.lgs. n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, e degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 del d.lgs. n. 156 del 2012, con le allegate tabelle, perché emessi in difetto di delega, in violazione dell’art. 77, primo e secondo comma, Cost.;
in via non consequenziale, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3, nonché, per l’effetto degli artt. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11 del d.lgs. n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, e degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 del d.lgs. 156 del 2012, con le allegate tabelle, nella parte in cui sopprimono i tribunali aventi sedi nelle Province dell’Aquila e di Chieti, per violazione della delega (artt. 76 e 77 Cost.), in quanto in contrasto con le disposizioni dell’art. 1, commi 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011, nell’interpretazione conforme agli artt. 3 e 97 Cost.;
in via sempre non consequenziale, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3, nonché, per l’effetto degli artt. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11, del d.lgs. n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, e degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6, del d.lgs. n. 156 del 2012, con le allegate tabelle, nella parte in cui sopprimono il Tribunale ordinario di Sulmona e gli Uffici del Giudice di pace di Castel di Sangro e di Pratola Peligna, perché in contrasto con l’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, nell’interpretazione conforme agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo, secondo e terzo comma, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 97, primo comma, e 111, secondo e terzo comma, Cost.
36.? Analogamente a quanto accaduto nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Alba, più lavoratori dipendenti del Ministero della giustizia, inseriti nella pianta organica, rispettivamente, del Tribunale ordinario di Sulmona, della Procura della Repubblica presso il Tribunale di ordinario Sulmona e degli Uffici giudiziari del Giudice di pace di Castel di Sangro e di Pratola Peligna, proponevano ricorso, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., al Tribunale ordinario di Sulmona, impugnando e chiedendo la sospensione di alcuni provvedimenti adottati dall’amministrazione giudiziaria, in ragione della prevista soppressione delle suddette sedi, al fine di riassegnare il personale perdente posto.
Il Tribunale, con decreto inaudita altera parte, sospendeva l’efficacia degli atti impugnati. Tale provvedimento veniva confermato una volta costituitosi il contraddittorio.
Proposto reclamo dal Ministero della giustizia, il Tribunale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della legge n. 148 del 2011, del d.lgs. n. 155 del 2012 e del d.lgs. n. 156 del 2012.
Il Tribunale ordinario di Sulmona, come già il Tribunale ordinario di Alba, rileva l’idoneità degli atti impugnati a produrre immediati e irreparabili pregiudizi nella sfera di interessi primari dei lavoratori.
Afferma, infatti, il rimettente che costituisce limite alla discrezionalità del legislatore, in ragione del principio di ragionevolezza, la necessità di assicurare comunque l’accessibilità del presidio giudiziario, circostanza nella specie non adeguatamente considerata, tenuto conto della situazione infrastrutturale, della specificità territoriale, delle distanze e delle altitudini del territorio, anche al fine di evitare disparità di trattamento e non sottrarre i cittadini al loro giudice naturale.
Anche l’art. 2 Cost. sarebbe leso, in quanto viene attribuita prevalenza al risparmio e all’efficienza rispetto al principio di solidarietà.
Peraltro, data la presenza nel territorio del Tribunale ordinario di Sulmona di un’importante struttura penitenziaria, la censurata soppressione della sede giudiziaria violerebbe altresì i principi di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., sia con riguardo al risparmio di spesa, sia in relazione alla situazione delle persone detenute in riferimento ai principi di cui al citato art. 27, terzo comma, e agli artt. 2 e 3, Cost.
La mancata considerazione, nella ricognizione delle specificità rilevanti, della suddetta popolazione carceraria, avrebbe fatto trascurare i possibili risparmi di spesa legati a tutti gli adempimenti processuali espletabili negli uffici soppressi.
Altra specificità di cui non si è tenuto conto, così violando l’art. 9, secondo comma, Cost., sarebbe costituita dalla presenza all’interno del circondario di Sulmona di tre parchi naturali e di altre riserve naturali, rispetto ai quali assume rilievo la presenza degli Uffici giudiziari del Tribunale di Sulmona e della relativa Procura della Repubblica, nonché dell’Ufficio del giudice di pace di Castel di Sangro, al fine del contrasto dei reati ambientali sul territorio.
In particolare, il Tribunale sospetta di illegittimità costituzionale gli artt. 1, 2, 3, 11, comma 3, del d.lgs. n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, nella parte in cui prevedono la soppressione dei tribunali delle Province dell’Aquila e di Chieti, per violazione dell’art. 76 Cost. in riferimento all’art. 1, comma 5-bis, della legge n. 148 del 2011, che stabilisce in tre anni il termine per l’esercizio della delega nei suddetti ambiti territoriali, termine che assume rilievo anche rispetto alla previsione di cui al comma 5 dell’art. 1 della legge n. 148 del 2011.
Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, le censure esposte, nella sostanza, introducono le medesime argomentazioni già formulate nelle ordinanze di rimessione sopra richiamate nel dedurre la violazione delle disposizioni costituzionali sul procedimento di approvazione della conversione in legge del decreto-legge e su quello di approvazione della legge di delegazione. Peraltro, la norma di delega, destinata a produrre nuove spese, si contrapporrebbe al decreto-legge, volto ad effettuare un risparmio di spesa.
Infine, sono sospettati di illegittimità costituzionale l’art. 1, secondo comma, lettera q), della legge n. 148 del 2011 e l’art. 10 del d.lgs. n. 155 del 2012, per la violazione dell’art. 81 Cost. Tali disposizioni, infatti, non darebbero conto né delle spese derivanti dalla piena attuazione del provvedimento normativo, né della copertura per farvi fronte.
37.? È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con argomentazioni analoghe a quelle prospettate negli altri giudizi incidentali, che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
38.? Si sono costituiti P.P. ed altri, ricorrenti nel giudizio principale, aderendo all’ordinanza di rimessione, con argomentazioni che ripercorrono l’iter motivazionale dell’ordinanza stessa.
39.? In prossimità dell’udienza e della camera di consiglio, sono state depositate più memorie.
40.? L’Ordine degli avvocati di Urbino (registro ordinanze n. 66 del 2013) ribadisce la propria legittimazione ad intervenire nel giudizio incidentale e, nel merito, conferma le argomentazioni già svolte a sostegno dell’ordinanza di rimessione.
Anche il Consiglio nazionale forense ha depositato memoria. Quanto alla propria specifica posizione processuale, il C.N.F. ricorda che l’Ordine forense è un ente complesso, formato da più enti, gli ordini circondariali ed il C.N.F., che ne rappresenta la forma unitaria.
Nel merito, il C.N.F. ribadisce le argomentazioni già svolte.
Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo (registro ordinanze n. 72, n. 81 e n. 84 del 2013) ha depositato memorie, con le quali ribadisce le difese svolte.
Le parti private dei giudizi iscritti ai numeri 72, 80, 81, 84 del registro ordinanze 2013 hanno depositato memorie, con le quali ripercorrono le deduzioni difensive già esposte con l’atto di costituzione.
Il Coordinamento nazionale degli ordini forensi minori ha depositato memoria con la quale, in via preliminare, ribadisce la propria legittimazione ad intervenire.
Considerato in diritto
1.– I Tribunali ordinari di Pinerolo, di Alba, di Sala Consilina, di Montepulciano e di Sulmona, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari), in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 24, 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, e 81 della Costituzione. Il Tribunale ordinario di Urbino (registro ordinanze n. 66 del 2013) ha sollevato questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155 (Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost.
Tutti i suddetti giudici rimettenti hanno sollevato, nel complesso, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, con l’allegata tabella A – limitatamente alla disposta soppressione dei medesimi Tribunali ordinari di Pinerolo, Urbino, Alba, Sala Consilina, Montepulciano, Sulmona e aventi sede nelle province dell’Aquila e di Chieti ?, 2, 3 e 9 del suddetto decreto legislativo n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, in riferimento, nel complesso agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 70, 72, primo e quarto comma, 76 – con riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, in particolare, alle lettere a), b), d), e), f), ed ai commi 3, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 ?, 77, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, della Costituzione.
Il Tribunale ordinario di Sulmona ha, altresì, sospettato di illegittimità costituzionale, in via consequenziale, l’art. 1, commi 3, 4, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011, in riferimento agli artt. 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, e 81 Cost.; tutte le ulteriori disposizioni del decreto legislativo n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, e gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6, del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156 (Revisione delle circoscrizioni giudiziarie ? Uffici dei giudici di pace, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), con le allegate tabelle, nell’insieme, e con riguardo alla soppressione degli Uffici del Giudice di pace di Castel di Sangro e di Pratola Peligna in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo, secondo e terzo comma, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 76 – con riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 1, commi 2, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 – ,77, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, Cost.
2.? Le dieci ordinanze di rimessione pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata.
Ed infatti, i giudici rimettenti denunciano l’illegittima soppressione dei diversi uffici giudiziari, ravvisando la violazione di più parametri costituzionali ad opera sia della disposizione di delega contenuta nell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, sia dei decreti legislativi che vi hanno dato attuazione.
I giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia.
3.? In via preliminare, deve essere esaminata l’ammissibilità degli interventi proposti.
Nei giudizi iscritti ai numeri 13 e 53 del registro ordinanze 2013 (Tribunale ordinario di Pinerolo) ha spiegato intervento il Coordinamento nazionale degli ordini forensi minori.
Nei giudizi iscritti ai numeri 53, 72, 81 e 84 del registro ordinanze 2013 è intervenuto il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo.
Nel giudizio iscritto al n. 66 del registro ordinanze 2013 sono intervenuti l’Unione degli ordini forensi della Sicilia e il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Nicosia, il Consiglio nazionale forense (C.N.F.) e il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Urbino.
Nel giudizio iscritto al n. 106 del registro ordinanze 2013 è intervenuto l’Ordine degli avvocati di Montepulciano.
4.? Questi soggetti non sono parti nei giudizi a quibus e quindi, secondo la giurisprudenza costituzionale, il loro intervento potrebbe essere ammesso solo in presenza di un interesse qualificato riferibile in via immediata al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio a quo (ex multis, sentenza n. 272 del 2012), ovvero quando siano lese le loro prerogative.
Alla stregua di tali criteri, la legittimazione ad intervenire deve essere riconosciuta al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, all’Ordine degli avvocati di Montepulciano e al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Urbino; mentre non sussiste in capo al Consiglio nazionale forense, al Coordinamento nazionale degli ordini forensi minori, all’Unione degli ordini forensi della Sicilia e al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Nicosia.
5.? È opportuno richiamare in proposito alcuni profili della disciplina dell’Ordine forense circondariale, come delineata dalla legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), in vigore alla data di deposito degli atti di intervento.
Alla stregua di tale legge, l’Ordine forense si articola negli Ordini circondariali e nel Consiglio nazionale forense. Entrambi sono enti pubblici non economici a carattere associativo, istituiti per garantire il rispetto dei principi previsti dalla legge e delle regole deontologiche, nonché con finalità di tutela dell’utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale.
Presso ciascun tribunale è costituito l’Ordine degli avvocati, al quale sono iscritti tutti gli avvocati aventi il principale domicilio professionale nel circondario. L’Ordine circondariale ha in via esclusiva la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura a livello locale e promuove i rapporti con le istituzioni e le pubbliche amministrazioni.
Gli Ordini degli avvocati di Pinerolo, di Urbino e di Montepulciano, pertanto, hanno un interesse differenziato e qualificato ad intervenire nei presenti giudizi incidentali, poiché alla presenza del tribunale nel circondario é connessa la istituzione degli stessi, e non vi è dubbio, dunque, che sussista una lesione delle loro prerogative.
Analoga legittimazione non può ravvisarsi in capo all’Ordine degli avvocati di Nicosia, in quanto le attribuzioni dello stesso esulano dal circondario del Tribunale ordinario di Urbino.
Non sussiste la legittimazione ad intervenire del Consiglio nazionale forense, in quanto non sono incise le attribuzioni dello stesso e non ne sono messe in gioco le prerogative istituzionali.
Né un interesse differenziato e qualificato è ravvisabile in capo all’associazione Coordinamento nazionale degli ordini forensi minori e all’Unione degli ordini forensi della Sicilia.
6.? Prima di passare all’esame del merito delle questioni, occorre rilevare che la parte costituitasi nel giudizio n. 53 del registro ordinanze 2013 e il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, nell’aderire all’ordinanza di rimessione, hanno impugnato ulteriori disposizioni e hanno invocato ulteriori parametri costituzionali. Tali disposizioni e profili non possono essere esaminati.
Per costante orientamento di questa Corte, l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato alle sole norme e parametri indicati, pur se implicitamente, nell’ordinanza di rimessione e non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti ? e a maggior ragione dagli intervenienti ?, tanto se siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, quanto se siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ordinanza n. 298 del 2011).
7.? Le censure prospettate con le ordinanze di rimessione possono essere riunite, ai fini del loro esame, in tre gruppi.
Un primo gruppo investe l’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011 e, in via consequenziale, i commi 3, 4, 5 e 5-bis, del medesimo art. 1, in riferimento agli artt. 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, Cost.
Con tali disposizioni di legge ordinaria, il Parlamento ha delegato il Governo ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della medesima legge, uno o più decreti legislativi per riorganizzare la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari al fine di realizzare risparmi di spesa e incremento di efficienza, con l’osservanza dei principi e criteri direttivi indicati.
In queste censure viene menzionato anche il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), ma in realtà l’atto non è oggetto di impugnazione, atteso che è richiamato solo a sostegno della illegittimità della disposizione di delega contenuta nella legge di conversione.
Un secondo gruppo di censure riguarda sia il d.lgs. n. 155 del 2012, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., sia gli artt. 1, con l’allegata tabella A – limitatamente alla disposta soppressione dei Tribunali ordinari di Pinerolo, Urbino, Alba, Sala Consilina, Montepulciano, Sulmona e di quelli aventi sede nelle province dell’Aquila e di Chieti ?, 2, 3 e 9 del medesimo decreto legislativo, con le allegate tabelle, in riferimento, nel complesso, agli artt. 70, 72, primo e quarto comma, 76 – per violazione dei criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, in particolare, alle lettere a), b), d), e), f), e dei commi 3, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 –, 77, Cost.
Il Tribunale ordinario di Sulmona, in particolare, ha chiesto dichiararsi l’illegittimità costituzionale di tutte le disposizioni del decreto legislativo n. 155 del 2012 con le allegate tabelle, degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156 (Revisione delle circoscrizioni giudiziarie ? Uffici dei giudici di pace, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), con le allegate tabelle, nell’insieme, e con riguardo alla soppressione degli Uffici del Giudice di pace di Castel di Sangro e di Pratola Peligna, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo, secondo e terzo comma, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 76 – con riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 1, commi 2, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 –, 77, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, Cost.
Un terzo gruppo di censure, infine, attiene nel complesso alla violazione, ad opera delle disposizioni impugnate, degli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, Cost.
8.? Quanto al primo gruppo di censure, ad avviso dei rimettenti, l’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale (in particolare, nella sentenza n. 22 del 2012), sarebbe una norma intrusa rispetto all’oggetto del decreto-legge convertito, priva dei requisiti di necessità ed urgenza ed estranea alla materia del decreto-legge. La norma di delega è stata infatti introdotta dalla legge di conversione, così violando – in tesi ? sia l’art. 77, secondo comma, Cost., sia gli artt. 70 e 72, primo e quarto comma, Cost.
Inoltre, la disposizione sarebbe stata approvata con il procedimento previsto per la legge di conversione di un decreto-legge e non con la procedura ordinaria; e ciò in violazione dell’art. 72, quarto comma, Cost.
9.? La questione non è fondata.
9.1.? Questa Corte con la sentenza n. 63 del 1998, nell’esaminare disposizioni di delega inserite nella legge di conversione di un decreto-legge, ha osservato che gli articoli contenenti la delega legislativa «sono disposizioni del tutto autonome rispetto al decreto-legge e alla sua conversione, essendo stati introdotti, come norma aggiuntiva, alla legge di conversione nel corso dell’esame dello stesso disegno di legge; né poteva essere altrimenti, posto che l’atto di conferimento al Governo di delega legislativa può avvenire solo con legge».
In tal caso, secondo la stessa sentenza «in realtà, la legge […] ha un duplice contenuto con diversa natura ed autonomia: l’uno […] di conversione del decreto-legge “con le modificazioni riportate in allegato alla legge”, adottato in base alla previsione dell’art. 77, terzo comma, della Costituzione; l’altro […], di legge di delega ai sensi dell’art. 76 della Costituzione».
Si deve dunque ritenere che il Parlamento, nell’approvare la legge di conversione di un decreto-legge, possa esercitare la propria potestà legislativa anche introducendo, con disposizioni aggiuntive, contenuti normativi ulteriori, peraltro con il limite – precisato dalla giurisprudenza successiva – dell’omogeneità complessiva dell’atto normativo rispetto all’oggetto o allo scopo (sentenza n. 22 del 2012).
Si evidenzia in tal modo il diverso connotarsi della legge, quale ordinaria fonte di conversione del decreto-legge, da un lato, e, dall’altro, quale autonomo fondamento di disposizioni assunte dal Parlamento, distinte da quelle dell’originario decreto-legge anche quanto all’efficacia temporale. Dunque, la disposizione di delega introdotta nell’ordinamento con la legge di conversione, costituendo una statuizione distinta dal decreto-legge, deve essere ricondotta direttamente alla potestà legislativa del Parlamento.
9.2.? Quanto ai requisiti della norma così aggiunta la sua autonomia, come fin qui delineata, comporta che non si possa richiedere che anche essa possieda i caratteri della necessità e dell’urgenza.
La Corte – sia pure nel diverso caso dell’emendamento apportato nel corpo del decreto-legge ? nella sentenza n. 22 del 2012, nel sottolineare il legame esistente fra decretazione d’urgenza e potere di conversione, afferma che «se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari […]».
Il principio è affermato con riguardo al caso di norme eterogenee modificative del decreto-legge, ma è a maggior ragione valido nel caso in esame.
9.3.? Nella stessa sentenza n. 22 del 2012, peraltro, si afferma che l’omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione all’apprezzamento politico operato dal Governo e controllato dal Parlamento, deve essere osservata anche dalla legge di conversione e che in mancanza si verificherebbe un «uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge». E il principio è recepito dall’art. 96-bis, comma 7, del Regolamento della Camera dei deputati, che dispone: «il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge».
Anche l’introduzione, nella legge di conversione, di una disposizione di delega, dunque, deve essere coerente con la necessaria omogeneità della normativa di urgenza.
9.4.? Così precisati termini dello scrutinio di costituzionalità al quale è chiamata questa Corte in relazione ai parametri invocati, occorre rilevare che la disposizione contenuta nell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011 – contenente misure organizzative degli uffici giudiziari di primo grado ? non altera l’omogeneità del decreto-legge oggetto di conversione.
Ed infatti, il d.l. n. 138 del 2011 ha modificato alcune disposizioni del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 e, in particolare, l’art. 10 (la cui rubrica reca «Riduzione delle spese dei Ministeri e monitoraggio della spesa pubblica»), ricompreso con l’art. 9 nel Capo II, recante «Razionalizzazione e monitoraggio della spesa delle amministrazioni pubbliche».
A sua volta, la delega conferita è diretta a realizzare risparmi di spesa e incremento di efficienza, nonché al perseguimento delle finalità di cui all’art. 9 del d.l. n. 98 del 2011; e va anche rilevato che sia nel d.l. n. 138 del 2011, che nel richiamato art. 9, i tagli di spesa sono ottenuti anche mediante interventi di tipo strutturale, pur se limitati agli organismi propriamente amministrativi.
Concludendo sul punto, la disposizione in esame, in quanto prevede interventi sulle strutture giudiziarie, non può ritenersi disomogenea rispetto al contenuto del decreto-legge.
9.5.? L’ulteriore profilo di censura, relativo alla violazione del procedimento ordinario previsto per la legge di delegazione, e prospettato anche in considerazione della sua approvazione con il voto di fiducia su un maxi-emendamento, non è fondato.
Premesso, infatti, che il riconoscimento, da parte di questa Corte, dell’ammissibilità del conferimento di una delega con la legge di conversione presuppone che non vi sia una incompatibilità di principio fra le due rispettive procedure, occorre verificare se nella specie siano stati rispettati i vincoli posti per la legge di delega dal quarto comma dell’art. 72 Cost.
Ebbene tali vincoli, consistenti nella necessità di esame in sede referente e nella cosiddetta “riserva di Assemblea”, risultano puntualmente rispettati.
Si deve al riguardo ricordare come già con la sentenza n. 9 del 1959 la Corte si sia dichiarata competente a giudicare in ordine al rispetto delle norme costituzionali sul procedimento legislativo, ma non anche sulle previsioni dei Regolamenti della Camera e del Senato, poiché, come affermato nella sentenza n. 78 del 1984, la Costituzione garantisce l’autonomia normativa di entrambi i rami del Parlamento e la peculiarità e la dimensione di tale autonomia.
Orbene, il Regolamento del Senato pone sullo stesso piano i disegni di legge di delegazione legislativa e quelli di conversione di decreti-legge, stabilendo (art. 35) che in entrambi i casi sono obbligatorie la discussione e la votazione da parte dell’Assemblea, ed escludendo (art. 36) l’assegnazione in sede redigente alle commissioni permanenti.
Analogamente, l’art. 96-bis del Regolamento della Camera prevede che il Presidente della Camera assegni i disegni di legge di conversione dei decreti-legge alle commissioni competenti, in sede referente.
Nel caso in esame, pertanto, il rispetto da parte delle Camere della procedura desumibile dalla disciplina regolamentare relativa all’approvazione dei disegni di legge di conversione, conduce ad escludere che si sia configurata la lesione delle norme procedurali fissate nell’art. 72 Cost., poiché risultano salvaguardati sia l’esame in sede referente sia l’approvazione in aula, come richiesto per i disegni di legge di delegazione legislativa.
Gli ulteriori profili procedimentali censurati riguardano la violazione dell’art. 72 Cost., perché a seguito della questione di fiducia posta dal Governo sull’articolo unico della legge di conversione, la norma impugnata sarebbe stata approvata dalle Camere senza una specifica discussione e votazione «articolo per articolo». Al riguardo si è già chiarito nella sentenza n. 391 del 1995 che, ponendo la fiducia, la procedura seguita, nel rispetto delle previsioni regolamentari, comporti che la discussione e la votazione si vengano a concentrare ? ai sensi dell’art. 116, comma 2, del Regolamento della Camera – sull’articolo unico del disegno di conversione, soddisfacendo il tal modo il disposto della norma costituzionale.
9.6.? Per le stesse ragioni fin qui esposte, anche le questioni sollevate in via consequenziale, dal Tribunale ordinario di Sulmona, dell’art, 1, commi 3, 4, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 non sono fondate.
10.? Con il secondo gruppo di questioni, tutte le ordinanze di rimessione (r.o. nn. 13, 53, 66, 72, 80, 81, 84, 105, 106 e 107), censurano, nell’insieme, gli artt. 1, 2, 3 e 9 del d.lgs. n. 155 del 2012, in riferimento all’art. 76 Cost., per la violazione, nel complesso, dei criteri di cui agli artt. 1, comma 2, in particolare delle lettere a), b), d), e), ed f), dei commi 3, 5 e 5-bis, della legge di delegazione n. 148 del 2011, nonché agli artt. 70, 72, primo e quarto comma, e 77, secondo comma, Cost., per l’illegittimità della disposizione di delega.
L’art. 1 del d.lgs. n. 155 del 2012 prevede la soppressione dei tribunali ordinari, delle sezioni distaccate e delle procure della Repubblica di cui alla tabella A allegata al medesimo decreto legislativo.
L’art. 2 del d.lgs. n. 155 del 2012 stabilisce conseguenti modifiche ad alcune disposizioni e tabelle del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario).
L’art. 3 del d.lgs. n. 155 del 2012 modifica la tabella relativa agli Uffici di sorveglianza.
L’art. 9 del d.lgs. n. 155 del 2012 detta le disposizioni transitorie.
Il Tribunale ordinario di Sulmona estende le censure (in via consequenziale) alle ulteriori disposizioni del d.lgs. n. 155 del 2012 e agli artt. 1, 2, 3, 4, 5, e 6 del d.lgs. n. 156 del 2012 (relativo agli uffici dei giudici di pace).
Occorre aggiungere che l’impugnazione dell’art. 1 e della relativa tabella A del d.lgs. n. 155 del 2012, con riguardo ai tribunali, investe automaticamente la soppressione delle relative Procure della Repubblica, senza che occorra farne menzione, atteso che, nel sistema dell’ordinamento giudiziario, la Procura della Repubblica è istituita presso il tribunale.
Il petitum deve essere pertanto individuato nell’impugnazione dell’art. 1 e della relativa tabella A, limitatamente alla prevista soppressione dei tribunali, in quanto la sorte della Procura della Repubblica è collegata a quella del relativo tribunale.
10.1.? I criteri di delega indicati nell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2012, che, in particolare, si assumono violati sono i seguenti:
art. 1, comma, 2, lettera a): ridurre gli uffici giudiziari di primo grado, salvo la permanenza del tribunale ordinario nei circondari dei comuni capoluogo di provincia alla data del 30 giugno 2011;
art. 1, comma 2, lettera b): ridefinire, anche mediante attribuzione di porzioni di territori a circondari limitrofi, l’assetto territoriale degli uffici giudiziari secondo criteri oggettivi e omogenei che tengano conto dell’estensione del territorio, del numero degli abitanti, dei carichi di lavoro e dell’indice delle sopravvenienze, della specificità territoriale del bacino di utenza, anche con riguardo alla situazione infrastrutturale, e del tasso d’impatto della criminalità organizzata, nonché della necessità di razionalizzare il servizio giustizia nelle grandi aree metropolitane;
art. 1, comma 2, lettera d): procedere alla soppressione ovvero alla riduzione delle sezioni distaccate di tribunale, anche mediante accorpamento ai tribunali limitrofi, nel rispetto dei criteri di cui alla lettera b);
art. 1, comma 2, lettera e): assumere come prioritaria linea di intervento, nell’attuazione di quanto previsto dalle lettere a), b), c) e d), il riequilibrio delle attuali competenze territoriali, demografiche e funzionali tra uffici limitrofi della stessa area provinciale caratterizzati da rilevante differenza di dimensioni;
art. 1, comma 2, lettera f): garantire che, all’esito degli interventi di riorganizzazione, ciascun distretto di corte d’appello, incluse le sue sezioni distaccate, comprenda non meno di tre degli attuali tribunali con relative procure della Repubblica.
Le ulteriori disposizioni della legge n. 148 del 2011, rispetto alle quali è ravvisata l’illegittimità del decreto legislativo, prevedono:
art. 1, comma 3: necessità del coordinamento con le altre disposizioni vigenti;
art. 1, comma 5: il termine di due anni dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi emanati nell’esercizio della delega per l’adozione delle disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi medesimi;
art. 1, comma 5-bis: un diverso più ampio termine per l’esercizio della delega relativamente ai soli tribunali aventi sedi nelle Province dell’Aquila e di Chieti (tre anni).
Il solo Tribunale ordinario di Urbino prospetta un contrasto diretto con la previsione contenuta nella legge delega volta al mantenimento dei tribunali siti nei capoluoghi di provincia, atteso che Urbino è uno dei due capoluoghi della provincia di Pesaro e Urbino.
10.2.? In particolare, i giudici a quibus, con riguardo all’eccesso di delega, prospettano quanto segue.
La soppressione del Tribunale ordinario di Pinerolo, con il conseguente accorpamento al Tribunale ordinario di Torino, viene censurata in quanto l’ufficio giudiziario del capoluogo resterebbe sostanzialmente inalterato in violazione del criterio di cui alla lettera b) dell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011. Al fine di perseguire il decongestionamento del Tribunale metropolitano di Torino, invece, il Governo avrebbe dovuto mantenere quello di Pinerolo e aumentarne il bacino di utenza.
La soppressione non sarebbe conforme nemmeno agli altri criteri enunciati dall’art. l, lettera b), della delega, ovvero i carichi di lavoro, l’indice delle sopravvenienze e la specificità territoriale dei bacini di utenza. Sarebbe inoltre contrario anche al criterio di cui alla sopra citata lettera e) il mantenimento, nella provincia di Torino, di soli due tribunali, con rilevanti differenze in ordine al bacino di utenza, anche perché non realizzerebbe il riequilibro delle attuali competenze territoriali, demografiche e funzionali tra uffici limitrofi della stessa area provinciale, caratterizzati da rilevante differenza di dimensioni.
Il Tribunale ordinario di Alba osserva che l’Ufficio, per l’incremento di efficienza, era stato inserito nell’elenco dei tribunali virtuosi redatto dal Ministero della giustizia, ai sensi del d.l. n. 98 del 2011, come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011.
La norma censurata contrasterebbe anche con i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, lettere b) ed e), della legge n. 148 del 2011, atteso che il circondario comprende un ampio territorio caratterizzato da un’elevata densità abitativa, tant’è che per bacino di utenza esso risulta il primo tribunale nella provincia di Cuneo e il quarto su diciassette tribunali del distretto della Corte d’appello di Torino.
Sarebbe poi dubbio il rispetto del criterio fissato dalla lettera e), che ha imposto, quale prioritaria linea di intervento, di riequilibrare le competenze tra uffici limitrofi della stessa area provinciale. La vastità del territorio provinciale avrebbe potuto giustificare, infatti, il mantenimento in funzione quantomeno dei due tribunali ordinari di maggiori dimensioni (ovvero quelli di Cuneo e di Alba), che già oggi risultano essere sostanzialmente equiparabili in relazione agli altri parametri.
Il Tribunale ordinario di Urbino rileva che il legislatore delegato sarebbe incorso in un eccesso di delega, in quanto la città è comune capoluogo della Provincia di Pesaro e Urbino, istituita con il regio decreto n. 4495 del 22 dicembre 1860, riguardante la nuova circoscrizione territoriale delle Marche, insieme a Pesaro.
Il Tribunale ordinario di Sala Consilina espone che, in particolare, non sarebbe stato seguito il criterio (lettera e) della priorità di riorganizzazione nell’ambito provinciale, dal momento che l’Ufficio soppresso è stato accorpato al Tribunale ordinario di Lagonegro, che fa parte di un altro distretto di Corte d’appello e appartiene ad altra Provincia, così creandosi una scissione tra esercizio della giurisdizione amministrativa e di quella ordinaria, circa l’allocazione territoriale dei relativi uffici giudiziari. Comunque, l’accorpamento (atteso l’organico di undici giudici del Tribunale ordinario di Sala Consilina e quello di otto giudici del Tribunale ordinario di Lagonegro) sarebbe inidoneo ad assicurare condizioni di efficienza del servizio giustizia.
Il Tribunale rileva inoltre, di aver dato attuazione all’informatizzazione giudiziaria e di aver attivato il processo civile telematico, mentre il Tribunale di Lagonegro non rientrerebbe tra le strutture giudiziarie presso cui attivare il processo telematico.
Il Tribunale ordinario di Montepulciano assume che la scelta di concentrare il riordino degli uffici giudiziari sulle città capoluogo di provincia (art. 1, lettera a) trascura di considerare che esse non assicurano la necessaria centralità rispetto al territorio di riferimento e che ciò accentua il rischio che grandi territori possano trovarsi sprovvisti di uffici giudiziari.
Ugualmente censurabili sarebbero le conseguenze prodotte dall’applicazione del criterio di cui all’art. 1, lettera f), il quale, nel prevedere che, a prescindere dall’estensione delle regioni e dalla consistenza della relativa popolazione, siano mantenuti in ciascun distretto di Corte d’appello non meno di tre degli attuali tribunali, porrebbe in essere una disparità di trattamento, ledendo i principi di eguaglianza e proporzionalità; il criterio direttivo sarebbe anche in contrasto con altri principi contenuti nella delega e in particolare con quello che impone l’utilizzo di criteri oggettivi ed omogenei.
Il Tribunale ordinario di Sulmona pone in rilievo come distanze e altitudini del territorio, una volta divenuta efficace la prevista soppressione, possano incidere sull’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale e del diritto di difesa, mentre nel distretto di Corte d’appello di Campobasso di minore estensione, minore popolazione, con minori distanze, è prevista la conservazione di tutti i tre tribunali. La distribuzione degli uffici giudiziari, quindi, sarebbe in contrasto con i principi di razionalità e buon andamento dell’amministrazione, né il Governo si è preoccupato in primo luogo di individuare i tribunali indispensabili alla salvaguardia dei diritti intangibili e poi fare applicazione dei criteri restanti.
La soppressione dei tribunali violerebbe anche il criterio di cui alla lettera e), della norma di delega, che si esprime nel senso di un riequilibrio delle competenze territoriali demografiche e funzionali tra uffici limitrofi, non potendosi escludere che tale disposizione consentisse un riequilibrio implicante il superamento del confine provinciale, estendendo il territorio del Tribunale ordinario di Sulmona ai naturali confini geografici e di area di servizio della Conca di Sulmona.
