ALLEGATO 1
DL 53/2019: Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica (C. 1913 Governo).
PARERE APPROVATO DALLA COMMISSIONE
La III Commissione,
esaminato per le parti di competenza il disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica;
acquisiti gli approfondimenti istruttori svolti dalle Commissioni di merito,
esprime
PARERE FAVOREVOLE
Pag. 55ALLEGATO 2
Ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica del Ciad sulla cooperazione nel settore della difesa, fatto a Roma il 26 luglio 2017 (C. 1623 Governo).
EMENDAMENTO
ART. 3.
Al comma 1, sostituire le parole: pari a con le seguenti: valutati in.
3.1. Il Relatore.
(Approvato)
ALLEGATO 3
Ratifica ed esecuzione dell'Accordo di cooperazione militare e tecnica tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica del Congo, fatto a Roma il 27 giugno 2017 (C. 1624 Governo).
EMENDAMENTO
ART. 3.
Al comma 1, sostituire le parole: pari a con le seguenti: valutati in.
3.1. Il Relatore.
(Approvato)
ALLEGATO 4
DL 53/2019: Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica (C. 1913 Governo).
PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE PRESENTATA DALLE DEPUTATE QUARTAPELLE PROCOPIO E BOLDRINI
La III Commissione,
in sede di esame del disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica;
premesso che:
il decreto-legge in esame si inserisce nell'alveo dei provvedimenti adottati dall'attuale Governo che declinano la materia «ordine e sicurezza pubblica» principalmente nel contrasto e repressione dell'immigrazione irregolare;
i proclamati requisiti di necessità e urgenza, alla base dei quali viene giustificata l'emanazione del decreto-legge, riguarderebbero – si legge nella relazione – «il rischio che si possano riaccendere ipotesi di nuove ondate migratorie in considerazione degli scenari geopolitici internazionali» e «dell'approssimarsi della stagione estiva che, da sempre, ha fatto registrare il picco massimo di partenze di imbarcazioni cariche di migranti (in cui, peraltro, con maggiore facilità, possono celarsi anche cellule terroristiche)»;
è, quindi, la relazione stessa del decreto-legge che ammette, implicitamente, che non esiste alcuna emergenza «sbarchi» che giustifichi la necessità dell'adozione dell'atto normativo di urgenza: l'emergenza era finita già nei primi cinque mesi del 2018 con una diminuzione degli sbarchi del 78 per cento per cento rispetto a quelli del 2017 e con un più accentuato calo degli arrivi dalla Libia: -84 per cento rispetto al 2017. Questo era ed è il bilancio dell'attività sul fronte dell'immigrazione del governo Gentiloni: risultati raggiunti, senza la chiusura dei porti, salvando vite umane;
a fronte del drastico calo degli sbarchi nel Mediterraneo sono invece in forte aumento gli ingressi nel nostro territorio dei cosiddetti «dublinanti», cioè coloro che vengono espulsi dai Paesi europei dove vivono verso gli Stati attraverso i quali sono entrati nell'Unione per effetto del Regolamento di Dublino che individua nello Stato di primo ingresso il responsabile dell'esame della domanda di protezione internazionale;
parrebbe addirittura che vi sia stato il sorpasso del numero dei migranti richiedenti protezione internazionale provenienti da paesi dell'Unione europea su quelli provenienti via mare;
ed è su questa emergenza sbarchi «in ipotesi» che si basano i primi due articoli del decreto: il primo conferisce al Ministro dell'interno il potere di vietare o limitare l'ingresso, il transito o la permanenza nelle acque territoriali di navi (escluse quelle militari o in servizio governativo non commerciale), laddove ricorrano due ordini di presupposti alternativi: i) «motivi di ordine e sicurezza pubblica»; ii) concretizzazione delle condizioni di cui all'articolo 19, comma 2, lettera g), della Convenzione di Montego Bay, norma che a sua volta individua, quale ipotesi di passaggio non inoffensivo (o «pregiudizievole») di nave straniera nelle acque territoriali, il caso in Pag. 58cui tale nave effettui «il carico o lo scarico di [...] persone in violazione delle leggi di immigrazione»; il secondo articolo prevede una serie di pesanti sanzioni amministrative a carico del comandante ed eventualmente l'armatore ed il proprietario della nave che violi limiti e divieti imposti dal Ministro dell'interno;
