Modifica all'articolo 71 del codice del Terzo settore in materia di compatibilità urbanistica dell'uso dei locali impiegati dalle associazioni di promozione sociale 7 giugno 2023 |
Indice |
Contenuto|Precedenti proposte di legge esaminate nelle passate legislature|Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite|Rispetto degli altri principi costituzionali| |
ContenutoLa norma recata dalla proposta di legge in esame è volta ad escludere, per le associazioni di promozione sociale che svolgono (anche occasionalmente) attività di culto, l'applicazione della normativa di favore prevista (dall'art. 71, comma 1, del D.Lgs. 117/2017) per il cambio di destinazione d'uso dei locali utilizzati come sedi degli enti del terzo settore. In relazione allo svolgimento di attività di culto, la norma in esame limita la propria applicazione alle attività di culto di confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato non sono regolati sulla base di intese, ai sensi dell'articolo 8, terzo comma, della Costituzione.
La destinazione d'uso nella normativa urbanistico-edilizia
Il mutamento di destinazione d'uso di un immobile è considerato urbanisticamente rilevante (indipendentemente dal fatto che avvenga con o senza opere a tanto preordinate) e, come tale, necessita quindi di un titolo edilizio abilitativo.
Solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere.
L'art. 32 del
D.P.R. 380/2001 (
Testo unico in materia edilizia) considera "variazione essenziale", tra le altre, il mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standard previsti dal D.M. 1444/1968. Inoltre l'art. 23
-ter del medesimo testo unico dispone che "salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale".
La disciplina di favore in materia di destinazione d'uso per gli enti del terzo settore
L'
art. 71, comma 1, del D.Lgs. 117/2017 dispone che "le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica".
Ai sensi dell'articolo 4 del codice del terzo settore (D.Lgs. 117/2017) sono enti del Terzo settore, se iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore:
Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del codice si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di interesse generale di cui all'articolo 5 del medesimo codice (si tratta di attività diverse da quelle di culto, quali interventi e servizi sociali o sanitari, attività culturali, educative, cooperazione allo sviluppo ecc.).
La giurisprudenza amministrativa e ordinaria sulla destinazione d'uso per le attività di culto
Per "attività di culto", può intendersi la "pratica religiosa esteriore riservata ai credenti di una determinata fede" (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 181/2013) o "la celebrazione di funzioni religiose riservate ai credenti di una determinata fede, la diffusione del relativo credo, la formazione degli aderenti e dei ministri religiosi" (Consiglio di Stato, Sez. I, n. 3417/2015).
Il mutamento di destinazione d'uso di edifici al fine di un loro utilizzo quali luoghi di culto è stato oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali volte, da un lato, a definire le caratteristiche in presenza delle quali l'edificio è da ritenersi destinato ad attività di culto, e, dall'altro, a considerare l'aspetto autorizzativo del citato mutamento di destinazione. Secondo il Consiglio di Stato (
sentenza n. 683/2011) "emerge come le deroghe al piano regolatore comunale non possano essere di tale entità da elidere le esigenze di ordine urbanistico sottese al piano e, in particolare, non possano legittimare eccezioni alle destinazioni di zona, sulle quali si fonda la struttura concettuale stessa del piano regolatore generale nelle scelte fondanti sull'uso del territorio. Appare quindi corretto affermare che anche i permessi in deroga debbano osservare tali principi e sono quindi legittimi nella misura in cui si allineano alle destinazioni d'uso ammesse dal piano regolatore all'interno delle singole zone". Sul punto si richiama anche la successiva
sentenza del T.A.R. Veneto n. 91 del 27 gennaio 2015, ove si legge che "occorre distinguere il caso di […] esercizio di un'attività associativa all'interno di un capannone industriale-artigianale, nel quale si svolgono, privatamente e saltuariamente, preghiere religiose, attività espressione dello
ius utendi del proprietario ed inidonea a comportare l'assegnazione dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale, da altri e ben diversi casi di mutamenti di destinazione d'uso suscettibili, per l'afflusso di persone o di utenti, di creare centri di aggregazione (chiese, moschee, centri sociali, ecc.) aventi come destinazione principale o esclusiva l'esercizio del culto religioso o altre attività con riflessi di rilevante impatto urbanistico, che richiedono la verifica delle dotazioni di attrezzature pubbliche rapportate a dette destinazioni (cfr. Cons. Stato n. 5778/2011)".