La soppressione dei Tribunali ordinari delle Province dell’Aquila e di Chieti sarebbe stata disposta, inoltre, nonostante la previsione del citato comma 5-bis, che dà luogo ad un differimento della delega: per i territori in questione avrebbe dovuto essere adottato un autonomo decreto legislativo, con diversa decorrenza.
10.3.? La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Urbino è fondata.
La norma impugnata, nello stabilire la soppressione di tale tribunale, ha violato il criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 2, lettera a), che stabilisce la necessità di garantire la permanenza del tribunale ordinario nei circondari di comuni capoluogo di provincia alla data del 30 novembre 2011. Tale è la condizione del Tribunale e il contrasto non può essere superato in via interpretativa, come erroneamente prospettato nella scheda tecnica allegata alla relazione allo schema del decreto legislativo n. 155 del 2012, atteso il chiaro tenore inderogabile della delega.
10.4.? Le questioni sollevate dai Tribunali ordinari di Pinerolo, Alba, Montepulciano, Sala Consilina e Sulmona non sono fondate.
10.4.1.? Va premesso che le disposizioni contenute nella legge delega concorrono a formare, quali norme interposte, il parametro di costituzionalità dei decreti legislativi delegati.
E in proposito la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 134 del 2013) ha affermato che il contenuto della delega non può essere individuato senza tenere conto del sistema normativo complessivo, poiché soltanto l’identificazione della sua ratio consente di verificare se la norma delegata sia con essa coerente.
Si è ritenuto anche che il legislatore abbia margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che, appunto, ne rispetti la ratio e che si inserisca in modo coerente nel relativo quadro normativo, con la conseguenza che rientra nei suoi poteri fare delle scelte fra i possibili modi di realizzare l’obiettivo indicato nella legge di delegazione, scelte di cui peraltro occorre verificare la ragionevolezza (sentenza n. 119 del 2012).
10.4.2.? Tanto premesso, nel caso in esame si è in presenza di una misura organizzativa, in cui la soppressione dei singoli tribunali ordinari ha costituito la scelta rimessa al Governo, nel quadro di una più ampia valutazione del complessivo assetto territoriale degli uffici giudiziari di primo grado, finalizzata a realizzare un risparmio di spesa e un incremento di efficienza; valutazione che ha richiesto lo svolgimento di un’articolata attività istruttoria, come si desume dalla relazione che accompagna il decreto legislativo n. 155 del 2012 e dalle schede tecniche allegate ? le quali, con specifico riferimento alle singole realtà territoriali, illustrano le modalità di applicazione dei criteri ?, nonché dai diversi pareri e relazioni sottoposti all’attenzione del Governo e delle Camere, e richiamati nelle ordinanze di rimessione.
Quanto al d.lgs. n. 156 del 2012, anch’esso, per conseguire l’obiettivo di una razionalizzazione nella distribuzione degli uffici del giudice di pace, si è avvalso di un’analisi caratterizzata, da un lato, dall’individuazione della capacità di smaltimento effettivo e, dall’altro, dall’individuazione dei carichi di lavoro del singolo ufficio.
10.4.3.? In concreto, i criteri di delega prevedono, oltre a una linea di intervento di riequilibrio (art. 1, comma 2, lettera e, della legge n. 148 del 2011):
la riduzione degli uffici con il solo vincolo di mantenere quelli posti nei capoluoghi di provincia;
la possibilità di attribuire porzioni di territori a circondari limitrofi, senza vincoli quanto al distretto di Corte d’appello o al territorio regionale o provinciale;
una generale razionalizzazione del servizio giustizia nelle grandi aree metropolitane, senza vincoli alla accorpabilità di uffici giudiziari ai tribunali metropolitani;
la conservazione di non meno di tre tribunali in ogni distretto di Corte d’appello, indipendentemente dal numero dei distretti di Corte d’appello nella regione o dalla consistenza territoriale del distretto.
10.4.4.? Alla stregua di tale quadro di riferimento per l’esercizio della delega, non si ravvisa violazione da parte dei decreti legislativi n. 155 e n. 156 del 2012 dei relativi criteri né si evidenzia una irragionevolezza della loro applicazione.
A tal fine è opportuno illustrare il percorso con il quale sono stati attuati i criteri in questione.
Nella relazione, anzitutto, si dà atto che i principali dati da elaborare, per giungere al valore-modello da utilizzare come guida dell’intero lavoro, sono stati scelti tra quelli con caratteristiche di pubblicità ed incontrovertibilità (si è, così, privilegiata la fonte Istat), evitando l’impiego di quelli suscettibili di correzione mediante elementi valutativi (quali la «situazione infrastrutturale» o il «tasso d’impatto della criminalità organizzata»). Essenzialmente, dunque, sono stati utilizzati, per un verso, i criteri del «numero degli abitanti» e delle «sopravvenienze» (cosiddetto indice di litigiosità), per altro verso, quello dei «carichi di lavoro» rispetto all’organico disponibile (cosiddetto indice di produttività).
Il periodo considerato è stato assunto convenzionalmente in almeno un quinquennio, tale per cui fattori accidentali e idonei ad alterare nel breve periodo la formazione dei dati in un circondario possono reputarsi neutralizzabili. Pertanto, l’intervallo considerato è stabilmente quello degli anni 2006-2010; previa, tuttavia, conferma dell’intangibilità delle singole linee di tendenza anche per l’anno 2011, almeno dove la disponibilità del dato sia risultata già acquisita. L’obiettivo è stato, anzitutto, quello di stimare il valore-standard dell’ufficio intangibile, ovvero dell’ufficio avente sede in un capoluogo di provincia.
La selezione dei tribunali sopprimibili è stata effettuata per passi successivi, considerando i parametri: abitanti, sopravvenienze, organico e produttività, rispetto al campione sintetizzato; la funzione di filtro di ogni criterio è poi considerata già tale da immunizzare l’ufficio che resiste in base al criterio precedente da ogni esito eventualmente negativo del trattamento in base a quello successivo.
Si è pregiudizialmente esclusa, invece, la considerazione della cosiddetta «pendenza», poiché questa appare fuorviante, anche perché legata a fattori locali e accidentali, storici e finanche talora esauriti nel tempo.
Sono state poi considerate, specificamente, le singole realtà, evidenziandosi con riguardo agli uffici giudiziari in questione, che:
l’accorpamento del Tribunale ordinario di Pinerolo a quello di Torino, non condiziona il decongestionamento di quest’ultimo, atteso che le sezioni distaccate di Ciriè e Chivasso sono accorpate al Tribunale ordinario di Ivrea;
il circondario di Alba, che va scorporato dalla Provincia di Cuneo, è accorpato al Tribunale ordinario di Asti, al fine di adeguarlo al modello standard, già raggiunto dal Tribunale ordinario Cuneo con l’accorpamento dei Tribunali ordinari di Saluzzo e Mondovì;
il Tribunale ordinario di Montepulciano rimane al di sotto anche della soglia fissata per il mantenimento degli uffici del giudice di pace e il suo accorpamento al Tribunale ordinario di Siena è anche funzionale a razionalizzare quest’ultimo tribunale capoluogo, anch’esso sotto i parametri standard;
il Tribunale ordinario di Sala Consilina è sotto tale soglia e, come quello di Vallo della Lucania, con deficit marcati in ordine alle sopravvenienze e ai carichi di lavoro per magistrato: si è ritenuto, quindi, di sopprimere il primo, accorpandolo a quello assai vicino e ben collegato di Lagonegro, atteso che nel distretto di Corte d’appello di Potenza, in cui vi sono quattro tribunali, solo uno dei due sub-provinciali (Melfi e Lagonegro) è sopprimibile;
il Tribunale ordinario di Sulmona, così come quello di Avezzano, viene accorpato al Tribunale ordinario dell’Aquila, atteso che nel distretto il rapporto tra abitanti e popolazione giustificherebbe, al massimo, la presenza di tre tribunali di medio-piccole dimensioni a fronte degli otto esistenti (i Tribunali ordinari di Vasto e Lanciano sono accorpati, per analoghe ragioni al Tribunale ordinario di Chieti), tutti al di sotto degli standard di riferimento.
Quanto alla soppressione degli uffici del giudice di pace, analogamente, il decreto legislativo n. 156 del 2012 si è avvalso di una analisi statistica, individuando l’effettivo smaltimento pro capite realizzato dai giudici di pace su base quinquennale.
10.4.5.? Ebbene, da una parte, risulta per tabulas che non vi è stata una esplicita o formale violazione dei criteri di delega (a parte il caso già esaminato di Urbino), dall’altra, la loro applicazione non manifesta elementi di irragionevolezza e risponde a un corretto bilanciamento degli interessi.
La scelta del legislatore delegato, come richiesto dal carattere generale dell’intervento, non poteva essere effettuata valutando soltanto i dati dei singoli uffici e i relativi territori in una comparazione meramente statistica, come si assume, in sostanza, nelle ordinanze di rimessione, dovendo, invece, inserirsi in una prospettiva di riorganizzazione del territorio nazionale in un’ottica di riequilibrio complessivo degli uffici di primo grado.
Tale conclusione rimane valida, anche nel caso del Tribunale ordinario di Sala Consilina, la cui soppressione viene denunciata come contrastante con quel criterio della delega (art. 1, comma 2, lettera e) che imporrebbe di procedere all’accorpamento nell’ambito distrettuale o provinciale.
Si deve infatti osservare al riguardo che il criterio in effetti esiste, ma viene qualificato semplicemente come «prioritaria linea di intervento» e, quindi, pur sempre derogabile con una adeguata e documentata motivazione.
Ciò è appunto quanto è avvenuto nel caso di specie, in cui la ponderata valutazione della situazione complessiva dei distretti interessati, dei relativi dati statistici, nonché degli stessi elementi territoriali, dimostra adeguatamente la non irragionevolezza di una soluzione basata sulla preponderanza di altri criteri.
10.4.6.? Anche le questioni proposte, in via consequenziale, con riguardo agli ulteriori articoli del d.lgs. n. 155 del 2012 e degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 del d.lgs. n. 156 del 2012, per le stesse ragioni, non sono fondate.
11.? Con il terzo gruppo di censure è prospettata, nel complesso, sia in relazione alle impugnate disposizioni della legge n. 148 del 2011, che a quelle dei decreti legislativi n. 155 e n. 156 del 2012, la violazione di ulteriori parametri costituzionali costituiti dagli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, Cost.
In particolare, gli artt. 2, 9, secondo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, e 111, secondo e terzo comma, sono stati invocati dal solo Tribunale ordinario di Sulmona.
La questione non è fondata.
Si è già detto come in questa riforma organizzativa occorra verificare la ragionevolezza e la proporzionalità del bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale che possono essere coinvolti da un intervento legislativo di vasta portata: ciò vale anche per le censure in questione e vale in particolare laddove si lamenta la prevalenza dei principi dell’economicità e dell’efficienza rispetto a quello della solidarietà, e la incidenza su territori caratterizzati da riserve naturali.
Quanto alla mancata tutela dei diritti dei lavoratori, si tratta di situazioni giuridiche che nel complesso appaiono adeguatamente salvaguardate.
Anche la prospettata violazione dell’art. 3 Cost. (principi di eguaglianza e di ragionevolezza) non sussiste, sia in ragione della complessiva ragionevolezza della delega conferita al Governo – per le sue finalità e per l’indicazione di criteri oggettivi ed uniformi per tutto il territorio nazionale – sia, quanto ai decreti legislativi, per la diversità delle situazioni degli uffici giudiziari interessati, come posto in luce nelle menzionate schede tecniche.
Con riguardo alla prospettata violazione dell’art. 24 Cost., per denegata giustizia e difficoltà di accesso alla giustizia, è di tutta evidenza che non vi è impedimento o limitazione e che la soluzione adottata contempera, in una dimensione di ragionevolezza, più valori costituzionalmente protetti, al fine di garantire una giustizia complessivamente più efficace.
Quanto alle censure mosse all’art. 1, comma 2, in particolare alle lettere a) ed f), della legge n. 148 del 2011, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., la presenza del tribunale nei comuni capoluogo di provincia e quella di non meno di tre degli attuali tribunali in ciascun distretto di corte d’appello sono criteri direttivi conformi al principio di ragionevolezza, in quanto volti a far permanere il presidio giudiziario in luoghi che hanno assunto nel tempo una maggiore centralità nella vita del territorio e a garantire l’accesso alla giustizia, articolando, comunque, in più uffici l’amministrazione giudiziaria di primo grado in ciascuna Corte d’appello.
Infondata è pure la censura di violazione dell’art. 25, primo comma, Cost., per lesione del principio del giudice naturale, posto che questa nozione «corrisponde a quella di “giudice precostituito per legge”» (sentenza n. 237 del 2007) e che la normativa impugnata concreta, appunto, tale «precostituzione per legge».
Non si vede, poi, come la soppressione del Tribunale ordinario di Sulmona violi l’art. 27 Cost., per la mancata considerazione della popolazione carceraria e dell’istituto sito nel circondario, atteso che permangono tutte le garanzie che devono trovare applicazione rispetto alle persone detenute.
L’ulteriore dedotta violazione dell’art. 97 Cost., poi, non sussiste, perché la normativa denunciata persegue al contrario le finalità di complessivo buon andamento dell’amministrazione.
12.? Infine, non è ravvisabile la dedotta violazione dell’art. 81 Cost., ad opera sia della disposizione di delega, sia dei decreti legislativi.
Il principio dell’obbligo di copertura delle spese è stato specificato da questa Corte in diverse pronunce, nelle quali si è chiarito, in particolare, che la copertura deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in equilibrato rapporto con la spesa che si intende effettuare in esercizi futuri (sentenze n. 213 del 2008 e n. 1 del 1966); che essa è aleatoria se non tiene conto che ogni anticipazione di entrate ha un suo costo (sentenza n. 54 del 1983); che l’obbligo di copertura deve essere osservato con puntualità rigorosa nei confronti delle spese che incidono su un esercizio in corso e deve valutarsi il tendenziale equilibrio tra entrate ed uscite nel lungo periodo, considerando gli oneri già gravanti sugli esercizi futuri (sentenza n. 384 del 1991).
Orbene, l’art. 1, comma 2, lettera q), della legge n. 148 del 2011, espressamente ha previsto che dall’attuazione delle relative disposizioni non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
In attuazione di tale previsione, l’art. 10 del d.lgs. n. 155 del 2012 dispone che «dal presente provvedimento non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. All’attuazione si provvede nell’ambito delle risorse umane strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente».
Analoga disposizione è contenuta nell’art. 6 del d.lgs. n. 156 del 2012.
Nella relazione allo schema del d.lgs. n. 155 del 2012, come si è detto, è espressamente indicato il risparmio di spesa realizzato con la revisione in atto.
Nella relazione allo schema del d.lgs. n. 156 del 2012 si rileva che «la modifica consentirà […] risparmi di spesa evidenti in relazione alla riduzione del numero degli uffici ed alla maggiore efficienza degli stessi».
Dunque, da una parte, la presenza della clausola di invarianza, dall’altra la credibilità dei prospettati risparmi di spesa, coerenti con la ratio delle delega legislativa, escludono la violazione dell’art. 81 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara ammissibili gli interventi spiegati dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Pinerolo, dall’Ordine degli avvocati di Montepulciano e dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Urbino;
2) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dal Consiglio nazionale forense, dal Coordinamento nazionale degli ordini forensi minori, dall’Unione degli ordini forensi della Sicilia e dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Nicosia;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, con l’allegata tabella A, del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 155 (Nuova organizzazione dei tribunali ordinari e degli uffici del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), limitatamente alla disposta soppressione del Tribunale ordinario di Urbino;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari), sollevate, nel complesso, in riferimento agli artt. 3, 24, 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, e 81 della Costituzione, dai Tribunali ordinari di Pinerolo, Alba, Sala Consilina, Montepulciano e Sulmona con le ordinanze indicate in epigrafe;
5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 3, 4, 5 e 5-bis, della suddetta legge n. 148 del 2011, sollevata, in riferimento agli artt. 70, 72, primo e quarto comma, 77, secondo comma, ed 81 Cost., dal Tribunale ordinario di Sulmona con l’ordinanza indicata in epigrafe;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del predetto decreto legislativo n. 155 del 2012, sollevata, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Urbino con l’ordinanza indicata in epigrafe;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, con la relativa tabella A – limitatamente alla disposta soppressione dei Tribunali ordinari di Pinerolo, Alba, Sala Consilina, Montepulciano, Sulmona, e di quelli aventi sede nelle Province dell’Aquila e di Chieti ?, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11 del suddetto decreto legislativo n. 155 del 2012, con le allegate tabelle, sollevate, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 70, 72, primo e quarto comma, 76 – con riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, in particolare, alle lettere a), b), d), e), f), e ai commi 3, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 ?, 77, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, Cost., dai Tribunali ordinari di Pinerolo, Alba, Sala Consilina, Montepulciano e Sulmona con le ordinanze indicate in epigrafe;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 6, del decreto legislativo 7 settembre 2012, n. 156 (Revisione delle circoscrizioni giudiziarie ? Uffici dei giudici di pace, a norma dell’art. 1, comma 2, della legge 14 settembre 2011, n. 148), con le allegate tabelle, sollevata, nell’insieme e rispetto alla soppressione degli Uffici del Giudice di pace di Castel di Sangro e di Pratola Peligna, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo, secondo e terzo comma, 25, primo comma, 27, terzo comma, 35, primo e secondo comma, 76 – con riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 1, commi 2, 5 e 5-bis, della legge n. 148 del 2011 ?, 77, 81, 97 e 111, secondo e terzo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Sulmona con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Gaetano SILVESTRI Presidente, Luigi MAZZELLA Giudice, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ), convertito, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, promosso dalla Corte di cassazione, sezione terza penale, con ordinanza dell'11 giugno 2013, iscritta al n. 227 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2013.
Visti l'atto di costituzione di M.V., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'11 febbraio 2014 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Michela Porcile e Giovanni Maria Flick per M.V. e l'avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Con ordinanza depositata in data 11 giugno 2013 (r.o. n. 227 del 2013), la Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ), convertito, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, in riferimento all'art. 77, secondo comma, della Costituzione.
Più precisamente, la rimettente ha dubitato della legittimità costituzionale del citato art. 4-bis «nella parte in cui ha modificato l'art. 73 del testo unico sulle sostanze stupefacenti di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 , e segnatamente nella parte in cui, sostituendo i commi 1 e 4 dell'art. 73, parifica ai fini sanzionatori le sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle II e IV previste dal previgente art. 14 a quelle di cui alle tabelle I e III, e conseguentemente eleva le sanzioni per le prime della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468 a quella della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000». Parimenti, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6) «nella parte in cui sostituisce gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 309 del 1990, unificando le tabelle che identificano le sostanze stupefacenti, ed in particolare includendo la cannabis e i suoi prodotti nella prima di tali tabelle».
1.1.- La Corte di cassazione ha premesso di essere investita del ricorso proposto dall'imputato avverso la sentenza con la quale la Corte d'appello di Trento ha confermato la sentenza del Tribunale di Trento, che aveva dichiarato V.M. colpevole del reato di cui all' art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), in relazione alla ricezione e al trasporto di kg 3,860 di sostanza stupefacente di tipo hashish, condannando l'imputato, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di quattro anni di reclusione ed euro ventiseimila di multa. Ritenuti infondati i motivi di ricorso concernenti la prova della colpevolezza e la concessione dell'attenuante speciale del fatto di lieve entità di cui all' art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, la Corte riteneva rilevante il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dalla difesa in relazione ai citati artt. 4-bis e 4-vicies ter, avuto riguardo al motivo di ricorso con il quale è stata chiesta la riduzione della pena in modo da ottenere il beneficio della relativa sospensione condizionale. A tale proposito, il giudice di legittimità ha rimarcato che, dovendosi ritenere plausibile la fissazione della pena in misura prossima al minimo edittale, l'accoglimento della questione di legittimità costituzionale avrebbe effettivamente consentito di ridurre la pena nei limiti previsti per la concessione dell'invocata sospensione condizionale. Infatti, secondo la rimettente, la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni che hanno sostituito, in tutto o in parte, e (a suo avviso) conseguentemente abrogato le corrispondenti disposizioni e norme del d.P.R. n. 309 del 1990 , determinerebbe la reviviscenza del più favorevole trattamento sanzionatorio previgente, che stabiliva la pena edittale della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 a euro 77.468 per i fatti di cui l'imputato è chiamato a rispondere, anziché quella attuale della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro ventiseimila a euro duecentosessantamila. In particolare, la Corte di cassazione si è richiamata alla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 314 del 2009 e n. 108 del 1986), secondo cui l'accertamento della invalidità di una norma abrogatrice e la sua dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, specialmente se per vizi di forma o procedurali, comporta la caducazione dell'effetto abrogativo e il conseguente ripristino della norma abrogata.
Ha precisato, inoltre, il Collegio rimettente che il deteriore trattamento sanzionatorio quale stabilito dal citato art. 4-bis, sospettato di illegittimità costituzionale, trova il suo presupposto nell'unificazione delle tabelle che identificano le sostanze stupefacenti, con inclusione della cannabis nella prima di esse, insieme alle cosiddette "droghe pesanti": ciò determinerebbe, pertanto, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale anche dell'art. 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del citato d.l. n. 272 del 2005 , che tale unificazione ha operato sostituendo il previgente testo degli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 309 del 1990.
1.2.- La Corte di cassazione ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 4-bis e 4-vicies ter in relazione all'art. 77, secondo comma, Cost. , in quanto mancherebbe il requisito della omogeneità tra le norme originarie del decreto-legge e quelle introdotte nella legge di conversione. In proposito, i rimettenti hanno rammentato la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 2012), secondo cui sussiste nel nostro ordinamento detto principio costituzionale di necessaria omogeneità, in quanto l'art. 77, secondo comma, Cost. istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario, anche sotto il profilo della particolare rapidità e accelerazione dei tempi. La sussistenza del predetto principio risulterebbe poi confermata dal regolamento del Senato della Repubblica e dai messaggi e dalle lettere del Presidente della Repubblica, da questi inviate alle Camere. Quando venga spezzato il legame essenziale tra decretazione d'urgenza e potere di conversione, non sussisterebbe una illegittimità delle disposizioni introdotte nella legge di conversione per mancanza dei presupposti di necessità e urgenza delle norme eterogenee, ma una illegittimità per l'uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire un decreto-legge (sentenza n. 355 del 2010). Sarebbe, quindi, preclusa la possibilità di inserire, nella legge di conversione, emendamenti del tutto estranei all'oggetto e alle finalità del testo originario, in quanto si tratta di una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei: in tale ultimo caso il limite all'introduzione di ulteriori disposizioni in sede di conversione è rappresentato dal rispetto della ratio del decreto-legge (ordinanza n. 34 del 2013).
L'applicazione di tali principi al caso di specie deve, secondo i rimettenti, portare a ritenere insussistente il requisito dell'omogeneità dei censurati artt. 4-bis e 4-vicies ter rispetto alle norme originarie contenute nel decreto-legge. Le finalità di quest'ultimo, infatti, sarebbero state quelle di: rafforzare le forze di polizia e la funzionalità del Ministero dell'interno per prevenire e combattere la criminalità organizzata e il terrorismo nazionale e internazionale; garantire il finanziamento per le olimpiadi invernali; favorire il recupero dei tossicodipendenti detenuti; assicurare il diritto di voto degli italiani residenti all'estero. Pur nella pluralità degli scopi si sarebbe potuta ravvisare una sostanziale omogeneità finalistica del decreto-legge, ravvisabile nella comunanza di ratio delle disposizioni, quella di garantire l'effettivo e sicuro svolgimento delle olimpiadi invernali.
In ogni caso, le norme originarie riguardavano non la disciplina delle sostanze stupefacenti, ma lo specifico e circoscritto tema dell'esecuzione delle pene detentive nei confronti dei tossicodipendenti recidivi con un programma terapeutico in corso. Nei confronti di questi ultimi, infatti, l'allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354 , in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta "legge ex Cirielli", con il suo art. 8 aveva aggiunto l' art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990 - riducendo da quattro a tre anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l'affidamento in prova per l'attuazione di un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza - e con l'art. 9 aveva aggiunto la lettera c) al comma 9 dell'art. 656 del codice di procedura penale , escludendo la sospensione della esecuzione della pena per i recidivi, compresi i tossicodipendenti con in corso un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza o alcooldipendenza. Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l'efficacia dei citati programmi di recupero anche in caso di recidivi, con l' art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva modificato l'art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell'esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto, anche se recidivi.
La rimettente ha quindi rimarcato la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle nuove norme introdotte in sede di conversione, ciò non solo in riferimento alla ratio complessiva dell'intervento governativo - che era quella di garantire sotto l'aspetto finanziario e di polizia l'effettivo e sicuro svolgimento delle olimpiadi invernali, ma anche rispetto alle specifiche previsioni normative contenute nell'art. 4 citato. Questa, infatti, è l'unica disposizione che presenta un labile riferimento al tema degli stupefacenti, ma riguarda esclusivamente l'esecuzione della pena dei recidivi già condannati, come può desumersi dal titolo della disposizione e dal preambolo del provvedimento d'urgenza, in cui si dichiara espressamente che la ratio e la finalità dell'intervento sono quelle di «garantire l'efficacia dei programmi terapeutici di recupero per le tossicodipendenze anche in caso di recidiva». Con la legge di conversione, invece, all'art. 4 sono stati fatti seguire ben ventitre articoli aggiuntivi, composti da numerosissimi commi con relativi allegati, che non hanno apportato modifiche funzionalmente interrelate con le previsioni originarie, ma hanno piuttosto completamente ridisegnato l'apparato repressivo in materia di stupefacenti, sostituendo l' art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e incidendo in modo pervasivo sul sistema classificatorio delle sostanze psicotrope, così da pervenire alla equiparazione tra cosiddette "droghe leggere" e "droghe pesanti".
Secondo la Corte di cassazione non potrebbe, quindi, ravvisarsi alcuna omogeneità materiale o teleologica tra la disposizione abrogatrice di cui all'art. 4 del decreto d'urgenza e la riforma organica del testo unico sugli stupefacenti realizzata con la legge di conversione. Né, ad avviso del giudice di legittimità, la mera circostanza che l'art. 4, comma 1, del decreto d'urgenza richiami il d.P.R. n. 309 del 1990 , per sopprimere la disposizione di cui all'art. 94-bis, potrebbe legittimare l'intera riscrittura del testo unico sugli stupefacenti, posto che, altrimenti, si sarebbe potuto riscrivere, con apposito "maxi-emendamento" d'aula, (saltando, quindi, l'esame in sede referente), tutta la disciplina dell'esecuzione penale, posto che veniva richiamato anche l'art. 656 cod. proc. pen. In tal modo, ad avviso dei rimettenti, si finirebbe per consentire ad ogni Governo, e alla sua maggioranza, di approfittare di qualsiasi effimera emergenza per riformare interi settori dell'ordinamento, strumentalizzando la speciale procedura privilegiata prevista per la legge di conversione, che costituisce, invece, una fonte funzionale e specializzata.
Ad avviso del Collegio rimettente, pertanto, il legislatore, con l'introduzione delle nuove norme e, in particolare, di quelle, poste dagli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), avrebbe travalicato i limiti della potestà emendativa del Parlamento, quali tracciati dalle citate sentenze della Corte costituzionale.
A riprova della disomogeneità delle norme impugnate, la Corte di cassazione ha citato il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera nella seduta del 1°
La Corte rimettente ha poi evidenziato che, pur essendo prospettata una violazione procedurale ai sensi dell'art. 77, secondo comma, Cost. , ciò nondimeno una eventuale pronuncia di accoglimento potrebbe incidere non sulle disposizioni, ma sulle singole norme introdotte dalla legge di conversione che, da un lato, sono totalmente estranee all'oggetto e alla ratio del decreto-legge e, dall'altro, assumono rilevanza nel giudizio a quo. Si tratterebbe, segnatamente, delle norme che - sostituendo i commi 1 e 4 dell' art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e unificando le tabelle che identificano le sostanze stupefacenti - parificano ai fini sanzionatori le sostanze di cui alle tabelle II e IV (tra le quali l'hashish), previste dal previgente art. 14 dello stesso d.P.R., a quelle di cui alle precedenti tabelle I e III e, conseguentemente, elevano le sanzioni per le prime.
1.3.- In via subordinata, la Corte di cassazione ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter negli stessi limiti di cui sopra, per difetto del requisito della necessità ed urgenza ai sensi dell'art. 77, secondo comma, Cost.
Secondo la rimettente, qualora la Corte costituzionale dovesse disattendere le conclusioni in punto di disomogeneità delle norme impugnate, rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge, e si dovessero ritenere le medesime non del tutto eterogenee rispetto al decreto-legge, dovrebbe allora sindacarsi la sussistenza, per le nuove norme introdotte, dei citati requisiti di necessità ed urgenza, ritenuti in tal caso necessari dalla sentenza n. 355 del 2010 di questa Corte. Del resto, il Collegio rimettente evidenzia come altra giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007) abbia osservato che la legge di conversione non sana i vizi del decreto d'urgenza, in sede di sua conversione, di tal che non possano introdursi disposizioni che non abbiano collegamento con le ragioni di necessità ed urgenza legittimanti l'intervento governativo.
1.4.- Il Collegio rimettente ha ritenuto, viceversa, assorbita la terza eccezione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa, per contrasto delle medesime norme di cui sopra con l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione alla decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio dell'Unione europea del 25 ottobre 2004 (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti) - che esigerebbe una disciplina differenziata in ragione della diversa pericolosità delle tipologie di sostanze stupefacenti e psicotrope - e con il principio di proporzionalità delle pene di cui all'art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
2.- Con atto depositato in data 19 novembre 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.- In primo luogo, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l'inammissibilità delle questioni, in quanto la rimettente avrebbe omesso di considerare la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alla fattispecie concreta mediante l'applicazione dell' art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
2.2.- Nel merito la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ha ritenuto palesemente infondate la questioni sollevate, in quanto l'originario decreto-legge avrebbe già contenuto disposizioni in materia di tossicodipendenza, di tal che le norme introdotte in sede di conversione si sarebbero dovute considerare in linea con la ratio e con la finalità dell'intervento governativo, rispondendo anche ad una esigenza di straordinaria urgenza e necessità nel disciplinare una materia di fondamentale importanza ai fini della tutela della salute individuale e collettiva, nonché ai fini della salvaguardia della sicurezza pubblica, attraverso il rigoroso e fermo contrasto al traffico e allo spaccio degli stupefacenti e del recupero dei tossicodipendenti, anche in caso di recidiva.
3.- Con memoria depositata in data 18 novembre 2013, V.M., imputato nel procedimento penale pendente in Cassazione, si è costituito in giudizio, insistendo perché vengano accolte le sollevate questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005 , convertito, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, ulteriormente illustrando i motivi già esposti dalla Corte di cassazione, in relazione alla violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost. , sia per difetto di omogeneità materiale e teleologica rispetto a contenuto, finalità e ratio dell'originario testo del decreto-legge, sia, in via subordinata, per difetto dei requisiti di necessità e urgenza. In ultimo, la parte ha rimarcato che l'impugnato art. 4-bis si pone inoltre in duplice contrasto con il diritto dell'Unione europea, in quanto violerebbe sia l'art. 4 della citata decisione quadro n. 2004/757/GAI sia l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
4.- In data 10 febbraio 2014, la difesa dell'imputato ha depositato note di discussione, con le quali ha rimarcato che l'Avvocatura generale dello Stato, nel ritenere sussistente un nesso tra l'art. 4 originariamente contenuto nel decreto governativo e le disposizioni oggi impugnate, avrebbe confuso l'oggetto di diritto sostanziale (la disciplina che individua e punisce le violazioni alla disciplina sugli stupefacenti) con il soggetto (cioè il condannato tossicodipendente): l'art. 4, infatti, avrebbe riguardato quest'ultimo, vale a dire il soggetto, mentre le norme introdotte dalla legge di conversione avrebbero inciso sul primo, id est l'oggetto. Nel ribadire e richiamare le argomentazioni già esposte in punto di fondatezza della questione di legittimità costituzionale, la difesa ha altresì evidenziato che l'eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri, si è basata sull'erroneo presupposto che la Corte di cassazione potesse applicare nella specie la disposizione di cui all' art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990: il giudice di legittimità, invece, ha espressamente ritenuto infondati i motivi di ricorso relativi al riconoscimento del fatto di lieve entità, contestualmente considerando congrua, specifica e adeguata la motivazione della sentenza impugnata che lo escludeva.
