XVIII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Lunedì 1 aprile 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Piastra Carlo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SUL PROCESSO DI ATTUAZIONE DEL «REGIONALISMO DIFFERENZIATO» AI SENSI DELL'ARTICOLO 116, TERZO COMMA, DELLA COSTITUZIONE

Audizione del professor Enzo Maria Marenghi, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Salerno.
Piastra Carlo , Presidente ... 3 
Marenghi Enzo Maria , Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Salerno ... 3 
Piastra Carlo , Presidente ... 5 
Mollame Francesco  ... 5 
Marenghi Enzo Maria , Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Salerno ... 5 
Piastra Carlo , Presidente ... 5 

Audizione del professor Gianfranco Cerea, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento:
Piastra Carlo , Presidente ... 5 
Cerea Gianfranco , Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento ... 5 
Piastra Carlo , Presidente ... 12 
Granato Bianca Laura  ... 12 
Cerea Gianfranco , Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento ... 12 
Granato Bianca Laura  ... 13 
Cerea Gianfranco , Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento ... 13 
Granato Bianca Laura  ... 13 
Cerea Gianfranco , Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento ... 13 
Piastra Carlo , Presidente ... 14 
La Mura Virginia  ... 14 
Cerea Gianfranco , Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento ... 14 
Piastra Carlo , Presidente ... 14 
Cerea Gianfranco , Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento ... 14 
Piastra Carlo , Presidente ... 15 

Audizione del professor Felice Alberto Maria Giuffrè, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Catania:
Piastra Carlo , Presidente ... 15 
Giuffrè Felice Alberto Maria , Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Catania ... 15 
Piastra Carlo , Presidente ... 20 
Manca Daniele  ... 20 
Piastra Carlo , Presidente ... 20 
Giuffrè Felice Alberto Maria , Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Catania ... 20 
Piastra Carlo , Presidente ... 21 

(La seduta, sospesa alle 15.45, riprende alle 16.10) ... 21 

Audizione del professor Beniamino Caravita di Toritto, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma:
Piastra Carlo , Presidente ... 21 
Caravita di Toritto Beniamino , Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma ... 21 
Piastra Carlo , Presidente ... 24 
D'Alfonso Luciano  ... 24 
Piastra Carlo , Presidente ... 25 
Caravita di Toritto Beniamino , Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma ... 25 
Piastra Carlo , Presidente ... 25 

Audizione del professor Giuseppe Marazzita, Professore di Istituzioni di diritto pubblico e diritto costituzionale presso l'Università di Teramo:
Piastra Carlo , Presidente ... 25 
Marazzita Giuseppe , Professore di Istituzioni di diritto pubblico e diritto costituzionale presso l'Università di Teramo ... 25 
Piastra Carlo , Presidente ... 30 

Audizione del professor Mario Bertolissi, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova:
Piastra Carlo , Presidente ... 30 
Bertolissi Mario , Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova ... 30 
Piastra Carlo , Presidente ... 35 
D'Alfonso Luciano  ... 35 
Bertolissi Mario , Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova ... 36 
Piastra Carlo , Presidente ... 37 
Bertolissi Mario , Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova ... 37 
Piastra Carlo , Presidente ... 38 

Audizione di rappresentanti della SVIMEZ:
Piastra Carlo , Presidente ... 38 
Giannola Adriano , Presidente della SVIMEZ ... 38 
Piastra Carlo , Presidente ... 41 

Allegato 1: Documentazione depositata dal professor Enzo Maria Marenghi ... 42 

Allegato 2: Presentazione informatica illustrata dal professor Gianfranco Cerea ... 51

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CARLO PIASTRA

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del professor Enzo Maria Marenghi, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Salerno.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato» ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della costituzione, l'audizione del professor Enzo Maria Marenghi, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Salerno.

  ENZO MARIA MARENGHI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Salerno. Il regionalismo differenziato esiste da sempre nella Costituzione italiana. Le recenti modifiche hanno introdotto una ulteriore differenziazione che, a mio avviso, non rappresenta un tertium genus, nel senso che non può considerarsi una forma organica, tant'è vero che è organizzato per materie.
  La domanda che mi pongo è come si conciliano l'unità e l'indivisibilità con questa differenziazione ulteriore? Possono esistere altre forme di differenziazione ulteriore? C'è la possibilità di parametri di concretezza che ci possono dare la certezza del rapporto di relazione tra eguaglianza e diseguaglianza? Questi mi sembrano i temi più o meno concreti dai quali vorrei partire.
  Dico subito che la differenziazione nell'articolo 116 della Costituzione non è senza limiti, è una differenziazione che deve rimanere nei limiti dell'articolo 119. L'articolo 119 è la norma costituzionale che da sempre rappresenta l'altra differenziazione, quella pregiudiziale, quella che guarda al sottosviluppo, quella che guarda alle diseguaglianze. Se noi leggessimo l'articolo 119 della Costituzione, probabilmente troveremmo tutte le categorie tipologiche.
  Provo a leggerlo. Siamo al sesto comma dell'articolo 119, che l'articolo 116 utilizza il rinvio per capire quanta e quale differenziazione possa esserci, quali siano l'altitudine e la longitudine costituzionale: «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona (....)». Tutte queste bellissime cose si possono fare, si devono fare e rappresentano la prima forma di differenziazione, il nucleo originario in senso tecnico-giuridico nei valori costituzionali, ed è il limite insuperabile di compatibilità sistemica dell'articolo 116. Puoi fare tutto, ma devi rispettare questo limite dell'articolo 119. Lo dice espressamente l'articolo 116 «nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119», quindi il principio di incostituzionalità o di costituzionalità è assolutamente dichiarato.
  Nella Costituzione italiana io individuo tre forme di differenziazione. Non è vero che la differenziazione è nata con l'articolo 116. La differenziazione è sempre esistita. Nell'articolo 119 è già insita una differenziazione di base che orienta le risorse per colmare gli squilibri e per favorire la coesione sociale e la solidarietà, salvo poi Pag. 4aggiungere un parametro ulteriore nel corpo dello stesso testo costituzionale.
  Come si fa a coniugare questa differenziazione con l'altra, la differenziazione ulteriore? Esiste un parametro di concretezza? Il mondo globale ha superato l'alluvione normativa italiana. Noi facciamo una legge ogni giorno, anche per offrire un bicchiere d'acqua minerale al professor Marenghi. Il mondo globale, quello che vince probabilmente, ha capito che spesso non c'è bisogno di fare la legge, basta stabilire gli standard, ad esempio in materia ambientale o in materia sanitaria. Cosa sono gli standard? Sono i livelli essenziali. Ci sono nella Costituzione? Certamente ci sono. L'articolo 117 della Costituzione, dopo aver enunciato una serie di cose bellissime, dice appunto che va salvaguardata – e la riserva alla legislazione esclusiva dello Stato – la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
  Questo significa che i livelli essenziali sul piano dell'effettività fanno la differenza quanto alla possibilità di perseguire o meno l'unità e l'indivisibilità ordinamentale. Ci sono quattro parametri di riferimento e tutti vanno letti in rete, perché, se si legge semplicemente la norma sulla differenziazione, si opera un processo di marginalizzazione, che serve esclusivamente per esaltare e ritrovare dei privilegi. Si tratta dunque di trovare degli equilibri, ma la Costituzione italiana serve proprio a mantenere questi equilibri. Se leggete i princìpi fondamentali, possiamo dire che la Costituzione italiana è la Costituzione dei diritti? Non è affatto vero. Gli articoli 2, 4 e 54 sono la Costituzione dei doveri, dei doveri di funzione, quindi a ben leggere, in questo processo di bilanciamento sono i doveri che preparano i diritti. Lo dice la Costituzione, all'articolo 2. Se noi non siamo in grado di fare tutti il nostro dovere, per quanto di competenza, non ci saranno diritti, perché non ci saranno abbastanza risorse.
  È quello che avviene nel bilanciamento tra gli articoli 41 e 42. Questo è un Paese che non sceglie: nell'articolo 42 si fa riferimento alla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, nell'articolo 41, invece, si parla di libero scambio. Anche per la differenziazione non si è trovato un equilibrio.
  Che cosa può dirvi un professore di diritto amministrativo? C'è assoluto bisogno di creare una situazione sistemica. Prima di tutto c'è la pregiudiziale dell'articolo 119, a mio avviso insuperabile: gli sviluppi economici, il sottosviluppo. C'è la protezione dell'articolo 119, che costituisce il limite per l'articolo 116.
  Vengo al secondo profilo. È vero che la differenziazione nasce solo oggi e che senza di essa il sottosistema di regioni, province e comuni non poteva operare? No, non è vero. Da pochi anni, da quando è stata introdotta la novella costituzionale, l'autonomia dei comuni è stata costituzionalizzata nello statuto comunale. Noi abbiamo scritto regolamenti scadenti, non siamo stati capaci di scrivere gli statuti comunali. Lo statuto comunale ha un interesse fondante: sulla base delle risorse, si fa l'autonomia che si vuole. Con quello che c'è oggi di finanza locale, straripante, altro che differenziazione: possiamo decidere di fissare un livello un po’ più alto dal punto di vista sanitario e un po’ più basso per quanto riguarda lo standard ambientale. Lo statuto ci dà questa grande possibilità, andrebbe riscritto.
  Guarda caso, la Costituzione per quanto riguarda le regioni, le province e i comuni, il sistema, parla espressamente di tre princìpi europei costituzionalizzati: sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, che è lo statuto comunale. Lo statuto è molto difficile da scrivere, questo è il problema. I consiglieri comunali italiani non ce la fanno a fare lo statuto. Hanno finito per adottare statuti tipo, nei quali è scritto qual è il colore della cravatta del vigile urbano e come è fatta la bandiera, ma non sanno capire come si orientano le riforme e come si orienta un programma amministrativo. Pertanto, la legge n. 81 del 1993, sull'elezione diretta, è oggetto di qualche bellissimo convegno, che ogni tanto organizziamo, e poi rimane dove sta.
  Ciò significa che le tre differenziazioni devono necessariamente fare sistema, evitando dualismi di fondo tra soprasviluppo Pag. 5e sottosviluppo, eguaglianza e diseguaglianza. Tutti possono coesistere e convivere, tenendo presente che la differenziazione dell'articolo 119 trova un limite e che il limite dell'articolo 119 si ritrova anche nell'articolo 116 per quanto di competenza, perché dice «sentiti gli enti locali», quindi le competenze si rifanno all'altra differenziazione, quella statutaria. Come ho scritto nelle memorie da me depositate (vedi allegato 1), che sono difficili da capire – il giuridichese è sempre difficile da capire – questo è il concetto fondamentale: c'è bisogno di una differenziazione che faccia sistema.
  C'è un'ultima domanda che faccio a me stesso e forse mi do anche una risposta: è possibile misurarla? Sì, nei livelli essenziali dell'articolo 117. Quando lo Stato stabilirà i livelli essenziali con legislazione esclusiva, vuol dire che a quel punto potrà trovare la giusta dose di equilibrio, restituendo il diritto al diritto.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Enzo Maria Marenghi per la disponibilità e per la documentazione depositata di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 1) e la sua presenza.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FRANCESCO MOLLAME. Professore, è stato molto chiaro, chiedo solo un ulteriore chiarimento: cosa intende quando parla di differenziazione che faccia sistema?

  ENZO MARIA MARENGHI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Salerno. I costituzionalisti guardano all'opera di ingegneria istituzionale, e hanno ragione. Un amministrativista guarda alle cose concrete: prestazioni, servizi, livelli essenziali, parità, eguaglianza di trattamento. Noi guardiamo le cose reali. Rispetto a questo la differenziazione deve fare sistema.
  Se lei si ferma alla regione, fa un accentramento regionale, lascia da parte i comuni, li esclude dalla governance italiana e continua a scrivere statuti che sono modesti regolamenti. Invece, all'americana, si deve intervenire come comune: con una programmazione dal basso, con uno statuto comunale, sulla base degli interessi fondanti che devono essere scelti dal comune. E non possono essere messi tutti insieme, attenzione! Bisogna operare una selezione degli interessi. Se il comune decide di essere il comune dell'ambiente o il comune turistico o il comune industriale, tutte le risorse vanno canalizzate nel sistema locale; fa molto di più un comune che utilizza bene le risorse rispetto a quello che stiamo facendo noi, perché questa differenziazione sarà sempre per materie e rispetterà gli obiettivi politici e non quelli ordinamentali.
  Se torniamo alla Costituzione, che tra l'altro hanno saputo scrivere, probabilmente potremo ottenere un miglior risultato.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Marenghi e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professor Gianfranco Cerea, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato» ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della costituzione, l'audizione del professor Gianfranco Cerea, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento che illustrerà delle slide di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 2).