si assiste, quindi, ad uno «strappo» formale di competenze che, dal Ministero delle infrastrutture e trasporti, passa al Ministro dell'interno considerato che vengono messe «a norma» i contenuti delle controverse e criticate direttive recentemente emanate dal Ministro dell'interno nell'ambito della c.d. politica dei «porti chiusi»;
tale politica, se così si può chiamare, è stata infatti oggetto di severe critiche da parte dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani che ha evidenziato la sua radicale incompatibilità con gli obblighi derivanti dalle Convenzioni sul diritto internazionale del mare (UNCLOS, SOLAS e SAR), nonché con il principio del non refoulement. La progressiva inibizione delle attività di soccorso prestate dalle ONG e da altre navi private nel Mediterraneo centrale, infatti, comporta gravissimi rischi per i diritti fondamentali dei migranti, destinati in misura statisticamente sempre maggiore a perdere la vita in un naufragio;
è evidente, però, che gli stessi profili di illegittimità ravvisati nelle citate direttive potranno viziare i provvedimenti adottati del Ministro dell'interno ai sensi del novellato articolo 11-ter del Testo unico sull'immigrazione e che l'esistenza di una cornice giuridica di rango primario non cambia, evidentemente, il sistema delle fonti sovranazionali, ratificate dall'Italia, all'interno del quale tali provvedimenti si inseriscono. Anzi, paradossalmente, la presenza nell'articolo 1 del decreto-legge di un espresso riferimento al necessario «rispetto degli obblighi internazionali», nell'adozione dei provvedimenti da parte del Ministro dell'interno, renderà più agevole il sindacato per violazione di legge, con eventuale annullamento o disapplicazione in sede giurisdizionale;
vale la pena ricordare quali siano queste norme di diritto internazionale cui l'Italia ha aderito: la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974, cosiddetta Convenzione SOLAS, che obbliga il comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se è possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione;
la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Montego Bay) o UNCLOS, dispone che ogni Stato esiga che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l'equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita e proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo qualora sia a conoscenza del loro bisogno di assistenza;
le stesse Convenzioni SOLAS e SAR (Search And Rescue) – come modificate dagli emendamenti adottati dall'Organizzazione marittima mondiale (IMO – International Maritime Organization) nel maggio 2004 ed entrati in vigore il 1o luglio 2006 – impongono agli Stati competenti per la regione SAR di cooperare nelle operazioni di soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza (Place Of Safety – POS) inteso come luogo in cui le operazioni di soccorso si intendono concluse e la sicurezza dei sopravvissuti garantita;
le Linee-guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza dell'IMO ai fini della corretta attuazione agli emendamenti in questione precisano, Pag. 59tra le altre cose, che lo Stato cui appartiene il centro di coordinamento del soccorso marittimo (MRCC – Maritime Rescue Coordination Centre) che per primo abbia ricevuto la notizia dell'evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, ha l'obbligo di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell'evento. Ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione in merito al loro status;
ciò significa che tutte le questioni che non riguardino le operazioni di Search and Rescue in senso stretto, quali quelle relative allo status giuridico delle persone soccorse, alla presenza o meno dei prescritti requisiti per il loro ingresso legittimo nel territorio dello Stato costiero interessato o per acquisire il diritto alla protezione internazionale, ecc., devono essere affrontate e risolte solo a seguito dello sbarco nel luogo sicuro di sbarco (POS) e non devono comunque causare indebiti ritardi allo sbarco delle persone soccorse od alla liberazione della nave soccorritrice dall'onere assunto;
