L'8 ottobre il presidente Raisi, in visita ad un campus universitario a Teheran, era accolto da cori ostili delle studentesse, mentre due giorni dopo le proteste sembravano estendersi al settore energetico iraniano, con i social media che mostravano manifestazioni dei lavoratori delle raffinerie di petrolio di Abadan e Kangan e del progetto petrolchimico di Bushehr. Il 13 ottobre membri della milizia Basij si schieravano nelle aree curde, dove sette persone perdevano la vita durante le proteste. Il giorno seguente creava polemiche la diffusione di un video nel quale esponenti delle forze antisommossa, mentre arrestavano una manifestante, la facevano oggetto di approcci a carattere sessuale. Frattanto il regime di Teheran criticava il presidente francese Macron per ingerenze negli affari interni dell'Iran, dopo la sua presa di posizione a sostegno delle proteste - in particolare, i commenti di Macron sarebbero stati suscettibili di incoraggiare le persone violente a infrangere le leggi del paese, come da nota del portavoce del Ministero degli esteri di Teheran. Il bilancio delle vittime dell'ondata di proteste, secondo Amnesty International, era ormai di 144 morti, tra i quali 23 minorenni. Il 17 ottobre il Consiglio dei ministri dell'Unione europea sanzionava 11 persone e quattro organismi pubblici iraniani, tra le quali la polizia morale, con il divieto di ingresso nel territorio europeo e la confisca dei beni eventualmente ivi detenuti, in risposta al ruolo svolto da tali soggetti nella repressione delle manifestazioni di protesta in corso nella Repubblica islamica. In alcune zone del Paese la repressione è stata più violenta, come nel Kurdistan iraniano, al confine con l'Iraq, ed il Belucistan: soprattutto nelle città curde (Mahabad, Djavanroud, Sanandadj, Piranchahr, Saghez, la città natale di Mahsa Amini) gli scontri hanno preso rapidamente le caratteristiche di uno scontro bellico. Intanto assumeva rilevanza la vicenda di Elnaz Rekabi, campionessa italiana di arrampicata che nei giorni precedenti aveva gareggiato ai campionati asiatici in Corea del sud senza indossare il velo islamico: il 18 ottobre un messaggio sull'account Instagram dell'atleta riportava che l'hijab le sarebbe caduto inavvertitamente dopo la sua chiamata improvvisa a gareggiare, e Rekabi, preannunciando il ritorno a Teheran, si scusava con il popolo iraniano. In realtà l'immagine dell'atleta italiana senza il velo aveva già fatto il giro del mondo, e da molti era stata interpretata come sostegno alle proteste in corso da più di un mese in Iran - in questo senso l'atleta aveva scelto consapevolmente di gareggiare senza il velo. Giungeva inoltre la notizia di un'altra vittima della repressione, la studentessa sedicenne Asra Panahi, deceduta secondo il sindacato degli insegnanti dopo un pestaggio da parte delle forze di sicurezza a seguito del rifiuto, da parte sua e di altre compagne di classe in una scuola di Ardabil, di cantare un inno dedicato alla Guida Suprema Ali Khamenei. L'Iran reagiva frattanto alle sanzioni europee, qualificate alla stregua di una palese interferenza negli affari interni e di una violazione del diritto internazionale: quattro istituzioni e 15 funzionari occidentali coinvolti nell'imposizione delle sanzioni erano inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche della Repubblica islamica, come annunciato dal ministro degli esteri Amirabdollahian. Il 19 ottobre, nelle prime ore del mattino, Rekabi di rientro all'aeroporto di Teheran era salutata da una folla di un migliaio di manifestanti, ma rilasciava nuovamente alla stampa dichiarazioni che confermavano il contenuto del messaggio su Instagram del giorno precedente - dichiarazioni che, secondo attivisti sui social media iraniani, era però stata costretta a rilasciare. La difficile situazione della ragazza veniva confermata il 21 ottobre, quando si sapeva che era stata posta agli arresti domiciliari: questo provvedimento, oltre alla minaccia di una pesante confisca di beni appartenenti alla sua famiglia, era stato adottato, secondo fonti del canale della BBC in lingua farsi, come ulteriore pressione per ottenere una sua esplicita dissociazione da ogni collegamento con le proteste in corso nel paese. Nelle stesse ore centinaia di manifestanti tornavano nelle strade di Zahedan (Iran sudorientale) con pesanti slogan contro la guida suprema Ali Khamenei, nella città ove il 30 settembre era stato perpetrato un vero e proprio bagno di sangue, il cui bilancio aggiornato era di almeno 93 vittime. Il 24 ottobre il Procuratore del Tribunale rivoluzionario di Teheran Ali Salehi annunciava il rinvio a processo per 315 delle persone che avevano preso parte nelle settimane precedenti nella capitale alle proteste di piazza dopo la morte di Mahsa Amini: nei loro confronti sarebbero state sollevate accuse di propaganda antisistema, danni all'ordine pubblico e complotto contro la sicurezza, mentre per quattro dei