Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
Titolo: | Il controllo di costituzionalità delle leggi |
Serie: | Rassegna costituzionale Numero: 2/Aprile - Giugno 2022 |
Data: | 01/08/2022 |
Organi della Camera: | I Affari costituzionali |
Il controllo di costituzionalità delle leggi
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RASSEGNA TRIMESTRALE
DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
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ANNO II NUMERO 2 - APRILE-GIUGNO 2022
Servizio Studi
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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del secondo trimestre dell’anno 2022. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.
Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.
RCost_II_2.docx
I N D I C E
1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore........................................................................................ 3
2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali........... 7
§ 2.1 Tabella di sintesi (aprile – giugno 2022).................................................. 7
§ 2.2 La sentenza n. 105 del 2022 in materia di delimitazione del margine di discrezionalità del legislatore delegato nell’ambito di una delega per il riassetto normativo....................................................................................... 12
§ 2.3 Le sentenze n. 114 e n. 123 del 2022 in materia di coinvolgimento del sistema delle autonomie territoriali mediante previsione di intese.............. 15
§ 2.4 La sentenza n. 125 del 2022 in materia di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento.......................................................................................... 19
§ 2.5 La sentenza n. 145 del 2022 sui limiti della retroattività delle leggi..... 23
3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (aprile-giugno 2022)....................................................................... 27
§ 3.1 La sentenza n. 96 del 2022 in materia di notificazioni al pubblico ministero con modalità telematiche.............................................................. 34
§ 3.2 La sentenza n. 100 del 2022, sulla quota di trattamento pensionistico in favore dei superstiti spettante ai figli nati fuori dal matrimonio nel caso di concorso con coniuge superstite che non sia loro genitore...................... 37
§ 3.3 L’ordinanza n. 122 del 2022 sull’ergastolo ostativo per reati di mafia.. 40
§ 3.4 La sentenza n. 131 del 2022 in materia di cognome dei figli................. 42
§ 3.5 La sentenza n. 143 del 2022 in materia di trascrizione di domande giudiziali....................................................................................................... 48
§ 3.6 La sentenza n. 149 del 2022 in materia di ne bis in idem e illeciti in materia di diritto d’autore............................................................................. 51
La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).
Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.
La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, ma solo da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza
di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In questo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.
La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.
La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).
Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).
Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).
Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.
Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.
Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.
L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XVIII è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).
Sentenza |
Norme dichiarate illegittime |
Parametro costituzionale |
Oggetto |
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del 9 marzo – 4 aprile 2022
Camera Doc VII, n. 858 Senato Doc VII, n. 146
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art. 4, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. L. n. 176/2020
illegittimità parziale
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articoli 3 e 24, Cost. |
Inefficacia di “ogni procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare” che abbia ad oggetto l’abitazione principale del debitore, se effettuata dal 25 ottobre al 25 dicembre 2020
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del 9 febbraio – 5 aprile 2022
Camera Doc VII, n. 859 Senato Doc VII, n.147
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art. 38, d.P.R. 26 aprile 1957, n. 818
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Mancata previsione della reversibilità per i nipoti maggiorenni, orfani e interdetti, conviventi con l’ascendente e a suo carico
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del 9 marzo – 14 aprile 2022
Camera Doc VII, n. 865 Senato Doc VII, n. 148
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art. 726, cod. pen.
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Trattamento sanzionatorio stabilito per gli atti contrari alla pubblica decenza |
del 23 febbraio – 22 aprile 2022
Camera Doc VII, n. 868 Senato Doc VII, n. 149
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art. 18, comma 12, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in L. 15 luglio 2011, n. 111
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Esonero per gli avvocati del libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento delle soglie di reddito o di volume di affari, tenuti all'obbligo di iscrizione alla Gestione separata costituita presso l'INPS, dal pagamento, in favore dell'ente previdenziale, delle sanzioni civili per l'omessa iscrizione con riguardo al periodo anteriore alla sua entrata in vigore |
del 9 marzo – 22 aprile 2022
Camera Doc VII, n. 869 Senato Doc VII, n. 150
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art. 2, comma 1, lett. d, D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21
illegittimità parziale
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articolo 76 Cost. |
Discrezionalità del legislatore delegato nell’ambito di una delega per il riassetto normativo - come, nel caso di specie, il trasferimento, all'interno del codice penale, della figura criminosa del reato di commercio illecito di sostanze dopanti – in relazione all’introduzione di soluzioni innovative.
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del 5 aprile – 9 maggio 2022
Camera Doc VII, n. 874 Senato Doc VII, n. 151
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art. 568, comma 4, cod. proc. pen.
illegittimità parziale
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articoli 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. |
Inammissibilità, per carenza di interesse ad impugnare il ricorso per cassazione proposto avverso sentenza di appello che, in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio, abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato
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del 23 marzo – 9 maggio 2022
Camera Doc VII, n. 877 Senato Doc VII, n. 152
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art. 1, commi 480, 500 e 501, L. 30 dicembre 2020, n. 178
illegittimità parziale
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articoli 117, terzo comma, 118, 119 e 120, Cost. |
Mancato coinvolgimento del sistema delle autonomie territoriali mediante previsione di intese, in materie di competenza concorrente, come la “tutela della salute”
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del 23 marzo – 17 maggio 2022
Camera Doc VII, n. 884 Senato Doc VII, n. 153
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art. 1, commi 562 e 606, L. 30 dicembre 2020, n. 178 (Legge di bilancio 2021)
illegittimità parziale
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articolo 117, terzo e quarto comma, Cost. |
Mancato coinvolgimento del sistema delle autonomie territoriali mediante previsione di intese, nella determinazione dei criteri di ripartizione delle risorse di fondi a destinazione vincolata che incidono su materie di competenza regionale, concorrente o residuale, di volta in volta espressamente individuate
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del 7 aprile – 19 maggio 2022
Camera Doc VII, n. 886 Senato Doc VII, n. 154
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art. 18, settimo comma, secondo periodo, della L. 20 maggio 1970, n. 300
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Obbligo di reintegro nel posto di lavoro solo nel caso di “manifesta” insussistenza del motivo oggettivo del licenziamento
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del 27 aprile – 31 maggio 2022
Camera Doc VII, n. 890 Senato Doc VII, n. 155
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art. 262, primo comma, cod. civ.
illegittimità parziale
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articoli 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU |
Automatica attribuzione del solo cognome paterno, con riguardo alle ipotesi del riconoscimento effettuato da entrambi i genitori e dell’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio e al figlio adottato
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del 26 aprile – 7 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 894 Senato Doc VII, n. 156
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art. 66, comma 2, d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131
illegittimità parziale
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articoli 3 e 24, Cost. |
Mancata inclusione, tra le ipotesi derogatorie al divieto di rilascio di documenti relativi ad atti non registrati, del rilascio dell'originale o della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale che debba essere utilizzato per proporre l'azione di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo
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del 10 maggio – 13 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 898 Senato Doc VII, n. 158
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art. 1-bis, D.L. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in L. n. 148/2011 |
articoli 3, 24, primo comma, 102, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’articolo 6 CEDU
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Applicazione retroattiva di disposizioni relative al trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’amministrazione degli Affari esteri, nel periodo di servizio all’estero |
del 27 aprile – 14 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 899 Senato Doc VII, n. 159
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art. 517 c.p.p.
illegittimità parziale
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articoli 3 e 24, Cost. |
Facoltà dell’imputato nel processo penale di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, relativamente al reato concorrente oggetto di nuova contestazione
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del 10 maggio – 16 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 902 Senato Doc VII, n. 160
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art. 649 c.p.
illegittimità parziale
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articolo 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) |
Mancata previsione dell'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell'imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia stata già irrogata in via definitiva, nell'ambito di un procedimento amministrativo non legato a quello penale da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della CEDU e dei relativi protocolli
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del 27 aprile – 17 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 904 Senato Doc VII, n. 161
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Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), D.Lgs. 23 febbraio 2018, n. 20
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Requisiti richiesti ai fini dell'autorizzazione ministeriale per lo svolgimento dell'attività di controllo in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica
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del 25 maggio – 24 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 907 Senato Doc VII, n. 162
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art. 83 c.p.p.
illegittimità parziale
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articolo 3, primo comma, Cost. |
Facoltà dell’imputato di citare in giudizio nel processo penale l’assicuratore nel caso di responsabilità civile derivante dall’assicurazione obbligatoria prevista per l’esercizio dell’attività venatoria
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del 8 - 30 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 910 Senato Doc VII, n. 163
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art. 1, comma 41, terzo e quarto periodo, L. 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), in combinato disposto con la connessa Tabella F
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Limiti alle decurtazioni della pensione in caso di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi aggiuntivi del beneficiario |
del 9 - 30 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 911 Senato Doc VII, n. 164
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art. 224, comma 3, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada)
illegittimità parziale
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articolo 3 Cost. |
Estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool a seguito di esito positivo della messa alla prova - Mancata previsione che il Prefetto disponga la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente
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La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 105 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale - per violazione dell’art. 76 Cost. - dell’articolo 586-bis, settimo comma, del codice penale, che punisce il reato di commercio di sostanza dopanti, limitatamente alle parole «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».
A giudizio della Corte, nel compiere l'operazione di “riassetto normativo” nel settore del doping, la disposizione censurata non realizza un'operazione di mera trasposizione nel codice penale delle figure criminose già esistenti - come richiesto dal criterio contenuto nella legge di delega -, ma arricchisce la descrizione della fattispecie del reato di commercio illecito di sostanze dopanti con l’ulteriore fine di cui sopra, oggetto di censura.
In tal modo, secondo la Corte, la fattispecie penale si è sensibilmente ridotta, alterando significativamente la sua struttura e deviando il baricentro del bene giuridico protetto, passato dalla salute delle persone alla correttezza delle competizioni agonistiche.
Risulta nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’art. 586-bis, settimo comma, del codice penale, introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo n. 21 del 2018 recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103».
La Corte di cassazione, sezione terza penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 Cost., dell’art. 586-bis del codice penale (utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti) nella parte in cui – sostituendo la previgente fattispecie (di cui all’art. 9 della legge n. 376 del 2000, abrogato dal medesimo d.lgs. n. 21 del 2018) in attuazione della riserva di codice in materia penale – prevede, al settimo comma (commercio di sostanze dopanti), l’ulteriore «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» ai fini della configurazione della relativa fattispecie di reato.