1.- La Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ), convertito, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, in riferimento all'art. 77, secondo comma, della Costituzione.
Ad avviso del Collegio rimettente, le disposizioni impugnate, introdotte dalla legge di conversione, mancherebbero del requisito di omogeneità con quelle originarie del decreto-legge. Detto requisito, infatti, è richiesto dall'art. 77, secondo comma, Cost. che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 2012), istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario. La legge di conversione, pertanto, rappresenta una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico.
Nella specie, ha osservato il Collegio rimettente, le disposizioni originariamente contenute nel decreto-legge riguardavano la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi invernali (che di lì a poco si sarebbero svolte a Torino), la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno e il recupero di tossicodipendenti recidivi. Invece, le disposizioni impugnate, introdotte con la sola legge di conversione, non avrebbero nessuna correlazione con le prime, in quanto volte ad attuare una radicale e complessiva riforma del testo unico sugli stupefacenti e del trattamento sanzionatorio dei reati ivi contenuti.
In particolare, ha osservato la Corte di cassazione, il citato artt. 4-bis - modificando l' art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) - ha previsto una medesima cornice edittale per le violazioni concernenti tutte le sostanze stupefacenti, unificando il trattamento sanzionatorio che, in precedenza, era differenziato a seconda che i reati avessero per oggetto le sostanze stupefacenti o psicotrope incluse nelle tabelle II e IV (cosiddette "droghe leggere") ovvero quelle incluse nelle tabelle I e III (cosiddette "droghe pesanti"): la legge di conversione, infatti, con l'art. 4-vicies ter ha parallelamente modificato il precedente sistema tabellare stabilito dagli artt. 13 e 14 dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990 , includendo nella nuova tabella I gli stupefacenti che prima erano distinti in differenti gruppi.
Per effetto di tali modifiche le sanzioni per i reati concernenti le cosiddette "droghe leggere" e, in particolare, i derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite nell'intervallo edittale della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000.
Considerata la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle citate nuove norme introdotte in sede di conversione, i rimettenti reputano che sia stato violato l'art. 77, secondo comma, Cost. sotto il profilo del difetto del requisito di omogeneità ovvero del nesso di interrelazione funzionale richiesto dalla citata disposizione costituzionale.
In via subordinata, tuttavia, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter, per difetto del requisito della necessità ed urgenza, richiesto dal medesimo art. 77, secondo comma, Cost. Secondo i rimettenti, infatti, qualora la Corte costituzionale dovesse disattendere le conclusioni in punto di disomogeneità delle norme impugnate, rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge, e dovesse ritenere le medesime non del tutto eterogenee rispetto a questo, allora, poiché la legge di conversione non sana i vizi del decreto (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007), non potrebbe considerarsi legittima l'introduzione, in sede di conversione, di disposizioni che non abbiano collegamento con le ragioni di necessità ed urgenza legittimanti l'intervento governativo, ragioni evidentemente insussistenti nella specie.
2.- In via preliminare, in ordine alle deduzioni della parte privata, deve osservarsi che - ferma l'ammissibilità del suo intervento, in quanto persona imputata nel procedimento a quo e, quindi, parte del giudizio (ex plurimis, sentenze n. 304 del 2011, n. 138 del 2010 e n. 263 del 2009) - esse introducono profili di illegittimità costituzionale non prospettati nell'ordinanza di rimessione, in vista di un ampliamento del thema decidendum. Nella memoria di costituzione, infatti, viene dedotta anche una duplice violazione della normativa dell'Unione europea, in relazione sia alla decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio dell'Unione europea del 25 ottobre 2004 (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti), sia all'art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Va rilevato, invero, che si tratta di un percorso argomentativo e di una eccezione difensiva già ritenuti manifestamente infondati dalla Corte di cassazione e che la disamina di tale profilo non può ritenersi ammissibile nel presente giudizio incidentale, in quanto la parte privata costituita non può estendere i limiti della questione, quali precisati nell'ordinanza di rimessione dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2009, n. 86 del 2008, n. 174 del 2003). Ciò a prescindere dalla carente indicazione delle disposizioni costituzionali rispetto alle quali la normativa dell'Unione europea assumerebbe rilevanza nel presente giudizio.
3.- In punto di ammissibilità delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione, deve osservarsi che l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle medesime, in quanto il giudice a quo avrebbe omesso di sperimentare la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alle differenti tipologie di stupefacenti, attraverso l'applicazione dell' art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, che prevede pene più miti per i fatti di lieve entità.
L'eccezione non è fondata, in quanto la Corte di cassazione ha espressamente precisato, nel corpo stesso della sua ordinanza, che la Corte d'appello di Trento ha fornito congrua, specifica e adeguata motivazione delle ragioni per le quali non è riconoscibile nella specie il fatto di lieve entità, ai sensi del citato art. 73, comma 5.
È appena il caso di aggiungere che, alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta evidente che nessuna incidenza sulle questioni sollevate possono esplicare le modifiche apportate all' art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall' art. 2 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10. Trattandosi di ius superveniens che riguarda disposizioni non applicabili nel giudizio a quo, non si ravvisa la necessità di una restituzione degli atti al giudice rimettente, dal momento che le modifiche, intervenute medio tempore, concernono una disposizione di cui è già stata esclusa l'applicazione nella specie, e sono tali da non influire sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006 , con riguardo a disposizioni differenti. Inoltre, gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013 , sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest'ultima.
4.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005 , come convertito dall' art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, è fondata in riferimento all'art. 77, secondo comma, Cost. per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e quelle impugnate, introdotte nella legge di conversione.
4.1.- In proposito va richiamata la giurisprudenza di questa Corte, con particolare riguardo alla sentenza n. 22 del 2012 e alla successiva ordinanza n. 34 del 2013, nella quale si è chiarito che la legge di conversione deve avere un contenuto omogeneo a quello del decreto-legge. Ciò in ossequio, prima ancora che a regole di buona tecnica normativa, allo stesso art. 77, secondo comma, Cost. , il quale presuppone «un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 22 del 2012).
La legge di conversione - per l'approvazione della quale le Camere, anche se sciolte, si riuniscono entro cinque giorni dalla presentazione del relativo disegno di legge ( art. 77, secondo comma, Cost. ) - segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto.
Dalla sua connotazione di legge a competenza tipica derivano i limiti alla emendabilità del decreto-legge. La legge di conversione non può, quindi, aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, come del resto prescrivono anche i regolamenti parlamentari (art. 96-bis del Regolamento della Camera dei Deputati e art. 97 del Regolamento del Senato della Repubblica, come interpretato dalla Giunta per il regolamento con il parere dell'8 novembre 1984). Diversamente, l'iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l'atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare. Pertanto, l'inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest'ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua.
È bene sottolineare che la richiesta coerenza tra il decreto-legge e la legge di conversione non esclude, in linea generale, che le Camere possano apportare emendamenti al testo del decreto-legge, per modificare la normativa in esso contenuta, in base alle valutazioni emerse nel dibattito parlamentare; essa vale soltanto a scongiurare l'uso improprio di tale potere, che si verifica ogniqualvolta sotto la veste formale di un emendamento si introduca un disegno di legge che tenda a immettere nell'ordinamento una disciplina estranea, interrompendo il legame essenziale tra decreto-legge e legge di conversione, presupposto dalla sequenza delineata dall'art. 77, secondo comma, Cost.
Ciò vale anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo, come quello di specie. In relazione a questa tipologia di atti - che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell'omogeneità (sentenza n. 22 del 2012) - ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso.
Nell'ipotesi in cui la legge di conversione spezzi la suddetta connessione, si determina un vizio di procedura, mentre resta ovviamente salva la possibilità che la materia regolata dagli emendamenti estranei al decreto-legge formi oggetto di un separato disegno di legge, da discutersi secondo le ordinarie modalità previste dall'art. 72 Cost.
L'eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo a questa Corte accertare. Si tratta di un vizio procedurale peculiare, che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l'originario decreto-legge. All'esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per violazione dell'art. 77 Cost. , mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell'atto che si pongano in linea di continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l'originario decreto-legge.
4.2.- Nel caso di specie, dunque, la Corte è chiamata a verificare se il contenuto delle disposizioni impugnate, introdotte in fase di conversione, sia funzionalmente correlato al decreto-legge n. 272 del 2005 , al fine di giudicare il corretto uso del potere di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. da parte delle Camere.
A tal fine va osservato che le norme originarie contenute nel decreto-legge riguardano l'assunzione di personale della Polizia di Stato (art. 1), misure per assicurare la funzionalità all'Amministrazione civile dell'interno (art. 2), finanziamenti per le olimpiadi invernali (art. 3), il recupero dei tossicodipendenti detenuti (art. 4) e il diritto di voto degli italiani residenti all'estero (art. 5).
Come può facilmente rilevarsi, e come del resto ha osservato l'Avvocatura dello Stato, l'unica previsione alla quale, in ipotesi, potrebbero riferirsi le disposizioni impugnate introdotte dalla legge di conversione, è l'art. 4, la cui connotazione finalistica era ed è quella di impedire l'interruzione del programma di recupero di determinate categorie di tossicodipendenti recidivi.
Nei confronti di questi ultimi era, infatti, intervenuta l'allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354 , in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta "legge ex Cirielli", che con il suo art. 8 aveva aggiunto l' art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990, riducendo così da quattro a tre anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l'affidamento in prova per l'attuazione di un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza; inoltre, l'art. 9 della medesima legge aveva aggiunto la lettera c) al comma 9 dell'art. 656 del codice di procedura penale , escludendo la sospensione della esecuzione della pena per i recidivi, anche se tossicodipendenti inseriti in un programma terapeutico di recupero.
Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l'efficacia dei citati programmi di recupero anche in caso di recidivi, con l’art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva modificato l'art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell'esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto alle condizioni precedentemente previste.
L'art. 4 contiene, pertanto, norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l'interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. Esse riguardano, cioè, la persona del tossicodipendente e perseguono una finalità specifica e ben determinata: il suo recupero dall'uso di droghe, qualunque reato egli abbia commesso, sia esso in materia di stupefacenti o non.
Non così le impugnate disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 4-vicies ter, introdotte dalla legge di conversione, le quali invece riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente. Inoltre, esse sono norme a connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano la disciplina dei reati in materia di stupefacenti.
Si tratta, dunque, di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite.
4.3.- Tra gli elementi sintomatici che confermano tale conclusione, si può richiamare la circostanza che lo stesso Parlamento ha dovuto modificare, in sede di conversione, il titolo originario del decreto-legge, ampliandolo con l'aggiunta delle parole «e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 », per includervi la materia disciplinata dalle disposizioni introdotte solo con la legge di conversione. Ciò è indice del fatto che lo stesso legislatore ha ritenuto che le innovazioni introdotte con la legge di conversione non potevano essere ricomprese nelle materie già disciplinate dal decreto-legge medesimo e risultanti dal titolo originario di quest'ultimo.
D'altra parte, non meno significativo è il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati (nella seduta del 1°
4.4.- Del resto, la disomogeneità delle disposizioni impugnate rispetto al decreto-legge da convertire assume caratteri di assoluta evidenza, anche alla luce della portata della riforma recata dagli impugnati artt. 4-bis e 4-vicies ter e della delicatezza e complessità della materia incisa dagli stessi.
Infatti, benché contenute in due soli articoli, le modifiche introdotte nell'ordinamento apportano una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe cosiddette "pesanti" e di quelli aventi ad oggetto le droghe cosiddette "leggere", fattispecie differenziate invece dalla precedente disciplina.
Una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge, ex art. 72 Cost.
Si aggiunga che un intervento normativo di simile rilievo - che, non a caso, faceva parte di un autonomo disegno di legge S. 2953 giacente da tre anni in Senato in attesa dell'approvazione - ha finito, invece, per essere frettolosamente inserito in un "maxi-emendamento" del Governo, interamente sostitutivo del testo del disegno di legge di conversione, presentato direttamente nell'Assemblea del Senato e su cui il Governo medesimo ha posto la questione di fiducia (nella seduta del 25 gennaio 2006), così precludendo una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina in tal modo introdotta.
Inoltre, per effetto del "voto bloccato" che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, è stato anche impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo, dal momento che all'oggetto della questione di fiducia, non possono essere riferiti emendamenti, sub-emendamenti o articoli aggiuntivi e che su tale oggetto è altresì vietata la votazione per parti separate.
Né la seconda e definitiva lettura presso l'altro ramo del Parlamento ha consentito successivamente di rimediare a questa mancanza, visto che anche in quel caso il Governo ha posto, nella seduta del 6 febbraio 2006, la questione di fiducia sul testo approvato dal Senato, obbligando così l'Assemblea della Camera a votarlo "in blocco".
Va inoltre osservato che la presentazione in aula da parte del Governo di un maxi-emendamento al disegno di legge di conversione non ha consentito alle Commissioni di svolgere in Senato l'esame referente richiesto dal primo comma dell'art. 72 Cost.
Per di più, l'imminente fine della legislatura (intervenuta con il d.P.R. 11 febbraio 2006, n. 32 , recante «Scioglimento del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati») e l'assoluta urgenza di convertire alcune delle disposizioni contenute nel decreto-legge originario, tra cui quelle riguardanti la sicurezza e il finanziamento delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, impedivano di fatto allo stesso Presidente della Repubblica di fare uso della facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost. , non disponendo, tra l'altro, di un potere di rinvio parziale.
In questo senso sono, infatti, i rilievi contenuti nei ripetuti interventi da parte del Presidente della Repubblica - lettera inviata il 27 dicembre 2013 ai Presidenti del Senato e della Camera, sulle modalità di svolgimento dell'iter parlamentare di conversione in legge del decreto-legge c.d. "salva Roma" ( decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126 ); lettera inviata il 23 febbraio 2012 ai Presidenti del Senato e della Camera; lettera inviata il 22 febbraio 2011 ai Presidenti del Senato e della Camera; messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002) - e, recentemente, anche da parte del Presidente del Senato (comunicato del Presidente del Senato inviato il 28 dicembre 2013), interventi tutti volti a segnalare l'abuso dell'istituto del decreto-legge e, in particolare, l'uso improprio dello strumento della legge di conversione, in violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost.
Ben si comprende, pertanto, proprio alla luce di quanto accaduto nel caso di specie, come il rispetto del requisito dell'omogeneità e della interrelazione funzionale tra disposizioni del decreto-legge e quelle della legge di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. sia di fondamentale importanza per mantenere entro la cornice costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento della funzione legislativa.
4.5.- Conclusivamente sul punto, deve osservarsi che, nel caso sottoposto all'esame della Corte, risultano contestualmente presenti plurimi indici che rendono manifesta l'assenza di ogni nesso di interrelazione funzionale tra le disposizioni impugnate e le originarie disposizioni del decreto-legge.
In difetto del necessario legame logico-giuridico, richiesto dall'art. 77, secondo comma, Cost. , i censurati artt. 4-bis e 4-vicies ter devono ritenersi adottati in carenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere legislativo di conversione e perciò costituzionalmente illegittimi.
Trattandosi di un vizio di natura procedurale, che peraltro - come si è detto - si evidenzia solo ad un'analisi dei contenuti normativi aggiunti in sede di conversione, la declaratoria di illegittimità costituzionale colpisce per intero le due disposizioni impugnate e soltanto esse, restando impregiudicata la valutazione di questa Corte in relazione ad eventuali ulteriori impugnative aventi ad oggetto altre disposizioni della medesima legge.
5.- In considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost. , deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l' art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate.
Il potere di conversione non può, infatti, considerarsi una mera manifestazione dell'ordinaria potestà legislativa delle Camere, in quanto la legge di conversione ha natura «funzionalizzata e specializzata» (sentenza n. 22 del 2012 e ordinanza n. 34 del 2013). Essa presuppone un decreto da convertire, al cui contenuto precettivo deve attenersi, e per questo non è votata articolo per articolo, ma in genere è composta da un articolo unico, sul quale ha luogo la votazione - salva la eventuale proposizione di emendamenti, nei limiti sopra ricordati - nell'ambito di un procedimento ad hoc (art. 96-bis del Regolamento della Camera; art. 78 del Regolamento del Senato), che deve necessariamente concludersi entro sessanta giorni, pena la decadenza ex tunc del provvedimento governativo. Nella misura in cui le Camere non rispettano la funzione tipica della legge di conversione, facendo uso della speciale procedura per essa prevista al fine di perseguire scopi ulteriori rispetto alla conversione del provvedimento del Governo, esse agiscono in una situazione di carenza di potere.
In tali casi, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l'atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è inidoneo ad innovare l'ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010). Sotto questo profilo, la situazione risulta assimilabile a quella della caducazione di norme legislative emanate in difetto di delega, per le quali questa Corte ha già riconosciuto, come conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale, l'applicazione della normativa precedente (sentenze n. 5 del 2014 e n. 162 del 2012), in conseguenza dell'inidoneità dell'atto, per il radicale vizio procedurale che lo inficia, a produrre effetti abrogativi anche per modifica o sostituzione.
Deve, dunque, ritenersi che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990 , nella versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l'effetto abrogativo.
È appena il caso di aggiungere che la materia del traffico illecito degli stupefacenti è oggetto di obblighi di penalizzazione, in virtù di normative dell'Unione europea. Più precisamente la decisione quadro n. 2004/757/GAI del 2004 fissa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, richiedendo che in tutti gli Stati membri siano punite alcune condotte intenzionali, allorché non autorizzate, fatto salvo il consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali. Pertanto, se non si determinasse la ripresa dell'applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990 , resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell'Unione europea, che l'Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
6.- Stabilito, quindi, che una volta dichiarata l'illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate riprende applicazione l' art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate, resta da osservare che, mentre esso prevede un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette "droghe leggere" (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa stabilisce sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette "droghe pesanti" (puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni).
È bene ribadire che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sin dalla sentenza n. 148 del 1983, si è ritenuto che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l'esame nel merito della normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva di legge vigente in materia penale, di cui all'art. 25 Cost. ) di «configurare nuove norme penali» (sentenza n. 394 del 2006), siano esse incriminatrici o sanzionatorie, eventualità questa che non rileva nel presente giudizio, dal momento che la decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all'applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore.
Quanto agli effetti sui singoli imputati, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen. , che implica l'applicazione della norma penale più favorevole al reo.
Analogamente, rientra nei compiti del giudice comune individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della presente decisione.
7.- La decisione di cui sopra assorbe l'ulteriore questione sollevata in via subordinata dalla Corte di cassazione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ), convertito, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2014.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 25-septies del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, promosso dalla Regione Molise con ricorso notificato il 15-20 febbraio 2019, depositato in cancelleria il 25 febbraio 2019, iscritto al n. 31 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi l’avvocato Massimo Luciani per la Regione Molise e gli avvocati dello Stato Leonello Mariani e Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso spedito per la notifica il 15 febbraio 2019 e depositato il 25 febbraio 2019, la Regione Molise ha impugnato in via principale l’art. 25-septies del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136. (…omissis)
Considerato in diritto
1.– La Regione Molise propone ricorso in via principale avverso l’art. 25-septies, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, nella parte in cui tale norma dispone la incompatibilità del conferimento e del mantenimento dell’incarico di commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario delle Regioni con l’espletamento di incarichi istituzionali presso la Regione soggetta a commissariamento e stabilisce la applicabilità della incompatibilità anche per gli incarichi commissariali in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione, introduttiva del citato articolo, con la conseguente decadenza dall’incarico commissariale dei Presidenti di Regione a far data dalla nomina dei nuovi Commissari ad acta.
1.1.– La disciplina censurata contrasterebbe, ad avviso della Regione ricorrente, con vari parametri di costituzionalità.
Risulterebbe, infatti, anzitutto violato l’art. 77 della Costituzione in riferimento alle attribuzioni costituzionali riconosciute alla Regione nelle materie della «tutela della salute» e del «coordinamento della finanza pubblica», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché violazione del principio di leale collaborazione. Sussisterebbe violazione dell’art. 77 Cost. – con ridondanza sulle attribuzioni regionali in tema di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica – a causa della evidente estraneità della norma impugnata rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è stata inserita in sede di conversione.
Vulnerato sarebbe anche il principio di leale collaborazione, trattandosi di intervento adottato unilateralmente dello Stato, senza alcun coinvolgimento della Regione.
1.2.– Viene poi dedotta la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., nonché la violazione del principio di leale collaborazione a norma degli artt. 117 e 118 Cost. e degli artt. 117, terzo comma, 118 e 120 Cost. , in quanto, tenuto conto della funzione dei piani di rientro e del necessario confronto istituzionale, la norma impugnata avrebbe generato effetti addirittura dannosi, introducendo, senza alcun coinvolgimento regionale, una preclusione assoluta, applicabile retroattivamente anche per quelle Regioni il cui commissariamento è già in atto e che viene ad essere intaccato dall’innesto di una figura di commissario completamente slegata dalla istituzione regionale.
1.3.– L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche sotto il profilo della totale assenza di margine di apprezzamento del caso concreto, tenuto conto del buon andamento della gestione dei piani di rientro, con evidenti riflessi negativi sulle competenze regionali, sia amministrative sia legislative, in materia di tutela della salute e coordinamento della finanza pubblica.
Il medesimo parametro costituzionale viene evocato anche sotto il profilo del mancato rispetto del principio di proporzionalità, in quanto la norma impugnata non sarebbe certamente quella meno pregiudizievole per le attribuzioni costituzionali regionali, considerato che la stessa impone un onere sproporzionato rispetto al fine da perseguire, dal momento che non prende in alcuna considerazione le situazioni specifiche, prescindendo, quindi, dalla bontà o meno della esperienza commissariale in corso.
1.4.– Si deduce, inoltre, violazione del principio di ragionevolezza, nonché del principio di buon andamento della pubblica amministrazione e di leale collaborazione e di sussidiarietà, di cui agli artt. 117, terzo comma, 118 e 120 Cost., in quanto la norma denunciata non rispetterebbe i paradigmi declinati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di sussidiarietà. Non sussisterebbe, in particolare, il presupposto della inerzia regionale tale da legittimare l’intervento normativo, né si sarebbe realizzata alcuna fase di confronto con la Regione interessata. Non sarebbe stato neppure rispettato il principio di sussidiarietà, in quanto è stata adottata una soluzione opposta a quella di privilegiare la prossimità del commissario rispetto all’istituto regionale.
Il tutto, osserva la Regione ricorrente, in assenza di ragioni particolari atte a giustificare la scelta operata, con i naturali riverberi negativi sulle attribuzioni regionali, con specifico riferimento a quelle relative alla tutela della salute. L’esautoramento regionale sarebbe poi avvenuto, in spregio all’art. 120 Cost., senza rispetto del principio di leale collaborazione, generando, anche, la correlativa violazione del principio di buona amministrazione ex art. 97 Cost.
1.5.– Si lamenta, altresì, la violazione degli artt. 81 e 97 Cost., in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché in riferimento al principio di leale collaborazione. La nuova nomina del commissario, infatti, trattandosi di persona terza rispetto alla amministrazione, e dunque da retribuire ex novo, comporterà per la Regione nuovi oneri finanziari. Il che genera perplessità per il fatto che tali nuovi oneri possano essere imposti ad una Regione già obbligata ad adempiere al piano di rientro delle spese sanitarie.
La esigenza di contenimento della spesa pubblica, imposta dall’art. 81 Cost., risulterebbe pertanto frustrata dalla norma censurata, senza che risulti alcuna ragione per abbandonare il precedente e più economico modello, con conseguente violazione anche dell’art. 97 Cost.
Scelte, quelle censurate, che sono state operate in assenza di qualsiasi concertazione.
1.6.– Viene denunciata, infine, la violazione del principio di affidamento, quale enunciato dalla giurisprudenza costituzionale, stante la portata sostanzialmente retroattiva della norma dettata dal comma 3 dell’art. 25-septies impugnato.
La cessazione automatica del mandato commissariale in corso, a prescindere da qualsiasi valutazione di opportunità, equivarrebbe, inoltre, ad un intervento sostitutivo nei confronti della Regione del tutto discrezionale, in violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), di quello di buona amministrazione (art. 97 Cost.), degli artt. 117, terzo comma, 118 e 120 Cost. e del principio di leale collaborazione.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato propone una prima eccezione di inammissibilità del ricorso, fondata sulla carenza di interesse, al lume di una articolata deduzione. Alla stregua, infatti, della normativa succedutasi nel tempo e del tenore delle varie delibere di nomina, emergerebbe che il commissariamento della Regione Molise, originariamente disposto in base all’allora vigente art. 4, comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito con modificazioni nella legge 29 novembre 2007, n. 222, sarebbe successivamente “transitato” nell’ambito applicativo dell’art. 2 della legge 23 dicembre 2009, n.191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)».
Pertanto, alla data di entrata in vigore dell’art. 1, comma 395, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019) – che ha eliminato per le Regioni commissariate la incompatibilità sancita dall’art. 1, comma 569, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2015)» – la Regione Molise doveva ritenersi ormai commissariata ai sensi dell’art. 2 della legge n. 191 del 2009, con la conseguente applicabilità della incompatibilità introdotta dalla legge n. 190 del 2014. La eventuale incostituzionalità della norma impugnata, pertanto, comporterebbe la reviviscenza della incompatibilità sancita dall’art. 1, comma 569, della legge n. 190 del 2014, in riferimento agli incarichi commissariali conferiti ai sensi dell’art. 2, commi 73, 83 e 84 della legge n. 191 del 2009, impedendo il cumulo per la Regione Molise dell’incarico di commissario con quello di Presidente della Regione.
Da qui, ad avviso della resistente, la inammissibilità del ricorso per difetto di interesse.
2.1.– La eccezione sollevata dalla Avvocatura comporta la necessaria disamina del complesso, articolato e non poco contraddittorio quadro normativo di riferimento, entro il quale si è snodata, nel corso degli anni, la disciplina dei piani di rientro delle spese sanitarie, delle correlative procedure di commissariamento e delle altalenanti scelte operate in ordine alle “qualità” che doveva ricoprire la persona da nominare quale commissario ad acta per il riordino finanziario delle spese sanitarie gravanti sui bilanci regionali.
2.1.1.– È noto che, in considerazione della grave e persistente incapacità di alcune Regioni di controllare la spesa sanitaria, dando vita a situazioni di deficit strutturali tali da interagire anche con i livelli delle prestazioni erogabili, a partire dalla legge 30 dicembre 2004, n. 311 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)», successivamente oggetto di varie modifiche, il legislatore statale introdusse un meccanismo articolato che faceva leva sui piani di rientro, in virtù del quale veniva imposto alle Regioni, che si fossero trovate in una condizione di sofferenza finanziaria strutturale in materia sanitaria, di sottoporsi ad una complessa procedura di risanamento, al fine di poter beneficiare del sostegno finanziario dello Stato ed accedere a nuovi finanziamenti. Gli impegni per il monitoraggio ed il contenimento e razionalizzazione della spesa sanitaria, sottoscritti attraverso una apposita intesa Stato-Regioni, erano assoggettati ad un controllo da parte di organismi appositamente istituiti dalla medesima intesa.
Al fine di garantire la realizzazione degli obiettivi stabiliti nei piani di rientro stipulati in base all’art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004, il legislatore statale introdusse una particolare procedura descritta nell’art. 4 del d.l. n. 159 del 2007. In particolare, e per quel che qui interessa, venne prevista inizialmente una diffida ai sensi dell’art. 8, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Attuazione dell’art. 120 della Costituzione sul potere sostitutivo) nei confronti della Regione che si fosse resa inadempiente rispetto agli impegni assunti in sede di sottoscrizione dei piani di rientro e, poi, la nomina, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, di un commissario ad acta, con il compito di realizzare le finalità riportate nel piano concordato tra Stato e Regione.
Va peraltro sottolineato che l’art. 4, comma 2, del d.l. n. 159 del 2007, nella sua formulazione originaria aveva previsto che la nomina a commissario ad acta fosse incompatibile con l’affidamento o la prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la Regione soggetta a commissariamento. Tale incompatibilità è poi venuta meno in ragione della sua espressa abrogazione ad opera dell’art. 79, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la compatibilità, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133.
2.1.2.– La impostatura dei piani di rientro è stata mantenuta anche nella legge 23 dicembre 2005, n. 266, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006)» (art. 1, comma 277, che recepì la intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005), nella legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)» (art. 1, comma 796), la quale recepì il Patto per la salute 2007-2009, nella legge finanziaria n. 191 del 2009, che recepì il Patto per la salute 2010-2012, di cui alla intesa tra Governo e Regioni del 3 dicembre 2009, ed il cui art. 13, fra l’altro, prevedeva una articolata procedura di controllo per la gestione del deficit in campo sanitario, con la procedimentalizzazione di meccanismi di intervento sostituivo a mezzo di commissari ad acta, nominati nella persona del Presidente della Regione.
L’art. 2, comma 79, della legge n. 191 del 2009, prevedeva, infatti, che, in caso di mancata presentazione da parte della Regione del piano di rientro ovvero in caso di mancata approvazione dello stesso, il Consiglio dei ministri, in attuazione dell’art. 120 Cost., nominasse il Presidente della Regione quale commissario ad acta per la predisposizione del piano di rientro e per la sua attuazione. L’art. 2, comma 83, della stessa legge n. 191 del 2009, prendeva in considerazione l’ipotesi in cui, pur essendo stato presentato ed approvato il piano di rientro, ad una verifica dello stesso venisse constatata la inadempienza della Regione in merito alla realizzazione degli obiettivi tracciati nel piano. In tal caso, il Consiglio dei ministri diffidava la Regione interessata ad attuare il piano, adottando altresì tutti gli atti normativi, amministrativi, organizzativi e gestionali idonei a garantire il conseguimento degli obiettivi previsti. A seguito della persistente inerzia della Regione, il Consiglio dei ministri, in attuazione dell’art. 120 Cost., nominava il Presidente della Regione commissario ad acta per la intera durata del piano di rientro; in particolare, il medesimo comma 83 proseguiva affermando che «il commissario adotta tutte le misure indicate nel piano nonché gli ulteriori atti e provvedimenti normativi, amministrativi organizzativi e gestionali ad esso implicati in quanto presupposti o comunque correlati e necessari alla completa attuazione del piano».
Merita peraltro di essere rilevato che, nel testo originario del comma 83, figuravano le parole “il presidente della regione commissario ad acta” che furono sostituite da quelle «il presidente della regione o un altro soggetto commissario ad acta» ad opera del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213. Pertanto, a far tempo dalla entrata in vigore di tale fonte novellatrice, il commissario ad acta poteva essere scelto anche tra persone diverse dal Presidente della Regione da commissariare.
Significativa appare anche la “storia” del comma 84 dell’art. 2 della ricordata legge n. 191 del 2009. Il testo originario stabiliva, infatti, che «Qualora il presidente della Regione, nominato commissario ad acta per la redazione e l’attuazione del piano ai sensi dei commi 79 o 83, non adempia in tutto o in parte all’obbligo di redazione del piano o agli obblighi, anche temporali, derivanti dal piano stesso, indipendentemente dalle ragioni dell’inadempimento, il Consiglio dei ministri, in attuazione dell’art. 120 della Costituzione, adotta tutti gli atti necessari ai fini della predisposizione del piano di rientro e della sua attuazione. Nei casi di riscontrata difficoltà in sede di verifica e monitoraggio nell’attuazione del piano, nei tempi o nella dimensione finanziaria ivi indicata, il Consiglio dei ministri, in attuazione dell’articolo 120 della Costituzione, sentita la regione interessata, nomina uno o più commissari ad acta di qualificate e comprovate professionalità ed esperienza in materia di gestione sanitaria per l’adozione e l’attuazione degli atti indicati nel piano e non realizzati». (La norma è stata modificata ad opera del comma 569 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014, il quale ha soppresso le parole: «presidente della regione, nominato» ed ha sostituito le parole «ai sensi dei commi 79 o 83» con quelle: «, a qualunque titolo nominato»).
La disposizione, anche nella sua versione originaria, faceva evidentemente riferimento ad una ipotesi in cui il Presidente della Regione, (che, come si è visto, dal 2012 poteva, ma non doveva più essere necessariamente nominato commissario ad acta) fosse risultato inadempiente agli obblighi derivanti dal piano di rientro e stabiliva un autonomo potere sostitutivo statale attraverso un nuovo commissariamento: da qui, la previsione dei requisiti di professionalità del nuovo commissario, ontologicamente “incompatibile” con la persona del Presidente della Regione.
