Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Finanze |
Titolo: | D.L. 87/2018: Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese |
Riferimenti: | AC N.924/XVIII AC N.924/XVIII |
Serie: | Progetti di legge Numero: 11 |
Data: | 18/07/2018 |
Organi della Camera: | XI Lavoro, VI Finanze |
Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese
D.L. 87/2018 – A.C. 924
Servizio Studi
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Dossier n. 39
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Progetti di legge n. 11
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D18087
I N D I C E
Capo I Misure per il contrasto al precariato
Articoli 1-3 (Misure di contrasto al precariato)..................................... 3
Articolo 4 (Differimento del termine di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali in tema di diplomati magistrali).................................... 21
Capo II Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali
Articoli 5 e 6 (Limiti alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti e salvaguardia dei livelli occupazionali)...................................... 31
Articolo 7 (Recupero iperammortamento in caso di delocalizzazione degli investimenti)....................................................................................... 41
Articolo 8 (Credito d’imposta ricerca e sviluppo per acquisto da fonti esterne di beni immateriali)................................................................ 44
Capo III Misure per il contrasto alla ludopatia
Articolo 9 (Divieto di pubblicità giochi e scommesse).......................... 51
Capo IV Misure in materia di semplificazione fiscale
Articolo 10 (Disposizioni in materia di redditometro)........................... 59
Articolo 11 (Disposizioni in materia di invio dei dati delle fatture emesse e ricevute).......................................................................................... 61
Articolo 12 (Split payment)................................................................. 64
Capo V Disposizioni finali e di coordinamento
Articolo 13 (Società sportive dilettantistiche)....................................... 71
Articolo 14 (Copertura finanziaria)..................................................... 77
Articolo 15 (Entrata in vigore)............................................................ 80
Articoli 1-3
(Misure di contrasto al precariato)
Gli articoli da 1 a 3 contengono, secondo quanto riportato nella relazione illustrativa allegata al provvedimento, misure volte al contrasto al precariato, intervenendo in materia di contratti a termine (articolo 1), di contratti di somministrazione a tempo determinato (articolo 2) nonché in materia di licenziamento illegittimo (articolo 3).
Più specificamente:
· il comma 1 dell'articolo 1 reca alcune modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, con riferimento ai limiti di durata, ai limiti ed ai presupposti per i rinnovi e le proroghe, alla forma del contratto, al termine di decadenza per l'impugnazione del contratto medesimo. Il comma 2 specifica che le novelle di cui al precedente comma 1 si applicano ai contratti stipulati successivamente all'entrata in vigore del presente decreto nonché ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data di entrata in vigore. Il successivo articolo 1, comma 3, esclude dall'àmbito delle novelle di cui all'articolo 1 i contratti di lavoro a termine stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
· l’articolo 2 interviene in materia di contratti di somministrazione a tempo determinato, disponendo altresì che agli stessi si applichino determinate disposizioni relative alla disciplina del contratto a termine (come modificata dal provvedimento in esame) precedentemente escluse.
· l’articolo 3 modifica i limiti minimi e massimi della misura dell'indennità in caso di licenziamento illegittimo, incrementando, in alcune ipotesi, il contributo previdenziale addizionale concernente i rapporti di lavoro subordinato a termine.
Limiti di durata dei contratti di lavoro a tempo determinato e dei relativi rinnovi o proroghe
La novella di cui al comma 1, lettera a), numero 1), del presente articolo 1 riduce la durata massima del contratto di lavoro a termine, pari nella disciplina finora vigente a 36 mesi, prevedendo un limite di 12 mesi, e definisce alcune ipotesi in cui il contratto può avere una durata superiore, nel rispetto di un limite massimo di 24 mesi.
Tali ipotesi sono costituite dalla sussistenza di esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, o di esigenze di sostituzione[1] di altri lavoratori oppure di esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
I nuovi limiti trovano applicazione - in base alla novella di cui alla lettera a), numero 2), e lettera b), numeri 1) e 2) - anche per le ipotesi di proroghe o rinnovi dei contratti a termine, secondo gli stessi princìpi già vigenti con riferimento al limite dei 36 mesi, costituiti dal computo della durata dall'inizio del primo rapporto e dalla trasformazione automatica del contratto in rapporto a tempo indeterminato a decorrere dall'eventuale data di superamento dei limiti medesimi.
Inoltre, la suddetta novella di cui alla lettera b), numero 1), opera una distinzione tra proroghe e rinnovi, consentendo per le prime la proroga libera, nel rispetto del limite dei 12 mesi, mentre la possibilità di rinnovo risulta subordinata, anche nell'àmbito dei 12 mesi, alla sussistenza delle suddette ipotesi (di cui alla lettera a), numero 1)), introdotte, come accennato, in via principale, per la possibilità di elevamento del limite da 12 a 24 mesi (riguardo alle attività stagionali, cfr. infra). Potrebbe essere ritenuto opportuno chiarire la distinzione tra proroga e rinnovo, considerato che quest'ultimo potrebbe essere stipulato, in ipotesi, anche senza soluzione di continuità con il precedente contratto.
In relazione alla formulazione della disciplina, di cui all'art. 19, comma 2, del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, come parzialmente novellato dalla suddetta lettera a), numero 2), potrebbe essere opportuno chiarire esplicitamente gli effetti della disposizione in caso di assenza delle ipotesi specifiche che giustifichino la proroga oltre il limite dei 12 mesi ovvero il rinnovo del contratto anche nell'àmbito del limite dei 12 mesi, considerato che la novella fa letterale riferimento – agli effetti della trasformazione a tempo indeterminato del rapporto - solo all'ipotesi di superamento del limite dei 24 mesi.
Riguardo, più in particolare, alle fattispecie di successione di contratti a termine, resta fermo (in base al suddetto art. 19, comma 2, del D.Lgs. n. 81, come parzialmente novellato dalle norme in esame) che:
· i limiti di durata si applicano con riferimento ai contratti (tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore) conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dalla lunghezza del periodo di interruzione tra un contratto e l'altro e con esclusione delle attività stagionali[2];
· ai fini del computo dei limiti, si tiene conto (con riferimento, naturalmente, ai medesimi soggetti) anche dei periodi di utilizzo, per mansioni di pari livello e categoria legale, nell'àmbito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato;
· sono fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché dei contratti collettivi aziendali, stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
Resta inoltre fermo (in base all'art. 19, comma 3, del citato D.Lgs. n. 81) che, oltre i limiti summenzionati, un ulteriore contratto a tempo determinato, con durata massima di 12 mesi, può essere stipulato presso l'Ispettorato del lavoro territorialmente competente.
Riguardo alle attività stagionali, la novella di cui alla lettera b), numero 1), prevede che i rinnovi e le proroghe dei contratti a termine possano essere concordati anche in assenza delle esigenze specifiche summenzionate, individuate dalla novella di cui alla precedente lettera a), numero 1) (come già accennato, per le attività stagionali, in base sia alla normativa previgente sia alle novelle in oggetto, i limiti di durata non si applicano con riferimento al complesso dei rapporti che si succedano nel tempo).
Riguardo, in generale, alle fattispecie che giustifichino l'apposizione di un termine, o di un termine più ampio, si può ricordare che la disciplina previgente rispetto alla novella di cui all'art. 1, comma 1, lettera a), del D.L. 20 marzo 2014, n. 34 (L. 78/2014), richiedeva, ai fini della legittimità del termine, la sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili[3] all'ordinaria attività del datore di lavoro. L'abrogazione di tale presupposto, da parte della suddetta novella, nel 2014 - presupposto, in ogni caso, diverso da quelli definiti dalle presenti novelle di cui al comma 1, lettera a), numero 1) - risulta aver determinato una riduzione del contenzioso in materia di contratti di lavoro a termine; secondo i dati del Ministero della giustizia (Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi - Direzione generale di statistica e analisi organizzativa), le cause in materia (nel settore privato) iscritte a ruolo nel corso del 2013 furono 4.261, nel 2014 2.822, nel 2015 1.667, nel 2016 1.174 e nel 2017 888.
Si ricorda, inoltre, che:
- il numero complessivo di contratti di lavoro a termine, a cui possa ricorrere il datore di lavoro, è oggetto di una specifica disciplina da parte dell'art. 23 del citato D.Lgs. n. 81, e successive modificazioni;
- la disciplina generale sul contratto di lavoro a termine non trova applicazione per le fattispecie individuate dall'art. 29 del medesimo D.Lgs. n. 81.
Limiti numerici per le proroghe dei contratti a tempo determinato
La novella di cui al comma 1, lettera b), numero 2), riduce da 5 a 4 il numero massimo di proroghe possibili per il contratto di lavoro a tempo determinato - fermi restando il rispetto dei limiti massimi di durata summenzionati.
Nell'ipotesi di una quinta proroga, il contratto si dovrebbe pertanto considerare a tempo indeterminato a decorrere da quest'ultima (in conformità al principio finora vigente con riferimento alla fattispecie di una sesta proroga).
Al riguardo, si valuti l’opportunità di chiarire se il contratto si trasformi a tempo indeterminato alla quinta proroga anche nell’ambito temporale dei 12 mesi.
Per quanto attiene alla formulazione letterale del testo, come modificato dalla presente novella, potrebbe essere valutata l’opportunità di definire esplicitamente il caso in cui le proroghe diano luogo al superamento del limite di 12 mesi e non sussistano le ipotesi specifiche che giustifichino il limite più elevato di 24 mesi, considerato che il testo fa riferimento esclusivamente a quest'ultimo.
Resta fermo che i limiti relativi al numero di proroghe non si applicano (in base all'art. 21, comma 3, del citato D.Lgs. n. 81) alle imprese start up innovative[4], per il periodo di 4 anni dalla costituzione della società[5], nonché alle fattispecie escluse (ai sensi dell'art. 29 del medesimo D.Lgs. n. 81[6]) dalla disciplina generale del contratto di lavoro a termine.
L’articolo 1, comma 1, lettera b), n. 1, introduce il nuovo comma 01 all’articolo 21 del D.Lgs. 81/2015.
Tale comma dispone che il contratto possa essere rinnovato solamente a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1 (come modificato dal provvedimento in esame). E’ tuttavia previsto che il contratto possa essere prorogato liberamente nei primi 12 mesi e, successivamente, in presenza delle condizioni di cui allo stesso articolo 19, comma 1. Viene fatta un’eccezione per i contratti a termine relativi alle attività stagionali, i quali possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle richiamate condizioni.
Si ricorda che per le riassunzioni a tempo determinato (con soluzioni di continuità rispetto al precedente rapporto) resta vigente (ai sensi dell'art. 21, commi 2 e 3, del citato D.Lgs. n. 81) il divieto di ricorrere ad esse entro un determinato periodo; quest'ultimo decorre dalla scadenza del precedente contratto a termine ed è pari a 10 giorni qualora il medesimo contratto avesse una durata pari o inferiore a 6 mesi, ovvero a 20 giorni qualora la durata del precedente contratto fosse superiore a 6 mesi. Nell'ipotesi di violazione del divieto suddetto, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato.
Il divieto non si applica alle imprese start up innovative, per il summenzionato periodo di 4 anni, alle attività stagionali, alle ipotesi individuate dai contratti collettivi[7].
Sulla base di quanto contenuto nel nuovo comma 01 dell’articolo 21 del D.Lgs. 81/2015, si rileva che le fattispecie summenzionate (di esclusione dai divieti temporanei di riassunzione) relative alle imprese start up innovative ed alle ipotesi individuate dai contratti collettivi rientrano, tuttavia, in base alle novelle in oggetto, nell'àmbito del divieto di rinnovo del contratto in mancanza di una delle esigenze individuate dalla novella di cui al comma 1, lettera a), numero 1).
Resta invece ferma l'esclusione per le fattispecie a cui (ai sensi dell'art. 29 del citato D.Lgs. n. 81) non si applica la disciplina generale del contratto di lavoro a termine.
Forma del contratto di lavoro a tempo determinato
La novella di cui al comma 1, lettera a), numero 3), in primo luogo, sopprime la norma secondo cui il termine del contratto di lavoro era valido anche qualora risultasse solo indirettamente da un atto scritto. In secondo luogo, la novella richiede che siano specificate nell'atto scritto la sussistenza delle esigenze che giustifichino (in base alle novelle di cui al medesimo comma 1) una durata massima più elevata ovvero il rinnovo del contratto - riguardo alla distinzione tra rinnovi e proroghe, cfr. supra -. Sotto il profilo letterale, l'indicazione nell'atto scritto delle suddette esigenze non è esplicitamente richiesta per il caso in cui la durata più ampia, in deroga al limite dei 12 mesi, sia contemplata già da un primo contratto.
Resta fermo che (come già previsto dalla formulazione fino ad ora vigente):
- una copia dell'atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al dipendente entro cinque giorni lavorativi dall'inizio della prestazione;
- l'indicazione del termine in un atto scritto non è necessaria per i rapporti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni.
Impugnazione del carattere a tempo determinato del contratto di lavoro
La novella di cui al comma 1, lettera c), eleva da 120 a 180 giorni il termine - posto a pena di decadenza e decorrente dalla cessazione temporale del contratto - per l'impugnazione del carattere a tempo determinato del contratto di lavoro.
Si ricorda che l'impugnazione può essere eseguita con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore.
L'impugnazione è inefficace se non è seguìta, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale (in funzione di giudice del lavoro) o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro 60 giorni (decorrenti dal rifiuto o dal mancato accordo).
Norma transitoria
Il comma 2 del presente articolo 1 specifica che le norme di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a termine stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto nonché ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti a termine in corso alla medesima data.
Pubbliche amministrazioni
Il comma 3 esclude dall'àmbito delle novelle di cui al presente articolo 1, nonché dall'àmbito delle norme di cui ai successivi articoli 2 e 3 (alle cui schede si rinvia), i contratti di lavoro stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
Con riferimento all'articolo 1, la suddetta norma di esclusione comporta che per i contratti di lavoro a termine delle pubbliche amministrazioni continua a trovare applicazione la disciplina di cui agli artt. 19 e seguenti del D.Lgs. n. 81 del 2015 - ai quali fa rinvio l'art. 36 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, per i profili non specificamente disciplinati da quest'ultimo[8] - nel testo previgente rispetto alle novelle di cui al presente articolo 1. Si valuti l'opportunità di definire una formulazione espressa della disciplina dei contratti di lavoro a termine stipulati dalle pubbliche amministrazioni, al fine di evitare un rinvio a norme previgenti.
Contratti a tempo determinato
Il contratto di lavoro a tempo determinato si caratterizza per la preventiva determinazione della durata, estinguendosi automaticamente allo scadere del termine inizialmente fissato. Attualmente, la disciplina ditale istituto è confluita successivamente negli articoli da 19 a 29 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (emanato in attuazione della delega contenuta nella L. 183/2014, cd.jobs act ), il quale, pur non alterando la struttura dell'istituto venutasi a delineare alla luce dei precedenti interventi in materia, ha comunque apportato significative modifiche alla sua disciplina (con contestuale abrogazione del D.Lgs. 368/2001).
Salvo le disposizioni dei contratti collettivi e con le eccezioni concernenti le attività stagionali, la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l'altro e svolti per mansioni di identico livello di quelle relative al lavoro a tempo indeterminato, non può superare il limite di 36 mesi. Nel caso in cui si superi tale limite (per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti), il contratto si trasforma a tempo indeterminato dalla data del superamento. E' tuttavia prevista la possibilità di stipulare un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di 12 mesi, presso la Direzione territoriale del lavoro competente. In caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato data della stipulazione.
Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, non si possono assumere lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione (con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. Nel caso di inizio dell'attività nel corso dell'anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell'assunzione). La possibilità di stipualre un contratto a tempo determinato è invece sempre possibile per i datori di lavoro che occupino fino a 5 dipendenti.
Il termine può essere prorogato (con il consenso del lavoratore) solamente nel caso in cui la durata iniziale del contratto sia inferiore a 36 mesi e, comunque, per un massimo di 5 volte nell'arco di 36 mesi a prescindere dal numero dei contratti. Qualora il numero delle proroghe sia superiore, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della sesta proroga.
Nel caso in cui, fermi restando i limiti di durata massima dei rapporti, il rapporto di lavoro continui dopo la scadenza del termine (anche prorogato), il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo ed al 40% per ciascun giorno ulteriore. In ogni caso, se il rapporto di lavoro continua oltre 30 giorni (in caso di contratto di durata inferiore a 6 mesi), od oltre 50 giorni (negli altri casi), il contratto si trasforma a tempo indeterminato dalla scadenza dei richiamati termini.
Per quanto attiene al trattamento economico, al lavoratore a termine sia applica il principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato.
