FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 2691

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato COSTA

Interpretazione autentica dell'articolo 32 della legge 24 marzo 1958, n. 195, in materia di durata della carica dei componenti elettivi del Consiglio superiore della magistratura

Presentata il 30 settembre 2020

  Onorevoli Colleghi! – La presente proposta di legge è costituita da un unico articolo di interpretazione autentica dell'articolo 32 della legge 24 marzo 1958, n. 195, in materia di durata della carica dei componenti elettivi del Consiglio superiore della magistratura (CSM).
  In particolare, si interviene per chiarire che la permanenza in servizio è la condizione essenziale per il mantenimento della carica di componente del CSM per i magistrati eletti ai sensi dell'articolo 23 della predetta legge. Conseguentemente il componente del CSM che perde lo status di magistrato cessa di diritto dalla carica ricoperta.
  Giova, per un'argomentata motivazione delle ragioni che fondano la presente proposta di legge, utilizzare le parole di Nello Rossi, pubblicate sulla rivista «Questione Giustizia», che definiscono chiaramente l'ambito normativo in cui ci si muove. «L'ibrido di un “non più magistrato” che continua ad esercitare le funzioni di componente togato dell'organo di Governo autonomo della magistratura non risulterebbe giuridicamente insostenibile e foriero di squilibri e contraddizioni nella vita dell'istituzione consiliare?». «La legge elettorale del CSM ha subìto, nel corso degli anni, modifiche e traversie di ogni tipo. Eppure, in tutti i successivi mutamenti della legislazione che hanno investito le modalità di voto, la fisionomia dei collegi, le forme di presentazione delle candidature e altri aspetti del sistema di elezione dei membri togati del Consiglio, un dato è rimasto indiscusso: chi è eletto al Consiglio da tutti magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio.
  La legge n. 195 del 1958 recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura” nel testo in vigore, modificato da ultimo dalla legge 28 marzo 2002, n. 44, disciplina l'elettorato passivo prevedendo, tra l'altro, che non sono eleggibili “i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie (...)” (articolo 24, comma 2, lettera a)).
  Essa stabilisce, inoltre, che l'elezione da parte dei magistrati ordinari dei sedici componenti togati del CSM si effettua in collegi unici nazionali diversi per magistrati “che esercitano le funzioni” di legittimità, di pubblico ministero e di giudice presso gli uffici di merito (articolo 23).
  Il possesso – effettivo e attuale – dello status di magistrato nell'esercizio delle funzioni è dunque un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva e ciò in coerenza con le disposizioni costituzionali che regolano l'elezione dei membri togati del CSM.
  L'articolo 104 della Carta costituzionale, infatti, nel prevedere l'elezione di due terzi dei componenti del CSM da parte di tutti i magistrati ordinari “tra gli appartenenti alle varie categorie”, collega la reale rappresentatività dell'eletto e la sua durata in carica nell'arco di un quadriennio a un dato effettivo, stabile e durevole come l'appartenenza a una delle categorie nelle quali si articola la magistratura o, meglio, all'esercizio effettivo di determinate funzioni.
  Ferma restando la summa divisio tra magistrati esercenti funzioni di legittimità e magistrati esercenti funzioni di merito che la Corte costituzionale ha ritenuto costituzionalmente obbligata, le “categorie” possono essere (e sono state) variamente individuate dal legislatore ordinario. Ma l'effettiva e attuale “appartenenza” a una di esse (ossia l'esercizio di determinate funzioni nell'ambito dell'ordine giudiziario) resta essenziale tanto ai fini dell'elezione quanto ai fini del corretto funzionamento del CSM, in particolare nella sua veste di giudice disciplinare.
  Il dato della “appartenenza” a una particolare categoria di magistrati in servizio non riguarda solo la fase dell'elezione al Consiglio. Esso ritorna nella vita quotidiana dell'organo di governo autonomo proiettandosi nell'operatività della sua più delicata articolazione; la sezione disciplinare.