manifestanti si prevedeva la richiesta della pena capitale, per l'utilizzo di armi durante le dimostrazioni. Risultavano invece nella provincia occidentale di Alborz già avviati processi per oltre duecento persone partecipanti alle proteste, con imputazione per alcuni di aver avuto contatti con servizi segreti stranieri. Le persone arrestate in tutto il paese erano ormai oltre 12.000 - tra le quali l'italiana Alessia Piperno, che si trovava nel paese all'inizio delle proteste e aveva manifestato sostegno sui social media, e alcuni cittadini francesi accusati di spionaggio – la donna veniva peraltro rilasciata il 10 novembre, e faceva subito ritorno in Italia. Frattanto il portavoce del Ministero degli esteri dell'Iran Nasser Kanani attaccava gli Stati Uniti per le critiche alla reazione delle forze di sicurezza iraniane contro le dimostrazioni, facendo presagire ulteriori difficoltà nel rilancio dell'accordo sul nucleare iraniano proprio per tali posizioni americane. Il 27 ottobre la commemorazione di Nika Shakarami - una sedicenne dichiarata morta alla fine di settembre dopo dieci giorni dalla sua scomparsa in seguito alla partecipazione alle manifestazioni per la morte di Mahsa Amini - provocava la reazione delle forze di sicurezza, che aprivano il fuoco contro i manifestanti presso il cimitero di Khorramabad, nell'Iran orientale. Anche nel caso di Nika Shakarami la famiglia aveva contestato la versione ufficiale delle autorità, che parlavano di un suicidio non legato alla sua partecipazione alle manifestazioni, e la ragazza era divenuta suo malgrado uno dei simboli delle proteste in corso nel paese. Le proteste peraltro proseguivano nella capitale e in altre città, come Isfahan e Karaj, mentre a Mahabad, nell'Iran nordorientale, i dimostranti scesi in piazza per protestare contro la morte di un manifestante ucciso nei giorni precedenti davano alle fiamme l'ufficio della locale prefettura, e si verificano scontri con le forze dell'ordine. Il presidente iraniano Raisi peraltro collegava l'ondata di proteste all'attentato del 26 ottobre, rivendicato dallo Stato islamico, contro un mausoleo sciita a Shiraz, nell'Iran meridionale, dove perdevano la vita 15 persone a una trentina restavano ferite. Pronta la solidarietà del presidente russo Putin, mentre Raisi non perdeva occasione per attaccare nuovamente l'Occidente, a suo dire sostenitore del terrorismo. Nelle stesse ore opinioni critiche verso le autorità iraniane espresse dalla ministra degli esteri tedesca Baerbock provocavano la convocazione dei rispettivi ambasciatori a Teheran e a Berlino. Il 31 ottobre erano saliti a un migliaio i manifestanti di Teheran per i quali la magistratura preannunciava l'avvio di processi, mentre il portavoce del Ministero degli esteri, in riferimento a possibili nuove sanzioni europee, ammoniva i paesi del Vecchio Continente a non legare i loro interessi a quelli degli Stati Uniti e a non fare scommesse sbagliate sul futuro dell'Iran. Cionondimeno le proteste proseguivano in varie università di Teheran, nonché nella Facoltà di medicina di Tabriz, una città settentrionale dell'Iran. Secondo l'Agenzia degli attivisti dei diritti umani iraniani (Hrana) il bilancio delle vittime dall'inizio delle proteste era di 284 persone, delle quali 45 minori, con un totale di arrestati che superava le 14.000 unità. Il 3 novembre a Karaj, nel corso della commemorazione di un manifestante nel 40º giorno della morte, si verificavano gravi incidenti tra dimostranti e forze di sicurezza, che aprivano il fuoco, culminando nell'uccisione a coltellate di un membro della milizia paramilitare Basij, e nel ferimento di altri cinque membri delle forze dell'ordine. Secondo l'Agenzia Hrana si trattava della 37ª vittima tra le forze dell'ordine dall'inizio delle proteste. I media dissidenti iraniani basati all'estero riferivano che altre manifestazioni si erano tenute nella facoltà di architettura dell'università Pars di Teheran e anche in un ateneo della città originaria di Mahsa Amini, Saqqez, nonché a Isfahan e ad Arak. Il 4 novembre nella provincia sudorientale iraniana del Sistan-Beluchistan le forze di sicurezza aprivano il fuoco sui manifestanti subito dopo la preghiera del venerdì nel capoluogo provinciale di Zahedan ed in altre aree della provincia. La provincia del Sistan-Beluchistan è popolata dalla minoranza etnica baluch, di fede musulmana sunnita, che da tempo lamenta discriminazioni da parte della leadership clericale sciita di Teheran. La provincia aveva partecipato nel suo specifico al movimento generale di protesta dopo la morte di Mahsa Amini: qui in particolare aveva fatto da detonatore il caso del presunto stupro nei confronti di una quindicenne da parte del capo della polizia della città portuale di Chabahar. Il G7 riunito in Germania a Münster condannava la repressione in corso in Iran, con "l'uso brutale e sproporzionato della forza contro manifestanti pacifici e bambini". |