  GIANFRANCO CEREA, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento. Vorrei cercare di dare una dimensione concreta alle affermazioni di principio. E comincerei con alcuni numeri.
  La prima slide (vedi allegato 2) mostra la misura dei rapporti della spesa locale rispetto alla spesa pubblica nei diversi Paesi europei. L'Italia, nonostante abbia un impianto costituzionale regionalista, se notate, Pag. 6 ha la stessa quota di spesa locale della Francia, che è per definizione un Paese centralista. Se volessimo aumentare del 50 per cento la spesa locale, non arriveremmo ai valori della Spagna che, ricordo, è un Paese con differenziazioni dei poteri locali molto accentuate, massime per il Paese basco, a livello intermedio-alto per la Catalogna e poi a geometria variabile per gli altri territori.
  L'Italia, non solo ha un sistema di spesa pubblica poco decentrato, sotto la media europea, comparabile alla Francia e ai Paesi piccoli, ma ha anche una forte centralizzazione del sistema tributario. Vedete che solo il 17 per cento delle imposte e delle altre entrate, compresi i corrispettivi dei servizi e così via, è locale, quindi in buona sostanza l'83 per cento della finanza pubblica è controllata dallo Stato o dagli enti di previdenza che sono un'emanazione dello Stato, perché i livelli della contribuzione sono definiti con legge statale.
  Di conseguenza, c'è una capacità di controllo centrale molto alta, soprattutto sulle entrate, anche perché le due imposte più odiate dagli italiani sono le due imposte locali, l'IMU e l'ICI, che sappiamo che grado di consenso hanno.
  Attuare l'articolo 116 della Costituzione, da questo punto di vista, significa – e qui sembrerebbe esserci la capienza – spostare spese e risorse dalla dimensione centrale alla dimensione locale, però – attenzione – con poteri decentrati diversi da regione a regione, a fronte di fabbisogni locali diversi da regione a regione. E dunque la spesa sarà diversa regione per regione e la capacità di generare localmente gettito di tributi erariali sarà diversa, perché, se una regione è più ricca di un'altra, genererà più gettito e, quindi, le compartecipazioni per finanziare le spese diverse dovranno essere a loro volta diverse.
  L'esercizio è complesso, ma non tanto nella fase iniziale. Poi vi mostrerò una simulazione su una regione. Il problema è dinamico: occorre vedere che cosa accade nel tempo. Farò alcuni esempi. Se i bisogni locali crescono e diminuiscono in misura diversa, ad esempio se in Veneto raddoppia o si dimezza il numero dei bambini, cosa succede alle risorse necessarie per finanziare la scuola, ammesso che la gestione dei servizi scolastici sia passata alla regione Veneto? Questa è la prima domanda. Noi non possiamo sapere oggi quale sarà l'evoluzione nei prossimi cinque, sei, dieci o quindici anni.
  Vengo al secondo passaggio. Se lo Stato adotta decisioni diverse sulla materia dell'istruzione – prendo l'istruzione come esempio – e decide di portare l'obbligo scolastico a 21 anni, cosa accade a livello locale? Se si decide di introdurre tre lingue obbligatorie da apprendere a scuola, la regione Veneto cosa fa? Dove trova le risorse per finanziare l'insegnamento delle tre lingue? Con ciò che è stato stanziato cinque anni prima? Inoltre, che grado di libertà ha la regione? Può rifiutarsi di applicare l'insegnamento delle tre lingue?
  C'è un altro problema, il più grave: se l'economia locale cresce più di quella media italiana, di riflesso i gettiti aumentano. Queste risorse a chi restano? Vanno alla regione o devono essere restituite? Se la regione cresce meno, se l'Italia cresce 100 e il Veneto cresce 80, il 20 che manca dove lo troviamo? È responsabilità della regione Veneto e, quindi, si arrangia col 20 per cento in meno, o lo Stato deve intervenire a compensare? I problemi grossi sono questi, non sono nel definire la questione immediatamente, come vedremo.
  Sembrano problemi, soprattutto quelli del contesto dinamico, molto difficili da risolvere. In realtà, sono già stati tutti affrontati e risolti, con un'esperienza che ha ormai 70 anni ed è l'esperienza sviluppata dalle autonomie speciali. Infatti, l'articolo 116 va a creare delle autonomie regionali un po’ speciali, meno speciali delle speciali, perché a tutela dell'azione regionale c'è una legge del Parlamento, non c'è una norma della Costituzione. Quando noi ci confrontiamo con la Sicilia o con il Trentino, sappiamo che lo statuto e, quindi, le competenze di spesa e le entrate sono regolate da norme costituzionali: il Parlamento è sovrano, e può sempre modificarle, ma è un po’ complicato. Per le altre regioni, in base all'articolo 116, «basta una Pag. 7legge del Parlamento». Anche questo non è così semplice, però si può sempre fare.
  Con la seconda e la terza slide (vedi allegato 2) mostro brevemente che cosa accade per le regioni a statuto speciale: alla Sicilia vanno i sette decimi del gettito dell'IRPEF; i 3,64 decimi del gettito dell'IVA; l'intero gettito di tutte le altre entrate tributarie. Attenzione, questa è la configurazione attuale delle norme finanziarie della regione Sicilia, mentre lo statuto della regione Sicilia prevedeva la devoluzione di tutte le imposte raccolte dallo Stato sul territorio siciliano, quindi questa norma, così come la vedete adesso, cambia lo statuto della regione Sicilia ed è di qualche anno fa. Alla Sardegna vanno sette decimi dell'IRPEF e dell'IRPEG, nove decimi delle imposte ipotecarie, bollo e registro, concessioni, energia elettrica, fabbricazione (accise), cinque decimi delle imposte sulle successioni e donazioni; alla Valle d'Aosta dieci decimi delle imposte erariali sul reddito e sul patrimonio, dell'IVA e dell'accisa sulla benzina e sugli altri prodotti energetici, sui tabacchi, sull'energia elettrica; al Friuli Venezia Giulia 5,91 decimi dell'IRPEF e dell'IRES, 2,95 decimi dell'accisa sulla benzina e 3,034 decimi dell'accisa sul gasolio. Vedete che sono tutte differenti.
  Nel nostro ordinamento l'idea che una regione abbia i 3,50 decimi di un'imposta e un'altra i 3,70 o i 4,32 decimi è concepibile, lo abbiamo già fatto. Attenzione: questo vale anche per le spese, perché per le autonomie speciali l'attivazione della competenza è subordinata all'emanazione di una norma di attuazione.
  Con riguardo alla quarta slide (vedi allegato 2) vi chiederei di guardare la colonna con scritto «materie». Questo è l'elenco delle norme di attuazione emanate dalla nascita delle regioni a statuto speciale fin quasi ai giorni nostri. Se guardiamo agli statuti, la regione con più autonomia di tutte è la Sicilia. Ricordo che nello statuto siciliano c'è persino una norma che dice che lo spostamento delle truppe dell'esercito deve essere autorizzato dal presidente della regione. Lo statuto prevedeva anche un'alta corte, cioè la Corte costituzionale della regione Sicilia. E il consiglio regionale della Sicilia non si chiama «consiglio», ma si chiama «parlamento». Per intenderci, sulla carta tutte le materie esercitate dallo Stato sarebbero di competenza della regione. Sempre con riferimento alla quarta slide (vedi allegato 2) guardate il numero di norme che sono state attuate con oneri (20), guardate quelle del Trentino-Alto Adige (62). Cosa significa questo? Significa che la previsione statutaria in alcuni casi è rimasta lettera morta. Ad esempio – lo dico provocatoriamente, non so se c'è qualche siciliano, ma non voglio offendere nessuno – la Sicilia ha le strade statali su un'isola. Le strade statali su un'isola dovrebbero essere regionali, invece la Sicilia ha ancora strade statali. In Trentino-Alto Adige non c'è più nemmeno una strada statale. Siamo arrivati al punto che il personale amministrativo dei tribunali è a carico del bilancio della regione e l'Università di Trento è finanziata dalla provincia di Trento con le norme dello Stato.
  Questo che cosa significa? Significa che c'è una domanda di autonomia che va al di là delle previsioni statutarie del 1948 o del 1971 e che è attivata su iniziativa locale, poi vedremo con quali conseguenze. Di fatto, noi ci troviamo culturalmente e storicamente dentro una realtà, quella italiana, dove la domanda di autonomia non è mai stata uniforme sul territorio nazionale. Non lo era all'epoca dell'Assemblea costituente, e non lo è stata dopo. Ci sono territori che «tirano», come Trento, Bolzano e la Valle d'Aosta, il Friuli abbastanza, mentre la Sicilia e la Sardegna molto meno. Questo è il punto: c'è una domanda locale di autonomia, da parte delle autonomie speciali, che storicamente ha avuto un'attuazione diversa nel tempo. Questo è il dato di fatto.
  Adesso entriamo nel merito: come giudicare l'attribuzione delle risorse sul piano territoriale. Io lo faccio prendendo a riferimento le norme costituzionali e introducendo tre concetti: l'equità previdenziale, l'equità territoriale e l'equità nazionale.
  Partiamo dall'equità previdenziale. Leggiamola sul piano individuale e poi sul piano territoriale. Se un lavoratore accumula più anni di lavoro, con retribuzioni più alte, avrà un livello di contribuzione Pag. 8previdenziale più alto e, quindi, avrà una pensione più alta rispetto a un altro. Siamo d'accordo? È chiaro il concetto?
  Se lo trasferiamo sul piano territoriale questo cosa significa? Significa che, se in una regione il numero di occupati è più alto e i salari sono più alti, la spesa per le pensioni sarà più alta rispetto a un territorio dove il livello di occupazione è più basso e dove i salari sono più bassi.
  Da questo punto di vista, la spesa pensionistica sarà tendenzialmente più alta nelle regioni del Nord e più bassa nelle regioni del Sud. Viceversa, la componente assistenziale (disoccupazione, reddito di cittadinanza, chiamiamoli come vogliamo) sarà più alta nei territori più deboli. L'integrazione delle pensioni al minimo sarà più alta nelle regioni economicamente più deboli. Questo è perfettamente equo.
  L'equità territoriale ha a che fare con il livello del prelievo locale: se il mio comune decide di avere un livello di prelievo più alto, la spesa sarà più alta; se decide di avere un prelievo più basso, la spesa sarà più bassa, quindi noi avremo una differenziazione sul piano territoriale che, a parità di altre condizioni, dipenderà dalle scelte per le tariffe e per le imposte condotte a livello locale.
  Vengo ora all'equità nazionale. Attenzione, perché qui magari col riferimento che qualcuno ha fatto storicamente al residuo fiscale si è creata un po’ di confusione. La Costituzione afferma che ciascuno di noi è chiamato a contribuire in base alla propria capacità contributiva e gode di spese legate ai fabbisogni. Attenzione, se il mio reddito è il doppio di quello del presidente o viceversa, io non ho diritto ad avere il doppio di servizio. Siamo d'accordo? Se lo trasferiamo sul piano territoriale e la sua regione ha redditi più alti dei miei, pagherà più imposte, ma ha diritto ad avere più servizi dallo Stato? La risposta è una sola: no, in base ai fabbisogni. Infatti, se fosse una regione povera, paradossalmente non pagherebbe imposte, ma cosa facciamo? Chiudiamo le scuole e la sanità? Se io pago il doppio di un'altra regione, ho diritto ad avere il doppio della sanità o il doppio della scuola? Chiaramente no. Ciascuno paga in base alla capacità contributiva e riceve in base ai fabbisogni. Questo vale sul piano individuale e, così come lo abbiamo declinato per gli altri due princìpi sul piano territoriale, deve valere per i territori, altrimenti passa indirettamente il principio che, se io pago il doppio delle imposte, ho diritto al doppio di servizio o a un rimborso, che non mi sembra una cosa molto ragionevole.
  La settima slide (vedi allegato 2) mostra il rapporto tra il prelievo fiscale dello Stato e il PIL regionale pro capite. Cosa notate? È una retta perfetta, c'è una proporzionalità assoluta. Chi paga più imposte? Bolzano, poi la Lombardia, poi Trento. C'è una proporzione diretta con la ricchezza. La Calabria paga meno imposte di Bolzano. Per forza, ha un reddito che è la metà. Ciascun territorio contribuisce al finanziamento della spesa pubblica con il prelievo erariale, in proporzione alla sua ricchezza. Il principio individuale è applicato anche su scala territoriale. Dovrebbe pagare più imposte la Calabria? È come dire che i poveri devono pagare più imposte. Si può fare, però è una scelta.
  L'ottava slide (vedi allegato 2) mostra la spesa dello Stato ripartita sul territorio regionale. Non è il dato che è utilizzato da alcuni direttamente, perché la fonte va un po’ messa a posto, nel senso che la spesa dello Stato che è pubblicata e regionalizzata dalla Ragioneria non comprende alcune voci di spesa, che non sono piccole cose, ovvero i contributi sociali a carico dei dipendenti e tutte le spese per gli interessi sul debito pubblico non pagati all'estero. Lasciamo perdere.
  Io ho distinto quattro componenti. La prima è la spesa diretta, che sono i servizi offerti direttamente dallo Stato sul territorio, ovvero la giustizia, la scuola, l'università, la Corte dei conti e cose di questo genere, esclusa la difesa, perché non è che la base di Taranto la facciamo pagare o la consideriamo un vantaggio per gli abitanti della Puglia, è un bene comune.
  Ci sono poi i trasferimenti agli enti territoriali. Queste sono le somme che lo Stato versa alle regioni e ai comuni. Ci sono poi i trasferimenti agli enti di previdenza. Pag. 9Come sapete, grosso modo, l'INPS spende 300 miliardi di euro, con i contributi ne raccoglie 200 e 100 sono a carico del bilancio dello Stato e sono le spese per la componente assistenziale.
  C'è poi la spesa comune: sono gli oneri sugli interessi del debito pubblico, le spese per il Parlamento, per il Presidente della Repubblica, per la difesa, il finanziamento dell'Unione europea, ripartiti in modo uguale tra tutti, perché sono un servizio comune a tutti. Vedete poi la colonna con il totale riportata in fondo a destra. C'è una certa differenza, perché, se notate, ci sono regioni che arrivano a 11.000 euro e regioni che sono a 6.800. Le differenze sono marcate. Il Veneto è 8.900. Cosa spiega questa differenza? È arbitrio?
  Nella nona slide (vedi allegato 2) trovate un modellino molto semplice che spiega la distribuzione della spesa dello Stato, esclusi i trasferimenti per l'assistenza, nelle regioni ordinarie del Centro-Nord. Lasciamo fuori le speciali e prendiamo solo i territori di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, fino al Lazio, che lascio fuori perché è un problema con Roma capitale, con i Ministeri e così via.
  Il modello spiega il 95 per cento delle differenze tra la spesa territoriale. Resta, non spiegato, un 5 per cento di differenze, quindi è quasi tutto. Da che cosa dipende? Dipende dalla popolazione e dalla quota di residenti in montagna.
  Il secondo modello della medesima slide (vedi allegato 2) spiega soltanto il 90 per cento ed è la superficie e la montagna. Provo a spiegarlo con un esempio un po’ provocatorio su Lombardia e Sardegna. La Sardegna ha un sesto degli abitanti della Lombardia, ha una superficie leggermente superiore a quella della Lombardia ed è un'isola. Il fabbisogno della Sardegna in termini di interventi pubblici è un sesto di quello della Lombardia? No. Di conseguenza, il valore pro capite, che è lo sport preferito degli italiani, da questo punto di vista è fuorviante, perché io devo guardare la dimensione del territorio e la sua complessità. Scavare una galleria in montagna costa molto, e inoltre bisogna farne tante di gallerie, quindi da questo punto di vista la montagna è costosa.
  Ho provato a fare qualche calcolo. Una regione come la Liguria, dove il 50 per cento della popolazione risiede in montagna, avrà un fabbisogno di spesa tra i 600 e i 1.100 euro in più per abitante, contro il Veneto, che è densamente abitato e con poca popolazione di montagna, che rispetto alla media ha un risparmio di 600 euro.
  Nella undicesima slide (vedi allegato 2) ho fatto una simulazione: immaginiamo di dare un pro capite identico in tutte le regioni, comprese le speciali, e lo correggiamo in base al parametro della popolazione di montagna e della superficie, che sono un correttivo. Se il mio è un territorio disgraziato, dovrò spendere di più; se il mio è un territorio come la Puglia, dove di montagna non ce n'è, avrò dei vantaggi ovviamente. Non mi dilungo su queste cose.
  L'ultima colonna della slide riporta le differenze tra una spesa uguale dappertutto, corretta per i fabbisogni, e la spesa storica. Ci sono delle differenze, non entriamoci, le guardiamo così. Io ho dato la stessa spesa ai comuni delle regioni del Nord e a quelli delle regioni del Sud, quindi ho trattato tutta Italia come il territorio delle regioni ordinarie del Centro-Nord. Nella dodicesima slide (vedi allegato 2) osservo che, se io distribuisco la spesa in modo uniforme in tutta Italia, il Nord ha una spesa storica inferiore di 30 miliardi di euro rispetto alla spesa standard, il Centro è in pari, il Sud e le isole hanno 30 miliardi di euro di spesa in più, perché c'è la componente dell'assistenza e della solidarietà.
  Di fatto, il Sud beneficia di una spesa superiore alla media – non è una media banale del pro capite ma è corretta – di 30 miliardi di euro, che perde il Nord. Pertanto, ogni cittadino del Nord di fatto rinuncia a 1.100 euro di spesa in favore del Mezzogiorno, così come io, contribuente con un reddito alto, pago imposte per una spesa che non ricevo perché magari va a uno che si è fatto trapiantare il cuore e che faceva il metalmeccanico. Questa è la redistribuzione. Pag. 10
  I Ministeri, cioè gli apparati romani, costano circa 10 miliardi di euro, che sono 170 euro ad abitante.
  Nella tredicesima slide (vedi allegato 2) vediamo i dati relativi al Veneto. La spesa standard media pro capite in Veneto dovrebbe essere di 8.352 euro, quel pro capite uguale dappertutto corretto in base ai fabbisogni. Il Veneto deve versare il suo contributo per il sostegno al Sud di 1.127 euro e poi deve dare al Lazio e a Roma 171 euro. La spesa standard corretta è di 7.055. La spesa storica osservata è di 6.995. C'è una differenza di 60 euro ad abitante. Ciò vuol dire che il Veneto è trattato come deve, non c'è alcuno svantaggio particolare. Come mostrato nella quattordicesima slide (vedi allegato 2) se noi dessimo al Veneto tutte le competenze che ha la provincia di Trento, la compartecipazione finale sarebbe al 35 per cento su tutti i tributi.
  Attenzione, questo è un esercizio che abbiamo fatto su una regione come il Veneto, ma come è messo il Trentino che prende i nove decimi delle imposte? Come mostrato nella quindicesima slide (vedi allegato 2) i tributi statali nel 2015 hanno generato sul territorio del Trentino circa 4,15 miliardi di euro. Le compartecipazioni al gettito sono di 3,8 miliardi di euro e sono il 90 per cento. Rispetto a questo il Trentino, così come fa Bolzano, verso allo Stato italiano, come concorso sugli interessi del debito pubblico, 452 milioni di euro all'anno. Attenzione, incassa i nove decimi e restituisce 452 milioni di euro ogni anno. Non era scritto su alcuno statuto. Ci sono poi i gettiti arretrati e le riserve all'erario, quindi restano 3 miliardi. Attenzione, il Trentino ha una serie di competenze non previste dallo statuto e che non rientrano formalmente nei nove decimi, quindi le compartecipazioni corrette, per tenere conto di questo, sono 2,6 miliardi di euro. Se considero poi i maggiori costi della montagna, la quota di compartecipazione corretta del Trentino al gettito dei tributi erariali è al 36 per cento contro il 35 del Veneto. Possiamo discutere di quell'1 per cento, ma non fa molta differenza.
  Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che a 70 anni di distanza dall'autonomia, con due statuti e tutto quello che è successo in Italia, alla fine la spesa dello Stato sul territorio, considerando i vari fattori correttivi, è la stessa in Veneto e in Trentino. In Trentino è più alta perché il Trentino è tutto montuoso. Trento e Bolzano hanno la superficie della Campania, con una popolazione di quasi sei volte minore. Questo è il problema che abbiamo.
  Adesso guardiamo il contesto dinamico. La sedicesima slide (vedi allegato 2) riporta i dati pro capite del 1998, del 1951 e del 1971. Per darvi un'idea, nel 1938 il reddito per abitante del Trentino era 85,7, quello della Sardegna era l'83 per cento e quello della Campania era 82, quindi si trattava di una situazione simile. Nel 2015 il reddito di Bolzano è 1,3-1,5 volte la media italiana, ma soprattutto – attenzione – il reddito complessivo del Trentino tra il 1971 e il 2015 è cresciuto del 46 per cento in più della media italiana, quello di Bolzano del 64 per cento.
  In pratica, questo ha prodotto un aumento delle risorse a disposizione delle autonomie. Però i conti tornano. Cosa è successo? In pratica, la maggior crescita ha generato maggiori entrate, ma lo Stato italiano ha rinegoziato ogni volta col sistema delle autonomie di Trento e di Bolzano le condizioni di equilibrio, per cui non gli ha tolto le entrate, o meglio, ha chiesto loro 450 milioni di euro di rimborso e poi gli ha chiesto di assumersi competenze di spesa, quindi ha trasformato le maggiori disponibilità economiche in occasione di minor spesa per lo Stato, con questi risultati.
  Qual è il problema? Se guardiamo la graduatoria riportata nella medesima slide (vedi allegato 2), ad esempio il Veneto ha fatto un +122, ma il Friuli ha fatto 96, la Sicilia 86, la Sardegna 84. Nel panorama delle autonomie speciali, ci sono realtà che sono cresciute molto e altre che sono cresciute meno. E cosa è successo? Praticamente nelle realtà che sono cresciute meno non sono arrivate nuove competenze di spesa e si sono ridiscussi i finanziamenti. Per trasformarlo in gettito, Trento e Bolzano, essendo cresciuti più della media italiana, garantiscono un gettito di 2.500 e di 3.600 euro in più di quelli che avrebbero Pag. 11garantito se fossero cresciuti come il resto d'Italia.
  A questo punto proviamo a fare un paio di considerazioni. In primo luogo, se volessi finanziare le ulteriori forme di autonomia previste dall'articolo 116 della Costituzione, il problema vero riguarderebbe la responsabilità. Nel caso delle autonomie speciali, la maggior crescita si trasforma in maggiori risorse a disposizione, che si trasformano in ampliamento delle competenze; se invece c'è minore crescita, non c'è compensazione. Se l'economia del Trentino fosse cresciuta dell'80 per cento anziché del 140, lo Stato italiano non avrebbe alzato le compartecipazioni, quindi il territorio è finalmente responsabile della propria crescita, perché oggi paradossalmente se l'economia della Sicilia cresce più della media italiana, ai siciliani va solo male, perché devono pagare più imposte e il bilancio resta lo stesso di prima. Per la regione Puglia e la regione Campania, se le cose vanno bene, il bilancio non cambia, non c'è responsabilità.
  Dunque, se noi volessimo attuare l'articolo 116 in una logica di responsabilità, dovremmo dire: la partita è aperta, se voi crescete e fate meglio degli altri, le risorse restano vostre e poi discutiamo come usarle; se va male sono problemi vostri. Oppure, applicando il principio di neutralità, dovremmo dire: se le cose vanno bene lo Stato si fa restituire i quattrini, se le cose vanno male ripianiamo.
  Penso si sia capito quale soluzione preferisco, perché quest'ultima non sarebbe responsabilizzante. Pensate che se, per assurdo, domani mattina in Trentino più nessuno pagasse le imposte, il bilancio della provincia di Trento sarebbe zero, con tutte le conseguenze che ne derivano. In una comune regione italiana, se la gente smette di pagare le imposte, il bilancio della regione cambia di poco, cambia perché cala il gettito dell'IRAP, ma per il resto rimane quello di prima. Perché l'Italia non cresce?
  Un altro problema sono le sperequazioni territoriali, anche a parità di spesa. Faccio una battuta sui livelli essenziali delle prestazioni. Vi sfido. Per favore, prendiamo in considerazione le prestazioni di matematica in terza superiore? Poi, però, discuto perché in terza C i risultati in matematica sono diversi rispetto alla terza A. Lo Stato italiano, anche nelle sue competenze più strette, non è in grado di garantire l'uniformità. La scuola non dà risultati identici, così come l'università, al Nord e al Sud, in Campania e in Lombardia, in Veneto rispetto all'Emilia-Romagna e, all'interno della stessa scuola, tra la terza A e la terza C possono esserci differenze molto ampie. Dipende dal professore che è stato nominato e dipende da una serie di condizioni. Pertanto, l'uniformità non esiste e a determinare soprattutto i grandi esiti dell'azione pubblica è il capitale sociale. C'è una letteratura sterminata su questi aspetti.
  Il Sud – io l'ho anche scritto – fa fatica a organizzare l'azione pubblica perché ha un capitale sociale modesto. Perché il capitale sociale è modesto? Perché nel 1951 in Calabria il 35 per cento della popolazione era ancora analfabeta. Questo non era colpa dei calabresi, era colpa dello Stato unitario che se ne era fregato. Agli inizi del Novecento su cento aventi diritto alla scuola elementare sapete in quanti si iscrivevano? Ottanta. In quanti arrivavano in quinta elementare? In sei. In Trentino-Alto Adige, come parte dell'Impero d'Austria, la scuola era obbligatoria fino a quattordici anni dal 1774. Il tasso di analfabetismo nel censimento del 1921 era al 3 per cento. Perché il Trentino viaggia? Vive di rendita.
  Arrivo alle osservazioni finali. L'attuale spesa statale è distribuita in modo sostanzialmente equo ed è legata in generale ai fabbisogni della popolazione del territorio, come abbiamo visto, quindi, se si parte dalla spesa storica, non si sbaglia di molto.
  Costruire indicatori di costi e di fabbisogni standard per specifiche competenze è quanto mai difficile, se non impossibile. Sapete perché? Come fate a confrontare i fabbisogni della Campania con quelli della Lombardia? Son troppi pochi casi. Pensate alla presenza degli stranieri nelle aule scolastiche, alla diffusione dell’handicap, alle scuole di montagna, alla concentrazione urbana. Chi è che fa gli indicatori su questi Pag. 12temi con dodici osservazioni in mano? Statisticamente è impossibile.
  È inevitabile, come avvenne per le regioni a statuto speciale, partire comunque con la spesa storica o da medie nazionali. L'ha fatto Einaudi nel 1948 su incarico di De Gasperi e lo farete voi, non è difficile.
  Il trasferimento delle competenze richiede necessariamente un consenso ampio. La provincia di Trento per portare a casa la competenza sulla scuola ha impiegato dodici anni. Sapete perché? Che cosa accade al corpo insegnante della regione? Cito il Veneto, perché è il primo esempio che mi passa per la mente, ma potrei citare la Lombardia o l'Emilia. Se tutti gli insegnanti statali attualmente in servizio in Veneto decidono di non passare nel ruolo regionale, cosa facciamo? Raddoppiamo il numero degli insegnanti?
  Faccio un secondo esempio. A Gianfranco Cerea era stato promesso che sarebbe diventato dirigente scolastico. Arriva la regione Veneto, mi riconferma o no? Se io entro in servizio nella regione Veneto e poi voglio trasferirmi a Bergamo o a Palermo, posso? Sì che si può, ma va tutto negoziato contrattualmente e, se pensate di farlo dalla sera alla mattina, vi faccio i miei auguri. Nella provincia di Trento saranno lenti quelli del Trentino – io sono bergamasco di nascita, quindi posso anche fare qualche battuta – ma ci hanno impiegato dodici anni. Non sottovalutate i problemi.
  Volete un altro esempio? Il passaggio delle strade dell'ANAS. Basta prendere la cartina. Pensiamo al personale, ai camion, alle case cantoniere, ai sacchi del sale. Chi gestisce e decide questi aspetti? Lo fate con legge in Parlamento? Cambiano completamente i numeri. E ho preso due settori facili. Volete i beni culturali? Volete l'università?
  Ripeto che la prima tabella vale, va fatto, ma non pensate di farlo dalla sera alla mattina. C'è una rete di rapporti da costruire da far tremare le vene ai polsi. Pensate alla scuola. Infatti, il Trentino sapete con chi ha cominciato? Con gli uscieri, i bidelli. Ci sono voluti tre anni per fare quello, perché lì era più facile. In seguito ha cominciato con le scuole elementari, poi le medie, poi le superiori. Adesso ha fatto anche l'università. Ci ha messo quarant'anni per arrivare all'università.
  Il finanziamento della spesa deve avvenire facendo ricorso a compartecipazioni applicate alla generalità dei tributi e non solo ad alcuni. Faccio un esempio: se decido di finanziare il Veneto con la compartecipazione all'IRPEF, domani faccio la riforma dell'imposta, faccio la flat tax e la chiamo personal income tax, la norma prevede la compartecipazione all'IRPEF e il Veneto perde il diritto alla compartecipazione.
  Lo statuto del Trentino del 1971 prevedeva la compartecipazione all'IGE, all'imposta di ricchezza mobile e così via. Sapete quando è riuscito a concordare con lo Stato le norme finanziarie che sostituivano l'IGE? Nel 1989.
  Per chiudere, l'articolo 116 della Costituzione va attuato, ma non illudetevi di farlo dalla sera alla mattina.