Secondo i ricorrenti, il legislatore delegato, aggiungendo ulteriori elementi costitutivi (sotto il profilo soggettivo del dolo specifico) non previsti nei criteri di delega, avrebbe reso non punibili le condotte di commercio di sostanze dopanti non finalisticamente dirette ad alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; condotte che invece erano punibili ai sensi della previgente disciplina, ora trasposta nella disposizione del codice penale impugnata.
Secondo i ricorrenti, tale aggiunta del dolo specifico, restringendo l’area di rilevanza penale della condotta illecita di cui all’art. 586-bis, settimo comma, del codice penale (punibile solo in presenza di dolo specifico), avrebbe determinato una parziale abolitio criminis, in violazione dei princìpi e criteri direttivi dettati dalla legge delega n. 103 del 2017, secondo cui il Governo, in attuazione del principio della «riserva di codice», era delegato a trasferire all’interno del codice penale talune figure criminose già contemplate da disposizioni di legge, tra cui quelle aventi ad oggetto la tutela della salute e, non anche, a modificare le fattispecie incriminatrici.
Secondo i giudici a quibus, tale parziale abolitio criminis si porrebbe in contrasto con l’art. 76 Cost., in ragione del mancato rispetto del criterio di delega che non autorizzava una riduzione della fattispecie di reato nella sua trasposizione nel codice penale.
La stessa questione – fondata su argomentazioni sostanzialmente comuni – è stata parimenti sollevata dal giudice monocratico del Tribunale di Busto Arsizio. La Corte ha pertanto disposto la riunione dei due giudizi.
La Corte ha ritenuto fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 76 Cost.
Nel valutare l’ammissibilità della questione, la Corte rileva che l’inserimento della nuova disposizione nel codice penale doveva tradursi – secondo il criterio di delega – in una operazione di mera trasposizione nel codice penale delle figure criminose già esistenti.
Invece, nel caso di specie, il legislatore delegato, nel compiere l’operazione di “riassetto normativo” nel settore del doping, avrebbe arricchito la descrizione della fattispecie del reato di commercio illecito di sostanze dopanti, idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, con l’introduzione di un ulteriore fine (i.e. dolo specifico) necessario a configurare la condotta illecita.
Nel richiamare il quadro normativo di riferimento, la Corte rileva come il legislatore del 2000 (che aveva introdotto la fattispecie ora trasposta nel codice penale) per la condotta di cui alla disposizione impugnata (i.e. il commercio), invece, non ha richiesto tale dolo specifico per la evidente ragione che il commercio di sostanze dopanti persegue normalmente un fine di lucro, piuttosto che quello di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.
Per effetto della modifica, a giudizio della Corte, la fattispecie penale si sarebbe sensibilmente ridotta, alterando significativamente la sua struttura e deviando il baricentro del bene giuridico protetto, passato dalla salute, individuale e collettiva, delle persone alla correttezza delle competizioni agonistiche.
Ciò si pone in contrasto con le indicazioni vincolanti della legge delega, che non attribuiva il potere di modificare le fattispecie incriminatrici già vigenti, e quindi viola l’art. 76 Cost.
Richiamando la sua giurisprudenza (ex multis, sentenze n. 61 del 2020, n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012, n. 293 e n. 230 del 2010), la Corte ribadisce che la delega per il riordino o per il riassetto normativo concede al legislatore delegato un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di soluzioni innovative, le quali devono comunque attenersi strettamente ai princìpi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante.
Sicché va delimitato entro limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, da intendersi in ogni caso come strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di delega (ex plurimis, sentenze n. 250 del 2016, n. 162 e n. 80 del 2012, n. 293 del 2010).
In definitiva, a giudizio della Corte, la scelta del legislatore delegato di inserire l’elemento soggettivo del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», nella fattispecie incriminatrice del commercio illecito delle sostanze dopanti, contrasta con l’art. 76 Cost. in quanto effettuata al di fuori della delega legislativa.
La Corte Costituzionale, con le sentenze n. 114 e n. 123 del 2022, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge di bilancio 2021 (legge n. 178 del 2020), nella parte in cui non prevedono che i decreti ministeriali ivi previsti siano adottati previa intesa con la Conferenza Stato - Regioni ovvero con le singole Regioni e Province autonome interessate, a seconda delle singole previsioni impugnate e rese oggetto di distinte censure in ciascuna delle due pronunce in esame.
Risultano nello specifico oggetto di pronuncia di illegittimità costituzionale, nella sentenza n. 114 del 2022:
· l’art. 1, comma 480, della legge n. 178 del 2020 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), il quale prevede che, con decreto del Ministro della salute, siano stabiliti requisiti e modalità di accesso per l’erogazione delle risorse del fondo (di cui al comma 479) destinato al rimborso delle spese sostenute per l’acquisto, da parte degli ospedali, di specifici strumenti di valutazione prognostica del carcinoma mammario;
· l’art. 1, commi 500 e 501, della medesima legge, attuativi di alcune norme (di cui alla legge n. 10 del 2020) in materia di disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica, i quali prevedono che il Ministro della salute, con proprio decreto, individui i centri di riferimento e le modalità di svolgimento della formazione e della simulazione sui cadaveri e, sempre con proprio decreto, stabilisca i criteri e le modalità per la ripartizione delle risorse stanziate dalla legge di bilancio 2021.
Risultano invece oggetto di illegittimità costituzionale nella sentenza n. 123 del 2022:
· l’art. 1, comma 562, della legge n. 178 del 2020, laddove attribuisce a un decreto dell’autorità di governo competente in materia di sport la definizione delle modalità di riparto delle risorse del fondo (di cui al comma 561) istituito al fine di introdurre misure di promozione della salute e di prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili mediante il potenziamento dell’attività sportiva: si tratta di misure individuate in una prospettiva intersettoriale, che coniuga le politiche sanitarie con quelle sportive;
· l’art. 1, comma 606, della medesima legge, laddove assegna al Ministro per le politiche giovanili e lo sport il compito di definire, con proprio decreto, le modalità di riparto delle risorse del fondo (di cui al comma 605) istituito al fine di sostenere le Regioni e le Province autonome nei cui territori si svolgano manifestazioni sportive, di rilievo internazionale.
La Regione Campania, con ricorso del marzo 2021 ha promosso in via principale, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale delle suddette disposizioni della legge di bilancio 2021, ritenendo che le stesse sarebbero lesive, sotto diversi profili, di una o più delle disposizioni di cui agli articoli 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono alcuna forma di coinvolgimento delle autonomie territoriali, così violando il principio di leale collaborazione.
La Corte, con due separate decisioni, ha ritenuto fondate le questioni sollevate in via principale dalla regione ricorrente e aventi ad oggetto le disposizioni sopra richiamate.
Ha invece dichiarato l’inammissibilità o non fondatezza ovvero dichiarato l’estinzione del processo (in conseguenza della rinuncia al ricorso, accettata dalla controparte) in relazione alle ulteriori questioni formulate dalla ricorrente con riferimento ad altre disposizioni della legge di bilancio 2021, diverse da quelle sopra richiamate,
Con la sentenza n. 114 del 2022, in relazione all’articolo 1, comma 480, la Corte ha dichiarato che, seppure non siano inserite nei livelli essenziali di assistenza (LEA), le prestazioni di cui alla disposizione impugnata, in quanto volte a disciplinare la qualità e gli esiti delle cure oncologiche, sono espressione della competenza esclusiva statale in materia di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Tali previsioni, tuttavia, afferiscono altresì all’ambito materiale «tutela della salute», di competenza concorrente, poiché coinvolgono necessariamente profili che attengono alla concreta erogazione delle prestazioni in parola.
Secondo la Corte ricorre, pertanto, un concorso di competenze, che non permette di individuare un «ambito materiale che possa considerarsi nettamente prevalente sugli altri» e che, alla luce della richiamata giurisprudenza costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 40 del 2022, n. 104 del 2021, n. 74 e n. 72 del 2019, n. 71 e n. 185 del 2018), rende applicabile il principio di leale collaborazione.
Tuttavia, la disposizione impugnata, poiché rimette esclusivamente al decreto ministeriale le modalità di attuazione, viola il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., nonché gli altri parametri evocati dalla ricorrente, che tutelano le competenze regionali nella materia in esame.
Con riferimento all’articolo 1, commi 500 e 501, la Corte ha dichiarato che l’inscindibile sovrapposizione o intreccio di competenze (esclusiva statale nella materia «ordinamento civile» ex art. 117, secondo comma, lett. l) Cost. e concorrente nella materia «tutela della salute»), proprio della disciplina in esame, non può essere composto facendo ricorso al criterio della prevalenza, poiché nessuno di tali ambiti materiali, può considerarsi prevalente sugli altri.
La Corte ritiene quindi fondata la richiesta della ricorrente di un coinvolgimento regionale tramite l’intesa, nell’adozione dei decreti ministeriali previsti dagli impugnati commi 500 e 501.
In definitiva, con la sentenza n. 114 del 2022, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale, da un lato, dell’art. 1, comma 480 e, dall’altro dell’art. 1, commi 500 e 501, nella parte in cui ciascuna delle predette disposizioni della legge n. 178 del 2020 non prevede che il relativo decreto ministeriale sia adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
Con la sentenza n. 123 del 2022, in relazione all’art. 1, comma 562, dal contesto normativo di riferimento, la Corte rileva come il relativo fondo (di cui al comma 561), mirando a potenziare l’attività sportiva di base nei territori per tutte le fasce della popolazione, in un’ottica strumentale alla protezione della salute, incida sulle materie di competenza concorrente «tutela della salute» e «ordinamento sportivo».
In difetto della riconducibilità, sia a una materia di competenza esclusiva statale, sia al quinto comma dell’art. 119 Cost., in ragione dell’universalità del finanziamento, indirizzato a tutto il territorio nazionale, senza finalità perequative, la disposizione si fonda su esigenze di gestione unitaria e omogenea sul territorio nazionale degli interventi di potenziamento della pratica sportiva e di promozione della salute, esigenze che giustificano la chiamata in sussidiarietà (cfr. sentenze n. 40 del 2022 e n. 74 del 2019). Tale meccanismo, tuttavia, impone che la stessa legge che istituisce il fondo su materie di competenza regionale preveda contestualmente il più ampio coinvolgimento degli enti territoriali nell’adozione dell’atto che regola l’utilizzo del fondo. La sede di tale coinvolgimento regionale, per costante giurisprudenza costituzionale, «va individuata nella Conferenza Stato-Regioni, attraverso lo strumento dell’intesa sulle modalità di utilizzo e di gestione del fondo in questione (ex plurimis, sentenze n. 211 del 2016 e n. 273 del 2013)» (sentenza n. 185 del 2018).