Il D.Lgs. 81/2015, oltre a trasferire la normativa previgente nel corpo del provvedimento, ha anche apportato sostanziali novità.
In particolare, tra gli interventi contenuti nella riforma si segnalano:
· l'esclusione esplicita della sanzione della trasformazione, in contratti a tempo indeterminato, dei contratti a termine stipulati in violazione del limite percentuale del 20% (sostituita da una sanzione pecuniaria amministrativa);
· la possibilità, attraverso i contratti collettivi, di individuare un limite percentuale superiore a quello del 20%;
· la previsione che nel caso di inizio dell'attività in corso d'anno, il limite percentuale del 20% si computi sui lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell'assunzione;
· la possibilità di stipulare contratti a termine in deroga al limite percentuale del 20% è data anche ad università pubbliche e private, nonché istituti culturali ed enti pubblici e privati (derivanti da precedenti enti pubblici vigilati dal Ministero dei beni e delle attività culturali) per il personale da adibire a mostre, eventi e manifestazioni di interesse culturale.
Ulteriori significative modifiche concernono:
· la possibilità di stipulare un ulteriore contratto a termine al termine di un rapporto di lavoro a tempo determinato che abbia raggiunto la durata massima di 36 mesi, con una durata massima di 12 mesi (diversamente dalla normativa previgente, che rimetteva la determinazione della durata di tale ulteriore contratto alle parti sociali);
· la soppressione, nell'ambito della disciplina derogatoria prevista per i contratti a termine stipulati da imprese start up innovative (di cui all'articolo 28 del D.L. 179/2012), della disposizione della disposizione che prevedeva una durata contrattuale minima di sei mesi;
· la previsione che le attività stagionali (ai fini dell'applicazione della disciplina speciale in materia di riassunzioni successive alla scadenza di un contratto a termine), debbano essere individuate con apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, l'elevazione da 60 a 120 giorni del termine per l'impugnazione giudiziale del contratto a tempo determinato;
· l'espressa previsione che qualora il giudice, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, condanni il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore (stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura, invariata rispetto alla normativa attualmente vigente, compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto), l'indennità ristori per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
Oltre a ciò, si segnala l'applicazione della disciplina dei contratti a termine per il settore ortofrutticolo (settore precedentemente escluso); la soppressione della norma che prevedeva che i contratti collettivi nazionali definissero le modalità per le informazioni da rendere ai lavoratori a tempo determinato relativamente ai posti vacanti che si rendessero disponibili nell'impresa (in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che hanno gli altri lavoratori); l'introduzione dell'espressa previsione che nel caso in cui si disponga la sesta proroga di un contratto a tempo determinato (in violazione, quindi, del limite di 5 proroghe, che viene confermato), il contratto si consideri a tempo indeterminato a decorrere dalla data di decorrenza della sesta proroga.
Infine, si segnala la soppressione di alcune disposizioni contenute nella disciplina previgente, quali il rinvio alla contrattazione collettiva per il superamento del divieto (che diviene, quindi, tassativo) di ricorso al lavoro a termine in determinate ipotesi (per mansioni svolte da lavoratori oggetto di licenziamenti collettivi negli ultimi 6 mesi), la norma (di cui all'articolo 5, comma 4-sexies, del D.Lgs. 368/2001) in base alla quale il diritto di precedenza deve essere espressamente previsto nell'atto scritto con cui si stabilisce il termine al contratto, le norme che escludevano dalla disciplina sui contratti a termine i rapporti di apprendistato e le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione (di cui all'articolo 10, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 368/2001) nonché la norma (ex articolo 5, comma 4, del D.Lgs. 368/2001) in base alla quale, in caso di assunzioni successive a termine senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.
Somministrazione di lavoro (articolo 2)
L’articolo 2 interviene in materia di contratti di somministrazione a tempo determinato, disponendo altresì che agli stessi si applichino determinate disposizioni relative alla disciplina del contratto a termine (come modificata dal provvedimento in esame) precedentemente escluse.
In particolare, l’articolo in esame - attraverso la modifica dell’articolo 34, comma 2, primo periodo, del D.Lgs. 81/2015, che viene sostituito - prevede l’applicazione delle disposizioni contenute nel Capo III (ad eccezione degli articoli 23 e 24), rafforzando la previsione secondo cui i rapporti di lavoro a tempo determinato tra somministratore e lavoratore sono soggetti alla disciplina in materia di lavoro a tempo determinato del richiamato decreto legislativo, quale risulta dalla attuale novella (secondo la normativa previgente, l’applicazione delle disposizioni del Capo III era, invece, subordinata ad una valutazione di compatibilità). Ne consegue che:
§ ai suddetti rapporti di lavoro si applica anche quanto previsto dagli articoli 19, commi 1, 2 e 3, e 21 del richiamato D.Lgs. 81/2015 (come modificati dall’articolo 1 del provvedimento in esame, alla cui scheda si rimanda), precedentemente esclusi, in materia di apposizione del termine, durata, proroghe, rinnovi e causalità dei contratti a termine;
§ ai suddetti rapporti di lavoro non si applica quanto previsto dagli articoli 23 e 24 del richiamato D.Lgs. 81/2015 in materia di numero complessivo dei contratti e di diritto di precedenza;
§ le disposizioni del Capo III sono applicabili senza il filtro della valutazione di compatibilità da effettuare caso per caso, testualmente stabilito dalla previgente disciplina
Si ricorda che il richiamato articolo 23, concernente il numero complessivo di contratti a tempo determinato, dispone che, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi e specifiche deroghe elencate nel medesimo art. 23, non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione (per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato).
Il richiamato articolo 24 riguarda il diritto di precedenza e dispone che, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell'esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato presso la stessa azienda, ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine.
Si prevede, infine, che il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore, ma in ogni caso nei limiti previsti dalla novella all’articolo 21 (così come disposto dall’articolo 34, comma 2, dello stesso medesimo D.Lgs. 81/2015).
Si ricorda che quanto previsto dall’articolo 2 in materia di somministrazione di lavoro a tempo determinato non si applica ai contratti stipulati dalla Pubblica amministrazione, per i quali continua ad applicarsi la disciplina anteriore all’entrata in vigore del provvedimento in esame (art. 1, c. 3 – cfr. la relativa scheda). Inoltre, l’incremento dello 0,5 per cento del contributo addizionale, a carico del datore di lavoro (ex art. 2, c. 28, della L. 92/2012) si applica anche per ciascun rinnovo del contratto di somministrazione a tempo determinato (art. 3, c. 2 – cfr. la relativa scheda).
Somministrazione di lavoro subordinato.
Il contratto di somministrazione di lavoro è attualmente disciplinato dagli articoli da 30 a 40 del D.Lgs. 81/2015, che hanno modificato la disciplina contenuta nel D.Lgs. 276/2003 (il quale comunque ancora disciplina la materia relativa al regime autorizzatorio e degli accreditamenti delle agenzie per il lavoro, comprese quelle che svolgono attività di somministrazione, nonché per quanto attiene alle sanzioni). Nella somministrazione di lavoro l'attività lavorativa viene svolta da un dipendente dell'impresa somministratrice nell'interesse di un altro soggetto che ne utilizza la prestazione. In sostanza, il lavoratore è assunto e retribuito dall'impresa somministratrice ma svolge la propria attività sotto la direzione ed il controllo dell'impresa utilizzatrice. I rapporti intercorrenti tra i 3 soggetti sono regolati da 2 distinti contratti (contratto di somministrazione di lavoro tra somministratore e utilizzatore e contratto di lavoro tra somministratore e lavoratore).
La somministrazione di lavoro può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato.
Il contratto deve essere stipulato in forma scritta (in mancanza della quale il contratto è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore) e deve contenere specifici elementi (estremi dell'autorizzazione rilasciata al somministratore; numero dei lavoratori da somministrare; indicazione di eventuali rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate; data di inizio e durata prevista del contratto di somministrazione; mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e loro inquadramento; luogo, orario e trattamento economico e normativo dei lavoratori).
La somministrazione è irregolare in caso di violazione dei limiti e delle condizioni previsti dalla normativa, in tal caso il lavoratore può chiedere (anche nei confronti del solo utilizzatore) la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest'ultimo, con effetto dall'inizio della somministrazione.
In caso di assunzione a tempo indeterminato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina prevista per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato (ed è determinata l'indennità mensile di disponibilità, prevista comunque anche per la somministrazione a tempo determinato). Inoltre, il numero dei lavoratori somministrati (salvo diverse previsioni nei contratti collettivi stipulati dall'utilizzatore) non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipula del contratto (con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5; particolari procedure sono inoltre previste in caso di inizio attività nel corso dell'anno. Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato.
Nella somministrazione a tempo determinato, il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina del contratto a tempo determinato contenuta nello stesso D.Lgs. 81/2015 (nel testo previgente, tale applicazione era prevista solo “per quanto compatibile”); si precisa che nel testo previgente, alla somministrazione a tempo determinato non venivano applicati non solo gli articoli 23 e 24 (come confermato dal decreto legge in esame – vedi supra), ma anche le disposizioni della disciplina del contratto a termine concernenti la durata massima, la sommatoria dei periodi svolti in forza di più contratti a termine, le proroghe ed i rinnovi.
La somministrazione di lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall'utilizzatore; in ogni caso, è esclusa l’applicazione di limiti quantitativi per la somministrazione di lavoro a tempo determinato relativamente ai lavoratori in mobilità, ai soggetti disoccupati che godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e ai lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati (di cui al regolamento CE n. 800/2008), come individuati dal DM 18 ottobre 2017.
Inoltre, tale somministrazione è vietata in talune ipotesi (sostituzione di lavoratori in sciopero, dopo licenziamenti collettivi nei 6 mesi precedenti, in unità produttive con sospensioni/riduzioni di orario, nel caso in cui il datore di lavoro non abbia effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro).
Il lavoratore somministrato non è computato nell'organico dell'utilizzatore ai fini dell'applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, ad eccezione di relative alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Inoltre, in caso di somministrazione di lavoratori disabili per missioni di durata non inferiore a 12 mesi, il lavoratore somministrato è computato nella quota di riserva di cui all'articolo 3 della L. 68/1999.
L'utilizzatore risponde nei confronti dei terzi dei danni ad essi arrecati dal lavoratore dipendente del somministratore nell'esercizio delle sue mansioni.
Per tutta la durata della missione presso l'utilizzatore, i lavoratori del somministratore hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell'utilizzatore. Inoltre, l'utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore alla corresponsione ai lavoratori dei trattamenti retributivi ed al versamento dei relativi contributi previdenziali (salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore). I lavoratori somministrati hanno altresì diritto a fruire dei servizi sociali e assistenziali di cui godono i dipendenti dell'utilizzatore addetti alla stessa unità produttiva, esclusi quelli il cui godimento sia condizionato alla iscrizione ad associazioni o società cooperative o al conseguimento di una determinata anzianità di servizio.
Il somministratore (o l’utilizzatore, se previsto dal contratto) ha l’obbligo di informare i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive e li forma e addestra all'uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell'attività lavorativa per la quale essi vengono assunti, ai sensi del D.Lgs. 81/2008.
Gli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi ed assistenziali, previsti dalle vigenti disposizioni legislative, sono a carico del somministratore che è inquadrato, ai fini previdenziali, nel settore del terziario.
Si ricorda, infine, che al fine di assicurare per i lavoratori in somministrazione una tutela in costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione o sospensione dell'attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria, è stato istituito il Fondo di solidarietà per i lavoratori in somministrazione (istituito con decreto interministeriale 25 marzo 2016, n. 95274, la cui disciplina è stata successivamente modificata dal decreto interministeriale 17 aprile 2016, n. 89581).
Licenziamenti (articolo 3)
Indennità in caso di licenziamento illegittimo
La novella di cui al comma 1 concerne i limiti minimi e massimi della misura dell'indennità in caso di licenziamento illegittimo, con riferimento ai lavoratori rientranti nell'àmbito di applicazione di cui all'art. 1 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
Quest'ultimo àmbito è costituito, in via generale, dai lavoratori del settore privato (aventi la qualifica di operai o impiegati o quadri) assunti a tempo indeterminato (dal datore di lavoro in questione) successivamente al 6 marzo 2015[9] - ivi compresi i casi di conversione a tempo indeterminato, successiva a tale data, di precedenti rapporti a termine o di apprendistato -.
In tale àmbito, l'indennità oggetto della novella di cui al comma 1 concerne i licenziamenti in cui si accerti che manchi un giustificato motivo oggettivo o soggettivo ovvero una giusta causa - con esclusione dei licenziamenti nulli (definiti dall'art. 2 del citato D.Lgs. n. 23) nonché dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, in quanto per tali fattispecie gli artt. 2 e 3 dello stesso D.Lgs. n. 23 prevedono la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre ad un'indennità risarcitoria autonomamente disciplinata[10] -.
Per i licenziamenti oggetto della presente novella, la disciplina prevede, a carico del datore di lavoro, un'indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento[11] per ogni anno di servizio - ovvero ad una mensilità per ogni anno, qualora il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni -[12]. La formulazione fino ad ora vigente prevede che i limiti minimi e massimi dell'indennità siano pari a quattro e ventiquattro mensilità, ovvero, rispettivamente, a due e sei mensilità nel caso in cui il datore non raggiunga i requisiti dimensionali suddetti. La novella eleva i limiti minimi e massimi a sei e trentasei mensilità, limiti che per i datori i quali non raggiungano i requisiti dimensionali summenzionati risultano pari (in base al combinato disposto con l'art. 9, comma 1, dello stesso D.Lgs. n. 23) a tre e sei mensilità (per quest'ultimo limite massimo non vi è, dunque, una modifica rispetto alla norma fino ad ora vigente).
Si ricorda che la disciplina di tutela dal licenziamento oggetto della novella di cui al presente comma 1 (disciplina di cui al D.Lgs. n. 23 del 2015) non trova applicazione per il pubblico impiego, come indicato dalla novella posta dall'art. 21 del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75 - la quale ha modificato il testo dell'art. 63 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 -. Quest'ultimo intervento ha chiarito che per il pubblico impiego la tutela in esame resta disciplinata dall'art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni[13], come integrato dal suddetto art. 63 del D.Lgs. n. 165, e successive modificazioni.
Il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (emanato in attuazione dell’articolo 1, comma 7, lettera c), della L. delega 183/2014 (cd. jobs act), ha introdotto nel nostro ordinamento il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (per le assunzioni a decorrere dal 7 marzo 2015). La nuova disciplina trova applicazione solo nei confronti delle assunzioni decorrenti da tale data.
In particolare, le novità riguardano:
Ø l'esclusione della reintegra nel posto di lavoro per i licenziamenti di natura economica;
Ø la previsione di un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio;
Ø la limitazione della reintegra ai licenziamenti nulli e discriminatori, nonché a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato;
Ø la previsione di termini certi per l'impugnazione del licenziamento.
Si ricorda che il contratto a tutele crescenti è un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato caratterizzato da tutele "minori" in caso di licenziamento illegittimo[14].
La norma contiene uno specifico regime sanzionatorio nei casi di licenziamento che non rispettino le disposizioni di legge.
In particolare:
v in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato oralmente, si applicano:
· la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di 15 mensilità;
· il risarcimento del danno pari ad una indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione[15];
· in luogo della reintegrazione, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, il lavoratore ha facoltà di chiedere al datore di lavoro un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.
v in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo (oggettivo e soggettivo):
· estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento, con riconoscimento al lavoratore un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità (articolo 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015);
· annullamento del licenziamento e reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (nel caso in cui - e solo per le ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo - sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore);
· pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione[16]. Tale indennità non può comunque essere superiore a 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (nel caso in cui - e solo per le ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo - sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore).
In luogo della reintegra, e fermo restando il diritto al risarcimento del danno, il lavoratore può optare per le 15 mensilità (art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015).
Infine, nel caso in cui il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali previsti dall'articolo 18, comma 8 e 9, della L. 300/1970 (più di 15/60 dipendenti, 5 dipendenti se agricolo) non si applica la norma sul licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale (articolo 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015) e l'ammontare di indennità/importi previsti è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità (ai sensi dell’articolo 9 del medesimo D.Lgs. 23).
Contribuzione previdenziale concernente i rapporti di lavoro subordinato a termine
Il comma 2 prevede, per alcune ipotesi, un incremento - da 1,4 a 1,9 punti percentuali - del contributo previdenziale addizionale (a carico del datore di lavoro) concernente i rapporti di lavoro subordinato a termine nel settore privato[17]. L'elevamento è disposto per ogni ipotesi di rinnovo del contratto a termine (ivi compresi i casi in cui il contratto intercorra tra un'agenzia di somministrazione ed un lavoratore).