  PRESIDENTE. La ringraziamo per la sua relazione.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  BIANCA LAURA GRANATO. Se in una regione non viene mai attivato un servizio, come si può calcolare il fabbisogno standard di quella regione? C'è una situazione che rischia di cristallizzarsi, di non entrare mai in un computo e poi di venire esclusa. Per esempio, ci sono delle regioni dove i centri riabilitativi per soggetti autistici non esistono, per esempio in Calabria, ma non è che non esista il fabbisogno, perché noi abbiamo tantissimi soggetti autistici.

  GIANFRANCO CEREA, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento. Basta prendere la spesa dello Stato e trasferirla alla regione sulla base storica, perché non ci sono alternative. La realizzazione di centri per gli autistici è una competenza dello Stato o della regione?
  Allora sono problemi della Calabria. Mi dispiace, ma ognuno si tiene il Governo che ha eletto e deve esserne felice. L'autonomia Pag. 13è questo. Guardate che l'autonomia è catena corta. Anche in questi giorni c'erano i dati sui gettiti tributari. Trento e Bolzano sono gli unici con l'IRPEF che è aumentata rispetto al 2007. Se c'è una buca sulla strada in Trentino, la colpa è di uno solo, dell'assessore ai lavori pubblici; non c'è il Ministero, non c'è l'ANAS, non c'è la provincia, non c'è il comune, si va a pescare quello. Se l'economia va male, il primo a soffrirne è il bilancio provinciale, quindi la prima ad aver interesse che non ci siano crisi è la provincia.
  Questo sistema di responsabilità nel nostro ordinamento non c'è. Io ve l'ho detto prima provocatoriamente: se in Veneto o in Lombardia decidono di non pagare più imposte, il bilancio della regione o del comune di Milano non cambia, perché tutto dipende dai trasferimenti statali: ciò è deresponsabilizzante. Se la regione Calabria non ha fatto i centri per gli autistici, è perché i calabresi non hanno voluto che ci fossero. Avete votato sistematicamente partiti che hanno ritenuto di non doverlo fare, avete la classe politica che avete scelto, quindi lo Stato non può sostituirsi al volere dei calabresi. Sarete voi che cambierete le norme, avendo la potestà di farlo.

  BIANCA LAURA GRANATO. Io mi riferisco al riparto di spesa a livello nazionale.

  GIANFRANCO CEREA, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento. La sanità della Calabria costerà come quella del Veneto. Le risorse sono più o meno le stesse.
  Il problema vero, anche sui costi standard, è un altro. Mi viene ogni volta da ridere con la storia della siringa: io posso fare due contratti, vale a dire «consegnami nel cortile dell'azienda sanitaria il fabbisogno di siringhe di tutto l'anno di tutti gli ospedali della mia regione» oppure «consegnami le siringhe giorno per giorno nel reparto man mano che servono». La siringa avrà lo stesso costo? No.
  Il problema italiano è che a parità di risorse gli esiti sono molto diversi da territorio a territorio e la ragione va ricercata nel capitale sociale. È un problema di persone. Se noi garantiamo 100 euro e diamo finalmente un po’ di soldi ai poveri, secondo voi le reazioni saranno le stesse da parte di tutti i poveri? No, ci sarà qualcuno che tra dieci anni sarà ancora a piangere sul libro paga e qualcuno che tre mesi dopo è schizzato fuori dalla povertà.

  BIANCA LAURA GRANATO. Il problema è che, se non si dà intanto a quelle regioni, che soffrono di uno svantaggio sicuramente imputabile al capitale sociale, la possibilità di recuperare e, invece, si cristallizzano situazioni di bilancio in maniera standardizzata, a questo punto è un cane che si morde la coda: quelle regioni non colmeranno mai il gap.

  GIANFRANCO CEREA, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento. Forse adesso diventerò antipatico del tutto. Come dimostra l'esperienza delle regioni a statuto speciale, i processi devono essere reversibili. Se una regione vuole più poteri va benissimo, ma, passato un certo numero di anni, facciamo il bilancio. Se hai mantenuto gli standard o hai migliorato gli standard, va bene; se fai meno degli altri, mi dispiace, ti tolgo il potere. Intervengo con i poteri sostitutivi. Noi avremmo bisogno di uno Stato forte che fa azioni di indirizzo e controllo e, se necessario, si sostituisce al potere locale. Questo è il punto.
  Sul capitale sociale c'è un dato molto interessante, che è quello dei test INVALSI. In seconda elementare, se voi guardate i dati, non c'è differenza tra i bambini delle regioni del Nord e i bambini delle regioni del Sud. La Basilicata, il Veneto, il Trentino e la Calabria sono lì, punto in più punto in meno, ma le differenze sono ridicole, e soprattutto è una nuvola, non si capisce dove è meglio. Purtroppo, mano a mano che la scuola pubblica dipana i suoi effetti, si apre una forbice, per cui il Nord decolla e il Sud affonda, il Trentino raggiunge la Finlandia e alcune regioni meridionali passano sotto la Turchia.
  Perché? I test INVALSI distinguono tre tipi di variabilità: la variabilità tra scuole, Pag. 14la variabilità tra classi e la variabilità all'interno della classe. Al Nord in generale la variabilità all'interno della classe è altissima e spiega l'86-90 per cento delle differenze. Vuol dire che nella stessa classe ci siamo lui che è bravissimo e io che sono un citrullo. È una rappresentazione casuale del mondo e convivono bravissimi e somari. La differenza tra classi è modesta, così come tra scuole.
  Al Sud è modesta la differenza all'interno della classe, perché al Sud ancora oggi le classi vengono fatte mettendo in prima A i figli del medico, dell'avvocato, dell'ingegnere, del farmacista e in prima F i figli del manovale, del muratore, del bracciante e così via. Con quale risultato? L'hanno visto negli Stati Uniti. Quand'è che hanno invertito il processo di integrazione negli Stati Uniti? Quando hanno fatto le classi, non mettendo i bianchi da una parte e i neri dall'altra, ma mettendo i bianchi e i neri insieme.
  Purtroppo al Sud si continua a fare una scuola di classe con i soldi dello Stato e questo fa sì che non si formi il capitale sociale, perché, se io sono un citrullo e lui è bravissimo, noi impariamo a convivere, lui imparerà a rapportarsi con me che non sono molto bravo e io, per quanto lo odi, imparerò a riconoscergli che è molto più bravo di me, per cui impara prima le tabelline e la poesia di Carducci. Se, invece, lui è in una classe e io sono in un'altra, io lo odierò a morte, perché, anche se sono bravissimo quanto lui, essendo in una classe di soli citrulli, finirò per essere sommerso e non lo conoscerò mai. Nasce una società spaccata in due, che è il problema del Sud, portato avanti e concretizzato con i soldi dello Stato.
  Io ho parlato con le amiche di mia moglie che insegnano al Nord e ho chiesto loro: «Come viene fatta la classe?» Mi hanno risposto: «Si tira a sorte tra l'elenco degli iscritti». Guardando i dati INVALSI sembra di no, perché l'86 per cento delle differenze è all'interno della classe.
  Un altro piccolo dettaglio riguarda il mercato del lavoro. La quota di iscritti alla formazione professionale in provincia di Trento è il 18 per cento degli aventi diritto, al Sud è il 2 per cento. Al Nord trovano lavoro e al Sud fanno fatica. Scusate se ho debordato e ho esagerato.

  PRESIDENTE. Anzi la ringraziamo.

  VIRGINIA LA MURA. Per quanto riguarda i test INVALSI, si tiene conto della variabilità tra scuole e tra classi. Qual è il terzo parametro?

  GIANFRANCO CEREA, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento. La variabilità all'interno della classe. Comunque, se consulta il sito voce.info troverà un mio articolo sull'argomento. Ci sono tutti i dati, distinti per matematica e italiano.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Cerea per la disponibilità. Penso di fare cosa gradita a tutti i commissari, chiedendo al professore di depositare una copia delle slides, perché erano molto interessanti, e dei dati.

  GIANFRANCO CEREA, Professore di economia pubblica presso l'Università di Trento. I dati sono fondamentali. In Veneto è stato costruito un discorso sul residuo fiscale prendendo a riferimento i dati dei conti pubblici territoriali, e chi ha elaborato le tabelle si è guardato bene dal fare il totale nazionale. Se avesse fatto il totale nazionale, avremmo scoperto che le entrate pubbliche in Italia superano di 70 miliardi di euro le spese, e per la stessa fonte è così da vent'anni.
  Dunque, in base ai dati con cui è stato alimentato il dibattito in Veneto sull'autonomia, il bilancio pubblico italiano sta creando da 50 a 70 miliardi di euro all'anno di avanzo, da vent'anni. Per quella fonte, non solo il debito pubblico italiano non esiste, ma lo Stato italiano sta prestando soldi all'economia, mentre in realtà il debito è di 50 miliardi di euro nello stesso anno. C'è una differenza di 120 miliardi. Sono dati sbagliati, nati per una certa finalità, anche per colpa mia, negli anni Ottanta, ma poi non più rivisti criticamente. Sono andati Pag. 15avanti a farli come gli asini, col paraocchi, sempre uguali. Sono, quindi, fuorvianti.
  In Veneto, allora, sono convinti di pagare molte più imposte rispetto a quanto ricevono in cambio, che in parte è giusto, ma le differenze non sono quelle. Un conto è dire che la solidarietà del Nord ammonta a 1.100 euro per abitante– poi possiamo discutere se sia tanto o poco, ma 1.000 euro su 11.000 non sono una cifra folle – altro conto è dire che ammonta a 5-6.000 euro.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cerea e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professor Felice Alberto Maria Giuffrè, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Catania.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato» ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della costituzione, l'audizione del professor Felice Alberto Maria Giuffrè, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Catania.