Con riferimento all’art. 1, comma 606, la Corte rileva come la disposizione (di cui al comma 605) cui si intende dare attuazione si affianchi a disposizioni già presenti nell’ordinamento, relative alla promozione e al conseguente finanziamento di singoli eventi sportivi di rilievo internazionale che incidano su specifici territori regionali.
Dal tenore letterale delle predette disposizioni e dal contesto in cui esse si collocano, la Corte desume che il fondo (di cui al comma 605) incide su materie, quali il turismo e l’«ordinamento sportivo», di competenza regionale residuale e concorrente.
In considerazione delle evidenti esigenze di gestione unitaria, connesse al rilievo internazionale delle manifestazioni sportive oggetto del finanziamento statale (che peraltro investono il territorio di almeno due Regioni italiane), la Corte giudica legittima l’attrazione in sussidiarietà allo Stato della disciplina del fondo.
Tale attrazione, impone il rispetto del principio di leale collaborazione, che implica il più ampio coinvolgimento del “livello di governo territoriale interessato (singola regione, Conferenza Stato-regioni, Conferenza Stato-città o Conferenza unificata) tramite un’intesa” (ex multis, sentenze n. 74 e 78 del 2018, n. 170 e n. 114 del 2017, n. 142, n. 110 e n. 7 del 2016, n. 262 del 2015, n. 278 del 2010, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003) sulla definizione di aspetti aventi diretta incidenza sulla sua sfera di interesse, quali il riparto delle risorse e la determinazione dei relativi criteri.
Nella specie, considerato che il livello territoriale di governo interessato dal riparto delle risorse del fondo è costituito dalle regioni (o province autonome) nei cui territori si svolgeranno le manifestazioni sportive di rilievo internazionale, per l’organizzazione delle quali è disposto il finanziamento, è con le stesse che l’intesa deve essere raggiunta.
In definitiva, con la sentenza n. 123 del 2022, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 562 nella parte in cui non prevede che il decreto dell’autorità di governo competente in materia di sport, che individua i criteri di gestione delle risorse del fondo di cui al comma 561, sia adottato previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
La Corte dichiara inoltre l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 606, nella parte in cui non prevede che il Ministro per le politiche giovanili e lo sport, con proprio decreto, definisca le modalità di riparto delle risorse del fondo di cui al comma 605, previa intesa con le singole Regioni e Province autonome interessate.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 125 del 2022, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cd “Statuto dei lavoratori”), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
In particolare, ritiene che sia contraria all’articolo 3 della Costituzione la previsione secondo la quale, affinché il giudice annulli licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, debba essere «manifesta» l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Pertanto, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92/2012, limitatamente alla parola «manifesta».
Oggetto specifico della pronuncia di illegittimità costituzionale è l’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cd “Statuto dei lavoratori”), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
Il settimo comma dell’articolo 18 della legge n. 300/1970 prevede, al secondo periodo, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 59 del 2021[1], che il giudice applichi la disciplina di cui al quarto comma del medesimo articolo nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il richiamato quarto comma stabilisce i casi di illegittimità del licenziamento al ricorrere dei quali il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, al pagamento di un'indennità risarcitoria[2] e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione[3].
Pertanto, l’articolo 18, settimo comma, secondo periodo della legge n. 300/1970 prevede che il giudice, qualora accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria e dei contributi previdenziali nel frattempo non versati.
Il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha promosso, in via incidentale, questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, ritenendo che l’intervento legislativo ledesse complessivamente le seguenti disposizioni costituzionali:
1) Art. 3, primo comma, Cost., in quanto vi sarebbe una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – da un lato – e il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, dall’altro lato. Se, nella prima fattispecie, la reintegrazione è subordinata al ricorrere dell’insussistenza del fatto, nel licenziamento che trae origine da ragioni economiche è richiesta – senza alcun «fondamento logico-giuridico» – una insussistenza manifesta, che spetta al lavoratore dimostrare, con inversione dell’onere della prova. Il contrasto con il principio di eguaglianza si apprezzerebbe anche operando un confronto con la diversa regolamentazione prevista per i licenziamenti collettivi; solo in quest’ultima fattispecie si potrebbe disporre la reintegrazione nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta, laddove – nei licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo – il requisito restrittivo in esame precluderebbe il ripristino del rapporto di lavoro e condurrebbe a una tutela meramente indennitaria. Ad avviso del giudice a quo, inoltre, il criterio della manifesta insussistenza sarebbe illogico e lesivo dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto incerto nella sua applicazione concreta e carente di un preciso e concreto metro di giudizio, idoneo a definire il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto; la disposizione censurata si pone, dunque, in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., rimettendo alla scelta discrezionale del giudice la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato;
2) Art. 3, secondo comma, Cost., in quanto, imponendo al lavoratore l’onere della prova di «un fatto dai contorni incerti», ne limiterebbe la libertà e l’eguaglianza, in contraddizione con l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese;
3) Art. 3, primo comma e 24, in quanto, introducendo «un meccanismo privo di criteri applicativi oggettivi» e onerando il lavoratore della prova di fatti estranei alla sua sfera di conoscenza, pregiudicherebbe e renderebbe comunque «eccessivamente difficoltoso l’esercizio» del suo diritto di agire in giudizio;
4) Artt. 1, 3, primo comma, 4 e 35 Cost., in quanto, nel subordinare la reintegrazione alla manifesta insussistenza del fatto, che nulla aggiungerebbe «al disvalore della fattispecie estintiva» e non varrebbe a tutelare la «libertà di iniziativa economica privata», il legislatore avrebbe delineato un assetto «marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore».
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondate le questioni sollevate in riferimento all’art. 3, Cost.. La Consulta, dopo aver ribadito che la valutazione sulla effettività e sulla genuinità delle scelte imprenditoriali operata dal giudice è di mera legittimità e «non può sconfinare in un sindacato di congruità e opportunità» (sentenza n. 59 del 2021), osserva che il richiamo all’insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso. La previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto, già delimitata e coerente con un sistema che preclude il sindacato delle scelte imprenditoriali, presenta – secondo il giudice costituzionale – profili di irragionevolezza intrinseca.
Anzitutto, la Corte considera il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, indeterminato. Ritiene, inoltre, problematico nella prassi il discrimine tra l’evidenza conclamata del vizio e l’insussistenza pura e semplice del fatto. Il criterio prescelto dal legislatore si presta, infatti, a incertezze applicative e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti disparità di trattamento.
Secondo la Corte la disciplina censurata è poi in contrasto con i principi sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost., su cui si fonda il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato e che vincolano il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui dispone, a darvi attuazione nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza: la diversità dei rimedi previsti dalla legge (tra cui la reintegrazione è uno, ma non l’unico possibile) deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso.
L’irragionevolezza del criterio enucleato dal legislatore, a parere della Consulta, si coglie anche nel fatto che il presupposto in esame non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio. Il criterio della manifesta insussistenza, inoltre, risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento.
Infine, la Corte ritiene che la disposizione censurata complichi taluni passaggi del processo, con un aggravio irragionevole e sproporzionato: oltre all’accertamento, spesso complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, impegna le parti e il giudice nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza. Si afferma, inoltre, che il sistema così congegnato vanifica l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego. A giudizio della Corte, l’irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata risiede, pertanto, anche in uno squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 145 del 2022, ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 1-bis del decreto-legge n. 138 del 2011, nella parte in cui disponeva - “per le fattispecie sorte prima della sua entrata in vigore” - che il trattamento economico complessivamente spettante al personale dell’Amministrazione affari esteri, nel periodo di servizio all’estero, non includesse l’indennità di amministrazione.
La disposizione - la quale si auto-qualificava di interpretazione autentica - è stata travolta dalla declaratoria di legittimità per la parte retroattiva degli effetti dispiegati, rimanendo ferma la sua applicabilità per i fatti successivi alla sua entrata in vigore.
Giudice a quo della questione è la Corte di cassazione, sezione lavoro, la quale (con ordinanza n. 43 del 2021) ha sollecitato uno scrutinio di costituzionalità sull'efficacia retroattiva della disposizione sopra richiamata, a suo avviso collidente con gli articoli 3, 24, primo comma, 39, primo comma, 101, 102, 104, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
La disposizione, in estrema sintesi, poneva un divieto - con efficacia retroattiva - di corresponsione dell'indennità di amministrazione al personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale nei periodi di servizio all'estero.
La disposizione si auto-qualificava come interpretativa del d.P.R n. 18 del 1967 (recante l'ordinamento dell'Amministrazione degli affari esteri). Secondo la Corte di cassazione, tale qualificazione era assunta in modo erroneo (reso flagrante dal fatto che nel 1967 non esistesse l'indennità di amministrazione, configurata come voce retributiva accessoria solo con il contratto collettivo nazionale di lavoro 1994-98). Dichiarato intento della disposizione era di por fine al contenzioso “seriale” promosso da dipendenti di quell'Amministrazione: donde la prospettata collisione di tale interferenza rispetto a controversie in atto, con gli articoli della Costituzione concernenti l'effettività della tutela giurisdizionale.
Con la sentenza n. 145, la Corte costituzionale ha riconosciuto fondate le questioni sollevate dal giudice a quo.
Vale soffermarsi su tale decisione del giudice costituzionale, in quanto espone i limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, pur fuori della materia penale (coperta com'è noto dall'articolo 25, secondo comma della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”).
Ripercorsa la complessa vicenda normativa, stratificata e connotata dall'intarsio di previsioni legislative e regolamentari da un lato, di contrattazione collettiva dall'altro, la Corte svolgeva così il suo ragionamento.
“Lo scrutinio della disposizione censurata non può che muovere dalla verifica della sua ragionevolezza. Tale scrutinio si fa ancor più rigoroso, quando si incentra sul principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, non solo nella materia penale (art. 25 Cost.), ma anche in altri settori dell’ordinamento (sentenze n. 174 del 2019, n. 73 del 2017, n. 260 del 2015 e n. 170 del 2013)”.