Sembrerebbe opportuno chiarire la distinzione tra rinnovo e proroga del contratto a termine, considerato che l'elevamento del contributo - come osserva anche la relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione del presente decreto - riguarda esclusivamente i casi di rinnovo e che quest'ultimo potrebbe essere stipulato, in ipotesi, anche senza soluzione di continuità con il precedente contratto.
Resta fermo[18] che:
- il contributo addizionale in esame non si applica - oltre che ai contratti a tempo determinato stipulati dalle pubbliche amministrazioni - nel caso di lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti o per lo svolgimento di attività stagionali[19], nonché ai rapporti di apprendistato;
- il medesimo contributo addizionale viene restituito (ex articolo 2, comma 30, della L. 92/2012), successivamente al decorso del periodo di prova, in caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato o qualora il datore di lavoro assuma il soggetto con contratto di lavoro a tempo indeterminato entro il termine di sei mesi dalla cessazione del precedente contratto a termine; in quest'ultimo caso, dalla restituzione viene detratto un numero di mensilità di contribuzione addizionale (rispetto al numero totale di esse) ragguagliato al periodo trascorso dalla cessazione del precedente rapporto a termine.
L’articolo 4 concede al MIUR 120 giorni di tempo per dare esecuzione ad ogni provvedimento giurisdizionale che comporti la decadenza di contratti di lavoro stipulati con docenti in possesso di diploma magistrale, conseguito entro l’a.s. 2001-2002, inseriti con riserva nelle graduatorie ad esaurimento.
La disposizione interviene per dilazionare nel tempo l’esecuzione delle sentenze che dovessero adeguarsi alla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, con la quale il Consiglio di Stato, nello scorso dicembre, ha dichiarato che il possesso del solo diploma magistrale, sebbene conseguito entro l’a.s. 2001/2002, non costituisce titolo sufficiente per l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento (GAE)[20] del personale docente.
Al riguardo, rispondendo all’interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3-00045 il 4 luglio 2018, il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca ha fatto presente che, alla luce del principio di diritto espresso dal Consiglio di Stato “i diplomati magistrali dovranno essere cancellati dalle graduatorie a esaurimento man mano che interverranno le sentenze di merito, che, presumibilmente, si uniformeranno alle decisioni dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato”.
Come più ampiamente descritto infra, sulla base dell’inserimento di questi docenti nelle suddette graduatorie – spesso consentito “con riserva” dai giudici amministrativi –, il MIUR aveva proceduto all’assunzione di soggetti in possesso del solo diploma magistrale. La carenza del titolo per l’inserimento nelle GAE comporterà il venir meno di un presupposto necessario per la stipula del contratto di lavoro.
Rispondendo alla medesima interrogazione, il Ministro ha fatto presente che “Particolarmente delicata è, poi, la situazione dei circa 7.500 diplomati magistrali già assunti in ruolo a seguito dello scorrimento delle graduatorie a esaurimento nelle quali erano stati inseriti con riserva, che vedranno risolto il loro contratto a tempo indeterminato non appena interverranno le relative sentenze. Trattasi di una situazione che, in considerazione del fatto che le pronunce giurisdizionali interverranno presumibilmente tra la fine di questo mese ed il mese di agosto, rischia concretamente di mettere a repentaglio l’ordinato avvio dell’anno scolastico 2018/2019”.
In questo contesto, la disposizione in commento si propone l’obiettivo di assicurare l’ordinato avvio dell’anno scolastico 2018/2019 e di salvaguardare la continuità didattica, prevedendo che il MIUR possa provvedere all’esecuzione delle decisioni giurisdizionali che comportino la decadenza dei contratti di lavoro stipulati con i diplomati magistrali che abbiano conseguito il titolo entro l’a.s. 2001/2002, entro 120 giorni dalla data di comunicazione di ciascun provvedimento giurisdizionale al Ministero.
Il termine di 120 giorni concesso al Ministero per recedere dai contratti di lavoro è mutuato dall’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 669 del 1996 che – a fronte di provvedimenti giurisdizionali e lodi arbitrali che impongono alla P.A. di pagare – concede alle amministrazioni 120 giorni “dalla notificazione del titolo esecutivo” per eseguire il provvedimento ed adempiere all’obbligazione di pagamento, escludendo che nelle more il creditore possa procedere ad esecuzione forzata o alla notifica di un atto di precetto.
Il termine di 120 giorni entro il quale il MIUR dovrà provvedere inizia a decorrere dalla comunicazione del provvedimento giurisdizionale. Evidentemente, dunque, ipotizzando che vari siano i provvedimenti giurisdizionali attesi, e che gli stessi non intervengano simultaneamente, per ciascuno di essi all’Amministrazione è posta una scadenza diversa.
La disposizione non esplicita la natura degli attesi “provvedimenti giurisdizionali che comportano la decadenza dei contratti": potrebbe infatti trattarsi tanto di sentenze del giudice amministrativo – posto che, in taluni casi, l’iscrizione nelle GAE era stata autorizzata dai TAR, anche in sede di tutela cautelare, e si attende dunque la pronuncia nel merito degli stessi tribunali ovvero del Consiglio di Stato – quanto di sentenze del giudice del lavoro.
E’ utile ricordare in questa sede che l’art. 3 della L. 341/1990 ha previsto che, anche per insegnare nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, occorreva il conseguimento di un diploma di laurea. A tal fine, ha istituito uno specifico corso di laurea, articolato in due indirizzi.
Successivamente, l’art. 191 del d.lgs. 297/1994 aveva stabilito che, fino all'attuazione dell'art. 3 della L. 341/1990, l'istituto magistrale (di durata quadriennale) conservava il fine precipuo di preparare i docenti della scuola primaria, mentre la scuola magistrale (di durata triennale) quello di preparare i docenti della scuola dell’infanzia. I diplomati degli istituti magistrali avevano accesso diretto alla Facoltà di magistero, mentre dovevano frequentare un corso annuale integrativo per l’accesso ad altri corsi di laurea.
Con D.I. 10 marzo 1997 è stato, dunque, disciplinato il regime transitorio per il passaggio al sistema di formazione universitaria previsto dalla L. 341/1990. In particolare, il D.I. ha previsto la soppressione, dall’a.s.1998-99, dei corsi di studio della scuola magistrale e dell’istituto magistrale. Al contempo, ha stabilito che i titoli di studio conseguiti al termine dei corsi iniziati entro l’a.s. 1997-1998, o comunque conseguiti entro l’a.s. 2001-2002, conservavano in via permanente il valore legale e consentivano di partecipare alle sessioni di abilitazione all’insegnamento nella scuola materna, previste dall’art. 9, co. 2, della L. 444/1968, nonché ai concorsi ordinari per titoli e per esami a posti di insegnante nella scuola materna e nella scuola elementare, secondo quanto previsto dagli artt. 399 e ss. del d.lgs. 297/1994.
Con riguardo ai corsi di laurea in scienze della formazione primaria, disposizioni intervenute successivamente alla L. 341/1990 hanno stabilito che l'esame di laurea sostenuto a conclusione dei corsi ha valore di esame di Stato e abilita all'insegnamento nella scuola primaria o nella scuola dell'infanzia, a seconda dell'indirizzo prescelto (art. 5, co. 3, L. 53/2003; art. 6, D.L. 137/2008-L. 169/2008; art. 6 DM 249/2010).
Il contenzioso in materia
Preliminarmente si rammenta che, con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica dell’8 settembre 2011, 220 docenti inseriti nella III fascia delle graduatorie di istituto[21] – in quanto in possesso solo di diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002, e non anche di abilitazione all’insegnamento o di altro titolo – avevano impugnato il DM 62/2011 (relativo all’aggiornamento delle graduatorie di istituto per il triennio scolastico 2011/2012, 2012/2013 e 2013/2014) e il DM 44/2011 (relativo all’aggiornamento delle GAE per il biennio scolastico 2011/12 e 2012/13[22]).
La II Sezione del Consiglio di Stato, con parere n. 3813 dell’11 settembre 2013 (numero affare 4929/2012), aveva riconosciuto l’illegittimità del DM 62/2011, nella parte in cui non parificava ai docenti abilitati coloro che avevano conseguito entro l’a.s. 2001/2002 il diploma magistrale e, dunque, li collocava nella III fascia delle graduatorie di Istituto, anziché nella II (non riconoscendo, tuttavia, la possibilità di accesso degli stessi docenti nelle GAE, per la tardività dell’impugnativa del DM 44/2011).
La tesi sostenuta, infatti, era che prima dell’istituzione della laurea in Scienze della formazione primaria, il titolo di studio attribuito dagli istituti magistrali al termine di corsi triennali e quinquennali sperimentali di scuola magistrale e dei corsi quadriennali e quinquennali sperimentali di istituto magistrale (per la scuola dell’infanzia) o al termine dei corsi quadriennali e quinquennali sperimentali dell’istituto magistrale (per la scuola primaria) dovevano considerarsi abilitanti.
Tale parere era stato recepito dapprima con DPR 25 marzo 2014 – che aveva accolto (in parte) il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, secondo quanto previsto nel medesimo parere – e, poi, dal DM 353/2014, relativo all’aggiornamento delle graduatorie di istituto per il triennio scolastico 2014/2015, 2015/2016 e 2016/2017.
A seguito di ciò, numerosi soggetti, in possesso, tra l’altro, del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002, avevano avanzato ricorso per l’annullamento del DM 235/2014 che, nel disporre l’aggiornamento delle GAE per gli a.s. 2014/2015, 2015/2016 e 2016/2017, non aveva consentito loro l’inserimento nelle medesime.
Alcuni di tali ricorsi erano stati respinti dal TAR per il Lazio, Roma, sez. III-bis (si vedano, in particolare, sentenze n. 7858 del 21 luglio 2014, n. 412 del 13 gennaio 2015 e n. 4460 del 23 marzo 2015), che aveva ricordato, tra l’altro, che l’impossibilità di nuovi inserimenti nelle GAE era stata confermata, da ultimo, dall’art. 14, co. 2-ter, del D.L. 216/2011 (L. 14/2012).
A seguito dell’impugnazione delle sentenze di primo grado, la VI Sez. del Consiglio di Stato, in secondo grado, da un lato, con sentenze n. 1973 del 16 aprile 2015 e n. 3628 del 21 luglio 2015 (relative ai ricorsi per la riforma della sentenza TAR Lazio 7858/2014), nonché n. 3675 del 27 luglio 2015 (relativa al ricorso per la riforma della sentenza TAR Lazio 412/2015), aveva annullato il DM 235/2014 nella parte in cui non aveva consentito ai ricorrenti “docenti in possesso del titolo abilitante di diploma magistrale conseguito entro l'anno scolastico 2001/2002, l’iscrizione nelle graduatorie permanenti, ora ad esaurimento” (in particolare, evidenziando che “non sembra esservi dubbio alcuno che i diplomati magistrali con il titolo conseguito entro l'anno scolastico 2001/2002, al momento della trasformazione delle graduatorie da permanenti ad esaurimento, fossero già in possesso del titolo abilitante. Il fatto che tale abilitazione sia stata riconosciuta soltanto nel 2014, a seguito della pronuncia del Consiglio di Stato, non può impedire che tale riconoscimento abbia effetti ai fini dell'inserimento nelle citate graduatorie riservate ai docenti abilitati in quanto tali”), dall’altro, con ordinanza collegiale 29 gennaio 2016, n. 364 (riferita alla sentenza TAR Lazio 4460/2015), aveva disposto il deferimento della questione relativa all’iscrizione nelle GAE di quanti erano in possesso di diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 all’Adunanza plenaria[23].
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 11 del 20 dicembre 2017, ha ritenuto che gli appelli non meritassero accoglimento, stabilendo che i soggetti con diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 non possono vantare un diritto all'inserimento nelle GAE.
In particolare, l’Adunanza plenaria ha evidenziato, anzitutto, che la concreta possibilità di percepire l’illegittimità del mancato inserimento nelle GAE sussisteva ben prima del parere del Consiglio di Stato 3813/2013 (e del suo recepimento con DPR 25 marzo 2014), non potendo questo aver determinato una riapertura generalizzata dei termini per presentare le domande e per impugnare il mancato inserimento. Dunque, l’efficacia abilitante (ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti prima e ad esaurimento poi) del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002 avrebbe dovuto essere fatta valere dagli interessati mediante, in primo luogo, la presentazione di una tempestiva domanda di inserimento e, in secondo luogo, a fronte del mancato inserimento, la proposizione nei termini di decadenza del ricorso giurisdizionale.
Nello specifico, il dies a quo per proporre impugnazione doveva essere individuato nella pubblicazione del DM 16 marzo 2007, con il quale, in attuazione dell’art. 1, co. 605, della L. 296/2006, veniva disposto il primo aggiornamento delle graduatorie permanenti, che la stessa legge aveva “chiuso” con il dichiarato fine di portarle ad esaurimento. “Il suddetto d.m. individuava, effettuando una ricognizione delle disposizioni legislative in materia, i requisiti di accesso alle graduatorie, senza contemplare il diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002. È questo, pertanto, il momento nel quale la lesione della posizione dei ricorrenti è (in ipotesi) maturata”.
Inoltre, ha sottolineato che non può essere sostenuta neanche l’efficacia erga omnes della sentenza della Sez. VI n. 1973/2015 che, annullando il DM 235/2014 nella parte in cui non consentiva l’iscrizione nelle GAE ai possessori del diploma magistrale conseguito entro l’a.s. 2001/2002, circoscriveva espressamente l’effetto di tale di annullamento solo a coloro che avevano presentato il ricorso accolto da quella sentenza. “E’ proprio tale esplicita e testuale delimitazione dell’ambito soggettivo di efficacia (chiaramente risultante dal dispositivo della sentenza) a escluderne la portata erga omnes”[24].
Infine, ha osservato che il ricorso risultava infondato anche nel merito, ossia con riferimento alla qualificazione del diploma magistrale come titolo abilitante, dal momento che manca una norma che riconosca il medesimo diploma, conseguito entro l’a.s. 2001/2002, come titolo legittimante per l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento.
Infatti, da un lato, il DPR 25 marzo 2014 ha riconosciuto esclusivamente il valore abilitante del titolo ai fini dell’inserimento nella II fascia delle graduatorie d’istituto e non anche ai fini dell’inserimento nelle GAE, dall’altro, la previsione contenuta nell’art. 15, co. 7, primo periodo, del DPR 23 luglio 1998, n. 323 – in base al quale “I titoli conseguiti nell’esame di Stato a conclusione dei corsi di studio dell’istituto magistrale iniziati entro l’anno scolastico 1997/1998 conservano in via permanente l’attuale valore legale e abilitante all’insegnamento nella scuola elementare” – deve essere correttamente interpretata tenendo conto della specificazione contenuta nel periodo immediatamente successivo –, secondo il quale “Essi consentono di partecipare ai concorsi per titoli ed esami a posti di insegnante nella scuola materna e nella scuola elementare” –, intendendo, dunque, che i diplomi magistrali conseguiti entro l’anno scolastico 2001/2002 consentono (senza necessità di conseguire anche il diploma di laurea) (solo) di partecipare ai concorsi per titoli ed esami a posti di insegnante nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria.
Peraltro, il collegio evidenzia che “sin dalla loro originaria configurazione le graduatorie permanenti (poi trasformate in graduatorie ad esaurimento) sono state riservate a docenti che vantassero un titolo abilitante ulteriore rispetto al titolo di studio: il superamento di un concorso per titoli ed esami oppure il superamento di una sessione riservata d’esami per coloro che avessero prestato servizio per almeno 360 giorni a decorrere dall’a.s. 1994-1995. Gli interventi normativi succedutesi nel tempo, pur ampliando la platea dei soggetti legittimati ad iscriversi, hanno, comunque, sempre fatto riferimento a categorie di docenti muniti di un titolo abilitante ulteriore rispetto al titolo di studio”.
La sentenza sottolinea, inoltre, che “Com’è stato ben evidenziato dall’Amministrazione nella relazione depositata in ottemperanza all’ordinanza istruttoria, ben 34.173 docenti si trovano nelle GAE per aver conseguito un titolo aggiuntivo rispetto al diploma magistrale, di cui 20.448 costituiscono gli idonei a precedenti concorsi per esami e titoli, 2.946 quelli abilitatisi attraverso i corsi riservati previsti dall’art. 2, comma 1, lett. c-bis d.l. 97/2004 (ai quali devono aggiungersi i 7.996 che si sono abilitati attraverso le suddette sessioni, ma non si trovano più attualmente nelle GAE perché assunti nelle more, o depennati per mancato aggiornamento), mentre i restanti hanno ottenuto il titolo d’accesso prescritto dalla legge attraverso le sessioni riservate del 1999 o mediante il possesso di altri titoli, quali ad esempio la Laurea in Scienza della Formazione Primaria”.