  FELICE ALBERTO MARIA GIUFFRÈ, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Catania. Anzitutto, ringrazio la Commissione e il Presidente per avermi dato questa opportunità di essere audito su un tema che, ovviamente, mi è molto caro per due ragioni. In primo luogo perché insegno istituzioni di diritto pubblico e diritto costituzionale. In secondo luogo, perché insegno, sono nato e vivo in una città di una regione a statuto speciale. Peraltro, mi occupo di regionalismo facendo parte della Commissione paritetica Stato-regione Sicilia per l'attuazione dello Statuto, per conto della regione siciliana. È, quindi, un tema molto interessante e molto caldo.
  Vorrei anzitutto osservare che la procedura prevista dall'articolo 116, terzo comma, della Costituzione sconta, a mio avviso, una certa vaghezza, vaghezza in fondo tipica delle norme costituzionali. Le norme costituzionali spessissimo sono elaborate, dal punto di vista della tecnica redazionale, a maglie larghe, proprio perché deve essere poi la politica a riempirle con interventi attuativi di rango legislativo o per via convenzionale o addirittura consuetudinaria.
  Nel momento in cui, però, nella scorsa legislatura, dopo un decennio di silenzio, si è dato avvio al processo di differenziazione con le pre-intese, a mio modesto avviso è mancata una tappa che avrebbe dovuto essere precedente all'avvio di tale procedura. Sarebbe stato necessario dare attuazione all'articolo 116 della Costituzione per specificare quale avrebbe dovuto essere la procedura per arrivare alla differenziazione.
  Ci sono stati in passato anche esempi significativi di attuazione di norme costituzionali in materia di regionalismo che hanno segnato un percorso. Possiamo, ad esempio, risalire all'inizio degli anni ’70, quando è stato attuato il secondo regionalismo, dopo quello delle regioni a statuto speciale: la legge Scelba, all'articolo 6, prefigurava e tracciava i binari entro cui il processo di approvazione degli statuti ordinari avrebbe dovuto «correre».
  Questo non è stato fatto nella scorsa legislatura, e, a mio avviso, oggi scontiamo alcune carenze, in termini di procedura, che a questo punto devono essere colmate, come state facendo, in via convenzionale. Nel momento in cui, però, dobbiamo colmare le lacune procedimentali in via convenzionale, non possiamo che incrociare l'aspetto sostanziale e materiale del processo di differenziazione regionale con l'aspetto procedurale; dobbiamo quindi muovere dal profilo sostanziale, ovvero dalla collocazione del processo di differenziazione, nel quadro della Costituzione, e in particolare del Titolo V, per poi capire quale possa essere il procedimento più adeguato a inquadrare e a portare a termine questo processo.
  Se allora dobbiamo partire da un profilo sostanziale di inquadramento costituzionale, dobbiamo sottolineare, a mio avviso, come nella filosofia dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione non vi sia la volontà di transitare dalla dicotomia regioni a statuto ordinario/regioni a statuto Pag. 16speciale a un altro diverso modello, quello che una volta ho definito della specialità diffusa.
  Non credo che dal Titolo V si possa individuare questo tipo di volontà del legislatore costituente. Il regionalismo resta nel nostro ordinamento, fino a un'eventuale riforma, un regionalismo dicotomico: da un lato, le regioni a statuto ordinario; dall'altra parte, le regioni a statuto speciale. Esiste una modalità per assicurare un processo di differenziazione alle regioni a statuto ordinario, a mio avviso, sul presupposto che oggi la competizione, specialmente di fronte al processo di integrazione europea, non si svolge solo tra sistemi Paese, ma anche tra regioni e tra aree territoriali; quindi è giusto e opportuno che alcune regioni valorizzino, con ulteriori conferimenti di competenze legislative e amministrative, le vocazioni del territorio per meglio competere nella macroarea europea.
  Credo sia questo, in fondo, a muovere, al di là di alcune istanze più politiche, i sistemi produttivi delle aree più sviluppate del Paese (Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia) a richiedere ulteriori competenze, e attuare quindi, finalmente, dopo dieci anni, il processo di differenziazione.
  Se, però, accettiamo il presupposto che l'articolo 116, terzo comma, della Costituzione non prefiguri un superamento della dicotomia regioni a statuto ordinario/regioni a statuto speciale, e quindi non prefiguri un passaggio a una specialità diffusa, per cui ogni regione sostanzialmente avrebbe uno statuto speciale, dobbiamo concludere che il terzo comma dell'articolo 116, a mio avviso, non è stato redatto e pensato per consentire una richiesta in blocco di autonomia differenziata su tutte le materie previste nel terzo comma dell'articolo 117 e di alcune previste nel secondo comma (organizzazione della giustizia di pace, istruzione, tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali). A mio avviso, non c'era questo nella mente del legislatore della revisione costituzionale.
  È vero che, quando la norma è scritta, come sanno i giuristi, si allontana dalla volontà di chi l'ha redatta, dall'organo legislativo che l'ha approvata, e poi vive di vita propria, ma non possiamo non considerare che la norma deve essere inquadrata, specialmente la norma dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, in un contesto di riferimento complessivo, che muove dall'articolo 5 della stessa Costituzione.
  La nostra Costituzione valorizza e mette in equilibrio il principio di unità e indivisibilità della Repubblica e il principio dell'autonomia e del decentramento, e anzi richiede che vengano adeguati i metodi della legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
  Le esigenze dell'unità si sperimentano innanzitutto nella coesione sociale e territoriale, nell'eguale godimento dei diritti civili, politici e sociali, nello sviluppo, per quanto possibile armonico, di tutte le regioni del Paese e nel tentativo di colmare il ritardo di alcune regioni.
  Questo principio è tanto importante che la Corte costituzionale, ormai nella lunga storia del regionalismo italiano, prima quello speciale e poi quello ordinario, ha plasmato o corretto in maniera «ortopedica» le forme del regionalismo proprio avendo presenti questi fari, queste coordinate.
  Questo è avvenuto anzitutto con le regioni a statuto speciale. Parlavo prima della Sicilia, che nell'immediato dopoguerra è stata il terreno di sperimentazione, prima ancora dell'entrata in vigore della Costituzione, del regionalismo. Addirittura, furono i docenti italiani di diritto coloniale a occuparsi del regionalismo, perché non c'erano altri esempi, e quindi prendevano a prestito alcune soluzioni che avevamo utilizzato per le colonie in termini di autonomia. E fu approvato uno Statuto praticamente federale.
  Se andiamo a leggere ancora oggi – ci sarà qualche deputato o senatore siciliano in questa Commissione – lo Statuto della Sicilia sembra un patto tra uno Stato federato e una federazione. Molto presto, però, in Sicilia la Corte costituzionale, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, è intervenuta in maniera «ortopedica» per ricondurre a unità l'ordinamento complessivo. Pag. 17
  E questo è avvenuto anche dal 1970 in poi. Nel momento in cui si va alla prima fase del regionalismo, proprio in virtù dell'interesse nazionale – come si chiamava allora – delle istanze unitarie, riassunte nell'articolo 5 della Costituzione, – diramandosi però poi in diverse direzioni, la Corte costituzionale ha piano piano riplasmato il regionalismo anche delle regioni a statuto ordinario, prevedendo istituti nuovi, innominati (potere di indirizzo e coordinamento, ritaglio delle materie, poteri sostitutivi) che non esistevano in Costituzione.
  Da un regionalismo competitivo, quindi, basato sulla separazione delle competenze, si è passati a un federalismo cooperativo o solidale, che poi è quello in vigore in Germania e anche negli Stati Uniti, che è partito come Paese a federalismo competitivo liberale, ma poi il ruolo della Federazione nel Novecento, dal New Deal in poi, dalla crisi degli anni Trenta, è diventato preponderante.
  Lo stesso è avvenuto dopo il 2001, con il Titolo V, nel quale ancora oggi ci troviamo a operare.
  Non mi sto dilungando; credo che, per fare una buona riforma, dobbiamo cercare di imparare dal percorso già fatto.
  Nel 2001, con la riforma che ha introdotto anche l'articolo 116, terzo comma, della Costituzione si è tentato di passare a un regionalismo spinto, ma anche in quel caso la Corte costituzionale è intervenuta prestissimo «ortopedicamente». Basti pensare alla famosissima sentenza n. 303 del 2003, che ha sancito la chiamata in sussidiarietà; dalla sussidiarietà prevista solo in campo amministrativo – le funzioni amministrative non seguono più le competenze legislative, ma in linea di massima devono essere attribuite all'ente, e quindi al territorio più vicino ai cittadini – si è passati, con la famosa sentenza sulla cosiddetta «legge obiettivo», alla sussidiarietà anche legislativa, per cui un'apparentemente rigida separazione di competenze si è trasformata in un criterio di ripartizione mobile.
  Poi sappiamo che ci sono le materie trasversali: coordinamento della finanza pubblica, oggi particolarmente importante, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e tutte quelle altre materie attraverso cui l'ordinamento interviene ritagliando e comprimendo l'autonomia legislativa e amministrativa delle regioni, riportando al centro le competenze.
  Anche il cosiddetto federalismo fiscale, in fondo, si è arenato di fronte a questi meccanismi, oltre che ovviamente di fronte alla crisi finanziaria che ha attraversato il nostro Paese. Perché dico questo?
  Se oggi puntiamo a realizzare una differenziazione che deve veramente consentire ad alcune regioni di proiettarsi in maniera dinamica, come il tessuto produttivo di quelle regioni ha dimostrato di saper fare, nel contesto europeo quanto meno, lo dobbiamo fare tenendo i piedi per terra.
  Se chiediamo tutto, inevitabilmente molto presto inizierà un processo di ritaglio che renderà questo tutto molto poco, o comunque meno di quanto si intendeva realizzare. Questo, a mio avviso, può avere un'incidenza molto pesante, molto grave sulla tenuta sociale e sulla coesione politica.
  Nel momento in cui le popolazioni di un determinato territorio ritengono che i loro rappresentanti abbiano ottenuto sostanzialmente il passaggio di competenze legislative, amministrative e di risorse corrispondenti – come si dice, ai nove decimi o agli otto decimi del riscosso – in realtà ci può essere il brutto risveglio. Ce n'è la prova. Già si è verificato nel corso degli anni.
  Riterrei, quindi, necessario lavorare sul contenuto di questi disegni di legge, che dovrebbero essere redatti sulla base delle intese, sul presupposto che l'articolo 116, terzo comma, della Costituzione non è stato scritto per chiedere – almeno, questa è la mia modestissima opinione – in blocco trasferimenti di competenze. A quel punto, si parlerebbe di regioni a statuto speciale.
  Badate che anche le regioni a statuto speciale sono fortissimamente compresse rispetto alle loro competenze. La Sicilia, in base agli articoli 36 e 37 dello Statuto siciliano, avrebbe diritto a riscuotere tutte le tasse della ricchezza prodotta nel proprio territorio. Restano allo Stato, secondo il disegno dello statuto siciliano, soltanto le Pag. 18accise, le imposte sui tabacchi e sul lotto, non altro. Tutto il resto dovrebbe essere direttamente riscosso dalla regione Siciliana, che dovrebbe anche riscuotere le imposte su quella quota di ricchezza prodotta sul territorio siciliano dalle aziende che hanno in Sicilia stabilimenti, pur trovandosi come sede legale in un altro territorio. Pensiamo, per esempio, una per tutti, all'Eni.
  Ovviamente, questo disegno non è stato mai attuato. Io, pur essendo rappresentante della Commissione paritetica per l'attuazione dello Statuto della regione siciliana, ritengo che sia difficile attuarlo, perché è un disegno predisposto prima dell'entrata in vigore della Costituzione. Si pensava a una sperimentazione quasi federale. C'era l'indipendentismo e il malessere è stato messo a tacere con questo strumento.
  Obiettivamente, però, pensare di riscuotere tutte le tasse sulla ricchezza prodotta in Sicilia è irrealistico. Bisognerebbe, piuttosto, accordarsi per cercare di capire quali sono veramente le competenze trasferite e quali i contributi di solidarietà, che nel resto del territorio nazionale si pagano anche, ad esempio, con la ricchezza prodotta dall'Eni, che ha moltissimi stabilimenti in Sicilia.
  Sotto questo profilo, dunque, bisognerebbe fare uno sforzo e un bagno di realismo, non foss'altro perché il processo di ridefinizione in via pretoria non si può arrestare. È meglio definire alcune cose in maniera puntuale invece di chiedere tutto e poi magari scoprire che giuridicamente non è possibile, perché alcuni princìpi si proiettano ben oltre i processi di attuazione legislativo.
  A questo punto, vengo alla seconda parte: come dobbiamo interpretare l'articolo 116, terzo comma della Costituzione? Qual è la procedura da utilizzare? Qual è il valore delle intese? Qual è il valore della legge di approvazione a maggioranza assoluta da parte del Parlamento?
  Sulla base delle premesse di ordine sostanziale che ho svolto, mi sento di dissentire dai miei colleghi auditi in precedenza in questa Commissione – mi pare forse anche durante la scorsa legislatura – i quali hanno equiparato il procedimento del 116, terzo comma, all'articolo 8 della Costituzione e, quindi, al procedimento di approvazione delle intese.
  Si tratta di procedure affatto differenti, di materie assolutamente diverse. Nell'articolo 8 si tratta sostanzialmente di attuare un principio di libertà, che è la libertà religiosa e, in particolare, il profilo istituzionale della libertà religiosa, senza togliere o aggiungere competenze agli organi legislativi dello Stato o ridistribuirle ad altri organi.
  Qui, invece, abbiamo un intervento che va a incidere in maniera importante, ritengo per certi profili anche opportuna, sulla forma di Stato. Se vi è un intervento che va a incidere sulla forma di Stato, incrociando princìpi fondamentali dell'ordinamento repubblicano (unità e indivisibilità della Repubblica), richiamati dalla Corte costituzionale anche su questa vicenda – rammento le sentenze sul referendum nel Veneto – ovviamente non si può ritenere che il Parlamento – che rappresenta la comunità nazionale nel suo complesso e il luogo in cui si devono realizzare le mediazioni, che consentono poi la solidarietà – sia spettatore passivo. Non mi sento, obiettivamente, di poterlo dire. E ci ho pensato.
  Tanto ci ho pensato che, quando alcuni miei colleghi, qualche settimana fa, mi hanno proposto di firmare il documento dei 30 costituzionalisti, passato sulla stampa con questa denominazione, ho ritenuto di non firmarlo. Perché?
  In effetti, anche occupandomi delle questioni siciliane, volevo riflettere sul punto. Poi ritengo che forse non sia opportuno fare le battaglie dei contrapposti proclami. Riflettendo sulla questione, anche in vista, in questi pochi giorni che mi sono stati dati, di quest'audizione, ho ritenuto di esporvi il mio pensiero al riguardo: non è possibile ritenere che il Parlamento debba soltanto ratificare queste intese.
  I precedenti richiamabili, a mio avviso, non sono le intese, ma semmai il processo che ha portato all'approvazione degli statuti ordinari, dal 1971 in poi. Che cosa è Pag. 19avvenuto in quel frangente? Anche lì la dottrina si divideva: si tratta di legge soltanto formale, che vale ad approvare, come la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, un atto contenutisticamente formato altrove? O si tratta di una legge sostanziale, in cui dunque il Parlamento esprime il suo punto di vista e la sua sintesi, risultante dalla dialettica tra le forze politiche con visioni del mondo e della società differenti, ma anche dalla dialettica tra rappresentanti di diverse aree del Paese, che nel luogo in cui si esprime la sovranità nazionale devono trovare appunto la sintesi?
  Secondo me, si deve invece assegnare un ruolo fondamentale al Parlamento. Il problema è capire come.
  Se ci fosse stata una legge, sarebbe stato lo stesso Parlamento a definire il percorso. Magari, quel percorso poi sarebbe stato valutato dalla Corte costituzionale, le regioni avrebbero potuto fare ricorso contro la legge recante certi passaggi procedimentali. Così non è stato. E se è così non è stato, bisogna inventarlo, il procedimento. Il ruolo, la palla passa alla prassi parlamentare, alle convenzioni costituzionali. Qual è la mia idea?
  La mia idea è che l'intesa debba essere, ovviamente, trasfusa, trasferita in disegni di legge, che poi vengono valutati ovviamente nelle Commissioni parlamentari competenti, le quali possano emendare, magari con un voto tecnico, alcune parti, se lo ritengono. Dopodiché, ovviamente, se l'intesa viene emendata in Commissione, non può passare al voto dell'Aula. Secondo me, non si può infatti disconoscere che l'articolo 116, terzo comma, preveda una legge atipica o rinforzata, contemplando necessariamente l'intesa con le regioni.
  Si tratta, quindi, di far sì che tutte le istanze che il legislatore ha inteso far esprimere nell'ambito di questo procedimento regolato a maglie larghe dall'articolo 116, terzo comma, possano trovare espressione, emergere in quella che poi sarà la legge in cui il Parlamento comporrà gli interessi contrapposti ed esprimerà, come deve fare istituzionalmente, la sintesi che deve andar bene per tutta la comunità nazionale.
  Le Commissioni cominciano a esaminare i disegni di legge, eventualmente decidono se proporre taluni emendamenti. In questo caso, gli emendamenti richiedono un nuovo intervento del Governo, che dovrebbe rinegoziare, almeno in quelle parti emendate, l'intesa, che poi tornerebbe in Parlamento, fino ad arrivare in Aula.
  Capisco che quest’iter potrebbe rallentare il percorso della differenziazione. Poiché, però, il sistema delle autonomie è tutto collegato, richiamo un precedente, che riguarda lo Statuto siciliano.
  Come molti di voi ricorderanno, fino a un paio di anni fa – è stato il Presidente Mattarella, con la sua ultima sentenza da giudice della Corte costituzionale, a modificare opportunamente il meccanismo in base alla clausola di maggior favore dell'articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 – le leggi regionali siciliane erano impugnate dal commissario dello Stato con una procedura assolutamente differente. Nonostante il Titolo V, le leggi regionali siciliane avevano un controllo preventivo, quindi non potevano entrare in vigore se impugnate dal commissario dello Stato. La sentenza Mattarella ha posto fine a questo meccanismo, adeguando l'impugnazione delle leggi regionali siciliane all'impugnazione successiva delle leggi statali.
  Che cosa accadeva in Sicilia con una prassi che si è sviluppata e che è stata rispettata per decenni, fino a qualche anno fa?
  Il presidente della regione, a fronte di un'impugnazione da parte del commissario dello Stato di alcune norme di una legge approvata dall'assemblea regionale, procedeva alla promulgazione parziale. Si accettava, quindi, il ritaglio dell'atto legislativo, consentendo a quella parte dell'atto legislativo non impugnato dal commissario dello Stato di entrare in vigore. Questo poneva dei problemi, perché ovviamente dava un potere al presidente della regione non scritto da nessuna parte. Anche lì c'era stato un riempimento, per via convenzionale, di un vuoto legislativo, ma qualche spunto secondo me questa procedura lo può offrire.
  Nel caso che ci occupa, di fronte alla pagina bianca, o quasi bianca, rappresentata Pag. 20 dall'articolo 116, terzo comma, si potrebbe accettare di mandare avanti in Aula quella parte delle intese che le Commissioni hanno ritenuto di non emendare. Peraltro, spesso le intese sono strutturate per compartimenti, per gruppi di materie. Non è detto che i rilievi che una Commissione parlamentare può fare, o anche l'Assemblea nel suo plenum, riguardino tutto il pacchetto, magari possono riguardare una parte.
  Leggendo i giornali in questi ultimi giorni, penso ad esempio ad alcuni trasferimenti che riguarderebbero grandi musei. Anche qui, già si pensa al ritaglio delle materie. Non è detto, quindi, che tutto il pacchetto possa essere considerato meritevole di emendamenti secondo le Commissioni competenti. Si potrebbe andare avanti con la parte su cui non c'è discussione e procedimentalizzare la revisione della parte su cui il Parlamento, che ripeto esprime la sovranità dell'intero popolo italiano e che opera i riequilibri su tutto il territorio, ritiene di dover intervenire.
  Mi fermo qui per non abusare del vostro tempo.

  PRESIDENTE. La ringraziamo per la sua relazione.
  Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANIELE MANCA. Ringrazio il professore. Sono anch'io molto d'accordo sul tema che l'articolo 8 non può prestarsi, così come in qualche caso è stato dichiarato, a definire e blindare un'intesa tra una regione e lo Stato.
  Mi chiedo e le chiedo quale potrebbe essere lo strumento legislativo che determini i criteri entro i quali definire il regionalismo. Il regionalismo è già differenziato. Sono nate le regioni, e le regioni sono diverse, hanno sviluppato una loro autonomia, al di là del giudizio che ciascuno di noi può dare sulla qualità dei processi legislativi di ogni regione; il regionalismo è già differenziato. Tuttavia, con quale strumento legislativo si potrebbero definire i criteri entro i quali sviluppare questo nuovo processo?
  Mi convince l'idea che si potrebbe arrivare a una discussione sulle singole intese, facendo passare, dunque, solo le parti condivise. Tuttavia, credo che anche muoversi senza un minimo di criteri entro i quali tutto questo si sviluppa, quindi sottraendo al Parlamento la possibilità di determinare quella funzione fondamentale di indirizzo legislativo entro il quale l'Esecutivo dovrebbe agire nell'attuazione delle intese, sia un limite a mio avviso importante. Secondo me, anche in questo caso la fretta è cattiva consigliera, perché si rischia poi di introdurre nuovi conflitti di competenze tra regione e Stato, che possono essere più lunghi rispetto, invece, a un processo legislativo che individui lo strumento adatto entro il quale sviluppare i criteri fondamentali.
  Sappiamo tutti, anche leggendo le bozze di intese, che i «progetti» delle singole regioni sono diversi. C'è chi parte ispirandosi alla volontà di avere di più chi dalle funzioni, chi dalla necessità di sviluppare, tramite l'autonomia, migliori servizi e chi, invece, dal pretendere cose diverse. Se non si fissano i criteri, il rischio di uno stallo, di un conflitto tra Stato e regioni, a mio avviso è molto ampio. Quale potrebbe essere lo strumento legislativo adatto a raccogliere i criteri entro i quali le intese potrebbero muoversi?

  PRESIDENTE. Do la parola al nostro ospite per la replica.

  FELICE ALBERTO MARIA GIUFFRÈ, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Catania. Sì, l'ho detto prima: secondo me, sarebbe necessaria una legge attuativa.
  Intanto, sarebbe necessaria perché il Parlamento, nei suoi due rami, è l'unico deputato a fissare questi criteri. La Costituzione fissa alcuni «paletti» generali, ma poi il concreto bilanciamento deve farlo il Parlamento, che deve assumersi la propria responsabilità, altrimenti assisteremmo all'ennesima fuga del legislatore dalle proprie competenze, come avviene ad esempio molto spesso oggi in materie di impatto, che coinvolgono scelte tragiche. Anche in questo caso sarebbe un po’ troppo. Pag. 21
  A mio avviso, i profili dovrebbero essere due. Si potrebbe pensare a una legge che, anche in forza della giurisprudenza costituzionale, che almeno dal 2001 a oggi si è formata anche in materia di coordinamento della finanza pubblica – anche rispetto alle regioni speciali – prefiguri una sorta di summa dei princìpi che la giurisprudenza è andata consolidando. A quel punto, avremo un parametro sufficientemente certo.
  Se il legislatore riuscisse a precostituire una griglia di paletti, di limiti, anche sul piano finanziario – parliamoci chiaro, quello è il fulcro del problema – cristallizzando con le opportune modifiche, con gli opportuni bilanciamenti, ciò che è emerso in questi anni di regionalismo post riforma costituzionale, avremmo uno strumento che ci aiuterebbe a razionalizzare il nostro regionalismo, a dare anche certezza e, soprattutto, a non creare false aspettative nelle comunità territoriali. Questa è una cosa a cui tengo molto.
  Ciascuno per la sua parte, noi che studiamo queste cose, voi che siete legislatori, oggi dobbiamo evitare di lacerare il nostro tessuto sociale più di quanto può essere lacerato, e per fare questo non dobbiamo creare false aspettative. Se c'è un complesso di princìpi ormai consolidato, prevarrebbe inevitabilmente, anche se si approvasse un'intesa che non rispettasse questi princìpi. Basterebbe un'impugnazione e dopo qualche anno si andrebbe a una razionalizzazione per via pretoria, ipotesi che non auspico mai, se non come ultima istanza, dal momento che, per me, le scelte le deve fare il Parlamento. Faremmo un buon servizio al Paese, al regionalismo, aggiungo, e ai territori.
  In secondo luogo, ma l'ho detto prima, per assicurare certezza – sarebbe servito prima, non so se adesso c'è il tempo per intervenire in seconda battuta e farlo lo stesso – sarebbe opportuno che queste scansioni procedimentali non fossero affidate soltanto alle convenzioni, ai parlamentari, alla prassi, ma fossero previste in una legge attuativa dell'articolo 116, terzo comma, in modo da depurare, una volta che la legge è promulgata dal Capo dello Stato e diventa legge dello Stato e non di una maggioranza, il processo da possibili incrostazioni che possano far gridare una parte all'altra al complotto antiregionalista o, al contrario, al complotto ultraregionalista.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Giuffrè e gli auguro buon lavoro.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 15.45, riprende alle 16.10.

Audizione del professor Beniamino Caravita di Toritto, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato» ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della costituzione, l'audizione del professor Beniamino Caravita di Toritto, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma.

  BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma Grazie, presidente. Sono sicuramente momenti importanti di riflessione quelli che si possono svolgere su questo tema. Si tratta di ragionamenti che riguardano questioni di grande delicatezza istituzionale.
  Credo sia necessario sul tema del regionalismo differenziato mettere dei capisaldi, in modo da poter poi discutere partendo da punti fermi che, naturalmente, possono o meno essere condivisi, ma costituiscono almeno dei punti di partenza.
  Se ragioniamo sull'articolo 116, terzo comma, della Costituzione troviamo un elemento generale, due elementi di sistema e due elementi procedurali. Quali sono i due elementi di sistema da cui dobbiamo partire e dei quali dobbiamo comunque tenere conto?
  Il primo elemento di sistema è che il 116, terzo comma, della Costituzione si inserisce in un testo costituzionale che prevede Pag. 22 come principio l'unità e l'indivisibilità della Repubblica e la necessità di rispettare i princìpi del decentramento.
  Il secondo elemento di sistema da cui prendere le mosse è che il regionalismo differenziato proposto nell'articolo 116, terzo comma, è comunque cosa diversa dal regionalismo speciale, che è garantito dai primi due commi dell'articolo 116. È una questione diversa da questi altri modelli.
  Un elemento sostanziale è il rispetto dei princìpi dell'articolo 119 della Costituzione, vale a dire il rispetto dei princìpi dell'autonomia finanziaria e della struttura finanziaria del nostro sistema e, in particolare, il rispetto dei princìpi dell'autonomia e del fatto che le risorse derivanti dalle fonti dei commi precedenti di tale articolo devono consentire a comuni, province, città metropolitane e regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
  Ci sono poi due elementi procedurali su cui vorrei richiamare l'attenzione. Si tratta di due elementi procedurali che, in realtà, non hanno solamente una struttura procedurale, ma hanno anche un importante profilo sostanziale.
  Il primo elemento è l'approvazione con legge, ossia il terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione, per il quale «la legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata». Questo è il primo profilo che riguarda i rapporti fra questo modello di regionalismo differenziato e il Parlamento.
  Il secondo profilo, anch'esso di carattere procedimentale con una sua crucialità, è quello dell'inciso dell'articolo 116, terzo comma, che recita «sentiti gli enti locali». Si pone, quindi, un problema: la procedura per il regionalismo differenziato deve, da un lato, tener presente quei due grandi profili del sistema, ma, dall'altro, deve dialogare con il Parlamento e con il sistema degli enti locali.
  Si tratta di due esigenze, a mio giudizio, difficilmente aggirabili e superabili. Se andiamo a guardare le bozze che hanno circolato – in merito dovrei dire che questo modello di circolazione non è stato ispirato a grande trasparenza, perché circolano, quasi ai limiti della clandestinità, bozze di cui non si sa quale sia l'ultima versione – e nelle quali si trovano due grandi meccanismi di funzionamento.
  In primo luogo, qualsiasi considerazione si voglia fare, va detto, in realtà, che non si tratta di un processo di estensione della potestà legislativa, ma, al limite, di un processo di specificazione degli ambiti materiali che possono essere delegati. Si tratta di un'operazione che rientra nell'ambito dell'articolo 117, terzo comma, e non dell'articolo 117, secondo comma. Ci sono delle conseguenze su cui mi soffermerò fra un momento.
  Il secondo grande blocco e grande schema di funzionamento di queste bozze di intesa è composto dall'attribuzione di specifiche funzioni e competenze amministrative al sistema regionale. Sotto qualsiasi punto di vista lo guardiamo quello che sta avvenendo finora è un unicum nella storia costituzionale italiana, perché tutti i processi di trasferimento sia della funzione legislativa, sia delle funzioni amministrative hanno visto un fondamentale passaggio parlamentare.
  Gli Statuti delle regioni a Statuto speciale sono leggi costituzionali che hanno importanti passaggi in Parlamento. È inutile che descriva la procedura delle leggi costituzionali. La riforma del 2001, che ampliava l'autonomia, è anch'essa una legge costituzionale, così come sono state leggi costituzionali quelle del 2006 e del 2016, che hanno avuto poi un rigetto popolare.
  Gli Statuti del 1972 erano – sì – Statuti che dovevano essere approvati con legge statale, ma nel concreto procedimento cosa avvenne? La regione adottò il testo, il testo fu esaminato dalle Commissioni parlamentari competenti in materia di affari costituzionali, che proposero delle modifiche ai testi degli Statuti; tali modifiche tornarono poi in sede di Consiglio regionale, dove furono riadattate e, infine, approvate con legge. Erano, però, questioni che riguardavano l'ordinamento interno delle regioni. Non avevano l'impatto che, invece, queste operazioni di trasferimento hanno. Pag. 23
  Le altre grandi operazioni di trasferimento sono avvenute – sì – con decreti legislativi delegati, quelli del 1972, quello del 1977 e quello del 1998 (il cosiddetto decreto Bassanini), ma sono avvenute con decreti legislativi delegati che avevano alla base una legge delega significativa e, a valle della legge delega, prima dell'emanazione da parte del Presidente della Repubblica, un importante passaggio in sede di Commissioni parlamentari. Pertanto, tutta quella parte di competenze per la prima volta sarebbe attribuita nel nostro ordinamento senza un passaggio parlamentare.
  Ho esaminato il testo anche per quanto riguarda l'ampliamento delle funzioni legislative. Non so se ci siano successive modifiche, ma il testo che ho esaminato, come dicevo prima, in realtà non prevede un ampliamento di competenze legislative. L'articolo 117, terzo comma, prevede che allo Stato spetti la determinazione di norme di principio e alle regioni l'esercizio di una potestà legislativa di dettaglio, che poi dettaglio non è, essendo molto di più; in realtà, quasi tutte le sottomaterie che vengono elencate nelle bozze di intese potrebbero tranquillamente già essere assegnate. Si tratta di una potestà legislativa che potrebbe essere tranquillamente svolta dalle regioni anche sulla base del vigente articolo 117 della Costituzione.
  Diciamoci la verità, c'è un'operazione importante di definizione dell'ambito legislativo, che è significativa, ma che, in realtà, riguarda, o potrebbe riguardare, tutto il sistema regionale. Se si ridefinisce la materia ordinamento della comunicazione, perché quella materia dovrebbe valere solo per una qualsiasi regione, senza la ridefinizione concettuale per tutte le altre regioni?
  C'è una parte importante, naturalmente – non nascondiamocelo – ed è la parte dello spostamento delle funzioni. Sulla parte dello spostamento delle funzioni siamo di fronte a una mancanza di dialogo col Parlamento – ed è la prima volta che ciò avverrebbe – ma anche a una mancanza di dialogo col sistema degli enti locali.
  Nelle bozze delle intese c'è un articolo che mi ha colpito. Non so se sia presente qualche parlamentare del Veneto. Nella bozza dell'intesa con il Veneto, in materia ambientale si dice che sono attribuite alla regione Veneto alcune competenze di spettanza delle province, dei comuni e della città metropolitana.
  Il testo dell'accordo prende delle competenze sistematicamente di spettanza degli enti locali e le trasferisce alla regione. Questo è previsto nella bozza di intesa con il Veneto in maniera puntuale, laddove si stabilisce che si tratta di funzioni delle regioni, ma probabilmente è previsto in molti altri articoli in cui si trasferiscono funzioni che nell'ordinamento vigente spettano ai comuni, non solo non sentendo il Parlamento, ma non rispettando nemmeno l'indicazione di quell'inciso dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, che prevede di sentire gli enti locali. Devo dire la verità: si tratta di un procedimento che lascia molte perplessità.
  Né valga l'argomento che fa riferimento all'espressione testuale «sulla base delle intese». È vero che la formulazione letterale è la stessa contenuta nell'articolo 8, ma noi sappiamo che l'interpretazione del testo della Costituzione non si fa solamente sulla base delle singole parole, ma sulla base di un'interpretazione sistematica. Se il sistema è quello che dicevo prima, ossia rispetto dell'unità, differenza fra regionalismo differenziato e regionalismo speciale, necessità che la distribuzione e lo spostamento di funzioni avvengano attraverso un dialogo, da una parte, con la rappresentanza politica (questa è la funzione della legge) e, dall'altra, con il sistema degli enti locali, è chiaro che quella espressione «sulla base delle intese» non può essere interpretata nel senso che una legge debba limitarsi ad apporre un timbro a un accordo raggiunto a seguito di un dialogo svoltosi esclusivamente fra il Governo statale e i Governi regionali. Sarebbe la prima volta nella storia italiana che ciò accade.
  Che cosa sarebbe dovuto e forse potrebbe ancora, accadere? Sarebbe bastato un passaggio parlamentare preliminare alla formulazione delle bozze che avesse fornito al Governo le indicazioni sulla cui base procedere. Sarebbe stato egualmente importante, Pag. 24 visto l'inciso «sentiti gli enti locali», che le Giunte regionali coinvolte andassero in Consiglio regionale e in Consiglio delle autonomie locali – in Consiglio regionale come luogo della rappresentanza politica e in Consiglio delle autonomie locali come uno dei possibili strumenti con il quale si possa dare attuazione alla previsione costituzionale che prevede di sentire gli enti locali – per esporre in quella sede le linee di indirizzo. Invece, tutto ciò sta avvenendo senza questa discussione parlamentare.
  Non basta l'interpretazione letterale – è arrivato ora l'amico professor Bertolissi – per la quale l'espressione «sulla base delle intese» significherebbe, in sostanza, la mera apposizione di un timbro. Bisogna fornire un'interpretazione di sistema, che non può che essere, a mio giudizio, quella che proponevo.
  Sul tema dell'emendabilità credo che, al di là del problema di cui parlavo prima, ossia che sarebbe stato opportuno un passaggio parlamentare del Governo e delle Giunte in Consiglio, sarà molto difficile impedire l'emendabilità.
  Vorrei sommessamente richiamare un'ordinanza della Corte costituzionale, la n. 17 del 2019, con cui la Corte ha ritenuto che i singoli parlamentari possano sollevare conflitto di attribuzione.
  Al di là della discussione sul tema concreto, che riguardava la legge di bilancio, e di una serie di altri aspetti processuali, è evidente che fra i diritti del singolo parlamentare vi è la presentazione di emendamenti. Di fronte a un emendamento dichiarato inammissibile dalla Presidenza della Camera, con grande facilità tale dichiarazione di inammissibilità verrebbe impugnata di fronte alla Corte costituzionale.
  Al di là degli aspetti che riguardano la possibilità di preferire una discussione parlamentare, visto che stiamo investendo l'assetto dei rapporti Stato-regioni-enti locali, rimane il profilo processuale, degno, secondo me, di un'attenta riflessione, anche sul punto dell'emendabilità; il tutto all'interno di un quadro in cui mi sembra difficile sottrarre al dialogo con la rappresentanza politica e con la rappresentanza degli enti locali un passaggio tanto fondamentale, qual è quello del regionalismo differenziato.
  Il mio non è un atteggiamento pregiudizialmente negativo al regionalismo differenziato. La mia storia istituzionale è una storia favorevole al regionalismo differenziato, proprio per l'impegno che ho profuso su questi temi. Credo, però, che le cose, se si fanno, vadano fatte bene e che vada evitato l'errore che facemmo nel 2001 con l'approvazione frettolosa della legge volta alla modifica del Titolo V della Costituzione. Oggi si dovrebbe evitare di ripetere l'errore di un'approvazione di testi di cui a malapena si conosce il contenuto.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Caravita di Toritto. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LUCIANO D'ALFONSO. Grazie, presidente. Ringrazio anche il professore per la forma «concava», didascalica e di grande ausilio per chi svolge l'attività parlamentare. Ringrazio anche per la «franchezza di laicità» che ha dimostrato quando ha premesso di essere interessato e favorevole al regionalismo potenziato attraverso la differenziazione, a condizione, però, che si faccia idoneamente.
  Le voglio porre due domande, l'una propedeutica all'altra. Naturalmente, un'indagine conoscitiva si avvale del vostro apporto, del suo, di quello del professor Marazzita, che sentiremo dopo, e di quello di chi, a seguire, dovremo ascoltare. Un'indagine conoscitiva si avvale della vostra capienza conoscitiva e della vostra laicità di giudizio. Noi ci avvaliamo di voi per seguire l'intento che, per quanto riguarda le attuali forze di maggioranza, figura nel contratto di programma che lega le forze di maggioranza. Si tratta dell'intento di portare in Italia un potenziamento della capacità di funzionamento delle regioni – almeno così io lo leggo – attraverso le autonomie differenziate. Noi stiamo cercando di contribuire affinché ciò che mettiamo in campo sia funzionante e resistente anche rispetto a iniziative di ricorsi. Questa è una parte Pag. 25che, ad esempio, ho raccolto particolarmente dal contributo del professore che abbiamo testé ascoltato.
  Voglio fare una domanda «evangelicamente scandalistica». Lei ritiene che l'ordinamento, prodotto il dato dell'autonomia differenziata, si riesca a salvaguardare nella sua unità, indivisibilità e anche «pervasività», per quanto riguarda la stessa qualità dei servizi, data una capacità di funzionamento delle strutture regionaliste? La domanda che le pongo è la seguente: è sicuro che con questo tipo di approccio, che naturalmente è dato a chi ha vinto le elezioni, si produca unità della Repubblica, indivisibilità, maggiore capacità di funzionamento, in maniera tale che, alla fine, a valle non ci sia «il ritorno di Fontamara» in qualche parte dei nostri territori nazionali?
  Io vengo dall'Abruzzo, ho fatto il presidente di regione e conosco anche gli interna corporis delle regioni. Uno dei timori che nutro è che, alla fine, si possa produrre una differenziazione dell'indivisibilità della Repubblica sul piano della capacità dell'ordinamento di assicurare nel territorio nazionale una copertura uniforme dei diritti, quanto alla qualità e alla quantità dei diritti. L'opinione che chiedo a lei, professore apprezzatissimo in tutto il nostro Paese, naturalmente, è un po’ laterale rispetto a quello che ci ha detto prima.

  PRESIDENTE. Do la parola al professor Caravita per la replica, chiedendogli cortesemente di contenere il più possibile il suo intervento, considerati i ridotti tempi a disposizione.

  BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Faccio un esempio: la più grande riforma del sistema sanitario avvenuta in Italia, dopo la riforma del 1978, è la riforma regionale della Lombardia del 1996, che introduce due princìpi fondamentali: la parità pubblico-privato e la separazione fra Aziende ospedaliere e Aziende sanitarie territoriali.
  Questa riforma non è stata introdotta sotto la vigenza del nuovo Titolo V, ma quando era vigente il vecchio Titolo V, e ha prodotto effetti di sistema che si sono riverberati in tutto il Paese. La regione Lombardia ha avuto un sistema che ha funzionato meglio, salvo alcuni episodi. Le altre regioni in larga misura si sono adeguate. Non ho paura di differenziazioni, ma ritengo cruciale un dibattito pubblico all'interno di tutto il Paese su tale differenziazione. La regione Abruzzo e la regione Basilicata devono partecipare alla discussione su quali competenze o ambiti legislativi in più abbiano la regione Lombardia o la regione Veneto e conoscere quali funzioni vengono trasferite. Questa discussione deve avvenire in un forum pubblico. Il forum pubblico di questa discussione è, e non può che essere, il Parlamento italiano, con l'ausilio, naturalmente, della Commissione bicamerale per le questioni regionali, eventualmente nella composizione e secondo le modalità previste dall'articolo 11 della legge n. 3 del 2001, se un giorno si dovesse dare attuazione a tale disposizione. Dopodiché, io non ho paura delle differenziazioni. Ben vengano, se possono venire, ma in un quadro che non può che essere discusso e deciso insieme, anche nel dissenso, ma nella consapevolezza da parte di tutti.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Caravita e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professor Giuseppe Marazzita, Professore di Istituzioni di diritto pubblico e diritto costituzionale presso l'Università di Teramo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato» ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della costituzione, l'audizione del professor Giuseppe Marazzita, Professore di Istituzioni di diritto pubblico e diritto costituzionale presso l'Università di Teramo.