2.1.3.– Un radicale mutamento di prospettiva venne tracciato nel Patto per la salute 2014-2016, che formò oggetto della intesa tra Governo e Regioni del 10 luglio 2014. L’art. 12 del protocollo di intesa, infatti, dedicato ai Piani di riorganizzazione riqualificazione e rafforzamento dei servizi sanitari regionali, espressamente prevedeva, fra l’altro, «di promuovere l’adozione delle modifiche normative necessarie affinché, in caso di nuovi commissariamenti, sia previsto che la nomina a commissario ad acta sia incompatibile con l’affidamento o la prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la Regione soggetta a commissariamento»; «che il Commissario ad acta, ove nominato, deve possedere un curriculum che evidenzi qualificate e comprovate professionalità ed esperienza di gestione sanitaria anche in base ai risultati in precedenza conseguiti»; «che i sub Commissari svolgano attività a supporto dell’azione del Commissario, essendo il loro mandato vincolato alla realizzazione di alcuni o di tutti gli obiettivi affidati al Commissario con il mandato commissariale, avvalendosi del personale, degli uffici e dei mezzi necessari all’espletamento dell’incarico di cui all’articolo 4, comma 2, del decreto – legge n. 259/2007, convertito con modificazioni, dalla legge n. 222/2007».
L’intesa raggiunta tra Governo, Regioni e Province autonome, proponeva di introdurre, dunque, per i futuri commissariamenti, la incompatibilità tra qualsiasi incarico regionale e l’assunzione della carica di commissario ad acta; ne stabiliva i requisiti di professionalità, ed espressamente evocava (nella parte dedicata ai sub- commissari), quale “fonte” degli incarichi, l’art. 4 del d.l. n. 159 del 2007 (norma base, dunque, che permaneva nel tempo, anche a fronte dei nuovi commissariamenti cui si riferiva la introducenda incompatibilità di cariche).
2.1.4.– Il contenuto della intesa fu recepito nella legge finanziaria 2015, in quanto la legge 23 dicembre 2014, n. 190, stabilì, al comma 569, che «La nomina a commissario ad acta per la predisposizione, l’adozione o l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo del settore sanitario, effettuata ai sensi dell’articolo 2, commi 79, 83 e 84, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni, è incompatibile con l’affidamento o la prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la regione soggetta a commissariamento.».
La stessa disposizione prevedeva, poi, che il commissario doveva possedere un curriculum che evidenziasse «qualificate e comprovate professionalità ed esperienza di gestione sanitaria anche in base ai risultati in precedenza conseguiti». Sul piano temporale, inoltre, veniva stabilito che la nuova disciplina trovava applicazione «alle nomine effettuate, a qualunque titolo, successivamente alla data di entrata in vigore» della stessa legge.
Il successivo comma 570 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014 stabiliva, a sua volta, che le già richiamate disposizioni dell’art. 569 si applicavano «anche ai commissariamenti disposti ai sensi dell’articolo 4, comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, e successive modificazioni.» (ancora nella finanziaria del 2015, pertanto, i commissariamenti di cui all’art. 4 del d.l. n. 159 del 2007 venivano considerati “non assorbiti” dalle successive fonti di novellazione della materia).
2.1.5.– La situazione muta novamente con la legge finanziaria del 2017 (Legge 11 dicembre 2016, n. 232), giacché, nel corso dei relativi lavori, venne approvato (con vivaci interventi critici della opposizione, che parlò di intervento normativo chiaramente diretto a favorire uno specifico Presidente di Regione commissariata) un emendamento con il quale la pregressa incompatibilità tra commissario ad acta e Presidente della Regione venne rimosso a decorrere dalla data di entrata in vigore della stessa legge n. 232 del 2016.
L’art. 1, comma 395, stabilì, infatti che (il particolare è importante, nella prospettiva della eccezione di inammissibilità per carenza di interesse sollevata dalla Avvocatura dello Stato in riferimento al ricorso proposto dalla Regione Molise) «le disposizioni di cui al comma 569 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, non si applicano alle regioni commissariate ai sensi dell’articolo 4, comma 2, del decreto-legge 1 ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2007, n. 222». A sua volta, il comma 396 dello stesso articolo, abrogava il comma 570 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (il quale, come già accennato, stabiliva la estensione della incompatibilità anche ai commissariamenti disposti a norma dell’art. 4, comma 2, del d.l. n. 159 del 2007).
Da tale operazione normativa, dunque, non veniva “toccato” il regime dei commissariamenti di cui ai commi 79, 83 e 84 dell’art. 2 della legge n. 191 del 2009, che avevano formato oggetto della novellazione operata dall’art. 1, comma 569, della legge n. 190 del 2014, il quale aveva introdotto, per quei commissariamenti, il meccanismo della incompatibilità fra le note cariche di commissario ad acta e Presidente della Regione.
3.– Alla stregua di tale composita evoluzione del quadro normativo può dedursi la infondatezza della eccezione sollevata dalla Avvocatura generale dello Stato, dal momento che l’originario “titolo” di commissariamento della Regione Molise, rappresentato dal più volte richiamato art. 4, comma 2, del d.l. n. 159 del 2007, non si è affatto “inalveato” – come pretenderebbe la difesa dello Stato – all’interno della più “matura” e completa disciplina dei commissariamenti dettata – pur tenendo conto delle articolate sovrastrutturazioni normative che l’hanno attinta, attraverso le varie fonti novellatrici – dalla legge n. 191 del 2009.
Occorre infatti rilevare che i commissariamenti più antichi – come quello della Regione Molise, che ormai ha abbondantemente superato il decennio – non hanno subito una sorta di “novazione” sul versante della legislazione applicabile, in quanto la base normativa dalla quale ha tratto origine l’intervento sostitutivo dello Stato è rimasta intatta nella sua perdurante produzione di effetti, al punto che ha formato oggetto di espresso richiamo proprio – e da ultimo – ad opera della norma censurata dal ricorso.
Deve infatti escludersi che per le Regioni all’epoca già commissariate, la legge n. 191 del 2009 abbia rappresentato una fonte “novatrice” di tale portata da aver nella sostanza “sterilizzato” la precedente disciplina. Il riferimento alle Regioni commissariate ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.l. n. 159 del 2007 era stato infatti soppresso dall’art. 1, comma 395, della legge n. 232 del 2016, che aveva escluso la incompatibilità per quei tipi di commissariamento, a testimonianza, dunque, della perdurante efficacia di quel regime di commissariamento. Tant’è che il decreto oggi impugnato si è ovviamente fatto carico di eliminare quella disposizione, sopprimendo, appunto, il primo periodo di quel comma.
Ma ugualmente di rilievo è l’assunto della difesa regionale, laddove evidenzia come l’art. 2, comma 88, della legge n. 191 del 2009, avesse espressamente chiarito che per le Regioni già sottoposte a piani di rientro e commissariate alla data del 31 dicembre 2009 restasse fermo l’assetto della gestione commissariale previgente, pur trovando per esse applicazione le disposizioni dettate dai commi da 80 a 86 dell’art. 2 della stessa legge. Considerazioni, quelle testé svolte, avvalorate dal fatto che i vari decreti di nomina dei commissari richiamavano tutti l’art. 4, comma 2, del d.l. n. 159 del 2007.
A prescindere, dunque, dalla validità della tesi secondo la quale dalla eventuale incostituzionalità deriverebbe una sorta di “reviviscenza retrograda”, che generebbe l’automatico riespandersi delle disposizioni previgenti alle varie novelle con portata abrogatrice – tesi che non potrebbe comunque condividersi, in considerazione del fatto che le varie modifiche succedutesi nel tempo non sono state di abrogazione pura e semplice – è assorbente rilevare che l’interesse al ricorso risulta asseverato dal fatto che la eventuale rimozione della incompatibilità, introdotta dalla disposizione impugnata, lascerebbe inalterato, per le Regioni commissariate ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.l. n. 159 del 2007, il quadro normativo previgente, con la conseguente possibilità di designare o mantenere, quale commissario ad acta, la persona che rivesta un incarico istituzionale presso la Regione commissariata.
4.– A proposito, poi, della ulteriore eccezione di inammissibilità per carenza di interesse al ricorso, proposta dall’Avvocatura generale dello Stato sul presupposto che non sarebbe stata impugnata la parte della norma che enuncia i requisiti che deve possedere il commissario ad acta, e che, comunque sia, precluderebbe il conferimento dell’incarico ad un “politico”, la difesa regionale – a prescindere da qualsiasi rilievo circa il naturale “assorbimento” di tale profilo nel quadro delle censure proposte – puntualmente rileva come la impugnativa della Regione avesse riguardato l’art. 25-septies del d.l. n. 119 del 2018 in tutte le sue parti, addirittura espressamente enunciando, a pag. 9 del ricorso, proprio il comma 2, lettera b), della disposizione censurata, ove si dettano, per l’appunto, i requisiti professionali di cui deve essere in possesso il commissario.
Anche tale eccezione va dunque disattesa.
5.– Scendendo all’esame del merito delle singole censure, rilievo pregiudiziale assume la questione relativa alla prospettata violazione dell’art. 77 Cost., dedotta sul presupposto che la norma impugnata, inserita in sede di conversione del d.l. n. 119 del 2018, si presenterebbe del tutto estranea rispetto alla materia disciplinata dalle disposizioni originarie del decreto stesso.
5.1.– L’Avvocatura generale dello Stato prospetta la inammissibilità della questione per mancanza di lesione di attribuzioni regionali e, dunque, per mancanza di ridondanza del parametro non relativo alle competenze. Altro sarebbe, infatti, la disciplina dei piani di rientro, altro è la disciplina del commissariamento – oggetto della norma censurata – che è espressione del potere sostitutivo dello Stato ai sensi dell’art. 120 Cost., e che rientra nell’ambito della competenza statale esclusiva. Anche se si tratta di discipline fra loro correlate – soggiunge l’Avvocatura – nondimeno le stesse devono essere tenute distinte, in quanto riferite a fasi diverse della procedura finalizzata al risanamento finanziario dei servizi sanitari: per la prima, attinente alla programmazione ed attuazione dei Piani di rientro, trova applicazione il principio cooperativo e di condivisione; per la seconda, riguardante l’intervento sostitutivo dello Stato attraverso il commissariamento, la competenza legislativa è di esclusiva spettanza statale.
La tesi della difesa dello Stato non può, però, essere, nel caso di specie, condivisa.
In linea di massima, deve infatti ritenersi corretta l’affermazione secondo la quale, una volta constatato il fallimento dei concordati Piani di rientro, i cui risultati sono accertati attraverso le periodiche verifiche effettuate nell’ambito di Tavoli di lavoro cogestiti, l’intervento dello Stato, attraverso l’istituto del commissariamento, coinvolge una fase di intervento sostitutivo ontologicamente riservato – sul piano normativo e gestionale – alle scelte statali, nell’ambito delle attribuzioni devolute e per le finalità indicate dall’art. 120, secondo comma, Cost.
E deve in proposito richiamarsi il costante assunto, ribadito da ultimo nelle sentenze n. 195 e n. 194 del 2019, secondo il quale «le Regioni possono evocare parametri di legittimità costituzionale diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze tra Stato e Regioni solo a due condizioni: quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite […] e quando le Regioni ricorrenti abbiano sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata illegittimità costituzionale sul riparto delle competenze, indicando la specifica competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in proposito».
Occorre peraltro assegnare il dovuto risalto alla circostanza che, per il concreto atteggiarsi delle specifiche opzioni esercitate in ambiti pur riservati, lo Stato possa “incidere” su competenze regionali concorrenti – come la tutela della salute ed il coordinamento della finanza pubblica – secondo prospettive che la Regione può rivendicare come menomative, e di là dai limiti tracciati dalle necessità insite nell’intervento in sussidiarietà.
Ove così non fosse, d’altra parte, si realizzerebbe una ipotesi di totale sottrazione al controllo costituzionale da parte delle Regioni, circa i possibili ambiti di interferenza con le relative attribuzioni, in tutte le ipotesi in cui lo Stato faccia uso degli eccezionali poteri al medesimo conferiti per surrogare carenze degli enti locali, in particolare sul versante della tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
Ebbene, nella vicenda in esame, introducendo la norma impugnata un meccanismo di incompatibilità tra la carica di commissario ad acta rispetto all’affidamento o alla prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la Regione commissariata, si determina una automatica menomazione sul piano delle competenze, anche rispetto alla previgente disciplina, dal momento che il quadro normativo preesistente consentiva l’esercizio di quella funzione da parte del Presidente della Regione commissariata.
Un novum normativo che finisce, quindi, per determinare (specie per i commissariamenti in atto, ricoperti da presidenti di Regione, che decadono dall’incarico) una significativa interferenza nella sfera regionale, anche sul versante del relativo assetto ordinamentale, riferito, per di più, alla gestione di ambiti di competenza (sanità e coordinamento della finanza pubblica) concorrenti, anche se incisi dall’intervento sostitutivo dello Stato.
Non è quindi contestabile la legittimazione della Regione a far valere i vizi di una normativa che – pur se inquadrata nell’ambito dell’esercizio del potere sostitutivo dello Stato – modifica il previgente regime, direttamente riguardante non le attribuzioni del commissario ad acta in quanto tali, ma la persona che ricopra l’incarico di Presidente della Regione, assunto come soggetto incompatibile a svolgere quelle funzioni.
5.2.– Nel merito, la questione è fondata.
Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni avuto modo di ribadire che «l’inserimento di norme eterogenee rispetto all’oggetto o alla finalità del decreto-legge determina la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. Tale violazione, per queste ultime norme, non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza, giacché esse, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma scaturisce dall’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione attribuisce ad esso, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge» (sentenza n. 22 del 2012).
La legge di conversione è fonte funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge ed è caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario. Essa non può quindi aprirsi a qualsiasi contenuto, come del resto prescrive, in particolare, l’art. 96-bis del regolamento della Camera dei deputati. A pena di essere utilizzate per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, le disposizioni introdotte in sede di conversione devono potersi collegare al contenuto già disciplinato dal decreto-legge, ovvero, in caso di provvedimenti governativi a contenuto plurimo, «alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso» (sentenza n. 32 del 2014).
D’altra parte, «il carattere peculiare della legge di conversione comporta anche che il Governo – stabilendo il contenuto del decreto-legge – sia nelle condizioni di circoscrivere, sia pur indirettamente, i confini del potere di emendamento parlamentare. E, anche sotto questo profilo, gli equilibri che la Carta fondamentale instaura tra Governo e Parlamento impongono di ribadire che la possibilità, per il Governo, di ricorrere al decreto-legge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost. (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007)» (sentenza n. 154 del 2015).
È vero – e va ancora ribadito – che «[l]a legge di conversione […] rappresenta una legge “funzionalizzata e specializzata” che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico» (sentenza n. 32 del 2014).
Tuttavia questa Corte ha anche precisato che la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto di omogeneità si determina solo quando le disposizioni aggiunte siano totalmente «estranee» o addirittura «intruse», cioè tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione (sentenza n. 251 del 2014), per cui «Solo la palese “estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto-legge” (sentenza n. 22 del 2012) o la “evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge” (sentenza n. 154 del 2015) possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione» (sentenza n. 181 del 2019, nonché, da ultimo, nello stesso senso, sentenza n. 226 del 2019).
5.3.– Ebbene, alla stregua dei richiamati principi, appare nella specie evidente che tra le norme che hanno formato oggetto del decreto-legge n. 119 del 2018 e quella oggetto di scrutinio, inserita ad opera della legge di conversione, non sia intravedibile alcun tipo di nesso che le correli fra loro, né sul versante dell’oggetto della disciplina o della ratio complessiva del provvedimento di urgenza, né sotto l’aspetto dello sviluppo logico o di integrazione, ovvero di coordinamento rispetto alle materie “occupate” dall’atto di decretazione.
L’originario decreto, infatti, enunciava i presupposti della straordinaria necessità e urgenza come raccordati a «misure per esigenze fiscali e finanziarie indifferibili». Il provvedimento, in particolare, era strutturato in due titoli: il primo, recante «Disposizioni in materia fiscale», ed il secondo, «Disposizioni finanziarie urgenti». Il primo titolo era a sua volta suddiviso in tre capi: il primo recante «Disposizioni in materia di pacificazione fiscale», composto da nove articoli; il capo II recante «Disposizioni in materia di semplificazione fiscale e di innovazione del processo tributario», composto di sette articoli; il capo III recante «Altre disposizioni fiscali», composto da quattro articoli. Il Titolo II era composto da sette articoli.
Come posto in evidenza dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati, l’originario decreto-legge (composto, come si è detto, da 27 articoli) è passato, a seguito dell’esame del Senato, a 64 articoli complessivi. Il Comitato ha sottolineato, al riguardo, che il provvedimento appare riconducibile, sulla base del preambolo, a due distinte finalità: da un lato, quella di introdurre nuovi meccanismi di carattere fiscale; dall’altro lato, quella di effettuare rifinanziamenti di significativi stanziamenti di bilancio (quali le risorse destinate al contratto di programma con le società RFI-Spa, art. 21; quelle per il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, art. 22; quelle per l’autotrasporto, art. 23; quelle per le missioni internazionali, art. 24; a queste finalità – ha ancora osservato il Comitato – se ne aggiunge una terza, per quanto non riportata nel preambolo, vale a dire quella di intervenire in materia di integrazione salariale straordinaria, art. 25. «Andrebbe approfondita – rileva il documento – la riconducibilità a tale perimetro» di varie norme introdotte in sede di conversione, fra le quali si cita espressamente proprio l’art. «25-septies (piano di rientro dal disavanzo del settore sanitario)», che costituisce oggetto dei ricorsi.
Va infine sottolineato che il Comitato conclusivamente «raccomanda altresì quanto segue: abbia cura il Legislatore di volersi attenere alle indicazioni di cui alle sentenze della Corte costituzionale n. 22 del 2012 e n. 32 del 2014 in materia di decretazione d’urgenza, evitando “la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei”».
Pertanto, esclusa qualsiasi pertinenza delle disposizioni di carattere fiscale contenute nel titolo I del decreto rispetto al tema dei commissari per il ripianamento delle spese sanitarie regionali, non può non sottolinearsi come del tutto eccentrico rispetto a quel tema si presenti anche l’oggetto (e la ratio) delle disposizioni di carattere “finanziario”, posto che gli articoli del decreto “incasellati” nel titolo II sono dedicati, come si è visto, al finanziamento di specifiche attività o fondi tutti eterogenei gli uni rispetto agli altri.
D’altra parte, a segnalare la eccentricità della norma censurata rispetto alla materia del decreto sta – come correttamente puntualizza la Regione ricorrente – il rilievo che, in sede di conversione del decreto stesso, il legislatore abbia avvertito l’esigenza di modificare, in parte qua, proprio la rubrica del titolo II, introducendo le parole «e disposizioni in materia sanitaria», a testimonianza della estraneità della norma rispetto al contenuto del provvedimento convertito.
A tale riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato osserva, da un lato, che la disposizione oggetto dei ricorsi è intervenuta su norme contenute in due leggi finanziarie, e dunque rientrerebbe nella “materia finanziaria” che costituisce in parte oggetto dell’originario decreto. Dall’altro lato, la difesa dello Stato rileva che la disciplina dei piani di rientro afferisce pacificamente alla materia della finanza pubblica e, in particolare, alle politiche di bilancio, dal momento che l’andamento economico della sanità regionale costituisce una componente essenziale del quadro macroeconomico nazionale, specie con riferimento proprio al caso dei commissariamenti, che presuppongono uno squilibrio di gravità tale da imporre interventi immediati sul piano del contenimento della spesa pubblica, a salvaguardia della unità economica nazionale e dei livelli essenziali di prestazioni in tema di salute.
A fronte di tali rilievi deve però rilevarsi che il concetto di “materia finanziaria” si riempie dei contenuti definitori più vari, in ragione degli oggetti specifici cui essa risulta in concreto riferita; mentre, non è certo la sedes in cui la norma risulti inserita (legge finanziaria) quella dalla quale cogliere quei tratti di univocità di ratio che la difesa della resistente pretenderebbe desumere.
È proprio perché la “materia finanziaria” risulta concettualmente “anodìna” – dal momento che ogni intervento normativo può, in sé, generare profili che interagiscono anche con aspetti di natura “finanziaria” – che il riferimento ad essa, come identità di ratio, risulta in concreto non pertinente a fronte di una disposizione i cui effetti finanziari sono indiretti rispetto all’oggetto principale che essa disciplina, giacché – ove così non fosse – le possibilità di “innesto” in sede di conversione dei decreti-legge di norme “intruse” rispetto al contenuto ed alla ratio complessiva del provvedimento di urgenza risulterebbero, nei fatti, privata di criteri e quindi anche di scrutinabilità costituzionale.
La disposizione impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 77 Cost.
6.– Restano assorbite le ulteriori censure dedotte dalla Regione ricorrente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 25-septies del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Aldo CAROSI; Giudici : Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’emendamento del Senato della Repubblica 29 gennaio 2019, n. 11.0.43, promosso da Stefano Collina e Daniele Manca, nella qualità di senatori, con ricorso depositato il 25 marzo 2019 ed iscritto al n. 1 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2019, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto che, con ricorso depositato il 25 marzo 2019, due senatori in carica per la XVIII legislatura, Stefano Collina e Daniele Manca, hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro il Senato della Repubblica, «nonché, per quanto occorra, la Camera dei Deputati e il Governo della Repubblica», in relazione «all’abuso del procedimento legislativo» che si sarebbe consumato mediante l’inserimento, in sede di conversione del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 (Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), dell’emendamento 11.0.43 (testo 4), A.S. n. 989 (Conversione in legge del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, recante disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), poi divenuto art. 11-ter del citato d.l., come convertito nella legge 11 febbraio 2019, n. 12;
che i ricorrenti assumono che tale emendamento introdurrebbe nell’originario decreto-legge una «norma intrusa», così da configurare «una ipotesi di grave abuso del procedimento legislativo, in spregio degli artt. 67, 68, 70, 71 e 77 Cost.»;
che, in particolare, in ordine alle disposizioni introdotte con il citato emendamento, sarebbero violati: l’art. 67 della Costituzione in quanto non sarebbe stata garantita ai senatori la facoltà di partecipare alle discussioni e alle deliberazioni, così impedendo loro l’esercizio del libero mandato parlamentare; l’art. 68 (recte: 68, primo comma) Cost., in quanto sarebbe stata compressa la loro facoltà di esprimere opinioni e voti; l’art. 71 (recte: 71, primo comma) Cost., in quanto sarebbe stato impedito ai medesimi senatori di esercitare il loro potere di iniziativa legislativa, nella forma della proposta di emendamenti; l’art. 72 Cost., in quanto non sarebbe stato loro consentito di esercitare in maniera effettiva le facoltà di esame, valutazione, emendamento, né in commissione né in assemblea; gli artt. 70 e 77 Cost., in quanto sarebbe stata negata l’essenza stessa della funzione legislativa delle Camere, imponendo al Parlamento di ratificare scelte maturate altrove;
che i ricorrenti ricordano che l’art. 11-ter del d.l. n. 135 del 2018, come convertito, interviene su una materia assai complessa e dibattuta negli ultimi anni (le cosiddette trivelle) e, in particolare: sospende i permessi di prospezione, esplorazione e ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi, sia per aree in terraferma che in mare, con una moratoria di 18-24 mesi, onerosa per il bilancio dello Stato; affida al Ministero dello sviluppo economico, entro 18 mesi, il compito di approvare il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI), al fine di individuare le aree ove è consentito lo svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale, volto a valorizzare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle stesse; e, infine, aumenta di 25 volte i canoni di concessione;
che il ricorso ricostruisce il procedimento di conversione del d.l. n. 135 del 2018, a partire dalla sua presentazione in prima lettura al Senato della Repubblica in data 14 dicembre 2018 fino alla sua approvazione in via definitiva nel termine di sessanta giorni, e illustra dettagliatamente le fasi dell’esame svolto all’interno del Senato (A.S. 989) – in sede referente presso le Commissioni riunite I (Affari costituzionali) e VIII (Lavori pubblici, comunicazioni); in sede consultiva presso la V Commissione (Bilancio) e la X (Commissione industria, commercio e turismo); e infine in aula – con ampia produzione di documenti relativi alle diverse fasi dei lavori parlamentari, mentre dà conto in modo sintetico della successiva conclusione dell’iter legislativo presso la Camera dei deputati (A.C. 1550);
che in relazione ai lavori svolti presso la Camera dei deputati i ricorrenti ricordano che il Comitato per la legislazione, nel suo parere del 31 gennaio 2019, depositato in allegato al ricorso: ha raccomandato al legislatore di attenersi alle indicazioni di cui alle sentenze della Corte costituzionale n. 22 del 2012 e n. 32 del 2014 in materia di decretazione d’urgenza, evitando «la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei»; ha osservato che «il decreto-legge, originariamente composto da 12 articoli, risulta incrementato, a seguito dell’esame al Senato, a 28 articoli complessivi; in termini di commi si è passati dai 39 commi iniziali a 152 commi complessivi»; e ha concluso che «destano comunque perplessità, sotto il profilo della riconducibilità alle finalità del provvedimento e al contenuto del testo originario, alcune norme inserite nel corso dell’iter», tra le quali l’emendamento oggetto del presente conflitto;
che, quanto all’ammissibilità del conflitto sotto il profilo soggettivo, i senatori affermano di agire nella loro qualità di poteri dello Stato a tutela delle proprie prerogative costituzionali (artt. 67, 68, 70, 71, primo comma, e 72 Cost.), anche relative al procedimento legislativo, conformemente al più recente orientamento della giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto ai singoli parlamentari la qualifica di potere dello Stato, abilitato a sollevare conflitti di attribuzione in caso di “abuso del potere legislativo” , richiamando ampi passaggi dell’ordinanza di questa Corte n. 17 del 2019;
che, quanto all’ammissibilità del conflitto sotto il profilo oggettivo, sarebbero innanzitutto soddisfatti i requisiti previsti dall’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), secondo cui i conflitti tra poteri dello Stato devono avere a oggetto «la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali», perché si tratterebbe di un conflitto «di evidente tono costituzionale»;
che le lesioni lamentate si risolverebbero in violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione, in quanto le prerogative costituzionali dei senatori ricorrenti di cui agli artt. 67, 68, 70, 71, 72 Cost. sarebbero state «palesemente pregiudicate da un evidente abuso della funzione legislativa, anche in ragione della illegittima utilizzazione dei meccanismi di cui all’art. 77 Cost.» (si richiama ancora l’ordinanza di questa Corte n. 17 del 2019);
che, nel merito, i ricorrenti sostengono che l’aggiunta in sede di conversione di norme eterogenee rispetto al decreto-legge implichi uno stravolgimento dell’istituto del decreto-legge e della funzione ascritta al procedimento di conversione (si richiamano le sentenze di questa Corte n. 32 del 2014, n. 22 del 2012, n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007);
che l’eterogeneità dell’emendamento 11.0.43, aggiunto in sede di conversione, sarebbe palese, come segnalato e contestato più volte nel corso dell’iter parlamentare al Senato;
che i ricorrenti ricordano che nella seduta del 28 gennaio 2019 il Presidente del Senato ha ritenuto inammissibili e quindi stralciato 62 degli 85 emendamenti approvati in sede referente dalle Commissioni riunite Affari costituzionali e Lavori pubblici, ma avrebbe tuttavia salvato 23 emendamenti comunque difficilmente riconducibili alle finalità e al contenuto del testo originario del decreto-legge il quale rispondeva alla finalità di introdurre, come specificato nel titolo, «disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione», al fine di «imprimere ulteriore slancio alla modernizzazione dell’azione pubblica»;
che a tali finalità sarebbe del tutto estraneo l’emendamento in questione, oltre a quelli stralciati dalla Presidenza, dato che esso, affrontando «il controverso tema delle attività di prospezione e ricerca degli idrocarburi», non apparirebbe riconducibile ad alcuno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge né alla sua ratio complessiva;
che, sempre nel corso della trattazione in aula al Senato, sul punto era stata presentata a firma del senatore Malan una apposita questione pregiudiziale, nella quale si sottolineava proprio l’abuso delle forme di conversione del decreto-legge in cui sarebbero incorsi il Parlamento e il Governo aggiungendo emendamenti quali appunto quello contestato;
che, in definitiva, secondo i ricorrenti, l’art. 11-ter «pone una norma intrusa, vale a dire una regolamentazione priva di qualsiasi collegamento contenutistico o funzionale rispetto al decreto-legge», con l’effetto di spezzare quel nesso di interrelazione tra il decreto-legge e la legge di conversione, presupposto dalla sequenza delineata dall’art. 77, secondo comma, Cost. (si richiama ancora la sentenza di questa Corte n. 32 del 2014);
che il venir meno del legame essenziale tra decreto-legge e legge di conversione, oltre a rappresentare un vizio di legittimità costituzionale della legge di conversione, comprometterebbe le ordinarie dinamiche del confronto parlamentare e di conseguenza menomerebbe le prerogative costituzionali del singolo parlamentare;
che, sempre secondo i ricorrenti, le attività di ricerca, esplorazione e prospezione di idrocarburi sarebbero da anni «oggetto di vivace scontro non solo politico, oltre che di un apposito referendum abrogativo nel 2016 (questione trivelle)»;
che, di conseguenza, «[u]na riforma di tale materia avrebbe dovuto essere inserita all’interno di provvedimenti specifici, mediante un disegno di legge ordinario, oggetto di dibattito nelle relative commissioni competenti per materia, lasciando così spazio adeguato ai singoli parlamentari per effettuare approfondimenti e audizioni, presentare testi alternativi ed emendamenti, esprimere opinioni anche in contraddittorio e votare in maniera consapevole e informata, dando piena esplicazione alle forme di cui agli artt. 70 e ss. Cost. e non certo essere “infilata” impropriamente nella conversione di decreto-legge del tutto eterogeneo»;
che la compressione dell’iter legislativo avrebbe precluso «al singolo senatore di assolvere a quella funzione di confronto e di garanzia indispensabili nel procedimento di formazione della volontà parlamentare»;
che, per quel che riguarda l’andamento dei lavori parlamentari, i ricorrenti sottolineano che, nel corso delle sedici sedute delle Commissioni riunite I (Affari costituzionali) e VIII (Lavori pubblici, comunicazioni) in sede referente, l’emendamento sugli idrocarburi – dopo diversi rinvii – sarebbe stato esaminato e discusso solamente nella seduta pomeridiana del 24 gennaio, nella quale sono stati esaminati 98 emendamenti dalle ore 18 alle ore 20,20, con un tempo di discussione di circa un l minuto e 30 secondi per emendamento;
che, ancora, la X Commissione (Industria, commercio, turismo) competente per materia non avrebbe avuto modo di esprimersi;
che le lesioni delle prerogative dei singoli senatori apparirebbero «gravissime» anche nella fase dell’esame in assemblea, dove il termine per la presentazione degli emendamenti sarebbe risultato essere pari a solo due ore lavorative;
che, in definitiva, secondo i ricorrenti, sarebbe «stato pregiudicato uno dei momenti essenziali dell’iter legis, vale a dire il confronto e la discussione tra le diverse forze politiche» e quindi sarebbero state menomate le prerogative del singolo senatore, attraverso «una forma evidente di abuso del procedimento legislativo».