La
sentenza n. 181/2013 del Consiglio di Stato (menzionata anche nella relazione illustrativa della pdl in esame) - nell'esprimersi in merito alla legittimità dell'iscrizione nel registro delle APS di una associazione che nello statuto, oltre a indicare scopi di promozione sociale, prevede anche l'attività di acquistare uno o più immobili per esercitarvi le attività dell'associazione e per offrire un luogo di preghiera ai credenti di una confessione priva di intesa - afferma che "l'interferenza, la sovrapposizione e la commistione tra l'attività di culto, che non può di per sé essere intesa come attività di promozione sociale, il che è del tutto incontestabile, e le altre attività declamate nello Statuto rendono impossibile il riconoscimento all'Associazione come APS non evidenziandosi alcun legame tra l'attività di culto medesima e le altre attività sopra indicate, al di là del legame, del tutto neutro e non certo funzionale, dell'appartenenza allo stesso credo religioso" […] Pertanto, ove, come nella specie, non venga specificamene dimostrato un vincolo strumentale dell'attività di culto rispetto alle attività di promozione sociale che l'associazione intende realizzare, si rischierebbe di consentire un utilizzo del tutto strumentale ed opportunistico della normativa di estremo favore sopra richiamata per porre un edificio destinato al culto in qualsiasi parte del territorio comunale".
Nella
sentenza n. 34812 del 17 luglio 2017, la Corte di cassazione ha ricordato che "è stato chiarito (cfr. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, citate) che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 8/5/2013), derivante dalla diversa destinazione impressa al bene. Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui all'art. 23 ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto. In linea generale, si osserva che l'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in concreto accertato, unitamente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico (cfr., in proposito, Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012, Bittesini, Rv. 251984; Sez. 3, n. 19378 del 15/03/2002, Catalano, Rv. 221951; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003, Censullo, Rv. 225515)".
Di rilievo anche la successiva sentenza della Cassazione (n. 36689/2019) secondo cui, in assenza di idoneo titolo abilitativo, il mutamento della destinazione d'uso di un immobile al fine di trasformarlo in un luogo di culto costituisce un abuso edilizio. Da ultimo il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5437/2021, ha ricordato che "la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che 'anche un mutamento di destinazione d'uso meramente funzionale, ovvero senza la realizzazione di opere edilizie, può determinare una variazione degli standard urbanistici ed è in grado di incidere sul tessuto urbanistico della zona' (Cons. Stato, sez. VI, n. 5041/2019)". Per ulteriori approfondimenti si rinvia al paragrafo "Rispetto degli altri principi costituzionali". |
Precedenti proposte di legge esaminate nelle passate legislatureLa presente proposta di legge riprende l'analoga proposta di legge n. 1059 della XVIII legislatura (la quale peraltro non limitava la propria applicazione alle sole confessioni i cui rapporti con lo Stato non fossero regolati da intese). Si ricorda inoltre che la costruzione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto, la loro ristrutturazione o il cambiamento di destinazione d'uso edilizio o di destinazione urbanistica sono stati oggetto di diverse proposte di legge esaminate congiuntamente, nella XVII legislatura, dalla I Commissione (Affari costituzionali) della Camera (A.C. 486 e abbinate). Il provvedimento è stato però respinto dall'Assemblea della Camera in seguito all'approvazione, nella seduta del 28 novembre 2017, di una questione pregiudiziale di costituzionalità. |
Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definiteLa proposta di legge incide su un profilo rientrante nella materia "governo del territorio", che l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione attribuisce alla competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni. Il "nucleo duro" della disciplina del governo del territorio è rappresentato dai profili tradizionalmente appartenenti all'urbanistica e all'edilizia (cfr. sentenze n. 303 e n. 362 del 2003). Al tempo stesso, all'indomani della riforma del Titolo V, la Corte ha messo in evidenza come la materia vada ben oltre questi aspetti, affermando che il governo del territorio "comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla localizzazione di impianti e attività" (cfr. sentenza n. 307 del 2003). L'ambito disciplinato dal Testo unico in materia edilizia è ricompreso per giurisprudenza costante nella competenza concorrente in materia di «governo del territorio» (sentenze n. 196 del 2004, n. 362 e n. 303 del 2003; sentenza n. 233 del 2015). In questo settore, la Corte ha da sempre annoverato molteplici disposizioni dello stesso testo unico tra i principi fondamentali del "governo del territorio" (ex plurimis, sentenze n. 282, n. 272, n. 231 e n. 67 del 2016, n. 259 e n. 167 del 2014, n. 64 del 2013 e n. 309 del 2011). Secondo la giurisprudenza costituzionale, sono da considerarsi, tra gli altri, principi fondamentali della legislazione dello Stato le disposizioni che definiscono le categorie di interventi edilizi perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (sentenza n. 309/2011). Assume, infine, rilievo (con riferimento al regime delle destinazioni d'uso degli immobili) il limite esterno alla materia "governo del territorio" derivante dalla materia della sicurezza, di competenza esclusiva statale ai sensi dell'articolo 117, comma 2, lett. h), della Costituzione. Ciò in quanto, se nel governo del territorio rientrano gli usi ammissibili del territorio e la localizzazione di impianti o attività, ne restano esclusi i profili legati alla sicurezza degli edifici. Si ricorda inoltre la sentenza n. 63/2016 della Corte costituzionale, relativa alla L.R. Lombardia n. 12/2005, che afferma che non è consentito al legislatore regionale, all'interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo condizioni differenziate per l'accesso al riparto dei luoghi di culto. Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l'effettivo esercizio della libertà di culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe per interferire con l'attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l'effettivo esercizio. Pertanto, una lettura unitaria dei principi costituzionali sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a concludere che la Regione è titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita dalle sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze di eguaglianza, se, ai fini dell'applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata con legge un'intesa ai sensi dell'art. 8, terzo comma, Cost.". Si ricorda inoltre che, sempre con riferimento alla L.R. 12/2005, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 254/2019, ha ritenuto costituzionalmente illegittima la disposizione recata dal comma 2 dell'art. 72 (che introduceva il "Piano per le attrezzature religiose", quale strumento di pianificazione senza il quale non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa dalle confessioni succitate, prevedendo precisi standard urbanistici che il piano era tenuto ad indicare) poiché "per un verso non consente un equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l'ostacolare l'apertura di nuovi luoghi di culto" e quindi "la compressione della libertà di culto che la norma censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost.". |
Rispetto degli altri principi costituzionaliPer quanto riguarda gli altri principi costituzionali si ricorda che, secondo la Consulta, "Le intese di cui all'art. 8, terzo comma, sono […] lo strumento previsto dalla Costituzione per la regolazione dei rapporti delle confessioni religiose con lo Stato per gli aspetti che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune: non sono e non possono essere, invece, una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione, loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8, né per usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose. […] Vale dunque in proposito il divieto di discriminazione, sancito in generale dall'art. 3 della Costituzione e ribadito, per quanto qui interessa, dall'art. 8, primo comma. Ne risulterebbe, in caso contrario, violata anche l'eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l'eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario, e sulla quale esercita una evidente, ancorché indiretta influenza la possibilità delle diverse confessioni di accedere a benefici economici". (sentenza n. 346 del 2002). Ancora, "il rispetto dei principi di libertà e di uguaglianza […] va garantito non tanto in raffronto alle situazioni delle diverse confessioni religiose […], quanto in riferimento al medesimo diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi o confessioni religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune dettata dallo Stato perché ciascuno possa in concreto più agevolmente esercitare il culto della propria fede religiosa. […] la posizione delle confessioni religiose va presa in considerazione in quanto preordinata alla soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini, e cioè in funzione di un effettivo godimento del diritto di libertà religiosa, che comprende l'esercizio pubblico del culto professato come esplicitamente sancito dall'art. 19 della Costituzione. In questa prospettiva tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti. L'aver stipulato l'intesa prevista dall'art. 8, terzo comma, della Costituzione per regolare in modo speciale i rapporti con lo Stato non può quindi costituire l'elemento di discriminazione nell'applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l'esercizio di un diritto di libertà dei cittadini" (sentenza n. 195 del 1993). Nei casi oggetto delle due sentenze richiamate, la Corte ha giudicato costituzionalmente illegittime, per violazione dei principi di uguaglianza e di uguale libertà delle confessioni religiose (articoli 3 e 8, primo comma, Cost.), le disposizioni di due leggi regionali, che prevedevano benefici in favore delle confessioni religiose per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi, nella parte in cui subordinavano l'accesso ai benefici all'esistenza di un'intesa per la regolazione dei rapporti con lo Stato. In particolare, nella sentenza n. 346 del 2002 la Consulta ha ritenuto fondata la questione formulata dal TAR remittente, secondo cui "il condizionare l'erogazione dei contributi a favore delle confessioni religiose al requisito dell'avere queste stipulato un'intesa con lo Stato ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione è in contrasto con i principi di eguale libertà delle confessioni (art. 8, primo comma, Cost.) e di libertà di esercizio del culto (art. 19 Cost.), libertà sulla quale gli interventi pubblici in questione incidono positivamente".
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