  GIUSEPPE MARAZZITA, Professore di Istituzioni di diritto pubblico e diritto costituzionale presso l'Università di TeramoPag. 26Chiaramente, le riflessioni sul processo di differenziazione in atto sono molte e ciascuno di noi svolge la propria, dal suo punto di vista.
  Un dato saliente è il fatto che questa Commissione nella precedente legislatura, nell'ambito di una indagine conoscitiva svolta sul tema, aveva seguito con attenzione la fase iniziale del procedimento di differenziazione e, con l'approvazione, nel febbraio 2018, di un documento conclusivo, aveva anche individuato una serie di soluzioni e una serie di punti critici, che il percorso in atto dovrà sciogliere.
  Ho ascoltato il professor Beniamino Caravita di Toritto ed è opinione diffusa che il tema della differenziazione non sia una questione che deve essere vista in modo radicale, con una demonizzazione o una glorificazione a prescindere, anche se è indubbio che questo processo ha un alto valore simbolico dal punto di vista delle regioni, dal punto di vista dell'accrescimento della loro autonomia; e questo può avere un peso politico a sé stante.
  L'aspetto al quale dobbiamo guardare è proprio la potenzialità di questa differenziazione, che, da un lato, può rappresentare un'occasione per le regioni virtuose di intraprendere una strada differenziata, da apripista rispetto alle altre, dall'altro, può rappresentare l'occasione di valorizzare, come è stato detto, le specificità regionali.
  Nel corso dei lavori svolti dalla Commissione per le questioni regionali nella precedente legislatura sono stati affrontati vari temi; ne richiamo solo un paio. Uno è quello che è stato toccato anche, da ultimo, dal professor Beniamino Caravita di Toritto, che riguarda questo benedetto o maledetto tema delle forme del contributo parlamentare; quindi mi riferisco al tema della possibilità o meno di emendare l'intesa in sede di approvazione oppure a una serie di soluzioni alternative, che passano per l'esercizio di atti di indirizzo da parte del Parlamento, con il risultato di incidere, nel corso delle trattative, delle negoziazioni, sul contenuto di queste intese.
  Le conclusioni cui giungeva la Commissione per le questioni regionali nella precedente legislatura erano piuttosto nette in merito alla impossibilità di apportare modifiche, ma tale questione è indubbiamente aperta; è una questione complessa che non si può risolvere semplicisticamente, ma affrontando il tema dal punto di vista sistematico.
  Credo però che, più che aprire una contrapposizione e una faida fra coloro che ritengono che si debba applicare il modello dell'articolo 8 della Costituzione, quindi quello previsto per le intese con le confessioni diverse dalla cattolica, o viceversa un nuovo modello che preveda un maggiore e più formale coinvolgimento del Parlamento, il tema essenziale sia quello di affermare la centralità di un intervento parlamentare che non riguardi solo l’an, ovvero l'approvazione o meno della intesa, ma anche il suo contenuto, eventualmente nel dettaglio. Trovo che le modalità con le quali questo intervento si realizzerà siano una questione di secondo grado, di non privilegiata rilevanza rispetto alla prima.
  Nel documento conclusivo in precedenza richiamato si propone che il Governo, una volta definito uno schema di accordo e prima di procedere alla firma, sottoponga gli esiti della trattativa nella forma di un preaccordo al Parlamento, il quale potrebbe, con un atto di indirizzo esprimere, il proprio avviso, eventualmente segnalando nel testo esaminato criticità, di cui le parti potrebbero tener conto in sede di definizione del testo definitivo dell'intesa.
  Ripeto, il problema non è il fatto che sul piano teorico si preferisca questa o quella forma, ma che il Parlamento dia un contributo sostanziale. Credo che sia questo il punto decisivo sul quale alla fine siamo tutti unanimemente d'accordo.
  Altra questione è quella della restituzione allo Stato, o meglio la riappropriazione da parte dello Stato delle competenze trasferite. Da questo punto di vista chiaramente la strada più limpida e lineare utilizzare nuovamente la procedura di cui all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, quindi approvando una legge sempre sulla base di un'intesa, o eventualmente la strada unilaterale, che è stata appena accennata nel corso delle audizioni nella Pag. 27precedente legislatura (è stata immaginata ad esempio dal giurista Stelio Mangiameli), del ricorso allo strumento della legge costituzionale.
  In concreto, le intese si sono avviate verso la strada, che pure si era ipotizzata in quella discussione, di una temporaneità di questi trasferimenti, in modo tale che alla conclusione del decimo anno si debba ricontrattare l'assetto delle competenze, eventualmente confermandolo, riducendolo o modulandolo come meglio si richieda.
  Vengo velocemente, come richiede il tempo a disposizione, a queste bozze d'intesa nella versione pubblicata dal Dipartimento per gli affari regionali, nella forma concordata nel febbraio di quest'anno. Il Titolo II, nella versione aggiornata della bozza d'intesa, non è ancora disponibile, possiamo ragionare sulle disposizioni generali, rispetto alle quali c'è un confronto sinottico fra le tre intese, che rivela quasi una coincidenza grafica e speculare fra questi provvedimenti.
  Questo di per sé risponde a una logica: quella di garantire un trattamento uniforme a tutte le regioni; però in qualche misura stupisce, perché se la logica del trasferimento è quella di valorizzare la specificità regionale, ci si chiede come mai tutte le regioni giungano poi fondamentalmente al medesimo risultato. Peraltro, la lettura di queste intese e soprattutto dell'articolo 2 della bozza d'intesa, che riguarda le materie, testimonia un forte ampliamento delle materie che verrebbero trasferite.
  Ho fatto qualche conto, ma sono facili da fare. La regione Veneto chiede il trasferimento di ventitré materie su ventitré, quindi tutte e tre quelle di competenza esclusiva dello Stato e le venti di competenza concorrente; la Lombardia arriva a venti, poiché non chiede trasferimenti relativi alle materie «organizzazione della giustizia di pace, limitatamente all'individuazione dei circondari», e «Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale»; l'Emilia-Romagna è quella più morigerata: era partita per la verità da numeri ulteriormente ridotti e, secondo queste bozze, sarebbe destinataria di trasferimenti su sedici materie rispetto alle ventitré disponibili. Il dato quantitativo però, come è agevole capire, non è decisivo, sia perché queste ventitré materie sono dei titoli che poi vanno riempiti di contenuto e quindi tutto sta nella interpretazione e nella configurazione dell'ampiezza della materia. Soprattutto, come è noto a tutti, il tema del rapporto fra competenze legislative statali e competenze legislative regionali non può essere risolto dalla mera lettura dell'articolo 117 della Costituzione e, in futuro, a seguito della differenziazione, non potrebbe essere risolto dalla mera lettura di tale articolo 117 unitamente alle intese che danno attuazione all'articolo 116 della Costituzione.
  La variabile che altera questa ricostruzione è quella delle materie trasversali statali, quindi la circostanza che, ferma restando la ripartizione geografica per territori confinanti, queste materie, che in una superficie piana rappresentano delle macchie come sono gli Stati, rispetto alla quale ciascuno ha la sua competenza – e questo è una rappresentazione rassicurante e semplice – in realtà rientrano in una rappresentazione che va integrata con una terza dimensione, cioè la profondità della materia, intesa come qualità della normazione.
  Se a livello superficiale noi possiamo accettare questa divisione per colori e per territori confinanti, ma riguarda il livello superficiale della disciplina più di dettaglio, tanto più noi entriamo nella profondità della materia, tanto più aumentano le esigenze unitarie, con la possibilità di applicare, quindi, la clausola di sovranità, che consente allo Stato di intervenire a tutela dell'unità economica e giuridica, dei livelli essenziali e di tutta una serie di esigenze (formulate in vario modo) che richiamano fondamentalmente il ruolo dell'ente sovrano. Quindi, questi due elementi vanno integrati.
  Dico questo, che è piuttosto ovvio, per svolgere una riflessione in ordine a cosa succederà all'indomani dell'attuazione di questo processo di differenziazione dal punto di vista della ripartizione delle competenze. Da questo punto di vista, la maggiore novità, a mio avviso, non sarebbe rappresentata Pag. 28 dal dato quantitativo, cioè dal fatto che si aggiungono una serie di materie o meglio di titoli, di etichette di materie. Non mi sembra questo il dato saliente, perché molte delle sotto materie di quelle materie che verrebbero trasferite in realtà potrebbero già rientrare – e in parte rientrano – nelle competenze regionali. Inoltre, fondamentalmente, credo che il salto di qualità, che questo processo di regionalismo differenziato potrebbe consentire al sistema regionale italiano, sia quello di abbassare la conflittualità fra Stato, Governo in particolare, e regioni, sulle competenze e sulla definizione di queste materie.
  All'indomani dell'entrata in vigore del Titolo V si è aperto un conflitto giurisdizionale davanti alla Corte costituzionale per la definizione di questi ambiti di materia, ampliati dalla riforma del 2001, e in questa partita le regioni sono state assai spesso recessive. Infatti, la Corte ha rivalutato quella che preferisco chiamare clausola di sovranità, richiamando formule come l'esercizio di poteri sostitutivi, la chiamata in sussidiarietà, la tutela dell'unità (molte sono le formule per dire fondamentalmente la stessa cosa o comunque per andare nella stessa direzione).
  Credo che la novità di questa trattativa, in particolare, sia quella di consentire una definizione delle materie- quelle oggetto di trasferimento (ma questo lavoro ha una ricaduta più ampia) – anziché per via pretoria, quindi attraverso l'intervento di un giudice della Corte costituzionale in una situazione di conflitto fra le parti, attraverso una negoziazione.
  Credo che la portata delle valutazioni concordate fra Stato e singola regione sulla definizione e sugli ambiti di competenza potrebbe avere un effetto positivo proprio dal punto di vista della deflazione della conflittualità davanti alla Corte costituzionale e che da questo punto di vista le intese sarebbero rilevanti per la Corte costituzionale; non solo nel momento in cui, ovviamente, la Corte dovesse discutere su una questione di incompetenza sollevata ad esempio nei confronti di una regione, sulla base del nuovo trasferimento avvenuto a seguito delle intese; infatti, in quel caso, quale norma interposta, quindi norma che va ad integrare il parametro di costituzionalità dell'articolo 116 della Costituzione, dovrebbe applicare l'intesa.
  Credo però che la definizione di questa intesa, nell'ottica della leale collaborazione fra enti territoriali, quindi in particolare fra Stato e regioni, dovrebbe indurre ciascuna delle parti a una certa cautela, nel momento in cui intenda rinnegare posizioni e valutazioni sottoscritte nelle intese. In altre parole, queste intese possono servire a definire quel confine – più o meno mobile ed elastico – fra competenze dello Stato e delle regioni, attraverso una negoziazione diretta, nella quale ognuna delle parti ha la disponibilità della propria potestà.
  Ritengo che il risultato finale, al di là del dove verrebbe posto il confine, non sia nella quantità delle materie, quanto nella qualità del trasferimento di queste materie, che avverrebbe sulla base di una valutazione concordata tra le parti. Questo, secondo me, lascia prevedere che in futuro, sui trasferimenti effettuati con queste tre intese, la conflittualità Stato-regioni dal punto vista della competenza dovrebbe essere particolarmente ridotta. Credo si possa anche immaginare che questo effetto definitorio e questa riduzione dell'incertezza interpretativa di cosa una materia significhi e fin dove sia consentito l'intervento dello Stato a tutela dell'unità giuridica ed economica, possa riverberarsi anche su altre questioni di costituzionalità in via di azione, che riguardano regioni diverse da quelle attualmente interessate dal processo di differenziazione in atto.
  Un'altra disposizione interessante – oltre al tema delle risorse – riguarda il tema politicamente molto caldo che nasceva da un conflitto, forse politicamente il più intenso in questa vicenda, relativo, da un lato, alla richiesta della regione Veneto di vedersi riconosciuti i nove decimi del prelievo fiscale nel territorio, dall'altro, alla richiesta della regione Lombardia, rapportata al cosiddetto «residuo fiscale», cioè a quella parte delle somme che verrebbero trattenute dallo Stato e non «restituite al territorio». Pag. 29
  Qui fin dagli accordi preliminari è stato accantonato qualunque criterio diretto a individuare una somma rapportata al gettito erariale nel territorio, ma si è adottato invece il criterio, costituzionalmente corretto, del rapporto fra la competenza che si trasferisce e la risorsa che in concreto è necessaria per realizzare questa competenza. Qui poi c'è stata un'evoluzione fra gli accordi preliminari e queste bozze, perché nelle bozze c'è una fase transitoria nella quale, per l'esigenza di rendere operativo il trasferimento di risorse, nel primo anno i trasferimenti economici coincideranno con il costo storico che lo Stato ha affrontato per esercitare quella competenza in quella regione; poi, attraverso un meccanismo scadenzato, si prevede di arrivare ad una valutazione invece in termini di costi standard, o meglio ancora di fabbisogni standard.
  L'ultima disposizione che trovo significativa di queste intese è quella che riguarda il passaggio di consegne fra la legislazione statale recessiva, che deve fare un passo indietro rispetto alle materie trasferite, e la nuova legislazione regionale, che esercita le competenze attribuite in attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
  L'aspetto è interessante perché le intese, anche qui in modo assolutamente conforme e sovrapponibile, stabiliscono che, fino all'entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia, nelle nuove materie trasferite, continuano ad applicarsi le norme statali vigenti nelle materie oggetto del trasferimento; quindi per garantire la continuità normativa, fino a quando non viene esercitata la potestà regionale nelle materie in cui è sopraggiunta la competenza, continuano a produrre effetti normativi le leggi statali. Questa cedevolezza della normazione statale fa sì che al sopraggiunto esercizio delle nuove competenze, quindi nel momento in cui la regione approva le nuove leggi regionali, essa debba individuare espressamente le disposizioni statali delle quali cessa l'efficacia nella regione, a seguito dell'entrata in vigore della normativa regionale.
  C'è, quindi, una clausola espressa di privazione di efficacia, che deve essere contenuta nelle prime leggi regionali, che eserciteranno queste nuove competenze e che ha una potenzialità normativa rilevante, poiché consente alla regione di individuare quali leggi statali devono considerarsi private di efficacia a seguito del proprio vigore, con la possibilità anche di modulare i tempi di questa transizione fra legislazione statale cedevole e nuova legislazione regionale.
  Concludo con qualche breve riflessione. Credo fondamentalmente che la maggiore innovazione non sarebbe quindi sul piano di una competenza in più, sia perché queste competenze sono alla fine dei titoli, che non esattamente rappresentano la dimensione di rapporti fra i settori della disciplina vigente, sia perché queste materie hanno confini verticali incerti, ancor più incerti sul piano orizzontale, perché lo Stato in ogni occasione, esercitando gli strumenti giusti, può intervenire con proprie prescrizioni.
  Credo che la vera novità sarebbe fondamentalmente questa contrattazione dei confini di competenza, che non sarebbe più definita da un giudice terzo e quindi sempre rimessa alla riapertura di una conflittualità, ma sarebbe di natura pattizia. Infatti, attraverso questo processo, che ritengo avrà riverberi ben più ampi di quelli limitati al rapporto fra lo Stato e le singole tre regioni, si costringono lo Stato e la regione a prendere posizione sulla definizione delle materie, sui propri ambiti di intervento, sugli ambiti di intervento della controparte.
  Questa presa di posizione, in base al principio della leale collaborazione, non può essere revocata senza ragione. Da questo punto di vista la Corte costituzionale dovrebbe considerare le intese atti rilevanti sul piano processuale e sul piano sostanziale, non solo quali norme interposte nell'ambito di un giudizio di applicazione di quelle intese, ma anche per valutare il comportamento leale dello Stato o delle regioni. Credo che questa relativa al possibile effetto deflattivo sul contenzioso costituzionale Pag. 30 sia una dimensione nuova e in qualche misura auspicabile.
  A me pare che la questione della centralità del Parlamento nel processo di differenziazione, come accennavo all'inizio, sia complessa e per nulla scontata, perlomeno non così scontata come è stata presentata nel documento conclusivo approvato nella scorsa legislatura, nell'ambito di una indagine conoscitiva sul tema, dalla Commissione per le questioni regionali, come se fosse assolutamente ovvio che, poiché l'articolo 8 della Costituzione utilizza la stessa espressione «sulla base di intese», anche in questo caso varrebbero le stesse modalità applicative. Faccio notare, da un lato, il discorso sempre valido, ma anche a doppia direzione, della interpretazione letterale che da sola non basta e occorre integrarla con quella sistematica. Vero è comunque che l'interpretazione letterale ci offre il ventaglio di significati, all'interno dei quali l'interpretazione sistematica ci consente di scegliere, ma non ci consente di inventare un significato o un'interpretazione che nella lettera non c'è; altrimenti non saremmo più interpreti, ma svolgeremmo il vostro ruolo, che è quello di legislatori.
  Detto questo, l'analogia con le intese con le confessioni diverse da quella cattolica potrebbe funzionare al contrario, cioè laddove si ritenesse che il Parlamento – nel momento in cui sia chiamato ad approvare una legge sulla base di un'intesa, sottoscritta ai sensi dell'articolo 116 della Costituzione – debba intervenire nel merito in modo formale, modificandone il testo, si dovrebbe arrivare alla conclusione che, anche nel caso delle intese stipulate ai sensi dell'articolo 8 della Costituzione, sarebbe costituzionalmente preferibile tale soluzione.
  La contrapposizione teorica non è scontata, ma credo alla fine non sia risolutiva, perché il punto centrale è quello delle modalità. Se queste modalità sono l'utilizzo effettivo e penetrante dei poteri di indirizzo del Parlamento, allora faccio notare che siamo ancora nella fase nella quale abbiamo a disposizione bozze d'intese, rispetto alle quali il compito vostro e delle Camere consente un intervento significativo.
  Mi fermo qui.

  PRESIDENTE. Se non ci sono domande, ringraziamo il professor Marazzita per la sua relazione.
  Dichiaro così conclusa l'audizione.

Audizione del professor Mario Bertolissi, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato» ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della costituzione, l'audizione del professor Mario Bertolissi, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova.