Considerato che in questa fase del giudizio la Corte costituzionale è chiamata a verificare, in camera di consiglio e senza contraddittorio, se sussistono i requisiti soggettivo e oggettivo di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato prescritti dall’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale);
che sotto il profilo soggettivo, questa Corte ha già riconosciuto che «la Costituzione individua una sfera di prerogative che spettano al singolo parlamentare, diverse e distinte da quelle che gli spettano in quanto componente dell’assemblea» (ordinanza n. 17 del 2019);
che, tuttavia, la stessa ordinanza n. 17 del 2019 ha precisato che «la legittimazione attiva del singolo parlamentare deve […] essere rigorosamente circoscritta quanto al profilo oggettivo, ossia alle menomazioni censurabili in sede di conflitto»;
che, in particolare, «il sindacato di questa Corte [deve] essere rigorosamente circoscritto ai vizi che determinano violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari ed è necessario che tali violazioni siano rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione»;
che ai fini dell’ammissibilità del conflitto è pertanto necessario che dalla stessa prospettazione di parte contenuta nel ricorso emerga «una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita» al singolo parlamentare;
che i senatori ricorrenti lamentano davanti a questa Corte che le modalità con cui il Senato della Repubblica ha approvato l’emendamento 11.0.43 (testo 4), A.S. n. 989, inserito quale norma asseritamente «intrusa» in sede di conversione del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 (Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), avrebbero violato le prerogative proprie di ogni rappresentante della Nazione garantite dagli artt. 67, 68, primo comma, 70, 71, primo comma, e 72 della Costituzione, anche in relazione all’art. 77 Cost.;
che è vero – come più volte riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 226 e n. 181 del 2019, n. 32 del 2014 e n. 22 del 2012) – che in sede di conversione non è consentito introdurre emendamenti privi di qualsiasi collegamento contenutistico o funzionale rispetto al testo originario del decreto-legge, i quali avrebbero l’effetto di spezzare il nesso di interrelazione tra il decreto-legge e la legge di conversione, presupposto dalla sequenza delineata dall’art. 77, secondo comma, Cost.; e ciò allo scopo di evitare che l’iter procedimentale «peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 154 del 2015), previsto per l’approvazione della legge di conversione, possa essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano la decretazione d’urgenza e vada a detrimento delle ordinarie dinamiche del confronto parlamentare;
che se – in astratto – la palese estraneità delle disposizioni introdotte in fase di conversione potrebbe costituire un vizio procedimentale di gravità tale da determinare una menomazione delle prerogative costituzionali dei singoli parlamentari, tuttavia – in concreto, nel caso di specie – il ricorso non offre elementi tali da portare all’evidenza di questa Corte né l’asserito difetto di omogeneità dell’emendamento oggetto del presente conflitto, né la conseguente palese violazione delle prerogative dei senatori ricorrenti;
che nel ricorso l’eterogeneità dell’emendamento è solo asserita sulla base di un mero raffronto tra la materia regolata dall’emendamento stesso e il titolo del decreto-legge;
che, d’altra parte, dalla narrativa offerta dal ricorso appare non essere del tutto mancato il confronto parlamentare, né sui contenuti dell’emendamento, né sulla sua ammissibilità, come dimostra il dibattito culminato con la comunicazione del 28 gennaio 2019 (Senato della Repubblica, XVIII legislatura, 84ª seduta) con cui il Presidente di assemblea ha reso noto di avere stralciato, proprio per carenza di omogeneità con il decreto-legge, 62 degli 85 emendamenti approvati in sede referente dalle Commissioni riunite I (Affari costituzionali) e VIII (Lavori pubblici, comunicazioni);
che, in queste specifiche circostanze, dalla prospettazione del ricorso «non emerge un abuso del procedimento legislativo tale da determinare quelle violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari», rilevabili «nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione», che assurgono a requisito di ammissibilità di questo tipo di conflitti (ordinanza n. 17 del 2019);
che, di conseguenza, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Aldo CAROSI; Giudici : Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’approvazione, da parte del Senato della Repubblica, dell’emendamento n. 11.0.43, in sede di conversione del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, recante «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione», e dell’approvazione della legge di conversione 11 febbraio 2019, n. 12, promosso da Galeazzo Bignami, Marco Di Maio e Alberto Pagani, nella qualità di deputati, con ricorso depositato il 26 marzo 2019 ed iscritto al n. 2 del registro conflitti tra poteri 2019, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2019 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto che, con ricorso depositato il 26 marzo 2019, i deputati Galeazzo Bignami, Marco Di Maio e Alberto Pagani hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati e del Governo della Repubblica, «nonché, per quanto occorra», del Senato della Repubblica;
che i ricorrenti chiedono che la Corte costituzionale dichiari che «non spettava al Parlamento introdurre, in sede di conversione del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, recante “Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione”, l’emendamento 11.0.43 poi divenuto l’art. 11-ter sull’attività di prospezione e ricerca degli idrocarburi, peraltro votandolo con questione di fiducia», e che, conseguentemente, «annulli la medesima disposizione»;
che le modalità con cui è stato approvato tale emendamento sarebbero lesive delle prerogative riconosciute ai parlamentari dagli artt. 67, 68, 70, 71 e 72 della Costituzione, e l’approvazione sarebbe avvenuta in violazione dell’art. 77 Cost.;
che, secondo i ricorrenti, il testo della proposta di emendamento sarebbe stato «concordato al di fuori delle sedi parlamentari, essendo frutto di una apposita riunione a Palazzo Chigi»;
che, con riferimento all’esame svoltosi presso il Senato, i ricorrenti contestano la decisione di ritenere l’emendamento ammissibile, nonostante esso fosse «difficilmente riconducibile» alle finalità e al contenuto del testo originario del decreto-legge;
che, con riferimento ai lavori svoltisi presso la Camera, l’esame del disegno di legge sarebbe avvenuto «trascurando completamente i dubbi, le perplessità procedurali e contenutistiche e malgrado il secco parere negativo del Comitato per la Legislazione»;
che il Governo avrebbe «forzato i tempi di esame» nonché «fatto bocciare tutti gli emendamenti»;
che la posizione della questione di fiducia, avvenuta il 5 febbraio 2019, avrebbe eliminato «in radice ogni possibilità di interlocuzione, esame e modifica da parte dei Deputati», nonostante il termine per la conversione in legge fosse fissato per il 12 febbraio 2019;
che, nel corso dei lavori alla Camera, in più occasioni sarebbe stata denunciata l’estraneità dell’art. 11-ter rispetto al contenuto originario del decreto-legge;
che, in particolare, i ricorrenti sottolineano che, nel corso dell’esame avvenuto nella X Commissione permanente (Attività produttive, commercio e turismo), tutti gli emendamenti presentati al testo erano stati respinti;
che, nel proprio parere, il Comitato per la legislazione avrebbe richiamato la necessità di attenersi alla giurisprudenza costituzionale sull’omogeneità degli emendamenti rispetto al testo originale del decreto-legge, ma che «di tale parere il Governo non ha tenuto alcun conto»;
che, anche in sede consultiva, presso la I Commissione (Affari costituzionali) della Camera, sarebbero «emerse significative criticità» dovute all’eterogeneità del testo del decreto-legge come approvato dal Senato;
che la posizione e l’approvazione della questione di fiducia sul testo approvato dalla decima commissione, identico a quello adottato dal Senato, avrebbe compresso i tempi della trattazione;
che, anche durante le sedute del 6 e 7 febbraio 2019, svoltesi in Assemblea, sarebbe stata contestata da più deputati la scelta di porre la questione di fiducia, poiché tale scelta – impedendo alla Camera di esercitare le prerogative di cui è titolare e di discutere il merito del provvedimento e di modificarlo – avrebbe vanificato «il ruolo del Parlamento», determinato il sostanziale venir meno del bicameralismo paritario e condotto, inoltre, alla conversione di un decreto-legge non conforme alla giurisprudenza costituzionale;
che, con riferimento all’ammissibilità del ricorso, quanto al profilo soggettivo, i deputati si configurerebbero, ai sensi dell’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quali «poteri dello Stato a tutela delle proprie prerogative costituzionali, anche relative al procedimento legislativo», in base a quanto statuito dall’ordinanza n. 17 del 2019 della Corte costituzionale;
che sussisterebbe anche il profilo oggettivo, poiché le prerogative che la Costituzione attribuisce ad ogni parlamentare agli artt. 67, 68, 70, 71 e 72 Cost. sarebbero state «palesemente pregiudicate da un evidente abuso della funzione legislativa, anche in ragione della illegittima utilizzazione dei meccanismi di cui all’art. 77 Cost.»;
che, in particolare, le modalità di esame e approvazione della legge di conversione in legge del d.l. n. 135 del 2018, attraverso la posizione della questione di fiducia, «finalizzata anche a “coprire” l’aggiunta di norme eterogenee rispetto al decreto-legge», configurerebbero un «evidente abuso del procedimento legislativo e una palese lesione delle prerogative costituzionali a tutela del momento deliberativo […], nonché della libertà del parlamentare»;
che i deputati sarebbero stati «costretti a limitare esame e discussione a poche ore, a ritirare o far bocciare tutti gli emendamenti e a votare un testo non concordato in parlamento e blindato dalla questione di fiducia»;
che ne deriverebbe «un caso gravissimo di monocameralismo rafforzato», in cui solo il ramo del Parlamento che per primo esamina il decreto-legge potrebbe emendarne il testo, mentre i parlamentari dell’altro ramo sarebbero “costretti al silenzio”;
che i ricorrenti evidenziano come il ricorso alla questione di fiducia determinerebbe «alterazioni procedimentali di non poco momento, vale a dire la priorità, l’indivisibilità e l’inemendabilità del testo», snaturando il «ruolo dialogico dell’emendamento nell’ambito della discussione parlamentare» e compromettendo la «potestà di interlocuzione, rappresentanza e dibattito di cui i singoli parlamentari sono titolari», con pregiudizio del momento deliberativo, che rappresenta uno degli assi portanti del parlamentarismo;
che la preclusione del potere di emendamento determinerebbe la compromissione dell’esercizio della funzione legislativa che spetta a ciascun parlamentare e lederebbe «il diritto di ciascun parlamentare di ottenere un’adeguata discussione prodromica alla votazione sulla proposta emendativa»;
che, in simili circostanze, la decisione del Parlamento, lungi dal costituire il frutto di un pubblico dibattito, verrebbe ridotta a un «mero prodotto legislativo preconfezionato» e comporterebbe una «indubbia “coercizione politica”, che lede la forma e la sostanza del procedimento legislativo, in spregio allo spirito democratico della Costituzione», ancora più lesiva per i parlamentari di opposizione, i quali vedrebbero il loro voto diventare del tutto irrilevante, minandosi così anche «la rappresentatività del parlamentare»;
che la «coartazione delle prerogative parlamentari» sarebbe ancora più grave nel presente caso, poiché la questione di fiducia avrebbe garantito la possibilità di approvare un «emendamento chiaramente ultroneo» ed eterogeneo rispetto al testo del decreto-legge, in violazione dell’art. 77 Cost., così che l’accelerazione del procedimento di conversione determinata dalla posizione della questione di fiducia sarebbe stata «sfruttata in maniera fraudolenta»;
che, quindi, ai deputati ricorrenti sarebbe stato: impedito l’esercizio del libero mandato parlamentare, in violazione dell’art. 67 Cost.; non consentito di esprimere opinioni e voti, in violazione dell’art. 68 Cost.; precluso l’esercizio del potere di iniziativa, in ragione dei tempi ristretti di esame del disegno di legge di conversione e dell’assenza di un autonomo disegno di legge ordinario sul tema delle attività di prospezione e ricerca degli idrocarburi, in violazione dell’art. 71 Cost.; interdetto di «esplicare la facoltà di emendamento», a causa soprattutto della posizione della questione di fiducia, in violazione dell’art. 72 Cost. Con conseguente negazione della «essenza stessa della attribuzione della funzione legislativa», in violazione dell’art. 70 Cost., essendo stati tutti i parlamentari costretti a votare un emendamento eterogeneo rispetto al testo del decreto-legge approvato dal Governo, in specifica violazione anche dell’art. 77 Cost.
Considerato che i deputati Galeazzo Bignami, Marco Di Maio e Alberto Pagani hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati e del Governo della Repubblica, «nonché, per quanto occorra», del Senato della Repubblica, per chiedere che questa Corte dichiari che «non spettava al Parlamento introdurre, in sede di conversione del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, recante “Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione”, l’emendamento 11.0.43 poi divenuto l’art. 11-ter sull’attività di prospezione e ricerca degli idrocarburi, peraltro votandolo con questione di fiducia», domandando, conseguentemente, l’annullamento della medesima disposizione;
che, secondo i ricorrenti, le modalità di approvazione della legge 11 febbraio 2019, n. 12 – con cui il Parlamento ha convertito il d.l. n. 135 del 2018 inserendo all’interno dello stesso l’art. 11-ter, contenente un emendamento asseritamente estraneo al testo originario del decreto-legge – avrebbero determinato la lesione delle prerogative costituzionali del singolo parlamentare, previste agli artt. 67, 68, 70, 71 e 72 Cost., con violazione, altresì, dell’art. 77 Cost.;
che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata a deliberare, in camera di consiglio e senza contraddittorio, sulla sussistenza dei requisiti soggettivo e oggettivo prescritti dall’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ossia a decidere se il conflitto insorga tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni delineata per i vari poteri da norme costituzionali;
che l’ordinanza n. 17 del 2019 ha riconosciuto l’esistenza di «una sfera di prerogative che spettano al singolo parlamentare, diverse e distinte da quelle che gli spettano in quanto componente dell’assemblea», e ha affermato che esse possono essere difese di fronte a questa Corte con lo strumento del ricorso per conflitto tra poteri dello Stato;
che la stessa ordinanza n. 17 del 2019 ha precisato che «la legittimazione attiva del singolo parlamentare deve […] essere rigorosamente circoscritta quanto al profilo oggettivo, ossia alle menomazioni censurabili in sede di conflitto»;
che, in particolare, tale legittimazione deve fondarsi sull’allegazione di «vizi che determinano violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari ed è necessario che tali violazioni siano rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione»;
che, ai fini dell’ammissibilità del conflitto, è insomma necessario che il singolo parlamentare alleghi «una sostanziale negazione o un’evidente menomazione» delle proprie funzioni costituzionali;
che, al contrario, lo stesso ricorso dà diffusamente atto che, in più occasioni e in diversi momenti dell’iter di conversione di cui è questione, i componenti della Camera hanno potuto discutere, avanzare proposte di modifica e votare in merito all’asserita estraneità dell’emendamento contestato (art. 11-ter) rispetto al contenuto originario del decreto-legge;
che, in particolare, secondo quanto i ricorrenti medesimi affermano, ciò risulta avvenuto durante l’esame del testo da parte delle commissioni, sia in sede referente – ove il suddetto art. 11-ter è stato oggetto di proposte emendative, poste in votazione ma respinte – sia in sede consultiva;
che, ancora, il Comitato per la legislazione ha adottato il prescritto parere ai sensi dell’art. 96-bis del regolamento della Camera dei deputati 18 febbraio 1971 e successive modifiche e integrazioni;
che, durante l’esame da parte dell’Assemblea, si è regolarmente svolta la discussione generale sul testo del disegno di legge di conversione del decreto-legge;
che, al termine di quest’ultima, ricordano i ricorrenti essere stata discussa, votata e respinta una questione pregiudiziale presentata, proprio a causa della supposta eterogeneità degli emendamenti approvati al Senato, con l’obiettivo di non consentire l’ulteriore esame del disegno di legge;
che, inoltre, sulla stessa successiva posizione della questione di fiducia sul disegno di legge di conversione – su cui si appuntano, altresì, le censure dei ricorrenti –il ricorso medesimo dà conto dello svolgimento di un ampio dibattito, anche con riferimento all’art. 11-ter del d.l. n. 135 del 2018;
che, in ogni caso, anche dopo la posizione della questione di fiducia, il procedimento, sempre in base a quel che risulta dal ricorso stesso, si è svolto secondo quanto disposto nell’art. 116 regol. Camera, ai cui sensi, se il voto dell’assemblea è favorevole, l’articolo unico del disegno di legge di conversione è approvato, e tutti gli emendamenti si intendono respinti;
che, dunque, il ricorso dà ampiamente atto che i deputati hanno avuto la possibilità di esercitare le proprie funzioni costituzionali, partecipando al procedimento di conversione;
che, in definitiva, è la stessa prospettazione dei ricorrenti ad attestare l’inesistenza di «violazioni manifeste delle prerogative costituzionali» poste a garanzia dello status dei parlamentari nell’ambito del procedimento legislativo (ordinanza n. 17 del 2019);
che, restando impregiudicata l’eventualità che la presentazione di un emendamento eterogeneo rispetto al testo originario del decreto-legge da convertire possa provocare lesioni alle attribuzioni del singolo parlamentare, nelle specifiche circostanze del caso di specie – come descritte dagli stessi ricorrenti – pur in seguito all’applicazione delle norme del regolamento parlamentare conseguenti alla posizione della questione di fiducia, non risulta prospettata alcuna lesione delle attribuzioni costituzionali del singolo parlamentare nell’ambito del procedimento di conversione;
che, infine, le contraddittorie allegazioni dei ricorrenti sul punto dispensano dall’esame di altri profili di ammissibilità del conflitto, relativi, in particolare, all’esatta individuazione dell’atto o dell’omissione asseritamente lesivi delle attribuzioni dei singoli parlamentari;
che, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso dai deputati Galeazzo Bignami, Marco di Maio e Alberto Pagani, nei confronti della Camera dei deputati, del Governo della Repubblica e del Senato della Repubblica.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi per conflitto di attribuzioni tra poteri sorti a seguito dell’iter e approvazione della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), promossi da Mariastella Gelmini, in proprio nonché nella qualità di Presidente e legale rappresentante del gruppo parlamentare «Forza Italia - Berlusconi Presidente» presso la Camera dei deputati, e altri, nella qualità di deputati appartenenti al medesimo gruppo; da Giorgia Andreuzza e altri, tutti in qualità di deputati appartenenti al gruppo parlamentare «Lega - Salvini Premier» presso la Camera dei deputati; da Francesco Lollobrigida, in proprio e nella qualità di Presidente e legale rappresentante del gruppo parlamentare «Fratelli d’Italia» presso la Camera dei deputati, e altri, nella qualità di deputati appartenenti al medesimo gruppo, con ricorsi depositati in cancelleria il 14 gennaio e il 5 febbraio 2020, iscritti rispettivamente ai numeri 3, 4 e 5 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2020, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2020 il Giudice relatore Giuliano Amato;
deliberato nella camera di consiglio del 27 febbraio 2020.
Ritenuto che, con ricorso depositato il 14 gennaio 2020 (reg. confl. poteri n. 3 del 2020), l’on. Mariastella Gelmini, in proprio e quale Presidente e legale rappresentante del gruppo parlamentare «Forza Italia - Berlusconi Presidente» presso la Camera dei deputati, e altri 42 deputati del medesimo gruppo, hanno promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – nei confronti del Governo, della V^ Commissione permanente (Bilancio, Tesoro e programmazione), della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari (da qui: Conferenza dei capigruppo), dell’Assemblea e del Presidente della Camera dei deputati, nonché, per quanto occorra, della V^ Commissione permanente (Bilancio), della Conferenza dei capigruppo, dell’Assemblea e del Presidente del Senato della Repubblica – avverso l’iter di approvazione della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022);
che, a guisa di premessa, i ricorrenti ricordano che l’ordinanza di questa Corte n. 17 del 2019, pur dichiarando nella circostanza inammissibile il conflitto di attribuzione relativo alla legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), volto a censurare analoghe forzature dell’iter di approvazione, espresse un monito secondo cui, in altre situazioni, una simile compressione delle funzioni costituzionali dei parlamentari avrebbe potuto portare a esiti differenti; monito che sarebbe stato manifestamente disatteso già nel ciclo di bilancio immediatamente successivo, in cui, anzi vi sarebbero state violazioni di maggior gravità;
che, in riferimento alla vicenda di fatto, la difesa dei ricorrenti sottolinea che il disegno di legge di bilancio, presentato il 2 novembre 2019 in Senato, è stato approvato in prima lettura solo il successivo 16 dicembre, dopo numerosi e frequenti rinvii e annullamenti delle sedute della Commissione Bilancio, in virtù della prolungata trattativa politica nella maggioranza, e si è concluso con la presentazione di un maxi-emendamento del Governo parzialmente innovativo e sostitutivo della prima sezione del provvedimento, poi sottoposto al voto di fiducia dell’Assemblea;
che, pertanto, il testo del bilancio, assai ampio, è stato trasmesso alla Camera solo il 17 dicembre 2019, con l’effetto che la stessa avrebbe evidentemente potuto solo procedere alla mera approvazione, senza possibilità d’introdurre emendamenti;
che il cronoprogramma dei lavori della V^ Commissione, a cui, tra l’altro, il testo completo sarebbe stato consegnato solo nel pomeriggio del 21 dicembre, sarebbe stato del tutto irrituale, specie per gli emendamenti, da presentarsi entro meno di 24 ore dall’inizio dell’esame e con l’eliminazione dei tempi per i ricorsi contro le inammissibilità (eliminazione impropriamente compensata dalla possibilità di ricorrere direttamente al Presidente della Camera in sede d’esame dell’Assemblea);
che, dopo l’intervento (tardivo) in audizione del Ministro dell’economia e delle finanze Roberto Gualtieri nella seduta del 19 dicembre, alla ripresa dei lavori, constatata l’assenza dei relatori, di gran parte dei componenti della Commissione e del rappresentante del Governo, i gruppi di opposizione, ritenendo ciò espressione di scarsa collaborazione istituzionale e della volontà di non prendere in considerazione alcuna modifica al testo, hanno abbandonato i lavori dell’organo;
che, in seguito alla discussione sul complesso degli emendamenti, nella seduta del 21 dicembre, i relatori e il Governo hanno espresso parere contrario sugli stessi, scelta motivata dalla necessità di scongiurare il ricorso all’esercizio provvisorio, la qual cosa ha portato all’abbandono dei lavori da parte dei deputati dei gruppi di opposizione, con conseguente reiezione di tutte le proposte emendative presentate;
che il 22 dicembre è iniziato l’esame dell’Assemblea, nel corso del quale, dopo la discussione generale, è stata posta dal Governo la questione di fiducia sull’art. 1 del disegno di legge, con l’approvazione definitiva della legge di bilancio alle ore 4.55 di martedì 24 dicembre 2019;
che, ciò precisato, riguardo ai profili soggettivi del conflitto sarebbe evidente la legittimazione dei singoli deputati, alla luce dei criteri indicati dall’ordinanza n. 17 del 2019, poiché le menomazioni censurate atterrebbero esattamente alle medesime prerogative richiamate nella stessa, trattandosi, appunto, di «violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari», rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione;
che parimenti dovrebbe essere riconosciuta la legittimazione del gruppo parlamentare «Forza Italia - Berlusconi Presidente», di cui risulterebbero lese le prerogative costituzionali, rientrando sicuramente i gruppi parlamentari tra le articolazioni del potere legislativo, quali organi che la Costituzione mostrerebbe come «presupposti», sia all’art. 72, terzo comma, sia all’art. 82, secondo comma, quale riflesso naturale dei partiti politici, unità di misura basilare degli organi parlamentari, nonché modulo organizzativo e di esercizio delle funzioni tipico dei singoli rappresentanti, con un ruolo indefettibile soprattutto nell’ambito del procedimento legislativo;
che, in riferimento ai profili oggettivi del conflitto, sarebbero violati nella specie gli artt. 67, 68, 70, 71, primo comma, e 72 della Costituzione, nonché il principio bicamerale e i principi di separazione dei poteri fra Governo e Parlamento, di effettività del circuito di responsabilità democratica, di leale collaborazione, delle prerogative delle opposizioni e delle minoranze parlamentari;
che, infatti, l’esercizio del libero mandato parlamentare e la rappresentanza della Nazione si sostanzierebbero anche e soprattutto nella partecipazione alle discussioni e alle deliberazioni, esprimendo «opinioni» e «voti» e, nello specifico ambito della funzione legislativa, nel potere di iniziativa, comprensivo del potere di proporre emendamenti, al fine di collaborare cognita causa alla formazione del testo, ché altrimenti la funzione legislativa delle Camere risulterebbe ridotta a una mera ratifica di scelte assunte altrove;
che ciò varrebbe a maggior ragione per l’approvazione della legge di bilancio annuale – «in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico e in cui si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e dell’allocazione delle risorse pubbliche: decisioni che costituiscono il nucleo storico delle funzioni affidate alla rappresentanza politica sin dall’istituzione dei primi parlamenti e che occorre massimamente preservare» (è citata l’ordinanza n. 17 del 2019) – ancor più in virtù del rilievo sempre maggiore della gestione delle finanze nello Stato sociale di diritto nella congiuntura della crisi, nonché del necessario raccordo fra istituzioni nazionali e sovranazionali nell’ambito del processo d’integrazione europea;
che, nel caso di specie, le modalità e le tempistiche attraverso cui la legge di bilancio per il 2020 è stata approvata avrebbero senz’altro menomato le prerogative di cui si assume la lesione, in quanto il pur diffuso malcostume di condensare i testi legislativi in innumerevoli commi di un unico articolo avrebbe superato ogni margine di tollerabilità, tradendo una violazione dell’art. 72, primo comma, Cost.;
che palesemente violato sarebbe anche il principio di leale collaborazione (sono richiamate le sentenze n. 168 del 2013, n. 23 del 2011 e n. 262 del 2009), non sussistendo alcuna motivazione, se non la pura inerzia o il volontario ritardo, per comprimere oltremodo le prerogative dei parlamentari e non rilevando a tal fine neppure la necessità di scongiurare l’esercizio provvisorio, ipotesi espressamente prevista e disciplinata dalla Costituzione che, quindi, non rappresenterebbe affatto un’eventualità da evitare a qualunque prezzo;
che le anomalie dell’iter parlamentare sarebbero state censurate anche dai Presidenti delle Camere e riconosciute da taluni deputati della maggioranza (quali il senatore Matteo Renzi e l’on. Tabacci), nonché ammesse dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, impegnatosi a garantire tempi più congrui nel prossimo ciclo di bilancio;
che, inoltre, nessuna delle ragioni giustificative ravvisate nella citata ordinanza n. 17 del 2019 – cioè la serrata trattativa con l’Unione europea, le nuove modifiche al regolamento del Senato e l’esservi stata almeno una lettura effettiva da parte di ciascuna Camera – ricorrerebbe nel caso di specie, poiché le istituzioni europee avrebbero avallato il progetto di bilancio in via definitiva già il 20 novembre 2019, alla Camera dei deputati nessuna riforma regolamentare sarebbe intervenuta, mentre l’intervento del secondo ramo del Parlamento, in cui siedono, tra l’altro, il maggior numero di rappresentanti del corpo elettorale, sarebbe stato completamente obliterato, restituendo l’immagine di un preoccupante e patologico slittamento di un già allarmante bicameralismo di facciata a un illegittimo monocameralismo di fatto;
che, in ogni caso, il conflitto non è volto a sindacare il contenuto del disegno di legge annuale di bilancio, quanto piuttosto a ristabilire il corretto esercizio delle competenze costituzionalmente previste;
che, in conclusione, i ricorrenti chiedono a questa Corte di dichiarare che non spettava: al Governo, presentare il testo della manovra di bilancio in forma di maxi-emendamento, senza rispettare le scadenze previste dalla legislazione vigente; al Presidente della Commissione Bilancio, alla Conferenza dei capigruppo e al Presidente del Senato, organizzare e condurre i lavori con modalità tali da comprimere oltremodo le prerogative costituzionali dei deputati; al Presidente della V^ Commissione, alla Conferenza dei capigruppo e al Presidente della Camera, organizzare e condurre i lavori omettendo di riservare all’esame e all’approvazione del disegno di legge di bilancio il tempo ragionevolmente sufficiente ad acquisire adeguata conoscenza dello stesso, di discuterlo e con ciò di esprimere un voto consapevole; al Presidente della Camera, porre in votazione il testo del disegno di legge di bilancio in tale situazione; all’Assemblea della Camera, approvare il disegno di legge di bilancio senza che fossero stati garantiti l’esame in Commissione e la possibilità di conoscere, discutere e proporre emendamenti al testo;
che, con ricorso depositato il 14 gennaio 2020 (reg. confl. poteri n. 4 del 2020), l’on. Giorgia Andreuzza e altri 124 deputati, tutti appartenenti al gruppo parlamentare «Lega - Salvini Premier» presso la Camera dei deputati, hanno promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – nei confronti del Governo, della «Conferenza dei Capigruppo, Presidenza di Assemblea, Presidenza di Commissione e Relatori» – per le modalità con cui la Camera dei deputati ha approvato la legge n. 160 del 2019;
che, premessa un’ampia disamina dei fatti, secondo la difesa dei ricorrenti l’iter di approvazione della legge n. 160 del 2019 avrebbe violato le prerogative proprie dei parlamentari e del gruppo da essi composto, formazione a cui la Costituzione attribuirebbe diretto rilievo, senza il ricorrere di alcuna regione giustificativa, con violazione degli artt. 1, secondo comma, 67, 68, 70, 71, 72, 81 e 94 Cost.;
che, infatti, i tempi assegnati in sede di programmazione dei lavori e il concreto svolgimento degli stessi sarebbero stati del tutto incongrui, in sé e rispetto alla incipiente istruttoria, già dimidiata a causa del difetto persino delle fonti di cognizione, determinando una manifesta privazione di ogni effettivo potere e diritto di quelli che la Costituzione riconosce ai singoli parlamentari (e alle articolazioni organizzative delle quali siano componenti);
che, pur prescindendo da ogni rilievo critico circa la compatibilità dell’istituto della questione di fiducia con il sistema costituzionale della forma di governo, nel caso di specie la posizione della questione di fiducia sull’art. 1 determinerebbe, rispetto alla disciplina di cui all’art. 94 Cost., un elemento di anormale accidentalità nella procedura ordinaria prescritta per l’approvazione del bilancio, sostituendo l’oggetto tipico della procedura di cui all’art. 72, quarto comma, Cost., con l’aggravante ulteriore della posizione della fiducia sul solo art. 1, nella versione già previamente approvata dal Senato, la qual cosa pregiudicherebbe l’unitario disegno contabile-finanziario, coartando la discussione e la votazione sugli ulteriori articoli;
che, in tal modo, sarebbe stato alterato il regolare ordine della relazione fiduciaria e di responsabilità politica, che, nella fattispecie della legge di bilancio, potrebbe essere implicata soltanto in sede di valutazione politica da parte del Governo;
che, in ogni caso, pur quando si ritenga che il Governo possa porre la questione di fiducia sulla legge di bilancio, il provvedimento normativo non potrebbe essere messo in votazione se non all’esito dell’iter puntualmente previsto e prescritto dall’art. 72, quarto comma, Cost.;
che altresì violato sarebbe l’art. 70 Cost., poiché la legge di bilancio sarebbe stata approvata dal solo Senato della Repubblica e non già da entrambe le Camere collettivamente, con una vanificazione del diritto di voto di cui all’art. 48 Cost., essendosi sottratta agli elettori ogni effettiva possibilità di partecipazione, mediante i propri rappresentanti, alla fondamentale scelta di indirizzo politico di cui all’art. 81 Cost.;
che verrebbe leso anche il principio di leale collaborazione tra poteri e tra organi dello Stato, sia a causa della tardiva presentazione del disegno di legge di bilancio al Senato, sia per il ricorso alla questione di fiducia;
che, infine, vi sarebbe violazione anche dell’art. 81 Cost., in combinato funzionale con l’art. 97, primo comma, Cost., poiché, in virtù della prevalenza della decisione di bilancio rispetto a ogni altra manifestazione di volontà normativa, la mancata partecipazione della Camera alla formazione di tale decisione si ripercuoterebbe, con effetti di dimidiazione, anche sull’ulteriore e diversa attività normativa, ancora una volta in violazione dell’art. 70 Cost.;
che da siffatti vizi deriverebbe altresì l’invalidità dei suddetti atti e di quelli a essi conseguenti, ivi compresa la legge n. 160 del 2019;
che, in conclusione, a detta dei ricorrenti, non spettava: al Presidente e alla Conferenza dei capigruppo, disporre e dare esecuzione alla calendarizzazione dei lavori di cui al riunione della Conferenza medesima del 17 dicembre 2019; al Governo, il potere di presentare un maxi-emendamento sostitutivo dell’art. 1 del disegno di legge e di porre la questione di fiducia sulla sua approvazione e, correlativamente, al Presidente della Camera, il potere di ricevere e ammettere alla votazione l’uno e l’altra; al Presidente della Camera, porre in votazione il disegno di legge e il suddetto maxi-emendamento in difetto d’istruttoria;
che, con ricorso depositato il 5 febbraio 2020 (reg. confl. poteri n. 5 del 2020), l’on. Francesco Lollobrigida, in proprio e quale Presidente e legale rappresentante del gruppo parlamentare «Fratelli d’Italia» presso la Camera dei deputati, e altri 7 deputati del medesimo gruppo, nonché lo stesso gruppo parlamentare, hanno promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – nei confronti del Governo, della V^ Commissione, della Conferenza dei capigruppo, dell’Assemblea e del Presidente della Camera (nonché degli organi corrispondenti presso il Senato) – avverso l’iter di approvazione della legge n. 160 del 2019, riproponendo, sostanzialmente, le argomentazioni e le conclusioni di cui al ricorso iscritto al n. 3 del reg. confl. poteri 2020.
