FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2
                        Articolo 3
                        Articolo 4
                        Articolo 5
                        Articolo 6
                        Articolo 7
                        Articolo 8
                        Articolo 9
                        Articolo 10

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1722

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
ROBERTO ROSSINI, GALANTINO, FRATE, DAVIDE AIELLO, CASA, CATALDI, CECCONI, DE GIROLAMO, GIANNONE, GIULIODORI, LOMBARDO, MAMMÌ, PENNA, RAFFA, ROMANIELLO, SARLI, VILLANI, VIZZINI

Disposizioni per la prevenzione e il contrasto delle molestie morali e delle violenze psicologiche in ambito lavorativo

Presentata il 1° aprile 2019

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  Onorevoli Colleghi! – Con il termine mobbing si indica un fenomeno sociale che coinvolge il mondo del lavoro e, più specificamente, le molestie morali e le persecuzioni psicologiche esercitate nell'ambito lavorativo. Il nostro ordinamento, contrariamente a quanto è raccomandato dal Parlamento e dal Consiglio dell'Unione europea agli inizi degli anni 2000, risulta ancora oggi privo di una disciplina organica per la tutela del lavoratore mobbizzato, con conseguente possibilità di applicare soltanto le norme già esistenti, sia civili che penali.
  La differenza sostanziale risiede, però, nei rispettivi strumenti di protezione: dal punto di vista civilistico, il mobbing viene inquadrato, oltre che nel campo più generale della responsabilità per danno ingiusto, ex articolo 2043 del codice civile, anche in quello più peculiare dell'articolo 2087 del medesimo codice, che pone a carico del datore di lavoro l'obbligo di garantire la sicurezza e tutelare l'integrità fisica e psichica del lavoratore contro i comportamenti aggressivi e vessatori.
  È in ambito penale, invece, che si registrano maggiori problemi. La mancata previsione, infatti, di una precisa fattispecie incriminatrice fa apparire la via della sanzione punitiva come non preferibile o, come espressamente rilevato anche dalla Corte di cassazione, «non praticabile» (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 685 del 13 gennaio 2011), salvo che il comportamento tenuto dal mobber non integri un altro specifico reato.
  In questo senso, i principali articoli a cui la giurisprudenza fa riferimento sono:

   l'articolo 323 del codice penale se le vessazioni compiute nell'ambito di un ufficio pubblico configurano il delitto di abuso d'ufficio;

   l'articolo 571 del codice penale se le vessazioni del datore di lavoro si concretano in abuso dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità per ragioni di esercizio di una professione o di un'arte;

   l'articolo 572 del codice penale se il datore di lavoro maltratta una persona della famiglia a lui affidata per l'esercizio di una professione o di un'arte;

   gli articoli 582 e 583 del codice penale, nei casi più gravi, se dal mobbing sono derivate lesioni;

   l'articolo 590 del codice penale, in materia di lesioni personali colpose, che sanziona, con previsione generale, chi cagiona per colpa una lesione personale ad altri soggetti;

   l'articolo 595 del codice penale, in materia di diffamazione, che punisce il comportamento di chi lede la reputazione di un soggetto;

   gli articoli 609-bis e seguenti del codice penale, in materia di violenza sessuale, che puniscono varie tipologie di comportamenti che violano la libertà sessuale della vittima;

   l'articolo 610 del codice penale, in materia di violenza privata, che sanziona chi, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa;

   l'articolo 612-bis del codice penale, in materia di atti persecutori o stalking, che punisce il comportamento assillante e invasivo della vita altrui con connotati aggressivi e molesti.

