Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
Titolo: | Il controllo di costituzionalità delle leggi |
Serie: | Rassegna costituzionale Numero: 1/Gennaio - Marzo 2022 |
Data: | 29/04/2022 |
Organi della Camera: | I Affari costituzionali |
Il controllo di costituzionalità delle leggi
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RASSEGNA TRIMESTRALE
DI GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
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ANNO II NUMERO 1 - GENNAIO-MARZO 2022
Servizio Studi
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Nella presente Rassegna si riepilogano le sentenze di illegittimità costituzionale di disposizioni statali pronunciate dalla Corte costituzionale nell’arco del primo trimestre dell’anno 2022. Sono altresì svolti alcuni Focus su pronunce rese nel periodo considerato, di particolare interesse dal punto di vista del procedimento legislativo e del sistema delle fonti.
Al contempo, nella Rassegna si dà conto - con l’ausilio della documentazione messa a disposizione dal Servizio Studi della stessa Corte - delle sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore adottate dalla Corte nel medesimo arco temporale. Ciascuna segnalazione è accompagnata da una breve analisi normativa e, quando presente, dal riepilogo dell’attività parlamentare in corso sulla materia oggetto della pronuncia.
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I N D I C E
1. Il controllo di costituzionalità delle leggi e i “moniti” rivolti al legislatore........................................................................................ 3
2. Le pronunce di illegittimità costituzionale di norme statali........... 7
§ 2.1 Tabella di sintesi (gennaio – marzo 2022)............................................... 7
§ 2.2 Focus: la sentenza n. 40 del 2022 in materia di coinvolgimento del sistema delle autonomie territoriali nella definizione dei criteri di ripartizione ed erogazione di Fondi istituiti con legge statale in materie di competenza legislativa concorrente............................................................. 10
§ 2.3 La sentenza n. 54 del 2022 in materia di esclusione da alcune provvidenze (bonus bebè e assegno di maternità) per gli stranieri extracomunitari non titolari di permesso per soggiornanti UE di lungo periodo.......................................................................................................... 15
3. I moniti, gli auspici e i richiami rivolti al legislatore statale (gennaio-marzo 2022).................................................................... 19
§ 3.1 La sentenza n. 22 del 2022 sull’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche... 24
§ 3.2 La sentenza n. 28 del 2022 in materia di determinazione del tasso di sostituzione della pena detentiva con la sanzione pecuniaria alternativa.... 27
§ 3.3 La sentenza n. 62 del 2022 in materia di garanzia della parità di genere nelle elezioni nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.......... 31
§ 3.4 La sentenza n. 66 del 2022 in materia di discarico riscossione enti locali e interventi di “rottamazione dei ruoli”.............................................. 36
§ 3.5 La sentenza n. 72 del 2022 in materia di contributi alle organizzazioni di volontariato............................................................................................... 41
4. Altre pronunce di interesse........................................................ 45
§ 4.1 La sentenza n. 58 del 2022 sull'ammissibilità del referendum sulla 'separazione delle carriere' dei magistrati..................................................... 45
La Costituzione affida alla Corte costituzionale il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi del Parlamento e delle Regioni, nonché degli atti aventi forza di legge (articolo 134, prima parte, della Costituzione). La Corte è chiamata a verificare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione (c.d. costituzionalità formale) e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali (c.d. costituzionalità sostanziale).
Esistono due procedure per il controllo di costituzionalità delle leggi. Di norma, la questione di legittimità costituzionale di una legge può essere portata dinanzi alla Corte per il tramite di un’autorità giurisdizionale, nel corso di un giudizio (procedimento in via incidentale). In particolare, affinché la questione di legittimità costituzionale di una legge possa essere sottoposta al giudizio della Corte, è necessario che essa venga sollevata, ad iniziativa di parte o anche d’ufficio, nell’ambito di un giudizio in corso e sia ritenuta dal giudice rilevante e non manifestamente infondata.
La Costituzione prevede quale altra modalità (art. 127) il ricorso diretto alla Corte, ma solo da parte del Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, o da parte di una Regione a tutela della propria competenza, avverso leggi dello Stato o di altre Regioni (procedimento in via d’azione o principale, esercitabile entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge).
Quando è sollevata una questione di costituzionalità di una norma di legge, la Corte conclude il suo giudizio, se la questione è ritenuta fondata, con una sentenza
di accoglimento, che dichiara l’illegittimità costituzionale della norma (per quello che essa prevede o non prevede), oppure con una sentenza di rigetto, che dichiara la questione non fondata. In questo caso, la pronuncia ha effetti solo inter partes, determinando unicamente la preclusione nei confronti del giudice a quo di riproporre la questione nello stesso stato e grado di giudizio.
La questione può essere ritenuta invece non ammissibile, quando mancano i requisiti necessari per sollevarla (ad es., perché il giudice non ha indicato il motivo per cui abbia rilevanza nel giudizio davanti a lui; oppure, nel caso di ricorso diretto nelle controversie fra Stato e Regione, perché non è stato rispettato il termine per ricorrere).
Se la sentenza è di accoglimento, cioè dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, questa perde automaticamente di efficacia, ossia non può più essere applicata da nessuno dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 136 della Costituzione). Tale sentenza ha pertanto valore definitivo e generale, cioè produce effetti non limitati al giudizio nel quale è stata sollevata la questione.
La Costituzione stabilisce che quando la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge, tale decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali (art. 136).
Nell’ambito della distinzione principale tra sentenze di rigetto e di accoglimento, è noto come, nel corso della sua attività giurisdizionale, la Corte costituzionale abbia fatto ricorso a diverse tecniche decisorie, sulla cui base è stata elaborata, anche grazie al contributo della dottrina, una varia tipologia di pronunce (ricordando le categorie principali, si distingue tra decisioni interpretative, manipolative, additive, sostitutive). Per approfondimenti si rinvia al Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale su Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina (2016).
Alcune pronunce della Corte costituzionale contengono altresì, in motivazione, un invito a modificare la disciplina vigente in una determinata materia, che può essere generico ovvero più specifico e dettagliato (c.d. pronunce monito).
Anche le ‘tecniche’ monitorie utilizzate dalla Corte sono diversificate, a partire dagli ‘auspici di revisione legislativa’, che indicano «semplici manifestazioni di desiderio espresse dalla Corte prive di ogni forma di vincolatività», in cui cioè l’eventuale inerzia legislativa non potrebbe portare ad una trasformazione delle decisioni da rigetto ad accoglimento.
Rientrano altresì nelle pronunce monitorie le c.d. decisioni di ‘costituzionalità provvisoria’, in cui la Corte ritiene la disciplina in questione costituzionalmente legittima solo nella misura in cui sia transitoria, invitando il legislatore affinché questi intervenga a modificare la disciplina oggetto del sindacato in modo tale da renderla conforme a Costituzione.
Altre volte ancora la modalità utilizzata dalla Corte può essere di ‘incostituzionalità accertata ma non dichiarata’, mediante cui la Corte decide di non accogliere la questione, nonostante le argomentazioni a sostegno dell’incostituzionalità dedotte in motivazione, per non invadere la sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
In tutti i casi tali pronunce sono espressione di un potere di segnalazione della Corte rivolto direttamente verso il legislatore.
L’elenco completo delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nella legislatura XVIII è pubblicato, oltre che sul sito internet della Corte costituzionale, su quello della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (riuniti nella categoria VII dei DOC). Si ricorda che presso la Camera dei deputati, le sentenze della Corte costituzionale sono inviate, ai sensi dell’articolo 108 del Regolamento, alle Commissioni competenti per materia e alla Commissione affari costituzionali, che le possono esaminare autonomamente o congiuntamente a progetti di legge sulla medesima materia. La Commissione esprime in un documento finale (riuniti nella categoria VII-bis dei DOC) il proprio avviso sulla necessità di iniziative legislative, indicandone i criteri informativi. Le sentenze della Corte sono elencate in ordine numerico, con indicazione della Commissione permanente cui sono assegnate e con un link che rinvia ai relativi testi pubblicati nel sito della Corte costituzionale. Per quanto riguarda il Senato, l’articolo 139 del Regolamento dispone che il Presidente trasmette alla Commissione competente le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge dello Stato. È comunque riconosciuta la facoltà del Presidente di trasmettere alle Commissioni tutte le altre sentenze della Corte che giudichi opportuno sottoporre al loro esame. La Commissione, ove ritenga che le norme dichiarate illegittime dalla Corte debbano essere sostituite da nuove disposizioni di legge, e non sia stata assunta al riguardo un’iniziativa legislativa, adotta una risoluzione con la quale invita il Governo a provvedere (categoria VII-bis dei DOC).
Sentenza |
Norme dichiarate illegittime |
Parametro costituzionale |
Oggetto |
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del 25 novembre 2021– 18 gennaio 2022
Camera Doc VII, n. 796 Senato Doc VII, n. 133
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artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), c.p.p.
nella parte in cui |
articoli 3, primo comma, e 111, secondo comma, Cost. |
Incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio in capo al giudice dell’esecuzione che abbia pronunciato ordinanza di rigetto (o di accoglimento) della richiesta di rideterminazione della pena a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata dalla Corte di cassazione
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del 25 novembre 2021 – 20 gennaio 2022
Camera Doc VII, n. 799 Senato Doc VII, n. 134
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artt. 74, comma 2, e 75, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (t.u. spese di giustizia)
nella parte in cui |
articoli 3, primo e secondo comma, e 24, terzo comma, Cost. |
Riconoscimento del beneficio del patrocinio a spese dello Stato ai non abbienti per l’attività difensiva svolta in loro favore nel procedimento di mediazione obbligatoria concluso con esito positivo
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del 16 dicembre 2021 – 21 gennaio 2022
Camera Doc VII, n. 803 Senato Doc VII, n. 135
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art. 34, comma 2, c.p.p.