  MARIO BERTOLISSI, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova Grazie, presidente. Sono rimasto fuori non per un gesto di indelicatezza nei confronti dei miei colleghi, ma perché così, qualunque cosa dirò, visto che parlo per ultimo, salvo lo SVIMEZ, non potrà essere considerato come una scorretta critica a chi non ha poi il diritto di replica.
  Invierò in seguito qualche pagina di sintesi, ma ho preferito prima svolgere qui qualche considerazione. Ovviamente il dettato dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione è dato per acquisito, però vorrei svolgere qualche altra considerazione sulla dialettica Stato/regioni, in particolare per la regione Veneto, perché vari interventi hanno messo in evidenza il carattere «carbonaro» delle attività, la non trasparenza. Penso che, secondo l'insegnamento di Ascarelli, sia innanzitutto necessario mettersi d'accordo sulle premesse, perché, se le premesse sono diverse, le conclusioni sono diverse.
  Sempre citando i maestri, seguendo Paolo Grossi, la narrazione di come i fatti si sono svolti, è decisiva. Posso dire di essere stato testimone di una dialettica intensissima, e mi limito semplicemente a dire che sono state affrontate questioni giuridiche Pag. 31in via preliminare, anche di carattere costituzionale, che hanno raccolto le considerazioni svolte dai vari Ministeri, e poi sono state affrontate invece le questioni di merito.
  Come ho sempre pensato, i giuristi sono un ostacolo alla soluzione dei problemi e non, invece, uno strumento per la soluzione dei problemi, tanto che quando si è passati al merito si è arrivati al dunque e, quando si ragiona del dunque, si ragiona avendo presenti le cose che esistono, non quelle che potrebbero esistere, che forse esisteranno, che dipendono dal fatto di combinare una parola con un'altra, un combinato disposto con un altro, e via di questo passo. Sotto questo profilo possono esserci delle differenze ovviamente, però c'è una netta separazione tra ciò che riguarda le questioni causidiche e il merito, che è merito politico e va lasciato sicuramente alla determinazione esclusiva in via assoluta della politica.
  Ovviamente tutto ciò è proseguito e sta proseguendo, sono in circolazione alcune bozze, e personalmente io ho la bozza di qualche tempo fa, non l'ultima, perché se le trattative sono in corso, i tavoli sono aperti, nessuno può avere l'ultima versione, perché l'ultima versione non esiste.
  Da questo punto di vista non c'è nulla che abbia a che fare con la non trasparenza, con la non visibilità, perché ciò che è provvisorio non è definitivo, quindi a mio giudizio è inutile che circolino progetti vari di quello che si vuole costruire se poi non c'è il progetto definitivo, perché si dovrà discutere di quello, non di quello che forse avverrà.
  In ogni caso, credo che circolino bozze, anche perché si è detto in termini molto drastici che ci sarebbe stata questa non trasparenza nelle cose. Dopo di che ciascuno evidentemente ha le sue ragioni per dolersi.
  Aggiungo un'altra cosa, riguardo alla bozza: ho letto degli scritti di chi sostiene che sia una scatola vuota e, tenuto conto che finirebbe sul tavolo del Parlamento, è un argomento in più per ritenere che questo sia espropriato delle sue funzioni. Mi sono quindi chiesto che bozze siano circolate, perché ci sono le disposizioni di carattere generale e ci sono poi le materie attribuite alla regione o comunque c'è il dettaglio minutissimo dell'elencazione delle materie.
  Segnalerei alla Commissione che se si combinano queste previsioni credo che si risolvano molti problemi. Nel leggere un testo ciascuno ha delle pregiudiziali, che sono favorevoli o contrarie e fa parte dell'indimostrabile, sono le opzioni di base, però l'opzione preliminare è quella che condiziona dopo la lettura, ma io richiamo la vostra attenzione sulla Commissione paritetica che è metà e metà, significa, detto in parole semplici, che se poi non va avanti si blocca tutto, quindi chi vede colpi di Stato non so a cosa si riferisca.
  In secondo luogo, ci sono le procedure e c'è il disposto dell'articolo 4, si prevede un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ma ci sono pareri a non finire che devono essere resi e poi è previsto anche il riordino dei Ministeri (lo dico soltanto come coda, ma stiamo ancora aspettando l'attuazione dell'ottava disposizione transitoria e finale della Costituzione, che risale al 1948).
  L'articolo 7 reca «Attribuzioni di competenze», ma in realtà è stato mutato in «leale collaborazione», perché se qualcuno di voi si prenderà la briga di leggere con un po’ di attenzione questa bozza elaborata, vedrete che la leale collaborazione implica sempre un lavoro che deve vedere due che stanno insieme e che producono, e che lo facciano con correttezza e buona fede come criterio generale, altrimenti si sa bene che non si può fare assolutamente nulla; non si costruisce nulla di positivo se ci sono soltanto riserve mentali. E poi, per chi pensa che sia tutto «se si fa, poi non cambia niente, resterà per l'eternità» non è evidentemente così, perché ci sono le verifiche.
  In ogni caso, lo dico fin d'ora, lo strumento per finire davanti alla Corte credo che sia a disposizione di tutti, vuoi perché la regione dovrà fare qualcosa e le leggi saranno impugnate; se non fa gli atti legislativi ma atti amministrativi ci sarà il conflitto di attribuzione, altrimenti interviene lo Stato e impugnerà la regione, ma Pag. 32questa è una prospettiva estremamente negativa, che sconfessa non solo la leale collaborazione, ma, visto che siamo tutti sulla barca della Repubblica, non credo che ci sia il gusto proprio oggi di vederla affondare.
  Questo penso sia l'elemento genetico di una collaborazione irrinunciabile, e questo tira la volata per quello che dirò sulla storia del Parlamento espropriato. Dopodiché ci sono tutte le materie elencate, è una sorta di mansionario, se vogliamo definirlo per quello che è, tenuto conto del carattere del contenzioso costituzionale, perché se io penso a quello ante riforma 2001 o a quello dopo, quello dopo è veramente un conflitto permanente tra mansioni dello Stato e mansioni della regione, che sarebbe anche questo un argomento per dire dove siamo finiti nella gestione delle questioni che importano per lo Stato.
  Faccio alcune osservazioni, anche perché dopo svilupperò qualche considerazione con un filo conduttore che non ha la necessità di mettersi a disquisire con tutti quelli che hanno voluto scrivere, c'è un percorso secondo me lineare.
  Si dice che è minata l'unità e indivisibilità della Repubblica e che viene meno la coesione sociale. Più di qualcuno ha detto «magari fosse vero!», perché se fosse vero che viene meno, vuol dire che verrà meno, perché non è venuta meno e vuol dire che c'è. Per non infastidirvi, vi dico quello che scriveva il mio maestro, il professor Livio Paladin nel 1976, introducendo un volume di 900 pagine sulla prima legislatura regionale: «ci sono regioni di avanguardia, regioni collocate nel mezzo e una retroguardia, costituita da quegli enti regionali la cui normazione si risolve in poco più che una massa di leggine, quasi mai riformatrici e talvolta nemmeno necessarie».
  Questa cosa non poteva che essere così, perché ci sono stati differenti punti di partenza e la domanda che ci si deve porre è perché i punti di partenza non sono stati resi eguali, essendo diversi, e addirittura si parla costantemente di una divaricazione ulteriore. Questo è il problema, non le competenze. La questione non è a chi tocca fare cosa, ma cosa si fa o non si fa, e quando nella dialettica sul piano tecnico che è avvenuta e sta avvenendo dici: «tu chiedi questo per fare cosa?» loro ti devono spiegare perché. Questo è il discorso di fondo, per quello che mi riguarda.
  Ci vuole una legge generale, dice qualcuno. Io non so da dove la cavi, vogliamo fare una legge generale? Cosa ci scriviamo, i dieci comandamenti? Prescrizioni generalissime che hanno bisogno a loro volta di legge ulteriori di attuazione, secondo gli schemi che conosciamo, per cui una legge partorisce 100 regolamenti che poi non saranno fatti? Sappiamo che è così.
  Apro una piccola parentesi. Poiché ho in mano questa roba da trent'anni, quando si dice che l'articolo 116 è scarno, è una benedizione che sia scritto così. Volevate scriverlo come è scritto il Codice degli appalti? Invece no, perché con il buonsenso si trovano le soluzioni, non si è ingabbiati continuamente da lacci e lacciuoli, per cui se rispetti una virgola, vai contro il punto e virgola, perché questo è. Bene o male, si è costruita questa procedura, che può essere un precedente attorno al quale in seguito mettere una serie di esperienze che si sono verificate in passato e che possono dare un aiuto significativo per risolvere, alla luce del buonsenso, i vari problemi che di volta in volta si presentano.
  Potrei anche dire, causidicamente parlando, che non è prevista dall'articolo 116, terzo comma, ma si può sempre discutere che, anche se non è prevista, si può fare, ma vedete che sono deviazioni, vediamo di procedere sulla strada, nel senso che la politica dirà sì oppure no, invece di mettere come diaframma tutta una serie di questioni che finiscono per inquinare il problema per quello che è.
  È reso marginale il ruolo del Parlamento. Comincio dalla coda. Se chiedeste a me come cittadino che cosa desidererei, vi risponderei: una sessione che dura un anno dedicata a questo problema, perché, vecchi ricordi, quando si è riunita la Commissione dei 75 appena dopo l'elezione dell'Assemblea Costituente, il primo problema che hanno voluto affrontare è stato quello delle autonomie, perché – dicevano i costituenti Pag. 33– da questo dipende il resto, cioè il modo secondo il quale noi articoliamo la Repubblica nel suo insieme.
  Quando sono partite le regioni ordinarie, si parlava di regioni per la riforma dello Stato. Sono passati quasi cinquant'anni e, tutto sommato, siamo punto e a capo. Direi che questo è l'oggetto dell'iniziativa: mettere in moto un meccanismo, una piccola palla di neve che poi può diventare una valanga in senso positivo, nel senso cioè di attrarre l'attenzione, provocare un grande dibattito e una discussione sui grandi problemi del Paese.
  Voglio ricordare che c'è l'articolo 8 su cui si sono divisi. Questa Commissione nella passata legislatura aveva concluso dicendo che il termine di riferimento sono le intese con le confessioni acattoliche (è negli atti), dopodiché altri hanno ritenuto che l'articolo 8 sia praticabile, altri che non sia praticabile, può darsi che qualcuno prima di me o dopo di me vi ricorderà il caso dell'approvazione degli Statuti ordinari. Qualcuno ha detto «ricordo questa vicenda degli Statuti ordinari perché il Parlamento ha voluto essere protagonista».
  Tenete presente comunque che non si dubitava del fatto che la legge di approvazione degli Statuti fosse una legge in senso puramente formale, cioè prendere o lasciare. Dopodiché sono state attivate dalla I Commissione del Senato, la Commissione Affari costituzionali presieduta dal senatore, professore di diritto costituzionale a Napoli, Alfonso Tesauro, le cosiddette «procedure informali», che significa che se vuoi la minestra devi saltare dalla finestra, o così o niente. Queste sono state le cosiddette «procedure informali» oppure le cosiddette «approvazioni condizionate».
  Il mio maestro ha ritenuto che tutto sommato andasse bene, c'erano allora giovani studiosi come Onida e Bassanini che hanno criticato molto aspramente questa procedura, ma direi che tutto sommato queste questioni sono estremamente marginali, non significative, perché se soltanto prendiamo il 116, terzo comma e lo mettiamo in rapporto con l'articolo 8, c'è una differenza radicale, almeno secondo me. Mentre per le intese a rigore basta la maggioranza dei presenti, 2 a 1 o 1 a 0, qui c'è la metà più uno degli aventi diritto, cioè c'è una maggioranza assoluta. In secondo luogo, nessuno dubita, almeno per quello che mi riguarda, che il Parlamento, che ha l'ultima parola, interverrà; ci sarà la Commissione, se ritenete, non ci sarà magari il dibattito oceanico, ma se andate a vedere come ebbero a procedere quando fecero gli statuti nel 1970, l'allora Ministero per le regioni aveva fatto da collettore di tutti i rilievi che provenivano dai ministeri e dalle varie articolazioni burocratiche. La Presidenza del Consiglio dei ministri si poneva il problema di cosa potessero fare o non potessero fare, la I Commissione Affari costituzionali ha fatto altrettanto, ma ci pensava tra l'altro direttamente il professor Alfonso Tesauro, ed era talmente forte, potente e condizionante che le regioni che ricevevano la richiesta di modifica parlavano di «emendamenti Tesauro», tanto per intenderci.
  Questo per dire che se guardiamo alla realtà delle questioni, non potrà esserci che una dinamica di questo genere, al Parlamento nessuno sottrarrà la sua centralità, perché è impossibile, quindi il problema è semplicemente quello di affrontare le questioni. Se invece cominciamo a chiederci se è una legge formale o sostanziale, capite che dobbiamo aspettare che venga scritta qualche monografia inutile, per concludere nel senso che già sapevamo. Sia o non sia, sta di fatto che io non lo approvo se tu non ti adegui o se la trattativa non porta ad un punto di incontro delle nostre volontà. Se ci si deve sposare, bisogna dire sì in due, l'altro non può dire no. Io ragiono con il buonsenso.
  Qualcuno ha parlato di emendabilità indiretta, ma sono generi letterari, espressioni retoriche, perché non aggiungono nulla a ciò che descrittivamente si dice che avviene nella realtà, però noi spesso ci eccitiamo per una formuletta, ma per vedere se il vino è buono si deve aprire la bottiglia, non lo deduciamo da chi ha portato il fiasco, ma apriamo la bottiglia, versiamo e beviamo!
  Ho letto considerazioni estremamente preoccupate, qualcuno ha parlato di eversione, Pag. 34 di insindacabilità non so di cosa, di che natura hanno i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, che potrebbero finire davanti al giudice amministrativo, oppure, se dovessero violare i diritti soggettivi, davanti al giudice ordinario e comunque sia potrebbero sollevare dei conflitti di attribuzione. Chi ha esperienza di Corte costituzionale sa che non avremmo mai immaginato che la Corte addivenisse a talune soluzioni che poi invece sono diventate assolutamente la norma, anche perché la giurisprudenza si costruisce in ragione dei problemi che devono essere affrontati, non di precedenti che vengono ricopiati come se non vi fossero state soluzioni.
  Si cita il pericolo della litigiosità, io dovrei essere contento perché genera cause a tutto spiano, invece non penso che sia così o che questa debba essere la soluzione, perché i momenti dovrebbero favorire invece la leale collaborazione di cui ho detto prima, perché nessuno può sottrarsi ai problemi di fronte ai quali ci si trova.
  Ho già detto della scatola vuota, che non è vuota, tanto che, dopo un articolo che parlava di una scatola vuota e diceva che si va allegramente verso l'eversione, c'è stato un altro articolo (non cito i nomi degli autori perché non ha importanza) che ha esaminato nel merito la bozza e ha anche riaggregato le varie funzioni che sono state attribuite per ambiti, per quattro settori organici, consentendo di vedere nella loro complessità e latitudine gli oggetti di questo negoziato.
  In particolare, sotto la lente di ingrandimento sono state messe due materie, la sanità e l'istruzione. Per questo avevo esordito dicendo «magari fosse vero che si rompe ciò che è unitario», nel senso che all'interno della Repubblica dovunque si può fruire delle medesime prestazioni e dei medesimi servizi. Non è così – e voi lo sapete benissimo – nel caso della sanità, ma quando si dice che il centro assicura la soluzione dei problemi che sono comuni, io aggiungo «magari fosse vero!».
  Voi sapete che ci troviamo alle prese con la carenza di medici, ma non è che la carenza di medici è un problema che possiamo risolvere, è già un problema insolubile, perché per fare un medico ci vogliono dieci anni. Un anno e mezzo fa ho fatto un convegno nell'Aula magna a Padova «Carenza di medici, salute a rischio», adesso ne abbiamo rinviato uno di dicembre scorso per non complicare le cose e il titolo era «Sanità senza medici». Da chi dipende questa situazione? Dipende dal Ministero della sanità e soprattutto dal MIUR, cioè da organizzazioni centrali che dovrebbero avere sottomano l'intero Paese e avrebbero dovuto soprattutto stabilire altro, non quanti sono gli accessi alla Facoltà di Medicina. Sapete bene, infatti, che noi abbiamo lasciato che i nostri laureati, dopo aver speso 4-500.000 euro ciascuno, andassero a lavorare all'estero; adesso leggo sui quotidiani che li importiamo da altre parti. Basta essere ragionieri per capire che la gestione è fallimentare.
  Adesso qui è messa in crisi la tutela del diritto fondamentale – come dice l'articolo 32 – della salute. Se uno chiede di poter manovrare su questo versante, qualche regione potrebbe avere un organico in linea con le esigenze, se uno dice che avrebbe creato una discriminazione ulteriore, non aggiungo il mio commento, perché allora per non discriminare verso l'alto, rendiamoci tutti eguali verso il basso, privandoci delle tutele essenziali.
  Ho sentito anche dire che ciascuno si farà la sua scuola, i suoi programmi. Può darsi che abbiano letto un altro testo che non è quello che ho detto io, ma sapete qual è la prima preoccupazione? Lo dico in questa sede provocatoriamente. L'ambizione sarebbe quella di cominciare l'anno scolastico con tutti i docenti al loro posto, e non di riuscire a metterli solo dopo sei mesi, avendo creato danni enormi alle famiglie e soprattutto agli alunni, dai ragazzetti a quelli più grandi, che vanno a scuola e vedono un turnover pazzesco.
  Dopo magari verranno anche i programmi, ma si vorrebbe poter procedere sul piano organizzativo, senza toccare altri aspetti. Capisco le differenze di trattamento economico, ma sono tutte cose sperimentate nelle regioni a Statuto speciale, in particolare in Trentino-Alto Adige. Comunque sia, questi argomenti hanno soprattutto Pag. 35 una connotazione politica, ce l'hanno anche giuridico-costituzionale, però ho fatto solo qualche esempio, che non ha il senso della provocazione.
  Tutta questa questione è stata messa in moto dalla regione dalla quale provengo, però guardate che la ragione è sempre fattuale, non è di altro tipo. Il punto è che da una parte c'è il Trentino-Alto Adige, dall'altra il Friuli Venezia Giulia. Sapete che intanto il Veneto ha perso Sappada, che è andato in Friuli Venezia Giulia. La lista dei comuni frontalieri rispetto al Trentino-Alto Adige, con in testa Cortina, vorrebbe transitare nel Trentino-Alto Adige, e questi dati riguardano i territori in ultima istanza, perché il primo problema che si pone è la discriminazione fra i cittadini che stanno da una parte e quelli che stanno dall'altra.
  Non ci sono polemiche con la regione Trentino-Alto Adige, con le province di Trento e Bolzano, perché nessuno vuole mettere mano a non so cosa, però credo che sia un problema e l'allocazione razionale delle risorse, oltre al resto, è una questione che intercetta l'intero Paese. Adesso ho visto che ci si lamenta dei costi storici, ma l'eccezione di illegittimità costituzionale relativa alla spesa storica personalmente l'ho formulata un numero spropositato di volte e la Corte ha sempre detto che va bene la spesa storica. Dentro le bozze c'è la spesa storica. Alberto Quadrio Curzio o Mario Draghi quando era Governatore della Banca d'Italia dedica pagine per dire che questo è il criterio che genera inefficienza e irresponsabilità. Adesso si sono accorti che con gli asili nido non funziona, perché chi non ne ha... Ma qui bisogna vedere nel suo insieme il sistema, non si può prendere un pezzetto e ragionare su quel pezzetto.
  Il valore di questa iniziativa sta proprio nel fatto che finirà sul vostro tavolo una grande questione che riguarda tutti gli italiani. Chiudo citando Federico Pica, che è stato professore di scienza delle finanze all'Università di Napoli e magna pars degli studi dello SVIMEZ. In un volume dedicato al federalismo fiscale scrive: «il problema non è quello di premiare l'efficienza» – e sono convinto che qui abbia ragione – «ma è quello di non costruire, di non consentire che persista un sistema che incoraggi l'inefficienza».
  Chiudo e spero dopo l'estate di riuscire a fare una cosa, che non vi dico che se non altro per scaramanzia. Il mio percorso ricostruttivo è il seguente. Al centro del sistema non stanno gli articoli 114, 116, 117, 118 e 119, ma l'articolo 97, che significa che il problema per la Repubblica è il buon governo e la buona amministrazione. Gli altri articoli sono lo strumento, il fine è il 97, ma non l'ho mai visto citato.

  PRESIDENTE. Grazie al professor Mario Bertolissi. Lascio la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LUCIANO D'ALFONSO. Grazie, presidente. Sono molto soddisfatto per le tre audizioni che abbiamo avuto oggi, hanno consentito una circolarità di compiutezza e di lettura.
  Per l'esperienza che ho alle spalle ho potuto anche scrutare qualche foglio istruttorio del dialogo competitivo che si è attivato al Ministero per gli affari regionali, perché la forma ha riguardato l'interlocuzione per le intese, ma c'è stato un dato di sostanza, nella parte finale delle interlocuzioni, che ha riguardato anche il fabbisogno aggiuntivo di copertura finanziaria. Per quanto riguarda la Lombardia, due punti percentuali di IRPEF significano 13 miliardi di euro. Al Veneto ne arriverebbero 12 e, siccome io sono anche membro della Commissione finanze del Senato, conosco qual è la grandezza della coperta.
  Di sicuro serve dare luogo ad una esplicitazione delle competenze, sapendo come una precisazione delle competenze possa dare luogo anche ad una migliore espressione dell'azione amministrativa, però dobbiamo sapere anche che va garantita – attraverso un'azione amministrativa controllata, misurata, verificata – l'erogazione di servizi che davvero rendano unitaria la Repubblica. Già adesso ci sono delle differenze, dovute ad una differenza di capacità delle classi dirigenti delle amministrazioni.
  Il fatto che la nostra attenzione debba essere strutturata sui tre articoli, cominciando Pag. 36 dal 114 e andando avanti, scavalcando l'articolo concernente la qualità dell'azione amministrativa, mi interessa molto. La domanda che faccio in termini di cristallizzazione dei contributi che abbiamo avuto oggi, in particolare del professor Bertolissi, è la seguente. Noi siamo interessati a rendere questo procedimento resistente, ma vorremmo soprattutto capire quali sono le conseguenze di questo procedimento, prefigurando le conseguenze, perché se dobbiamo apprendere e appurare solo attraverso gli accadimenti della realtà esperienziale, siamo degli idioti. Dovremmo anche cercare di capire, evitando di arrivare a raschiare il fondo del barile facendo accadere il dato della realtà rinnovata. Cerchiamo anche di prefigurare come va a finire, anche quando l'innovazione costituzionale si incrocia con la capacità di amministrazione sui territori, perché non so chi l'abbia detto, ma mi è stato riferito, la coppia tematica spesa storica/spesa standardizzata evoca al centro del tavolo anche la questione di quale sia allo stato la capacità dell'azione amministrativa.
  Non stiamo facendo degli sforzi editoriali, per cui se poi il libro non viene venduto, ricominciamo daccapo. Se questo sforzo di elaborazione riformatrice poi fa delle rovine... e non è la prima volta che, cercando le riforme, abbiamo cercato la parte dietro della riforma e non quella davanti, abbiamo incassato e patito. Questa ovviamente è una parte di lavoro che riguarda non voi come interlocutori, ma noi come legislatori e come decisori politici, però è utile, dal momento che non vi siete costituiti in pigrizia, non c'è stato un versamento in atti di un lavoro prefabbricato, ma siete stati attivissimi, coinvolti, perché anche voi siete cittadini di questa Repubblica e non solo dei sacerdoti della elaborazione giuridica.

  MARIO BERTOLISSI, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova. La ringrazio e ne terrò conto nella stesura degli appunti che vi farò avere. Ritengo che il metodo che si dovrebbe seguire sia quello che in fondo è in atto e che riguarda passaggi successivi. Lei prima giustamente faceva riferimento a tanti fallimenti, anche qui richiamo un'espressione di un illustre, di Giovanni Sartori, quando parlava di democrazia e di ragione: noi vorremmo vedere tutto bello, nitido, spiattellato, ma si fa come in artiglieria, si sparano colpi di aggiustamento, non si può pensare di arrivare al primo colpo, è per quello che la collaborazione e la dialettica sono l'elemento genetico di una soluzione secondo buonsenso.
  Questo è il dato, perché ho un timore. Ho sempre visto che le cose sono finite in questo modo, ci si è azzannati su pregiudiziali, cioè ognuno era portatore di una verità. Qui, se noi facciamo i monopolisti della verità, è finita, invece è evidente anche per i calcoli che sono stati fatti, che se noi la mettiamo così, chiudiamo la pratica ed è finita prima di cominciare, perché è impensabile andare avanti, però intanto cominciamo a farci questa domanda: lo Stato ha in mano i conti o non ha in mano i conti? Questa quindi sarebbe un'occasione straordinaria.
  Secondo: i dati che circolano. Prendiamo la spesa pubblica regionalizzata, prendiamo il bilancio dello Stato, tiriamo fuori i dati elaborati dalla Ragioneria generale dello Stato e vengono fuori delle classifiche. Non esasperiamo il dato della classifica che vede sempre in coda le stesse tre regioni e invece sopra le regioni speciali. Diciamo semplicemente che, se quei dati sono anche solo in parte veri, c'è un problema di riordino, perché c'è chi riceve di più (parliamo del pro capite) e chi riceve di meno, quindi, indipendentemente da dove stai, c'è questa esigenza di attuare il principio di eguaglianza, che poi significa anche quello di solidarietà.
  Attenzione che queste questioni ci sono anche tra i comuni e tra le regioni del Sud, non soltanto con quelle del Nord, quindi ecco in che senso dico che questa è una grande occasione e naturalmente ho richiamato l'articolo 97, buon governo e buona amministrazione come obiettivo, che potrei dire essere il prima e anche il dopo, è l'inizio e la fine.
  Chi è senza peccato scagli la prima pietra e, se volete, posso parlarvi di tutte le malefatte delle nostre zone. Ecco, diamole Pag. 37per acquisite. Dire che ci sono episodi di vario genere di scempio del pubblico denaro non risolve il problema che stiamo affrontando. Quindi, qui non c'è nulla di moralistico di chi viene a giudicare, dice soltanto di una esigenza che si è manifestata sulla base delle premesse che ho detto prima, i confini. Questa storia è cominciata nel 1990 e va avanti periodicamente, l'avranno in testa più di altri e poi si sono messi in moto anche gli altri, poi ci sono le regioni che per spirito di emulazione... ma intanto anche loro si mettono a pensare, magari se cominciano a vedere qualche conto, cercano di renderlo più efficiente, si spaventano per il turismo sanitario.
  Questi sono soltanto sintomi di problemi. Credo che se si mettono al centro i problemi e non invece le competenze – e poi discuteremo di come risolvere i problemi – ci si mette davanti a un tavolo e siamo soprattutto spauriti di fronte alle questioni che si debbono affrontare. Questo è il punto. Vediamo di ragionare sulle singole questioni di fronte alle quali ci troviamo. C'è il dato che ha citato l'onorevole D'Alfonso, 10-15 miliardi, a chi li portiamo via? Se è messa così, a chi volete che andiamo a prendere, a quelli che stanno peggio? Non è così, perché non è mai stato fatto un discorso di questo genere, questo discorso lo fanno quelli che leggono le carte e pensano di aver capito tutto, invece hanno «stracapito» probabilmente, oppure all'interno c'è semplicemente una vis polemica, perché se venissero a chiedere a quelli che hanno ragionato su queste questioni, al di là degli slogan... perché un conto è quando si fa la pubblicità e si va a piazzare il pezzo di ottone, un conto è quando ci si mette a discutere sulle singole questioni e si affrontano i problemi, di fronte ai quali non si può dimenticare che nella Costituzione è affermato il primato della persona. Basterebbe questo per dire che, se viene letta diversamente, la partita è chiusa prima ancora di essere cominciata.