Fugata l'auto-qualificazione di interpretazione autentica, di una disposizione di contro introduttiva di una disciplina innovativa, è dunque sugli effetti retroattivi di quest'ultima che la Corte incentrava la sua disamina, resa allerta dal fatto che la retroattività di per sé, se non sorretta da congrue motivazioni, incide su un “fondamentale valore di civiltà giuridica”, si è ricordato.
Ad ulteriormente allertare il giudice delle leggi era l'erronea auto-qualificazione della disposizione censurata quale norma di interpretazione autentica, ciò che “costituisce un sintomo inequivocabile di un uso improprio della funzione legislativa, da cui deriva un intrinseco difetto di ragionevolezza quanto alla retroattività del novum da essa introdotto (ex plurimis, sentenze n. 133 del 2020, n. 108 del 2019 e n. 73 del 2017)”.
Quanto allo scrutinio stretto di costituzionalità richiesto nel caso in esame, la Corte ha ribadito come serva riscontrare non “«la mera assenza di scelte normative manifestamente irragionevoli, ma l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo» (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2019 e n. 173 del 2016)”.
Dunque, si riscontra per il legislatore una sorta di 'onere della prova' della ragionevolezza dell'intervento normativo retroattivo, non risultando sufficiente provare la sua non irragionevolezza.
E nel caso in esame, “occorre verificare se le giustificazioni, poste alla base dell’intervento legislativo a carattere retroattivo, prevalgano rispetto ai valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi da tale efficacia a ritroso. Tali valori sono individuati nel legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, nel principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, nel giusto processo e nelle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ex plurimis, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 210 del 2021, n. 133 del 2020 e n. 73 del 2017)”.
Aggiunge la Corte costituzionale: “secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 46 del 2021, n. 156 del 2014 e n. 78 del 2012), l’efficacia retroattiva della legge deve trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», così come chiarito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in plurime occasioni”.
Per questo riguardo, i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, e n. 170 del 2013). “L’efficacia retroattiva della legge, finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso, si pone in evidente e aperta frizione con il principio di parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria (ex plurimis, sentenze n. 12 del 2018 e n. 209 del 2010)”.
La Corte costituzionale ha rimarcato, quanto al sindacato di costituzionalità delle leggi retroattive, in particolare la “solida sinergia”, “il rapporto di integrazione reciproca”, tra principi costituzionali interni e principi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
In particolare, prosegue il giudice delle leggi, “l'articolo 24, primo comma, Cost., nel garantire il diritto inviolabile di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, deve essere letto congiuntamente non solo con l’art. 102 Cost., che tutela le attribuzioni dell’autorità giudiziaria, ma anche con l’art. 111 Cost., posto a presidio del giusto processo. L’insieme dei parametri indicati converge nella tutela garantita dall’art. 6 CEDU [“Diritto a un equo processo”]. A tale proposito, la giurisprudenza della Corte EDU è costante nell’affermare che, seppure in linea di principio non è precluso al legislatore disciplinare, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, tuttavia, «il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia»”.
Pertanto, conclude la Corte costituzionale, “le leggi retroattive o di interpretazione autentica che intervengono in pendenza di giudizi di cui lo Stato è parte, in modo tale da influenzarne l’esito, comportano un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violano un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 CEDU”.
Né è dire che la disposizione fittiziamente interpretativa intervenisse su una normativa antecedente, tale da presentare “imperfezioni tecniche macroscopiche” o alimentare “significative sperequazioni”, sì da poter “giustificare un intervento retroattivo del legislatore, come questa Corte ha altrove rilevato (sentenza n. 46 del 2021)”.
Pertanto la disposizione censurata, là dove produttiva di effetti retroattivi (non già per il tempo suo avvenire), è stata dichiarata dalla Corte incostituzionale, per violazione degli articoli 3, 24, primo comma, 102, 111 e 117, primo comma (quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU) della Costituzione.
Nel periodo considerato i moniti e gli inviti diretti al legislatore statale hanno riguardato:
§ l’introduzione della facoltà per il difensore e per le parti del processo penale di utilizzare modalità telematiche per l’effettuazione di notificazioni e depositi presso l’autorità giudiziaria (sentenza n. 96 del 2022);
§ l’individuazione di criteri atti ad eliminare forme di discriminazione tra figli nati fuori dal matrimonio e figli nati nel matrimonio nella disciplina delle quote della pensione indiretta o di reversibilità (sentenza n. 100 del 2022);
§ la revisione della disciplina dell’ergastolo ostativo per reati di mafia, alla luce dei rilievi svolti nell’ordinanza n. 97 del 2021 (ordinanza n. 122 del 2022);
§ l’introduzione di una organica riforma del sistema di attribuzione del cognome coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna (sentenza n. 131 del 2022);
§ l’esistenza di incongruenza nel sistema di trascrizione delle domande giudiziali che devono essere sanate al fine di non lasciare il convenuto privo di tutela giuridica per tempi eccessivamente lunghi (sentenza n. 143 del 2022);
§ la rimodulazione della disciplina del sistema del “doppio binario sanzionatorio” in materia di tutela del diritto d’autore, alla luce dei principi enunciati dalla Corte EDU, dalla Corte di giustizia e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 149 del 2022).
Sentenza |
Oggetto del monito |
Estratto |
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del 23 marzo – 14 aprile 2022
Camera Doc VII, n. 866
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Introduzione della facoltà per il difensore e per le parti del processo penale di utilizzare modalità telematiche per l’effettuazione di notificazioni e depositi presso l’autorità giudiziaria |
«[…] A fronte del tenore letterale dell’art. 16, commi 4 e 9, lettera c-bis), del d.l. n. 179 del 2012, la giurisprudenza di legittimità ha in linea generale ritenuto preclusa alle parti private la trasmissione via PEC agli uffici giudiziari di istanze, atti e documenti […]. Il quadro normativo (…) è radicalmente mutato in forza della normativa emanata per fronteggiare l’emergenza pandemica da COVID-19, che ha per la prima volta espressamente consentito alle parti private di trasmettere via PEC agli uffici giudiziari memorie, documenti, richieste e istanze. (…). Infine, nel quadro della generale riforma del processo penale, l’art. 1, comma 5, della legge 27 settembre 2021, n. 134 (…) ha delegato il Governo a emanare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni in materia di processo penale telematico, da adottarsi nel rispetto, tra l’altro, dei seguenti principi e criteri direttivi: “a) prevedere che atti e documenti processuali possano essere formati e conservati in formato digitale (…). l’auspicata pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione censurata rischierebbe di determinare essa stessa nuove disarmonie e incongruenze. Anzitutto, va considerato che l’introduzione della facoltà, per le parti e i difensori, di effettuare notificazioni al pubblico ministero tramite PEC presuppone una complessa attività di normazione primaria e secondaria, volta a creare le condizioni pratiche perché tale facoltà possa essere utilmente esercitata. […].Tutto ciò esorbita, ovviamente, dai poteri di questa Corte, che potrebbe unicamente limitarsi a introdurre, con la propria pronuncia, una nuova modalità a disposizione dei difensori per effettuare notificazioni o comunicazioni al pubblico ministero, senza poter però assicurare il corretto funzionamento dei flussi comunicativi: obiettivo, quest’ultimo, per realizzare il quale sono invece necessari interventi legislativi e regolamentari ad hoc, caratterizzati peraltro da ampia discrezionalità quanto all’individuazione di “modi, condizioni e termini” (sentenza n. 146 del 2021). […] Di qui l’inammissibilità delle questioni prospettate (…). Al contempo, questa Corte non può, però, esimersi dal formulare il pressante auspicio che il Governo dia puntuale attuazione alla delega conferitagli dall’art. 1, commi 5 e 6, della legge n. 134 del 2021, confermando così anche per il futuro la facoltà per il difensore di giovarsi di modalità telematiche per l’effettuazione di notificazioni e depositi presso l’autorità giudiziaria. Ciò in coerenza con il dovere costituzionale di assicurare piena effettività al diritto di difesa, e assieme di superare definitivamente l’irragionevole disparità di trattamento tra parte pubblica e privata ravvisata, a ragione, dal giudice rimettente.»
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del 23 febbraio – 19 aprile 2022
Camera Doc VII, n. 867
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Discriminazione tra figli nati fuori dal matrimonio e figli nati nel matrimonio nella disciplina delle quote della pensione indiretta o di reversibilità |
«Pur a fronte dell’inadeguatezza del sistema attualmente vigente – che (…) confina all’oblio le ragioni di bisogno del figlio superstite che concorre nella reversibilità con altro avente diritto non legato a lui da rapporto di filiazione – non può, però, chiedersi a questa Corte una diretta e autonoma rideterminazione delle quote. Si tratterebbe, infatti, di un intervento all’evidenza manipolativo, tale da invadere l’ambito di discrezionalità riservata al legislatore. Nella fattispecie in esame non è anzitutto ravvisabile una conclusione costituzionalmente obbligata (ex plurimis, sentenze n. 152 del 2020, n. 248 del 2014 e n.23 del 2013), palesandosi, piuttosto, una pluralità di criteri risolutivi che, in astratto, si possono tutti prospettare come praticabili. […] Pertanto, entrambe le questioni (…) devono essere dichiarate inammissibili, in ragione del doveroso rispetto della prioritaria valutazione del legislatore circa l’individuazione dei mezzi più idonei al conseguimento di un fine costituzionalmente necessario Tuttavia, questa Corte non può esimersi dal segnalare la necessità di un tempestivo intervento del legislatore, atto a colmare la lacuna che – per le ragioni dianzi poste in evidenza – compromette i valori costituzionali sottesi all’istituto della reversibilità, impedendo la piena soddisfazione del diritto a veder salvaguardata la forza cogente del vincolo di solidarietà familiare».