  L'articolo 6 della citata legge n. 195 del 1958 regola le sostituzioni in seno al collegio disciplinare stabilendo, tra l'altro, che: “I componenti effettivi magistrati sono sostituiti dai supplenti della medesima categoria” e che: “Sulla ricusazione di un componente della sezione disciplinare, decide la stessa sezione, previa sostituzione del componente ricusato con il supplente corrispondente”.
  Ora è possibile – o meglio è concepibile – che il venir meno dello status che (solo) ha consentito l'elezione al Consiglio del componente togato sia considerato irrilevante ai fini della permanenza in carica di chi non è più magistrato?
  Ed è concepibile che – una volta cessata l'appartenenza all'ordine giudiziario su cui si radica l'elettorato passivo e su cui poggia la rappresentatività stessa del componente togato – chi non appartiene più alla magistratura possa continuare a esercitare le funzioni di amministrazione della giurisdizione e quelle di giudice disciplinare?
  “Sulla scorta delle norme, anche di rango costituzionale, ora richiamate e dei princìpi generali che regolano i meccanismi elettorali e le modalità di funzionamento degli organi rappresentativi la risposta negativa appare obbligata”.
  La cessazione dello status di magistrato – sia essa l'effetto di una scelta volontaria, come nel caso delle dimissioni dalla magistratura, di una situazione di natura oggettiva come avviene per il collocamento in quiescenza o di una sentenza penale di condanna – determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l'automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore.
  Naturalmente non mancano ambiti istituzionali nei quali la condizione di magistrato “a riposo” o “in quiescenza” è un valido requisito per l'accesso a rilevanti funzioni istituzionali. Ma ciò non avviene mai per una sorta di ultrattività dell'originaria condizione di magistrato bensì per effetto di “esplicite” previsioni del legislatore costituente o di quello ordinario. È quanto avviene, ad esempio, per i giudici della Corte costituzionale che possono essere “scelti tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrativa” (articolo 135, secondo comma, della Costituzione) o per sette dei dodici componenti del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura “scelti fra magistrati, anche in quiescenza” (articolo 6 del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26).
  In altri termini, quando il legislatore menziona genericamente i “magistrati” si riferisce ai magistrati in servizio, appartenenti all'ordine giudiziario, mentre l'ampliamento del campo anche ai magistrati in quiescenza è frutto di una scelta di natura derogatoria che deve perciò essere chiaramente esplicitata.
  È, infine, appena il caso di ricordare che la norma costituzionale secondo cui: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili” (articolo 104, sesto comma, della Costituzione) vale a fissare la durata quadriennale dell'organo elettivo senza far nascere un diritto soggettivo dell'eletto di rimanere in carica per un quadriennio. È questa la risposta che è stata costantemente e giustamente data a quanti – subentrati nel CSM nell'arco della consiliatura – hanno avanzato la pretesa di prolungare la loro permanenza in carica sino al raggiungimento del quadriennio. E un analogo diniego è stato opposto ai magistrati subentrati nel Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura nel corso del quadriennio di durata dell'organo, che intendevano rimanere in carica dopo tale scadenza.
  Quando dalle considerazioni di principio si passa all'analisi di quella che sarebbe l'ibrida, contraddittoria e insostenibile posizione di un “non più magistrato ma ancora consigliere togato” del CSM si colgono le ulteriori ragioni di ordine sistematico e pratico che escludono la permanenza in carica come consigliere superiore di chi abbia perso lo status di magistrato in servizio.