Con comunicato stampa del 4 gennaio 2018, il MIUR aveva chiarito che “la decisione assunta in Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 11/2017 non ha effetti immediati su tutte le situazioni giuridiche soggettive dei diplomati magistrali o dei controinteressati”.
In particolare, dal verbale dell’incontro fra le organizzazioni sindacali e il MIUR svoltosi il 4 gennaio 2018 risultava che i diplomati magistrali iscritti nelle GAE a seguito dei contenziosi sono più di 43.000, mentre erano più di 6.000 quelli che erano stati assunti in ruolo, pur se con riserva non essendo destinatari di sentenze passate in giudicato.
Aveva, altresì, evidenziato che “La decisione ha bensì la funzione di assicurare che i giudici amministrativi interpretino in maniera uniforme la normativa, in occasione delle future sentenze e tenuto conto che in passato vi erano stati diversi orientamenti giurisprudenziali”, e che, per poter ottemperare correttamente alla sentenza, già il 22 dicembre 2017 aveva avanzato una richiesta di chiarimenti all’Avvocatura generale dello Stato.
Infine, aveva chiarito che “la sentenza non ha invece alcun impatto, né immediato né futuro, sui diplomati magistrali, già di ruolo o ancora oggi iscritti nelle GAE, che risultavano già iscritti nelle Graduatorie permanenti nel momento in cui la legge n. 296 del 2006 le ha trasformate in Graduatorie ad esaurimento. Questi ultimi, infatti, per essere inclusi nelle GAE, avevano dovuto conseguire o l’idoneità in un concorso pubblico per titoli ed esami o frequentare e superare un corso straordinario organizzato dal MIUR finalizzato al conseguimento dell’idoneità per la scuola elementare o dell’abilitazione per la scuola materna, corso destinato esclusivamente a coloro che erano in possesso del diploma magistrale o di scuola magistrale e di determinati requisiti di servizio”.
Al riguardo, infatti, si ricorda che alcuni dei ricorsi avanzati per l’annullamento del DM 235/2014 risultano ancora pendenti.
A titolo di esempio, si vedano le ordinanze cautelari del TAR Lazio n. 4616 (ricorso n. 10467 del 2015) e n. 4617 (ricorso n. 10468 del 2015) del 5 agosto 2016 che, accogliendo l’istanza cautelare, hanno sospeso il DM 235/2014 ai fini dell’inserimento dei ricorrenti nelle GAE.
Articoli 5 e 6
(Limiti alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti e salvaguardia dei livelli occupazionali)
L’articolo 5 contiene norme volte a introdurre limiti alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti agli investimenti produttivi, intervenendo su quanto previsto in materia dall’articolo 1, commi 60 e 61 della legge di stabilità 2014. La norma dispone che le imprese italiane ed estere operanti nel territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio, decadano dal beneficio qualora l’attività economica interessata, o una sua parte, sia delocalizzata in Stati non appartenenti all’Unione europea, ad eccezione degli Stati aderenti allo Spazio economico europeo, entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata.
L’articolo 6 prevede la decadenza dalla fruizione di specifici benefici per le imprese - italiane ed estere, ma operanti nel territorio italiano - che, avendo beneficiato di aiuti di Stato che prevedano una valutazione dell’impatto occupazionale, non abbiano garantito il mantenimento di determinati livelli occupazionali.
Limiti alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti agli investimenti produttivi
La relazione illustrativa al provvedimento motiva l’introduzione della nuova disciplina sui limiti alla delocalizzazione in ragione della scarsa efficacia e del ridotto ambito di applicazione dei divieti previsti dalle citate disposizioni della legge di stabilità 2014.
Si ricorda in proposito che i commi 60 e 61 – che dall’articolo in esame non sono esplicitamente abrogati - dispongono in ordine alla decadenza dei contributi pubblici erogati in favore delle imprese in caso di delocalizzazione della loro attività produttiva. In particolare, l'art. 1, comma 60, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014), dispone che le imprese italiane ed estere operanti nel territorio nazionale beneficiarie di contributi pubblici in conto capitale, qualora, entro tre anni dalla concessione degli stessi, delocalizzino la propria produzione dal sito incentivato a uno Stato non appartenente all'Unione europea, con conseguente riduzione del personale di almeno il 50 per cento, decadano dal beneficio stesso e abbiano l'obbligo di restituire i contributi ricevuti. La disposizione trova applicazione ai contributi erogati a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di stabilità, dunque, dal 1° gennaio 2014.
Il successivo comma 61 demanda ai soggetti erogatori dei contributi la disciplina delle modalità e dei tempi di restituzione.
In attuazione della previsione in esame, è stata adottata la Direttiva del Ministero dello sviluppo economico - Dir. Stato 25 novembre 2015 – che, per ciò che concerne i contributi erogati dal MISE, stabilisce le modalità e i tempi di restituzione dei contributi in conto capitale erogati alle imprese in caso di delocalizzazione della produzione in uno Stato non appartenente all'Unione europea. La Direttiva definisce come "contributo in conto capitale": la forma di beneficio prevista dall'art. 7, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123, concesso ed erogato per la realizzazione di progetti e opere e per l'acquisto di beni strumentali con effetto durevole sull'impresa beneficiaria, calcolato in percentuale sul totale dell'investimento, non prevedente restituzione di capitale o pagamento di interessi.
L’articolo 7, comma 1, del D.Lgs. n. 123/1998 indica i seguenti interventi di sostegno pubblico alle imprese: il credito d'imposta, il bonus fiscale, secondo i criteri e le procedure previsti dall'articolo 1 del D.L. n. 244/1995 (concernente gli interventi per lo sviluppo nelle aree depresse), la concessione di garanzia, il contributo in conto capitale, il contributo in conto interessi, il finanziamento agevolato.
Quanto alla definizione di "delocalizzazione", la Direttiva precisa che essa consista nell’avvio, entro tre anni dalla concessione del beneficio, presso un'unità produttiva ubicata in uno Stato non appartenente all'Unione europea, della produzione di uno o più prodotti già realizzati con il sostegno pubblico in Italia, da parte della medesima impresa beneficiaria del contributo stesso o di altra impresa con la quale vi sia un rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell'art. 2359 del codice civile, in concomitanza con la riduzione dei livelli produttivi presso la predetta unità in Italia e la conseguente riduzione dell'occupazione pari almeno al 50 per cento. La direttiva inoltre specifica le tipologie di contributi cui essa non si applica.
L’articolo 5 in esame, al comma 1, dispone che le imprese italiane ed estere operanti nel territorio nazionale che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio, decadono dal beneficio stesso qualora l’attività economica interessata o una parte di essa venga delocalizzata in Stati non appartenenti all’Unione europea, ad eccezione degli Stati aderenti allo Spazio Economico europeo [25], entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata.
In caso di decadenza, l’amministrazione titolare della misura di aiuto, anche se priva di articolazioni periferiche, applica, ai sensi e con le procedure di cui alla legge n. 689/1981, anche la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma di importo da 2 a 4 volte quello dell’aiuto fruito.
In base alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), l'applicazione della sanzione avviene secondo il seguente procedimento:
- accertamento, contestazione-notifica al trasgressore;
- pagamento in misura ridotta o inoltro di memoria difensiva all'autorità amministrativa;
- archiviazione o emanazione di ordinanza ingiunzione di pagamento da parte dell'autorità amministrativa;
- eventuale opposizione all'ordinanza ingiunzione davanti all'autorità giudiziaria (giudice di pace o tribunale); accoglimento dell'opposizione, anche parziale o rigetto (sentenza ricorribile per cassazione);
- eventuale esecuzione forzata per la riscossione delle somme.
L’autorità competente all’irrogazione della sanzione è individuata nell'ufficio periferico cui sono demandati attribuzioni e compiti del Ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione o, in mancanza, al prefetto. Nelle materie di competenza delle regioni e negli altri casi, per le funzioni amministrative ad esse delegate, il rapporto è presentato all'ufficio regionale competente.
Dal punto di vista del procedimento, occorre innanzitutto che la violazione sia accertata dagli organi di controllo competenti o dalla polizia giudiziaria (art. 13). La violazione deve essere immediatamente contestata o comunque notificata al trasgressore entro 90 giorni (art. 14); entro i successivi 60 giorni l'autore può conciliare pagando una somma ridotta pari alla terza parte del massimo previsto o pari al doppio del minimo (cd. oblazione o pagamento in misura ridotta, art. 16). In caso contrario, egli può, entro 30 giorni, presentare scritti difensivi all'autorità competente; quest'ultima, dopo aver esaminato i documenti e le eventuali memorie presentate, se ritiene sussistere la violazione contestata determina l'ammontare della sanzione con ordinanza motivata e ne ingiunge il pagamento (cd. ordinanza-ingiunzione, art. 18). Entro 30 giorni dalla sua notificazione l'interessato può presentare opposizione all'ordinanza ingiunzione (che, salvo eccezioni, non sospende il pagamento), inoltrando ricorso all'autorità giudiziaria competente (art. 22, 22-bis). In base all'art. 6 del decreto-legislativo 150/2011, l'autorità giudiziaria competente sulla citata opposizione è il tribunale.
L'esecuzione dell'ingiunzione non viene sospesa e il giudizio che con esso si instaura si può concludere o con un'ordinanza di convalida del provvedimento o con sentenza di annullamento o modifica del provvedimento. Il giudice ha piena facoltà sull'atto, potendo o annullarlo o modificarlo, sia per vizi di legittimità che di merito. In caso di condizioni economiche disagiate del trasgressore, l'autorità che ha applicato la sanzione può concedere la rateazione del pagamento (art. 26) Decorso il termine fissato dall'ordinanza ingiunzione, in assenza del pagamento, l'autorità che ha emesso il provvedimento procede alla riscossione delle somme dovute con esecuzione forzata in base alle norme previste per l'esazione delle imposte dirette (art. 27). Il termine di prescrizione delle sanzioni amministrative pecuniarie è di 5 anni dal giorno della commessa violazione (art. 28).
Dunque, il comma 1 sanziona con la revoca del beneficio la delocalizzazione degli investimenti produttivi effettuata in paesi extra UE, operando in modo più estensivo rispetto a quanto previsto dal citato articolo 1, comma 60 della legge di stabilità 2014, il quale pone come presupposto della revoca anche la riduzione del livello occupazionale in conseguenza della delocalizzazione produttiva dal territorio interessato dal beneficio (cfr. supra, comma 60, L. stabilità 2014).
L’articolo in esame, sempre al comma 1, fa salvi in ogni caso i vincoli derivanti da accordi internazionali sottoscritti dal nostro Paese.
Si richiama, a tale proposito, l’accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC, o WTO secondo l’acronimo inglese), concluso a Marrakech il 15 aprile 1994 che da dal 1° gennaio dell’anno successivo ha preso il posto dell'Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (General Agreement on Tariffs and Trade – GATT).
L’OMC, che ha sede a Ginevra, è la maggiore entità multilaterale che sovrintende al commercio mondiale e ne stabilisce le regole e le tariffe doganali: è dotata di una propria personalità giuridica ed il suo ambito di competenza è più esteso di quello del GATT, poiché comprende non solo i beni commerciali, ma anche i servizi e le proprietà intellettuali.
Il principio principale sul quale si basa l’OMC è quello della non discriminazione tra gli stati membri. Da tale principio ne discende la regola della “nazione più favorita” (most favourite nation), la quale deve essere garantita ed applicata da tutti i membri dell’OMC verso gli altri membri dell'organizzazione.
L’azione dell’OMC è intesa:
· a migliorare le condizioni di accesso ai mercati, tramite la riduzione delle barriere artificiali che ostacolano i flussi commerciali;
· a promuovere la concorrenza leale, attraverso l'elaborazione e l’applicazione rigorosa delle normative in materia di commercio internazionale, volte ad evitare forme di concorrenza sleale quali il dumping od i sussidi alle esportazioni.
L’Italia ha ratificato l’accordo istitutivo dell’OMC con la legge 29 dicembre 1994, n. 747.
Il comma 2 dispone che, fuori dai casi previsti dal comma 1, le imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi specificamente localizzati ai fini dell’attribuzione del beneficio, decadono dal beneficio stesso qualora l’attività economica interessata o una parte di essa venga delocalizzata dal sito incentivato in favore di unità produttive situate al di fuori dell’ambito territoriale del predetto sito, in ambito nazionale, dell’Unione europea e degli Stati aderenti allo Spazio Economico Europeo, entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa o del completamento dell’investimento agevolato.
Il comma 2 fa in ogni caso salvi i vincoli derivanti dalla normativa europea.
Si osserva che il diritto dell’UE, conosce e legittima specifiche forme di sostegno e di aiuto ad investimenti produttivi a destinazione territoriale specifica. La ratio stessa della politica di coesione dell'Unione Europea è infatti quella di ridurre le disparità di sviluppo fra le regioni degli Stati membri e rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale; e le risorse finanziarie europee dei Fondi strutturali (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e, per i Paesi che ne beneficiano, Fondo di coesione) unitamente a quelle di cofinanziamento nazionale, attraverso le quali tale politica viene perseguita, sono precipuamente destinate alle regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) e alle cd. regioni in transizione (Abruzzo, Molise e Sardegna).
In proposito, il Regolamento (UE) n. 1303/2013 che contiene le regole di programmazione dei Fondi strutturali e di investimento europei (Fondi SIE) applicabili al periodo 2014-2020, all’articolo 70, dispone che le operazioni sostenute dai fondi SIE, fatte salve talune deroghe e le norme specifiche di ciascun fondo, sono ubicati nell'area del programma. Ai sensi del successivo articolo 71, nel caso di un'operazione che comporta investimenti in infrastrutture o investimenti produttivi, il contributo fornito dai fondi SIE è rimborsato laddove, entro cinque anni dal pagamento finale al beneficiario o entro il termine stabilito nella normativa sugli aiuti di Stato, ove applicabile, si verifichi, per quanto di interesse, la cessazione o rilocalizzazione di un'attività produttiva al di fuori dell'area del programma.
Anche la disciplina degli aiuti di stato a finalità regionale, ed in particolare il Regolamento UE n. 651/2014 General Block Exemption Regulations - GBER. prevede invero un obbligo di mantenimento dell’investimento nel territorio per un periodo di almeno tre anni per le PMI e di cinque anni per le grandi imprese (art. 14, par. 5 Reg. GBER). La normativa europea citata, che sostanzialmente prevede un divieto di delocalizzazione, trova la sua peculiare motivazione nella natura specifica e regionale dell’aiuto stesso, legittimata da una norma speciale del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (articolo 107, par. 3, lett. c)).
Si osserva che in tutti i casi testé citati, la normativa europea già prevede la revoca/restituzione del beneficio. Anche la normativa nazionale che disciplina la concessione di agevolazioni alle attività produttive in specifiche zone territoriali – come quelle in crisi o colpite da calamità – per il recupero e lo sviluppo del tessuto imprenditoriale nelle zone stesse, già prevede la revoca dei benefici nel caso di trasferimento all’estero dell’attività di impresa prima che sia trascorso un periodo di tempo determinato dalla data di ultimazione del programma di investimenti. Si richiama in proposito la normativa di sostegno alle aree industriali in crisi di cui alla legge n. 181/1989, come riformato dal successivo D.L. n. 83/2012 e dal D.L. n. 145/2013 e attuata dal decreto ministeriale 9 giugno 2015. Tale decreto, nello stabilire termini, modalità e procedure per la presentazione delle domande di accesso agli incentivi, disciplina altresì (articolo 16) la revoca totale o parziale delle agevolazioni nel caso vi sia un trasferimento all’estero dell’attività di impresa prima che siano trascorsi 3 anni dalla data di ultimazione del programma di investimento. Si richiama, inoltre, la disciplina degli interventi a favore delle micro, piccole e medie imprese nelle zone colpite dagli eventi sismici, in particolare l’art. 24 del D.L. n. 189/2016 e la relativa disciplina attuativa, contenuta nell’Ordinanza del presidente del Consiglio dei Ministri 14 novembre 2017, la quale all’articolo 15 già prevede la revoca dei benefici per cessazione dell'attività dell'impresa agevolata ovvero sua alienazione, totale o parziale, o concessione in locazione, o trasferimento all'estero prima che siano trascorsi tre anni dalla data di ultimazione del programma di investimento.