  Il ricorso a tipizzazioni di volta in volta differenti dello stesso fenomeno è sempre parso l'unica strada percorribile in mancanza di una normativa ad hoc. Sino a oggi l'impressione degli addetti ai lavori è che il mobbing sia un concetto elaborato dalla giurisprudenza, ma, colpevolmente, poco considerato dal legislatore, con due conseguenze negative principali: l'assoluta inadeguatezza nella doverosa repressione dei fenomeni di mobbing; l'assoluta incertezza sull'esito delle denunce penali, che troppo spesso dipende dalla sensibilità (e anche conoscenza del fenomeno) da parte dell'inquirente al quale è assegnata l'istruttoria penale.
  Certamente più utile appare una puntuale definizione da parte del legislatore penale per prendere in considerazione e stigmatizzare tutte le condotte relative al mobbing, anche omissive, come spesso accade nel cosiddetto «mobbing orizzontale», dove il datore di lavoro, per disinteresse o per un preciso intento escludente, evita di intervenire per porre fine a comportamenti mobbizzanti posti in essere dai colleghi di lavoro della vittima.
  Affinché si possa addivenire al risultato sperato, occorre in primo luogo considerare l'elaborazione giurisprudenziale più recente. Il punto di partenza deve essere senza dubbio la celebre sentenza della Cassazione penale, sezione VI, n. 28603 del 3 luglio 2013 (udienza del 28 marzo 2013), con cui la Corte ha riconosciuto una forma attenuata di mobbing, denominata «straining».
  Si tratta di una pronuncia particolarmente interessante che ha riconosciuto che il dipendente di una banca era stato «messo all'angolo» fino a essere relegato a lavorare in uno «sgabuzzino, spoglio e sporco», con «mansioni dequalificanti» e «meramente esecutive e ripetitive»: comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni contrassegnate da una marcata autonomia decisionale a ruoli caratterizzati, per contro, da una «bassa e/o nessuna autonomia» e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l'attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni esercitate.
  La Corte precisa inoltre che: «Pur essendo tale situazione di fatto astrattamente riconducibile alla nozione di “mobbing”, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, dai Giudici di merito denominata nel caso di specie come “straining”, occorre tuttavia rilevare che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest'ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Rv. 244457; Sez. 6, n. 685 dei 22/09/2010, dep. 13/01/2011, Rv. 249186; Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, dep. 22/11/2011, Rv. 251368; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, dep. 27/04/2012, Rv. 252609)».
  Per contro, dalla pronuncia di legittimità n. 20230 del 25 settembre 2014 si può, ad esempio, ricavare una definizione che fa riferimento a un «complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati di un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo». Una definizione che sostanzialmente conferma i precedenti sul punto.
  Le caratteristiche sono poi state ribadite nella sentenza n. 10037 del 15 maggio 2015 in cui la Corte di cassazione ha ribadito che l'onere della prova grava integralmente sul lavoratore, che denunci di essere stato vittima di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro. L'onere probatorio è duplice in quanto il lavoratore-parte offesa dovrà dare prova piena e rigorosa sia del fatto che i comportamenti subiti abbiano natura illecita sia della quantificazione del danno subìto. Un'altra sentenza della sezione lavoro della Cassazione (sentenza n. 2920 del 15 febbraio 2016) indica che per poter ricorrere alla tutela giudiziaria il lavoratore deve dimostrare l'intento persecutorio che non deve assistere le singole condotte poste in essere a suo danno ma deve ricomprenderle in un unico disegno vessatorio. Sulla quantificazione del pregiudizio subìto a seguito di mobbing, è intervenuta la sezione I del tribunale di Nocera Inferiore (sentenza 7 maggio 2014) che ha rilevato come il danno morale non scatta in re ipsa come danno evento, ma è comunque un danno-conseguenza che deve essere provato dal richiedente.
  In altri termini, mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso, lo straining, in via parzialmente coincidente ma in parte diversa, è una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un'azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo.

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Finalità)

  1. La presente legge reca misure al fine di tutelare le lavoratrici e i lavoratori da molestie morali e da violenze psicologiche poste in essere nell'ambito del rapporto di lavoro, pubblico o privato, comprese le collaborazioni, indipendentemente dalla loro natura, mansione o grado.
  2. Nell'ambito di qualsiasi rapporto di lavoro sono vietati i comportamenti, anche omissivi, che ledono o pongono in pericolo la salute fisica e psichica, la dignità e la personalità morale del lavoratore.

Art. 2.
(Definizioni)

  1. Ai fini della presente legge si intendono per molestie morali e violenze psicologiche nell'ambito del posto di lavoro le azioni, esercitate esplicitamente con modalità lesiva, che sono svolte con carattere iterativo e sistematico e che hanno il fine di emarginare, discriminare, screditare o, comunque, recare danno alla lavoratrice o al lavoratore in relazione alla sua carriera, alla sua autorevolezza e al suo rapporto con gli altri. La molestia morale e la violenza psicologica possono avvenire anche attraverso:

   a) la rimozione da incarichi;

   b) l'esclusione dalla comunicazione e dalle informazioni aziendali;