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del 10 – 13 maggio 2022
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Ergastolo ostativo per reati di mafia |
«(…) la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge C. 1951-A, recante “Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, al decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e alla legge 13 settembre 1982, n. 646, in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia”; (…) il disegno di legge è stato trasmesso al Senato della Repubblica in data 1° aprile 2022 (A.S. n. 2574) ed è attualmente all’esame della II Commissione permanente (Giustizia) (…) permangono inalterate le ragioni che hanno indotto questa Corte a sollecitare l’intervento del legislatore, al quale compete, in prima battuta, una complessiva e ponderata disciplina della materia, alla luce dei rilievi svolti nell’ordinanza n. 97 del 2021; (…) inoltre, proprio in considerazione dello stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge, appare necessario un ulteriore rinvio dell’udienza, per consentire al Parlamento di completare i propri lavori; (…) tuttavia, anche alla luce delle osservazioni della parte costituita, tale ulteriore rinvio deve essere concesso in tempi contenuti». |
del 27 aprile – 31 maggio 2022
Camera Doc VII, n. 890 Senato Doc VII, n. 155
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Attribuzione del cognome ed eguaglianza fra genitori |
« […] questa Corte ha ribadito che “l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna” (sentenza n. 61 del 2006, ripresa dalla successiva ordinanza n. 145 del 2007). Infine, dopo ancora due lustri, preso atto che, a “distanza di molti anni dalle citate pronunce, un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, non era ancora stato introdotto” (sentenza n. 286 del 2016), questa Corte, “in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”, ha accolto le questioni di legittimità costituzionale, che le erano state sottoposte, negli stretti limiti tracciati dal petitum. […] L’“importanza di un’evoluzione nel senso dell’eguaglianza dei sessi” viene, del resto, sottolineata anche dalla Corte EDU, che invita alla “eliminazione di ogni discriminazione (…) nella scelta del cognome”, sul presupposto che “la tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito non può giustificare una discriminazione nei confronti delle donne (…). Di conseguenza, questa Corte, preso atto che delle numerose proposte di riforma legislativa, presentate a partire dalla VIII legislatura, nessuna è giunta a compimento, non può più esimersi dal rendere effettiva la “legalità costituzionale” (ordinanza di autorimessione n. 18 del 2021). […] A corollario delle declaratorie di illegittimità costituzionale, questa Corte non può esimersi dal formulare un duplice invito al legislatore. In primo luogo, si rende necessario un intervento finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome. Simile intervento si dimostra impellente, ove si consideri che, a partire dal 2006, varie fonti normative hanno contribuito al diffondersi di doppi cognomi. […] In secondo luogo, spetta al legislatore valutare l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all’attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia)».
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del 11 maggio – 9 giugno 2022
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Preclusione al giudice del potere di ordinare, con provvedimento cautelare d’urgenza, la cancellazione della trascrizione di una domanda giudiziale, anche se manifestamente infondata |
«Per costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (…); affermazione che tanto più va ribadita con riferimento ad istituti – come la trascrizione della domanda giudiziale – nei quali gli aspetti processuali si trovano inscindibilmente connessi con molteplici e delicati profili sostanziali. Pur segnalando la reale esistenza di un problema sistemico, le questioni sollevate (…) tendono ad una pronuncia additiva che imponga una tra le varie opzioni riservate alla discrezionalità del legislatore, ciascuna delle quali reclama, peraltro, interventi di dettaglio, correttivi e cautele, eccedenti l’ambito della giurisdizione costituzionale».
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del 10 maggio – 16 giugno 2022
Camera Doc VII, n. 902 Senato Doc VII, n. 160
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Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio |
«La disciplina della legge n. 633 del 1941, nella versione oggi vigente, in materia di tutela del diritto d’autore è interamente costruita attorno a un sistema di “doppio binario” sanzionatorio, in cui le medesime condotte illecite in molti casi costituiscono, al tempo stesso, delitti e illeciti amministrativi. (…) non c’è dubbio che il sistema normativo congegnato dalla legge n. 633 del 1941 consenta al destinatario dei suoi precetti di prevedere la possibilità di essere soggetto a due procedimenti distinti, e conseguentemente a due distinte classi di sanzioni. Tuttavia, non può ritenersi che i due procedimenti perseguano scopi complementari, o concernano diversi aspetti del comportamento illecito. […] il sistema di “doppio binario” in esame non è normativamente congegnato in modo da assicurare che i due procedimenti sanzionatori previsti apprestino una risposta coerente e sostanzialmente unitaria agli illeciti in materia di violazioni del diritto d’autore, già penalmente sanzionati dall’art. 171-ter della legge n. 633 del 1941. I due procedimenti originano dalla medesima condotta, ma seguono poi percorsi autonomi, che non si intersecano né si coordinano reciprocamente in alcun modo, creando così inevitabilmente le condizioni per il verificarsi di violazioni sistemiche del diritto al ne bis in idem. […] Spetta dunque al legislatore rimodulare la disciplina in esame in modo da assicurare un adeguato coordinamento tra le sue previsioni procedimentali e sanzionatorie, nel quadro di un’auspicabile rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio alla luce dei principi enunciati dalla Corte EDU, dalla Corte di giustizia e da questa stessa Corte». |
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 96 del 2022 ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 153 c.p.p., nella parte in cui non consente alle parti e ai difensori di eseguire le notificazioni al pubblico ministero mediante posta elettronica certificata (PEC).
Secondo la Consulta, nonostante la disciplina delle notificazioni nel processo penale evidenzi una disparità di trattamento tra le parti, con un chiaro pregiudizio per la parte privata, non spetta alla Corte porvi rimedio con una pronuncia di incostituzionalità, essendo necessaria una complessa attività di normazione da inserire nel contesto della realizzazione del processo penale telematico. Per questo la Corte auspica che tale attività sia svolta quanto prima dal Governo, in sede di attuazione della delega per la riforma del processo penale prevista dalla legge n. 134 del 2021.
La Corte è investita dal GIP di Messina della questione di legittimità costituzionale dell’art. 153 del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente alle parti o ai difensori di eseguire le notificazioni al pubblico ministero mediante posta elettronica certificata (PEC). La questione, sollevata nel 2018, muove infatti da un quadro normativo e da una giurisprudenza di legittimità che in generale precludono alle parti private la trasmissione via PEC di istanze, atti e documenti agli uffici giudiziari, con la sola esclusione della trasmissione delle istanze di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento e per adesione del difensore all’astensione degli avvocati dalle udienze.
L’impossibilità per la parte privata di avvalersi di uno strumento che invece è consentito al PM per le notifiche al difensore (ai sensi degli articoli 148, comma 2-bis, e 157, comma 8-bis, c.p.p.) è ritenuta dal giudice a quo incostituzionale perché lesiva dei principi espressi dall’art. 3 (perché non vi sarebbe alcuna ragione che giustifichi l’esclusione per il difensore dell’indagato della medesima facoltà riconosciuta al PM), 24 e 111 (perché la disciplina censurata comprometterebbe, assieme, il diritto di difesa, l’uguaglianza processuale delle parti e il canone di ragionevole durata del processo) della Costituzione.
La Corte anzitutto ricostruisce il quadro normativo vigente nel 2018, quando la questione di legittimità è sollevata, e afferma che da esso traspare «una evidente disparità di trattamento tra le parti del processo penale» che non può «ritenersi sorretta da ragionevoli giustificazioni». Il ritardo del legislatore nell’adeguare la normativa sulle notificazioni e comunicazioni al PM all’evoluzione tecnologica ha determinato infatti un «pregiudizio significativo a carico del difensore e dello stesso imputato».
Successivamente, la Consulta evidenzia come nell’ambito delle misure adottate per l’emergenza pandemica da Covid-19, in vigore fino al 31 dicembre 2022, il legislatore abbia dapprima consentito alle parti private di trasmettere via PEC agli uffici giudiziari documenti, richieste e istanze (art. 83 del D.L. n. 18 del 2020 e art. 221, comma 11, del D.L. n. 34 del 2020) e poi imposto alle medesime parti (art. 24 del D.L. n. 137 del 2020) di effettuare il deposito di tali atti non più via PEC ma esclusivamente tramite il portale del processo penale telematico (PPPT).
L’evoluzione del quadro normativo, ad avviso della Corte, fa sì che la richiesta del giudice a quo, di introdurre nell’art. 153 c.p.p. la facoltà per il difensore di effettuare notifiche e comunicazioni al PM via PEC sia ormai on conflitto con una scelta diversa compiuta dal legislatore nel periodo emergenziale. Se a ciò si aggiunge che, comunque, la scelta di un qualsiasi mezzo di trasmissione telematica di atti e documenti presuppone una complessa attività normativa sia primaria che secondaria, il corretto funzionamento dei servizi di ricezione, la definizione delle caratteristiche tecniche degli atti da notificare, emerge come l’auspicata pronuncia di incostituzionalità dell’art. 153 c.p.p. «rischierebbe di determinare essa stessa nuove disarmonie e incongruenze». Ciò motiva la decisione della Consulta di dichiarare l’inammissibilità delle questioni prospettate, in quanto implicanti scelte di fondo tra opzioni alternative rientranti nella discrezionalità del legislatore.
Contestualmente, peraltro, la Corte ricorda l’entrata in vigore della legge n. 134 del 2021, che delega il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni in materia di processo penale telematico (art. 1, , comma 5), e formula «il pressante auspicio che il Governo dia puntuale attuazione alla delega […], confermando così anche per il futuro la facoltà per il difensore di giovarsi di modalità telematiche per l’effettuazione di notificazioni e depositi presso l’autorità giudiziaria. Ciò in coerenza con il dovere costituzionale di assicurare piena effettività al diritto di difesa, e assieme di superare definitivamente l’irragionevole disparità di trattamento tra parte pubblica e privata ravvisata, a ragione, dal giudice rimettente».
Come ricordato dalla Corte costituzionale, il Parlamento ha approvato la legge 27 settembre 2021, n. 134, che delega il Governo ad operare, entro un anno, una significativa riforma del processo penale. La legge promuove, tra l’altro, la digitalizzazione del processo penale e, più in generale, l'impiego delle nuove tecnologie con finalità di velocizzazione e risparmio, anche muovendo dall'esperienza fatta nel corso della pandemia con il processo da remoto.
In particolare, nell’esercizio della delega il Governo dovrà affermare il principio della obbligatorietà dell'utilizzo di modalità digitali tanto per il deposito di atti e documenti quanto per le comunicazioni e notificazioni e, pur nella previsione di una gradualità nell'implementazione del processo penale telematico, da garantire attraverso una disciplina transitoria, dovrà prevedere l'impiego di modalità non telematiche solo in via di eccezione (art. 1, comma 5).