Il successivo comma 3 demanda a ciascuna amministrazione – per i bandi ed i contratti relativi alle misure di aiuto di propria competenza – la definizione dei tempi e delle modalità per il controllo del rispetto del vincolo di cui ai commi 1 e 2, nonché per la restituzione dei benefici fruiti in caso di accertamento della decadenza. L’importo del beneficio da restituire per effetto della decadenza è, comunque, maggiorato di un tasso di interesse pari al tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di erogazione o fruizione dell’aiuto, maggiorato di cinque punti percentuali.
Il comma 4 mantiene ferma l’applicazione, per i benefici già concessi o banditi, nonché per gli investimenti agevolati già avviati, anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, della disciplina vigente anteriormente alla medesima data, inclusa, nei casi ivi previsti la disciplina di cui all’articolo 1, comma 60 della legge di stabilità 2014.
Il riferimento del comma 4 alla normativa previgente fa ritenere che le disposizioni in esame determinino un superamento della disciplina esistente in materia, in particolare quella contenuta nell’articolo 1, commi 60 e 61 della legge di stabilità 2014, che non vengono però abrogati espressamente.
Il comma 5 dispone, inoltre, l’applicazione di quanto previsto dal comma 5 dell’articolo 9 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123, il quale istituisce il privilegio dello Stato sui crediti derivanti dalla restituzione dei benefici, ne disciplina le modalità di recupero mediante iscrizione a ruolo e prevede che le stesse somme recuperate affluiscano all’entrata del bilancio statale per essere interamente riassegnate e destinate a incrementare la disponibilità della misura di aiuto[26].
Il comma 6 definisce delocalizzazione il trasferimento di attività economica o di una sua parte dal sito produttivo incentivato ad altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa con la quale vi sia un rapporto di controllo ai sensi dell’articolo 2359 cc.
Ai sensi dell’articolo 2359 cc., sono considerate società controllate: 1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria[27]; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. Sono considerate collegate le società sulle quali un'altra società esercita un'influenza notevole. L'influenza si presume quando nell'assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati.
Quanto alla formulazione complessiva dell’articolo in esame, si osserva che esso fa riferimento alla revoca - in caso di delocalizzazione - dell’“aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio”, non specificando ulteriormente le tipologie di contributi pubblici di sostegno, in cui l’aiuto si sostanzia, che sono oggetto di revoca.
La disciplina contenuta nell’articolo 1 comma 60 della legge di stabilità 2014, invece, individua le tipologie di contributi pubblici oggetto di revoca, richiamando quelli in conto capitale erogati in favore delle imprese.
Si ricorda al riguardo che, ai sensi della Comunicazione della Commissione 2016/C 262/01, la nozione di aiuto di Stato è un “concetto giuridico oggettivo, definito direttamente dal Trattato” - articolo 107 TFUE, con il quale si fa riferimento a qualsiasi misura concessa mediante un intervento dello Stato o attraverso risorse pubbliche, atta ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri, che conferisce al beneficiario un vantaggio e falsa o minaccia di falsare la concorrenza.
Le quattro condizioni per cui un provvedimento agevolativo integra la fattispecie di cui al paragrafo 1 sono:
1. origine statale dell’aiuto (più precisamente, aiuto concesso sotto qualsiasi forma dallo Stato mediante risorse pubbliche);
2. esistenza di un vantaggio a favore di talune imprese o produzioni;
3. esistenza di un impatto sulla concorrenza;
4. idoneità ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri.
Si consideri che il divieto non ha un effetto prescrittivo diretto, nel senso che il riconoscimento dell’incompatibilità di un aiuto con il mercato interno avviene tramite un apposito procedimento di competenza della Commissione, ex articolo 108 TFUE[28].
Il Trattato affronta anche l’ipotesi di aiuti esistenti, nel senso che il controllo della Commissione ha carattere permanente: infatti, l’articolo 108 TFUE, par. 1, dispone che “la Commissione procede con gli Stati membri all'esame permanente dei regimi di aiuti esistenti in questi Stati. Essa propone a questi ultimi le opportune misure richieste dal graduale sviluppo o dal funzionamento del mercato interno”.
Posto dunque che l’articolo 107 stabilisce i principi di carattere generale per l’integrazione della fattispecie di aiuto di Stato vietato, ma che il riconoscimento effettivo della loro incompatibilità è in capo alla Commissione, il Trattato dispone che tale potere di accertamento sia esercitato sulla base di norme e procedure applicative del Trattato stesso.
Ai sensi dell’articolo 109 del TFUE, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può stabilire tutti i regolamenti utili ai fini dell'applicazione degli articoli 107 e 108 TFUE e fissare in particolare le condizioni per l'applicazione dell’obbligo di comunicazione (notifica) ex ante alla Commissione dell’aiuto da parte dello Stato membro, nonché le categorie di aiuti che sono dispensate da tale procedura.
A sua volta la Commissione, ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 4, può adottare regolamenti concernenti le categorie di aiuti di Stato per le quali il Consiglio ha stabilito, conformemente al citato articolo 109, che possono essere dispensate dalla procedura di notifica (cfr. il nuovo Regolamento UE n. 651/2014 General Block Exemption Regulations (GBER e, per il settore agricolo, nuovo Regolamento (UE) n. 702/2014 Agriculture Block Exemption Regulation (ABER), il regolamento sugli aiuti di importanza minore cd. "de minimis", Regolamento (UE) n. 1407/2013 e, per gli aiuti "de minimis" nel settore agricolo il Regolamento (UE) n. 1408/2013).
La Commissione poi, utilizza per prassi lo strumento della Comunicazione per elaborare “linee guida agli Stati membri” utili per delineare “gli schemi di intervento pubblico nell’economia nazionale in particolari ambiti”.
Salvaguardia dei livelli occupazionali
L’articolo 6 prevede la decadenza dalla fruizione di specifici benefici per le imprese - italiane ed estere, ma operanti nel territorio italiano - che, avendo beneficiato di aiuti di Stato che prevedano una valutazione dell’impatto occupazionale, non abbiano garantito il mantenimento di determinati livelli occupazionali.
La decadenza, che comporta la revoca, totale o parziale, dei benefici concessi (comma 1), è disposta qualora, ad esclusione dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo[29] (si dovrebbero intendere in proposito le ragioni dirette ad una migliore efficienza gestionale, ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, che determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di posti di lavoro), le imprese richiamate riducano i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva (o all’attività interessata dal beneficio) nei 5 anni successivi alla data di completamento dell’investimento in una percentuale superiore al 10%. La decadenza dal beneficio è disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale ed è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50%.
In proposito, si segnala che il testo, con riferimento all’entità della revoca parziale dei benefici in relazione alla riduzione del livello occupazionale compresa tra il 10% ed il 50%, definendo “proporzionale” tale riduzione sembra indicare una diretta correlazione in termini proporzionali tra l’entità della riduzione di personale e la suddetta revoca dei benefici.
Ai sensi del comma 2, per le restituzioni dei benefici si applicano le disposizioni di cui al precedente articolo 5, commi 3 e 5, alle cui schede si rimanda.
Infine (comma 3), le disposizioni dell’articolo 5 si applicano ai benefici concessi successivamente alla data di entrata in vigore del provvedimento in esame.
Al riguardo, la relazione illustrativa allegata al provvedimento evidenzia che la norma in esame non comporta nuovi oneri per il bilancio dello Stato, in quanto essa viene attuata da ciascuna amministrazione pubblica che gestisce la misura interessata con le risorse umane e strumentali già dedicate alla medesima misura.
Si ricorda che il Regolamento (UE) 1309/2013 ha istituito il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG), con dotazione massima di 150 milioni di euro e lo scopo (per la durata del quadro finanziario pluriennale 2014-2020) di offrire sostegno ai soggetti (lavoratori collocati in esubero e lavoratori autonomi con attività cessata in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio globale dovute alla globalizzazione, anche in riferimento al persistere della crisi finanziaria globale del 2008 o di una nuova crisi finanziaria ed economica globale) che hanno perso il lavoro a seguito di importanti mutamenti strutturali del commercio mondiale dovuti alla globalizzazione (ad esempio in caso di chiusura di un'impresa o delocalizzazione di una produzione in un paese extra UE).
Le azioni che beneficiano dei contributi finanziari hanno il fine di garantire che il maggior numero possibile dei beneficiari trovino un’occupazione sostenibile.
Per beneficiario si intende:
un lavoratore il cui contratto di lavoro si sia concluso anticipatamente per collocamento in esubero oppure giunto a scadenza nel corso del periodo quadrimestrale di riferimento e non rinnovato;
un lavoratore autonomo che abbia impiegato un massimo di 10 lavoratori che erano stati collocati in esubero nell'ambito di applicazione del provvedimento e la cui attività sia cessata, a condizione che quest'ultima dipendesse in maniera dimostrabile dall'impresa.
L’aiuto consiste in un contributo finanziario a valere sul FEG quando si verifichino le condizioni in precedenza richiamate che abbiano come conseguenza[30]:
il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell’attività di lavoratori autonomi, nell'arco di un periodo di riferimento di 4 mesi, in un'impresa di uno Stato membro, compresi i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata alle imprese dei fornitori o dei produttori a valle dell'impresa in questione;
il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell'attività di lavoratori autonomi, nell'arco di un periodo di riferimento di 9 mesi, in particolare in PMI, tutte operanti nello stesso settore economico.
Si ricorda, infine, che la Commissione europea ha recentemente presentato una proposta di modifica del regolamento - (COM(2018)380) - che prevede, tra l'altro, l'abbassamento della soglia dei lavoratori collocati in esubero da 500 a 250.
Negli orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionale 2014-2020, ossia quelli compatibili con il mercato interno ai sensi dell'articolo 107, lettere a) e c), la Commissione europea ha stabilito le norme in base alle quali gli Stati membri possono concedere aiuti di Stato alle imprese per sostenere investimenti in nuovi impianti di produzione nelle regioni meno avvantaggiate d'Europa o per ampliare o modernizzare impianti esistenti. L'obiettivo di tali aiuti è di sostenere lo sviluppo economico e l'occupazione. Tali orientamenti contengono disposizioni specifiche che garantiscono che l'investimento per cui si riceve l'aiuto rappresenti un contributo reale e sostenibile allo sviluppo della regione interessata. Tali norme prescrivono che l'investimento debba essere mantenuto in essere nella regione interessata per un periodo minimo di cinque anni dopo il suo completamento (tre anni nel caso di piccole e medie imprese). Gli orientamenti prevedono inoltre norme in base alle quali gli Stati membri possono elaborare carte degli aiuti a finalità regionale che si applicano per tutto il periodo di validità degli orientamenti. Le carte individuano le aree geografiche in cui le imprese possono ricevere questo tipo di aiuti, ed in quale percentuale dei costi d'investimento ammissibili (intensità di aiuto). I costi ammissibili rappresentano la parte dei costi complessivi di investimento che può essere presa in considerazione per il calcolo dell'aiuto. La Carta degli aiuti a finalità regionale dell'Italia è stata approvata nel 2014 e modificata nel 2016.
Articolo 7
(Recupero iperammortamento in caso di
delocalizzazione degli investimenti)
L’articolo 7 subordina l’applicazione dell’iperammortamento fiscale alla condizione che il processo di trasformazione tecnologica e digitale delle imprese, su cui si fonda l’agevolazione, riguardi strutture produttive situate nel territorio nazionale, ivi incluse le stabili organizzazioni di soggetti non residenti.
L’iperammortamento
Si ricorda che l’articolo 1, comma 9 della legge di bilancio 2017 ha introdotto il beneficio dell’iperammortamento per gli investimenti, effettuati fino al 31 dicembre 2017 (ovvero entro il 30 settembre 2018 a specifiche condizioni), in beni materiali strumentali nuovi ad alto contenuto tecnologico atti a favorire i processi di trasformazione tecnologica e digitale secondo il modello Industria 4.0 (inclusi nell'allegato A della legge di bilancio 2017).
L'espressione Industria 4.0 indica un processo generato da trasformazioni tecnologiche nella progettazione, nella produzione e nella distribuzione di sistemi e prodotti manifatturieri e finalizzato alla produzione industriale automatizzata e interconnessa.
La misura consiste in una maggiorazione del costo di acquisizione di specifici beni pari al 150 per cento, che consente in tal modo di ammortizzare un valore pari al 250 per cento del costo di acquisto. Disposto inizialmente per l’anno 2017, tale beneficio è stato esteso al 2018 dall’articolo 1, comma 30 della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018) per i medesimi beni. In particolare, l’iperammortamento è riconosciuto per gli investimenti effettuati entro il 31 dicembre 2018 ovvero fino al 31 dicembre 2019, a condizione che entro la data del 31 dicembre 2018 l’ordine risulti accettato dal venditore e sia avvenuto il pagamento di acconti in misura almeno pari al 20 per cento del costo di acquisizione. Per i soggetti che beneficiano della maggiorazione 2018, l’iperammortamento 2017 si applica anche agli investimenti in beni immateriali strumentali effettuati nel periodo 1 gennaio - 31 dicembre 2018, ovvero fino al 31 dicembre 2019 a specifiche condizioni e, cioè: che entro la data del 31 dicembre 2018 il relativo ordine risulti accettato dal venditore e sia avvenuto il pagamento di acconti in misura almeno pari al 20 per cento del costo di acquisizione.
Inoltre l’articolo 1, comma 31 della legge di bilancio 2018 ha prorogato per lo stesso anno la maggiorazione del 40 per cento del costo di acquisizione dei beni immateriali (software) funzionali alla trasformazione tecnologica secondo il modello Industria 4.0: tale maggiorazione si applica ai soggetti che usufruiscono dell’iperammortamento 2018. Il successivo comma 32 ha modificato l’elenco dei beni materiali strumentali cui si applica l’iperammortamento, includendovi alcuni sistemi di gestione per l’e-commerce e specifici software e servizi digitali.
La misura si inquadra nel solco delle agevolazioni fiscali connesse a Industria 4.0. Accanto all’iperammortamento, per completezza si ricorda la legge di bilancio 2016 ha introdotto il cd. superammortamento, che innalza (per il 2018, nella misura del 30 per cento) le quote di ammortamento e dei canoni di locazione finanziaria di beni strumentali, a fronte di investimenti in beni materiali strumentali nuovi. La misura è stata prorogata dalle leggi di bilancio 2017 e 2018.
Il comma 1 dell’articolo in commento fa riferimento al territorio nazionale di cui all’articolo 6, comma 1.
Si ricorda che l’articolo 6 prevede la decadenza dalla fruizione di specifici benefici per le imprese - italiane ed estere, ma operanti nel territorio italiano - che, avendo beneficiato di aiuti di Stato che prevedano una valutazione dell’impatto occupazionale, non abbiano garantito il mantenimento di determinati livelli occupazionali.
Ai sensi del comma 2, se nel periodo di fruizione del beneficio (che consiste, come si è detto, nella maggiorazione del costo a fini fiscali, dunque, in un aumento dell’ammontare deducibile dal reddito) i beni agevolati vengono ceduti a titolo oneroso o destinati a strutture produttive situate all’estero, anche se appartenenti alla stessa impresa, si procede al recupero dell’iperammortamento.
Tale recupero avviene attraverso una variazione in aumento del reddito imponibile del periodo d’imposta in cui si verifica la cessione a titolo oneroso o la delocalizzazione degli investimenti agevolati, per un importo pari alle maggiorazioni delle quote di ammortamento complessivamente dedotte nei precedenti periodi d’imposta, senza applicazione di sanzioni e interessi.
Come ricordato, la legge n. 2015 del 2017 ha prorogato al 2018 anche la maggiorazione del 40 per cento del costo di acquisizione dei beni immateriali (software) funzionali alla trasformazione tecnologica secondo il modello Industria 4.0, che si applica a chi usufruisce dell’iperammortamento.
Sembrerebbe opportuno chiarire se – come sembra evincersi dal tenore letterale della norma – nel caso di revoca dell’iperammortamento ai sensi dell’articolo in esame, detta revoca si estende anche all’ulteriore agevolazione riguardante i beni immateriali.
Si ricorda in questa sede che la legge di bilancio 2018 (comma 1010) ha modificato la nozione di stabile organizzazione a fini fiscali, per allentare il nesso tra presenza fisica di un'attività nel territorio dello Stato e assoggettabilità alla normativa fiscale.
E’ stato in particolare novellato l'articolo 162 del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir, DPR 22 dicembre 1986, n. 917). Per ulteriori informazioni si rinvia al dossier predisposto per la legge di bilancio 2018.