Considerato che, con separati ricorsi (reg. confl. poteri numeri 3, 4 e 5 del 2020), i Presidenti, i componenti dei gruppi parlamentari presso la Camera dei deputati «Forza Italia - Berlusconi Presidente», «Lega Salvini Premier» e «Fratelli d’Italia», nonché i medesimi gruppi, hanno promosso conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato – nei confronti del Governo, del Presidente e della V^ Commissione permanente (Bilancio, Tesoro e programmazione), della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari (da qui: Conferenza dei capigruppo), del Presidente, dell’Assemblea e dei Relatori della Camera dei deputati (nonché, per i ricorsi di cui ai numeri 3 e 5 del reg. confl. poteri 2020, della Commissione Bilancio, della Conferenza dei capigruppo, dell’Assemblea e del Presidente del Senato della Repubblica) – avverso la legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022) e il relativo iter di approvazione, ai fini dell’accertamento dell’avvenuta violazione delle prerogative costituzionali spettanti agli stessi ricorrenti (chiedendo, nel ricorso di cui al n. 4 del reg. confl. poteri 2020, altresì l’annullamento dei relativi atti, ivi compresa la legge n. 160 del 2019);
che, nello specifico, i ricorsi censurano l’approvazione del disegno di legge di bilancio a seguito della presentazione al Senato di un maxi-emendamento sostitutivo dell’art. 1, su cui è stata posta dal Governo la questione di fiducia, voto a cui ha fatto seguito un esame in tempi ridotti alla Camera, ove nel corso del dibattito in Assemblea è stata ancora posta la questione di fiducia sull’art. 1, nel testo approvato dal Senato, la qual cosa non avrebbe di fatto consentito ai deputati d’intervenire nel procedimento di bilancio, rendendolo sostanzialmente monocamerale;
che i ricorsi, aventi il medesimo oggetto, presentano argomentazioni in larga parte sovrapponibili, e, pertanto, i relativi giudizi di ammissibilità possono essere riuniti per essere decisi con unica ordinanza;
che, in questa fase del giudizio, la Corte costituzionale è chiamata esclusivamente a verificare, ai sensi dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in camera di consiglio e senza contraddittorio, se sussistano i requisiti, sul piano soggettivo e oggettivo, di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e a valutare l’esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza;
che i conflitti sono sollevati sia dai singoli parlamentari, sia dai relativi gruppi di appartenenza, lamentandosi la lesione delle medesime prerogative costituzionali;
che, in via preliminare, va risolta negativamente la questione della legittimazione ad agire, nella specie, dei gruppi parlamentari presso la Camera dei deputati «Forza Italia - Berlusconi Presidente», «Lega Salvini Premier» e «Fratelli d’Italia»;
che, infatti, l’indiscutibile ruolo svolto dai gruppi parlamentari quali espressioni istituzionali del pluralismo politico (sentenze n. 174 del 2009, n. 193 del 2005, n. 298 del 2004 e n. 49 del 1998) – venendo garantita dagli artt. 72, terzo comma, e 82, secondo comma, della Costituzione la tendenziale proporzionalità ai gruppi stessi nella composizione delle commissioni – non comporta, di per sé, che si debba riconoscere agli stessi la titolarità delle medesime prerogative spettanti a ciascun membro del Parlamento;
che, tuttavia, nel caso di specie i ricorsi lamentano nei confronti dei gruppi proprio la lesione delle stesse prerogative indicate in riferimento ai singoli deputati, senza una specifica e articolata argomentazione, basata sulla Costituzione, sul perché tali prerogative dovrebbero essere riconosciute nella stessa identica declinazione ai gruppi;
che, con riferimento alla legittimazione dei singoli parlamentari, la stessa è stata riconosciuta da questa Corte, nell’ordinanza n. 17 del 2019, a tutela delle attribuzioni costituzionali di cui agli artt. 67, 68, 69, 71, primo comma, e 72 Cost.;
che, nondimeno, la pronuncia da ultimo indicata ha precisato che il singolo parlamentare può ritenersi legittimato a sollevare conflitto di attribuzione solo quando siano prospettate «violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari […] rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione» e, di conseguenza, è necessario che il parlamentare «alleghi e comprovi una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita al ricorrente, a tutela della quale è apprestato il rimedio giurisdizionale innanzi a questa Corte ex art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953»;
che, al fine di valutare il grado delle lesioni invocate dai ricorrenti, va rilevato che le procedure legislative, finalizzate originariamente alla valorizzazione del contraddittorio, col passare degli anni hanno dovuto altresì farsi carico dell’efficienza e tempestività delle decisioni parlamentari, primieramente in materia economica e di bilancio, in ragione di fini, essi stessi desunti dalla Costituzione ovvero imposti dai vincoli europei, che hanno portato a un necessario bilanciamento con le ragioni del contraddittorio;
che tale inevitabile bilanciamento si è tradotto sia in revisioni dei regolamenti parlamentari (che hanno previsto, fra l’altro, il voto palese, il contingentamento dei tempi, l’istituzione della sessione di bilancio), sia nell’utilizzazione di strumenti esistenti, con indubbie deformazioni e dilatazioni rispetto alle prassi applicative iniziali con aspetti non privi di criticità, ma avvalendosi della naturale elasticità delle regole e degli istituti propri della vita delle istituzioni politiche;
che da ciò, pertanto, sono sorte nuove prassi, che costituiscono, come già sottolineato da questa Corte, «un fattore non privo di significato all’interno del diritto parlamentare, contrassegnato da un elevato tasso di flessibilità e di consensualità» e delle quali fanno parte, proprio per le leggi di natura finanziaria, altre forme di interlocuzione, come il «coinvolgimento della Commissione Bilancio nella definizione del testo su cui il Governo poneva la fiducia» (ordinanza n. 17 del 2019);
che in questa prospettiva le predette deformazioni e dilatazioni non sono, di per sé e prima facie, espressione di violazioni, dovendo emergere a tal fine che esse danno patentemente luogo a bilanciamenti di cui non si colgono le ragioni e il complessivo equilibrio;
che, nel caso di specie, non sono state prospettate quelle evidenti lesioni delle prerogative dei parlamentari richieste dall’ordinanza n. 17 del 2019;
che va precisato anzitutto che non assume rilievo l’assenza, rilevata dai ricorrenti, delle circostanze giustificative richiamate da questa Corte nell’ordinanza n. 17 del 2019, trattandosi di ragioni riferite a uno specifico caso concreto, che non costituiscono una tassonomia esaustiva di elementi giustificativi;
che è pertanto necessario valutare le circostanze specifiche relative all’approvazione della legge n. 160 del 2019;
che, a tal proposito, deve sottolinearsi che il documento di economia e finanza (da qui: DEF) era stato approvato da un Governo diverso da quello che ha poi presentato il disegno di legge di bilancio, insediatosi solo nel settembre del 2019;
che da ciò è derivata, come già per il 2018, una presentazione tardiva del progetto di bilancio alle Camere (avvenuta il 2 novembre 2019), le cui scelte allocative, oltre a non poter essere pienamente corrispondenti all’elaborazione del DEF, non recavano ancora taluni degli interventi maggiormente discussi nel corso del successivo esame parlamentare;
che tali ragioni hanno senz’altro portato a un allungamento dei tempi d’esame in prima lettura al Senato (durato circa sei settimane), sebbene tale allungamento sia stato comunque espressivo di un’interlocuzione parlamentare, soprattutto ma non solo, tra le forze di maggioranza, testimoniata dai numerosi emendamenti e sub-emendamenti approvati già in fase referente, con la conseguente contrazione dell’esame alla Camera, previsto in Commissione nei soli giorni 18-21 dicembre 2019 e in Assemblea già il successivo 22 dicembre;
che a ciò si è aggiunta la trattazione parlamentare del decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, in legge 19 dicembre 2019, n. 157, parte sostanziale della manovra finanziaria e oggetto di un esame tendenzialmente parallelo presso la Camera, che lo ha trasmesso il 6 dicembre 2019 al Senato, il quale, pur svolgendo un ben ridotto ruolo istruttorio, ne ha dovuto collocare le risultanze nella legge di bilancio, impegnando così parte del suo tempo;
che, d’altronde, mentre per l’approvazione della legge n. 145 del 2018 si era avuta la presentazione in Assemblea al Senato di un maxi-emendamento del Governo senza che la Commissione in sede referente avesse completato l’esame e votato un testo, nell’iter per l’approvazione della legge n. 160 del 2019 il testo del maxi-emendamento presentato dal Governo al Senato ha riprodotto, con modeste varianti, quanto discusso e approvato dalla Commissione Bilancio;
che il testo trasmesso da quest’ultima all’Assemblea era diverso solo per sottrazione, in virtù delle espunzioni e delle modifiche dovute alle inammissibilità già proclamate dal Presidente del Senato e al parere adottato dalla stessa Commissione sulla base della relazione tecnica predisposta dalla Ragioneria generale dello Stato;
che, pertanto, la questione di fiducia in Senato è stata votata il 16 dicembre 2019 su un testo sostanzialmente noto e istruito, in cui sono state accolte istanze espresse nel corso del dibattito parlamentare;
che, sebbene il disegno di legge di bilancio sia stato trasmesso alla Camera solo il 17 dicembre 2019, tale pur ridotto periodo ha comunque consentito una fase di esame in Commissione Bilancio, tanto che i deputati hanno qui presentato 1130 emendamenti (ben oltre il numero di 350 che in sede di Ufficio di presidenza i gruppi parlamentari avevano concordato al fine di ritenerli tutti segnalati per la votazione, come risulta dal verbale della seduta del 20 dicembre 2019);
che la mancata votazione degli emendamenti e la reiezione degli stessi è stata anche conseguenza della scelta delle opposizioni di non partecipare ai lavori della Commissione, in seguito alla decisione del Governo di fornire parere contrario – come era nella sua indiscussa facoltà – sul complesso degli emendamenti, al fine di evitare l’esercizio provvisorio;
che anche per l’esame in Assemblea si registra la presentazione di circa 800 emendamenti, sebbene la votazione degli stessi non abbia avuto luogo in virtù della decisione del Governo di porre, nella seduta del 22 dicembre 2019, la questione di fiducia sull’art. 1 del disegno di legge, nel testo frutto dell’approvazione del maxi-emendamento al Senato;
che, sebbene i ricorrenti prospettino l’apposizione della questione di fiducia come ragione impeditiva dei più lunghi tempi di discussione da loro ritenuti necessari, in nessun caso sarebbe sindacabile da questa Corte la questione di fiducia ai fini dell’approvazione senza emendamenti di un disegno di legge in seconda lettura;
che, inoltre, come già ricordato, la stessa Camera aveva discusso, emendato e approvato il decreto fiscale, parte sostanziale esso stesso della manovra di bilancio, che il Senato avrebbe poi approvato senza discussione;
che, in conclusione, dalla sequenza oggettiva dei fatti non emerge un irragionevole squilibrio fra le esigenze in gioco nelle procedure parlamentari e, quindi, un vulnus delle attribuzioni dei parlamentari grave e manifesto;
che, di conseguenza, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili i ricorsi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Aldo CAROSI; Giudici : Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÓ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 55-quater, comma 3-quater, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante «Modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare», promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, nel giudizio vertente tra il Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per l’Umbria e C. S. con ordinanza del 9 ottobre 2018, iscritta al n. 180 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti l’atto di costituzione, fuori termine, di C. S., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2019 il Giudice relatore Aldo Carosi;
deliberato nella camera di consiglio del 9 gennaio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con sentenza non definitiva e ordinanza del 9 ottobre 2018, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, nel giudizio di responsabilità promosso dalla Procura regionale nei confronti di C. S., ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 55-quater, comma 3-quater, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante «Modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare», in attuazione dell’art. 17, comma 1, lettera s) della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), in riferimento all’art 76 della Costituzione, nonché all’art. 3 Cost., anche in combinazione con gli artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e all’art. 4 del Protocollo n. 7 di detta Convenzione fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98. (…omissis)
Considerato in diritto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, con sentenza non definitiva e ordinanza del 9 ottobre 2018, pronunciata nel giudizio di responsabilità promosso dalla Procura regionale nei confronti di C. S., ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 55-quater, comma 3-quater, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116 (Modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s, della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare), in attuazione dell’art. 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), in riferimento all’art. 76 della Costituzione, nonché all’art. 3 Cost., anche in combinato disposto con gli artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 4 del Protocollo n. 7 di detta Convenzione, fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98.
1.1.– Espone il giudice a quo che la Procura regionale aveva esercitato l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti di una dipendente comunale che, per quattro giorni, pur uscendo effettivamente alle ore 17:00, aveva attestato falsamente la propria presenza in servizio sino alle ore 18:00.
La Procura regionale aveva contestato alla convenuta un danno patrimoniale pari a 64,81 euro, derivante dalla percezione indebita della retribuzione nei periodi per i quali è mancata la prestazione lavorativa. Aveva chiesto, inoltre, la condanna al risarcimento del danno all’immagine, determinato in via equitativa nell’importo di euro 20.000,00, ai sensi dell’art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 116 del 2016.
Il rimettente, con sentenza non definitiva, ha ritenuto fondata l’azione risarcitoria promossa nei confronti della convenuta, condannandola al risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla percezione indebita della retribuzione in mancanza di prestazione lavorativa e, limitatamente all’an debeatur, condannandola altresì a risarcire il pregiudizio recato all’immagine della pubblica amministrazione di appartenenza, ritenendo integrata la condotta di falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento e altre modalità fraudolente, come previsto dall’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), nella formulazione in vigore al tempo dei fatti in questione.
Con particolare riferimento al danno all’immagine, il giudice a quo ritiene sussistenti nella fattispecie tutti gli elementi oggettivi, soggettivi e sociali della posta risarcitoria, avendo avuto la vicenda risonanza nella stampa locale, come risulterebbe dagli atti del giudizio.
Osserva poi che le nuove previsioni normative applicabili alla fattispecie presenterebbero valenza sanzionatoria e deterrente onde rendere efficace il contrasto dei comportamenti assenteistici. Sicché, aggiunge, l’azione di responsabilità contabile, ontologicamente compensativa, tendendo al ripristino del patrimonio pubblico danneggiato – come anche riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro Italia – subirebbe con la norma impugnata un’evidente «torsione sanzionatoria» che, comunque, non si presenterebbe, sotto questo specifico profilo funzionale, costituzionalmente irragionevole, in considerazione delle condotte che tende a contrastare.
Nondimeno, il giudice a quo ritiene che la quantificazione del danno all’immagine, come introdotta dalla riforma del 2016, renderebbe non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale secondo i seguenti profili.
1.2.– Il giudice a quo ritiene anzitutto violato l’art. 76 Cost.
Espone il rimettente che la norma è stata introdotta dal legislatore delegato (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 116 del 2016) in attuazione dell’art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015, il quale fissa il seguente principio e criterio direttivo: «introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare».
Secondo il rimettente, il decreto delegato non avrebbe potuto incidere sulla disciplina dell’azione di responsabilità amministrativa, né tanto meno avrebbe potuto porre regole finalizzate a far assumere ai criteri di computo del danno all’immagine una valenza sanzionatoria, comunque non confondibile, sia funzionalmente che strutturalmente, con il procedimento disciplinare che il legislatore delegato aveva posto a oggetto della delega.
Anche in ragione della natura di mero «riordino» del decreto legislativo in materia disciplinare, espressamente prevista dall’art. 17 della legge n. 124 del 2015, secondo il giudice a quo il legislatore delegato non avrebbe potuto introdurre norme di diritto sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione del danno all’immagine da falsa attestazione della presenza in servizio, fissando una soglia sanzionatoria inderogabile nel minimo, che potrebbe essere sproporzionata rispetto al caso concreto.
1.3.– La Corte dei conti ritiene violato altresì l’art. 3 Cost., anche in combinato disposto con gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 4 del Protocollo n. 7 di detta Convenzione, in quanto la norma denunciata obbligherebbe il giudice contabile a infliggere una condanna sanzionatoria senza tener conto dell’offensività in concreto della condotta posta in essere.
L’obbligatorietà del minimo sanzionatorio, imponendo al giudice di condannare il responsabile nella misura non inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, gli impedirebbe di dare rilevanza ad altre circostanze peculiari e caratterizzanti il caso concreto, anche in presenza di condotte marginali e tenui che avessero prodotto un pregiudizio minimo, violando sia il principio di proporzionalità che quello della gradualità sanzionatoria.
2.– Anzitutto deve essere dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio di C. S., avvenuta con atto spedito a mezzo posta l’8 maggio 2019 e pervenuto in data 9 maggio 2019, in quanto il termine di venti giorni previsto dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, computato dalla pubblicazione dell’ordinanza sulla Gazzetta ufficiale del 27 dicembre 2018, n. 51, scadeva il 16 gennaio 2019.
3.– Giova poi riassumere sinteticamente il quadro normativo, sia in relazione alla più generale fattispecie del danno all’immagine, sia in riferimento alla specifica configurazione di quello causato da indebite assenze realizzate mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza in servizio o con altre modalità fraudolente.
3.1.– Il danno all’immagine, frutto di un’elaborazione giurisprudenziale del giudice contabile come categoria particolare del danno erariale, ha trovato una sua normazione con l’art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato, in pari data, dall’art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, nella legge 3 ottobre 2009, n. 141 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, recante disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009).
Stabilisce il citato art. 17, comma 30-ter, che «[l]e procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale […]».
L’art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevedeva che «[l]a sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».
Tale fattispecie è stata identificata da questa Corte come «danno derivante dalla lesione del diritto all’immagine della p.a. nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha di sé in conformità al modello delineato dall’art. 97 Cost.» (sentenza n. 355 del 2010).
In ordine alla tipizzazione delle fattispecie di danno all’immagine è stato anche affermato che «il legislatore non [ha] inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un dipendente di questa. In altri termini, non è condivisibile una interpretazione della normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilità nei confronti dell’amministrazione diversamente modulata a seconda dell’autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata, invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria» (sentenza n. 355 del 2010).
Successivamente, l’art. 51, comma 7, del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), ha previsto che «[l]a sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».
Inoltre, l’art. 4, comma 1, lettera g), dell’allegato 3 (Norme transitorie e abrogazioni) al medesimo codice di giustizia contabile ha abrogato l’art. 7 della legge n. 97 del 2001. Sul punto, tuttavia, questa Corte ha affermato che «il giudice a quo non ha vagliato la possibilità che il dato normativo di riferimento legittimi un’interpretazione secondo cui, nonostante l’abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, che si riferisce ai soli delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, non rimanga privo di effetto il rinvio ad esso operato da parte dell’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, e non si è chiesto se si tratta di rinvio fisso o mobile. L’ordinanza, quindi, trascura di approfondire la natura del rinvio, per stabilire se è tuttora operante o se, essendo venuto meno, la norma di riferimento è oggi interamente costituita dal censurato art. 51, comma 7» (sentenza n. 191 del 2019).
Ancora, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 13 maggio 2014, nella causa Rigolio contro Italia, nel respingere il ricorso ha affermato che il giudizio di responsabilità amministrativa davanti alla Corte dei conti per danno all’immagine cagionato all’amministrazione non attiene a un’accusa penale ai sensi dell’art. 6 della Convenzione (paragrafi 38 e 46) e che, pertanto, non può essere applicato, nella fattispecie, il paragrafo 3 dello stesso art. 6. Analogamente, non sono state accolte le censure formulate in riferimento all’art. 7 della CEDU e all’art. 2 del Protocollo 7, sulla base della considerazione che la somma che il ricorrente è stato condannato a pagare ha natura di risarcimento e non di pena (paragrafo 46).
3.2.– Relativamente alla particolare fattispecie del danno all’immagine prodotto in conseguenza di indebite assenze dal servizio, l’art. 7 (Princìpi e criteri in materia di sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici) della legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti), stabiliva al comma 1, primo periodo, che «[l]’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo è finalizzato a modificare la disciplina delle sanzioni disciplinari e della responsabilità dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 55 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e delle norme speciali vigenti in materia, al fine di potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici contrastando i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo». Il comma 2 di tale disposizione disponeva che, nell’esercizio della delega di cui al citato articolo, il Governo si attenesse ai seguenti princìpi e criteri direttivi: «[…] lettera e) prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché del danno all’immagine subìto dall’amministrazione».
In attuazione di detta delega, il d.lgs. n. 150 del 2009 ha introdotto nel d.lgs. n. 165 del 2001 l’art. 55-quinquies (False attestazioni o certificazioni), secondo cui: «1. Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto. 2. Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno all’immagine» subiti dall’amministrazione.
In seguito, l’art. 16 (Procedure e criteri comuni per l’esercizio di deleghe legislative di semplificazione), comma 1, della legge n. 124 del 2015 ha delegato il Governo ad adottare «[…] decreti legislativi di semplificazione dei seguenti settori […] a) lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa». Quindi, l’art. 17 (Riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015 ha previsto che «[i] decreti legislativi per il riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa sono adottati […] nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi, che si aggiungono a quelli di cui all’articolo 16: […] s) introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare […]».
In attuazione di tale delega l’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016 ha inserito il comma 3-quater all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che, nel caso in cui la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente (comma 1, lettera a), sia accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze (comma 3-bis), la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti avvengono entro quindici giorni dall’avvio del procedimento disciplinare. La procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno d’immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento. L’azione di responsabilità è esercitata, con le modalità e nei termini di cui all’art. 5 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) – convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19 – entro i centoventi giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga. L’ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia.
Questa Corte, con sentenza n. 251 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, tra l’altro, dell’art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni. La medesima sentenza ha precisato inoltre che «[l]e pronunce di illegittimità costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione».
In seguito, il Governo, nell’ambito dei decreti legislativi adottati dopo aver acquisito l’intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano – al fine di porre rimedio al vizio accertato dalla sentenza n. 251 del 2016 – con il decreto legislativo 20 luglio 2017, n. 118 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s, della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare), ha previsto all’art. 1 che «[i]l decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, è modificato e integrato secondo le disposizioni del presente decreto. Per quanto non disciplinato dal presente decreto, restano ferme le disposizioni del decreto legislativo n. 116 del 2016» e, all’art. 5 (Disposizioni finali), che «[s]ono fatti salvi gli effetti già prodotti dal decreto legislativo n. 116 del 2016».
Infine, deve evidenziarsi che, con altro analogo precedente provvedimento (art. 16, comma 1, lettera a, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»), è stato modificato anche l’art. 55-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo che «al comma 2, le parole “il danno all’immagine subiti dall’amministrazione” sono sostituite dalle seguenti: “il danno d’immagine di cui all’articolo 55-quater, comma 3-quater”», in tal modo uniformando pro futuro la fattispecie del danno all’immagine considerata dai due articoli, attraverso la regola già introdotta con il precedente d.lgs. n. 116 del 2016.
L’ulteriore fattispecie di danno erariale introdotta con l’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016, enucleata da quella più generale già prevista dall’art. 55-quater, presenta indubbi aspetti peculiari, in ragione del venir meno della cosiddetta pregiudizialità penale – in quanto sono dettate disposizioni che impongono al Procuratore presso la Corte dei conti di agire sollecitamente entro ristrettissimi tempi, senza attendere né l’instaurazione del processo penale né la sentenza che lo definisce – nonché della predeterminazione legislativa di criteri per la determinazione del danno in via equitativa, salva la fissazione di un minimo risarcibile pari a sei mensilità dell’ultimo stipendio percepito dal responsabile.
4.– Tanto premesso, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, inserito dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., è fondata.
4.1.– A differenza di quanto avvenuto con la precedente legge n. 15 del 2009, laddove il legislatore aveva espressamente delegato il Governo a prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento sia del danno patrimoniale che del danno all’immagine subìti dall’amministrazione, tanto non si rinviene nella legge di delegazione n. 124 del 2015.
L’art. 17, comma 1, lettera s), di detta legge prevede unicamente l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti, finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare.
Tale particolare disposizione di delega, come risulta dagli atti preparatori, non era presente nel testo iniziale del disegno di legge (A.S. n. 1577), ma è stata introdotta con emendamento (n. 13.500) del relatore nel corso dell’esame in Senato. Nella discussione parlamentare la questione della responsabilità amministrativa non risulta essere mai stata oggetto di trattazione.
Quindi, la materia delegata è unicamente quella attinente al procedimento disciplinare, senza che possa ritenersi in essa contenuta l’introduzione di nuove fattispecie sostanziali in materia di responsabilità amministrativa.
Deve essere ulteriormente sottolineato che detta delega è ricompresa in una più ampia, diretta a dettare norme di semplificazione. In tale contesto è particolarmente significativa l’espressa prescrizione (art. 16, comma 2, della legge n. 124 del 2015) che, «[n]ell’esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi generali: a) elaborazione di un testo unico delle disposizioni in ciascuna materia, con le modifiche strettamente necessarie per il coordinamento delle disposizioni stesse, salvo quanto previsto nelle lettere successive; b) coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo; […]», in tal modo lasciando al legislatore delegato ridottissimi margini innovativi, tanto che, nella fissazione degli ulteriori princìpi e criteri direttivi (come previsto dall’art. 16, comma 3), il successivo art. 17 definisce i decreti delegati come espressamente finalizzati al «riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche».
In proposito, questa Corte ha affermato più volte che, in quanto delega per il riordino, essa concede al legislatore delegato un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di soluzioni innovative, le quali devono comunque attenersi strettamente ai princìpi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante (ex multis, sentenze n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012, n. 293 e n. 230 del 2010).
Non può dunque ritenersi compresa la materia della responsabilità amministrativa e, in particolare, la specifica fattispecie del danno all’immagine arrecato dalle indebite assenze dal servizio dei dipendenti pubblici.
4.2.– La disposizione in esame, già testualmente richiamata, prevede una nuova fattispecie di natura sostanziale intrinsecamente collegata con l’avvio, la prosecuzione e la conclusione dell’azione di responsabilità da parte del procuratore della Corte dei conti.
Applicando ad essa il criterio di stretta inerenza alla delega precedentemente enunciato, risulta inequivocabile il suo contrasto con l’art. 76 Cost.
Sebbene le censure del giudice rimettente siano limitate all’ultimo periodo del comma 3-quater dell’art. 55-quater, che riguarda le modalità di stima e quantificazione del danno all’immagine, l’illegittimità riguarda anche il secondo e il terzo periodo di detto comma perché essi sono funzionalmente inscindibili con l’ultimo, così da costituire, nel loro complesso, un’autonoma fattispecie di responsabilità amministrativa non consentita dalla legge di delega.
5.– Devono essere, dunque, dichiarati costituzionalmente illegittimi il secondo, terzo e quarto periodo del comma 3-quater dell’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016.
Restano assorbiti i rimanenti profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la costituzione di C.S. nel giudizio di legittimità costituzionale di cui in epigrafe;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale del secondo, terzo e quarto periodo del comma 3-quater dell’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2020.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente e Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Puglia 17 dicembre 2018, n. 59, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale)», e degli artt. 7 e 8 della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 5, recante «Modifiche alla legge regionale 30 novembre 2000, n. 17 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi in materia di tutela ambientale) e istituzione del Sistema informativo dell’edilizia sismica della Puglia, nonché modifiche alle leggi regionali 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e 17 dicembre 2018, n. 59 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14)», promossi dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsi notificati il 15 febbraio e il 30 maggio 2019, depositati in cancelleria il 20 febbraio e il 3 giugno 2019, iscritti, rispettivamente, ai numeri 27 e 63 del registro ricorsi 2019 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 16 e 27, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione della Regione Puglia;
udito nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 2020, il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;
uditi l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Anna Bucci per la Regione Puglia;
deliberato nella camera di consiglio del 9 marzo 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 15 febbraio 2019 e depositato il successivo 20 febbraio, iscritto al n. 27 del reg. ric. 2019, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Puglia 17 dicembre 2018, n. 59, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale)», per violazione degli artt. 3, 97, 117, terzo comma, della Costituzione, anche in relazione agli artt. 36 e 37 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)» (d’ora in avanti anche: t.u. edilizia), e all’art. 5, comma 10, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, recante «Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia» (da ora in poi anche: “decreto sviluppo”), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106. (…omissis)
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Puglia 17 dicembre 2018, n. 59, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale)».
Il ricorrente ha impugnato la predetta disposizione per violazione degli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, della Costituzione, anche in relazione agli artt. 36 e 37 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)» (da ora in poi anche: t.u. edilizia), e all’art. 5, comma 10, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, recante «Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia» (da ora in avanti anche: “decreto sviluppo”), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106.
Tale disposizione introduce una norma definita di “interpretazione autentica”, con la quale il legislatore pugliese si propone l’obbiettivo di interpretare l’art. 4, comma 1, della menzionata legge reg. Puglia n. 14 del 2009.
Con autonomo e distinto ricorso, di qualche mese successivo al precedente, il Presidente del Consiglio dei ministri ha altresì promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 5, recante «Modifiche alla legge regionale 30 novembre 2000, n. 17 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi in materia di tutela ambientale) e istituzione del Sistema informativo dell’edilizia sismica della Puglia, nonché modifiche alle leggi regionali 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e 17 dicembre 2018, n. 59 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14)».
Il ricorrente ha impugnato dette disposizioni per violazione degli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, Cost., anche in relazione agli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia, all’art. 5, comma 10, del “decreto sviluppo”, e all’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici», convertito, con modificazioni, nella legge 14 giugno 2019, n. 55.
La nuova legge regionale procede alla abrogazione della predetta norma di interpretazione autentica (art. 8) e ne trasfonde il contenuto in una nuova disposizione, non più interpretativa (art. 7).
2.– I ricorsi propongono questioni simili nell’oggetto e nei parametri evocati. Possono essere quindi riuniti e trattati congiuntamente, al fine di essere decisi con una unica pronuncia.
3.– In via preliminare, questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla duplice eccezione di inammissibilità sollevata dalla Regione Puglia con riferimento a entrambe le impugnazioni.
3.1.– Ad avviso della difesa regionale, infatti, le censure sarebbero inammissibili perché entrambe prive di motivazione e di intrinseca coerenza, dato che gli argomenti spesi dalla Avvocatura generale dello Stato non si porrebbero in un rapporto di conseguenzialità logica rispetto ai parametri evocati. La carenza argomentativa viene ulteriormente sostenuta con riferimento alla censura che evoca l’art. 5, comma 10, del “decreto sviluppo”, in relazione al quale non sarebbe «neppur minimamente accennato» il tenore dell’asserita violazione costituzionale.
3.2.– Le eccezioni di inammissibilità non sono fondate. I termini delle questioni sono, infatti, sufficientemente chiari ed omogenei, risultando esaustivamente evidenziati i profili che, a parere della difesa statale, renderebbero illegittime le disposizioni impugnate.
4.– Con il primo ricorso (reg. ric. n. 27 del 2019), come dianzi anticipato, lo Stato ha impugnato l’art. 2 della legge reg. Puglia n. 59 del 2018, recante una norma di interpretazione autentica dell’art. 4, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2009.
Il legislatore regionale ha così stabilito che detta disposizione debba intendersi «nel senso che l’intervento edilizio di ricostruzione da effettuare a seguito della demolizione di uno o più edifici a destinazione residenziale o non residenziale, può essere realizzato anche con una diversa sistemazione plano-volumetrica, ovvero con diverse dislocazioni del volume massimo consentito all’interno dell’area di pertinenza, alle condizioni di cui all’articolo 5, comma 3, della medesima l.r. 14/2009 e qualora insista in zona dotata delle urbanizzazioni primarie previste dalle vigenti disposizioni normative, statali e regionali».
4.1.– Sostiene la difesa dello Stato che questa norma violerebbe l’art. 3 Cost. perché, lungi dall’individuare uno dei possibili significati desumibili dalla prescrizione interpretata, innoverebbe retroattivamente l’ordinamento regionale, così consentendo deroghe volumetriche, nell’ambito della ristrutturazione edilizia, oltre i limiti assentiti dalla originaria disciplina regionale del 2009. La disposizione censurata realizzerebbe, quindi, una nuova deroga ex lege agli strumenti urbanistici, ledendo il principio di ragionevolezza, coerenza e certezza del diritto, nonché il legittimo affidamento di terzi controinteressati agli ampliamenti volumetrici in deroga.
La previsione regionale lederebbe altresì il buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., posto che la sua efficacia retroattiva avrebbe l’effetto di «disorientare» le amministrazioni comunali, che non sarebbero in grado di individuare, al fine di un corretto esercizio delle proprie funzioni, gli ampliamenti realizzati nei periodi intercorrenti tra la prima e la seconda normativa.
Questa censura è strettamente collegata alla terza delle questioni, diretta a sostenere la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia. La retroattività della disposizione, infatti, porterebbe alla sanatoria di abusi sostanziali, così violando il principio fondamentale della “doppia conformità”, principio in virtù del quale il manufatto edilizio deve risultare conforme sia alla disciplina urbanistica vigente quando è stato edificato, sia a quella vigente quando viene domandato l’accertamento di conformità.
4.2.– In via preliminare, va ricordato che la successiva legge reg. Puglia n. 5 del 2019, ha abrogato (art. 8) la disposizione impugnata, e introdotto un’altra dal medesimo tenore letterale di quella abrogata, ma con efficacia pro futuro (art. 7).
Tali articoli sono stati autonomamente impugnati dallo Stato con il successivo ricorso (reg. ric. n. 63 del 2019), anch’esso portato all’odierna attenzione di codesta Corte.