Al fine di predisporre gli schemi di decreto legislativo attuativi della delega presso il Ministero della Giustizia sono stati costituiti alcuni gruppi di lavoro: in base al DM 14 aprile 2022 uno di essi è chiamato specificamente ad occuparsi dell’attuazione della delega in materia di processo penale telematico.
Il Governo deve esercitare la delega entro il 19 ottobre 2022, trasmettendo preventivamente per il parere parlamentare gli schemi di decreto legislativo alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 100 del 23 febbraio 2022-19 aprile 2022, ha dichiarato inammissibile le questioni di legittimità costituzionale di alcune norme sulla misura della quota di trattamento pensionistico in favore dei superstiti spettante ai figli nati fuori dal matrimonio nel caso di concorso con coniuge superstite che non sia loro genitore; la dichiarazione di inammissibilità riconosce la fondatezza delle questioni poste dall'ordinanza di rimessione, concludendo, tuttavia, che la ridefinizione delle norme relative alla fattispecie in oggetto deve essere operata dal legislatore, mediante scelte discrezionali di rimodulazione della misura delle quote di trattamento pensionistico dei vari soggetti.
La Corte costituzionale era stata chiamata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 13, secondo comma, lettera b), del R.D.L.14 aprile 1939, n. 636, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 luglio 1939, n. 1272, nel testo sostituito, da ultimo, dall’articolo 22 della L. 21 luglio 1965, n. 903, relativo alla determinazione della quota di trattamento pensionistico spettante al figlio nella fattispecie in oggetto, nonché - in quanto tale questione, secondo il giudice rimettente, deriverebbe dall'eventuale accoglimento della prima questione - sulla legittimità costituzionale dei commi secondo e quarto del suddetto articolo 13 del R.D.L. n. 636 del 1939, nel testo sostituito, da ultimo, dal citato articolo 22 della L. n. 903 del 1965, nella parte in cui non prevedono che la quota del trattamento pensionistico in favore dei superstiti relativa al figlio suddetto - come elevata dall'eventuale accoglimento della prima questione di legittimità - e la quota spettante al coniuge (non genitore del figlio medesimo) siano riproporzionate al fine del rispetto del vigente limite generale complessivo del 100 per cento - limite che fa riferimento all'ammontare del trattamento pensionistico che sarebbe spettato al deceduto.
Più in particolare, la prima questione di legittimità concerne il seguente effetto della summenzionata normativa: qualora i superstiti aventi diritto siano costituiti da uno o più figli - aventi diritto al trattamento in quanto minorenni o studenti o inabili - e da un coniuge non genitore dei medesimi figli, la quota spettante a ciascun figlio è pari alla misura del 20 per cento - misura identica a quella ordinaria spettante a ciascun figlio che concorra al trattamento con il coniuge suo genitore -, mentre a uno o più figli che abbiano perso entrambi i genitori, in generale, cioè, in mancanza di un coniuge superstite, spetta[4] una quota (complessiva tra i figli) pari al 70 per cento. Tale assetto, secondo il giudice rimettente, sarebbe in contrasto con i princìpi di eguaglianza (di cui all'articolo 3 della Costituzione) e di tutela giuridica e sociale dei figli nati fuori del matrimonio (di cui all'articolo 30, commi primo e terzo, della Costituzione.
La seconda questione posta dal giudice rimettente sorge dalla constatazione che dall'eventuale accoglimento della prima questione deriverebbe l'esigenza di una norma che preveda, nel caso di concorso - al trattamento pensionistico in favore dei superstiti - di uno o più figli e del coniuge non genitore di questi ultimi, la rimodulazione delle relative quote di trattamento, considerato che la disciplina[5] esclude, in via generale, che il complesso delle quote del trattamento pensionistico in favore dei superstiti superi il 100 per cento del trattamento che sarebbe spettato al deceduto. In merito, il giudice rimettente - sulla base della considerazione che il limite del 100 per cento ha una portata generale, la quale prescinde dal numero di aventi diritto, e che quindi il medesimo limite deve restare applicabile anche al caso di specie per motivi di coerenza e di equità della disciplina - prospetta l'ipotesi che l'eventuale sentenza di accoglimento delle due questioni di legittimità costituzionale definisca un meccanismo di rimodulazione proporzionale delle quote.
La sentenza n. 100 in oggetto, pur ritenendo fondata la prima questione di legittimità, afferma che l'esigenza - oggetto della seconda questione - di rimodulazione delle quote deve essere affrontata dal legislatore, in quanto si tratta di un intervento manipolativo, quindi inerente ad un ambito di discrezionalità riservato al legislatore medesimo. La sentenza ha quindi dichiarato inammissibili le due questioni di legittimità costituzionale in oggetto, rimettendo al legislatore un intervento complessivo in materia.
Nell'esame della prima questione, la Corte rileva che la disciplina oggetto della stessa non è conforme al principio costituzionale di eguaglianza tra i figli nati fuori del matrimonio e quelli nati nel matrimonio e che un analogo caso di difformità, inerente alla rendita spettante, nell'ambito dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (gestita dall'INAIL), nel caso di infortunio mortale dell'assicurato è stato oggetto di una precedente sentenza della Corte. Tale sentenza - la n. 86 dell'11 marzo 2009-27 marzo 2009 - ha dichiarato illegittima la previsione che, nell'attribuire, per il caso di infortunio mortale dell'assicurato, agli orfani di entrambi i genitori il quaranta per cento della rendita, escludeva che quest'ultima spettasse nella stessa misura anche all'orfano dell'unico genitore naturale.
La Corte ritiene che il caso oggetto della citata sentenza n. 86 del 2009 è analogo a quello in esame, non rilevando, al fine del giudizio, la distinzione tra la natura indennitaria della rendita INAIL e la natura previdenziale del trattamento pensionistico in favore dei superstiti.
Riguardo alla prima questione oggetto della sentenza n. 100 in esame, inoltre, la Corte non ritiene condivisibile uno specifico argomento difensivo indicato dall'INPS (il quale si era costituito nel giudizio); quest'ultimo aveva obiettato che l'estensione della quota del 70 per cento nei termini prospettati dal giudice rimettente avrebbe dato luogo ad un possibile trattamento di maggior favore per i soggetti beneficiari di tale estensione, rispetto ai figli nati nel matrimonio e (come richiede la norma generale che riconosce la misura del 70 per cento) privi di entrambi i genitori; l'INPS ravvisava in merito una potenziale discriminazione, sulla base della considerazione che i soggetti beneficiari dell'estensione possono ancora avere un genitore in vita e, quindi, una fonte di sostentamento di cui invece la suddetta seconda categoria di figli è per definizione priva. Al riguardo, la Corte ritiene che le condizioni soggettive del figlio, tra le quali, in ipotesi, la presenza dell'altro genitore, sono estranee alla ratio dell'istituto del trattamento pensionistico in favore dei superstiti, il quale - osserva la Corte, facendo riferimento a quanto "costantemente affermato" dalla stessa - è volto "a preservare il vincolo di solidarietà che lega il dante causa ai suoi familiari".
La Corte - conclude la motivazione della sentenza - "non può esimersi dal segnalare la necessità di un tempestivo intervento del legislatore, atto a colmare la lacuna che - per le ragioni dianzi poste in evidenza - compromette i valori costituzionali sottesi all’istituto della reversibilità, impedendo la piena soddisfazione del diritto a veder salvaguardata la forza cogente del vincolo di solidarietà familiare".
Non risultano presentate iniziative legislative nelle materie oggetto della sentenza n. 100.
Con l’ordinanza n. 122 del 2022, la Corte costituzionale rinvia ulteriormente all’udienza pubblica dell’8 novembre 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, co. 1, 58-ter, ord. penit. e dell’art. 2, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, già sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, co. 3, e 117, co. 1, Cost., dalla Corte di cassazione, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia.
La Consulta richiama la precedente ordinanza n. 97 del 2021, con la quale aveva disposto un primo rinvio del giudizio all’udienza del 10 maggio 2022, al fine di consentire al Parlamento di disciplinare la materia nel tempo, ritenuto congruo, di un anno.
Nell’ordinanza n. 97 del 2021 la Corte aveva sottolineato l'incompatibilità con la Costituzione delle norme che individuano nella collaborazione l'unica possibile strada, a disposizione del condannato all'ergastolo per un reato ostativo, per accedere alla liberazione condizionale, demandando però al legislatore il compito di operare scelte di politica criminale tali da contemperare le esigenze di prevenzione generale e sicurezza collettiva con il rispetto del principio di rieducazione della pena affermato dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
La Corte ribadisce che, sul punto, permangono inalterate le ragioni che l’avevano indotta a sollecitare l’intervento del legislatore, al quale compete una complessiva, ponderata e coordinata disciplina della materia. Nel disporre il rinvio, la Consulta tiene conto che, nel frattempo, è stato approvato dalla Camera il disegno di legge C. 1951-A, recante «Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, al decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e alla legge 13 settembre 1982, n. 646, in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia» e che questo disegno di legge è stato trasmesso al Senato in data 1° aprile 2022 (A.S. n. 2574) ed è all’esame della II Commissione permanente Giustizia.
Proprio in considerazione dello stato di avanzamento dell’iter di approvazione della legge, la Corte ritiene necessario disporre un ulteriore rinvio dell’udienza – questa volta di sei mesi – per consentire al Parlamento di completare i propri lavori sulla delicata materia.
Come specificato dalla Corte, la proposta di legge all’esame del Senato (A.S. 2574), già approvata dalla Camera dei deputati (AC 1951-A), è volta a modificare l'ordinamento penitenziario per subordinare a specifiche condizioni, nel rispetto di un peculiare procedimento, l’accesso di condannati per gravi reati, prevalentemente associativi, ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale.
Si ricorda che, a seguito dello scioglimento delle Camere - disposto dal Presidente della Repubblica con decreto in data 21 luglio 2022, n. 96 - per quanto concerne l'attività legislativa, la prassi consente di procedere, in Assemblea, all'esame dei soli progetti di legge connessi ad adempimenti costituzionalmente dovuti ovvero urgenti e indifferibili nonché gli altri progetti di legge per i quali - in sede di Conferenza dei presidenti di gruppo - si registri il consenso unanime dei gruppi circa l'esigenza di esaminarli.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 131 del 2022, ha dichiarato l'illegittimità, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, dell'articolo 262, primo comma, c.c. “nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”. L’illegittimità costituzionale, relativa alla disciplina sull’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio, è stata estesa anche alle norme sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio e al figlio adottato.
Giudice a quo della questione è la stessa Corte costituzionale, che, con l'ordinanza n. 18 del 2022, aveva disposto la rimessione davanti a sé delle questioni di legittimità costituzionale del primo comma dell'articolo 262 c.c., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli 2,3 e 117 Cost., poiché lo stesso meccanismo consensuale non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori.
La Corte era stata, a sua volta, investita dal Tribunale di Bolzano. Il giudice altoatesino, chiamato a decidere sul ricorso proposto dal PM, ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina, cui i genitori, non uniti in matrimonio, avevano concordemente voluto attribuire il solo cognome materno, prendeva atto che tale scelta dovesse considerarsi preclusa dal primo comma dell'articolo 262 c.c. Questa disposizione, anche come interpretata dalla Sentenza n. 286 del 2016 della Corte costituzionale, non sembra riconoscere la possibilità per genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno, essendo unicamente consentita l'assunzione in aggiunta al patronimico del cognome della madre. Il Tribunale dubitava quindi della compatibilità costituzionale di tale preclusione, la quale si sarebbe posta in contrasto con l’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della tutela dell’identità personale; l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo, e con l’art. 117, I c., Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Ancora, con ordinanza depositata il 12 novembre 2021, la Corte d’appello di Potenza sollevava, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 c.c., dell’art. 72, comma 1, del r.d. 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), nonché degli artt. 33 e 34 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno.
Con la sentenza n. 131, la Consulta, da un lato, ha, in rito, dichiarato d’ufficio l’inammissibilità delle questioni sollevate dalla Corte d’appello di Potenza - avendo il giudice lucano apoditticamente affermato la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, limitandosi a una sintetica elencazione delle disposizioni costituzionali che si ritengono violate e compendiando tali affermazioni con una lacunosa citazione di stralci della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale - e, dall'altro ha dichiarato, nel merito, la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, secondo periodo, c.c., sollevate con l’ordinanza del Tribunale di Bolzano e con l’ordinanza di autorimessione.
Con riguardo alle questioni dichiarate fondate, il Giudice delle leggi ha quindi ritenuto di ripercorrere la ratio legis e i tratti della norma censurata, sottolineando come l’art. 262, comma 1, secondo periodo, c.c., nel regolare l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio, preveda che, se il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre.
Secondo la Corte, tale norma riflette la disciplina sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, che è l’istituto nell’ambito del quale si rinviene la matrice legislativa della regola. La sua fonte si rinviene, a ben vedere, nella formulazione, antecedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975, dell’art. 144 c.c., il quale (riproducendo una disposizione prevista dal codice civile del 1865) disponeva che il marito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la residenza. In tale contesto, il cognome del marito imposto alla moglie era quello della famiglia, il che rendeva superfluo esplicitare la sua trasmissione ai figli nati nel matrimonio. La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha previsto l’aggiunta e non più la sostituzione del cognome del marito a quello della moglie, attribuendo a quest’ultima una facoltà e non un obbligo.
La nuova disciplina, pur evidenziando un persistente riflesso della vecchia potestà maritale, ha reso meno nitida l’immagine del cognome del marito quale cognome di famiglia. E, tuttavia, nel contempo, la norma sull’attribuzione del cognome del padre ai figli è rimasta solidamente radicata su un complesso di disposizioni, alle quali si ascrive anche quella censurata, che non è stata scalfita neppure dalla riforma della filiazione (di cui alla legge n. 219 del 2012 e al d.lgs n. 154 del 2013).
La Corte ha poi ricordato come in più occasioni sia stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'articolo 262 c.c., in particolare con la già ricordata sentenza n. 286 del 2016 il Giudice delle leggi, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità, aveva accolto le questioni di legittimità costituzionale, che le erano state sottoposte, negli stretti limiti tracciati dal petitum, dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.
Nel caso in esame la Corte torna quindi nuovamente a giudicare la legittimità del primo comma dell'articolo 262 c.c. sia con riguardo agli articoli 2 e 3 della Costituzione che in relazione agli articoli 8 e 14 CEDU. Nel decidere in ordine alle questioni poste la Consulta rileva l’intreccio, nella disciplina del cognome, fra il diritto all’identità personale del figlio e l’eguaglianza tra i genitori.
Il cognome, insieme con il prenome, rappresenta il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona: le conferisce identificabilità, nei rapporti di diritto pubblico, come di diritto privato, e incarna la rappresentazione sintetica della personalità individuale, che nel tempo si arricchisce progressivamente di significati. Sono, dunque, proprio le modalità con cui il cognome testimonia l’identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori.
Secondo la Corte, nella fattispecie disegnata dall’art. 262, comma 1, secondo periodo, c.c., l’identità familiare del figlio, che preesiste all’attribuzione del cognome, può scomporsi in tre elementi: il legame genitoriale con il padre, identificato da un cognome, rappresentativo del suo ramo familiare; il legame genitoriale con la madre, anche lei identificata da un cognome, parimenti rappresentativo del suo ramo familiare; e la scelta dei genitori di effettuare contemporaneamente il riconoscimento del figlio, accogliendolo insieme in un nucleo familiare.
In conseguenza, la selezione, fra i dati preesistenti all’attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna, oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre.
A fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio, il segno dell’unione fra i due genitori si traduce nell’invisibilità della donna. L’automatismo imposto reca il sigillo di una diseguaglianza fra i genitori, che si riverbera e si imprime sull’identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost.
La Corte già nella sentenza n. 286 aveva affermato come la norma sull’attribuzione del cognome del padre dovesse considerarsi il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull’attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove contemporaneamente riconosciuto. Si tratta di un automatismo che non trova alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l’interesse del figlio, né nel coordinamento tra principio di eguaglianza e finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, comma 2, Cost. È, infatti, proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo, poiché l’unità si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità. La necessità di un’evoluzione nel senso dell’eguaglianza dei sessi viene, del resto, sottolineata anche dalla Corte EDU, che invita alla eliminazione di ogni discriminazione nella scelta del cognome, sul presupposto che la tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito non può giustificare una discriminazione nei confronti delle donne.
Secondo la Corte a fronte dell’evoluzione dell’ordinamento, il lascito di una visione discriminatoria, che attraverso il cognome si riverbera sull’identità di ciascuno, non è quindi più tollerabile.
Il cognome del figlio deve pertanto comporsi con i cognomi dei genitori, salvo il loro diverso accordo. La proiezione sul cognome del figlio del duplice legame genitoriale è la rappresentazione dello status filiationis: trasla sull’identità giuridica e sociale del figlio il rapporto con i due genitori.
La Corte si pone quindi il problema, conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che comporta la preferenza per il cognome paterno, di individuare un ordine di attribuzione dei cognomi dei due genitori compatibile con i principi costituzionali e con gli obblighi internazionali.
Non si può, infatti, secondo la Consulta, riprodurre – con un criterio che anteponga meccanicamente il cognome paterno, o quello materno – la medesima logica discriminatoria, che è a fondamento della odierna declaratoria di illegittimità costituzionale. Qualora quindi vi sia un contrasto tra i genitori sull'ordine di attribuzione dei cognomi, la decisione spetta al giudice, al quale l'ordinamento giuridico già riconosce specifiche competenze per risolvere il contrasto fra i genitori su scelte di particolare rilevanza riguardanti i figli.
L’illegittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, secondo periodo, c.c. determina, in via consequenziale, quella di ulteriori norme. Si tratta in particolare delle norme che disciplinano l’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio e dell'adottato.
La Corte precisa poi come tutte le norme dichiarate costituzionalmente illegittime riguardino il momento attributivo del cognome al figlio, sicché la sentenza emessa, dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, è destinata a trovare applicazione alle ipotesi in cui l’attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, comprese quelle in cui sia pendente un procedimento giurisdizionale finalizzato a tale scopo.
A corollario delle declaratorie di illegittimità la Corte rivolge un duplice invito al legislatore.
In primo luogo, auspica un intervento finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome. Simile intervento si dimostra impellente, ove si consideri che, a partire dal 2006, varie fonti normative hanno contribuito al diffondersi di doppi cognomi. A fronte di tale disciplina, occorre preservare la funzione del cognome, identitaria e di identificazione, a livello giuridico e sociale, nei rapporti di diritto pubblico e di diritto privato, che non è compatibile con un meccanismo moltiplicatore dei cognomi nel succedersi delle generazioni. La necessità, dunque, di garantire la funzione del cognome, e di riflesso l’interesse preminente del figlio, indica l’opportunità di una scelta, da parte del genitore – titolare del doppio cognome che reca la memoria di due rami familiari – di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale, sempre che i genitori non optino per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto.
In secondo luogo, il Giudice delle leggi invita il legislatore a valutare l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all’attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia).
Nel corso della XVII legislatura il Parlamento ha affrontato la questione relativa alla attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli, attraverso l'esame di una serie di proposte di legge di iniziativa parlamentare. In particolare l'AS 1628, già licenziato dalla Camera dei deputati ed approvato dalla Commissione giustizia del Senato, non è mai stato esaminato dall'Assemblea del Senato.
Nel corso della attuale legislatura, il 15 febbraio 2022, la Commissione giustizia del Senato ha avviato l'esame di una serie di disegni di legge (AS 170- Garavini e altri; AS 286 - Unterberger e Conzatti; AS 2102 - Binetti e altri; AS 2276 - Malpezzi e altri; AS 2293 - De Petris e altri; AS 2547 De Lucia e altri) che intervengono su tale problematica, disciplinando anche le ipotesi di assunzione del cognome nei casi di mancato accordo fra i genitori. In relazione ad essi, lo scorso 6 luglio la Commissione ha deliberato la costituzione di un Comitato ristretto.
Con la sentenza n. 143 del 2022 la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità riguardanti il sistema di trascrizione delle domande giudiziali disciplinato dagli artt. 2652, 2653 e 2668 del codice civile, riconosce l’esistenza di incongruenze che devono essere sanate al fine di non lasciare il convenuto privo di tutela giuridica per tempi eccessivamente lunghi. Non rilevando nessuna soluzione costituzionalmente obbligata tra le possibili soluzioni offerte dall’ordinamento, la Corte ribadisce che la scelta su come riformare il sistema non può che spettare al legislatore nell’ambito della discrezionalità che gli è riservata.
Il Tribunale di Roma in composizione monocratica, solleva dinanzi alla Corte, con l’ordinanza n. 117/2021, questioni di legittimità costituzionale in ordine al sistema di trascrizione delle domande giudiziali previsto dagli artt. 2652, 2653 e 2668 del codice civile. Il combinato disposto dei tre articoli richiamati, secondo l’apprezzamento del giudice a quo, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione in quanto genererebbe una disparità di trattamento nella tutela giurisdizionale tra l’attore, il quale può trascrivere la domanda senza alcun previo controllo giurisdizionale di fondatezza, ed il convenuto, che può ottenerne la cancellazione soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza, e quindi a lunga distanza di tempo, anziché in tempi rapidi attraverso un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. Né la previsione contenuta nell’art. 2268-bis c.c., che ha introdotto un termine di prescrizione ventennale all’efficacia della trascrizione, appare idonea a riequilibrare gli interessi delle due parti in causa, considerata non soltanto l’ampiezza del termine stesso, ma anche la facoltà, riconosciuta all’attore, di rinnovazione della trascrizione prima della sua scadenza.
Infine, la normativa impugnata graverebbe anche sul diritto di proprietà garantito dall’art. 42 della Costituzione, atteso che la protratta trascrizione della domanda inciderebbe troppo a lungo sulla commerciabilità dell’immobile.
La Corte preliminarmente richiama alcune considerazioni già svolte nella sentenza n. 523 del 2002[6], avente ad oggetto una questione di legittimità costituzionale analoga a quella sollevata con l’ordinanza del Tribunale di Roma, e afferma che “il microsistema della trascrizione delle domande giudiziali” (così definito dalla stessa Corte) disegnato dal codice civile ha la primaria funzione di tutela dei terzi, al fine di «consentire loro di poter valutare la convenienza o meno del compimento di negozi giuridici con una delle parti litiganti»; a supporto la Corte cita anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 13523/2006).
Nel nostro ordinamento, ricorda la Corte, a differenza di quanto accade in altri sistemi giuridici, «la trascrizione della domanda giudiziale corrisponde a un’iniziativa libera e unilaterale dell’attore, che non soggiace a controlli preventivi di natura sostanziale, ma unicamente alle verifiche formali del conservatore dei registri» ed il riequilibrio tra la posizione dell’attore e quella del convenuto è affidata ad un rimedio ex post, ovvero alla condanna al risarcimento dei danni dell’attore che ha agito senza la normale prudenza (art. 96 c.p.c.). Tale rimedio potrebbe tuttavia risultare inadeguato qualora la trascrizione avesse insistito a lungo su un cespite di notevole importanza, rendendo il danno patito dal convenuto irreparabile. La stessa introduzione di un termine di durata dell’efficacia della trascrizione di cui all’art. 2268-bis, compiuta dall’art. 62 della legge n. 69/2009, pur mostrando come il legislatore si sia avveduto dei problemi sottesi al regime di pubblicità degli atti soggetti a trascrizione, non può essere considerata uno strumento risolutivo, stante da un lato la lunghezza del termine, fissato in venti anni, e dall’altro la facoltà concessa all’attore di rinnovare liberamente la trascrizione.
La Corte enuncia quindi alcune delle possibili soluzioni offerte dall’ordinamento giuridico che porterebbero al superamento delle incongruenze messe in luce, quali l’attribuzione al giudice del potere di ordinare la cancellazione della trascrizione della domanda con un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.; l’eliminazione, dal primo comma dell’art. 2668, dell’inciso «passata in giudicato» relativo alla sentenza che ordina la cancellazione della domanda, in modo tale che la cancellazione possa essere disposta anche da una sentenza precedente alla formazione del giudicato; l’introduzione di un vaglio giudiziale preliminare alla trascrizione; la riduzione della durata dell’efficacia della trascrizione o la sottoposizione della rinnovazione della trascrizione ad una favorevole delibazione giudiziale. Tali soluzioni, tuttavia, non sarebbero esse stesse prive di controindicazioni, perché andrebbero ad incidere profondamente sul sistema e richiederebbero una pronuncia additiva con «interventi di dettaglio, correttivi e cautele eccedenti l’ambito della giurisdizione costituzionale», tanto più che nessuna di esse può essere considerata «costituzionalmente obbligata». Pertanto, ribadisce la Corte, «la scelta tra l’una e l’altra non può che competere al legislatore, trattandosi in definitiva di rimodellare l’architettura complessiva del microsistema pubblicitario». Per queste ragioni, la Corte dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale proposte.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 149 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della stessa legge.
Giudice a quo nel caso di specie, è il Tribunale di Verona, il quale dubitava della compatibilità costituzionale, in riferimento all'articolo 117, primo comma, della Cost. in relazione all'articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell'articolo 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede l'applicabilità del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell'imputato, al quale con riguardo agli stessi fatti, sia stata irrogata in via definitiva, nell'ambito di un procedimento amministrativo non legato a quello penale da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, una sanzione avente carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Il giudice rimettente si era trovato a dover giudicare della responsabilità penale di un soggetto imputato del reato di cui all'art. 171- ter, primo comma, lett. b), della legge 22 aprile 1941, n. 633, per avere, a fini di lucro, detenuto per la vendita e riprodotto abusivamente, presso la copisteria di cui il medesimo era titolare, opere letterarie fotocopiate oltre il limite consentito. Per la medesima condotta l'imputato era stato già colpito, ai sensi dell'articolo 174-bis della legge n. 633 del 1941, da sanzione amministrativa ormai definitiva.
La Corte ha ritenuto fondati i dubbi prospettati dal Tribunale veneto, riscontrando, nel caso in questione, sia l'idem soggettivo – essendo la stessa persona ad essere sottoposta ad un duplice procedimento punitivo –, sia quello oggettivo. A ben vedere secondo la Corte, l’art. 171-tere l’art. 174-bis della legge n. 633 del 1941 puniscono esattamente le medesime condotte materiali, e l’art. 174-bis stabilisce espressamente, peraltro, che le sanzioni amministrative da esso previste si applichino "ferme le sanzioni penali", indicando così la chiara volontà del legislatore di cumulare in capo al medesimo trasgressore le due tipologie di sanzioni”; a ciò si aggiunge come “il mero richiamo compiuto dall’art. 174-bis della legge n. 633 del 1941 alle "violazioni previste nella presente sezione", e dunque anche a quelle contemplate come delitto dall’art. 171-ter, rende gli ambiti dei due illeciti – quello amministrativo e quello penale – in larga misura sovrapponibili”.
La Corte raccoglie e condivide le osservazioni del remittente anche nel valutare la esclusione – come già detto – del carattere integrato tra i due procedimenti sanzionatori, sul rilievo dell’assenza di quei requisiti indicativi della “stretta connessione sostanziale e temporale” enucleati dalla Corte Europea nella sentenza A e B v. Norvegia e che consentono di escludere una violazione del ne bis in idem. Come è noto la giurisprudenza europea - proprio a partire dalla Sentenza A e B ha affermato come non necessariamente l'inizio o la prosecuzione di un secondo procedimento di carattere sostanzialmente punitivo in relazione ad un fatto per il quale una persona sia stata già giudicata in via definitiva nell'ambito di un diverso procedimento, pure di carattere sostanzialmente punitivo dia luogo ad una violazione del ne bis in idem. Proprio alla luce della giurisprudenza europea e dei criteri ivi stabiliti ai fini dell'esclusione del ne bis in idem la Corte vaglia la censura del rimettente in relazione al sistema del doppio binario sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana in materia di protezione del diritto d'autore. A tal proposito la Consulta rileva non solo come i due procedimenti non perseguano scopi complementari, né concernano diversi aspetti del comportamento illecito; ma anche come “il sistema normativo non prevede, d’altra parte, alcun meccanismo atto a evitare duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove, e ad assicurare una ragionevole coordinazione temporale dei procedimenti”. Ed inoltre sempre secondo la Corte, la legislazione vigente non prevede “alcun meccanismo che consenta al giudice penale (ovvero all’autorità amministrativa in caso di formazione anticipata del giudicato penale) di tenere conto della sanzione già irrogata ai fini della commisurazione della pena, in modo da evitare che una medesima condotta sia punita in modo sproporzionato”.
Per tutte queste ragioni, la Corte ritiene sussistente la violazione dell’art. 4 Prot. 7 Cedu dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p.; tuttavia, discostandosi dalla più ampia richiesta del Tribunale remittente, circoscrive l’intervento additivo – cioè l’estensione applicativa della fattispecie oggetto di censura – alla specifica materia oggetto di scrutinio: la norma che sancisce il ne bis in idem processuale è infatti dichiarata illegittima “nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171-ter della legge n. 633 del 1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della medesima legge”.
La Corte riconosce la parzialità del proprio intervento poiché – anche rispetto al sottosistema sanzionatorio del diritto d’autore – l’assetto normativo ‘di risulta’ lascia comunque impregiudicato il cumulo procedimentale e punitivo rispetto alle ipotesi in cui il giudicato penale intervenga prima di quello amministrativo. Ed ancora il rimedio apprestato non è “idoneo di per sé a conferire razionalità complessiva al sistema, che consente comunque l’apertura di due procedimenti e il loro svolgimento parallelo, con conseguente duplicazione in capo all’interessato dei costi personali ed economici”. Di conseguenza, la Corte rivolge un espresso monito al legislatore sollecitandolo a “rimodulare la disciplina in esame in modo da assicurare un adeguato coordinamento tra le sue previsioni procedimentali e sanzionatorie, nel quadro di un’auspicabile rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio alla luce dei principi enunciati dalla Corte EDU, dalla Corte di giustizia e da questa stessa Corte”.
[1] Già con la sentenza n. 59 del 2021, la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare», invece che «applica altresì», la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.
[2] L’indennità risarcitoria è commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso, la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
[3] Tali contributi, si precisa, sono versati per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative e maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione.
[4] Ai sensi dell'articolo 1, comma 41, della L. 8 agosto 1995, n. 335.
[5] Ai sensi del citato quarto comma dell'articolo 13 del R.D.L. n. 636 del 1939, e successive modificazioni.
[6] In quell’occasione il thema decidendum era limitato all’art. 2668 c.c. per cui la Corte dichiarò la questione manifestamente infondata in quanto non investiva i due articoli (2652 e 2653 c.c.) che stabiliscono quali domande siano soggette a trascrizione obbligatoria.