Per effetto delle modifiche apportate, rientrano nella definizione di stabile organizzazione anche le entità caratterizzate da una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato, costruita in modo tale da non farne risultare una consistenza fisica nel territorio stesso (articolo 162, comma 2, nuova lettera f?bis), Tuir). Il riferimento agli elementi della stabilità, della ricorrenza e della dimensione economica dell'attività hanno la finalità dichiarata di impedire, ad opera dei contribuenti, manipolazioni che impediscano la qualificazione di stabile organizzazione. Sono state modificate dettagliatamente anche le ipotesi di esclusione della presenza di una stabile organizzazione a fini fiscali.
Il comma 3 fissa la decorrenza delle norme suesposte: esse si applicano agli investimenti effettuati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto-legge, ovvero successivamente al 14 luglio 2018.
Il comma 4 dell’articolo intende coordinare le nuove disposizioni con la disciplina dei c.d. investimenti sostituivi.
Tale disciplina è stata introdotta dai commi 35 e 36 dell’articolo 1 della legge n. 205 del 2017 e prevede che non venga meno il beneficio dell’iperammortamento - per le quote residue - se il bene originariamente agevolabile viene sostituito nel tempo con un bene materiale strumentale nuovo (avente caratteristiche tecnologiche analoghe), purché il nuovo abbia caratteristiche tecnologiche analoghe o superiori e siano soddisfatte le altre condizioni di legge. Nel caso di investimenti sostitutivi, il comma 4 in esame impedisce che si applichi la revoca dell’agevolazione (di cui al comma 2), anche in caso di delocalizzazione.
Gli investimenti sostitutivi
I richiamati commi 35 e 36 intendono evitare che il beneficio dell’iperammortamento interferisca, negli esercizi successivi, con le scelte di investimento più opportune che l’impresa possa aver esigenza di compiere al fine di mantenere il livello di competitività raggiunto: la norma contempla l’ipotesi che si il bene agevolato sia realizzato a titolo oneroso (ad esempio, per la necessità di sostituire i beni agevolati con beni più performanti, nella prospettiva di accrescere il livello di competitività tecnologica perseguito e raggiunto secondo il modello Industria 4.0, come chiarito dalla Relazione illustrativa). In tali casi si prevede che il beneficio non venga meno per le residue quote, come determinate in origine, purché nel medesimo periodo d’imposta del realizzo l’impresa:
· sostituisca il bene originario con un bene materiale strumentale nuovo avente caratteristiche tecnologiche analoghe o superiori a quelle previste dall’allegato a alla legge 11 dicembre 2016, n. 232;
· attesti l’effettuazione dell’investimento sostitutivo, le caratteristiche del nuovo bene e il requisito dell’interconnessione, secondo le regole previste dal citato articolo 1, comma 11, della legge 11 dicembre 2016, n. 232.
Di conseguenza, la sostituzione non determina la revoca dell’agevolazione a condizione che il bene nuovo abbia caratteristiche tecnologiche analoghe o superiori a quelle previste dall’allegato A alla legge n. 232 del 2016 e che siano soddisfatte le condizioni documentali richieste dalla legge per l’investimento originario (dichiarazione resa dal legale rappresentante, perizia tecnica giurata o attestato di conformità).
Il comma 36 contempla anche l’ipotesi in cui l’investimento sostitutivo sia di costo inferiore a quello del bene originario; in tal caso, ferme restando le altre condizioni oggettive e documentali richieste, si prevede che il beneficio calcolato in origine debba essere ridotto in corrispondenza del minor costo agevolabile.
Articolo 8
(Credito d’imposta ricerca e sviluppo per acquisto
da fonti esterne di beni immateriali)
L'articolo 8 esclude dal credito d'imposta per attività di ricerca e sviluppo (previsto dal decreto-legge n. 145 del 2013) taluni costi di acquisto - anche in licenza d'uso - di beni immateriali connessi ad operazioni infragruppo. Si tratta, in particolare, di spese relative a competenze tecniche e privative industriali. La disposizione trova applicazione a decorrere dal periodo d'imposta in corso al 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del decreto-legge in esame).
In sintesi, l'articolo 3 del decreto-legge n. 145 del 2013 prevede un credito di imposta a favore delle imprese che investono in attività di ricerca e sviluppo a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020. Destinatari dell’agevolazione sono tutte le imprese indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore economico in cui operano e dal regime contabile adottato. La misura del credito d’imposta è pari al 50 per cento delle spese incrementali sostenute rispetto alla media dei medesimi investimenti calcolati secondo specifici criteri (cfr. infra).
A seguito delle modifiche introdotte dalla legge di bilancio 2017 (commi 15 e 16 della legge n. 232 del 2016), il credito d’imposta può essere utilizzato anche dalle imprese residenti o dalle stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti che eseguono le attività di ricerca e sviluppo nel caso di contratti stipulati con imprese residenti o localizzate in altri Stati membri dell’Unione europea, negli Stati aderenti all’accordo sullo Spazio economico europeo ovvero in Stati con i quali è attuabile lo scambio di informazioni ai sensi delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni (decreto del Ministro delle finanze 4 settembre 1996, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 220 del 19 settembre 1996).
Ai fini del riconoscimento del credito d’imposta le spese sostenute per attività di ricerca e sviluppo devono almeno ammontare a 30 mila euro, mentre l’importo massimo annuale riconosciuto a ciascun beneficiario è pari a 20 milioni di euro.
I commi 4 e 5 dell'articolo 3 elencano le attività di ricerca e sviluppo ammissibili al credito d'imposta e quelle che, invece, non possono essere considerate tali (cfr. infra). Il comma 6 reca l’indicazione (lettere da a) a d)) delle spese ammissibili ai fini della determinazione del credito d’imposta.
L'articolo 8, comma 1, esclude dal beneficio i costi sostenuti per l'acquisto, anche in licenza d'uso, di taluni beni immateriali derivanti da operazioni tra imprese del medesimo gruppo.
Si tratta, in particolare, delle spese relative a competenze tecniche e privative industriali relative a un'invenzione industriale o biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale, anche acquisite da fonti esterne (articolo 3, comma 6, lettera d) del decreto-legge n. 145 del 2013).
L'Agenzia delle entrate, con la circolare n. 5/E del 2016 (paragrafo par. 2.2.4), aveva ricondotto alla voce “competenze tecniche” i costi sostenuti per il “personale non altamente qualificato” impiegato nelle attività di ricerca eleggibili. Successivamente, con la circolare n. 13/E del 2017, a seguito delle novità introdotte dalla legge di bilancio 2017, è stato chiarito che i costi per il personale non altamente qualificato dovevano essere ricondotti alla categoria generale delle spese per il personale di cui all’articolo 3, comma 6, lettera a) del decreto-legge n. 145 del 2013.
Ciò posto, l'Agenzia delle entrate precisa che nella voce in questione rientrano le spese per l’acquisto di quei beni immateriali, già esistenti sul mercato, per la realizzazione dei quali sono state impiegate competenze tecniche specialistiche che non sono oggetto di “contratto di ricerca extra-muros” di cui all’articolo 3, comma 6, lettera c), dello stesso decreto-legge, in quanto finalizzati alla creazione di prodotti, processi o servizi nuovi o sensibilmente migliorati.
Tra le spese relative alle “competenze tecniche” possono dunque rientrare, a titolo esemplificativo, quelle sostenute per l’acquisizione di conoscenze e informazioni tecniche (beni immateriali) quali ad esempio le spese per conoscenze tecniche riservate, risultati di ricerche già effettuate da terzi, “contratti di know how”, “licenze di know how”, programmi per elaboratore tutelati da diritto d’autore (software coperti da copyright) - diverse dalle “privative industriali”, comunque finalizzate alle attività di ricerca e sviluppo ammissibili.
Il comma in esame, inoltre, riconduce alla nozione di imprese appartenenti al medesimo gruppo, le imprese controllate da medesimo soggetto, controllanti o collegate, come definite dall'art. 2359 del codice civile.
Quanto alle persone fisiche, si tiene conto anche di partecipazioni, titoli o diritti detenuti da un familiare dell'imprenditore.
Ai sensi dell'art. 2359 c.c., sono controllate:
1. le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2. le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;
3. le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
In relazione ai numeri 1) e 2), si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a interposta persona, mentre non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
Sono considerate collegate le società sulle quali un'altra società esercita un'influenza notevole, quando cioè nell'assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati.
Per la nozione di familiare, il comma in esame rinvia all'articolo 5, comma 5, del TUIR (decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986), dovendosi perciò intendere il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
Il comma 2 stabilisce che l'esclusione dal beneficio trovi applicazione a decorrere dal periodo d'imposta in corso al 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del presente decreto-legge) in deroga alle disposizioni sull'efficacia temporale delle norme tributarie dettate dallo Statuto del contribuente (legge n. 212 del 2000).
L'articolo 3 dello Statuto del contribuente stabilisce che le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo; con riferimento a tributi di carattere periodico, le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono.
L'entrata in vigore così determinata si applica anche in relazione ai periodi di imposta da considerare nel calcolo della media di raffronto. A tale proposito si rammenta, come sopra anticipato, che la misura del credito d’imposta è pari al 50 per cento delle spese incrementali sostenute rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi di imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2015. Per le imprese in attività da meno di tre periodi d'imposta, la media degli investimenti in attività di ricerca e sviluppo da considerare per il calcolo della spesa incrementale è calcolata sul minor periodo a decorrere dal periodo di costituzione.
Restano esclusi dal beneficio i costi già attribuiti all'impresa italiana in relazione alla partecipazione ai progetti di ricerca e sviluppo relativi ai beni oggetto di acquisto, anche nell'ambito di operazioni infragruppo condotte nei periodi di imposta precedenti a quello di prima applicazione della norma in esame.
Il comma 3 ribadisce la condizione secondo cui, ai fini del credito di imposta, i costi sostenuti assumono rilevanza solo se i beni immateriali acquisiti vengono utilizzati direttamente ed esclusivamente nello svolgimento delle attività di ricerca e sviluppo considerate ammissibili al beneficio.
Le attività di ricerca e sviluppo ammissibili sono (art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 145 del 2013):
a) lavori sperimentali o teorici svolti aventi quale principale finalità l’acquisizione di nuove conoscenze sui fondamenti di fenomeni e di fatti osservabili, senza che siano previste applicazioni o utilizzazioni pratiche dirette;
b) ricerca pianificata o indagini critiche miranti ad acquisire nuove conoscenze, da utilizzare per mettere a punto nuovi prodotti, processi o servizi o permettere un miglioramento dei prodotti, processi o servizi esistenti ovvero la creazione di componenti di sistemi complessi, necessaria per la ricerca industriale, ad esclusione dei prototipi;
c) acquisizione, combinazione, strutturazione e utilizzo delle conoscenze e capacità esistenti di natura scientifica, tecnologica e commerciale allo scopo di produrre piani, progetti o disegni per prodotti, processi o servizi nuovi, modificati o migliorati. Può trattarsi anche di altre attività destinate alla definizione concettuale, alla pianificazione e alla documentazione concernenti nuovi prodotti, processi e servizi; tali attività possono comprendere l’elaborazione di progetti, disegni, piani e altra documentazione, purché non siano destinati a uso commerciale; realizzazione di prototipi utilizzabili per scopi commerciali e di progetti pilota destinati a esperimenti tecnologici o commerciali, quando il prototipo è necessariamente il prodotto commerciale finale e il suo costo di fabbricazione è troppo elevato per poterlo usare soltanto a fini di dimostrazione e di convalida;
d) produzione e collaudo di prodotti, processi e servizi, a condizione che non siano impiegati o trasformati in vista di applicazioni industriali o per finalità commerciali.
Articolo 9
(Divieto di pubblicità giochi e scommesse)
L’articolo 9, facendo salve le restrizioni già introdotte dal legislatore, vieta qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse, comunque effettuata e su qualunque mezzo; per i contratti di pubblicità in corso al 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del decreto-legge in esame) si prevede che continui ad applicarsi la normativa previgente, fino alla loro scadenza, e comunque per non oltre un anno dalla medesima data. La disposizione, a partire dal 1° gennaio 2019, estende il divieto di pubblicizzare giochi e scommesse anche alle sponsorizzazioni. La violazione dei divieti comporta la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma pari al 5% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e, in ogni caso, non inferiore a 50 mila euro per ogni violazione. Viene innalzata, infine, la misura del prelievo erariale unico sugli apparecchi idonei per il gioco lecito per provvedere agli oneri derivanti dall’articolo.
L’articolo 9, al comma 1, introduce il divieto di qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, che riguardi giochi o scommesse con vincite di denaro, in qualsiasi modo effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali e artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e internet.
Questo divieto, a carattere generale, si affianca alle restrizioni già introdotte dal legislatore alla pubblicità di giochi e scommesse, che vengono espressamente fatte salve. Si tratta in particolare:
§ della disciplina che vieta i messaggi pubblicitari concernenti il gioco con vincite in denaro nelle trasmissioni televisive e radiofoniche e nelle pubblicazioni rivolte ai minori (art. 7, comma 4, D.L. n. 158 del 2012, c.d. decreto Balduzzi);
Sono inoltre vietati i messaggi pubblicitari di giochi con vincite in denaro su giornali, riviste, pubblicazioni, durante trasmissioni televisive e radiofoniche, rappresentazioni cinematografiche e teatrali, nonché via internet, che incitano al gioco ovvero ne esaltano la sua pratica, ovvero che hanno al loro interno dei minori, ovvero che non avvertono del rischio di dipendenza dalla pratica del gioco. La pubblicità dei giochi che prevedono vincite in denaro deve riportare in modo chiaramente visibile la percentuale di probabilità di vincita che il soggetto ha nel singolo gioco pubblicizzato
§ della disciplina che impone formule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in denaro, nonché le relative probabilità di vincita, sui tagliandi dei giochi, sulle slot machine e sulle videolottery (art. 7, comma 5, D.L. n. 158 del 2012, c.d. decreto Balduzzi);
§ della disciplina che, presupponendo la legittimità della pubblicità di giochi e scommesse, ne vieta specifiche modalità: ad esempio, vieta la pubblicità che incoraggia il gioco eccessivo o incontrollato, che nega che il gioco possa comportare dei rischi, che omette di rendere esplicite le modalità e le condizioni per la fruizione di incentivi o bonus, che presenta o suggerisce che il gioco sia un modo per risolvere problemi finanziari o personali, ovvero che costituisca una fonte di guadagno o di sostentamento alternativa al lavoro, che induce a ritenere che l'esperienza o l'abilità del giocatore permetta di ridurre o eliminare l'incertezza della vincita, che si rivolge o fa riferimento ai minori, che rappresenta l'astensione dal gioco come un valore negativo, che fa riferimento a servizi di credito al consumo immediatamente utilizzabili ai fini del gioco (art. 1, comma 938 della legge n. 208 del 2015, legge di stabilità 2016);
§ della disciplina che vieta la pubblicità di giochi con vincita in denaro nelle trasmissioni c.d. generaliste, nella fascia oraria dalle 7 alle 22 di ogni giorno (art. 1, comma 939 della legge n. 208 del 2015, legge di stabilità 2016).
Sono esclusi dal divieto i media specializzati, nonché le lotterie nazionali a estrazione differita, le sponsorizzazioni nei settori della cultura, della ricerca, dello sport, della sanità e dell'assistenza. Con il D.M. 19 luglio 2016 sono stati individuati i media specializzati ai fini della pubblicità di giochi con vincite in denaro.
Si ricorda infine che le norme introdotte dalla predetta legge di stabilità 2016 (commi 937-940) demandano a un decreto ministeriale (non emanato) l’attuazione ai principi previsti dalla Raccomandazione della Commissione europea 2014/478/UE la quale incoraggia gli Stati membri a realizzare un livello elevato di protezione per i consumatori, gli utenti e i minori grazie all'adozione di principi relativi ai servizi di gioco d'azzardo on-line e alla correlata attività di pubblicità e sponsorizzazione. Detti principi mirano a salvaguardare la salute e a ridurre al minimo gli eventuali danni economici che possono derivare dal gioco d'azzardo eccessivo o compulsivo.
Si valuti l’opportunità di riconsiderare la clausola di salvezza della normativa vigente a fronte dell’introduzione di un generale divieto di qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta e comunque effettuata su qualunque mezzo. La normativa vigente, che il decreto-legge fa espressamente salva («fermo restando quanto previsto….»), infatti, nel presupporre la liceità del messaggio pubblicitario di giochi e scommesse non appare compatibile con il divieto generale introdotto dal decreto-legge.
Per i contratti di pubblicità in corso al 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del decreto-legge in esame), continua ad applicarsi la normativa previgente (c.d. decreto Balduzzi e legge di stabilità 2016) fino alla loro scadenza, e comunque per non oltre un anno dalla medesima data, procrastinando dunque l’efficacia del divieto fino a tale data (comma 5).