Questa autonoma impugnazione impedisce che, nel caso di specie, possa dichiararsi la cessazione della materia del contendere della questione relativa all’art. 2 della legge reg. Puglia n. 59 del 2018. Per costante orientamento di questa Corte, la cessazione della materia del contendere è pronunciata qualora la modifica intervenuta in pendenza di giudizio abbia carattere satisfattivo delle pretese del ricorrente e la norma abrogata non abbia trovato medio tempore applicazione (ex plurimis, sentenze n. 287 e n. 180 del 2019). Il successivo ricorso del Governo avverso la norma abrogatrice e l’ulteriore disposizione aggiunta nel corpo dell’art. 4 della legge reg. n. 14 del 2009 (rappresentata dall’art. 7 della legge reg. Puglia n. 5 del 2019) dimostrano la persistenza di un interesse a una pronuncia nel merito, come pure argomentato dallo stesso ricorrente nella successiva impugnazione.
Peraltro, il periodo di vigenza della norma retroattiva prima della sua abrogazione, per quanto limitato, non è tale da escludere in radice una sua qualche applicazione.
5.– Prima di entrare nel merito delle prospettate questioni di legittimità costituzionale della norma di interpretazione autentica, deve essere ricordato, a titolo di premessa, che detta previsione si preoccupa di interpretare una disposizione, contenuta nella legge reg. Puglia n. 14 del 2009, relativa agli ampliamenti volumetrici consentiti in caso di demolizione e ricostruzione di edifici preesistenti (cosiddetta ristrutturazione ricostruttiva).
5.1.– La legge appena menzionata è stata adottata dalla Regione Puglia in attuazione del cosiddetto “piano casa”, misura straordinaria di rilancio del mercato edilizio predisposta nel 2008 dal legislatore statale, contenuta nell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133.
In particolare l’art. 11, comma 5, lettera b), prevedeva che detto piano potesse realizzarsi anche attraverso possibili «incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana, nel rispetto delle aree necessarie per le superfici minime di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444».
Nel 2009, per dare attuazione a tale norma fece seguito l’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata, stipulata in data 1° aprile 2009, che ha consentito ai legislatori regionali, fra cui quello pugliese, aumenti volumetrici (pari al 20 per cento o al 35 per cento in caso di demolizione e ricostruzione) a fronte di un generale miglioramento della qualità architettonica e/o energetica del patrimonio edilizio esistente.
5.2.– Per restare alla cosiddetta ristrutturazione ricostruttiva, che più da vicino interessa l’oggetto del presente giudizio, talune misure regionali adottate hanno realizzato una vera e propria disciplina derogatoria non perfettamente coerente rispetto al generale quadro normativo statale.
5.2.1.– A tale riguardo, deve essere ricordato come, in origine, l’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. edilizia disponesse che, in caso di demolizione, la ricostruzione per essere tale e non essere considerata una nuova “costruzione” – che avrebbe in tal caso richiesto un apposito permesso di costruire, e non una mera segnalazione certificata di inizio attività (artt. 10 e 22 del t.u. edilizia) – doveva concludersi con la «fedele ricostruzione di un fabbricato identico», comportando dunque identità di sagoma, volume, area di sedime e caratteristiche dei materiali.
Il successivo decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 301 (Modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia) ha modificato la definizione di “ricostruzione”, eliminando sia lo specifico riferimento alla identità dell’area di sedime e alle caratteristiche dei materiali, sia il concetto di “fedele ricostruzione”.
5.2.2.– In epoca successiva, nel 2011, con il comma 9 dell’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011 (cosiddetto “decreto sviluppo”), il legislatore ha espressamente autorizzato le Regioni a introdurre normative che disciplinassero interventi di ristrutturazione ricostruttiva con ampliamenti volumetrici, concessi quale misura premiale per la razionalizzazione del patrimonio edilizio, eventualmente anche con «delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse». In tal modo, il legislatore nazionale ha ammesso deroghe all’identità di volumetria nell’ipotesi di ristrutturazioni realizzate con finalità di riqualificazione edilizia.
Simile possibilità è stata però esclusa, dallo stesso legislatore, per una particolare categoria di manufatti, e cioè per gli «edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta […]» (art. 5, comma 10, del medesimo decreto).
5.2.3.– Nel 2013, il legislatore è nuovamente intervenuto sull’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. edilizia, con l’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), cosiddetto “decreto del fare”, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, che ha qualificato come “interventi di ristrutturazione edilizia” quelli di demolizione e ricostruzione «con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 [Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137] e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente».
Il legislatore statale ha dunque progressivamente allargato l’ambito degli interventi di ristrutturazione, consentendo di derogare all’identità di volumetria in caso di ricostruzioni volte alla riqualificazione edilizia e imponendo il rispetto della sagoma solo per immobili vincolati.
5.2.4.– Questa tendenza si è arrestata, nel 2019, con l’art. 5, comma 1, lettera b), del d.l. n. 32 del 2019 (cosiddetto decreto “sblocca cantieri”), che ha inserito il comma 1-ter all’art. 2-bis del t.u. edilizia, così imponendo, per la ristrutturazione ricostruttiva, il generalizzato limite volumetrico (a prescindere, dunque, dalla finalità di riqualificazione edilizia) e il vincolo dell’area di sedime: «[i]n ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo».
Allo stato attuale, quindi, la ristrutturazione ricostruttiva, autorizzabile mediante segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), è ammissibile purché siano rispettati i volumi, l’area di sedime del manufatto originario e, per gli immobili vincolati, la sagoma. Al momento dell’adozione del “piano casa” da parte delle Regioni, invece, la normativa statale richiedeva, per la ristrutturazione ricostruttiva, il solo rispetto della volumetria e della sagoma, non l’identità di sedime, limiti da rispettare affinché la ristrutturazione non si traducesse in una nuova costruzione, diversamente regolata dalla legislazione nazionale di settore.
6.– Alla luce di tali premesse, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. Puglia n. 59 del 2018 sono fondate per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia e all’art. 5, comma 10, del decreto-legge n. 70 del 2011 (cosiddetto “decreto sviluppo”).
7.– L’art. 4, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2009, oggetto della norma interpretativa, aveva previsto (e prevede) che, «[a]l fine di migliorare la qualità del patrimonio edilizio esistente, sono ammessi interventi di demolizione e ricostruzione di edifici residenziali e non residenziali o misti con realizzazione di un aumento di volumetria sino al 35 per cento di quella legittimamente esistente alla data di entrata in vigore della presente legge da destinare, per la complessiva volumetria risultante a seguito dell’intervento, ai medesimi usi preesistenti legittimi o legittimati, ovvero residenziale, e/o a usi strettamente connessi con le residenze, ovvero ad altri usi consentiti dallo strumento urbanistico. A seguito degli interventi previsti dal presente articolo, gli edifici non residenziali non possono essere destinati a uso residenziale qualora ricadano all’interno delle zone territoriali omogenee E) di cui all’articolo 2 del decreto del Ministero dei lavori pubblici 1444/1968». Il comma 3 del medesimo articolo si premura poi di specificare che «[g]li interventi di ricostruzione devono essere realizzati nel rispetto delle altezze massime e delle distanze minime previste dagli strumenti urbanistici. È consentito il mantenimento dei distacchi, degli arretramenti e degli allineamenti dei manufatti preesistenti limitatamente alla sagoma preesistente. In mancanza di specifica previsione in detti strumenti, e nel caso di ricostruzione di edifici all’interno della sagoma planimetrica dell’esistente, le volumetrie complessive ricostruite sono consentite nel rispetto delle altezze massime della strumentazione urbanistica comunale vigente e delle distanze minime previste dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (…)».
In tal senso l’aumento volumetrico, in caso di ricostruzione e demolizione, era (ed è) condizionato dalla legge regionale al rispetto delle altezze e delle distanze previste dagli strumenti urbanistici o, in mancanza, dall’art. 9 del decreto Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della l. 6 agosto 1967, n. 765), o comunque all’osservanza della sagoma dell’edificio preesistente rispetto ai distacchi, agli allineamenti e agli arretramenti.
7.1.– In simile contesto, qualche anno dopo, il legislatore pugliese, con la citata legge reg. Puglia n. 59 del 2018, ha inserito l’impugnata norma di interpretazione autentica, la quale ha disposto che il sopra menzionato art. 4, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2009 deve essere inteso nel senso che «l’intervento edilizio di ricostruzione da effettuare a seguito della demolizione di uno o più edifici a destinazione residenziale o non residenziale, può essere realizzato anche con una diversa sistemazione plano-volumetrica, ovvero con diverse dislocazioni del volume massimo consentito all’interno dell’area di pertinenza».
7.2.– La disposizione impugnata, come emerge dal confronto delle due prescrizioni, non ha una portata meramente interpretativa.
Questa Corte, con riferimento a una norma di altra Regione che interpretava la locuzione «edifici esistenti» nel senso di includervi «anche gli edifici residenziali in fase di realizzazione in forza di titolo abilitativo in corso di validità» (così allargando, in via retroattiva, la platea dei manufatti beneficiari degli ampliamenti volumetrici previsti dal “piano casa”), ha ribadito la «sostanziale indifferenza, quanto allo scrutinio di legittimità costituzionale, della distinzione tra norme di interpretazione autentica – retroattive, salva una diversa volontà in tal senso esplicitata dal legislatore stesso – e norme innovative con efficacia retroattiva» (sentenza n. 73 del 2017; nonché, da ultimo, sentenza n. 108 del 2019).
Al legislatore – anche regionale – «non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive sia innovative che di interpretazione autentica. La retroattività deve, tuttavia, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata» (sentenza n. 73 del 2017).
7.2.1.– Questa Corte ha, peraltro, individuato alcuni limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, relativi al «principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; [al]la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; [al]la coerenza e [al]la certezza dell’ordinamento giuridico; [a]l rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (sentenza n. 73 del 2013; ex plurimis, da ultimo anche sentenze n. 174 e n. 108 del 2019).
Questa Corte ha peraltro precisato che la qualifica di norma (meramente) interpretativa va ascritta solo a quelle disposizioni «che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo. Il legislatore, del resto, può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore» (sentenza n. 73 del 2017).
La distinzione tra norme interpretative e disposizioni innovative rileva, ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale, perché «la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata» (sentenza n. 73 del 2017; ex plurimis, anche sentenze n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011).
7.3.– Alla luce di questi criteri si deve concludere che la specificazione contenuta nella disposizione impugnata è insuscettibile di essere ricompresa nell’originario contenuto dell’art. 4, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2009.
La norma regionale fa infatti riferimento a una «diversa sistemazione plano-volumetrica o a diverse dislocazioni del volume nell’area di pertinenza». Estende, quindi, in via retroattiva, l’oggetto della disposizione originaria: con riferimento alle “diverse dislocazioni”, la disposizione censurata consente nuove e distinte costruzioni rispetto all’immobile originario, collocate in luogo diverso dal precedente ancorché nella medesima area di pertinenza.
È vero che, con l’art. 5, comma 9, del citato “decreto sviluppo”, il legislatore nazionale ha consentito interventi di demolizione e ricostruzione anche con «delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse», ma tale fattispecie disciplina l’ipotesi affatto diversa del possibile trasferimento (cosiddetto decollo), nell’ambito delle scelte di pianificazione dell’ente locale, dei volumi da una determinata area del territorio ad altra zona che ammetta l’edificabilità. “Delocalizzazione”, peraltro, che rimane preclusa agli «edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta» (art. 5, comma 10, del “decreto sviluppo”).
A tacere del fatto che la norma regionale fa retroagire al 2009 una possibilità prevista dalla disciplina statale solo nel 2011, la disposizione introdotta dalla Regione Puglia ha una portata diversa e più ampia rispetto alla disciplina dello Stato, la quale non ammette la “dislocazione” dei volumi, cosi come previsto da quest’ultima disposizione.
7.4.– A conclusioni analoghe può giungersi per l’ambiguo riferimento alle «diverse sistemazioni plano-volumetriche».
La norma regionale autorizza retroattivamente modifiche alla sagoma dell’edificio, da intendersi come «conformazione planivolumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali, nonché gli aggetti e gli sporti superiori a 1,50 m.»: così ai sensi dell’Allegato A, recante «Quadro delle definizioni uniformi» dello Schema di regolamento edilizio tipo, adottato a seguito di intesa in Conferenza unificata del 20 ottobre 2016.
Il t.u. edilizia ha sempre richiesto, come si è visto supra, per gli interventi di demolizione e ricostruzione, il rispetto della sagoma dell’edificio preesistente (art. 3, comma 1, lettera d). Il vincolo della sagoma è stato attenuato solo nel 2013, quando l’art. 30, comma 1, lettera a), del d.l. n. 69 del 2013 ne ha disposto il rispetto solo per gli immobili vincolati ai sensi del cod. beni culturali.
Ne deriva che il significato dell’originaria disposizione regionale non poteva consentire ab origine una diversa sistemazione plano-volumetrica e conseguenti modifiche alla sagoma dell’edificio oltre a quelle ammissibili ai sensi e nei limiti della disciplina statale: la norma di interpretazione autentica ha lo scopo, dunque, di legittimare retroattivamente opere di ristrutturazione disallineate rispetto alla preesistente sagoma del manufatto.
7.5.– Non è discutibile, dunque, la portata innovativa della disposizione impugnata, la quale integra, non diversamente da quanto affermato dalla difesa dello Stato, una nuova deroga agli strumenti urbanistici, rendendo irragionevolmente legittime, in virtù della sua portata retroattiva, «condotte […] non considerate tali al momento della loro realizzazione (perché non conformi agli strumenti urbanistici di riferimento)», ma che tali «divengono per effetto dell’intervento successivo del legislatore», così realizzando una «surrettizia ipotesi di sanatoria» (sentenza n. 73 del 2017).
7.6.– L’irragionevolezza della disposizione censurata, con conseguente lesione dell’art. 3 Cost., si accompagna ad una contestuale violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione agli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia e all’art. 5, comma 10, del “decreto sviluppo”. Gli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia esprimono, infatti, il principio fondamentale della cosiddetta doppia conformità edilizia, principio che richiede la coerenza del manufatto con la disciplina urbanistica sia quando è stato edificato, sia quando viene domandato l’accertamento di conformità.
Come questa Corte ha avuto modo di chiarire in più occasioni in tema di condono edilizio “straordinario”, «[…] spettano alla legislazione statale, oltre ai profili penalistici (integralmente sottratti al legislatore regionale: sentenze n. 49 del 2006, n. 70 del 2005 e n. 196 del 2004), le scelte di principio sul versante della sanatoria amministrativa, in particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum. Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di “ampliare i limiti applicativi della sanatoria” (sentenza n. 290 del 2009) oppure, ancora, di “allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato” (sentenza n. 117 del 2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale (sentenza n. 233 del 2015)» (sentenza n. 73 del 2017; nello stesso senso, da ultimo, sentenze n. 208 del 2019 e n. 68 del 2018).
7.7.– Le considerazioni appena compiute inducono a dichiarare assorbita la censura concernente la violazione dell’art. 97 Cost.
8.– Il Presidente del Consiglio ha poi impugnato, con autonomo ricorso, due disposizioni della legge reg. Puglia n. 5 del 2019: la prima (art. 8) ha abrogato la più volte menzionata norma di interpretazione autentica (art. 2 della legge reg. Puglia n. 59 del 2018); la seconda (art. 7) ha inserito in pianta stabile, e con efficacia pro futuro, una prescrizione riproduttiva della abrogata norma regionale (asseritamente) interpretativa.
8.1.– Avverso tali norme la difesa statale ha reiterato, nella sostanza, le censure già proposte nei confronti della disposizione (asseritamente) interpretativa di cui all’art. 2 della citata legge regionale n. 59 del 2018.
Ad avviso della Avvocatura generale, l’inserimento in pianta stabile di una norma identica al contenuto precettivo dell’art. 2 della legge reg. n. 59 del 2018 avrebbe reso l’abrogazione di quest’ultima priva di qualsiasi effetto pratico, realizzando un continuum normativo che persisterebbe nelle violazioni degli artt. 3, 97, 117, comma terzo, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia e all’art. 5, comma 10, del “decreto sviluppo”.
8.1.1.– Rispetto ai termini del precedente ricorso, vi è un profilo di novità, attinente all’asserita lesione dell’art. 2-bis, comma 1-ter, del t.u. edilizia (comma inserito, come si è visto, dall’art. 5, comma 1, lettera b, del d.l. n. 32 del 2019), il quale ora dispone che «[i]n ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo», così collocandosi fra i principi fondamentali della materia «governo del territorio».
9.– La questione di legittimità costituzionale, concernente l’art. 7 della legge reg. Puglia n. 5 del 2019, promossa con riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost, in relazione all’art. 5, comma 1, lettera b), del d.l. n. 32 del 2019, è fondata.
9.1.– In primo luogo, deve sottolinearsi che la norma statale evocata come parametro interposto, entrata in vigore quattro giorni dopo la impugnata disposizione regionale, assurge, come anticipato, al rango di principio fondamentale della materia.
In tale direzione, un indice significativo è offerto, anzitutto, dalla particolare sede normativa (il t.u. edilizia) prescelta dal legislatore per l’inserimento della nuova norma (avvenuto, come già detto, per mezzo dell’art. 5, comma 1, lettera b, del d.l. n. 32 del 2019).
Per costante giurisprudenza costituzionale, a prescindere dall’auto-qualificazione, certamente non vincolante per l’interpretazione di questa Corte, contenuta nell’art. 1, comma 1, del t.u. edilizia, in detto testo unico trova sede la legislazione di cornice in materia di edilizia, a sua volta riconducibile al governo del territorio.
Molteplici sono le disposizioni del citato testo unico che questa Corte ha annoverato tra i principi fondamentali della suddetta materia (ex plurimis, sentenze n. 125 del 2017, n. 282 e n. 272 del 2016, e n. 259 del 2014).
Lo stesso art. 2-bis del t.u. edilizia, nel cui ambito si trova il menzionato comma 1-ter, è stato considerato principio fondamentale per ciò che concerne la vincolatività delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968, derogabili solo a condizione che le eccezioni siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 86 del 2019), salvo quanto previsto dall’art. 5, comma 1, lettera b-bis), del d.l. n. 32 del 2019.
9.2.– Come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare, le disposizioni del t.u. edilizia integrano «norme dalla diversa estensione, sorrette da rationes distinte e infungibili, ma caratterizzate dalla comune finalità di offrire a beni non frazionabili una protezione unitaria sull’intero territorio nazionale» (sentenza n. 125 del 2017).
Il comma 1-ter dell’art. 2-bis del t.u. edilizia, nel disporre che «[i]n ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze legittimamente preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo», detta evidentemente una regola unitaria, valevole sull’intero territorio nazionale, diretta da un lato a favorire la rigenerazione urbana e, dall’altro, a rispettare l’assetto urbanistico impedendo ulteriore consumo di suolo (come peraltro si trae dai lavori preparatori della legge di conversione dell’art. 5, comma 1, lettera b-bis, del d.l. n. 32 del 2019).
9.3.– Chiarita la portata del comma 1-ter, risulta evidente l’antinomia tra il suo tenore normativo e il disposto dell’art. 7 della legge reg. Puglia n. 5 del 2019.
Il comma 1-ter dell’art. 2-bis del t.u. edilizia è infatti incompatibile con l’art. 7 della citata legge reg. Puglia n. 5 del 2019, che consente, in caso di demolizione e ricostruzione, un aumento volumetrico. Inoltre, il riferimento alla necessaria costruzione entro l’area di sedime – come definita dal sopra menzionato Allegato A dello Schema di regolamento edilizio tipo – impedisce le «diverse dislocazioni dei volumi» cui fa riferimento la norma regionale impugnata.
Non può sostenersi, come invece argomenta la difesa regionale, che l’intervenuta modifica normativa statale non incida sulla legislazione regionale attuativa del “piano casa”, considerata disciplina speciale rispetto alla normativa generale prevista dal legislatore nazionale. Il nuovo comma 1-ter dell’art. 2-bis del t.u. edilizia stabilisce che i limiti volumetrici e di sedime si applichino «[i]n ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione», così esprimendo una ratio univoca, volta a superare tutte le disposizioni (anche regionali), in materia di SCIA, incompatibili con i nuovi vincoli.
L’intervenuta modifica del parametro interposto rappresentato dal nuovo principio fondamentale rende quindi costituzionalmente illegittima la norma impugnata, a partire dalla entrata in vigore della novella legislativa statale.
Inoltre, poiché la norma regionale impugnata è entrata in vigore il 16 aprile 2019 mentre la norma statale è entrata in vigore il 19 aprile 2019, la disposizione non può avere avuto applicazione per i pochi giorni precedenti, essendo stata vigente per un tempo incompatibile con il consolidarsi del titolo abilitativo (ai sensi dell’art. 19, comma 6-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»).
Per tale ragione può considerarsi cessata la materia del contendere della questione relativa all’art. 7 impugnato, per l’arco temporale antecedente all’entrata in vigore del nuovo art. 2-bis, comma 1-ter, del t.u. edilizia.
9.4.– Sono assorbite le censure promosse per violazione degli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 36 e 37 del t.u. edilizia e all’art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011 (cosiddetto “decreto sviluppo”).
9.5.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge reg. Puglia n. 5 del 2019 sono invece non fondate, data la natura meramente abrogativa della disposizione impugnata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Puglia 17 dicembre 2018, n. 59, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale)»;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale, a partire dalla data del 19 aprile 2019, dell’art. 7 della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 5, recante «Modifiche alla legge regionale 30 novembre 2000, n. 17 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi in materia di tutela ambientale) e istituzione del Sistema informativo dell’edilizia sismica della Puglia, nonché modifiche alle leggi regionali 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e 17 dicembre 2018, n. 59 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14)»;
3) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Puglia n. 5 del 2019, nell’arco temporale antecedente all’entrata in vigore dell’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici», convertito, con modificazioni, nella legge 14 giugno 2019, n. 55, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, della Costituzione, con il ricorso iscritto al n. 63 del reg. ric. 2019;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge reg. Puglia n. 5 del 2019, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, Cost., anche in relazione agli artt. 36 e 37 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», all’art. 5, comma 10, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, recante «Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia», convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, e all’art. 5, comma 1, lettera b), del d.l. n. 32 del 2019, con il ricorso iscritto al n. 63 del reg. ric. 2019.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Augusto Antonio BARBERA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Molise nel procedimento vertente tra l’Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed IRCCS srl e il commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario del Molise e altri, con ordinanza del 15 novembre 2018, iscritta al n. 49 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti l’atto di costituzione dell’Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed IRCCS srl, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Giancarlo Coraggio ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto l), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 19 maggio 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 19 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.? Con ordinanza iscritta al reg. ord. n. 49 del 2019, il Tribunale amministrativo regionale per il Molise ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96. (…omissis)
Considerato in diritto
1.? Il Tribunale amministrativo regionale per il Molise ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96.
La disposizione approva il programma operativo straordinario (POS) per la Regione Molise per il triennio 2015-2018, allegato all’Accordo sancito nella seduta della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano del 3 agosto 2016 (Accordo concernente l’intervento straordinario per l’emergenza economico-finanziaria del Servizio sanitario della Regione Molise e per il riassetto della gestione del Servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 1, comma 604, della legge 23 dicembre 2014, n. 190) e recepito con decreto del commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario della predetta Regione Molise n. 52 del 12 settembre 2016.
1.1.? Il rimettente lamenta, innanzitutto, la violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto la disposizione censurata, in contrasto con i princìpi di ragionevolezza, non contraddizione, legalità e imparzialità della pubblica amministrazione, recepirebbe in norma di legge il contenuto di un provvedimento amministrativo – il POS – potenzialmente illegittimo, con l’effetto di sanare e validare, in via postuma, i vizi di quel provvedimento programmatorio nonché quelli dei provvedimenti attuativi di esso.
Il censurato art. 34-bis violerebbe, inoltre, gli artt. 24, 103 e 113 Cost., «posti anche in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU», in quanto interferirebbe con la funzione giurisdizionale, incidendo sulla risoluzione di controversie in corso aventi ad oggetto il POS legificato.
A parere del TAR Molise, infine, il legislatore statale avrebbe violato gli artt. 117, primo e terzo comma, e 120 Cost., in quanto avrebbe adottato norme di dettaglio in un ambito riconducibile alla materia della tutela della salute, spettante alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni, nella quale alle leggi dello Stato è riservata la fissazione dei princìpi fondamentali. Inoltre, il recepimento in legge del POS renderebbe quest’ultimo prevalente sull’Accordo tra Stato e Regioni, realizzando rilevanti interferenze su atti che nascono da processi co-decisionali. Tale intervento non sarebbe giustificabile neppure nell’ottica del coordinamento della finanza pubblica spettante alla legge statale, innanzitutto perché, a tenore dell’art. 120, secondo comma, ultimo periodo, Cost., quando il Governo si sostituisce ad organi delle Regioni, la legge deve definire sempre «le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione»; in secondo luogo – prosegue il giudice a quo – se pure l’autonomia legislativa concorrente della Regione nel settore della tutela della salute e della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, tuttavia il momento consensuale o concertativo inter-istituzionale non può essere del tutto pretermesso, restando pur sempre necessario che la Regione, in qualche modo, si esprima sugli interventi indicati dai programmi operativi.
2.? In via preliminare, occorre considerare il riferimento agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, evocati dal giudice remittente in quanto «posti anche in relazione» agli artt. 24, 103 e 113 Cost.
La costante giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che le norme della Convenzione non sono parametri direttamente invocabili per affermare l’illegittimità costituzionale d’una disposizione dell’ordinamento nazionale, ma costituiscono norme interposte la cui osservanza è richiesta dall’art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis sentenza n. 236 del 2016, ordinanze n. 21 del 2014, n. 286 del 2012, n. 180 del 2011 e n. 163 del 2010). Il giudice remittente non ha menzionato tale parametro a supporto della questione in cui sono evocate le disposizioni della CEDU, ma solo, inequivocabilmente, a supporto dell’ultima questione, unitamente al terzo comma del medesimo art. 117 Cost. e all’art. 120 Cost.
I riferimenti alle norme convenzionali devono, dunque, considerarsi solo atti a svolgere un ruolo rafforzativo delle censure (sentenze n. 236 e n. 12 del 2016, ordinanza n. 286 del 2012).
3.? Sempre al fine della perimetrazione delle questioni di legittimità costituzionale, va ricordato che, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), essa è definita unicamente dall’ordinanza di rimessione (ex multis, sentenze n. 222 del 2018, n. 327 e n. 50 del 2010).
Resta estranea quindi all’esame di questa Corte l’ulteriore questione di legittimità costituzionale proposta dalla parte costituita in giudizio, in riferimento agli artt. 72 e 73, terzo comma, Cost.
4.? Non costituisce, invece, impedimento all’esame del merito la circostanza che il TAR remittente – dopo aver adottato, in precedenti giudizi, una lettura della disposizione censurata secondo cui essa avrebbe recepito e legificato soltanto il contenuto che fosse sopravvissuto al vaglio di legittimità, non determinando l’improcedibilità dei ricorsi – ha aderito all’opposta interpretazione del giudice di appello dell’art. 34-bis (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 24 aprile 2018, n. 2501; ordinanze 12 ottobre 2018, n. 4989 e n. 4988), sottoponendolo al vaglio di legittimità costituzionale.
4.1.? Questa Corte, infatti, ha riconosciuto la facoltà di scelta del giudice di primo grado esposto all’alternativa di adeguarsi, pur reputandola incostituzionale, all’interpretazione affermata dal giudice d’appello e non ancora consolidata come diritto vivente, o assumere, in contrasto con essa, una decisione probabilmente destinata ad essere riformata. In tali ipotesi, infatti, «la via della proposizione della questione di legittimità costituzionale costituisce l’unica via idonea ad impedire che continui a trovare applicazione una norma ritenuta costituzionalmente illegittima» (sempre sentenza n. 240 del 2016).
5.? Ai fini dell’esame delle censure è opportuno precisare che oggetto del giudizio è senza dubbio una legge-provvedimento poiché – come si è detto ? essa eleva a livello legislativo una disciplina già oggetto di un atto amministrativo, il POS, ed è ispirata da particolari esigenze, identificabili (in base all’incipit dello stesso art. 34-bis) nella necessità di «assicurare la prosecuzione dell’intervento volto ad affrontare la grave situazione economico finanziaria e sanitaria della regione Molise». Essa contiene, pertanto, disposizioni che hanno contenuto particolare e concreto, in quanto recepiscono, appunto, il contenuto del Programma, così investendo le strutture sanitarie regionali.
Si tratta di un esercizio del potere legislativo che in linea di principio questa Corte ha sempre ritenuto non contrario alla Costituzione, sul presupposto che le leggi-provvedimento non sono incompatibili, in sé e per sé, con l’assetto dei poteri in essa stabilito (sentenze n. 181 del 2019 e n. 85 del 2013); esse devono però soggiacere ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 182 del 2017, n. 85 del 2013 e n. 20 del 2012). La loro legittimità costituzionale «deve essere “valutata in relazione al loro specifico contenuto” (sentenze n. 275 del 2013, n. 154 del 2013 e n. 270 del 2010), “essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore (sentenza n. 288 del 2008)”» (sentenza n. 181 del 2019).
6.? La questione è fondata.
6.1.? Di fatto la tematica negli ultimi tempi è emersa con frequenza nel vagliare la legittimità delle leggi regionali che avevano provveduto in luogo dell’amministrazione, come invece prevedeva il legislatore nazionale.
In questi casi la Corte, nel sanzionare l’intervento legislativo regionale, non si è limitata a prendere atto del contrasto con il principio fondamentale formulato dalla legge statale, ma ha anche valorizzato il ruolo svolto dal procedimento amministrativo nell’amministrazione partecipativa disegnata dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Il portato delle numerose pronunce in materia è stato di recente puntualizzato nel senso che il procedimento amministrativo costituisce il luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto «[è] nella sede procedimentale […] che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela. La struttura del procedimento amministrativo, infatti, rende possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241[…]: efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza. Viene in tal modo garantita, in primo luogo, l’imparzialità della scelta, alla stregua dell’art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, dell’interesse primario, in attuazione del principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.» (sentenza n. 69 del 2018).
7.? L’insistente valorizzazione delle modalità dell’azione amministrativa e dei suoi pregi non può evidentemente rimanere confinata nella sfera dei dati di fatto, ma deve poter emergere a livello giuridico-formale, quale limite intrinseco alla scelta legislativa, pur senza mettere in discussione il tema della “riserva di amministrazione” nel nostro ordinamento.
In effetti, se la materia, per la stessa conformazione che il legislatore le ha dato, si presenta con caratteristiche tali da enfatizzare il rispetto di regole che trovano la loro naturale applicazione nel procedimento amministrativo, ciò deve essere tenuto in conto nel vagliare sotto il profilo della ragionevolezza la successiva scelta legislativa, pur tipicamente discrezionale, di un intervento normativo diretto.
8.? L’applicazione di questo criterio al caso in esame induce a concludere nel senso della irragionevolezza della disposizione in questione.
9.? Non vi è dubbio infatti che l’oggetto della legificazione abbia tutte le caratteristiche di una materia ragionevolmente inquadrabile fra quelle naturaliter amministrative, come del resto ritenuto dallo stesso legislatore statale del 2014.
Si è ricordato che la disciplina legificata era contenuta in un atto generale di pianificazione, e quindi dalle rilevanti ricadute su tutte o gran parte delle strutture sanitarie regionali. Le scelte da effettuare, destinate a riverberarsi sulla salute dei cittadini molisani, richiedevano, dunque, al massimo grado un’adeguata conoscenza di dati di fatto complessi e di non facile lettura, dati che solo una istruttoria amministrativa approfondita, e arricchita dalla partecipazione degli enti interessati, poteva garantire.
Non è un caso dunque che il contenzioso da cui prende le mosse la questione di legittimità costituzionale in esame sia incentrato sulla mancata partecipazione all’istruttoria e sulla conseguente inadeguatezza della stessa.
10.? La complessità delle scelte e il numero degli interessi in gioco fanno presumere un ampio ricorso ad un contenzioso di questo tipo, e del resto, è essenzialmente per esorcizzare questo rischio che è stata emanata la legge in questione, secondo la condivisibile lettura del Consiglio di Stato, che, sulla base dell’art. 34-bis censurato, ha concluso nel senso della inammissibilità dei ricorsi proposti avverso il provvedimento per sopravvenuta carenza di interesse (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 24 aprile 2018, n. 2501).
10.1.? Ciò, fra l’altro, riconduce l’intervento normativo nell’ambito delle leggi di sanatoria, in quanto inteso a fornire “copertura legislativa” a precedenti atti amministrativi (sentenza n. 356 del 1993 e ordinanza n. 352 del 2006); leggi in ordine alle quali questa Corte ha affermato che non sono costituzionalmente precluse in via di principio, ma che «tuttavia, trattandosi di ipotesi eccezionali, la loro giustificazione deve essere sottoposta a uno scrutinio particolarmente rigoroso» (sentenza n. 14 del 1999).