   c) la svalutazione sistematica dei risultati, fino a un sabotaggio del lavoro, che può essere svuotato dei contenuti ovvero privato degli strumenti necessari al suo svolgimento;

   d) il sovraccarico di lavoro o l'attribuzione di compiti impossibili o inutili, che acuiscono il senso di impotenza e di frustrazione;

   e) l'attribuzione di compiti inadeguati rispetto alla qualifica e alla preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute;

   f) l'esercizio da parte del datore di lavoro o dei dirigenti di azioni sanzionatorie, quali reiterate visite fiscali o di idoneità, contestazioni o trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di permessi, di ferie o di trasferimenti, finalizzate all'estromissione del soggetto dal posto di lavoro;

   g) gli atti persecutori e di grave maltrattamento, le comunicazioni verbali o scritte distorte e le tesi a critica, anche di fronte a terzi;

   h) le molestie sessuali;

   i) la squalificazione dell'immagine personale e professionale;

   l) le offese alla dignità personale, attuate da superiori, da parigrado o da subordinati, ovvero dal datore di lavoro.

  2. Agli effetti degli accertamenti delle responsabilità, l'istigazione è considerata equivalente alla realizzazione del fatto.
  3. Ai fini della presente legge, il danno all'integrità psicofisica sussiste quando le azioni di cui al comma 1 determinano una riduzione della capacità lavorativa per disturbi psicofisici di qualsiasi entità, quali depressione, disturbi psicosomatici conseguenti a stress lavorativo, come l'ipertensione, l'ulcera e l'artrite, disturbi allergici, disturbi della sfera sessuale, nonché tumori.

Art. 3.
(Prevenzione e informazione)

  1. Al fine di prevenire i casi di molestie morali e violenze psicologiche, i datori di lavoro, pubblici e privati, in collaborazione con le organizzazioni sindacali aziendali e con i servizi di prevenzione e protezione della salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro (SPRESAL) delle aziende sanitarie locali, unitamente ai centri regionali per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dei disturbi da disadattamento lavorativo di cui all'articolo 9, organizzano iniziative periodiche di informazione dei dipendenti anche al fine di individuare immediatamente eventuali sintomi o condizioni di discriminazione definiti ai sensi dell'articolo 2.
  2. In concorso con i centri di cui all'articolo 9, gli SPRESAL organizzano annualmente corsi di prevenzione e di informazione sulle molestie morali e sulle violenze psicologiche, obbligatori e a carico del datore di lavoro, per i dirigenti, i medici competenti e i responsabili della sicurezza aziendale, nonché per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.
  3. In ogni azienda il servizio di prevenzione e protezione dai rischi, previsto dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, è competente in materia di molestie morali e di violenze psicologiche; esso può svolgere le proprie funzioni in materia anche avvalendosi di appositi consulenti.
  4. In ogni azienda, nell'ambito dei processi informativi e formativi previsti dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, sono previste apposite riunioni aziendali periodiche, improntate alla trasparenza e alla correttezza nei rapporti aziendali e professionali, atte a fornire alle lavoratrici e ai lavoratori informazioni sugli aspetti organizzativi, anche attinenti all'attribuzione di ruoli e mansioni, agli avanzamenti di carriera e ai processi di mobilità.
  5. Un'attività di informazione generale sulle molestie morali e sulle violenze psicologiche è svolta, altresì, per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, dedicando a tale fine due ore di assemblea annuali oltre a quelle previste dalla legge 20 maggio 1970, n. 300.

Art. 4.
(Obblighi del datore di lavoro)

  1. Il datore di lavoro, pubblico o privato, qualora azioni di cui all'articolo 2 siano denunciate da singoli lavoratori o da gruppi di lavoratori, ovvero su segnalazione delle rappresentanze sindacali aziendali o del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, nonché del medico competente, ha l'obbligo di accertare tempestivamente i comportamenti denunciati.
  2. Il datore di lavoro prende provvedimenti per il superamento delle azioni denunciate ai sensi del comma 1, sentiti i lavoratori dell'area interessata, il medico competente, nonché, se necessario, lo SPRESAL.