A partire 1° gennaio dal 2019, inoltre, il divieto si estende anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni, programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive e acustiche, e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attività o prodotti. Sono esclusi dal divieto le lotterie nazionali a estrazione differita, le manifestazioni di sorte locali, lotterie, tombole e pesche o banchi di beneficenza (di cui all’articolo 13 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 2001, n. 430), e i loghi sul gioco sicuro e responsabile dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli.
Il comma 2 dell’articolo 9 introduce sanzioni amministrative pecuniarie a carico del committente della pubblicità, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, dell’evento o dell’attività, che violino i divieti del comma 1. A tali soggetti si applica la sanzione pecuniaria del pagamento di una somma pari al 5% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e, in ogni caso, non inferiore, per ogni violazione, a 50 mila euro.
Anche nella previsione di sanzioni amministrative, il decreto-legge fa salva la normativa vigente di cui al citato D.L. n. 158/2012 (articolo 7, comma 6), in base alla quale il committente del messaggio pubblicitario del gioco con vincite in denaro rivolte ai minori e il proprietario del mezzo con cui il medesimo messaggio pubblicitario è diffuso vengono sanzionati entrambi con una sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 mila euro. Analoga sanzione si applica per la violazione delle disposizioni introdotte dalla legge di stabilità 2016 relative a caratteristiche del messaggio e fasce orarie di trasmissione (ex art. 1, comma 940, legge n. 208/2015). L'inosservanza dell’inserimento di formule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in denaro, invece, dà luogo all’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria pari a 50 mila euro, irrogata nei confronti del concessionario.
Dalla clausola che fa salve le sanzioni amministrative previste dal Decreto Balduzzi, deriva che la violazione della disciplina sui messaggi pubblicitari rivolti ai minori (sanzionata con il pagamento di una somma da 100 a 500 mila euro) configura, con l’entrata in vigore del decreto-legge, anche una violazione del generale divieto di pubblicizzare giochi e scommesse (sanzionata con il pagamento di una somma pari al 5% del valore della pubblicità e, in ogni caso, non inferiore, per ogni violazione, a 50 mila euro), con conseguente cumulo giuridico di sanzioni. In merito, l’articolo 8 della legge n. 689 del 1981, espressamente richiamata dalla disposizione in commento, stabilisce al comma 1 che «salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo».
La previsione al comma 2 di una sanzione amministrativa calcolata in misura percentuale rispetto al valore della sponsorizzazione o della pubblicità rende impossibile individuare in astratto quale sia – tra l’art. 7, co. 6, del D.L. 158/2012 e l’art. 9 in commento – la violazione più grave.
Il comma 3 individua nell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni l’autorità competente alla contestazione e alla irrogazione delle predette sanzioni amministrative, ai sensi della legge n. 689 del 1981.
In base alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), l'applicazione della sanzione avviene secondo il seguente procedimento:
- accertamento, contestazione-notifica al trasgressore;
- pagamento in misura ridotta o inoltro di memoria difensiva all'autorità amministrativa;
- archiviazione o emanazione di ordinanza ingiunzione di pagamento da parte dell'autorità amministrativa;
- eventuale opposizione all'ordinanza ingiunzione davanti all'autorità giudiziaria (giudice di pace o tribunale); accoglimento dell'opposizione, anche parziale o rigetto (sentenza ricorribile per cassazione);
- eventuale esecuzione forzata per la riscossione delle somme.
Dal punto di vista del procedimento, occorre innanzitutto che la violazione sia accertata dagli organi di controllo competenti o dalla polizia giudiziaria (art. 13). La violazione deve essere immediatamente contestata o comunque notificata al trasgressore entro 90 giorni (art. 14); entro i successivi 60 giorni l'autore può conciliare pagando una somma ridotta pari alla terza parte del massimo previsto o pari al doppio del minimo (cd. oblazione o pagamento in misura ridotta, art. 16). In caso contrario, egli può, entro 30 giorni, presentare scritti difensivi all'autorità competente; quest'ultima, dopo aver esaminato i documenti e le eventuali memorie presentate, se ritiene sussistere la violazione contestata determina l'ammontare della sanzione con ordinanza motivata e ne ingiunge il pagamento (cd. ordinanza-ingiunzione, art. 18). Entro 30 giorni dalla sua notificazione l'interessato può presentare opposizione all'ordinanza ingiunzione (che, salvo eccezioni, non sospende il pagamento), inoltrando ricorso all'autorità giudiziaria competente (art. 22, 22-bis). In base all'art. 6 del decreto-legislativo 150/2011, l'autorità giudiziaria competente sulla citata opposizione è il tribunale. L'esecuzione dell'ingiunzione non viene sospesa e il giudizio che con esso si instaura si può concludere o con un'ordinanza di convalida del provvedimento o con sentenza di annullamento o modifica del provvedimento. Il giudice ha piena facoltà sull'atto, potendo o annullarlo o modificarlo, sia per vizi di legittimità che di merito. In caso di condizioni economiche disagiate del trasgressore, l'autorità che ha applicato la sanzione può concedere la rateazione del pagamento (art. 26) Decorso il termine fissato dall'ordinanza ingiunzione, in assenza del pagamento, l'autorità che ha emesso il provvedimento procede alla riscossione delle somme dovute con esecuzione forzata in base alle norme previste per l'esazione delle imposte dirette (art. 27). Il termine di prescrizione delle sanzioni amministrative pecuniarie è di 5 anni dal giorno della commessa violazione (art. 28).
Il comma 4 destina le risorse provenienti dalle sanzioni amministrative comminate in base ai commi precedenti, all’apposito capitolo dello stato di previsione della spesa del Ministero della salute, finalizzate ad incrementare il Fondo per il contrasto al gioco d’azzardo patologico istituto in base alle norme della legge di stabilità per il 2016.
Per contrastare il fenomeno del gioco d’azzardo patologico, a partire dal 2015, sono state stanziate quote nell'ambito delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, pari a 50 milioni di euro dalla legge di stabilità 2015 (comma 133, art. 1, Legge n. 190/2014), riservandone una parte, nel limite di 1 milione per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017, alla sperimentazione di software per monitorare il comportamento del giocatore e generare messaggi di allerta. Era previsto il riparto annuale della quota alle regioni e alle province autonome all'atto dell'assegnazione delle risorse ad esse spettanti a titolo di finanziamento del fabbisogno sanitario standard regionale, con verifica dell'effettiva destinazione delle risorse e delle relative attività assistenziali che costituiva adempimento ai fini dell'accesso al finanziamento integrativo del SSN nell'ambito del Comitato permanente per la verifica dell'erogazione dei LEA. Contestualmente, veniva trasferito dall'Agenzia delle dogane al Ministero della salute il già costituito Osservatorio per valutare le misure più efficaci per contrastare la diffusione del gioco d'azzardo e il fenomeno della dipendenza grave.
Dal 2016, la legge di stabilità 208/2015 (art. 1, commi 918-946 e 948), nell'ambito di numerose disposizioni in materia di giochi ha poi istituito presso il Ministero della salute (cap. 4386, Missione Tutela della salute (20), programma Prevenzione e promozione della salute umana (20.1)) un apposito fondo per il gioco d'azzardo patologico (GAP) con dotazione propria di 50 milioni di euro annui, a decorrere dal 2016, finalizzato a garantire le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione delle persone affette da ludopatia, in base alla definizione dell'Organizzazione mondiale della sanità. La somma è ripartita in ragione delle quote di accesso al finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard cui concorre lo Stato:
- per il 2016, tali quote sono state individuate con l'Intesa del 14 aprile 2016 in sede di Conferenza Stato-regioni e province autonome (qui il successivo decreto di riparto del 6 ottobre 2016);
- per il 2017, non essendo stata raggiunta la prescritta Intesa, a causa della mancata attivazione del flusso informativo per la rilevazione dell'utenza con gioco d'azzardo patologico, si è convenuto di ripartire le quote in ragione delle percentuali d'accesso al finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard del 2016 (qui il decreto di riparto 2017). Tale quota è stata tuttavia decurtata dell'accantonamento di 5 milioni effettuato in ottemperanza alla nota MEF del 27 ottobre 2017 con la quale si applicano le riduzioni delle dotazioni finanziarie previste dal D.L. n. 148/2017 (art. 20, comma 5, lett. a)).
Il comma 6, introduce una norma di copertura finanziaria. La misura del prelievo erariale unico (PREU) sugli apparecchi idonei per il gioco lecito (articolo 110, comma 6 lettere a) e b) del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), vale a dire quelli dotati di attestato di conformità rilasciato dal Ministero dell’economia e delle finanze-Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato e obbligatoriamente collegati alla rete telematica, slot machine, e quelli facenti parte della rete telematica che si attivano esclusivamente in presenza di un collegamento ad un sistema di elaborazione della rete stessa, videolottery, è fissata rispettivamente nel 19,25 per cento e nel 6,25 per cento dell'ammontare delle somme giocate a decorrere dal 1 ° settembre 2018, e nel 19,5 per cento e nel 6,5 per cento a decorrere dal 1 ° maggio 2019.
Precedentemente, l’articolo 6, del decreto legge del 24 aprile 2017, n. 50, aveva fissato la misura del prelievo erariale unico rispettivamente per gli apparecchi slot machine e videolottery al 19 e al 6 per cento dell'ammontare delle somme giocate.
Nel comma 7, si prevede che agli oneri derivanti dai divieti di cui al comma 1, pari a 147 milioni di euro per l'anno 2019 e 198 milioni a decorrere dall'anno 2020, si provveda mediante quota parte delle maggiori entrate derivanti dalla misura del PREU sugli apparecchi idonei per il gioco lecito, stabilita al comma precedente.
Articolo 10
(Disposizioni in materia di redditometro)
L’articolo 10 reca disposizioni finalizzate a modificare l’istituto dell’accertamento sintetico del reddito complessivo (cd. redditometro), introducendo il parere dell’Istat e delle associazioni maggiormente rappresentative dei consumatori. Contestualmente viene abrogato il decreto ministeriale contenente gli elementi indicativi necessari per effettuare l’accertamento.
Si ricorda che ai sensi dell’articolo 38 del d.P.R. 600 del 1973 in materia di accertamento, il fisco può determinare il reddito presunto del contribuente, in base alle spese da questi effettuate nell'anno di imposta (cd. redditometro: in sostanza, il reddito del contribuente deve essere compatibile con le spese da questi sostenute). L'accertamento del fisco scatta soltanto nel caso in cui la differenza fra il reddito dichiarato e quello accertato sia superiore al 20%.
In particolare, l’articolo 38, quinto comma, stabilisce che, salva la prova contraria da parte del contribuente, la determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche può essere fondata anche sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva, individuato mediante l'analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell'area territoriale di appartenenza. Gli elementi indicativi di capacità contributiva sono individuati con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze da pubblicare in Gazzetta Ufficiale con periodicità biennale.
Da ultimo, il D.M. economia e finanze 16 settembre 2015 ha disciplinato l’accertamento sintetico del reddito complessivo delle persone fisiche, per gli anni d'imposta a decorrere dal 2011.
Il comma 1 prevede che il Ministero dell’economia e delle finanze possa emanare il decreto che individua gli elementi indicativi di capacità contributiva dopo aver sentito l’Istituto nazionale di statistica (Istat) e le associazioni maggiormente rappresentative dei consumatori per gli aspetti riguardanti la metodica di ricostruzione induttiva del reddito complessivo in base alla capacità di spesa e alla propensione al risparmio dei contribuenti.
Al comma 2 si dispone che il decreto ministeriale emanato il 16 settembre 2015, contenente gli elementi indicativi necessari per effettuare l’accertamento, è abrogato e non ha più effetto per i controlli ancora da effettuare sull’anno di imposta 2016 e successivi.
Dal tenore della norma sembra dunque evincersi che per gli accertamenti successivi a quelli indicati al comma 2 l’istituto del redditometro non trova applicazione fino all’entrata in vigore del nuovo decreto attuativo ai sensi del comma 1.
Il comma 3 fa salvi gli inviti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento e agli altri atti previsti dal citato articolo 38, comma settimo, per gli anni di imposta fino al 31 dicembre 2015.
Si ricorda che l’articolo 38, settimo comma, impone all'ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione (disciplinato dall'articolo 5 del decreto legislativo n. 218 del 1997).
Al medesimo comma, infine, viene stabilito che in ogni caso l’articolo non si applica agli atti già notificati e non si fa luogo al rimborso delle somme già pagate.
Articolo 11
(Disposizioni in materia di invio dei dati delle fatture emesse e ricevute)
L'articolo 11 reca disposizioni sulla trasmissione dei dati delle fatture emesse e ricevute (c.d. spesometro) da parte dei soggetti passivi IVA. Esso stabilisce che la comunicazione dei dati relativi al terzo trimestre 2018 non debba essere effettuata entro il mese di novembre 2018 (in applicazione dell'art. 21, comma 1, del decreto-legge n. 78 del 2010), bensì entro il 28 febbraio 2019. Qualora si opti per la trasmissione con cadenza semestrale, i termini temporali sono fissati al 30 settembre per il primo semestre, al 28 febbraio dell'anno successivo per il secondo semestre.
Si ricorda che l’articolo 21, comma 1, del decreto-legge n. 78 del 2010 dispone l’obbligo di trasmissione telematica all’Agenzia delle entrate, da parte dei soggetti passivi IVA, dei dati di tutte le fatture emesse e ricevute nel trimestre di riferimento, incluse le bollette doganali, nonché i dati delle relative variazioni, ogni tre mesi, entro l'ultimo giorno del secondo mese successivo ad ogni trimestre.
Su tale termine incide il comma 1 dell’articolo in esame, che differisce al 28 febbraio 2019 la trasmissione dei dati delle fatture del trimestre luglio-settembre 2018.
L’articolo 21 dispone inoltre che la comunicazione relativa al secondo trimestre sia effettuata entro il 30 settembre (termine così differito dall'articolo 1, comma 932, della legge di bilancio 2018) mentre quella relativa all'ultimo trimestre deve essere fatta entro il 28 febbraio dell'anno successivo.
Il comma 2 dell'articolo 11 integra la menzionata lettera a) disponendo che, in caso di invio semestrale, il termine per l'invio relativo al primo semestre è fissato al 30 settembre e quello relativo al secondo semestre viene fissato al 28 febbraio dell'anno successivo a quello di riferimento.
Si ricorda in proposito che l'articolo 1-ter, comma 2, lettera a) del decreto-legge n. 148 del 2017 ha consentito ai contribuenti di effettuare la trasmissione dei dati con cadenza semestrale.
Qualora si opti per l'invio semestrale, i dati da inviare possono limitarsi: alla partita IVA dei soggetti coinvolti nelle operazioni o, per i soggetti che non agiscono nell'esercizio di imprese arti e professioni, al codice fiscale, alla data e al numero della fattura, alla base imponibile, all'aliquota applicata e all'imposta nonché alla tipologia dell'operazione ai fini IVA nel caso in cui l'imposta non sia indicata in fattura.
Gli obblighi di trasmissione dei dati delle fatture emesse e ricevute seguono l'abrogazione, a decorrere dal 1° gennaio 2017 - da parte del decreto-legge n. 193 del 2016 - della comunicazione dell'elenco clienti e fornitori da parte dei soggetti passivi IVA.
Si ricorda infine che la legge di bilancio 2018 (legge n. 205 del 2017), che ha introdotto l’obbligo della fatturazione elettronica tra privati dal 1° gennaio 2019, dalla stessa data abroga lo spesometro di cui all'articolo 21 del decreto-legge n. 78 del 2011.
La fatturazione elettronica
La legge di bilancio 2018 (commi 909, 915-917 e 928) ha disposto, a decorrere dal 1° gennaio 2019, l’introduzione della fatturazione elettronica obbligatoria (e-fattura) nelle operazioni tra privati (con modifiche alla disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 127 del 2015) e, contestualmente, l’eliminazione delle comunicazioni dei dati delle fatture (spesometro).
Sono previsti alcuni esoneri (ad esempio per coloro che rientrano nel regime forfetario agevolato) e sono dettate le specifiche conseguenze della violazione dell’obbligo di e-fattura (la fattura si considera non emessa e sono previste sanzioni pecuniarie). Si prevede inoltre la trasmissione telematica all’Agenzia delle entrate dei dati relativi alle cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate e ricevute verso e da soggetti non stabiliti in Italia, salvo quelle per le quali è stata emessa una bolletta doganale e quelle per le quali siano state emesse o ricevute fatture elettroniche. La legge di bilancio ha anche introdotto misure premiali per incentivare la tracciabilità dei pagamenti (riduzione dei termini di decadenza per gli accertamenti).