  PRESIDENTE. Professor Bertolissi, vorrei ringraziarla anche per il passaggio che ha fatto sul discorso delle bozze, perché qualche settimana fa abbiamo avuto il Ministro Stefani in audizione, che aveva chiarito che la bozza era unica ed era reperibile sul sito del Ministero, chiarimento che secondo me era doveroso.
  Ho una domanda velocissima e semplice, perché è un argomento che mi premeva chiarire. Vorrei sapere se secondo lei nella bozza ci siano gli strumenti con i quali, in un'ottica di responsabilizzazione delle regioni, lo Stato possa verificare che le regioni, in caso di prosecuzione di questo regionalismo differenziato, compiano il loro iter.

  MARIO BERTOLISSI, Professore di diritto costituzionale presso l'Università di Padova. C'è un tutoraggio continuo e, se per caso dovesse essere costituita quella benedetta Commissione, quella è la sede nell'ambito della quale si passa al setaccio tutto quello che si fa e si ha intenzione di fare, valutando prima le eventuali conseguenze, pronti a rettificare immediatamente quello che non ci dovesse essere di positivo.
  Se poi qualcuno pensa che passata la festa, gabbato lo santo (scusate se la dico in questo modo), allora chiudiamo la pratica, perché significa che uno va per cercare di fregare il prossimo e non può essere. Sono testimone di come è avvenuto il sistematico avvelenamento dei pozzi, ho in testa uno scritto di Massimo Severo Giannini sul lavar la testa all'asino, in cui dice che eravamo tutti d'accordo, il meglio del meglio della dottrina, la politica, dopodiché non è venuto fuori niente, cioè fatta la legge, fatto quel benedetto decreto 616, è cominciata l'opera di erosione, di spoliazione, e sempre comunque si è detto che è mancato un grande disegno.
  Ritengo che il grande disegno, sulla base dell'esperienza che si è realizzata, sia fallito proprio perché è stato probabilmente un grande disegno come la legge di programmazione, il programma economico, che sono stati libri dei sogni, elaborati e costruiti. Qui, invece, si abbandona la prospettiva dei sogni, anche perché abbiamo problemi impellenti.
  Aggiungo che quando sono state messe in piedi le regioni (eravamo nel 1970) la lira vinceva l'Oscar, il debito pubblico era al 50-60 per cento, cioè fisiologico. Dobbiamo Pag. 38 sapere che oggi la dottrina di cinquant'anni fa non serve a niente, perché è cambiato tutto, e dobbiamo fare i conti con quello che abbiamo, dobbiamo domandarci se siamo in grado di assicurare le tutele della Parte I della Costituzione.
  Il regresso c'è, i dati statistici sono terribili. Nel 2006 Dario Di Vico scrive: «due terzi dei giovani pur di trovare un posto di lavoro sarebbero disposti a rinunciare alle sacre conquiste dei padri e delle madri: ferie, copertura della malattia, indennità di maternità. È la prima volta che a livello di rappresentazione collettiva emerge un orientamento così remissivo», che significa rinuncia a quello che è scritto nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino, oltre che nel disposto costituzionale specifico degli articoli 37 e 38.
  Credo che questo sia l'elemento di unificazione, non, secondo vecchi slogan, l'evocazione di diritti e di doveri tirata così, siamo tutti di fronte al problema di arrestare la regressione, perché lo Statuto dei diritti dei lavoratori non è stato abrogato, ma è abrogato. Magari fosse stato abrogato di diritto e vigesse nella realtà, è stato abrogato di fatto e non opera nella realtà, o almeno io vivo questa vicenda in questi termini e, se mi hanno mandato qua, vuol dire che si fidano di quello che ho detto (mi riferisco alla regione Veneto), ma queste sono state le riflessioni che abbiamo sempre fatto, al di là degli slogan.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Bertolissi per la sua gentilezza. Naturalmente le chiederemo, con abbiamo chiesto agli altri relatori, qualche appunto. Chiariamo che parlava come esperto e non in qualità di rappresentante della regione Veneto.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti
della SVIMEZ.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul processo di attuazione del «regionalismo differenziato» ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della costituzione, l'audizione di rappresentanti della SVIMEZ.

  ADRIANO GIANNOLA, Presidente della SVIMEZ, Grazie, presidente. Programmiamo di concludere un contributo più articolato che poi faremo pervenire, quindi oggi farò una sintetica considerazione sull'autonomia differenziata, almeno per come la vede la SVIMEZ, ripromettendoci di inviarvi un documento più dettagliato, che non abbiamo portato oggi, nel senso che attendiamo la certificazione di una serie di cifre, che è meglio che siano certificate prima di lasciarle a vostra disposizione.
  Molto sinteticamente, l'articolo 116, terzo comma è già nella Costituzione e prevede le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sulla base di un'intesa tra lo Stato e le regioni, per conferire queste autonomie differenziate. Da un certo punto di vista riteniamo che la discussione sull'autonomia, sia un'occasione importante, al di là di come è nata e come si sta svolgendo, in qualche misura in forma quasi segreta, anche se ora comincia a diradarsi la nebbia su quanto si sta discutendo, un'occasione importante per rimettere con i piedi per terra un ragionamento che si è interrotto almeno dal 2009. Proprio per questo riteniamo che le richieste della Lombardia, del Veneto e dell'Emilia-Romagna non possano che essere formulate e venire valutate in conformità al regime di piena operatività di quello che prevede la legge in applicazione della Costituzione esattamente su questo tema.
  L'articolo 116, terzo comma della Costituzione fa esplicito riferimento all'articolo 119, la cui applicazione è stata normata con la legge n. 42 del 2009, che tuttavia è rimasta del tutto inapplicata, ed è molto chiaro il percorso individuato dall'articolo 119, cioè la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali, i costi standard e quindi i fabbisogni standard, quelli che Veneto e Lombardia al momento, almeno a ottobre, nella prima esplicitazione del disegno di legge, avevano individuato come parametri di definizione del fabbisogno standard, ossia la popolazione e la capacità fiscale del territorio, cioè una cosa ovvia e l'altra cosa inammissibile Pag. 39 in un discorso costituzionalmente corretto.
  Riteniamo che questa sia un'ottima occasione, il cui sviluppo prenderà molto più tempo di quanto non sia stato previsto in Parlamento, per fare un'operazione verità sul tema autonomie e su molti equivoci che viziano, io credo, la trattativa Stato/regioni in questa fase, equivoci che emergono, essendo la trattativa pressoché segreta, dalle poche bozze che di tempo in tempo vedono la luce.
  In queste bozze noi individuiamo un'ossessione, quella del controllo della capacità fiscale del territorio, un'ossessione che non ha motivo di esistere perché non c'è una capacità fiscale del territorio e, quando misuriamo la capacità fiscale del territorio, ammettendo che la possiamo misurare, questa misura è totalmente sbagliata. In questo sui numeri qualcosa siamo in grado di dire. Quei numeri, su cui si basano certe pretese anche in modo aggressivo per tradizione (oggi molto più sottomesso come tono), sono fondati su cifre inesistenti, e questo credo che nell'operazione verità sia un punto importante.
  Ci ripromettiamo quindi di iniziare a delineare nel documento che predisporremo, quale sia il perimetro, ammesso che vogliamo misurare un perimetro, e quale sia il principio, inesistente, sulla base del quale questa capacità fiscale è l'ossessione che pervade tutte le bozze di intesa tra regioni e Stato.
  Questa tendenza secondo noi deriva da una forma quasi canonica di relazioni tra territori, per cui si basa su quella che noi ormai chiamiamo la teoria del diritto alla restituzione, cioè si basa su un'individuazione del residuo fiscale a voi ben noto e sul fatto che su questo residuo si accampano diritti di restituzione, perché il residuo fiscale è quello che non resta sul territorio, e di un avere pro quota, al 90 o 80 per cento, che sono scomparsi oggi dalle bozze che conosciamo, ma che sono surrettiziamente inseriti in tutte le bozze che noi conosciamo. Quindi questo diritto alla restituzione di fatto è uno dei principali obiettivi, al di là dell'efficienza, dell'efficacia, della virtù in tema di autonomia.
  Un tema importante su cui questa operazione verità va costruita è rappresentato dalle forti perplessità che concernono queste richieste quando arriviamo al capitolo finanziamento delle funzioni attribuite. Ci si dice a livello mediatico che questa autonomia avrà una sostanziale neutralità finanziaria, ma tutti i nostri calcoli, basati su qualsiasi possibilità di verificare tramite le famose bozze segrete che non sono segrete, smentiscono la neutralità finanziaria, quindi delle due l'una: o la non neutralità finanziaria, il che vuol dire un incremento del debito, e vi quantificheremo in modo certificato quale sarà a seconda del parametro che emergerà da queste intese, quindi o lo Stato aumenterà il debito per non ridurre i servizi, o ridurrà i servizi nella misura in cui non ci sarà la neutralità finanziaria rispetto alla spesa storica.
  Anche qui il parametro spesa storica è un parametro spurio, che già oggi, se venisse preso a misura dell'intesa tra Stato e regioni, cristallizzerebbe dei divari di diritti di cittadinanza strutturali e li congelerebbe, quindi è incostituzionale.
  Questo è un tema su cui riflettere con molta attenzione ed è un motivo in più per raccomandare di seguire il percorso costituzionalmente corretto, cioè l'applicazione della legge n. 42, di attuazione dell'articolo 119 della Costituzione e quindi coerente con quanto prescrive l'articolo 116, terzo comma, che prevede che si operi «nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119».
  Veniamo alla pretesa che nell'operazione verità va messa sotto attenta osservazione. La pretesa è, lo ripeto, di commisurare il tutto, l'accordo, perché questa è la sostanza vera. La cosa che fa una certa impressione è che sia nel precedente Governo con le pre-intese, sia in questo Governo con queste intese in corso di discussione, non c'è alcuna motivazione quantitativa o qualitativa che legittimi la richiesta di autonomia, c'è un elenco di funzioni che vengono richieste, alcune funzioni legislative esclusive dello Stato sull'istruzione, per le quali non c'è un'articolata e documentata motivazione. Si presume che in una discussione i due lati del tavolo si confrontino a partire dalle motivazioni per cui Pag. 40viene chiesto il confronto, ma questo non esiste, quindi questo è scorretto formalmente e molto scorretto sostanzialmente: nessuno è messo in condizioni di comprendere quale sia l'aspettativa di un'operazione di questo genere.
  Secondo elemento. Qualora questa operazione, come si dà per scontato a priori, portasse ad un efficientamento dell'amministrazione, delle funzioni delegate, le risorse erariali che si liberano viene dato per scontato, anche da questo Governo, che siano a disposizione della regione virtuosa. Questo non ha alcun senso, perché le risorse erariali pongono in capo al Governo un obbligo, quello di corrispondere al finanziamento integrale dei diritti di cittadinanza che, come ripeto, in base ai costi storici non sono affatto garantiti sul territorio nazionale. Quindi che si possa dare una premialità può anche essere, ma che su quelle eventuali risorse, di cui non c'è nessuna previsione né di miglioramento, né di efficientamento, ci sia un diritto è un privilegio abnorme, che verrebbe concesso senza nessuna motivazione.
  A nostro avviso, quindi, questi elementi devono tutti essere messi in discussione, a partire da un'operazione verità su quali siano le aspettative e quali i risultati, il che comporta che dovranno essere effettuate delle verifiche rispetto a un progetto che, concordemente, deve essere valutato, perché – lo ripeto – delle due l'una: o si aumenta il debito per mantenere costanti i non pari diritti di cittadinanza attualmente vigenti, o vengono ulteriormente sacrificati i diritti stessi di quelle realtà che, non essendo parte di questo accordo, verrebbero a sopportarne il costo.
  L'operazione verità è fortemente richiesta, quindi questa è una grande occasione per verificare, concordemente, metodi e norme.
  Ultimo elemento: il residuo fiscale. È fantasma che aleggia in questa vicenda. Il residuo fiscale è un banale aggregato ragionieristico, altro non è che la differenza tra le imposte erariali incassate in un territorio e la spesa corrisposta a quel territorio. Il diritto alla restituzione di chi ha un residuo fiscale ampio (vedremo che non è affatto così ampio, ma si presume ampio, come hanno in mente Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) non ha nulla a che fare con il diritto del territorio, ma è solo la somma dei residui fiscali individuali nei rapporti tra cittadino e Stato.
  Alla base del patto che contraddistingue la nostra comunità, specie dopo la riforma del Titolo V, il principio fondamentale che si applica è quello al quale si fa riferimento in via teorica ed in via pratica, che viene legiferato (legge n. 42 e riforma del Titolo V) ossia il cosiddetto «principio di equità orizzontale», noto a chi si occupa di federalismo fiscale.
  Questo principio di equità orizzontale è quello per cui un cittadino è del tutto indifferente a dove risiede, perché sa che dovunque risiede pagherò le stesse tasse e riceverà gli stessi servizi, e, se è ricco, pagherà più tasse del valore dei servizi che riceve, se è povero, pagherà meno tasse e riceverà un valore dei servizi maggiorato. Questo non ha nulla a che fare con il territorio.
  Se poi in un territorio i cittadini ricchi sono più dei cittadini poveri o mediamente di più, quel territorio contabilizzerà alla fine che i cittadini hanno incassato come servizi meno di quello che hanno pagato come tasse. Questo è il residuo fiscale, che è il principio costitutivo della comunità in questo caso nazionale. Voler spaccare per livelli territoriali il principio che è alla base della comunità nazionale a mio avviso è solo un'esplicitazione di un sovranismo regionale, che è il vero rischio a cui queste autonomie stanno esponendo.
  Il sovranismo regionale nulla ha a che fare con il federalismo, tanto che nel contratto di Governo si parla di regionalismo a geometria variabile, non si parla mai di federalismo. In questo processo, quindi, c'è una mutazione molto singolare, che va attentamente studiata, perché questa mutazione porta a una riforma istituzionale senza fare riforme costituzionali, porta le regioni a diventare Stati, e questo nel gergo tecnico si chiama confederalismo e non più federalismo, dove all'interno di ogni regione i diritti sono uguali per tutti, ma tra Pag. 41regioni i diritti sono diversi, proprio perché ogni regione diventa Stato.
  Questa è una deriva, che non è mai esplicita e non è mai confessata, ma che è molto evidente da moltissimi sintomi.
  L'altra cosa è che questa battaglia sul federalismo fiscale del residuo fiscale è una battaglia senza un vero scopo, perché noi ci sentiamo dire che le grandi regioni, le locomotive del Paese hanno residui fiscali – la Lombardia di 40 miliardi all'anno, l'Emilia-Romagna di 12 e il Veneto di 11 – ma in realtà sono numeri inesistenti, perché nel calcolare la differenza tra tasse pagate e spesa ricevuta ci si dimentica di un aggregato che per l'Italia è estremamente importante: il servizio ricevuto sul debito detenuto dai soggetti residenti (banche, imprese, famiglie, fondi, assicurazioni ed estero) che detengono il debito italiano.
  Questo debito ha un servizio, esattamente come il servizio scolastico e il servizio sanitario, cioè il servizio del debito che costa circa 80 miliardi all'anno, quando va bene. Questi 80 miliardi vanno ai residenti di chi detiene il debito. Se facciamo questo semplice calcolo, il famoso residuo della Lombardia diventa 18 miliardi da 40, quello dell'Emilia-Romagna 2 o 3 miliardi, quello del Veneto 1 o 2 miliardi, quindi tutta questa manovra, quando andiamo a contabilizzarla in modo corretto, dobbiamo arrivare all'esercizio di verità per poter fare un'equa ripartizione delle risorse e un'equa attribuzione di responsabilità, quindi costi standard, fabbisogno standard, livelli essenziali delle prestazioni.
  È curioso che in dieci anni i Governi di destra e sinistra non abbiano assolutamente avviato questa procedura. È il momento di avviarla, quindi questa occasione è preziosa in questo senso.
  Un'ultima considerazione. Questa spasmodica ossessione, perché adesso non entro nel merito delle bozze, ma se andiamo a vedere l'evoluzione dalla richiesta del 90 per cento delle risorse che rimangono sul territorio alla richiesta che non è più il 90 per cento, ma deve essere il costo storico purché io abbia una media superiore alla media nazionale, cioè dovunque c'è qualcosa che fa riferimento alla capacità fiscale del territorio, che – lo ripeto – in termini di principio non ha alcun fondamento, è anticostituzionale, si andrebbe alla Corte per decidere se il territorio abbia dei diritti fiscali o siano i cittadini ad avere dei diritti e dei doveri fiscali.
  L'altro elemento importante è che come rappresentante della SVIMEZ siamo molto preoccupati che si perda di vista il problema che il sistema Italia è un sistema dualistico, in cui le connessioni tra Nord e Sud sono molto rilevanti e vitali per il Nord e per il Sud. Tutta questa fase e quella che ci aspettiamo è una fase che tende a indebolire le connessioni dal punto di vista strutturale, un'ipotesi di redistribuzione ha solo due effetti, incremento del debito o il taglio dei servizi. Tutto questo per l'economia nel suo complesso, del Nord del Sud, è un disastro.
  Questo quindi è un warning che vorremmo mettere in evidenza, dando anche dei numeri di quanto il Sud attivi il nord e di quanto sia molto più produttivo ed efficace investire in opere pubbliche al Sud rispetto al Nord. Queste sono evidenze che curiosamente non entrano in questi dibattiti e noi riteniamo che la cornice a questi dibattiti sia molto importante, perché tra l'altro è una cornice che nasce, esiste e regge nella misura in cui si pensa ancora che il sistema sia una comunità, e sulla base di questo l'equità orizzontale è il fondamento di quella comunità. Grazie.

  PRESIDENTE. Se non ci sono domande, ringrazio il professor Giannola, anche per i contributi che ritenga di farci pervenire, e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 18.15.

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