Art. 5.
(Tutela giudiziaria)

  1. Qualora siano denunciate azioni di cui all'articolo 2, su ricorso del lavoratore o, per delega conferita dal medesimo, delle organizzazioni sindacali, il tribunale territorialmente competente, in funzione di giudice del lavoro, nei cinque giorni successivi alla data della denuncia, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritiene sussistente la violazione di cui al ricorso, ordina al responsabile del comportamento denunciato, con provvedimento motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo, ne dispone la rimozione degli effetti, stabilisce le modalità di esecuzione della decisione e determina in via equitativa la riparazione pecuniaria dovuta al lavoratore per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Contro la decisione di cui al primo periodo è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione davanti al tribunale, che decide in composizione collegiale, con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti del codice di procedura civile.
  2. Il risarcimento del danno dovuto al lavoratore dal responsabile di azioni di cui all'articolo 2 comprende in ogni caso anche una somma a titolo di indennizzo del danno biologico da determinare in via equitativa.
  3. Restano ferme le norme vigenti in materia di tutela del lavoro subordinato.

Art. 6.
(Pubblicità del provvedimento del giudice)

  1. Su richiesta della parte interessata, il giudice può disporre che del provvedimento adottato ai sensi dell'articolo 5 sia data informazione ai dipendenti, mediante comunicazione scritta del datore di lavoro, omettendo il nome della persona oggetto di molestia morale o di violenza psicologica.
  2. Se l'azione oggetto del provvedimento di condanna è commessa dal datore di lavoro, pubblico o privato, ovvero si prova una sua complicità, il giudice dispone la pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani a diffusione nazionale, omettendo il nome della persona oggetto di molestia morale o di violenza psicologica. Le eventuali spese sono a carico del condannato.

Art. 7.
(Responsabilità disciplinare)

  1. Nei confronti di coloro che pongono in essere le azioni di cui all'articolo 2 è disposta, da parte del datore di lavoro, pubblico o privato, ovvero del loro diretto superiore, una sanzione disciplinare stabilita in sede di contrattazione collettiva.

Art. 8.
(Nullità delle azioni discriminatorie)

  1. Gli atti e i provvedimenti discriminatori ai sensi dell'articolo 2 sono nulli.

Art. 9.
(Istituzione di centri regionali per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dei disturbi da disadattamento lavorativo)

  1. Ogni regione, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, istituisce un centro regionale per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dei disturbi da disadattamento lavorativo, di seguito denominato «centro», con un adeguato organico, diretto da uno psichiatra della dirigenza sanitaria che sia in possesso dei requisiti per l'attribuzione di un incarico di direzione di struttura complessa e che abbia seguito appositi corsi di formazione. Il centro, anche ai fini contrattuali, ha carattere di struttura complessa. Il centro è organizzato quale organismo tecnico di consulenza degli SPRESAL e svolge i seguenti compiti:

   a) ricerca e prevenzione delle molestie morali e delle violenze psicologiche;

   b) informazione dei lavoratori;

   c) formazione degli operatori dei servizi degli SPRESAL;

   d) formazione dei medici competenti, dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti;

   e) monitoraggio delle molestie morali e delle violenze psicologiche.

  2. Il centro organizza una conferenza annuale per valutare i risultati dell'attività svolta e individuare le opportune iniziative per la riduzione o l'eliminazione del fenomeno delle molestie morali e delle violenze psicologiche.

Art. 10.
(Introduzione dell'articolo 610-bis del codice penale)

  1. Dopo l'articolo 610 del codice penale è inserito il seguente:

   «Art. 610-bis. – (Atti di discriminazione o di persecuzione psicologica in ambito lavorativo) – Chiunque, nel luogo o nell'ambito di lavoro, si rende responsabile di atti, omissioni o comportamenti di vessazione, discriminazione, violenza morale o persecuzione psicologica, reiterati nel tempo in modo sistematico o abituale, che provochino un degrado delle condizioni di lavoro tale da compromettere la salute fisica o psichica ovvero la professionalità o la dignità della lavoratrice o del lavoratore, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da euro 30.000 a euro 100.000.
   La pena di cui al primo comma è aumentata di un terzo se gli atti, le omissioni o i comportamenti sono commessi dal superiore gerarchico ovvero in accordo tra più persone appartenenti al medesimo ambiente di lavoro.
   Se gli atti, le omissioni o i comportamenti sono commessi nei confronti di una donna in stato di gravidanza o nel corso dei primi quattro anni di vita del figlio, ovvero nei confronti di un minore o di una persona con disabilità ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, le pene di cui ai commi primo e secondo del presente articolo sono aumentate della metà.
   Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede d'ufficio nelle ipotesi di cui al secondo e al terzo comma».

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