a corredo dei poteri che il Ministro dell'interno si è auto attribuito e che – a parere dei sottoscrittori violano le norme di diritto internazionale – l'articolo 2 del decreto sicurezza-bis inasprisce la lotta contro chi risponde all'obbligo di soccorso, salvando vite umane, con pesanti sanzioni amministrative per comportamenti coerenti con l'ordinamento giuridico e con i princìpi costituzionali, ma che agli occhi del Ministro mettono in pericolo l'Ordine Pubblico;
di fatto però, il quadro complessivo delle rilevanti fonti di diritto nazionale e internazionale, tutelano non soltanto la fase della presa a bordo dei naufraghi, ma anche quella successiva della loro conduzione fino ad un porto sicuro. E proprio a tal proposito, gli obblighi gravanti su un capitano di imbarcazione che soccorre naufraghi in mare, non possono venire meno né per effetto delle direttive ministeriali in materia dei cosiddetti «porti chiusi», né in conseguenza del divieto di ingresso in porto italiano adottato ai sensi del suddetto decreto, trattandosi in entrambi i casi di atti destinati a retrocedere, secondo il criterio gerarchico delle fonti del diritto, a fronte al diverso dettato di cui alle fonti ordinarie e sovranazionali regolanti la materia;
il 30 giugno è stata depositata l'Ordinanza del Gip di Agrigento con la quale è stato annullato l'arresto della capitana della Sea Watch 3 Carola Rackete e che aggiunge così un nuovo tassello al sempre più fitto reticolo di interventi giurisdizionali e di soft law che, intorno alla questione dei soccorsi in mare, stanno progressivamente riportando in primo piano i princìpi dello stato di diritto e, soprattutto, il primato dei diritti fondamentali rispetto alle esigenze, strumentalmente propagandistiche, di controllo dei confini territoriali;
la convenzione di Amburgo del 1979 prevede che gli sbarchi dei naufraghi soccorsi in mare debbano avvenire nel «porto sicuro» più vicino al luogo di soccorso. Questa significa che le persone tratte in salvo devono essere portate dove «la sicurezza della vita dei naufraghi non è più in pericolo, le necessità primarie (cibo, alloggio e cure mediche) sono assicurate; può essere organizzato il trasferimento dei naufraghi verso una destinazione finale»;
la Libia non può più essere considerata un «porto sicuro» per lo sbarco dei migranti per le numerose e circostanziati episodi di violazioni dei diritti umani verificatisi. L'Onu, l'Ue, il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa, l'UNHCR hanno più volte affermato che la Libia non è un porto sicuro. E con loro anche il Ministro degli esteri italiano Moavero Milanesi;
riteniamo, dunque, inaccettabile la criminalizzazione dell'operato delle ONG: salvare vite non può in nessun caso essere considerato un reato. La persecuzione Pag. 60contro le ONG ha reso la traversata della rotta del Mediterraneo centrale molto più pericolosa, nonostante siano diminuite le partenze;
ci rattristano, a tal proposito, le dichiarazioni di un esponente del movimento di governo 5 stelle, che ha recentemente dichiarato: «Sono annoiato dalle Ong. Un paese deve difendere i propri confini, capisco quindi quello che il Governo sta facendo»;
a seguito dell'intercettazione o del salvataggio in mare, le persone vengono consegnate dalla Guardia costiera libica alle autorità del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale, che le trasferisce direttamente nei centri di detenzione gestiti dal Governo, dove vengono detenute per periodi indefiniti;
l'attuale situazione in Libia è caratterizzata da una vera e propria guerra civile, una frammentazione politica e militare, proliferazione di gruppi armati e da un deterioramento della situazione dei diritti umani;
la Libia non ha aderito né alla Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, né al relativo Protocollo. Ha però ratificato la Convenzione dell'organizzazione dell'Unità Africana che regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa (Convenzione OUA) e ha aderito alla Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli (Carta di Banjul). Nonostante l'articolo 10 della Dichiarazione costituzionale provvisoria della Libia del 2011 preveda il diritto all'asilo, non esiste una legislazione in materia di asilo o alcuna procedura di asilo stabilita. Di conseguenza, tutte le persone non libiche indipendentemente dal loro status, compresi i richiedenti asilo e i rifugiati, ricadono sotto le leggi nazionali sull'immigrazione. La legislazione libica in vigore criminalizza l'ingresso, il soggiorno o l'uscita irregolari, ad esempio in assenza della documentazione appropriata o attraverso posti di frontiera non ufficiali, senza fare alcuna distinzione tra richiedenti asilo/rifugiati, migranti o vittime di tratta. Le violazioni sono sanzionate con una pena detentiva a tempo indeterminato con «lavori forzati» o con una multa di circa 1.000 dinari libici (723 dollari statunitensi) e la successiva deportazione una volta completata la condanna;
secondo gli ultimi dati disponibili dell'UNHCR, oltre 8.000 persone, si trovano detenute in centri di detenzione gestiti dal DCIM dopo essere state salvate o intercettate in mare, o dopo essere state arrestate a terra durante incursioni in abitazioni o controlli di identità. Non vi sono stime delle persone detenute da varie fazioni armate o reti criminali in centri di detenzione non ufficiali, compresi depositi e fattorie. Secondo i rapporti disponibili, in tutte le strutture le condizioni di detenzione non rispettano gli standard internazionali e sono state descritte come «spaventose», «da incubo», «crudeli, disumane e degradanti». Uomini e donne richiedenti asilo, rifugiati e migranti, inclusi i minori, sono sistematicamente sottoposti a tortura e ad altre forme di maltrattamento, compresi stupri e altre forme di violenza sessuale, lavoro forzato e estorsione, o ne sono ad alto rischio, sia in strutture di detenzione ufficiali che non ufficiali. In detenzione sono state segnalate anche discriminazioni razziali e religiose. I detenuti non hanno possibilità di contestare la legalità della detenzione o del trattenimento;
l'articolo 12, del suddetto decreto, istituisce nello stato di previsione del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, un fondo con una dotazione di 2 milioni di euro per l'anno 2019, destinato a finanziare interventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio generale o settoriale ovvero intese bilaterali, comunque denominate, con finalità premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all'Unione europea; ma sarebbe opportuno innanzitutto chiarire la tipologia di rimpatri – forzati o volontari – ai quali la norma si vuole riferire e comunque, escludendo Pag. 61quelli nei paesi dove non c’è rispetto dei diritti umani nei paesi di riammissione interessati;
difatti, più nel dettaglio, desta preoccupazione la conformità delle disposizioni citate con il diritto interno italiano in materia di cooperazione internazionale allo sviluppo (in particolare con la legge 11 agosto 2014 n. 125 – Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo), con le politiche europee disciplinate dal Trattato sul funzionamento dell'Unione e con il rispetto degli obblighi fissati dalla Direttiva 115/2008/CE in materia di rimpatrio di cittadini di Paesi terzi e del principio di non refoulement;
questa disposizione, parrebbe, porsi in contrasto con quanto previsto dalla legge 125/2014 in materia di cooperazione allo sviluppo. Gli obiettivi e le finalità della normativa italiana in materia di cooperazione internazionale, infatti, sono rigorosamente definiti. Il collegamento, in termini di finalità della norma, tra le politiche migratorie e la cooperazione, inoltre, è chiaramente inquadrato (Art. 2 comma 6 della 125/2014): «La politica di cooperazione italiana – si legge – promuovendo lo sviluppo locale, anche attraverso il ruolo delle comunità di immigrati e le loro relazioni con i Paesi di origine, contribuisce a politiche migratorie condivise con i Paesi partner, ispirate alla tutela dei diritti umani ed al rispetto delle norme europee e internazionali»;
certamente la cooperazione allo sviluppo può essere attuata anche attraverso intese ed accordi bilaterali o multilaterali tra l'Italia e Paesi terzi ma in tal caso detti accordi debbono comunque sottostare ai criteri previsti dalla norma ovvero corrispondere «ad una specifica richiesta da parte del Paese partner, in linea con i principi della piena appropriazione dei processi di sviluppo da parte dei Paesi partner e del coinvolgimento delle comunità locali» (articolo 7 comma 2). La norma è tassativa anche in relazione a contributi finanziari destinati a Paesi terzi. È chiaro perciò che l'erogazione di contributi a Paesi terzi nell'ambito della cooperazione allo sviluppo non può in alcun modo prevedere interventi di tipo premiale conseguenti alla attiva collaborazione degli Stati nei rimpatri dei propri cittadini o in quella di cittadini di Paesi terzi in quanto Paese di transito. Il «decreto sicurezza bis» stravolge completamente le finalità e gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo e delinea un evidente contrasto normativo con la legge 125/2014;
l'utilizzo del termine «riammissione» appare connotato da una spiccata ambiguità, in contrasto con il principio generale di tassatività della norma di legge. Esso infatti si presta sia ad indicare, in senso ampio, l'adozione di provvedimenti di espulsione di cittadini di Paesi terzi, la cui adozione ed esecuzione è soggetta al rispetto della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, sia si presta ad indicare l'adozione di un provvedimento di respingimento alla frontiera di uno straniero intercettato appunto nell'atto di attraversare irregolarmente la frontiera dello Stato membro. Il termine si presta altresì ad una terza, ancora più ambigua ed incerta interpretazione, ovvero quella di una sorta di riammissione senza formalità, ovvero quale mero atto materiale posto in essere dalle forze di polizia, di un cittadino di un Paese terzo intercettato mentre sta attraversando la frontiera italiana in provenienza da un altro Paese;
l'utilizzo di accordi di riammissione tra l'Italia e Paesi terzi con procedure semplificate è prassi lungamente utilizzata dall'Italia, sia chiaro. Tuttavia il diritto dell'Unione prevede (articolo 5 della Direttiva rimpatri), senza possibilità di deroga alcuna, che debba essere rispettato il principio di non refoulement, anche in relazione al rischio non solo di refoulement diretto verso un Paese nel quale lo straniero potrebbe essere esposto a persecuzioni, o a torture o a trattamenti disumani e degradanti, ma anche in relazione Pag. 62al refoulement indiretto o a catena, ovvero al rinvio dello straniero verso un Paese di transito che a sua volta rinvierà lo straniero verso il Paese in cui la sua vita e sicurezza sono a rischio;
la nuova norma introdotta dal decreto legge 53/2019, non prevedendo alcun riferimento chiaro alla necessità di rispettare gli obblighi comunitari ed internazionali in materia di non refoulement, potrebbe essere applicata quale forma di lex specialis che si sottrae, quanto meno nella prassi, a tali obblighi inderogabili;
in particolare l'utilizzo generico del termine «riammissione» utilizzato dalla norma sembra sottendere ad una precisa volontà di sottrarsi, tramite l'uso massiccio dello strumento giuridico del respingimento, ai vincoli previsti dalla Direttiva 115/2008/CE che prevede che gli Stati possono non applicare le disposizioni della Direttiva nei confronti degli stranieri «sottoposti a respingimento alla frontiera conformemente all'articolo 13 del codice frontiere Schengen ovvero fermati o scoperti dalle competenti autorità in occasione dell'attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera esterna di uno Stato membro e che non hanno successivamente ottenuto un'autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato membro»;
sussiste, il rischio che la nuova normativa possa essere utilizzata per eludere in modo esteso il principio di non refoulement;
l'UNHCR approva ogni misura adottata dagli Stati volta alla sospensione dei rimpatri forzati di cittadini o residenti abituali in Libia, ed invita tutti gli Stati a sospendere i rimpatri forzati in Libia fino a quando le condizioni di sicurezza e il rispetto dei diritti umani non saranno considerevolmente migliorati;
considerando che,
esprimiamo fortissima preoccupazione per quanto l'attuale governo italiano ha fatto per smantellare quelle forme di cooperazione e sostegno alle autorità libiche che avevano permesso all'Italia di essere un attore chiave nel difficile cammino di transizione e consolidamento della Libia, lontano dall'essere completato ma che per il nostro paese è ineludibile e necessario;
denunciamo l'assenza di ulteriori iniziative del governo italiano per quanto riguarda il miglioramento della situazione dei diritti umani nei campi dove sono tenuti i migranti. Il Governo italiano avrebbe dovuto dare seguito a quanto contenuto nel memorandum tra l'Italia e la Libia del 2 febbraio 2017, richiedendo alle autorità libiche il rispetto di quanto contenuto in quegli accordi relativamente alla programmazione regolare di corridoi umanitari; adeguamento dei centri di accoglienza, fornitura di medicinali e attrezzature mediche ai centri, assistenza sanitaria; la formazione (anche in ambito di diritti umani) del personale libico all'interno dei centri di accoglienza;
si rileva che questa stretta contro coloro che salvano vite umane in mare segue il ridimensionamento – voluto dall'attuale Esecutivo in sede europea – della missione europea EUNAVFOR MED Operazione Sophia che mantiene il solo pattugliamento aereo del Mediterraneo, eliminando la presenza di navi in mare;
ci dichiariamo contrari al boicottaggio dell'operazione navale europea Sophia e denunciamo le decisioni dell'attuale governo, che ha di fatto arretrato il raggio d'azione del dispositivo militare previsto da «Mare sicuro», affidando alle autorità libiche anche di funzioni di controllo, monitoraggio e coordinamento. Funzioni che guardia costiera e forze di sicurezza libiche non possono garantire secondo gli standard del dispositivo italiano sia in termini di capacità operative sia di tutela dei diritti umani. Soprattutto in una fase di crescente conflittualità in Libia;
si ricorda che EUNAVFOR MED Operazione Sophia ha salvato dal 2015 circa 45 mila vite umane dai pericoli del mare e dei trafficanti di uomini;Pag. 63
il «problema» del porto di approdo deriva dal cosiddetto Regolamento di Dublino che individua nello Stato di primo ingresso il responsabile dell'esame della domanda di protezione internazionale. Queste regole, che costituiscono il vero nodo politico della questione, furono sottoscritte dal Governo Berlusconi e dall'allora Ministro dell'interno leghista Roberto Maroni;
la novità più importante sul tema è stato il voto da parte del Parlamento europeo di una proposta di modifica del regolamento di Dublino che per la prima volta mette in discussione la regola del paese di primo ingresso, sostituendola con un meccanismo permanente e automatico di ricollocazione, volontà di cambiamento ribadita anche dal neo eletto presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, nel suo discordo di insediamento;
su un testo così importante, che rappresenta un primo passaggio verso la modifica del sistema di asilo europeo e introduce forti cambiamenti per l'Italia, la Lega si è astenuta e tutti i deputati del Movimento 5 Stelle hanno votato, in maniera compatta, contro il testo;
inoltre, il comportamento del Ministro dell'interno attuale, assente alla maggior parte delle riunioni dei ministri dell'interno dell'Ue a Bruxelles per discutere (tra l'altro) di sicurezza e migranti, implica un isolamento del nostro Paese a livello europeo su questi temi e proprio nelle riunioni per le assegnazioni dei vertici europei si è schierato con i paesi del «gruppo Visegrad», da sempre invece, fortemente contrari alla redistribuzione dei migranti all'interno dell'Unione europea;
il risultato di questa politica di propaganda dei «porti-chiusi» e della «tolleranza zero» verso le ONG rischia seriamente di provocare l'aumento del tasso di mortalità nel Mediterraneo quale diretta conseguenza dell'assenza di un dispositivo strutturato di ricerca e salvataggio,
esprime
PARERE CONTRARIO
Quartapelle Procopio, Boldrini, Magi, Fassino, De Maria, Scalfarotto, La Marca.