nella parte in cui |
articoli 3 e 24 Cost. |
Incompatibilità del giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso |
del 2 dicembre 2021 – 24 gennaio 2022
Camera Doc VII, n. 805 Senato Doc VII, n. 136
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art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), L. 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario)
nella parte in cui
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articolo 24 Cost. |
Visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al “carcere duro” e il proprio difensore |
del 12 gennaio – 1° febbraio 2022
Camera Doc VII, n. 815 Senato Doc VII, n. 137
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art. 53, secondo comma, L. 24 novembre 1981, n. 689
nella parte in cui |
articoli 3, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. |
Disciplina della sostituzione della pena detentiva: misura della sanzione pecuniaria alternativa |
del 11 gennaio – 3 febbraio 2022
Camera Doc VII, n. 816 Senato Doc VII, n. 138
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art. 47-quinquies, commi 1, 3 e 7, L. 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario)
nella parte in cui
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articolo 31 Cost. |
Applicazione provvisoria della misura alternativa per la detenzione domiciliare speciale nell’interesse del minore
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dell’11 gennaio – 22 febbraio 2022
Camera Doc VII, n. 822
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art. 3, comma 2, e art. 19-octies, comma 2, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. L. n. 176/2020
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articoli 117, terzo comma, 118, 119 e 120 Cost. |
Coinvolgimento del sistema delle autonomie territoriali, nella forma dell’intesa, nella definizione dei criteri di ripartizione ed erogazione di Fondi istituiti con legge statale in materie di competenza legislativa concorrente, segnatamente «sport» e «tutela della salute»
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del 12 gennaio – 24 febbraio 2022
Camera Doc VII, n. 824 Senato Doc VII, n. 140
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art. 1, comma 1, L. legge 2 agosto 2004, n. 210 e art. 1, comma 1, lettera d) e 9, comma 1, D.Lgs. 20 giugno 2005, n. 122
nella parte in cui
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articolo 3 Cost. |
Riconoscimento del diritto di prelazione alle persone fisiche che abbiano acquistato prima che sia stato richiesto il permesso di costruire (c.d. acquisto sulla carta)
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dell’11 gennaio – 4 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 831 Senato Doc VII, n. 141
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art. 1, comma 125, L. 23 dicembre 2014, n. 190
nella parte in cui
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artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE |
Esclusione da alcune provvidenze (bonus bebè e assegno di maternità) per gli stranieri extracomunitari non titolari del permesso per soggiornanti Ue di lungo periodo |
del 25 gennaio – 10 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 838 Senato Doc VII, n. 142
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artt. 71, comma 3-bis, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL) e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570
nella parte in cui
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articoli 3, secondo comma, e 51, primo comma, Cost. |
Sanzione per la violazione del vincolo della necessaria rappresentanza dei due sessi nelle liste elettorali nei comuni con meno di 5.000 abitanti
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dell’8 febbraio – 10 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 839 Senato Doc VII, n. 143
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art. 12, comma 3, lettera d), D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (TU immigrazione)
limitatamente alle parole
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articoli 3 e 27, terzo comma, Cost. |
Misura della pena prevista dal Testo unico sull’immigrazione per chi abbia aiutato qualcuno a entrare illegalmente nel territorio italiano utilizzando un aereo di linea e documenti falsi
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dell’8 febbraio – 11 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 842 Senato Doc VII, n. 144
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art. 1, commi 687, secondo periodo, e 688, secondo periodo, in combinato disposto con il comma 684, L. 23 dicembre 2014, n. 190
nella parte in cui
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articolo 3 Cost. |
Estensione, con effetti retroattivi, in favore delle cosiddette società private scorporate, dell’ambito di applicazione sia del meccanismo di riscossione “scalare inverso” sia del non assoggettamento a controllo delle “quote affidate” fino a 300 euro
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del 23 febbraio – 28 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 853 Senato Doc VII, n. 145
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art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184
nella parte in cui
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articoli 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della CEDU
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Applicazione all’adozione in casi particolari dei minori delle regole dettate dall’articolo 300, secondo comma, del Codice civile per l’adozione dei maggiorenni |
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 40 del 2022, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di due disposizioni del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, in legge 18 dicembre 2020, n. 176[1]. L’intervento legislativo statale, demandando ad atti statali di normazione secondaria la determinazione dei criteri di ripartizione ed erogazione di Fondi istituiti in materie di competenza legislativa concorrente – “ordinamento sportivo” e “tutela della salute” – non prevedendo contestualmente un coinvolgimento delle Regioni nella forma dell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, si pone, ad avviso della Corte, in violazione del principio di leale collaborazione.
Oggetto specifico della pronuncia di illegittimità costituzionale sono gli articoli 3, comma 2 e 19-octies, comma 2, del decreto-legge n. 137/2020, convertito, con modificazioni, in legge n. 176/2020.
La prima disposizione, disciplinando la destinazione del “Fondo unico per il sostegno delle associazioni e società sportive dilettantistiche” – istituito dal comma 1 del medesimo articolo e rivolto a misure di sostegno e ripresa delle associazioni e società sportive dilettantistiche che abbiano cessato o ridotto la propria attività istituzionale a seguito dei provvedimenti statali di sospensione delle attività sportive – ha demandato la determinazione dei criteri di ripartizione delle risorse del Fondo al provvedimento del Capo del Dipartimento per lo sport della Presidenza del Consiglio dei ministri che dispone la loro erogazione.
La seconda disposizione oggetto di declaratoria di incostituzionalità demandava a un decreto del Ministero della salute, da adottarsi di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, la fissazione, tra le altre, delle modalità di destinazione e distribuzione delle risorse stanziate dal comma 1 dell’articolo medesimo – 5 milioni di euro per l’anno 2021 – per il potenziamento dei test di profilazione genomica di determinate tipologie di tumori (cd. test di Next-Generation Sequencing).
Oggetto di impugnazione e di successivo giudizio della Corte sono state, altresì, due ulteriori disposizioni del citato decreto-legge, rispetto alle quali il giudice costituzionale ha dichiarato le relative questioni di legittimità costituzionale non fondate.
Si tratta, in primo luogo, dell’articolo 6-bis, comma 16, come convertito, il quale demandava a un decreto del Ministero dell’università e della ricerca la determinazione delle modalità di erogazione di un contributo di 3 milioni di euro stanziato per l’anno 2021 in favore dei collegi universitari di merito accreditati, a fini di sostegno delle strutture destinate all’ospitalità degli studenti universitari fuori sede.
L’ultima disposizione oggetto di impugnazione è l’articolo 19-septies, comma 4, il quale rinvia a un decreto del Ministero della salute, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, la fissazione dei criteri e delle modalità di attuazione di un credito d’imposta previsto dallo stesso articolo 19-septies in favore delle farmacie che operano nei piccoli centri urbani, al fine di favorire l’accesso a prestazioni di telemedicina da parte dei cittadini che vi risiedono.
La Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore, ha promosso, in via principale, questioni di legittimità costituzionale delle citate disposizioni di legge statale, ritenendo che l’intervento legislativo ledesse complessivamente le seguenti disposizioni costituzionali:
1) Art. 3 Cost., in quanto, ad avviso della Regione ricorrente, la norma di cui all’articolo 3, comma 2, del citato decreto-legge, come convertito, avrebbe dato rilievo alle sole ipotesi di cessazione o riduzione dell’attività di associazioni e società sportive dilettantistiche determinate da provvedimenti statali, non considerando anche quelle determinate da provvedimenti regionali, anch’essi posti a tutela della salute nel contesto della gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19;
2) art. 117, terzo e quarto comma, Cost., che, rispettivamente, elenca le materie di legislazione concorrente Stato-Regioni e attribuisce alle Regioni la potestà legislativa (cd. residuale) in riferimento ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato;
3) art. 118 Cost., che reca i principi che presiedono al riparto delle funzioni amministrative tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, con particolare riguardo al principio di sussidiarietà verticale;
4) art. 119 Cost., che disciplina l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali e i principi e i limiti entro i quali tale autonomia si dispiega;
5) art. 120 Cost., con particolare riguardo al principio di leale collaborazione, nella lettura ricostruttiva datane dalla giurisprudenza costituzionale, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, al fine di valorizzare il coinvolgimento delle Regioni nelle ipotesi in cui lo Stato attivi la cd. “attrazione” in sussidiarietà di competenze legislative non statali, qualora necessario per assicurare l’esercizio unitario di funzioni amministrative esercitate a livello statale in virtù del principio di sussidiarietà.
Più specificamente, la Regione ricorrente ha ravvisato, in tutte le disposizioni impugnate, una violazione del principio di leale collaborazione tra diversi livelli di governo. Tale principio, letto in combinato disposto con i parametri costituzionali sopra richiamati, nonché con la consolidata giurisprudenza della Corte in materia, avrebbe imposto allo Stato, in sede di definizione dei criteri di ripartizione ed erogazione di Fondi istituiti in via legislativa in materie di competenza legislativa concorrente, un coinvolgimento delle Regioni nella determinazione dei criteri di ripartizione delle risorse stanziate.
La Corte ha ritenuto parzialmente fondati i motivi del ricorso e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 3, comma 2 e 19-octies, comma 2, del decreto-legge n. 137/2020, convertito, con modificazioni, in legge n. 176/2020, facendo salve le restanti disposizioni.
Con riguardo all’articolo 3, comma 2, la Corte, dopo aver ribadito, sulla base anche dei propri orientamenti consolidati, l’afferenza della previsione di un fondo statale rivolto agli enti di promozione sportiva alla più ampia materia di legislazione concorrente “ordinamento sportivo”, ha riaffermato quanto già precisato in precedenti pronunce, quanto alla impossibilità per lo Stato, a seguito del riconoscimento di una più ampia autonomia finanziaria di spesa alle Regioni da parte del novellato articolo 119 Cost., di istituire fondi a destinazione vincolata in materie di competenza residuale regionale o di competenza concorrente, anche se a favore di soggetti privati (v. sentenza n. 254 del 2013).
Nel sistema di finanziamento degli enti territoriali delineato a seguito della riforma del Titolo V, nel quale le tre principali fonti di finanziamento di tali enti – a) tributi ed entrate propri; b) compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio; c) quote di un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale – devono consentire a questi di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite, i trasferimenti statali a carattere vincolato che intervengano in materie concorrenti o residuali regionali determinano, in via ordinaria, una illegittima sovrapposizione di indirizzi politici governati centralmente all’autonomia di spesa attribuita agli enti territoriali (v. sentenza n. 16 del 2004).
Tale conclusione, ad avviso della Corte, non risulta smentita o mitigata né dalla circostanza che il modello costituzionale prefigurato dal novellato art. 119 Cost. sia stato solo parzialmente attuato, né dal fatto che, a seguito della revisione costituzionale del 2001, i tentativi di attuazione della citata disposizione costituzionale abbiano fatto i conti con la persistenza, in concreto, di un sistema a finanza ancora largamente derivata.