  Un ex magistrato – e tale è a tutti gli effetti, chi viene collocato in quiescenza – non è più soggetto alla giurisdizione disciplinare. Per la sua peculiare natura, la sua funzione tipica, l'indissolubile collegamento con il rapporto di servizio e la stessa tipologia delle sanzioni irrogabili, la giustizia disciplinare può essere infatti esercitata esclusivamente nei confronti dei magistrati in servizio, siano essi esercenti funzioni giudiziarie o collocati temporaneamente fuori ruolo. Il componente del CSM “pensionato” si troverebbe, dunque, in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio, sia rispetto alla generalità dei magistrati. A differenza degli uni e degli altri, infatti, non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare, mentre resterebbe lettera morta – ancora una volta solo per lui – la norma secondo cui: “I magistrati componenti il Consiglio superiore della magistratura incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento” (articolo 37, quinto comma, della legge n. 195 del 1958).
  L'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sulla responsabilità disciplinare dei magistrati ha costantemente ribadito che essa è collegata allo status dell'appartenenza all'ordine giudiziario e perciò sussiste anche nei riguardi di magistrati ai quali siano state conferite funzioni diverse da quelle giurisdizionali, a maggior ragione quando solo la qualifica di magistrato abbia consentito tale conferimento.
  Ma, come si è detto, questa intera costruzione – che garantisce un efficace presidio della deontologia dei magistrati nei diversi ruoli occupati all'interno o all'esterno della giurisdizione – poggia sullo status di appartenenza all'ordine giudiziario e perde di fondamento con la sua cessazione.
  Il “già pensionato ma ancora consigliere superiore” sarebbe dunque libero dai fondamentali doveri propri del magistrato ed esente da ogni possibile sanzione disciplinare per la loro violazione, con il duplice effetto di non poter essere in alcun modo “rimosso” dall'ordine giudiziario – al quale non appartiene più – e contemporaneamente sottratto per la stessa ragione ad ogni ipotesi di “decadenza di diritto” dalla carica di consigliere per la commissione di illeciti disciplinari in teoria anche molto gravi. Tutto ciò mentre, nella possibile veste di giudice disciplinare, sarebbe chiamato a giudicare (non più i suoi pari ma) magistrati in servizio o fuori ruolo e gli stessi componenti togati del Consiglio ancora sottoposti alla giurisdizione disciplinare.
  Un rilievo forse più minuto e meno decisivo ma non per questo insignificante, soprattutto nella congiuntura che la magistratura italiana sta attraversando, riguarda il piano dell'etica professionale.
  Anche sotto questo profilo il magistrato collocato in quiescenza sarebbe libero dai limiti e dai doveri connessi alla posizione di magistrato in servizio elencati nel codice etico della magistratura. Poiché, ove sia stato iscritto all'Associazione nazionale magistrati, il pensionato perde anche la qualifica di iscritto (rimanendo libero, se lo voglia, di iscriversi alla distinta sezione dei magistrati in pensione), nei suoi confronti non potrà essere fatta valere alcuna violazione del codice etico né sarà possibile alcun intervento sanzionatorio.
  La figura che emerge da queste notazioni è quella di un extraneus alla magistratura che “soggettivamente” potrà mantenere condotte ineccepibili e meritevoli del massimo apprezzamento, ma i cui comportamenti nella vita dell'istituzione consiliare resteranno comunque insindacabili e non sanzionabili se non hanno rilevanza penale».
  Di conseguenza, la presente proposta di legge di interpretazione autentica, composta da un articolo unico, stabilisce che «L'articolo 32 della legge 24 marzo 1958, n. 195, si interpreta nel senso che, per i componenti eletti dai magistrati, la durata del mandato è di quattro anni, ovvero, se inferiore, pari al tempo in cui l'eletto permane in servizio. La perdita del requisito della permanenza in servizio determina la cessazione dalla carica».

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

  1. L'articolo 32 della legge 24 marzo 1958, n. 195, si interpreta nel senso che, per i componenti eletti dai magistrati, la durata del mandato è di quattro anni, ovvero, se inferiore, pari al tempo in cui l'eletto permane in servizio. La perdita del requisito della permanenza in servizio determina la cessazione dalla carica.