11.? Il richiamo ad un maggior rigore mette in evidenza una delle caratteristiche dell’azione amministrativa che è stata già apprezzata in termini generali, e cioè l’esistenza di un successivo vaglio giurisdizionale (sentenze n. 258 del 2019 e n. 20 del 2012); vaglio necessario a maggior ragione in presenza di un’attività amministrativa già svolta e successivamente legificata, in cui una diminuzione di tutela delle situazioni soggettive incise dall’azione amministrative è in re ipsa ed è nella specie conclamata.
E se è vero che in linea di principio la tutela giudiziaria non viene meno per il trasferimento del contenzioso alla giurisdizione costituzionale (così, anche di recente, sentenza n. 2 del 2018), è anche vero che non può non considerarsi che in casi come quello in esame vengano in rilievo mancanze, quali il difetto di partecipazione degli interessati, che non si potrebbero addebitare all’atto legislativo, in quanto fisiologicamente estranee al relativo procedimento.
12.? In sostanza la qualificazione da parte del legislatore di una materia come tipicamente amministrativa ha una sua inevitabile proiezione anche sulla fase successiva al varo della disciplina, poiché è destinata a produrre un contenzioso altrettanto specifico, centrato sul rispetto delle regole proprie del procedimento amministrativo e sulle relative mancanze. Questo contenzioso a sua volta costituisce il naturale oggetto del vaglio del giudice amministrativo, al quale è riconosciuta la possibilità «di spingersi “oltre” la rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento (l’art. 64 del codice del processo amministrativo contiene una traccia, sia pure incompiuta, degli oneri di contestazione, di allegazione, di prova necessari ad ordinare in forma sequenziale un giudizio esteso al rapporto), in quanto al giudice compete l’accertamento del fatto senza essere vincolato a quanto rappresentato nel provvedimento (Consiglio di Stato, sentenza 25 febbraio 2019, n. 1321)».
Né è irrilevante che il controllo in questione sia volto non solo a sanzionare con l’annullamento l’attività amministrativa illegittima, ma anche a conformare l’attività stessa così da renderla pienamente rispettosa dei principi di efficienza, imparzialità e trasparenza costituzionalizzati dall’art. 97 Cost.
Senza contare che la legificazione del provvedimento comporta anche l’inevitabile perdita della naturale elasticità dell’azione amministrativa, che trova nel potere di autotutela una fisiologica risposta alle necessità di riesame del provvedimento (sentenze n. 258 del 2019 e n. 20 del 2012).
13.? È pertanto alla stregua degli artt. 3 e 97 Cost., che si deve concludere per l’accoglimento della questione, restando assorbiti i rimanenti parametri evocati dal rimettente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34-bis del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie), convertito, con modificazioni, in legge 4 dicembre 2017, n. 172, «ovvero, secondo altra prospettazione dogmatica, della relativa legge di conversione 4 dicembre 2017, n. 172, almeno nella parte relativa alla conferma dell’art. 19 del D.L. n. 148 del 2017», promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza, nel procedimento vertente tra la Società italiana autori ed editori (SIAE) e altro e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), con ordinanza del 16 aprile 2019, iscritta al n. 198 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione della Federazione autori, della Società italiana autori ed editori (SIAE) e dell’Associazione Lea - Liberi editori e autori, nonché l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
uditi il Giudice relatore Giuliano Amato, gli avvocati Stefano Astorri per la Federazione autori, Massimo Luciani e Maurizio Mandel per la Società italiana autori ed editori (SIAE), Guido Scorza per l’Associazione Lea - Liberi editori e autori e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri, nell’udienza pubblica del 9 giugno 2020, svolta, ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e d), in collegamento da remoto, su richiesta degli avvocati Paolo Turco, Maria Grazia Maxia, Maurizio Mandel, Domenico Luca Scordino, Massimo Luciani, Guido Scorza, Ernesto Belisario, Gianni De Bellis e Pietro Garofoli, pervenute in data 16, 25, 29 maggio e 3 giugno 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 9 giugno 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza, con ordinanza del 16 aprile 2019, ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie), convertito, con modificazioni, in legge 4 dicembre 2017, n. 172, «ovvero, secondo altra prospettazione dogmatica, della relativa legge di conversione 4 dicembre 2017, n. 172, almeno nella parte relativa alla conferma dell’art. 19 del D.L. n. 148 del 2017». (…omissis)
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie), convertito, con modificazioni, in legge 4 dicembre 2017, n. 172, «ovvero, secondo altra prospettazione dogmatica, della relativa legge di conversione 4 dicembre 2017, n. 172, almeno nella parte relativa alla conferma dell’art. 19 del D.L. n. 148 del 2017».
1.1.– La disposizione censurata modifica gli artt. 15-bis e 180 della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), consentendo l’attività di intermediazione del diritto d’autore, in precedenza riservata alla Società italiana autori ed editori (da qui: SIAE), anche agli altri organismi di gestione collettiva (da qui: OGC), come definiti dall’art. 2, comma l, del decreto legislativo 15 marzo 2017, n. 35 (Attuazione della direttiva 2014/26/UE sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multiterritoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno).
2.? Secondo il giudice rimettente tale disposizione contrasterebbe con l’art. 77 Cost., con riguardo ai presupposti per la decretazione d’urgenza.
2.1.? In primo luogo, infatti, non sussisterebbe alcuna giustificazione collegabile alla necessità e urgenza di provvedere in ordine alla censurata modifica del sistema d’intermediazione nel settore del diritto d’autore, che avrebbe natura di riforma ordinamentale e non sarebbe neppure immediatamente applicabile, rinviando a ulteriori misure attuative.
2.2.? In secondo luogo, mancherebbe il necessario requisito dell’organicità delle disposizioni contenute nel d.l. n. 147 del 2018, come convertito, che risponderebbe a finalità non univoche, ma comunque collegate a esigenze indifferibili in materia finanziaria, rispetto alle quali il censurato art. 19 si rivelerebbe del tutto estraneo, disciplinando una materia priva di diretta e rilevante relazione con il bilancio dello Stato, atteso che i diritti d’autore non confluiscono nell’erario.
3.? Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione d’inammissibilità, sollevata dalla difesa dell’Associazione Lea - Liberi editori e autori (da qui: LEA), parte nel giudizio a quo, per irrilevanza delle questioni, in quanto il giudice a quo avrebbe censurato una disposizione del d.l. n. 147 del 2018, come convertito, che non potrebbe però più trovare applicazione in virtù della novazione della fonte determinata dalla legge di conversione. Eccezione a cui si lega l’ulteriore argomento in forza del quale la questione di legittimità costituzionale sarebbe inammissibile una volta intervenuta la legge di conversione, che avrebbe efficacia sanante rispetto al decreto-legge.
3.1.? L’eccezione non è fondata.
Da un lato, l’ordinanza di rimessione appunta il dubbio di legittimità costituzionale sulla disposizione dell’art. 19 del d.l. n. 148 del 2017, così come confermata dalla legge di conversione. Dall’altro lato, costituisce ormai costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 29 del 1995, che la conversione in legge non ha efficacia sanante dei vizi del decreto-legge, poiché l’evidente mancanza dei presupposti di necessità e urgenza configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge, quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione (tra le tante, sentenze n. 97 del 2019, n. 287 del 2016, n. 10 del 2015, n. 93 del 2011, n. 83 del 2010, n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007).
4.? Secondo la difesa di LEA le questioni sarebbero altresì inammissibili per irrilevanza in relazione ai commi 1 e 3 dell’art. 19 del d.l. n. 148 del 2017, come convertito, in quanto tali disposizioni non dovrebbero trovare applicazione nel giudizio a quo. Quest’ultimo, infatti, riguarderebbe la verifica dei requisiti per l’iscrizione nel registro degli OGC, disciplinata dal solo comma 2 dell’art. 19, secondo cui per gli OGC stabiliti in Italia l’esercizio dell’attività di intermediazione è in ogni caso subordinata alla verifica del rispetto dei requisiti da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (da qui: AGCOM).
4.1.? Anche tale eccezione non è fondata.
In primo luogo, infatti, l’art. 19, comma 3, lettera a), modifica l’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 35 del 2017 proprio in relazione al provvedimento di verifica dei requisiti; dunque, anche tale disposizione trova sicuramente applicazione nel giudizio a quo.
In secondo luogo, l’iscrizione nel registro degli OGC ha l’effetto di consentire agli stessi di svolgere l’attività di intermediazione sul diritto d’autore – prevista degli artt. 15-bis e 180 della legge n. 633 del 1941, su cui interviene l’art. 19, comma 1 – senza, tra l’altro, dover raggiungere un accordo di rappresentanza con la SIAE. Tale condizione, infatti, è stata eliminata dalla modifica all’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 35 del 2017, operata dall’art. 19, comma 3, lettera b), del d.l. n. 148 del 2017, restando solo per le entità di gestione indipendenti (da qui: EGI).
Ne consegue che i commi 1 e 3 del citato art. 19 – la cui violazione è richiamata tra i motivi di ricorso avverso il provvedimento dell’AGCOM impugnato nel giudizio a quo – recano norme che, per ciò stesso, rilevano in tale giudizio.
5.? Sempre in via preliminare, da ultimo, devono essere dichiarate inammissibili le doglianze della difesa della Federazione autori, anch’essa parte nel giudizio principale, relative all’illogicità e irragionevolezza della disciplina di cui all’art. 19 del d.l. n. 148 del 2017, come convertito (dunque, implicitamente, alla violazione dell’art. 3 Cost.). Si tratta, infatti, di censure non contenute nell’ordinanza di rimessione e, pertanto, estranee al thema decidendum.
6.? Nel merito le questioni non sono fondate.
6.1.? Va premesso che le disposizioni censurate riguardano la materia dell’intermediazione del diritto d’autore, su cui è intervenuto il d.lgs. n. 35 del 2017, che ha recepito la direttiva 2014/26/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014 «sulla gestione collettiva dei diritti d’autore e dei diritti connessi e sulla concessione di licenze multiterritoriali per i diritti su opere musicali per l’uso online nel mercato interno» («direttiva Barnier»).
6.1.1.? La direttiva Barnier ha dettato norme concernenti la struttura organizzativa degli OGC e i rapporti tra gli autori e tali organismi, con l’obiettivo di armonizzare le regole sull’attività delle organizzazioni e delle società di gestione collettiva. Principio fondamentale è il riconoscimento agli autori della libertà di scegliere il soggetto a cui assegnare, in concreto, le varie tipologie di diritti previsti dalla legge (art. 5). A tal fine (art. 3), pertanto, oltre agli OGC possono costituirsi le EGI, ossia enti di carattere commerciale, sebbene non sia previsto che gli Stati debbano permettere l’adozione anche del modello apertamente commerciale di gestione.
La direttiva Barnier non affronta direttamente il tema del monopolio legale degli OGC nei rispettivi Paesi di origine, su cui si era pronunciata la Corte di giustizia dell’Unione europea, sezione quarta, con la sentenza 27 febbraio 2014, C-351/12, OSA, affermando, sulla base del diritto dell’Unione allora vigente, la compatibilità tra la gestione obbligatoria dei diritti d’autore e il principio di libera prestazione dei servizi. Nondimeno, i ricordati principi della direttiva gettano certamente le basi per la progressiva erosione dei monopoli legali.
6.1.2.? La normativa europea è stata recepita dal d.l.gs. n. 35 del 2017 nell’ordinamento italiano, in cui, com’è noto, la gestione del diritto d’autore è stata riservata dalla legge n. 633 del 1941 alla SIAE.
Il d.lgs. n. 35 del 2017 ha distinto nettamente tra gli OGC, soggetti senza scopo di lucro detenuti o controllati dai propri membri, e le EGI, che perseguono fini di lucro e non sono né detenute né controllate, direttamente o indirettamente, dai titolari dei diritti (art. 2). Si è così previsto (art. 4, comma 2) che i titolari dei diritti possano affidare a un OGC o a una EGI di loro scelta la gestione dei loro diritti, delle relative categorie o dei tipi di opere e degli altri materiali protetti per i territori da essi indicati, indipendentemente dallo Stato dell’UE di nazionalità, di residenza o di stabilimento dell’OGC, dell’EGI e del titolare dei diritti. Era fatto salvo, però, quanto disposto dall’art. 180 della legge n. 633 del 1941, ossia la riserva alla SIAE per l’attività d’intermediazione nella gestione dei diritti d’autore. In conseguenza di ciò, la libertà di scelta da parte degli autori era limitata a OGC o EGI stabilite all’estero, che potevano operare, tuttavia, solo previo accordo con la SIAE (art. 20 del d.lgs. n. 35 del 2017).
Pur affermando il principio di libertà di scelta della gestione del diritto d’autore, pertanto, il d.lgs. n. 35 del 2017 aveva mantenuto il monopolio legale della SIAE in materia.
6.1.3.? Il mantenimento del monopolio ha suscitato perplessità, emerse nel corso dell’interlocuzione con le istituzioni europee relativa alla procedura d’infrazione aperta per il mancato recepimento della direttiva Barnier, dato che il d.lgs. n. 35 del 2017 non era ancora entrato in vigore alla scadenza del termine fissato dalla stessa direttiva (10 aprile 2016).
La Direzione generale UE “Reti di comunicazione e contenuti delle tecnologie” (da qui: DG CONNECT), con lettera dell’8 febbraio 2017, pronunciandosi sullo schema di quello che sarebbe poi divenuto l’art. 4 del citato decreto legislativo, ha così segnalato al Governo italiano l’opportunità di riconsiderare il regime di monopolio della SIAE in materia di gestione collettiva del diritto d’autore. Nondimeno, la normativa di recepimento è comunque entrata in vigore, dopo circa un mese da tale lettera, senza variazioni, mentre la risposta del Governo italiano è intervenuta solo il 12 settembre 2017. Ivi, come risulta dall’interrogazione a risposta immediata del 28 settembre 2017 n. 5-12302, resa nella VII^ Commissione della Camera dei deputati, il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo e il Sottosegretario di Stato per le politiche europee hanno manifestato l’intenzione di procedere a un ulteriore intervento normativo, al fine di realizzare una più compiuta liberalizzazione del settore, anticipando così i contenuti dell’art. 19 del d.l. n. 148 del 2017.
In tal modo, nessuna nuova procedura di infrazione è stata aperta e il procedimento già avviato è stato archiviato il 4 ottobre 2017, a seguito sì della sola notificazione del d.lgs. n. 35 del 2017, ma anche di tale risposta del Governo italiano.
6.1.4.? Il censurato art. 19, comma l, del d.l. n. 148 del 2017, come convertito, è dunque intervenuto in tale contesto, modificando gli artt. 15-bis e 180 della legge n. 633 del 1941. In conseguenza di ciò, l’attività d’intermediazione dei diritti d’autore è stata consentita anche agli altri OGC, i quali, come finalità unica o principale, gestiscano diritti d’autore o diritti connessi ai diritti d’autore per conto di più di un titolare di tali diritti, a vantaggio collettivo di questi e che, alternativamente, siano detenuti o controllati dai propri membri ovvero non perseguano fini di lucro. Per gli OGC stabiliti in Italia, in ogni caso, l’esercizio dell’attività d’intermediazione è subordinato alla verifica, da parte dell’AGCOM, del rispetto dei requisiti previsti dall’art. 8 del d.lgs. n. 35 del 2017, la cui assenza ben potrebbe determinare l’esclusione dall’elenco degli OGC.
6.2.? Alla luce di tale ricostruzione dei fatti può affermarsi come l’intervento del legislatore non possa dirsi manifestamente privo dei presupposti di necessità e urgenza.
6.2.1.? La scelta di provvedere attraverso lo strumento del decreto-legge, infatti, può essere rinvenuta nella necessità, riconosciuta anche dal giudice rimettente, di armonizzare compiutamente la normativa interna a quella comunitaria in tema di liberalizzazione in materia di gestione collettiva dei diritti d’autore e nell’urgenza di evitare l’apertura di una procedura di infrazione. D’altronde, questa Corte ha già precisato che alla base di un decreto-legge possano esservi i ritardi connessi all’attuazione della disciplina comunitaria, specie ove caratterizzata da una lunga trattativa tra l’Italia e gli organi europei (sentenza n. 272 del 2005).
Infatti, se è vero che non è stata aperta una procedura d’infrazione per censurare espressamente l’inesatto recepimento della direttiva Barnier da parte del d.lgs. n. 35 del 2017, ciò appare motivato anche dal fatto che ai dubbi sollevati dalle istituzioni europee mentre era in corso il tardivo recepimento della stessa direttiva ha fatto seguito una rapida modifica del citato decreto legislativo. La qual cosa ha evitato un’ulteriore procedura d’infrazione, essendo stati già manifestati e affrontati i potenziali profili di contrasto tra la normativa italiana e il diritto europeo, rimossi appunto dalle censurate disposizioni.
In conclusione, l’urgente necessità di provvedere di cui all’art. 19 del d.l. n. 148 del 2017, a prescindere da ogni valutazione sull’applicabilità al caso di specie dell’art. 37 della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea), risulta connessa all’esigenza di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per la mancata attuazione delle norme europee di settore. Esigenze già da questa Corte ritenute sufficienti a escludere la carenza evidente dei presupposti di necessità e urgenza (sentenza n. 244 del 2016).
6.2.2.? Né tale carenza potrebbe dipendere dal fatto che le norme censurate non siano immediatamente applicabili, rinviando a successivi provvedimenti attuativi dell’AGCOM. La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha in più occasioni chiarito che la necessità di provvedere con urgenza non postula inderogabilmente un’immediata applicazione delle disposizioni normative contenute nel decreto-legge (sentenze n. 97 del 2019, n. 5 del 2018, n. 236, n. 170 e n. 16 del 2017).
6.3.? Non possono trovare accoglimento neanche le censure concernenti il difetto di omogeneità del decreto-legge e, in particolare, l’eterogeneità dell’art. 19 del d.l. n. 148 del 2017, come convertito, rispetto alle finalità dello stesso decreto.
6.3.1.? Questa Corte ha chiarito che l’omogeneità costituisce un requisito del decreto-legge sin dalla sua origine, poiché «l’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed “i provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui alla norma costituzionale citata» (sentenza n. 22 del 2012).
Nondimeno, l’urgente necessità del provvedere può riguardare anche una pluralità di norme accomunate non solo dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ma anche dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione. Si tratta, nella specie, di quei «provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo», che possono in tal senso risultare omogenei rispetto allo scopo (così le sentenze n. 137 del 2018, n. 170 e n. 16 del 2017 e n. 32 del 2014). seppure non siano per tale ragione esenti da possibili censure in riferimento al requisito dell’omogeneità.
6.3.2.? Ciò precisato, la «Premessa» del d.l. n. 148 del 2017 fa riferimento alla «straordinaria necessità ed urgenza di prevedere misure per esigenze indifferibili, in materia di partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali, di personale delle Forze di polizia e militare, di imprese, ambiente, cultura e sanità». Si tratta, pertanto, di un ampio quadro di misure, che accompagnano la manovra di bilancio per il 2018, incentrate principalmente su interventi fiscali, ma estese anche ad altre linee d’intervento, come per i provvedimenti strutturali in materia di imprese, di trasporti e di cultura. La ratio dell’intervento legislativo, in altri termini, è riconducibile a due distinte finalità, di ampia portata: da un lato, le misure di natura finanziaria e contabile; dall’altro, quelle per esigenze indifferibili con riferimento a sei ambiti materiali: 1) partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali; 2) personale delle forze di polizia e militari; 3) imprese; 4) ambiente; 5) cultura; 6) sanità.
Il d.l. n. 148 del 2017, d’altronde, rientra tra i provvedimenti, comunemente denominati «decreti fiscali», recanti quegli interventi indifferibili che sono discussi dal Parlamento parallelamente alla legge di bilancio, a volte in quanto ad essa strettamente connessi, ma altre volte perché contenenti misure necessarie e indifferibili che difficilmente potrebbero essere oggetto di esame parlamentare nell’arco temporale della sessione di bilancio, se non inserite in uno dei provvedimenti destinati all’approvazione in tale sessione.
Ciò non esclude che le disposizioni ivi contenute possano essere oggetto di censura, quando non omogenee rispetto all’oggetto e alle finalità dell’intervento legislativo, specie ove introdotte in sede di conversione. Nel caso in esame, tuttavia, il censurato art. 19 s’inserisce all’interno delle linee d’intervento del d.l. n. 148 del 2017, che reca misure in materia d’imprese e cultura in cui rientrano senz’altro le attività relative all’intermediazione sul diritto d’autore. Non a caso, il dossier parlamentare del Comitato per la legislazione, pur esprimendo taluni dubbi relativi all’omogeneità di alcune misure del decreto-legge, in particolare quelle introdotte in sede di conversione, non recava osservazioni sull’art. 19.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie), convertito, con modificazioni, in legge 4 dicembre 2017, n. 172, sollevate, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Filomena PERRONE
N. 00009/2012REG.PROV.COLL.
N. 00003/2012 REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3 di A.P. del 2012, proposto da:
Gestore dei Servizi Elettrici-Gse Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Anaclerio, Stefano Crisci, Marco Bonacina e Carlo Malinconico, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Stefano Crisci in Roma, via Parigi n.11;
contro
Officina dell'Ambiente s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, Montana s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, Paola Scuntaro, Mansoldo Andrea, Racani Maurizio, Toffoletti Danila, Toffoletti Danilo, Paina Giancarlo, Rosset Claudio, Della Rossa Livio, Mastella Cristiano, Ghidelli Giulio Natale, Sergio Totis, Mauro Fasano, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Riccardo Tagliaferri, Marco Noferi, Iacopo Tozzi e Marco Antonio Vallini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Enrico Gamba in Roma, via del Casale Strozzi, 31;
nei confronti di
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, Autorità per l’energia elettrica e il gas, Ministero delle attività produttive, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, tutti rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
e con l'intervento di
ad opponendum:
Azienda Agricola Sant'Anna S.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Marco Noferi, Iacopo Tozzi, Alessandro Tarducci e Stefano Scudellaro, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Enrico Gamba in Roma, via del Casale Strozzi, 31;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE IV n. 02126/2006, resa tra le parti, concernente della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE IV n. 02126/2006, resa tra le parti, concernente CRITERI PER INCENTIVAZIONE PRODUZ. ENERGIA ELETTRICA CON PRODUZ. ENERGIA SOLARE
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 marzo 2012 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Crisci, Malinconico, Tarducci e l’avvocato dello Stato Ventrella;
(omissis)
5.(…), occorre ora esaminare i motivi dell’appello incidentale con i quali gli originari ricorrenti, sul presupposto della natura regolamentare del decreto in esame, lamentano:
- la violazione e falsa applicazione dei principi desumbili dagli artt. 3, 25 e 97 Cost. in quanto si tratterebbe di un regolamento adottato senza autorizzazione legislativa;
- la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 delle preleggi, in quanto si tratterebbe di un regolamento illegittimamente retroattivo;
- la violazione e falsa applicazione dei principi desumibili dall’art. 17 legge 23 agosto 1988, n.
In ordine alle prime due censure, le considerazioni già svolte in ordine alla natura interpretativa dell’art. 4, comma 1, del decreto ministeriale 6 febbraio 2006 (che si è limitato ad una mera precisazione di un significato precettivo già enucleabile del decreto ministeriale 28 luglio 2005) consentono di escludere la violazione sia del principio di riserva di legge sia del principio di irretroattività.
5.1. La base legislativa è, infatti, offerta dall’art. 7, comma 2, lett. d) del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, che attribuisce al Ministero delle attività produttive il potere di adottare uno o più decreto per disciplinare i criteri per l’incentivazione della produzione di energia da fonte solare.
Tale disposizione è fonte di un potere certamente destinato a non esaurirsi con l’emanazione del primo decreto attuativo. Da un lato, infatti, la stessa disposizione legislativa prevede espressamente la possibilità di una pluralità di decreti ministeriali (adotta uno o più decreti”); dall’altro lato, la possibilità che il potere attribuito venga esercitato con più atti discende dal principio di inesauribilità del potere amministrativo, a sua volta corollario della necessità che la tutela dell’interesse pubblico sia continuamente assicurata.
L’emanazione del decreto ministeriale 6 febbraio 2006 aveva, quindi, una chiara base legislativa, a maggior ragione se si considera che, nel caso di specie, si tratta di mere precisazioni di regole già vigenti.
5.2. Ugualmente, appurata la natura meramente interpretativa e non innovativa del decreto ministeriale impugnato, deve escludersi la violazione del principio di retroattività.
5.3. Meritano, invece, maggiore attenzione le censure tese a dimostrare la violazione delle regole procedimentali che l’art. 17 legge n. 400 del 1988 prevede per l’adozione dei regolamenti ministeriali.
Tale censura è stata disattesa dal Tribunale amministrativo regionale con la seguente motivazione: “a parte il fatto che il menzionato art. 7 del d.lgs. n. 387/2003 parla soltanto di “decreti” senza alcun riferimento all’eventuale carattere regolamentare degli stessi, la lettura del D.m. gravato induce al Collegio a qualificarlo piuttosto come atto generale, rivolto agli operatori del settore fotovoltaico, piuttosto che atto normativo indirizzato a tutti i consociati”.
Il citato passaggio motivazionale solleva alcune perplessità.
5.3.1. Da un lato, infatti, laddove enfatizza la circostanza che l’art. 7 d.lgs. n. 387 del 2003 parli soltanto di decreti, senza specificarne il carattere regolamentare, sembra ammettere che possano esistere decreti ministeriali a contenuto normativo ma non avente carattere regolamentare (perché non espressamente qualificati come tali dal legislatore o, semmai, espressamente qualificati in senso non regolamentare), come tali sottratti al procedimento disciplinato dall’art. 17 legge n. 400 del 1988. Sembra ammettere, in altri termini che, tranne i casi in cui la legge richieda espressamente il regolamento, il Ministero, destinatario di un potere normativo, possa di volta in volta decidere se esercitarlo con lo strumento regolamentare (come tale soggetto al procedimento di cui all’art. 17 legge n. 400 del 1988) o con altri atti di natura non regolamentare.
5.3.2. Dall’altro lato, laddove desume la natura non regolamentare dalla circostanza che il decreto in questione si applichi solo agli operatori del settore fotovoltaico e non a tutti i consociati, sembrerebbe ritenere che sia atto normativo soltanto quello che si rivolga indistintamente ad ogni consociato, con ciò negando la natura normativa di ogni previsione settoriale.
5.4. Entrambe tali affermazioni, intese nella loro assolutezza, non possono essere condivise e meritano alcune precisazioni.
5.4.1. In primo luogo, deve rilevarsi che, nonostante la crescente diffusione di quel fenomeno efficacemente descritto in termini di “fuga dal regolamento” (che si manifesta, talvolta anche in base ad esplicite indicazioni legislative, tramite l’adozione di atti normativi secondari che si autoqualificano in termini non regolamentari) deve, in linea di principio, escludersi che il potere normativo dei Ministri e, più in generale, del Governo possa esercitarsi medianti atti “atipici”, di natura non regolamentare, specie laddove la norma che attribuisce il potere normativo nulla disponga (come in questo caso) in ordine alla possibilità di utilizzare moduli alternativi e diversi rispetto a quello regolamentare tipizzato dall’art. 17 legge n. 400 del 1988.
5.4.2. In secondo luogo, non può certamente essere condivisa la conclusione secondo cui un atto può essere qualificato come normativo soltanto se si indirizza, indistintamente, a tutti i consociati.
L’ordinamento conosce innumerevoli casi di disposizioni “settoriali” della cui natura normativa nessuna dubita. Ciò in quanto la “generalità” e l’“astrattezza” che, come comunemente si riconosce, contraddistinguono la “norma”, non possono e non devono essere intesi nel senso di applicabilità indifferenziata a ciascun soggetto dell’ordinamento, ma, più correttamente, come idoneità alla ripetizione nell’applicazione (generalità) e come capacità di regolare una serie indefinita di casi (astrattezza).
Il carattere normativo di un atto non può pertanto essere disconosciuto solo perché esso si applica esclusivamente agli operatori di un settore (nelle specie ai titolari di impianti per la produzione di energia da fonte solare) dovendosi, al contrario, verificare, se, in quel settore, l’atto è comunque dotato dei sopradescritti requisiti della generalità e dell’astrattezza.
In relazione a tale profilo, non può non richiamarsi l’elaborazione giurisprudenziale che ormai da tempo, utilizza, proprio, al fine di distinguere tra atto normativo e atto amministrativo generale, il requisito della indeterminabilità dei destinatari, rilevando che è atto normativo quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori (essendo proprio questa la conseguenza della generalità e dell’astrattezza), mentre l’atto amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori in quanto è destinato a regolare non una serie indeterminati di casi, ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare, una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti.
5.5. Proprio alla luce di tali coordinate ermeneutiche deve, nel caso di specie, riconoscersi la natura normativa del decreto ministeriale in questione.
6. Occorre tuttavia rilevare che nel caso di specie anche l’originario decreto 28 luglio 2005 (oggetto di precisazione da parte del successivo decreto 6 febbraio 2006) è stato emanato senza seguire la procedura prescritta per i regolamenti ministeriali dall’art. 17 legge n. 400 del 1988.
Sotto questo profilo, quindi, il Ministero per le attività produttive, nel procedere alla suddetta interpretazione, ha, in base al principio dell’identità formale del contrarius actus, seguito lo stesso procedimento che già era stato adottato per l’atto su cui si andava ad incidere.
Ebbene, in queste condizioni anzitutto – e sotto un profilo sostanziale - il denunciato profilo di illegittimità andrebbe a colpire, prima ancora che il decreto 6 febbraio 2006, il decreto oggetto 28 luglio 2005, ovvero la fonte stessa del diritto alla tariffa incentivante di cui si lamenta il mancato aggiornamento. Trattandosi allora di regolamento illegittimo (sotto il profilo procedurale) anch’esso andrebbe disapplicato (sebbene non oggetto di specifica impugnazione). Si andrebbe, però, in tal modo a realizzare un risultato ultroneo e contrastante con lo stesso interesse azionato in giudizio dagli originari ricorrenti, perché verrebbe meno lo stesso fondamento del diritto di cui essi lamentano, sotto il profilo quantitativo, il mancato aggiornamento al tasso di inflazione.
Focalizzando poi l’attenzione sul profilo formale, la legittimità procedurale del d.m. 6 febbraio 2006 non può essere contestata, atteso che esso è stato adottato seguendo il medesimo procedimento già seguito in occasione dell’emanazione del primo.
Non può mettersi in discussione, dunque, la sua idoneità ad incidere sull’atto “a monte” di identica natura e la cui efficacia non è – né lo poteva – essere contestata.
7. L’infondatezza delle censura mosse contro il d.m. 6 febbraio 2006 implica evidentemente anche il rigetto dei motivi (dichiarati inammissibili in primo grado sul presupposto della non immediata lesività) proposti avverso la delibera n. 40/2006 dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Si tratta, infatti, di un atto meramente attuativo del d.m. 6 febbraio 2006, di cui gli originari ricorrenti hanno fatto valere solo motivi di illegittimità derivata dalla asserita illegittimità del d.m. 6 febbraio 2006.
8. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve accogliersi l’appello principale proposto da GSE e gli appelli incidentali proposti dai Ministeri dello sviluppo economico e dai Ministeri dell’ambiente e della tutela del territorio. Deve, invece, respingersi l’appello incidentale proposto dagli originari ricorrenti. Per l’effetto, deve essere riformata la sentenza appellata, con conseguente rigetto del ricorso proposto in primo grado.
Data la complessità delle questioni esaminate, sussistono i presupposti per compensare integralmente le spese del doppio grado di giudizio fra tutte le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello principale proposto da GSE e gli appelli incidentali proposti dai Ministeri dello sviluppo economico e dai Ministeri dell’Ambiente e della tutela del territorio.
Respinge l’appello incidentale proposto da Officina dell'Ambiente s.r.l., Montana s.r.l. e dai signori Paola Scuntaro, Mansoldo Andrea, Racani Maurizio, Toffoletti Danila, Toffoletti Danilo, Paina Giancarlo, Rosset Claudio, Della Rossa Livio, Mastella Cristiano, Ghidelli Giulio Natale, Sergio Totis, Mauro Fasano.
Compensa le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2012 con l'intervento dei magistrati:
Giancarlo Coraggio, Presidente
Giorgio Giovannini, Presidente
Gaetano Trotta, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Botto, Consigliere
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Anna Leoni, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore
Raffaele Greco, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
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IL PRESIDENTE
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L'ESTENSORE
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IL SEGRETARIO
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/05/2012
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione