Sulla pubblicità dei lavori:
Brescia Giuseppe , Presidente ... 2
INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE COSTITUZIONALE C. 1585 COST. APPROVATA DAL SENATO, E C. 1172 COST. D'UVA, RECANTI «MODIFICHE AGLI ARTICOLI 56, 57 E 59 DELLA COSTITUZIONE IN MATERIA DI RIDUZIONE DEL NUMERO DEI PARLAMENTARI» E DELLA PROPOSTA DI LEGGE C. 1616, APPROVATA DAL SENATO, RECANTE «DISPOSIZIONI PER ASSICURARE L'APPLICABILITÀ DELLE LEGGI ELETTORALI INDIPENDENTEMENTE DAL NUMERO DEI PARLAMENTARI»
Audizione del professor Valerio Onida, Presidente emerito della Corte costituzionale, e del professor Giampiero Di Plinio, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara.
Brescia Giuseppe , Presidente ... 2
Onida Valerio , Presidente emerito della Corte costituzionale ... 2
Brescia Giuseppe , Presidente ... 6
Di Plinio Giampiero , Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara ... 6
Brescia Giuseppe , Presidente ... 6
Onida Valerio , Presidente emerito della Corte costituzionale ... 6
Brescia Giuseppe , Presidente ... 6
Di Plinio Giampiero , Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara ... 6
Brescia Giuseppe , Presidente ... 8
Cecconi Andrea (Misto-MAIE) ... 8
Di Plinio Giampiero , Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara ... 8
Brescia Giuseppe , Presidente ... 9
Onida Valerio , Presidente emerito della Corte costituzionale ... 9
Di Plinio Giampiero , Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara ... 11
Forciniti Francesco (M5S) ... 12
D'Ambrosio Giuseppe (M5S) ... 12
Corneli Valentina (M5S) ... 13
Di Plinio Giampiero , Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara ... 13
Onida Valerio , Presidente emerito della Corte costituzionale ... 13
Di Plinio Giampiero , Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara ... 15
Forciniti Francesco (M5S) ... 16
Di Plinio Giampiero , Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara ... 16
Brescia Giuseppe , Presidente ... 16
ALLEGATO: Memoria presentata dal professor Giampiero Di Plinio ... 17
Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIUSEPPE BRESCIA
La seduta comincia alle 16.45.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione del professor Valerio Onida, Presidente emerito della Corte costituzionale, e del professor Giampiero Di Plinio, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione all'esame delle proposte di legge costituzionale C. 1585 cost. approvata dal Senato, e C. 1172 cost. D'Uva, recanti «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari», e della proposta di legge C. 1616, approvata dal Senato, recante «Disposizioni per assicurare l'applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari», l'audizione del professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, e del professor Giampiero Di Plinio, professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara.
Mi scuso per aver fatto attendere i nostri ospiti: non è stata colpa nostra, ma il ritardo è dipeso dal protrarsi dei lavori dell'Assemblea.
Ringrazio il presidente Onida e il professor Di Plinio per aver accolto l'invito della Commissione e mi scuso con loro ancora per il ritardo. Chiedo cortesemente di contenere i loro interventi ciascuno in circa dieci minuti – ma non saremo assolutamente tassativi – in modo tale da consentire ai colleghi di porre delle domande e di aprire un dibattito.
Do la parola ai nostri ospiti per lo svolgimento delle loro relazioni.
VALERIO ONIDA, Presidente emerito della Corte costituzionale. Grazie, presidente. Chiedo scusa a mia volta perché non ho molto tempo a disposizione, avendo programmato il viaggio in altri orari, e soprattutto perché sull'argomento non ho molte cose di sostanza da dire. Credo che il professor Di Plinio introdurrà argomenti anche più interessanti, dal vostro punto di vista, sul tema specifico della riduzione del numero dei parlamentari.
Leggendo i resoconti delle precedenti sedute della Commissione ho visto che si è discusso del fatto se si potesse o non si potesse, fosse opportuno o non opportuno, abbinare l'esame di questo tema, la riduzione del numero dei parlamentari, ad altri temi. Capisco che questo è un problema di diritto parlamentare (abbinamenti, ammissibilità degli emendamenti). Nessi e collegamenti fra argomenti di questo genere è facile trovarli, in un certo senso, perché tutto si tiene.
Mi limiterei a dire che in linea di massima, essendo questo un procedimento per l'approvazione di una legge costituzionale, essa può evidentemente avere oggetti anche diversi, anche plurimi, come abbiamo visto in precedenti esperienze. Tuttavia, proprio l'esperienza dice che se la riforma costituzionale deve avere poi il riscontro di un voto popolare, allora si pone il problema dell'omogeneità e dei nessi. Se n'è molto discusso, se n'è discusso anche in sedi giudiziarie. Personalmente sono convinto che Pag. 3in un referendum si debba rispettare l'omogeneità dell'oggetto, altrimenti esso diventa un modo per esprimere consenso o dissenso rispetto al Governo in carica o alla maggioranza del momento, e non per pronunciarsi su un oggetto specifico.
Questo, però, solo se si va a un referendum. Se fossimo nella sede in cui si deve definire l'oggetto di un referendum, opterei per non troppi abbinamenti e per cercare nessi stretti, cioè cose che davvero si tengono insieme. Tuttavia, siccome non siamo in quella sede, è tutta un'altra prospettiva, questa che in Parlamento c'è, di esaminare insieme determinati argomenti.
Se mi è consentito di esprimere un'opinione che non è di tipo tecnico-giuridico, ma di tipo politico, penso che se si prospetta la possibilità di un ampio consenso, tale da portare probabilmente a raggiungere la maggioranza dei due terzi sul progetto, allora si può anche più liberamente mettere insieme anche altri temi su cui c'è lo stesso consenso. Se, invece, si dovessero abbinare, a un argomento che potenzialmente vede un largo consenso, argomenti più contrastati, questo sarebbe un modo per sabotare la procedura, perché in primo luogo si rallenterebbe molto il lavoro in Commissione e poi in Aula, ma soprattutto, se si dovesse, per ipotesi, andare a referendum, si riproporrebbe, secondo me, il problema della omogeneità o disomogeneità del contenuto.
Ripeto, non è un'osservazione solo tecnico-giuridica. Le connessioni tra i vari argomenti sono sempre in qualche modo relative, c'è un criterio anche di opportunità politica nell'abbinare o non abbinare l'esame di certi argomenti. A me pare che in certi casi, come per esempio per l'eventuale intervento sul numero dei delegati regionali che partecipano all'elezione del Presidente della Repubblica – perché si riduce il numero dei parlamentari e quindi cambia la proporzione fra parlamentari e delegati regionali – di per sé si tratti di un argomento strettamente connesso, anche se, personalmente – ma questa è un'opinione mia, probabilmente non condivisa dal professor Di Plinio – non mi pare un male che l'elezione del Presidente della Repubblica avvenga da parte di un collegio in cui diminuisce la quota di parlamentari e aumenta proporzionalmente la quota di delegati regionali, proprio perché l'elezione del Presidente della Repubblica è stata pensata come elezione di secondo grado, ma non di derivazione solo parlamentare: quindi da questo punto di vista non vedrei male il fatto che cresca proporzionalmente la quota dei delegati regionali, che restano tre per ogni regione, pur diminuendo il numero dei parlamentari.
Un altro argomento che certamente ha una connessione con il numero di parlamentari è quello dell'elettorato passivo e attivo per il Senato che, come è noto, adesso è differenziato rispetto a quello della Camera. Ho visto che il tema è stato sollevato. Questo, secondo me, è un tema che, se ci fosse il consenso, sarebbe opportuno affrontare, perché, obiettivamente, oggi, nel tipo di struttura costituzionale e parlamentare che abbiamo, è un po’ un fuor d'opera questa previsione di un elettorato attivo e passivo differenziato tra le due Camere. Il Senato forse non è mai stato, ma certamente oggi non è la «Camera degli anziani», come forse in qualche modo era stata pensata da qualcuno, né una «Camera di riflessione», dove siedono persone con più esperienza. Non è così, lo sappiamo. Ha senso allora mantenere la differenziazione nell'elettorato attivo per sette classi di età, dai 18 ai 25 anni (e la differenza è ancora maggiore per quanto riguarda l'elettorato passivo)? Credo di no. Questo, dal punto di vista del merito è un tema, a mio avviso, che meriterebbe, se ci fosse il consenso, di essere esaminato insieme a quello del numero dei parlamentari. Viceversa, se fosse controverso, potrebbe intralciare la prosecuzione dell'esame della riforma.
Vi sono altri temi che non sono finora stati toccati, ma che potrebbero avere delle connessioni. Per esempio quello della circoscrizione estero, del modo in cui votano i cittadini all'estero: il senso che ha, e il modo in cui è realizzato questo voto. È un tema che, a mio parere, meriterebbe di essere ripensato rispetto ai tempi della riforma del 2000-2001, perché il voto in una circoscrizione estero così com'è, separata da quelle nazionali e ripartita in collegi enormi, finisce per essere apparentemente Pag. 4non tanto l'estensione del diritto di voto a persone che fanno parte, in senso più o meno largo, della comunità nazionale o di specifiche comunità appartenenti al nostro Paese, quanto l'espressione di una sorta di voto iure sanguinis: ho sangue italiano, quindi voto. Questo non credo abbia molto senso, anche senza considerare che, in tema di cittadinanza, ius sanguinis e ius soli sono notoriamente questioni controverse. A mio avviso questo tema meriterebbe attenzione, ma ancora una volta il problema è sapere se c'è consenso sufficiente, e anche se ci sono idee sufficientemente maturate per introdurre la questione.
Quanto al diritto di voto, se mi è consentito ancora una volta di esprimere un'opinione, penso che dovrebbero essere riviste le modalità del voto dei cittadini residenti all'estero, e forse bisognerebbe anche pensare all'estensione del diritto di voto, almeno amministrativo, a chi risiede da molto tempo in Italia e non ha la cittadinanza (è il tema della Convenzione di Strasburgo sul voto amministrativo). Ma, ripeto, sono opinioni che non hanno nulla a che vedere con il vostro argomento e mi scuso se ho detto cose estranee al vostro interesse.
Sul contenuto della proposta C. 1585, che è quella da cui voi siete partiti, il mio apporto è limitato, ma non mi pare di vedere se non qualche piccolo problema tecnico-legislativo. Non ritengo che diminuire, anche in questa misura, il numero dei parlamentari possa portare a degli inconvenienti di ordine strutturale o possa essere negativo dal punto di vista della funzionalità o della capacità di rappresentanza del Parlamento. Com'è noto, poi, il numero dei componenti delle assemblee elettive è molto vario nel tempo e nello spazio.
Ovviamente, diminuendo il numero, cambia il quoziente di rappresentanza della popolazione. Certo, se fossimo in un sistema in cui si vota soltanto la persona, si potrebbe obiettare che si costringe una comunità più ampia a votare per la scelta dello stesso individuo, ma ormai non siamo in una situazione nella quale il parlamentare viene votato perché conosciuto personalmente, come accadeva all'epoca del suffragio ristretto, da tutti gli elettori o quasi.
L'altra cosa che, ovviamente, succede diminuendo il numero è anche, pensando alla distribuzione dei seggi in modo proporzionale, che diminuisce la potenzialità di rappresentanza di gruppi e forze politiche minori: se oggi un seicentesimo della popolazione può pensare di avere una qualche rappresentanza, se i deputati diventano 400, sarà solo un quattrocentesimo della popolazione che può essere rappresentato. Ripeto che, però, questi sono temi in relazione ai quali a mio parere stiamo tenendo conto anche dell'esperienza costituzionale. Quanto poi alla funzionalità, all'efficacia del funzionamento delle Assemblee, ancora una volta non penso che il numero sia determinante. Semmai, da questo punto di vista, forse la riduzione potrebbe, anche se non è questo l'elemento fondamentale, rendere più spedito il lavoro di un'Assemblea. Non vedo, quindi, elementi decisivi per dire che è sconsigliabile ridurre in questa misura il numero.
Piuttosto, ma esprimo qui un'altra mia opinione, bisognerebbe lavorare molto sui modi in cui il Parlamento esercita le sue funzioni, e quindi sui regolamenti e sulle prassi. Negli ultimi mesi abbiamo avuto occasione di assistere a qualche dibattito della Camera dei comuni inglese (li avrete visti sicuramente anche voi), e fa impressione vedere la differenza tra quello che è un dibattito di quella Camera e un dibattito in una delle due nostre Camere, qualunque delle due Camere: per la lunghezza degli interventi, per il fatto che spesso sono interventi letti, per la caratteristica di continua ripetizione degli argomenti. Là sembra un vero dibattito, in cui si dicono le cose essenziali, e se le dicono uno con l'altro, uno dopo l'altro. Anche là hanno i loro problemi, ma il modo in cui avviene lo scambio di opinioni e il confronto parlamentare dà l'impressione di una molto maggiore essenzialità ed efficienza. Il nostro dibattito parlamentare invece dà veramente l'impressione di essere spesso sovrabbondante, faticoso, ripetitivo. Un intervento di dieci minuti è spesso troppo lungo, in certe occasioni: in meno di dieci minuti si possono dire molte cose.
Semmai, dunque, il problema è quello di ripensare i regolamenti e le prassi parlamentari, Pag. 5 ma questo non è un tema costituzionale in senso stretto: non è la Costituzione che impone di avere un Parlamento che discuta in questo modo; al contrario, penso che sarebbe opportuno e utile che si facessero tutti gli sforzi necessari per portare le Assemblee a discutere in un altro modo, a lavorare in un altro modo.
Detto questo, del testo della proposta C. 1585 mi pare senz'altro da approvare la modifica all'articolo 59 sui senatori a vita, e non perché si tratti propriamente di una modifica della disciplina attuale. A mio avviso, infatti, l'interpretazione giusta è sempre stata quella attualmente seguita, e cioè che i senatori possono essere solo cinque. Comunque, visto che, come è noto, la prassi ha conosciuto momenti di distacco da tale interpretazione, è opportuno chiarire definitivamente che i senatori a vita di nomina presidenziale possono essere non più di cinque in tutto, e non cinque per ogni Presidente. Questa mi pare un'aggiunta utile.
C'è un altro aspetto particolare, che viene toccato indirettamente nel momento in cui si modifica il numero minimo dei senatori per ogni regione. Mi riferisco al fatto che il Senato è eletto a base regionale, quindi rimane l'idea di un'elezione che tenga conto dell'articolazione regionale dello Stato, e che in qualche modo assicuri una rappresentanza nel Senato anche alle singole popolazioni regionali, con la previsione del numero minimo. Si ha ovviamente una riduzione del numero minimo (da sette a tre) di senatori per regione.
Nel sistema attuale quest'elezione a base regionale è prevista dalla Costituzione, però non ha fino adesso avuto sviluppi tali da far pensare che l'Assemblea possa avere una composizione significativamente diversa da quella di una Camera «nazionale» in relazione al fatto che essa si articola secondo le regioni. Nel caso in cui il Senato non avesse più il compito di votare la fiducia, probabilmente sarebbe opportuno dare un seguito più consistente alla differenziazione e all'articolazione regionale, quindi alla presenza di senatori rappresentanti delle singole regioni.
Qualcuno di voi, nel dibattito, ha accennato al fatto che a partire da quest'argomento bisognerebbe invece rimettere in discussione la forma di governo. Chiaramente, questa sarebbe una scelta suscettibile di alterare completamente l'oggetto della discussione. È evidente che sarebbe tutt'altra cosa l'idea di intervenire sulla forma di governo, ma anche quella di intervenire sul bicameralismo. Sollevare questo tema a proposito dell'attuale proposta, che parte invece con l'idea puntuale soltanto del mutamento del numero dei parlamentari, mi sembrerebbe fuori luogo.
Sulla parallela proposta C. 1616, relativa alla legge elettorale, non ho osservazioni tecniche particolari. La proposta reca un'accurata opera di revisione della legge elettorale in vigore, allo scopo evidente di renderla applicabile, intervenendo per il minimo indispensabile. Non si è fatto nulla di più. Non ho visto nessun tentativo di alterare il meccanismo elettorale. Tutto rimane identico, a parte quelle variazioni tecniche che discendono dal fatto che non ci sono più 630 deputati e 315 senatori, ma numeri inferiori.
Da questo punto di vista, sempre esprimendo opinioni, un ripensamento della legge elettorale credo sarebbe molto utile, ma è ovvio che ciò coinvolge ben altri problemi. Penso, per esempio – senza entrare nella tematica più ampia della scelta tra maggioritario e proporzionale o di proporzioni diverse tra le due quote, che sono argomenti seri, ma appunto non pertinenti in questa sede – al collegamento stretto che attualmente la legge fa tra i due voti, nel collegio uninominale e nei collegi plurinominali, impedendo all'elettore di differenziare il suo voto. Questa mi sembra un'anomalia, una contraddizione nella legge attuale. In questa sede di revisione minimale della legge elettorale, però, evidentemente, anche questo argomento non potrebbe entrare. Potrebbe entrare se ci fosse il consenso, ma suppongo che probabilmente il consenso sia molto più difficile da raggiungere, e quindi non insisto oltre.
Mi pare che l'unico dubbio di carattere costituzionale che è stato avanzato sia quello sulla correttezza della delega al Governo per la revisione dei collegi. Questa delega eventuale, cioè legata a una futura eventuale necessità di modifica, mi sembra correttamente Pag. 6 concepibile: c'è un termine di tempo, c'è un oggetto definito e ci sono dei criteri assolutamente definiti.
Con questo avrei finito la mia brevissima esposizione.
PRESIDENTE. Se lei può rimanere fino alle 18, c'è il tempo per svolgere l'intervento del professor Di Plinio, per poi aprire un breve dibattito.
GIAMPIERO DI PLINIO, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara. Mi terrò nei dieci minuti.
PRESIDENTE. Benissimo, grazie.
VALERIO ONIDA, Presidente emerito della Corte costituzionale. Forse, io ho sforato un po’.
PRESIDENTE. Non si deve preoccupare.
GIAMPIERO DI PLINIO, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara. È stato un piacere sentirti.
Ho depositato una breve memoria in cui ho affrontato dieci punti, dieci mosse, ma vi inviterei a porre la vostra attenzione sul titolo della mia memoria: «adattamento» della Costituzione, non riforma. Il professor Onida ha opportunamente rilevato che una cosa è approvare con la maggioranza di due terzi e una cosa è invece andare al referendum. Malgrado all'epoca, nel 2016, fossi del parere che il progetto di riforma costituzionale non andava spacchettato. Aveva ragione il professor Onida, andava spacchettato. Mi metto cenere sui capelli.
Adattamento, però, e non riforma, per un fatto elementare. Trent'anni fa, anzi di più, in un passo celeberrimo di un altrettanto celebre scritto, il professor Zagrebelsky distinse adeguamento da riforma. Sinteticamente, l'adeguamento si ha quando si adatta la Costituzione formale al mutamento della Costituzione materiale, cioè cambia l'ambiente naturale in cui l'organismo Costituzione vive e, cambiando l'ambiente, si fa una adaptation. Non vorrei essere troppo darwiniano, ma l'immagine è quella. Giustamente, Zagrebelsky diceva: lì non solo si può fare, ma forse si deve fare, perché se non ti adatti, è molto probabile che non resisti, che non hai resilienza ai mutamenti che verranno. Quelle che, invece, sono impossibili da fare sono le «riforme» costituzionali, secondo Zagrebelsky: cioè una riforma che non attua, che non si adegua a qualcosa che è successo, ma che cerca di crearlo. Non so se sono riuscito a spiegarlo bene, ma il pensiero del maestro è palmare.
Io direi che noi abbiamo vissuto nel 2016 un'applicazione concretissima, malgrado io stessi dalla parte del «sì», del pensiero del professor Zagrebelsky. Che cosa voglio dire con questo? Che hanno ragione, e io adesso mi ci metto insieme, i colleghi i quali dicono che bisogna spacchettare. Dopo che è successo un terremoto, devi prendere lezione dal fatto e ricostruire, ma secondo criteri antisismici, e qui lo spacchettamento è un criterio antisismico, perché azzera la possibilità che risucceda un terremoto di quel genere.
Venendo più precisamente alla questione che mi è stata posta con gentilezza, di cui ringrazio il presidente e la Commissione, dico che mi sono posto il problema di che cosa sia il Parlamento e di che cosa sia la riduzione dei parlamentari. È un fatto, e un fatto può avere sia effetti costituzionali sia effetti economici.
Nella memoria che ho depositato trovate in modo molto dettagliato, tra le dieci mosse, alcuni aspetti che riguardano l'impatto economico e anche l'impatto organizzativo, l'impatto sociologico e politologico dei problemi – ho cercato di motivare con studi di carattere il più possibile empirico – e un altro aspetto che invece riguarda l'impatto costituzionale. Parto da quest'ultimo, lasciando magari spazio alle vostre domande anche per poter dire poi qualcosa di concreto.
Su gran parte delle cose che ha detto il professor Onida sono precisamente d'accordo. Anch'io condivido il fatto che riforme «spacchettate» – scusate se uso di nuovo questo termine – di questo tipo, se hanno una maggioranza molto ampia, funzionano Pag. 7 meglio, sono più veloci, sono più facilmente attuabili. Per avere la maggioranza ampia – ho seguito gli ultimi resoconti – c'è questo problema, che ha citato già il professor Onida, dell'abbinamento, del perimetro della riforma.
È ovvio che quella riforma ha un perimetro definito, non c'è dubbio. Io ho cinque punti rilevanti da illustrare. Due di questi punti, non ce li potete mettere: forma di governo e sistema elettorale. Non ho detto che non ci si deve entrare. Fatelo in un altro momento.
Di per sé, questa riforma è molto valida, secondo me – io sono molto più entusiasta del professor Onida – perché porta dei benefìci notevoli su tanti aspetti. L'ultimo di questi aspetti che mi interessa è costituito da questioni come i vitalizi. Non sono quelli, anche quelli, ma sono anche altri. Sono soprattutto due.
Il primo riguarda il recupero di prestigio e di sovranità del Parlamento. Non concordo con le affermazioni di diversi colleghi sulla crisi di rappresentanza, secondo le quali ci vuole più rappresentanza e non si può tagliare, perché se si taglia abbiamo meno rappresentanza: è un'immensa sciocchezza; non c'è questa crisi, o meglio, se c'è, non la correggi aumentando il numero dei parlamentari.
Quello che c'è ed è evidente, risalente – lo studiavo già nei manuali, e forse anche il maestro Onida – è la crisi della democrazia rappresentativa, del Parlamento in sé, dell'istituzione parlamentare, che è sempre più ampia nella misura in cui il mondo si integra sempre di più. Io vado a parlare a Buenos Aires – l'ho già fatto a Milano – di questo problema: i vincoli numerici. Quali sono gli effetti costituzionali in termini di bilancio, di sovranità del Parlamento, di rappresentatività e di diritti sociali, dei vincoli numerici? Diventa un problema costituzionale, perché il vincolino è un riflesso della globalizzazione. Si tratta del primo aspetto, in ordine al quale rinvio alla memoria per un esame dettagliato.
Il secondo aspetto è, appunto, quello dell'impatto economico delle riforme parlamentari. Un Parlamento più ristretto – la diciamo così – riesce a essere maggiormente di qualità, nel senso di avere maggiore efficacia nelle risposte e di essere capace di dare risposte: molti rivoli che finiscono a vuoto non ci saranno più. Questo significa che 600 parlamentari, 400 una volta e 200 dopo, anche con il bicameralismo e tutto il resto, sono molto più in grado di 945 di selezionare gli argomenti che hanno un impatto sociale, economico e politico più alto.
Uno studio empirico dei colleghi dell'Università di Groningen dimostra che le mozioni nei Parlamenti hanno più probabilità di essere approvate non in base al numero dei parlamentari, ma in base alla qualità e alla rilevanza sociale del dilemma che c'è dentro la mozione. Un Parlamento più piccolo ha queste capacità. Non si tocchi, quindi, la forma di governo, non si tocchi il sistema elettorale. Mi pare, invece, abbastanza fattibile l'integrazione che suggeriscono sia la proposta C. 1647 Ceccanti sia la proposta C. 295 Meloni, anche se sono di formulazione differente. Personalmente, propendo per 18 anni in tutti e due i casi. Questo risolverebbe un piccolo problemino, quello della differenza di composizione. Se non fai votare i diciottenni, è chiaro che il Senato ha una composizione politica più o meno leggermente diversa.
Per il resto, ci sono molti problemi. Uno, addirittura, mi sono anche forse pentito di averlo sollevato nella memoria, è il problema che è stato posto in qualche Stato americano in cui, alla riduzione del numero dei parlamentari, si sono alzate le femministe e hanno detto che penalizza le donne. Rinvio alla memoria per un'esposizione dettagliata e per i riferimenti bibliografici. Dopo la discussione lunga, grazie a voi, col professor Onida, e devo dire che questo è stato il lato più piacevole di tutta la giornata, siamo arrivati al punto che non è scritto né in cielo né in terra che una riduzione o un aumento del numero di parlamentari in sé possa incidere sulla proporzionalità di rappresentanza femminile. Piuttosto, bisogna agire in altri modi.
Un altro aspetto, ma che mi ripropongo di indagare con scritti successivi, è il minore impatto quantificabile – ho citato uno scritto recente di economia empirica che lo quantifica – del minore numero dei parlamentari Pag. 8 sull'efficacia e sulla pervicacia delle lobby. Meno parlamentari significa più resilienza al sistema lobbistico. C'è uno studio empirico, al quale rinvio. Vi ringrazio per la vostra attenzione.
PRESIDENTE. Ringraziamo noi entrambi per il vostro contributo.
Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
ANDREA CECCONI. Mi rivolgo non tanto al professor Onida, che ha già espresso dei pareri anche personali. Abbiamo avuto delle audizioni anche ieri, ed è abbastanza chiaro a tutti – credo – che meno si è, più è facile prendere le decisioni, questo in tutti gli ambiti, non soltanto in Parlamento. Forse, non è proprio una questione di quantità, ma più che altro di qualità: non è detto che le decisioni prese più in fretta siano migliori, dipende dalla qualità delle decisioni che vengono prese.
Su tre punti, però, vorrei un parere, in primo luogo sul lavoro parlamentare. Qui alla Camera, ad esempio, nel lavoro di Commissione, la riduzione da 40-45 deputati per Commissione a 30 deputati per Commissione non dovrebbe creare difficoltà. Si è un po’ di meno, ma non c'è difficoltà. Al Senato, i numeri sono più ridotti. Sono già in 20-22 per Commissione e si passerebbe a 13-15 per Commissione. Ora, alcuni provvedimenti hanno anche una certa valenza. Adesso, per esempio, abbiamo approvato il reddito di cittadinanza – io ho partecipato ai lavori – ed è un provvedimento che necessita di un approfondimento, di uno studio, di una qualità di lavoro che magari in 40 è una questione, mentre in 15, per così dire, le teste sono di meno.
È stato accennato alla riforma dei regolamenti parlamentari. A prescindere dal fatto che sono convinto che una riforma sia necessaria, vorrei capire se questa riduzione, soprattutto al Senato, tanto più alla Camera, comporti secondo voi uno stravolgimento generale dell'organizzazione, perché c'è una compressione, non soltanto numerica: siccome, però, i lavori sono quelli che conosciamo, comportano un impegno personale, ma le ore sono ventiquattro e la persona è una, si capisce che non si può arrivare da tutte le parti. Se si è in più, ci si divide il lavoro; se si è in meno, il lavoro rimane «a capo uno». Vorrei capire se ciò comporti una visione completamente differente di quello che dovrebbe essere il lavoro parlamentare rispetto a quello che noi conosciamo oggi, se questa riforma possa portare a questo.
L'altro aspetto riguarda il fatto che è vero che il mondo sta cambiando, che attualmente ci troviamo in una situazione in cui il voto del cittadino non comporta necessariamente un collegamento tra eletto ed elettore. Non è detto che sia giusto, ma è così, è questa la deriva verso cui si è andati. La mia valutazione personale, però, è che l'autorità, l'autorevolezza del Parlamento risente anche del fatto che i cittadini non hanno più un collegamento con un eletto nel territorio. Questa è una mia visione personale. Nella passata legislatura, la proposta elettorale del Movimento 5 Stelle, nella relazione illustrativa, auspicava questo, ossia ristabilire un collegamento tra eletto ed elettori, che secondo me è fondamentale. Visto che non si può in questa sede riformare il sistema elettorale, ma è necessario farlo, soprattutto se si riduce il numero dei parlamentari, qual è secondo voi il metodo migliore per creare questo tipo di collegamento?
Infine, riguardo alla qualità, è chiaro che meno deputati e senatori hai, più la scelta di queste persone deve essere oculata. Senza porre limiti alla Provvidenza, si ripone nelle mani dei partiti il compito di formare delle liste con una classe dirigente all'altezza del compito che deve essere affrontato. Non sempre questo avviene, ma è quello che dovrebbe avvenire. Secondo voi, sarebbe opportuno trovare un sistema – negli anni se ne sono indicati tanti, come le primarie obbligatorie – per fare in modo che i partiti siano costretti dai cittadini a individuare una classe dirigente accettabile per il compito cui sono chiamati?
GIAMPIERO DI PLINIO, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara. Basta ridurre il numero dei parlamentari.
Pag. 9PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.
VALERIO ONIDA, Presidente emerito della Corte costituzionale. «Meno si è, più è facile decidere» non credo sia un motto che si possa applicare a un'assemblea parlamentare, dal momento che oggi le assemblee parlamentari sono fondamentalmente divise per appartenenze politiche, cioè sono assemblee di partito, assemblee di gruppi, non assemblee di individui.
In un'assemblea di individui, certo, uno decide più rapidamente di due o di tre, e tre decidono più rapidamente di quindici, ma in un'assemblea parlamentare il problema non è mettere d'accordo le teste di 630 o di 400 individui, ma mettere d'accordo prospettive, idee collettive che sono state selezionate e portate all'esame dell'assemblea dai gruppi. Il problema non è quello del numero dei parlamentari.
Semmai, può essere che a meno parlamentari corrisponderanno anche meno gruppi politici. Oggi sembra che il numero dei gruppi parlamentari che si creano tenda a essere crescente, non decrescente. Non so bene, o fino a un certo punto, il perché, ma c'è un'accentuata frammentazione. Questo certamente non giova al buon andamento di un'assemblea parlamentare.
È vero che il pluralismo è alla base del lavoro di qualunque Parlamento: senza pluralismo il Parlamento perderebbe di significato. Un Parlamento composto dalla sola maggioranza forse non servirebbe più, o comunque sarebbe del tutto anomalo. Ricordo quando gli studiosi, come ad esempio Mortati, definivano uno scrutinio maggioritario di lista, addirittura potenzialmente su base nazionale, per cui la lista che ottiene un voto in più delle altre ottiene la totalità dei componenti dell'assemblea – questo sarebbe un maggioritario estremo – «scrutin d'écrasement», scrutino di schiacciamento. Non si avrebbe più una vera rappresentanza.
Il numero dei parlamentari non incide tanto sulla necessità di mettere d'accordo più o meno soggetti, semmai incide, come dicevo all'inizio, sulla possibilità che esistano gruppi minuscoli, molto piccoli. Ovviamente, dovendo concorrere a un'elezione per quattrocento deputati, una forza che non sia in grado di avere neanche quel quattrocentesimo del consenso, non potrà mai entrare in Parlamento, ma questo è relativamente secondario. Oggi, il Parlamento non è un'assemblea di individui, e non può esserlo. Poi, che ci sia anche la presenza di individualità, che ci sia la necessità di mantenere, e forse di rafforzare, certe prerogative individuali, è un altro discorso, perché ci possono essere temi su cui non conta l'appartenenza di partito. Quando si lavora sui temi principali di carattere politico, se un gruppo ha venti deputati o dieci, non cambia nulla. Il gruppo matura la propria idea, ovviamente anche in parte fuori dall'assemblea parlamentare, e nel Parlamento si tratterà di sapere come questa idea viene portata avanti.
Quanto alla questione, cui si accennava, del numero dei componenti di una Commissione, una Commissione è un corpo ristretto rappresentativo, tanto è vero che è legato al criterio della rappresentanza proporzionale dei gruppi. Non è che se si è in venti anziché in trenta in una Commissione si può fare di meno, e anzi la Commissione dovrebbe essere costituita interamente di persone che si occupano tutte degli stessi problemi, degli stessi argomenti. Non è un gruppo di diversi micro-specialisti, per cui c'è il tecnico di una cosa, il tecnico di un'altra e questi si alternano nel lavoro. La Commissione dovrebbe essere dedicata tutta a un certo ordine di problemi, e quindi, forse, se i componenti sono di meno, certe volte riescono a lavorare meglio, almeno potenzialmente. Lo possono fare in tredici o quindici come lo possono fare in trenta: non vedo differenze, e anzi forse lo potrebbero fare addirittura meglio.
È più impegnativo per i parlamentari, perché c'è troppo lavoro, essere in quattrocento anziché in seicento? Non credo, anche perché le due Camere hanno già un numero molto diverso di membri l'una dall'altra: vorrebbe dire che i senatori sono molto più impegnati dei deputati, il che non mi pare. Il problema è come si divide il lavoro di un'assemblea, non per quattrocento o per seicento, ma tra i temi, tra i Pag. 10gruppi politici, e che tipo di confronto si abbia. Qui il tema è quello dei regolamenti.
Se oggi un deputato non ce la fa, forse è anche perché dovrebbe assistere a sedute sterminate in cui si discute sempre della stessa cosa e non si ha il tempo di affrontare altri argomenti, o qualche volta si arriva troppo tardi, o si arriva, come nel caso estremo della legge di bilancio, all'ultimo momento. Il punto è il modo in cui lavorano, non il numero dei componenti dell'Assemblea.
Il collegamento con il territorio sarebbe di per sé un problema serio. Il Parlamento deve essere rappresentanza di territori o rappresentanza di idee politiche e di gruppi politici per lo più nazionali? La storia ci dice che i Parlamenti nazionali normalmente non sono se non molto limitatamente rappresentanza di territori. Quando ci sono assemblee formate su base territoriale, come per il Senato delle regioni, allora è un altro discorso, si ha un'assemblea in cui i territori in quanto tali sono rappresentati (pensiamo, per esempio, al Bundesrat tedesco): in tal caso sono protagonisti i territori.
Davanti a un'assemblea nazionale, però, è davvero importante che le istanze territoriali siano sempre individuabili nel lavoro dell'assemblea? Non c'è il rischio, invece, che si devii l'attenzione dell'assemblea parlamentare, che per definizione è un corpo destinato ad affrontare problemi di tipo nazionale, e che si introduca una frammentazione in gruppi che abbiano come loro principale preoccupazione quella di andare incontro alle esigenze del proprio territorio? Non è rischioso, questo? Non rischierebbe di creare una sorta di «lobbismo interno» (con territori più o meno rappresentati, più piccoli e più grandi)?
Il Parlamento non è la rappresentanza di territori, oggi, ma fondamentalmente la rappresentanza di idee politiche, di correnti politiche, che possono essere differenziate da territorio a territorio, ma questo è un altro discorso; può essere che al sud e al nord ci siano diverse proporzioni fra i gruppi, ma questo dovrebbe poi comunque confluire in visioni nazionali. Non mi pare utile incentivare in alcun modo il fatto che il Parlamento dia più attenzione ai problemi locali in quanto tali, non in quanto espressione di problemi nazionali. Altro è dire che vivo il problema della disoccupazione nel mio collegio e ve lo porto, perché è un problema della Nazione; altro è dire che: nel mio collegio c'è questo o quello specifico problema. Oltretutto, questa visione localistica del lavoro parlamentare rischia di svuotare di più di quanto già oggi non avvenga le autonomie: le rappresentanze autonome delle regioni, delle province, dei comuni sono là per questo, per occuparsi dei problemi regionali o locali; là, sì, che il localismo conta, perché là ci si deve occupare dei problemi locali.
Il parlamentare di per sé non dovrebbe essere più quello che riceve nel suo ufficio gli elettori del suo collegio e promette posti di lavoro. In altri tempi, avveniva, adesso, forse, molto meno (perché i posti non ci sono!), ma l'idea era quella del parlamentare che risponde ai problemi dei suoi elettori anche se non sono problemi nazionali. Il parlamentare deve invece occuparsi dei problemi nazionali, quindi da questo punto di vista secondo me diminuire il numero non porta inconvenienti.
Quanto alla qualità, è compito dei partiti selezionare, certo, ma, appunto, è compito dei partiti. Il problema, semmai, non è quello di aumentare o diminuire il numero dei componenti delle assemblee, ma quello di prevedere, se possibile normativamente, dei modi attraverso cui si incentivino o si costringano i partiti a selezionare meglio la loro classe parlamentare. Questo è un problema di disciplina dei partiti, quindi di un eventuale legge di attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, non della legge sull'elezione del Parlamento. Le primarie per eleggere i parlamentari non hanno molto senso. Le primarie si fanno per eleggere i titolari di cariche monocratiche, quando c'è un gruppo variegato che deve scegliere il proprio candidato unico. Si sceglie il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti e si fanno le primarie in tutti gli Stati; da noi, una coalizione si mette d'accordo attraverso le primarie.
L'elezione del parlamentare è già «primaria», nel senso che l'eletto è rappresentante Pag. 11 eletto da quel gruppo, da quel corpo di elettori, ma non dovrebbe essere rappresentante degli interessi specifici di quel gruppo, bensì delle idee che maturano o che prevalgono nell'ambito di un certo gruppo politico. Questo non mi sembra un tema che possa incidere sulla scelta del numero dei parlamentari.
GIAMPIERO DI PLINIO, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara. Quanto alla questione delle Commissioni, vedo addirittura un miglioramento del lavoro in Commissione. Con la riduzione di un terzo, ogni tre parlamentari ne viene meno uno che fa proposte di legge, interventi, mozioni, cioè viene meno un terzo del lavoro, che oggi non sempre è un lavoro di qualità, ma è un lavoro di quantità: se tutto dovesse sboccare in legge, il buon Tacito dovrebbe riscrivere gli Annales, a questo punto. Non mi pare, dunque, che ci sia da preoccuparsi. Piuttosto, forse ci sarebbe da rivedere – lo dice anche Fusaro – il numero minimo dei componenti dei gruppi, innalzandolo un po’.
Quanto al collegamento con il territorio, quando i nostri padri costituenti stabilirono che ci voleva un deputato ogni 80 mila cittadini, avevano in mente un deputato che usciva di casa, andava sul palco in piazza nel suo comune, faceva il giro, faceva i comizi, e poi ogni settimana riceveva decine di lettere, con la posta dell'epoca, e qualche telefonata. Poi i telefoni si svilupparono, ma ce n'erano pochi. Fino a quando non ho avuto una buona quindicina d'anni, non avevo il telefono in casa e alla mia fidanzata andavo a telefonare dalla stazione. Questi erano i mezzi di comunicazione che vedevano i nostri costituenti per immaginare il rapporto di legame tra città e territorio.
Condivido pienamente le cose che ha detto il professor Onida: il problema del rapporto con il territorio è un'altra cosa, è un problema che nei regimi anglosassoni hanno con un altro tipo di stimolazione. La chiamano constituency, cioè hanno un rapporto diretto, ma per un fatto molto elementare: sono eletti con il sistema uninominale, ovvero un seggio, un territorio, vince uno, ed è quello che diventa il referente non solo dei suoi amici di partito, ma di tutto quel territorio. Anche diventare referente di un territorio non vuol dire che il territorio abbia le idee orizzontali, un pensiero unico (anche qui, ragioniamo sempre un attimo sulle cose).
Con l'evoluzione tecnologica mi pare che siano scomparsi questi problemi. Oggi, la comunicazione viaggia per altre linee. Non voglio dire che sia migliore o peggiore. Sicuramente, però, oggi ogni cittadino è in grado di sapere in tempo reale quello che fa la persona che ha votato, e in tempo reale la persona che ha votato è in grado di mettere uno streaming su Facebook, sui suoi social o sul social del partito (adesso, anche il PD se lo farà), quindi, dov'è il problema?
Anche per quello che riguarda le spese elettorali, il Movimento 5 Stelle ha dimostrato che si possono vincere le elezioni come partito spendendo pochissimi denari. C'è chi contesta la riduzione del numero dei parlamentari dicendo che l'aumento del collegio aumenterebbe le spese elettorali: ma nemmeno per sogno. Diminuiscono per ragioni tecnologiche, e comunque ci puoi mettere il tetto. E se fosse solo quello il problema, ma da lì potesse venire una selezione di parlamentari di qualità?
Vedete, se riduci il numero, spiazzi i partiti. I partiti, di fronte a una riduzione del numero sono costretti a selezionare, o meglio sono i migliori stessi che in un certo senso dettano ai partiti (nei territori, a livello nazionale). Secondo me, la riduzione del numero dei parlamentari può funzionare in questa direzione.
Se mi è consentito, rapidamente, ma non c'entra con la risposta, che finisco qua, vorrei dire una cosa a proposito delle due proposte di riforma che sono da impacchettare o da spacchettare, quindi da mettere fuori o dentro il perimetro. Non voglio intervenire sulla loro bontà. A me pare, e penso che il professor Onida l'abbia detto chiaramente, che la riduzione dell'elettorato attivo per il Senato a diciott'anni sia una cosa di primo rilievo. Tra le due, da questo punto di vista, è più coerente dell'altra, che prevede per il Senato l'elettorato attivo e passivo a venticinque anni: il venticinquenne ci sta bene come senatore, però può essere eletto da un diciottenne, Pag. 12 perché in questo modo si risolve anche un altro problema dettato dall'attuale legislazione. Poi c'è un altro aspetto. Se si condizionasse l'allargamento ai due terzi della maggioranza a quella norma, la formulerei in un modo diverso: va benissimo la norma sulla partecipazione dei giovani alla politica , però a mio avviso non va inserita nell'articolo 31 della Costituzione – l'articolo 31 è una norma di assistenzialismo- ma nell'articolo 49.
Quanto ai provvedimenti collegati, vi auguro buon lavoro, perché sicuramente, ci sarà da lavorare.
FRANCESCO FORCINITI. Non posso farmi sfuggire questa ghiotta occasione di confronto con due illustri costituzionalisti per provare a mettere sul tavolo un paio di argomenti che mi stanno particolarmente a cuore, nella speranza che, magari nel prosieguo di questa legislatura, si possa anche essere spronati eventualmente dalla voce illustre dei nostri auditi per provare a completare questo quadro organico di riforme costituzionali.
Che ben venga, come più o meno tutti ci stanno dicendo, questa riduzione dei parlamentari, perché si razionalizza tutto il processo legislativo, si permette alle Camere di funzionare meglio, probabilmente si valorizza anche la voce dei parlamentari. Secondo me, però, ci sono almeno due aspetti fondamentali e che vanno «puntellati», per evitare che, eventualmente, in futuro leggi elettorali possano portare a derive eccessivamente decisioniste, per non dire autoritarie.
Mi riferisco alla reintroduzione del voto di preferenza e al mantenimento di un impianto prevalentemente proporzionale. Nel momento in cui i parlamentari vengono ridotti- e, ripeto, visto che abbiamo probabilmente il maggiore tasso di parlamentari per abitante in raffronto alle altre democrazie europee, ben venga questo – se in futuro, come già la storia ci dice che può accadere, ci fossero delle tentazioni eccessivamente maggioritarie quando si è spinti dal sondaggio particolarmente favorevole, magari si potrebbe arrivare ad avere nel Paese delle maggioranze artefatte. A quel punto, non ci sarà nemmeno la possibilità, all'interno di un gruppo parlamentare di maggioranza numericamente ridotto, di avere quel giusto confronto che ci deve essere anche nell'ambito delle dinamiche di una maggioranza.
Arrivo a spingermi anche a pensare che si possa, in un futuro più o meno prossimo, provare a inserire proprio in Costituzione almeno un paio di princìpi fondamentali: mantenere un impianto proporzionale della legge elettorale, qualunque essa sia, ma che sia ancorata a criteri di proporzionalità, per evitare che ci siano derive eccessivamente decisioniste e maggioritarie; soprattutto, per indurre, come diceva qualcuno poc'anzi, i partiti politici a selezionare meglio le proprie liste, i propri candidati, ripristinare il voto di preferenza e mettere questo principio magari anche nella Carta, perché a scegliere il candidato deve essere il cittadino, e allora poi le forze politiche devono mettere dei candidati presentabili.
Se, infatti, ci sono questi listini bloccati, che credo abbiano un po’ fatto regredire la qualità della nostra democrazia negli ultimi anni, e se i parlamentari in parallelo si riducono, magari non è detto che la qualità di questi parlamentari salga, ma potrebbe anche succedere il contrario.
Questi sono due spunti che mi stanno particolarmente a cuore: voto di preferenza e sistema elettorale che deve essere prevalentemente proporzionale. Vorrei sapere che cosa pensano gli auditi al riguardo.
GIUSEPPE D'AMBROSIO. Grazie ai nostri due ospiti, anche per la pazienza che hanno avuto. Sarò velocissimo.
Ho ascoltato dei concetti che giudico fondamentali sulla questione dell'assemblea dei gruppi, che non rappresenta più ormai l'assemblea degli individui. Nel momento in cui, però, riduciamo il numero dei parlamentari, vorrei conoscere il vostro pensiero relativamente al fatto, collegandomi a quello che diceva il collega Cecconi, che già in questa legislatura si è registrata una diminuzione del numero dei gruppi rispetto alla precedente e che con la riduzione del numero degli eletti si possa favorire una riduzione ulteriore. Pag. 13
Anche se i gruppi, di fatto, crescono o diminuiscono numericamente in base a quelle che possono essere, molte volte, le dinamiche interne di un Governo o l'avvicendamento dei governi, che cosa pensate relativamente al fatto che comunque una riduzione del numero dei parlamentari e un'assemblea che rispecchi la volontà dei gruppi possa, con l'innalzamento anche del numero minimo per la formazione dei gruppi stessi, portare di per sé a una naturale riduzione ulteriore del loro numero? Questo può essere un vantaggio o uno svantaggio per la rappresentanza democratica di tutte le espressioni del voto dei cittadini?
Sul lavoro delle Commissioni, forse, riferendomi a quello che diceva il collega Cecconi, ci si riferiva proprio a questo, ai piccoli gruppi. È chiaro che adesso, già in questa condizione, i piccoli gruppi hanno parlamentari che fanno in pratica le «palline» tra le varie Commissioni. Con una riduzione ulteriore, forse ci troveremmo effettivamente ad avere piccoli gruppi nella difficoltà reale di seguire i lavori di più Commissioni, perché magari un componente solo deve seguire più Commissioni. Come ci si può, eventualmente, organizzare da questo punto di vista e rendere, anche da parte dei piccoli gruppi, reale il contributo all'interno dei lavori delle Commissioni?
Infine, si è parlato di territori, Parlamento e voto. È chiaro che la modifica della legge elettorale conseguente alla riduzione del numero dei parlamentari va ad allargare i collegi. Nel momento in cui allarghiamo i collegi, l'espressione e il legame di un territorio probabilmente diventeranno più ampi rispetto a un singolo parlamentare, soprattutto nel caso dei senatori.
Che cosa potete suggerire, da questo punto di vista, relativamente al mio dubbio, tutto personale, che domani un parlamentare, un senatore, cambia partito, passa dall'opposizione alla maggioranza? Proprio nell'ambito delle idee politiche, della visione che quel territorio aveva dato, magari è uno stravolgimento totale rispetto a quello che era accaduto: come poter salvaguardare la volontà politica di un territorio molto ampio rispetto a quella che può essere la volontà del singolo di passare da un partito a un altro?
VALENTINA CORNELI. In qualche modo, la domanda è stata anticipata, perché il professor Di Plinio deve rispondere necessariamente alla questione posta dal collega Forciniti circa la strettissima correlazione tra la riduzione del numero dei parlamentari e il sistema elettorale. Il professore, invece, ci ha quasi dato un monito: non toccate il sistema elettorale. Perché?
GIAMPIERO DI PLINIO, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara. Perché sennò non fate neanche la riforma sulla riduzione del numero dei parlamentari.
VALERIO ONIDA, Presidente emerito della Corte costituzionale. Molto rapidamente, quanto alle osservazioni dell'onorevole Forciniti, sulle preferenze e sul sistema proporzionale: sono due questioni che a mio parere non hanno molto a che fare con il tema del numero di parlamentari, ma che riguardano la legislazione elettorale. Sulle preferenze si discute moltissimo, e anche la Corte costituzionale è arrivata a dichiarare l'incostituzionalità di una legge che non le prevedeva poiché le liste erano molto lunghe. Questo, però, non vuol dire, almeno a mio parere, che il voto di preferenza sia essenziale.
Il problema è che il voto è prima di tutto, oggi, un voto di partito. Immaginare che sia un voto alla sola persona non è realistico, oltre forse a non essere neanche del tutto opportuno. Questo non vuol dire che l'elettore non possa e non debba tener conto del nome, della persona, delle qualità dei candidati, o del candidato (se vota in un sistema uninominale) che preferisce. Vuol dire un'altra cosa: il voto è fondamentalmente un voto di partito, ma attraverso l'indicazione della persona si dice al partito che se mette in lista un candidato di un certo tipo, questo viene votato, mentre se ne mette in lista uno diverso, non lo si vota. In realtà, nella dinamica odierna del voto della maggior parte degli elettori, prevale il voto di partito. La persona conta solo nella Pag. 14misura in cui un'indicazione da parte del partito di una persona che l'elettore non apprezza può portare a togliere il voto a quel partito. Questo può avvenire, e può anche essere una cosa positiva.
Ricordo che per l'elezione dell'Assemblea costituente, nel 1946, la legge elettorale, che poi è stata fondamentalmente la stessa legge che si è applicata per l'elezione della Camera dei deputati per tanti anni, prevedeva un collegio unico nazionale per una quota di eletti, nel quale i partiti candidavano persone che ritenevano non potessero essere lanciate nell'arena della campagna elettorale, quindi professori, intellettuali stimati, ma che si ritenevano poco adatti a fare campagna elettorale: perché si diceva che il partito aveva bisogno di queste persone in Parlamento. Se li espongo al voto di preferenza, questi non saranno mai eletti. Se, invece, li metto in un collegio unico nazionale per il recupero di voti che sono andati al partito, vengono eletti. È un ragionamento comprensibile.
Il rapporto singolo parlamentare-elettori non è un rapporto che si esaurisca a livello del singolo individuo, passa necessariamente attraverso una mediazione di tipo politico-partitica. Si può dire che il voto di preferenza è ancora, in molti casi, utile. Se c'è un sistema proporzionale con liste molto lunghe all'elettore si consente di specificare la sua preferenza, perché se i partiti fossero compatti, la scelta potrebbe essere relativamente indifferente, ma siccome oggi i partiti non sono compatti, in realtà, le liste «lunghe» contengono quote di diverse correnti o di diversi gruppi di quel partito, e allora l'elettore, dando il voto di preferenza, in realtà sta scegliendo il gruppo o il sottogruppo. Questo non ha nulla a che vedere però con il numero degli eletti.
In merito al proporzionale, si può anche parlare della contrapposizione tra maggioritario e proporzionale, chiarendo però che il maggioritario in qualche modo accettabile è il voto nel collegio uninominale, perché lì per forza è maggioritario, nel senso che si elegge uno che vince e gli altri perdono, ma a livello nazionale gli eletti avranno diverse appartenenze, perché diversa è la distribuzione del consenso.
Quando passiamo all'elezione di lista in circoscrizioni più ampie, che senso ha il maggioritario? Se una lista ha avuto più voti di un'altra lista, deve occupare tutto lo spazio? No. In Parlamento ci stanno tutti, ci devono stare tutti. La tematica dei premi di maggioranza è un'altra cosa. Il premio di maggioranza serve a semplificare e ridurre la frammentazione del sistema politico. Ma questo è un problema strettamente legato al sistema politico. Ragionare di scelta del sistema elettorale senza tenere conto del sistema politico non è possibile.
In un sistema fondamentalmente bipartitico, come per tanti anni è stato quello inglese, era quasi naturale dire che in ogni collegio si presentano il candidato laburista e il candidato conservatore. Ma era un sistema fortemente bipartitico, che ormai non c'è più neanche in Inghilterra. Bisogna pensare, invece, a cosa vogliamo in Parlamento, se vogliamo che emergano le varie voci o che sia facilitata la formazione di una maggioranza, che non si favorisca l'eccesso di frammentazione, per esempio, consentendo anche a minime frazioni di elettorato di essere rappresentante come gruppo.
Questi sono gli obiettivi, che non hanno nulla a che fare con il numero dei parlamentari, ma hanno a che fare con il tipo di scelta che si fa sulla legge elettorale, scelta che, ripeto, non può essere fatta se non si tiene conto del sistema politico. Non si può fare in astratto. La legge elettorale migliore in astratto non esiste: ecco perché, secondo me, costituzionalizzare la legge elettorale, o anche solo alcuni elementi della legge elettorale, sarebbe pericoloso. La legge elettorale deve prevedere un sistema scelto in relazione alla storica presenza di un certo sistema politico, per consentirne l'espressione più fedele, o anche per favorirne l'evoluzione, per esempio, nel senso di una minore frammentazione.
Per quanto riguarda la domanda dell'onorevole D'Ambrosio, il tema che egli poneva era quello della riduzione del numero dei gruppi. Bisogna distinguere, anche in Parlamento, tra l'esigenza del pluralismo, che va pienamente rispettata (un Parlamento in cui le diverse idee, i diversi gruppi, non potessero a pari titolo partecipare o confrontarsi, Pag. 15non sarebbe un buon Parlamento), e l'eccesso di frammentazione. La frammentazione su che basi avviene? Se avviene su base politica, questo è l'effetto del sistema politico: si può sperare che si riduca il numero dei partiti, però oggi, di fatto, sono quelli che sono. Se la frammentazione avviene, invece, su altre basi che non sono più quelle dei partiti, ma o di correnti interne ai partiti che non si vogliono manifestare fino in fondo, o addirittura su basi territoriali o elementi di altro genere (appartenenze categoriali, gruppi di interesse), allora l'eccesso di frammentazione in Parlamento non giova sicuramente.
Il Parlamento è fatto per fare sintesi: seicento persone o quattrocento persone devono trovarsi a convergere e a confrontarsi tra di loro su una sintesi, su ciò che è bene per il Paese. A questo punto quello che io singolo penso dei miei specifici problemi o dei problemi specifici del mio territorio, non può essere determinante. Dovrei essere capace di filtrarli e portarli a livello nazionale.
Quanto al problema del cosiddetto «cambiamento di casacca», del parlamentare che cambia gruppo, questo fenomeno è sempre esistito, anche se in altri tempi magari meno, ma può essere visto da due punti di vista. Se il parlamentare cambia gruppo perché non condivide più l'impostazione del partito in cui è stato eletto, e cambia idea lui, non condivide più l'idea di quel partito, ma ne condivide un'altra, sono fatti suoi: l'elettore poi giudicherà sul fatto che quel signore non ha mantenuto la promessa di portare avanti un certo programma, una certa linea politica. Può anche accadere che, invece, il cambiamento di casacca corrisponda a una divisione di tipo strettamente politico condivisa dagli elettori. Come si fa a sapere che cosa gli elettori preferiscono? Si possono introdurre meccanismi di recall, come qualcuno propone, ma almeno in un sistema di collegi plurinominali sono pericolosi, perché se la maggioranza può far decadere il deputato della minoranza, non siamo più in un sistema pienamente democratico. Tuttavia, questa idea di consentire agli elettori di esprimersi dovrebbe realizzarsi attraverso la democrazia interna dei partiti.
Se i Melloni e i Bartesaghi, i famosi transfughi dell'epoca «preistorica», rappresentavano un certo fenomeno, oggi non è affatto sicuro che tutti i cambiamenti di casacca siano espressione di uno spostamento del singolo eletto, possono essere anche effetti della frammentazione interna dei partiti.
Sotto c'è il grande tema del vincolo di mandato. Eliminare il divieto di vincolo di mandato vorrebbe dire mettere i deputati e i senatori alla mercé o dei propri partiti, che è la cosa più probabile, o di altri gruppi di interesse. Secondo me, il divieto è una forte garanzia di democrazia: sei stato eletto e fai quello che ritiene di dover fare. Se lo fai bene o lo fai male, sarai giudicato successivamente, prima di tutto dal tuo partito, perché il tuo partito potrà non ricandidarti o ricandidarti, e poi dagli elettori che voteranno o no quel partito in quanto tu ci sei, o non voteranno più quel partito perché tu ci sei.
L'onorevole Corneli parlava del sistema elettorale, chiedendo se dobbiamo occuparci o no del sistema elettorale. La scelta che, secondo me, tutto sommato, è prudente, e che è stata fatta all'inizio, era quella di dire che, siccome il sistema elettorale è un tema controverso, è un terreno su cui ci sono idee molto diverse, lo lasciamo ad altra sede. Qui stiamo discutendo, se è possibile, di un argomento che auspicabilmente potrebbe trovare d'accordo tutti, o la grandissima maggioranza: se lei introduce accanto a un tema su cui, per ipotesi, c'è un'unanimità o quasi un'unanimità, un altro tema che, invece, è fortemente controverso, la probabilità di portare a casa il primo risultato diminuisce. Da questo punto di vista capisco che fare insieme la riforma del numero dei parlamentari e la legge elettorale sia molto difficile. Ciò non toglie che, invece, un ripensamento del sistema elettorale sarebbe una cosa saggia da fare, ma da fare, ovviamente, su altre basi e con il tipo di confronto che esso richiede.
GIAMPIERO DI PLINIO, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara. Sarò brevissimo, Pag. 16anche perché la risposta alla domanda dell'onorevole Corneli è stata rapida, ma credo molto significativa. Il problema è cosa si vuole fare: Zagrebelsky, 1985, pensate a lui, vedetevelo qui davanti che dice una verità sacrosanta, dice che potete fare un adeguamento, ma non potete fare una riforma totale, globale. Si è visto nel 2016. L'abbiamo visto. Abbiamo preso quella malattia. Poi, il popolo ci ha dato la medicina. Adesso non ci infettiamo di nuovo. Questo è il discorso di fondo.
Vorrei dire un'altra cosa: nel 1991 il popolo italiano ha detto che non le voleva le preferenze, c'è un referendum vinto con il 90 per cento, voleva la preferenza unica. Non voleva il gioco della negoziazione delle preferenze, o meglio, secondo me, il popolo italiano ha detto che non lo voleva per niente, però, siccome la formulazione del referendum non si poteva fare in un altro modo, è uscito il ritaglio con la preferenza unica.
Eravamo abituati a un voto di scambio, ma, mentre nei sistemi anglosassoni ha anche una sua onorabilità e una sua disciplina, noi eravamo abituati a un voto di scambio che significava che ti davo una scarpa di un paio di scarpe prima delle elezioni e dopo il voto, se ero eletto, ti davo la seconda. Elevare le preferenze a un sistema di valori costituzionali altissimi io non me la sento di farlo, in base a quello.
Capisco, invece, molto bene, e secondo me ha un suo aggancio costituzionale, l'anelito che c'è dietro una richiesta del tipo della sua. Però, dei sistemi elettorali, e non solo, che abbiamo per mettere insieme quei pezzi di mosaico che stanno dietro l'idea che regge la sua domanda, ci sono. Quali sono quei pezzi di mosaico? In primo luogo i partiti non devono dominare, schiavizzare i singoli parlamentari, i singoli deputati sfruttandoli, mettendoli in lista, rigiocandoli e poi rimettendoli di là e, in secondo luogo, non si deve fare il voto di scambio di qua e di là per acchiappare in modo più o meno crudele quel seggio.
C'è un sistema elettorale solo che garantisce tutto questo insieme, cioè che garantisce che insieme a questo ci sia il massimo grado di responsabilità e di direzionalità al popolo eletto possibile, ed è l'uninominale. Nell'uninominale si sa che viene eletto solo uno, quindi tu vai a votare quello che preferisci. Quello che esce all'uninominale è quello che ha più prestigio di tutto quel giro. Non solo, ma quello che esce dall'uninominale si sente caricato.
FRANCESCO FORCINITI. Si sottorappresentano tutti gli altri, però...
GIAMPIERO DI PLINIO, Professore di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Chieti e Pescara. Quello è il problema del first past the post, del winner take all, che non è stato mai risolto nei sistemi anglosassoni, e forse possiamo immaginare dei correttivi. Però, oltre a quel sistema non andiamo.
Mi chiedete quali saranno i futuri possibili. Sono possibili, però sono futuri. Secondo me, non è il momento di pensare di mettere insieme, in questo piatto di portata, pietanze più sofisticate, su cui magari bisognerà che si rifletta meglio.
PRESIDENTE. Avverto che il professor Di Plinio ha messo a disposizione della Commissione una memoria, di cui autorizzo la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 18.
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