Seguendo questo percorso logico-argomentativo, i soli titoli che consentono allo Stato di istituire fondi con vincolo di destinazione, in materie di legislazione concorrente o residuale regionale, sono:
- da un lato, l’ipotesi di cui all’attuale sesto comma dell’art. 119 Cost., che consente allo Stato il trasferimento di “risorse aggiuntive” rivolte a promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, o a rimuovere gli squilibri economici e sociali, o a favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o a provvedere a scopri diversi dal normale esercizio delle funzioni degli enti territoriali (da ultimo, v. sentenza n. 187 del 2021);
- dall’altro lato, l’ipotesi di “chiamata in sussidiarietà”, da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 118, comma 1, Cost., nei casi in cui con legge statale le funzioni amministrative siano attribuite al livello centrale, previo coinvolgimento degli enti territoriali, per assicurarne il carattere unitario (v. sentenza n. 168 del 2008 e, più recentemente, sentenza n. 74 del 2019).
La Corte, pur riconoscendo, nell’ipotesi in esame, tale esigenza di unitarietà, ha censurato la disposizione impugnata nella parte in cui non ha previsto, contestualmente all’istituzione del fondo a destinazione vincolata nell’ambito della materia dell’ordinamento sportivo, un coinvolgimento degli enti territoriali in sede di adozione dell’atto finalizzato a regolare l’utilizzo del fondo. Coinvolgimento che, richiamando un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, avrebbe dovuto realizzarsi mediante lo strumento dell’intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, luogo di contemperamento istituzionale delle ragioni dell’esercizio unitario con l’autonomia di spesa costituzionalmente riconosciuta alle Regioni.
Anche con riguardo all’art. 19-octies, comma 2, del decreto-legge in oggetto, la Corte ha rinvenuto gli stessi elementi riscontrati nella questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 3, comma 2.
In questo caso, la spesa autorizzata dalla legge statale afferiva alla materia della “tutela della salute”, anch’essa di legislazione concorrente. La Corte ha rigettato, a questo proposito, le argomentazioni della difesa statale, le quali negavano la necessità del coinvolgimento regionale, nella determinazione delle modalità di impiego dell’autorizzazione di spesa per il potenziamento dei test di profilazione genomica dei tumori, sull’assunto della riconducibilità di tale autorizzazione alla materia dei livelli essenziali di assistenza (LEA), di competenza esclusiva statale (art. 117, comma 2, lettera m), Cost.).
A prescindere da tale questione, la Corte ha ribadito, anche in questa sede, come l’inquadramento della spesa autorizzata nei termini di un incremento delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, non consentisse allo Stato di rimettere la determinazione delle modalità di attuazione di tale spesa esclusivamente al decreto ministeriale, senza che ne risultasse compromesso il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., letto in connessione con i menzionati parametri costituzionali, posti a tutela delle competenze regionali.
Quanto, infine, alle questioni sollevate in riferimento all’articolo 6-bis, comma 16 e articolo 19-septies, comma 4, del decreto-legge impugnato, la Corte le ha ritenute non fondate, non ravvisando, nelle ipotesi in esame, la ricorrenza di quei presupposti e condizioni, necessari alla configurazione di una violazione del principio di leale collaborazione, che ha invece riscontrato con riguardo alle due disposizioni dichiarate illegittime.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 54 del 2022, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge di stabilità 2015 e del testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, nelle rispettive formulazioni antecedenti alle modificazioni normative introdotte nel 2021, nella parte in cui escludevano dalla concessione – rispettivamente – dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità i cittadini di Paesi terzi ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002[2].
In via consequenziale, la Corte ha dichiarato altresì l’illegittimità costituzionale delle previsioni che hanno prorogato fino al 31 dicembre 2021 l’assegno di natalità, condizionandone l’erogazione al censurato requisito della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Risultano nello specifico oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale l’art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità 2015) e l’art. 74 del d.lgs. n. 151 del 2001 (testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), nelle rispettive formulazioni antecedenti alle modificazioni introdotte dalla legge n. 238 del 2021 (Legge europea 2019-2020).
In via consequenziale, risultano altresì oggetto della sentenza, nelle loro rispettive formulazioni antecedenti all’entrata in vigore della legge n. 238 del 2021, le disposizioni[3] recanti proroghe annuali dell’assegno di natalità fino al 31 dicembre 2021.
La Corte di cassazione, sezione Lavoro, con distinte ordinanze del 2019, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale delle suddette disposizioni di cui alla legge di stabilità 2015 (assegno di natalità) e di cui al testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (assegno di maternità), ritenendo che tali disposizioni, sotto profili diversi, sarebbero lesive:
1) dei principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., in quanto, da un lato, non vi sarebbe alcuna «ragionevole correlazione» tra i presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e «i requisiti di bisogno e di disagio della persona», che sono alla base dell’assegno di natalità e, dall’altro, il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo sarebbe disancorato dallo stato di bisogno e dalla finalità del beneficio dell’assegno di maternità, che mira a soddisfare «esigenze primarie» connesse alla nascita o all’adozione di un bambino, e determinerebbe così arbitrarie disparità di trattamento tra situazioni omogenee;
2) dell’art. 31 Cost., in quanto pregiudicherebbero la tutela che spetta all’infanzia e alla maternità proprio nelle situazioni di più grave disagio, con effetti disgreganti del tessuto sociale della nazione nel nucleo originario ed essenziale della famiglia;
3) dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 CDFUE, in quanto contrastanti con il principio di eguaglianza e il divieto di discriminazioni, il diritto dei bambini alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere, la tutela giuridica, economica e sociale riconosciuta alla famiglia e il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale.
Con riguardo alla questione, la Corte ha interpellato la Corte di giustizia dell’Unione europea[4], la quale ha risposto affermativamente ai quesiti pregiudiziali, riconoscendo che entrambe le provvidenze in esame rientrano nell’ambito di applicazione del diritto alla parità di trattamento, in base alla direttiva 2011/98 UE[5] che concretizza l’art. 34 CDFUE[6], specificamente invocato come parametro dal giudice a quo.
Dopo il rinvio pregiudiziale alla CGUE, la disciplina censurata ha registrato un profondo mutamento, che si sviluppa in una duplice direzione, riguardante, per un verso, la normativa sulle provvidenze a favore dei figli e, per altro verso, quella in tema di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale.
Sul primo versante, in attuazione della delega di cui alla legge n. 46 del 2021, con il d.lgs. n. 230 del 2021, a decorrere dal 1° marzo 2022, è stato istituito l’assegno unico e universale per i figli a carico, che costituisce un beneficio economico attribuito, su base mensile, ai nuclei familiari sulla base della condizione economica del nucleo.
Sul secondo versante, con le modificazioni introdotte dall’art. 3 della legge n. 238 del 2021 (Legge europea 2019-2020), sono state ridefinite le condizioni di accesso dei cittadini dei Paesi terzi alle prestazioni sociali in termini generali e con specifico riguardo all’assegno di natalità e all’assegno di maternità, equiparando ai cittadini italiani o ai titolari di permesso di soggiorno UE di lungo periodo i titolari di permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi nonché i titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca.
Tuttavia, tale normativa sopravvenuta non ha assunto rilievo ai fini dell’esame delle questioni da parte della Corte (non determinando quindi la restituzione degli atti al giudice a quo), in quanto le richieste di assegno di natalità e di assegno di maternità devono comunque essere valutate alla luce della disciplina vigente al tempo della loro presentazione (art. 11 preleggi).
La Corte ha ritenuto fondate le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE, così come concretizzato dal richiamato diritto europeo secondario, dichiarando invece assorbite le ulteriori censure formulate dal rimettente in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 24 e 33 CDFUE.
In particolare, la Corte ha dichiarato che la restrizione dei benefici prevista dalle disposizioni censurate contrasta con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto europeo secondario e all’art. 34 CDFUE, in quanto lesiva del principio di parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale, nei termini delineati dalla CDFUE e dal diritto derivato e fatti propri dalla CGUE. Tale principio, secondo la Corte, si raccorda ai valori primari della maternità e dell’infanzia, tra loro inscindibilmente connessi (art. 31 Cost.), non tollerando distinzioni arbitrarie e irragionevoli (art. 3 Cost.).
Conformandosi a un suo costante orientamento, la Corte ha ribadito che spetta sì alla discrezionalità del legislatore individuare i beneficiari delle prestazioni sociali nel limite delle risorse disponibili, ma pur sempre nel rispetto del canone di ragionevolezza. È dunque consentita l’introduzione di requisiti selettivi, a patto che siano sorretti da una giustificazione razionale e trasparente, la quale deve essere verificata dalla Corte in relazione alle caratteristiche della singola misura sociale e alle sue finalità.
All’esito di tale scrutinio, la Corte ha ritenuto che il legislatore avesse fissato requisiti privi di ogni attinenza con lo stato di bisogno (connesso alla nascita di un bambino o al suo ingresso in una famiglia adottiva) che entrambe le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare, così creando per i soli cittadini extra UE un sistema irragionevolmente più gravoso, eccedente la pur legittima finalità di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione.
In definitiva, ad avviso della Corte un criterio di attribuzione incentrato sulla titolarità del permesso per soggiornanti UE di lungo periodo discrimina arbitrariamente sia le madri sia i nuovi nati e non presenta alcuna ragionevole correlazione con la finalità che caratterizza le prestazioni in oggetto.
Nel periodo considerato i moniti e gli inviti diretti al legislatore statale hanno riguardato:
§ l’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche (sentenza n. 22 del 2022);
§ i criteri di determinazione della pena pecuniaria in funzione sostitutiva della pena detentiva (sentenza n. 28 del 2022);
§ le norme volte a promuovere le pari opportunità nelle elezioni dei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (sentenza n. 62 del 2022);
§ l’applicabilità dei benefici, in materia di discarico dei ruoli (sentenza n. 66 del 2022);
§ le risorse e i contributi pubblici a sostegno delle organizzazioni di volontariato e, più in generale, degli enti del terzo settore (sentenza n. 72 del 2022).
Sentenza |
Oggetto del monito |
Estratto |
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del 16 dicembre 2021 – 27 gennaio 2022
Camera Doc VII, n. 809
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Applicazione concreta delle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche |
«Le considerazioni sin qui svolte hanno, piuttosto, evidenziato l’urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: – un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati (supra, punto 5.3.); – la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure) (supra, punto 5.4.); – forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture esistenti o degli strumenti alternativi (supra, punto 5.5.). Nel dichiarare l’inammissibilità delle odierne questioni, questa Corte non può peraltro non sottolineare – come in altre analoghe occasioni (segnatamente, sentenza n. 279 del 2013; nonché recentemente, in diverso contesto, sentenza n. 32 del 2021) – che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia».
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del 12 gennaio – 1 febbraio 2022
Camera Doc VII, n. 815 Senato Doc VII, n. 137 |
Disciplina della pena pecuniaria alternativa alla pena detentiva |
«[…] resta ferma, più in generale, la stringente opportunità – più volte segnalata da questa Corte – che il legislatore intervenga, nell’attuazione della delega stessa [delega per l’efficienza del processo penale - legge n. 134 del 2021] ovvero mediante interventi normativi ad hoc, a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale (sentenza n. 279 del 2019); e ciò «nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei» (sentenza n. 15 del 2020)».
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del 25 gennaio – 10 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 838 Senato Doc VII, n. 142
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Sanzioni per le liste di candidati che non assicurano la parità di genere nei Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti |
«[…] la soluzione adottata dal legislatore per quel che attiene alla promozione delle pari opportunità nei comuni più piccoli appare – oltre che, come sottolineato, direttamente in contrasto con quanto previsto all’art. 51, primo comma, Cost. – frutto di un cattivo uso della sua discrezionalità, manifestamente irragionevole e fonte di un’ingiustificata disparità di trattamento fra comuni nonché fra aspiranti candidati (o candidate) nei rispettivi comuni, ai quali non sono garantite, nei comuni più piccoli, le stesse opportunità di accesso alle cariche elettive che la Costituzione intende assicurare a tutti in funzione del riequilibrio della rappresentanza di genere negli organi elettivi. […] Resta ferma, d’altra parte, la possibilità per il legislatore di individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione, purché rispettosa dei principi costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 222 del 2018), nonché l’armonizzazione del sistema, anche considerando il caso dei comuni con popolazione da 5.000 a 15.000 abitanti, nei quali la riduzione della lista non può andare oltre il numero minimo di candidati prescritto».
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dell’8 febbraio – 11 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 842 Senato Doc VII, n. 144
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Sistema della riscossione e interventi di “stralcio” o “rottamazione” di debiti pregressi |
«Le questioni sono inammissibili per plurimi motivi. Innanzitutto sono state sollevate senza prendere una chiara posizione sulla portata normativa del combinato disposto dell’art. 4 del d.l. n. 119 del 2018, come convertito, e dell’art. 1, comma 815, della legge n. 160 del 2019. […] In tal modo, non risulta adeguatamente circoscritto «il thema decidendum del giudizio incidentale» (sentenza n. 168 del 2020). Inoltre i rimettenti non hanno chiarito se l’oggetto delle loro censure sia, per effetto del menzionato art. 1, comma 815, il citato art. 4 nella sua interezza (ovvero il meccanismo dello stralcio automatico delle cartelle fino a mille euro, in sé considerato) o piuttosto il suddetto art. 4 solo nella parte in cui è applicabile anche alle società scorporate. […] Ne segue il carattere ancipite delle questioni, perché i rimettenti non si sono limitati a una presentazione sequenziale della medesima questione, ma hanno chiesto a questa Corte due diversi interventi, in rapporto di alternatività irrisolta (ex plurimis sentenze n. 152 e n. 95 del 2020), il che impedisce di identificare il verso delle censure, ridondando nella loro inammissibilità anche sotto questo profilo. Resta però fermo che, nel nuovo contesto della riforma del sistema della riscossione pubblica, inaugurata nel segno di una maggiore efficienza, anche a seguito del monito contenuto nella sentenza n. 120 del 2021 di questa Corte, dall’art. 1, commi da 14 a 23, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), dovranno essere evitati interventi di “rottamazione” o “stralcio” contrari al valore costituzionale del dovere tributario e tali da recare pregiudizio al sistema dei diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione (sentenza n. 288 del 2019).».
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del 23 febbraio – 15 marzo 2022
Camera Doc VII, n. 848 |
Contributi agli enti del terzo settore |
«Nel giungere a tale conclusione di non fondatezza della questione sollevata nell’odierno giudizio, tuttavia, questa Corte non può non segnalare al legislatore che anche altri ETS si trovano o si possono trovare in una condizione ragionevolmente assimilabile a quella delle ODV. In particolare, ciò vale per le associazioni di promozione sociale […]. Appare quindi auspicabile che il legislatore intervenga a rivedere in termini meno rigidi il filtro selettivo previsto dalla norma censurata in modo da permettere l’accesso alle relative risorse anche a tutti quegli ETS sulla cui azione – per disposizione normativa, come nel caso delle associazioni di promozione sociale, o per la concreta scelta organizzativa dell’ente di avvalersi di un significativo numero di volontari rispetto a quello dei dipendenti – maggiormente si riflette la portata generale dell’art. 17, comma 3, cod. terzo settore, per cui al volontario possono essere rimborsate «soltanto le spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata»».
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La Corte costituzionale, con la sentenza 16 dicembre 2021 - 27 gennaio 2022, n. 22, è intervenuta sull’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche, affermando come la normativa vigente presenti molti profili di criticità con i principi costituzionali che debbono essere eliminati al più presto.
La Corte Costituzionale era stata chiamata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Tivoli a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale degli articoli 206 e 222 del codice penale e dell'articolo 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito con modificazioni nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, come modificato dall'articolo 1, comma 1, lett. a), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito con modificazioni nella legge 30 maggio 2014, n. 81 con riferimento agli articoli. 2, 3, 25, 27, 32 e 110 della Costituzione. In particolare tali disposizioni, secondo il rimettente, violerebbero nel loro complesso gli articoli 27 e 110 della Costituzione, nella parte in cui, attribuendo l'esecuzione del ricovero provvisorio presso una Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) alle Regioni ed agli organi amministrativi da esse coordinati e vigilati, finiscono per escludere la competenza del Ministro della Giustizia in relazione all'esecuzione della detta misura di sicurezza detentiva provvisoria. Inoltre, sempre secondo il giudice a quo, tali disposizioni si porrebbero anche in contrasto con gli articoli 2, 3, 25, 32 e 110 della Costituzione, nella parte in cui consentono l'adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in tema di misure di sicurezza in violazione della riserva di legge in materia.
La Corte, pur ritenendo che l'applicazione concreta della normativa riguardante le REMS nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche presenta, a tutt'oggi, diversi profili in contrasto con alcuni principi costituzionali, ha dichiarato inammissibili tutte le questioni poste alla sua attenzione, in considerazione del fatto che da una pronuncia di illegittimità sarebbe derivata l'integrale caducazione dell'intero sistema, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi ospedali psichiatrici, con la conseguenza di un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti.
La Consulta ha quindi esortato il legislatore ad un'efficace riforma del sistema, che assicuri assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività; forme di idoneo coinvolgimento del ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario.
La Corte nella decisione in esame ricorda come le REMS siano state tratteggiate dal legislatore del 2012 come strutture residenziali non di tipo prettamente custodiale (come i vecchi OPG), ma come strutture volte a consentire un percorso di progressiva riabilitazione sociale, favorendo il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno, alle quali il malato psichico può essere assegnato solo nel caso in cui non sia possibile controllare la pericolosità con strumenti differenti, come l'affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale.
Al di là dell'obiettivo riabilitativo la custodia nelle REMS resta comunque sempre la conseguenza dell'applicazione, da parte del Giudice, di una misura di sicurezza in capo al paziente/imputato idonea a contenerne la pericolosità sociale. Questo impone, secondo la Consulta, la necessità di rispettare i principi costituzionali in tema di misure di sicurezza e sui trattamenti sanitari obbligatori coattivi, tra cui la riserva di legge, che impone che sia una legge dello Stato a disciplinare la misura, nei casi e nei modi in cui questa deve essere eseguita. La Corte osserva come nell'ordinamento vigente invece solo una piccola parte della regolamentazione delle REMS sia contemplata dalla legge, essendo rimessa un'ampia parte della disciplina ad atti di normazione secondaria e ad accordi tra lo Stato e le autonomie territoriali, con marcate differenze tra le diverse Regioni.
Secondo la Corte, attualmente il sistema non sarebbe in grado di tutelare in modo adeguato né il diritto alla salute del paziente, che non riceve i trattamenti necessari per poter tendere alla sua rieducazione e al suo reinserimento nella società, come invece sarebbe imposto dall'articolo 27 della Costituzione, né i diritti fondamentali delle persone potenziali vittime di aggressioni da parte dei malati psichici.
Infine, i Giudici della Corte Costituzionale hanno osservato come l'estromissione del ministro della Giustizia da ogni tipo di competenza in materia di REMS si ponga in contrasto anche con l'articolo 110 della Costituzione, che riconosce proprio al Guardasigilli la responsabilità dell'organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
Non risultano presentati o in corso d'esame disegni o progetti di legge di riforma complessiva del sistema delle REMS. È opportuno tuttavia rilevare che alcune misure urgenti finalizzate all’implementazione della capacità di accoglienza delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza sono contenute nell'articolo 32 del decreto-legge n. 17 del 2022. Tale disposizione, come modificata nel corso dell'esame parlamentare per la conversione in legge, autorizza la spesa annua di 2,6 milioni di euro per ciascuno anno del triennio 2022-2024 allo scopo di prorogare il pieno funzionamento della REMS (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) provvisoria di Genova-Pra' e di consentire contestualmente l’avvio della REMS di Calice al Cornoviglio (La Spezia).
Con la sentenza n. 28 del 2022 la Corte Costituzionale, oltre a dichiarare costituzionalmente illegittima la determinazione del tasso minimo di sostituzione giornaliera tra la pena detentiva e la pena pecuniaria nella misura fissa di 250 euro, esprime un più generale richiamo al legislatore ad intervenire per “restituire effettività alla pena pecuniaria”, ribadendo il monito già espresso nella sentenza n. 15 del 2020 in termini di necessità di commisurazione della stessa tanto alla gravità del reato quanto alla condizione economica del reo e di effettività della sua riscossione, in modo tale che la pena pecuniaria torni a rappresentare concretamente un’efficace alternativa alla pena detentiva.
La Corte viene investita della questione dell’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, da due diversi ricorsi: l’uno proveniente dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ravenna, l’altro dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto. Entrambi i giudici lamentano che l’applicazione del valore minimo del tasso di sostituzione giornaliero tra pena detentiva e pena pecuniaria, stabilito in 250 euro dall’art. 135 c.p., cui il secondo comma dell’art. 53 della legge n. 689/1981 espressamente rinvia, potrebbe portare ad un ammontare complessivo della sanzione pecuniaria eccessivamente oneroso, se messo a confronto con la condizione economica del reo.
Gli effetti della fissazione di un valore minimo così elevato non possono peraltro neppure essere mitigati dall’intervento del giudice che, pur dovendo tenere conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare, come disposto dal terzo periodo dell’art. 53, è stato privato della possibilità di diminuire sino ad un terzo la pena pecuniaria stabilita dalla legge quando l’applicazione della misura minima risulta eccessivamente gravosa a causa delle condizioni economiche del reo a seguito della modifica intervenuta proprio sull’art. 53 ad opera dell’art. 4 della legge n. 134 del 2003, con cui è stato espunto il richiamo all’art. 133-bis c.p. che tale diminuzione consentiva. La norma attualmente in vigore, imponendo l’applicazione di un valore minimo di non lieve entità, sarebbe pertanto suscettibile di determinare trattamenti sanzionatori sproporzionati ed intrinsecamente irragionevoli, in violazione degli articoli 3, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.
Tanto il Gip di Ravenna, quanto il Gip di Taranto riterrebbero più congruo stabilire un valore minimo di sostituzione pari a 75 euro al giorno, limite minimo peraltro già previsto dall’art. 459, comma 1-bis, c.p.p. per il procedimento di irrogazione di una pena pecuniaria sostitutiva tramite decreto penale, ovvero ripristinare la facoltà per il giudice di diminuire la pena fino ad un terzo, ex art. 133-bis c.p.
La Corte riunisce in un unico giudizio le due ordinanze. Dopo aver giudicato inammissibili le questioni sollevate dal Gip del Tribunale di Ravenna, per aver omesso di illustrare le ragioni per le quali nel caso specifico la pena pecuniaria sostitutiva sarebbe da ritenersi sproporzionata, la Corte, esaminando invece le questioni proposte dal Gip del Tribunale di Taranto, le ritiene fondate.
La Corte prende le mosse dalla sentenza n. 214 del 2014, citata dall’Avvocatura dello Stato a supporto dell’inammissibilità della questione proposta in quanto vi si dichiarava inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata sulla medesima disposizione, sul rilievo in considerazione del fatto che la modifica del tasso di ragguaglio costituisca materia riservata alla discrezionalità del legislatore. La Corte ricorda tuttavia, citando numerose sentenze, che la propria giurisprudenza successiva alla sentenza n. 214/2014 ammette invece che la Corte stessa possa reperire “soluzioni costituzionalmente adeguate, già esistenti nel sistema e idonee a colmare temporaneamente la lacuna creata dalla stessa pronuncia di accoglimento della questione; ferma restando poi la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, una diversa soluzione nel rispetto dei principi enunciati da questa Corte”. Tali principi fungono da paletti all’esercizio della discrezionalità, che non può spingersi oltre il limite della manifesta sproporzione della sanzione rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: cosa che accade laddove “il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità”.
Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, continua la Corte, non può esser ignorato “il dato di realtà del diverso impatto del medesimo quantum di una tale pena rispetto a ciascun destinatario”: l’afflittività della pena pecuniaria si esplica necessariamente in misura differente in ragione della diversa disponibilità economica dei soggetti sanzionati. Come già sottolineato dalla sentenza n. 15 del 2020, una quota di conversione giornaliera così elevata non ha soltanto provocato una drastica riduzione del ricorso alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, ma ha finito per trasformare l’istituto della sostituzione in «un privilegio per i soli condannati abbienti», in palese contrasto con l’art. 3 Cost.
Del resto lo stesso legislatore si è avveduto dell’eventualità che dall’applicazione di un tasso di sostituzione giornaliero elevato potrebbe derivare una manifesta sproporzione della sanzione, se non contemperata dall’intervento del giudice volto ad adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche del condannato, tanto da aver previsto, nella legge delega per l’efficienza del processo penale (legge n. 134 del 2021), che il valore giornaliero debba essere individuato senza far riferimento a quanto indicato dall’art. 135 c.p.
In conclusione, la Corte ritiene di poter aderire alla soluzione prospettata dal Gip di Taranto, consistente nella sostituzione del minimo di 250 euro con quello di 75 euro per ogni giorno di pena detentiva sostituita, stabilito dall’art. 459, comma 1-bis, c.p.p. in relazione al decreto penale di condanna, e dichiara l’incostituzionalità dell’art. 53, secondo comma, quarto periodo, della legge n. 689 del 1981. La censura riguarda il solo limite inferiore, determinato in 250 euro giornalieri in virtù del rinvio operato all’art. 135 c.p., che diventa 75 per effetto dell’intervento della Corte, mentre resta fermo il limite massimo, stabilito dal medesimo quarto periodo in una somma che non può superare di dieci volte il minimo (ovvero 2.500 euro).
Al contempo, la Corte ribadisce l’opportunità che il legislatore intervenga “a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale (sentenza n. 279 del 2019); e ciò «nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei» (sentenza n. 15 del 2020)”.
Come ricordato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza in commento, il principio di delega di cui all’art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, prevede che “il valore giornaliero, al quale può essere assoggettato il condannato in caso di sostituzione della pena detentiva, sia individuato, nel minimo, in misura indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 del codice penale (…omissis…) in modo tale da evitare che la sostituzione della pena risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, consentendo al giudice di adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche e di vita del condannato.”
Il Governo non ha al momento ancora presentato alle Camere gli schemi di decreto legislativo per l’attuazione della delega, il cui termine scade dopo un anno dalla data di entrata in vigore della legge (19 ottobre 2021).
La Corte costituzionale, con la sentenza 10 marzo 2022, n. 62, ha dichiarato incostituzionale il combinato disposto degli articoli 71, comma 3-bis, TUEL (adottato con D.Lgs. n. 267/2000) e 30, primo comma, lett. d-bis) ed e) del Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali (adottato con d.P.R. n. 570 del 1960), nella parte in cui non prevede l’esclusione delle liste elettorali, per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, che non assicurino la presenza di candidati di entrambi i sessi.
Secondo la Consulta le citate disposizioni si pongono in contrasto con gli articoli 3, secondo comma e 51, primo comma della Costituzione, in quanto inadeguate a promuovere le pari opportunità tra donne e uomini per l’accesso alle cariche elettive. Al contempo, la Corte ha ritenuto che l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi costituisca una soluzione costituzionalmente adeguata a porvi rimedio. Si ricorda infine al legislatore che resta ferma la possibilità di individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra soluzione congrua purché rispettosa dei principi costituzionali.
Le disposizioni oggetto della pronuncia della Corte riguardano la disciplina della parità di genere nelle elezioni comunali, introdotta dalla legge 23 novembre 2012, n. 215, approvata sul finire della XVI legislatura proprio con la finalità di promuovere il riequilibrio di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali.
In particolare, per quanto riguarda l’elezione dei consigli comunali, la citata normativa ha previsto una differenziazione di regime, graduando i vincoli e le sanzioni per la loro violazione, in ragione di tre diverse dimensioni dei comuni.
Nei comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti e in quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti la legge contempla una duplice misura volta ad assicurare il riequilibrio di genere:
§ la previsione della c.d. quota di lista, in base al quale nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi (art. 71, co. 3-bis, secondo periodo e art. 73, co. 1, ultimo periodo, TUEL, come novellati da L. n. 215/2012);
§ l’introduzione della c.d. doppia preferenza di genere, che consente all’elettore di esprimere due preferenze purché riguardanti candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza (art. 71, co. 5 e art. 73, co. 3, TUEL, come novellati da L. n. 215/2012).
In caso di violazione delle disposizioni sulla quota di lista, inoltre, è previsto un meccanismo sanzionatorio differenziato in relazione alle dimensioni del comune.
In particolare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, riduce la lista, cancellando i candidati del genere più rappresentato, partendo dall'ultimo, fino ad assicurare il rispetto della quota; la lista che, dopo le cancellazioni, contiene un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge è ricusata e, dunque, decade.
Nei comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti, la Commissione elettorale, in caso di mancato rispetto della quota, procede anche in tal caso alla cancellazione dei candidati del genere sovrarappresentato partendo dall’ultimo; la riduzione della lista non può però
determinare un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. Per tali comuni, pertanto, si prevede la riduzione, ma non la decadenza della lista (art. 30, primo comma. lett. d-bis) ed e), d.P.R. n. 570 del 1960, come mod. da art. 2, co. 2, lett. a), n. 1), L. n. 215/2012).
Diversamente, nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti non è prevista né la quota di lista, né la doppia preferenza di genere, ma è disposto unicamente che “nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi” (art. 71, co. 3-bis, primo periodo, TUEL, introdotto dall’art. 2, co. 1, lett. c), n. 1), legge n. 215 del 2012). La violazione di tale vincolo non è assistita da sanzioni specifiche.
Il Consiglio di Stato, sezione terza, chiamato a giudicare in appello un ricorso avverso una pronuncia del Tar Campania, dubitava della legittimità costituzionale delle disposizioni richiamate, nella parte in cui per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti non si prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali, bensì solo il vincolo di una generica “rappresentanza di entrambi i sessi” ed, inoltre, in quanto non si prevede alcun regime sanzionatorio per le liste elettorali presentate in violazione della rappresentatività di entrambi i sessi. Il giudice amministrativo non censura tanto la scelta del legislatore di articolare discipline diverse che tengano conto delle dimensioni dei comuni, ma quella di “non avere dato concretezza al principio della parità di genere” nella legislazione elettorale per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.
Il Consiglio di Stato dubitava quindi della compatibilità costituzionale di tale normativa, la quale si sarebbe posta in contrasto con l’art. 51 Cost., che impegna il legislatore a predisporre misure dirette a colmare le diseguaglianze di genere nella partecipazione politica, con l’art. 3, secondo comma, della Costituzione, per l’irragionevolezza e la sproporzione della scelta legislativa, e analogamente con l’art. 117, primo comma, cost. in relazione al divieto di discriminazione contenuto all’art. 14 della CEDU e all’art. 1 Prot. Add. N. 12 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Per contro, l’Avvocatura dello Stato, intervenuta in giudizio in rappresentanza del Governo, ha sostenuto l’infondatezza delle questioni, in quanto “la scelta di non prevedere, nei comuni con meno di 5.000 abitanti, quote di candidati di uno dei due generi, né sanzioni in caso di mancato rispetto della rappresentanza di entrambi i sessi tra i candidati, costituirebbe il risultato della precisa volontà del legislatore, desumibile dai lavori preparatori, di tenere conto della difficoltà di garantire tale rappresentanza nei comuni più piccoli”. In secondo luogo, per l’Avvocatura le questioni sarebbero inammissibili in quanto con esse si chiede alla Corte di introdurre con sentenza una sanzione che solo la legge è autorizzata a disciplinare.
Il Giudice delle leggi, ricostruito in sintesi il quadro normativo, ha in primo luogo chiarito che l’articolo 71, co. 3-bis, primo periodo, TUEL, stabilendo in generale che “[n]elle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi” non può che essere interpretata, alla luce della sua lettera e della stessa rubrica dell’articolo cui pertiene («Elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni sino a 15.000 abitanti»), nel senso di operare per tutti i comuni con meno di 15.000 abitanti, e quindi anche per quelli con popolazione inferiore a 5.000, per i quali, dunque, si devono ritenere non ammesse liste di candidati appartenenti a un solo sesso. Secondo la Corte, pertanto, “il fatto che la seconda parte della disposizione prescriva la riserva di quota solo per i comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti non preclude tale conclusione, come non la preclude l’assenza di un rimedio per il mancato rispetto della necessaria rappresentanza di genere”.
Accolta tale interpretazione, secondo la Corte le censure del Consiglio di Stato sono da intendere con riferimento al carattere di mera affermazione di principio del vincolo della necessaria presenza di candidati di entrambi i sessi, e della mancanza di una misura, anche minima, idonea ad assicurarne l’effettività. Così intese, per la Corte le questioni sono fondate, in quanto sussiste la violazione degli artt. 3, secondo comma, e 51, primo comma, Cost., sotto tutti i profili prospettati dal rimettente.
Il percorso argomentativo svolto dalla Corte a sostegno della declaratoria di incostituzionalità parte innanzitutto dal riconoscimento di un’ampia discrezionalità del legislatore nella disciplina della materia elettorale, come acclarato da costante giurisprudenza secondo la quale la scelta legislativa in materia è censurabile solo quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 35 del 2017, n. 1 del 2014, n. 242 del 2012, n. 271 del 2010, n. 107 del 1996 e n. 438 del 1993; ordinanza n. 260 del 2002).
Così anche nella scelta dei mezzi per attuare il disegno costituzionale di un’effettiva parità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive, va riconosciuta al legislatore un’ampia discrezionalità, per cui i mezzi a sua disposizione possono essere di diverso tipo (sentenza n. 4 del 2010). Tuttavia, nemmeno tale ampia discrezionalità sfugge ai limiti generali del rispetto dei canoni di non manifesta irragionevolezza e di necessaria coerenza rispetto alle finalità perseguite; con la conseguenza che una disciplina elettorale che omettesse di contemplare adeguate misure di promozione della parità di genere, o che ne escludesse l’applicazione a determinate competizioni elettorali o a determinate categorie di enti, non potrebbe che essere ritenuta lesiva dell’art. 51, primo comma, Cost.
Nel merito, la Corte, pur riconoscendo che la normativa esaminata non esclude i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti dall’obbligo della presenza nelle liste elettorali di candidati di entrambi i sessi, afferma che tale pur minima misura di promozione delle pari opportunità di accesso alle cariche non risulta assistita da alcun rimedio per il caso di violazione dell’obbligo. Per la Consulta, ciò rende la misura stessa del tutto ineffettiva nella protezione dell’interesse che mira a garantire e, in quanto tale, inadeguata a corrispondere al vincolo costituzionale dell’art. 51, primo comma, Cost.
La Corte aggiunge che tale violazione non può essere giustificata dalla necessità di tener conto del principio di rappresentatività nelle realtà demografiche più piccole, come prospettato nella difesa dell’Avvocatura, in quanto l’obbligo di liste rappresentative dei due sessi, operante per i comuni più piccoli, può essere assolto con la semplice presenza di un solo candidato di sesso diverso dagli altri.
Al contempo, la Corte valuta positivamente l’ammissibilità di un intervento per porre rimedio alla violazione riscontrata, come pure richiesto dal giudice a quo. Sul punto, si richiama la più recente giurisprudenza secondo la quale, di fronte alla violazione di diritti fondamentali, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore, non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità l’assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata; in tali casi, infatti, la valutazione della Corte deve esser condotta valutando la presenza nell’ordinamento di soluzioni adeguate, soluzioni già esistenti, in modo da non sovrapporre la propria disponibilità a quella del Parlamento (sentenza n. 63 del 2021; nello stesso senso, da ultimo, sentenza n. 28 del 2022).
Facendo ricorso a tali criteri, la Corte ritiene che nel caso di specie merita di essere accolta la soluzione dell’esclusione della lista in caso di violazione dell’obbligo della rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste di candidati per le elezioni nei comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti, soluzione già prevista dalla normativa vigente nei comuni con più di 15.000 abitanti per il caso estremo della lista formata da candidati di un solo sesso[7].
Tale conclusione non impedisce alla Corte di ricordare al legislatore che, nell’esercizio della sua discrezionalità, potrebbe individuare altra soluzione, purché rispettosa dei principi costituzionali, nonché prevedere l’armonizzazione di tutta la disciplina, anche alla luce delle conclusioni della sentenza della Corte.
Con la pronuncia in commento la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale delle disposizioni che estendevano retroattivamente, per effetto dell’art. 1, comma 815, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, anche alle società di riscossione private degli enti locali, nate dallo scorporo del ramo d’azienda delle società concessionarie della riscossione, l’applicabilità dei benefici, in materia di discarico dei ruoli, previsti dall’articolo 1, commi 687, secondo periodo, e 688, secondo periodo, in combinato disposto con il comma 684, della legge 23 dicembre 2014, n. 190.
In particolare sono dichiarati incostituzionali (se applicabili alle citate società):
· la disposizione (articolo 1, comma 687, secondo periodo, della legge n. 190 del 2014) che vieta all’ente affidante di effettuare il controllo di merito relativo alle comunicazioni di inesigibilità prima che siano decorsi i termini previsti dal comma 684 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190 secondo il meccanismo cosiddetto “scalare inverso” in cui i termini di discarico dei crediti affidati in anni più lontani scadono successivamente a quelli affidati in anni più vicini (in particolare la norma prevede che i controlli siano possibili a partire dal 2026 per i crediti affidati entro il 31 dicembre 2016 e 2017, e per i crediti affidati precedentemente per singole annualità di consegna entro il 31 dicembre di ciascun anno successivo al 2026);
· la disposizione (articolo 1, comma 688, secondo periodo della legge n. 190 del 2014) che prevede che le quote inesigibili di valore inferiore o pari a 300 euro, con esclusione di quelle afferenti alle risorse proprie tradizionali europee, non siano assoggettate al controllo relativo alle comunicazioni di inesigibilità (prevedendosi quindi un discarico automatico delle stesse).
La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere nel merito sulla identica questione (ad essa sottoposta dalle medesime parti) da essa già affrontata in occasione del giudizio concluso con la sentenza n. 51 del 2019.
In tale pronuncia la Corte, chiamata a valutare la conformità col sistema costituzionale dei meccanismi di discarico dei ruoli delle società della riscossione private secondo il “meccanismo scalare inverso” (sopra descritto) aveva dichiarato l’inammissibilità della questione in quanto i rimettenti reputavano erroneamente le norme sopra indicate applicabili anche alle attività svolte in regime di concessione per conto degli enti locali, il cui ramo d’azienda era stato trasferito ai sensi dell’articolo 3, comma 24, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005.
Nella citata sentenza n. 51 del 2019 la Corte aveva invece rilevato come tali disposizioni non fossero invero applicabili a tali soggetti posto che esse rispondevano a particolari ed eccezionali esigenze derivanti dall'istituzione di agenti "pubblici" della riscossione e pertanto solo tali soggetti potessero esserne destinatari.
In particolare la Corte rilevava, dopo aver differenziato proroghe “generiche”, riferibili cioè a tutti i soggetti della riscossione, e proroghe “specifiche”, limitate ai soli soggetti pubblici, che «una disciplina di straordinaria eccezionalità come quella introdotta con l’art. 1, commi da 682 a 689, della legge n. 190 del 2014 può trovare applicazione […] solo relativamente a quelle fattispecie ricomprese nelle proroghe “specifiche” disposte dal comma 12 dell’art. 3 del d. l. n. 203 del 2005, per le quali i termini risultavano ancora pendenti alla data di entrata in vigore della riforma», «con conseguente irragionevolezza di una interpretazione che, a dispetto del tenore letterale, la estendesse alle suddette società private “scorporate”».
La pronuncia attuale discende da un nuovo ricorso presentato dai medesimi soggetti in ragione del fatto che l’articolo 1, comma 815, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, ha stabilito, con una norma di interpretazione autentica retroattiva, che le “norme vigenti riferite agli agenti della riscossione” risultano applicabili, «sin dalla data di entrata in vigore delle stesse norme, anche alle attività svolte in regime di concessione per conto degli enti locali, il cui ramo d’azienda è stato trasferito ai sensi dell’articolo 3, comma 24, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005”, desumendone pertanto e correttamente l’applicabilità ai soggetti che la Corte, in via interpretativa, aveva precedentemente escluso.
La Corte precisa come il thema decindendum sia stato tuttavia correttamente formulato dal giudice a quo non più su tali norme di per sé considerate, ma sull’estensione retroattiva – prodotta per effetto dell’art. 1, comma 815 – di queste ultime alle società private “scorporate”.
Il giudice a quo con riferimento alla questione sopra descritta rileva la violazione del principio di ragionevolezza proprio in coerenza con le argomentazioni della Corte sviluppate nella sentenza n. 51 del 2019 poiché, “per le ragioni di ordine sistematico ritraibili dalla motivazione della sentenza n. 51 del 2019 (punto 4.3.4. del Considerato in diritto), sarebbe irragionevole l’«opzione interpretativa» che conseguirebbe alla «scelta legislativa di aver esteso (ab origine, o comunque con interpretazione autentica) il meccanismo dello “scalare inverso” anche alle società private “scorporate”, “prorogando in un futuro abnormemente lontano i termini per il controllo da parte degli enti creditori”».
Oltre a questa specifica tematica la Corte è stata investita, dalla Corte dei conti, di molteplici rilievi con riferimento anche all’articolo 4 del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 che dispone che i debiti di importo residuo, alla data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge (24 ottobre 2018), fino a mille euro, comprensivi di capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni, risultanti dai singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010, ancorché riferiti alle cartelle per le quali è già intervenuta la richiesta definizione agevolata, siano automaticamente annullati.
Tra gli argomenti rilevati dai giudici rimettenti si segnala quello secondo il quale la disciplina censurata, disponendo la sospensione per lungo tempo dei controlli dell’attività di riscossione ovvero addirittura la loro esclusione (per le quote di valore unitario inferiore o pari a 300 euro), “contrasterebbe con il principio di effettività della capacità contributiva, perché consentirebbe che l’attività di riscossione si svolga in condizioni di non effettiva parità nei confronti di tutti i contribuenti, tollerando situazioni di sottrazione all’obbligo di contribuzione”.
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in relazione alla violazione del principio di ragionevolezza, ex art. 3 della Costituzione, considerato assorbente rispetto a tutte le altre doglianze, delle disposizioni che estendono anche alle società di riscossione private degli enti locali, nate dallo scorporo del ramo d’azienda delle società concessionarie della riscossione, l’applicabilità delle norme in materia di discarico dei ruoli di cui all’articolo 1, commi 687, secondo periodo, e 688, secondo periodo, in combinato disposto con il comma 684, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, nella parte in cui, per effetto dell’art. 1, comma 815, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, risultano applicabili, «sin dalla data di entrata in vigore delle stesse norme, anche alle attività svolte in regime di concessione per conto degli enti locali, il cui ramo d’azienda è stato trasferito ai sensi dell’articolo 3, comma 24, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005.
In particolare, ripercorrendo le argomentazioni evidenziate nella precedente sentenza n. 51 del 2019, la Corte conferma che il menzionato meccanismo era stato introdotto nello specifico intento di rispondere a particolari ed eccezionali esigenze riferibili agli agenti “pubblici” della riscossione e per i quali i termini per la presentazione delle comunicazioni di inesigibilità erano, al momento della sua entrata in vigore, ancora aperti, a differenza di quelli riferibili alle società private “scorporate”, che erano, invece, ormai scaduti.
Viene inoltre ribadito che l’estensione del nuovo meccanismo “scalare inverso” anche alle società private “scorporate” «sortirebbe […] l’inammissibile effetto di riaprire termini ormai scaduti da molti anni (fattispecie che non si verifica per i ruoli affidati ai soggetti del sistema “pubblico” della riscossione), prorogando in un futuro abnormemente lontano i termini per il controllo da parte degli enti creditori».
Pertanto la Corte non rinviene alcuna ragionevole giustificazione della disposizione censurata, che inoltre, rispetto alla «linea di politica del diritto giudicata più opportuna dal legislatore» (sentenza n. 39 del 2021) che si presenta, anzi, irrimediabilmente contraddittoria, nonché inidonea a radicare alcun affidamento tutelabile.
La Corte ha invece dichiarato inammissibili le questioni sollevate in merito all’art. 4 del d.l. n. 119 del 2018, nella parte in cui prevede anche agli effetti dei rapporti pendenti tra enti territoriali e società private “scorporate” (ex art. 1, comma 815, della legge 27 dicembre 2019, n. 160), l’automatico annullamento dei debiti di importo residuo fino a mille euro, stabilendo altresì, mediante rinvio all’art. 1, comma 529, della legge n. 228 del 2012, l’inapplicabilità delle procedure di invio delle comunicazioni di inesigibilità e del relativo controllo e, fatti salvi i casi di dolo, l’improcedibilità del giudizio di responsabilità amministrativo e contabile.
La pronuncia della Corte si fonda su un presupposto procedurale.
Si rileva infatti che non risulta adeguatamente circoscritto «il thema decidendum del giudizio incidentale». In particolare alla Corte non appare chiaro se la censura riguardi l’art. 4 nella sua interezza (ovvero il meccanismo dello stralcio automatico delle cartelle fino a mille euro, in sé considerato) o se il suddetto art. 4 sia censurato solo nella parte in cui è applicabile anche alle società scorporate. Ciò preclude una pronuncia di merito per la natura ancipite delle questioni sottoposte.
Tuttavia la Corte invia comunque un monito al legislatore richiedendo che in futuro siano “evitati interventi di “rottamazione” o “stralcio” contrari al valore costituzionale del dovere tributario e tali da recare pregiudizio al sistema dei diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione (sentenza n. 288 del 2019)”.
A seguito della presentazione da parte del Governo della Relazione del Ministro dell'economia e delle finanze sui criteri per la revisione del meccanismo di controllo e di discarico dei crediti non riscossi (Doc. XXVII, n. 25), trasmessa ai sensi dell'articolo 4, comma 10, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41 la VI Commissione della Camera dei deputati ha approvato il 13 ottobre 2021 una risoluzione conclusiva di dibattito (8-00137) che ha dato diversi indirizzi al Governo in merito al discarico dei crediti inesigibili dell’Agenzia delle Entrate Riscossione.
Nel documento Governativo si segnala tra l’altro che alla fine del 2020 la consistenza del magazzino crediti (carichi residui iscritti a ruolo) ha raggiunto oltre 999 miliardi di euro, dei quali circa 400 risultano difficilmente recuperabili e più di un terzo ha una anzianità maggiore di 10 anni (343,3 miliardi di euro di magazzino, pari al 34,4 per cento del totale); il 78 per cento del magazzino fiscale è costituito da 178 milioni di crediti di importo inferiore a 1.000 euro (per un totale di 56 miliardi) che impongono di valutare il rapporto costi/benefici rispetto alle operazioni di recupero; i carichi residui di competenza statale per un importo di ben 133 miliardi sono dovuti da soggetti deceduti e ditte cessate, mentre per altri 152 miliardi da soggetti con procedura concorsuale in corso.
Il documento auspica un alleggerimento del magazzino attraverso il discarico dei crediti inesigibili che permetterebbe, invece, di liberare una parte delle risorse umane dell'Agenzia delle entrate-Riscossione, attualmente impegnate nell'operazione di recupero dei crediti, da impiegare nella prevenzione e nel contrasto all'evasione, attraverso l'interazione delle banche dati a disposizione dell'amministrazione finanziaria, ovvero la banca dati della fatturazione elettronica, la banca dati dell'anagrafe tributaria e l'anagrafe dei rapporti finanziari per le giacenze sui conti correnti.
Nella risoluzione ricordata la Camera ha, tra l’altro, impegnato il Governo a procedere ad una revisione dell'attuale meccanismo dell'inesigibilità come disciplinato dagli articoli 19 e 20 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, che consenta il discarico automatico dei crediti realmente inesigibili, senza oneri amministrativi a carico degli enti creditori, anche in termini di verifica dell'effettiva inesigibilità, contestualmente al potenziamento del sistema di riscossione, attraverso la destinazione di maggiori risorse strumentali e di personale e di maggiori poteri di indagine e controllo periodico al soggetto riscossore, nonché prevedendo l'implementazione di banche dati interoperabili, aumentando anche la frequenza di aggiornamento di quelle già disponibili, evitando in tal modo la generazione di un nuovo magazzino dei crediti fiscali inesigibili.
Con ordinanza di remissione del 9 novembre 2020, il Consiglio di Stato, sezione terza, - nel procedimento vertente tra la Fondazione Catis di partecipazione sociale onlus, e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e altri -, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 76 del D.Lgs. n. 117 del 2017, c.d. Codice del Terzo settore, in riferimento complessivamente agli artt. 2, 3, 4, 9, 18, 76 e 118, quarto comma, della Costituzione, nella parte in cui riserva alle organizzazioni di volontariato (ODV) i contributi per l’acquisto di autoambulanze, di autoveicoli per attività sanitarie e di beni strumentali, escludendo gli altri enti del Terzo settore (ETS) svolgenti le medesime attività di interesse generale.
Sul punto si ricorda che l’articolo 73 del Codice del Terzo settore ha sistematizzato la disciplina delle risorse finanziarie destinate al sostegno degli ETS. Ai sensi dell’art. 76 del Codice, tali risorse sono destinate a sostenere le attività delle organizzazioni di volontariato attraverso l’erogazione di contributi per l’acquisto di autoambulanze, autoveicoli per attività sanitarie e beni strumentali utilizzati direttamente ed esclusivamente per attività di interesse generale, che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diverse utilizzazioni senza radicali trasformazioni, nonché, per la donazione di beni a strutture sanitarie pubbliche da parte delle organizzazioni di volontariato e delle fondazioni. In attuazione di tali articoli, il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 16 novembre 2017, ha disposto la disciplina attuativa del contributo in parola.
Nell’ordinanza di remissione, il Consiglio di stato specifica che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha accolto il ricorso limitatamente alla preclusione al contributo per gli acquisti effettuati nell’anno 2017, prima dell’entrata in vigore del codice del Terzo settore, rilevando che la disciplina ratione temporis applicabile consentiva l’accesso ai benefici anche alle onlus; quanto alle ulteriori doglianze riferite al decreto ministeriale 16 novembre 2017, il giudice di primo grado sottolinea che il sopravvenuto l’art. 76 del Codice, pur restringendo il contributo alle sole organizzazioni di volontariato, non contrasterebbe con le norme costituzionali indicate dalla ricorrente (art. 3 Cost), con ciò valutando manifestamente infondate le prospettate questioni di legittimità costituzionale.
Da parte sua, il giudice a quo osserva che, se alla valutazione politica del legislatore spetta individuare i soggetti ritenuti meritevoli di determinate provvidenze economiche, l’esercizio di tale funzione non può oltrepassare i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, rilevando, invece, nel caso in esame, l’assenza di “specifiche ragioni che giustifichino la preferenza accordata dal legislatore statale a determinate categorie di enti”. A sostegno delle proprie tesi, il Consiglio di Stato richiama la sentenza della Consulta n. 277 del 2019, che esclude la possibilità di differenziare il trattamento degli ETS sulla base dello status giuridico di dette organizzazioni. Inoltre, con una ulteriore censura, il rimettente Consiglio di Stato ritiene che l’art. 76 del Codice non rispetti i criteri di delega contenuti nella legge n. 106 del 2016 (Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale), in particolare laddove si richiede di “individuare le attività di interesse generale che caratterizzano gli enti del Terzo settore, il cui svolgimento […] costituisce requisito per l’accesso alle agevolazioni previste dalla normativa […]» – non ammetterebbe «differenziazioni collegate alla diversa natura soggettiva dell’ente», introdotte invece dal censurato art. 76.
Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio e rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, dichiara inammissibili e comunque non fondate le questioni sollevate “in quanto il diverso trattamento riservato dal legislatore alle ODV appar[irebbe] del tutto giustificato, e pertanto non discriminatorio, in considerazione del peculiare regime giuridico delle stesse”. Ad avviso dell’Avvocatura generale, nell’attività di riordino e revisione organica della materia realizzata con il Codice del Terzo settore, il legislatore avrebbe introdotto disposizioni comuni ai vari ETS e, nello stesso tempo, avrebbe voluto “salvaguardare anche le particolari specificità di ognuno prevedendo interventi a volte diversificati”, ivi inclusi quelli di sostegno finanziario”.
Nel comunicato stampa del 15 marzo 2022, contemporaneo al deposito della sentenza n. 72 del 2022, la Consulta sottolinea in premessa che il sistema degli enti del Terzo settore è espressione di un pluralismo sociale che affonda le sue radici nei principi fondamentali della Costituzione e le attività di interesse generale svolte senza fini di lucro da questi enti realizzano anche “una forma nuova e indiretta di concorso alla spesa pubblica”.
Nella sentenza, che dichiara infondate le questioni sollevate dal Consiglio di Stato sull’articolo 76 del Codice del Terzo settore riguardante i contributi per le ambulanze riservati alle organizzazioni di volontariato, la Consulta ricorda che “il Codice del Terzo settore ha svolto una funzione unificante, diretta a ordinare e a riportare a coerenza la disciplina degli ETS, superando le precedenti frammentazioni e sovrapposizioni. Tuttavia ciò non si è risolto in una indistinta omologazione di tutti gli ETS. All’interno del perimetro legale di questa definizione, infatti, sono rimaste in vita specifiche e diverse caratterizzazioni dei modelli organizzativi [..]. Permangono, inoltre, anche differenziazioni nei regimi di sostegno pubblico che si giustificano in ragione di diversi fattori, tra cui anche quello della specifica dimensione che assume, strutturalmente, l’apporto della componente volontaria all’interno dei suddetti enti”. A giudizio della Corte, la necessaria prevalenza della componente volontaristica nella struttura costitutiva delle ODV si associa al fatto che la disciplina dell’attività di interesse generale di tali enti è permeata da un vincolo particolarmente stringente preordinato a esaltare quella caratteristica di gratuità che connota l’attività del volontario. Tale caratteristica non è, secondo la Corte “neutrale”, bensì definisce una linea di demarcazione all’interno della pur unitaria categoria degli ETS. A tale proposito la Consulta sottolinea la centralità che il Codice del Terzo settore assegna alla figura del volontario, sottolineatura rinvenibile anche nella giurisprudenza della stessa Corte che ha definito il volontariato “modello fondamentale dell’azione positiva e responsabile dell’individuo» (sentenza n. 75 del 1992), portando a evidenziare come all’origine dell’azione volontaria vi sia l’emergere della natura relazionale della persona umana che, nella ricerca di senso alla propria esistenza, si compie nell’apertura al bisogno dell’altro (sentenze n. 131 del 2020 e n. 228 del 2004). In tal modo il volontariato, aggiunge la Corte, costituisce una modalità fondamentale di partecipazione civica e di formazione del capitale sociale delle istituzioni democratiche, al punto che risulterebbe paradossale penalizzare proprio gli enti che strutturalmente sono caratterizzati in misura prevalente da volontari, a causa del limite del mero rimborso delle spese.
Nel giungere alla conclusione di non fondatezza della questione sollevata in giudizio, tuttavia, la Corte segnala al legislatore che anche altri ETS si trovano o possono trovarsi in una condizione ragionevolmente assimilabile a quella delle ODV, in particolare, le associazioni di promozione sociale che condividono il medesimo requisito della necessaria prevalenza dell’operare volontario delle persone associate. Pertanto, la Consulta auspica che il legislatore intervenga a rivedere in termini meno rigidi il filtro selettivo previsto dall’articolo 76 del Codice del terzo settore, in modo da permettere l’accesso alle relative risorse anche a tutti quegli enti sulla cui azione si riflette la portata generale del vincolo per cui al volontario possono essere rimborsate “soltanto le spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata”.
Nel corso della XVIII Legislatura norme d’interesse per il Terzo settore sono state introdotte sia dalla normativa emergenziale che dai provvedimenti di finanza pubblica, ma non sono stati presentati, né sono in corso d'esame, disegni o progetti di legge in materia di contributi agli ETS.
Si segnala tuttavia che è attualmente in corso di esame presso la 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) del Senato in sede redigente l’A.S. 1650 Disposizioni in materia di imprese sociali di comunità che intende modificare la disciplina dell'impresa sociale, quale posta dal D.Lgs. n. 112 del 2017, onde introdurre, entro la tipologia di soggetti qualificabili come impresa sociale, le "imprese sociali di comunità".
La Corte costituzionale, con la sentenza 16 febbraio 2022, n. 58 ha dichiarato ammissibile il referendum abrogativo delle norme primarie le quali consentono, nella carriera dei magistrati, il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa.
Vale menzionare questa sentenza - ancorché la presente rassegna concerna sentenze della Corte di illegittimità costituzionale di disposizioni statali e sentenze con valenza monitoria rivolte al legislatore - perché essa pur reca una 'avvertenza' circa le conseguenze normative dell'eventuale approvazione in via referendaria dell'abrogazione oggetto della proposta.
La Corte, in questo caso giudice dell'ammissibilità del referendum, era chiamata a vagliare l'ammissibilità di una richiesta di referendum abrogativo promossa da alcuni Consigli regionali (titolari di siffatta iniziativa referendaria ex articolo 75, primo comma della Costituzione).
La richiesta ha per oggetto l'abrogazione di plurime disposizioni di atti con valore di legge (che non mette conto di enumerare puntualmente: basti menzionare, tra queste, l'articolo 13 del decreto legislativo n. 160 del 2006, il quale disciplina il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, e viceversa, dei magistrati).
Benché si tratti di abrogazione 'plurale', incidente su un insieme stratificato di disposizioni, essa presenta una matrice razionalmente unitaria, volta in modo univoco ad introdurre, nell'ordinamento giudiziario, la separazione, nella carriera dei magistrati, delle funzioni giudicante e requirente. Per questo riguardo, il quesito presenta carattere omogeneo e completo (e binario); e presenta carattere effettivamente abrogativo, non surrettiziamente propositivo od 'introduttivo'.
È questo un primo profilo rilevato dalla decisione della Corte, cui altri si aggiungono.
La prospettata abrogazione - ha ancor rilevato la Corte, nel suo vaglio di ammissibilità - incide su atti legislativi dello Stato aventi la forza delle leggi ordinarie, senza investire in tutto o in parte la Costituzione, le leggi di revisione costituzionale, le altre leggi costituzionali, come pure gli atti legislativi dotati di una forza passiva peculiare (e dunque insuscettibili di essere validamente abrogati da leggi ordinarie successive).
Ancora, l'abrogazione oggetto della richiesta referendaria non ha per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato - ossia disposizioni il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che al contempo risulti leso quanto corrispettivamente disposto dalla medesima Costituzione (o da altre leggi costituzionali).
Rilevati tutti questi profili, la Corte si è pronunciata per l'ammissibilità della richiesta referendaria.
La Corte ha dunque dichiarato - con la sentenza n. 58 del 2022 in esame - l'ammissibilità del referendum inteso ad abrogare le disposizioni che consentono il passaggio dalla funzione giudicante alla funzione requirente, e viceversa, per i magistrati.
In altri termini, la Corte ha dichiarato ammissibile il referendum inteso ad introdurre, per la via abrogativa, l'impossibilità per i magistrati del passaggio tra funzioni giudicante e requirente.
Ma la sentenza non si limita ad una declaratoria di ammissibilità della richiesta referendaria.
Insieme, la sentenza pone in rilievo un duplice profilo inerente all'abrogazione proposta, ove questa risultasse approvata dalla consultazione referendaria.
E qui la Corte parrebbe rivolgersi al legislatore.
In primo e principale luogo, essa evidenzia (tra le considerazioni 'in diritto' che corredano la sentenza) come “l'eventuale esito positivo del referendum avrebbe altresì, quale effetto, la 'cristallizzazione' immediata delle funzioni attualmente esercitate dai magistrati in servizio”.
Pertanto, sarebbe compito del legislatore, a seguito dell'eventuale abrogazione referendaria, “l'introduzione di discipline transitorie e conseguenziali, onde evitare, in particolare, la immediata 'cristallizzazione' delle funzioni attualmente in essere”.
In secondo luogo, la Corte rileva come il novero di atti incisi dall'eventuale abrogazione non possa considerarsi di per sé esaustivo e onnicomprensivo di ogni vigente disciplina normativa primaria richiamante aspetti del passaggio di funzioni dei magistrati.
Ebbene, anche per tale riguardo spetterebbe al legislatore “porre gli interventi legislativi necessari per rivedere organicamente la normativa 'di risulta'”, eliminando eventuali incongruenze che in tale normativa 'di risulta' dovessero palesarsi.
Dunque la sentenza n. 58 'arricchisce' la declaratoria di ammissibilità della richiesta referendaria con l'indicazione di alcuni possibili snodi tematici su cui il legislatore potrebbe esser chiamato ad intervenire, qualora la proposta oggetto del referendum abrogativo risultasse approvata dal corpo elettorale referendario.
[1] Recante "Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19".
[2] Regolamento del Consiglio che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi.
[3] Ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, risultano oggetto di illegittimità costituzionale derivata l’art. 1, comma 248, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio per il 2018); l’art. 23-quater, comma 1, del decreto-legge n. 119 del 2018 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge, n. 136 del 2018; l’art. 1, comma 340, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio per il 2020); l’art. 1, comma 362, della legge n. 178 del 2020 (legge di bilancio per il 2021).
[4] CGUE, grande sezione (sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/2021, O. D. e altri).
[5] Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno stato membro.
[6] Secondo l’art. 34, paragrafo 1, CDFUE, l’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione, tra gli altri, nei casi di maternità, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e dalle prassi nazionali. L’art. 34, paragrafo 2, CDFUE estende a ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, in conformità al diritto dell’Unione e alle legislazioni e alle prassi nazionali.
[7] In un secondo senso, la medesima sanzione ricorre anche nella disciplina della presentazione delle liste nei Comuni con meno di 5.000 abitanti, essendo prevista anche per essi nel caso di liste con un numero di candidati inferiore al minimo prescritto.