In tale quadro, la legge di bilancio ha anticipato l’obbligo della fatturazione elettronica (comma 917) al 1° luglio 2018 per alcune operazioni e, in particolare, per:
- prestazioni dei subappaltatori nei confronti dell’appaltatore principale nel quadro di un contratto di appalto di lavori, servizi o forniture stipulato con una pubblica amministrazione;
- cessioni di benzina o di gasolio destinati ad essere utilizzati come carburanti per motori.
Più in generale, ai sensi del comma 920 – con una modifica all'articolo 22, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, D.P.R. IVA – è introdotto l’obbligo della fatturazione elettronica per gli acquisti di carburante per autotrazione effettuati presso gli impianti stradali di distribuzione da parte di soggetti IVA.
Si segnala, tuttavia, che il decreto-legge n. 79 del 2018, art. 1, rinvia, tra l'altro, al 1° gennaio 2019 la decorrenza dell’obbligo della fatturazione elettronica per la vendita di carburante a soggetti IVA presso gli impianti stradali di distribuzione, in modo da uniformarlo a quanto previsto dalla normativa generale sulla fatturazione elettronica tra privati. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al relativo dossier. Per ulteriori informazioni sull’incentivazione della fatturazione elettronica nel tempo, si rinvia al tema web dedicato all’IVA.
La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 8/E del 30 aprile 2018 ha individuato le prime linee guida per l’entrata in vigore dell’obbligo di e-fattura.
Come anche rilevato da SOGEI nel corso dell’audizione svoltasi il 12 luglio 2018 presso VI Commissione Finanze della Camera, l’obbligo di fatturazione elettronica tra privati è stato introdotto in Italia in forza di una misura di deroga concessa, il 16 aprile 2018, dal Consiglio UE per il periodo 1° luglio 2018-31 dicembre 2019. Ove l’Italia intenda prorogare tale misura, è tenuta a farne domanda alla Commissione UE corredando l’istanza da una relazione sull’efficacia della misura ai fini del contrasto all’evasione, alle frodi IVA e per semplificare la riscossione delle imposte.
Articolo 12
(Split payment)
L’articolo 12 prevede l’abolizione del meccanismo della scissione dei pagamenti, split payment, per le prestazioni di servizi rese alle pubbliche amministrazioni i cui compensi sono assoggettati a ritenute alla fonte (in sostanza, i compensi dei professionisti).
Lo split payment ed il suo ambito applicativo
L’articolo 1, comma 629, lettera b), della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015), ha introdotto l’articolo 17-ter del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (decreto IVA) che ha stabilito, per le pubbliche amministrazioni acquirenti di beni e servizi, un meccanismo di scissione dei pagamenti, cd. split payment, da applicarsi alle operazioni per le quali dette amministrazioni non siano debitori d’imposta. In base a questo meccanismo, in relazione agli acquisti di beni e servizi effettuati dalle pubbliche amministrazioni, per i quali queste non siano debitori d’imposta (ossia per le operazioni non assoggettate al regime di inversione contabile) devono versare direttamente all’erario l’IVA che è stata addebitata loro dai fornitori, anziché allo stesso fornitore, scindendo quindi il pagamento del corrispettivo dal pagamento della relativa imposta.
Tale disposizione era stata inizialmente resa applicabile alle amministrazioni e dagli enti pubblici destinatari delle norme in materia di IVA a esigibilità differita di cui all’articolo 6, quinto comma, secondo periodo, del citato DPR n. 633 del 1972: lo Stato, gli organi dello Stato ancorché dotati di personalità giuridica, gli enti pubblici territoriali ed i consorzi tra essi costituiti, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, gli istituti universitari, le aziende sanitarie locali, gli enti ospedalieri, gli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, gli enti pubblici di assistenza e beneficenza e quelli di previdenza. Le disposizioni attuative del nuovo meccanismo sono state inizialmente stabilite dal DM 23 gennaio 2015 (successivamente modificato dal DM 20 febbraio 2015).
L’Agenzia delle entrate si è pronunciata sul meccanismo con:
· la circolare n. 6/E del 19 febbraio 2015 (paragrafi da 8.5 a 8.7)
· la circolare n. 15/E del 13 aprile 2015
· la risoluzione n.75/E del 14 settembre 2016.
Successivamente, con l’articolo 1 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, il meccanismo dello split payment è stato esteso a tutte le amministrazioni, gli enti ed i soggetti inclusi nel conto consolidato della pubblica amministrazione di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché alle seguenti tipologie di soggetti: a) società controllate dallo Stato, di diritto o di fatto, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, nn. 1) e 2), del codice civile; b) società controllate di diritto, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, n. 1), del codice civile, direttamente dagli enti pubblici territoriali; c) società controllate di diritto, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, n. 1), del codice civile, direttamente o indirettamente, dai soggetti precedentemente indicati alle lettere a) e b); d) società quotate inserite nell’indice FTSE MIB della Borsa italiana.
Il decreto-legge n. 50 ha inoltre abrogato l’originario comma 2 dell’articolo 17-ter, che escludeva esplicitamente dall’applicazione dello split payment i compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito (compensi dei professionisti). Dunque tali compensi sono stati assoggettati alla scissione dei pagamenti, ogniqualvolta siano effettuate operazioni nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, come anche esplicitamente chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 27E del 7 novembre 2017.
Dopo il predetto ampliamento, si sono succeduti due decreti di attuazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze rispettivamente del 27 giugno 2017 e 13 luglio 2017 che hanno provveduto a definire i soggetti interessati dal meccanismo in argomento. Si specifica che per individuare le pubbliche amministrazioni e le società coinvolte dai nuovi obblighi devono essere consultati gli appositi elenchi pubblicati sul sito del dipartimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze aggiornati progressivamente e costantemente. L’elenco definitivo, emanato con decreto entro il 15 novembre di ciascun anno, avrà effetti a partire dall’anno successivo. Per le società che ricadono tra le controllate soggette a split payment o se sono inserite nell’indice FTSE MIB in corso d’anno, entro il 30 settembre, la disciplina dello split payment sarà applicabile solo nell'ambito delle operazioni per le quali è emessa fattura a partire dal 1° gennaio dell’anno successivo.
Da ultimo, l’articolo 3 del decreto-legge n. 148 del 2017 ha esteso ulteriormente (dal 1° gennaio 2018) il meccanismo della scissione dei pagamenti agli enti pubblici economici nazionali, regionali e locali, alle fondazioni partecipate da amministrazioni pubbliche, alle società controllate direttamente o indirettamente da qualsiasi tipo di amministrazione pubblica e a quelle partecipate per una quota non inferiore al 70% da qualsiasi amministrazione pubblica o società assoggettata allo split payment. Con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 9 gennaio 2018 sono state dettate le modalità di attuazione del nuovo perimetro applicativo dello split payment, individuate dal predetto decreto-legge n. 148 del 2017.
Con le norme in commento (comma 1) si escludono esplicitamente dallo split payment (ossia dall’articolo 17-ter del D.P.R. n. 633 del 1972) i compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte.
Viene a tal fine introdotto un comma 1-sexies al menzionato articolo 17-ter, col quale si dispone che le norme in tema di split payment non si applicano alle prestazioni di servizi rese alle pubbliche amministrazioni (di cui ai commi 1, 1-bis e 1-quinquies dell’articolo 17-ter; si veda il riquadro precedente per l’individuazione di tali enti) se i compensi sono assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o a ritenuta d’acconto per prestazioni di lavoro autonomo (ai sensi dell’articolo 25 del D.P.R. n. 600 del 1973, che disciplina tale ultima fattispecie).
Il comma 2 dispone che il nuovo ambito di applicazione dello split payment si applichi alle operazioni per cui è emessa fattura successivamente al 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del provvedimento in esame).
Il comma 3 reca la copertura finanziaria delle norme in esame, i cui oneri sono quantificati in 35 milioni per l’anno 2018, 70 mln per l’anno 2019 e 35 mln per l’anno 2020.
In particolare:
- quanto a 41 milioni di euro per il 2019 e 1 milione di euro per il 2020, mediante corrispondente riduzione del fondo speciale di parte corrente iscritti nel bilancio 2018-2020 utilizzando gli accantonamenti relativi ai seguenti Ministeri:
- Ministero dell’interno, per 4 milioni nel 2019;
- Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, per 1 milione nel 2019;
- Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca per 5 milioni nel 2019;
- Ministero dell’economia e finanze, per 24 milioni nel 2019;
- Ministero del lavoro e delle politiche sociali, per 2 milioni nel 2019;
- Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale per 5 milioni nel 2019;
- Ministero dello sviluppo economico, per 1 milione nel 2020.
- quanto a 15 milioni per il 2019, mediante utilizzo del fondo di parte corrente iscritto nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico ad esito del riaccertamento dei residui (ai sensi dell’articolo 49, comma 2, lettere a) e b) del decreto-legge n. 66 del 2014), sia quelli iscritti in bilancio, sia quelli perenti;
- quanto a 8 milioni per il 2019, mediante corrispondente riduzione del Fondo per gli interventi strutturali di politica economica – FISPE[31];
- quanto a 35 milioni per il 2018, a 6 milioni per il 2019 e 34 milioni per il 2020, mediante quota parte delle maggiori entrate derivanti dall’aumento del Prelievo Erariale Unico – PREU disposto dal provvedimento in esame.
L’articolo 9, comma 6 del provvedimento fissa l’aliquota del PREU sulle slot machine e sulle videolottery - rispettivamente - al 19,25 ed al 6,25 per cento delle somme giocate dal 1° settembre 2018; al 19,5 ed al 6,5 per cento a decorrere dal 1° maggio 2019 (per approfondimenti si rinvia alla relativa scheda di lettura).
L’articolo 13 sopprime le previsioni introdotte dalla legge di bilancio 2018, in base alle quali le attività sportive dilettantistiche potevano essere esercitate anche da società sportive dilettantistiche con scopo di lucro e abroga le agevolazioni fiscali a favore delle stesse introdotte dalla medesima legge.
Inoltre, istituisce un nuovo fondo destinato a interventi in favore delle società sportive dilettantistiche, in cui confluiscono le risorse rinvenienti dalla suddetta soppressione.
Infine, ripristina la normativa in materia di uso e gestione di impianti sportivi vigente prima delle novità introdotte dalla stessa legge di bilancio 2018.
Secondo quanto riportato nella relazione illustrativa allegata al provvedimento in esame, l’articolo in primo luogo sopprime la disciplina introdotta dalla L. 205/2017, che aveva disposto la possibilità di esercitare le attività sportive dilettantistiche anche con scopo di lucro, prevedendo l’utilizzo della forma societaria (il cui fine era quello di superare la distinzione tra sport dilettantistico e professionistico). Tale intervento, prosegue la relazione, ha però determinato alcune criticità, di fatto impedendo che il disegno di riforma venisse attuato.
Allo stesso tempo, le riforme del cd. terzo settore (D.Lgs. 117/2017) e dell’impresa sociale (D.Lgs. 112/2017) hanno indotto una riconsiderazione del fenomeno in esame, in ragione della possibilità, per gli enti individuati dalle richiamate discipline, di organizzare o gestire anche attività sportive dilettantistiche.
A ciò si aggiunge, sempre secondo la relazione, che le previsioni inerenti le società dilettantistiche lucrative sono state affiancate da disposizioni agevolative in materia di IRES e parziale decontribuzione previdenziale, che, insieme alla possibilità di utilizzare collaborazioni coordinate e continuative, rappresentava un’incongruenza del sistema.
Sono in primi luogo abrogati i commi da 353 a 355 della legge di bilancio 2018 (legge n. 205 del 2017), i quali dispongono che le attività del settore sportivo dilettantistico possano essere esercitate con scopo di lucro in forma societaria e attribuiscono agevolazioni fiscali a favore delle stesse società.
In dettaglio, il comma 353 prevede che le attività sportive dilettantistiche possono essere esercitate con scopo di lucro in una delle forme societarie di cui al titolo quinto del libro quinto del codice civile.
Le forme societarie contemplate dal titolo quinto del libro quinto del codice civile sono: la società semplice che non può avere per oggetto l'esercizio di un'attività commerciale, la società in nome collettivo, la società in accomandita semplice, la società per azioni, la società in accomandita per azioni, la società a responsabilità limitata.
Il comma 354 vincola lo statuto delle società sportive dilettantistiche con scopo di lucro ad avere un contenuto prestabilito. In particolare, lo statuto deve contenere: a) nella denominazione o ragione sociale, la dicitura “società sportiva dilettantistica lucrativa”; b) nell’oggetto o scopo sociale, lo svolgimento e l’organizzazione di attività sportive dilettantistiche; c) il divieto per gli amministratori di ricoprire la medesima carica in altre società o associazioni sportive dilettantistiche affiliate alla medesima federazione sportiva o disciplina associata ovvero riconosciute da un ente di promozione sportiva nell’ambito della stessa disciplina; d) l’obbligo di prevedere nelle strutture sportive, in occasione dell’apertura al pubblico dietro pagamento di corrispettivi a qualsiasi titolo, la presenza di un «direttore tecnico» che sia in possesso del diploma ISEF o di laurea quadriennale in Scienze motorie o di laurea magistrale in Organizzazione e Gestione dei Servizi per lo Sport e le Attività Motorie (LM47) o in Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate (LM67) o in Scienze e Tecniche dello Sport (LM68), ovvero in possesso della laurea triennale in Scienze motorie.
Il comma 355 stabilisce che per tali soggetti riconosciuti dal CONI, l’imposta sul reddito delle società (IRES) è ridotta alla metà. L’agevolazione si applica nel rispetto delle condizioni e dei limiti del Regolamento (UE) n. 1407/2013 della Commissione del 18 dicembre 2013 relativo agli aiuti de minimis.
In deroga allo Statuto del contribuente (legge n. 212 del 2000) l’abrogazione del comma 355 decorre dal periodo d’imposta in corso al 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del provvedimento in esame.
I successivi commi 2, 3 e 4 recano interventi di coordinamento in relazione a quanto disposto dal comma 1.
Il comma 2 sopprime il riferimento alle società sportive dilettantistiche tra le fattispecie individuate dall’articolo 2, comma 2, del D.Lgs. 81/2015, alle quali non trova applicazione la presunzione di lavoro subordinato per i contratti di collaborazione posti in essere.
Il comma 3 elimina l’aliquota agevolata al 10 per cento per i servizi di carattere sportivo resi dalle società sportive dilettantistiche lucrative riconosciute dal CONI nei confronti di chi pratica l'attività sportiva a titolo occasionale o continuativo in impianti gestiti da tali società.
L’agevolazione era stata introdotta dal comma 357 della legge di bilancio 2018 a decorrere dal 1° gennaio 2019, attraverso l’inserimento di un nuovo numero 123-quater alla tabella A, parte III (Beni e servizi soggetti all'aliquota del 10 per cento), allegata al D.P.R. n. 633 del 1972 (decreto IVA).
Al riguardo si ricorda che l’organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche rientra tra le attività di interesse generale che gli enti del Terzo settore - come definiti dal Codice del terzo settore di cui al D.Lgs. n. 117 del 2017 – possono svolgere per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale (articolo 5, comma 1, lettera u), del Codice).
A tali enti si applica il regime fiscale degli enti del Terzo settore previsto dal Titolo X del Codice (artt. 79-89). Esso si compone di 4 Capi. Il Capo I (artt. 79-83) reca la definizione delle attività di natura non commerciale; disciplina il regime fiscale opzionale per la determinazione del reddito d'impresa degli enti non commerciali del Terzo settore, vale a dire quegli enti che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di interesse generale, basato sui coefficienti di redditività; prevede un credito d'imposta (social bonus) per coloro che effettuano erogazioni liberali in denaro a favore degli enti del Terzo settore non commerciali; reca specifiche agevolazioni in materia di imposte indirette e tributi locali; introduce una disciplina unitaria per le deduzioni e detrazioni previste per chi effettua erogazioni liberali a favore di enti del Terzo settore non commerciali e di cooperative sociali. Il Capo II (artt. 84-86) detta disposizioni sulle organizzazioni di volontariato e sulle associazioni di promozione sociale. Sostanzialmente il capo in esame: elenca una serie di attività che, ai fini delle imposte sui redditi, sono considerate non commerciali se svolte dalle organizzazioni di volontariato senza l'impiego di mezzi organizzati professionalmente per fini di concorrenzialità sul mercato; disciplina il regime tributario delle associazioni di promozione sociale, iscritte nell'apposita sezione speciale del Registro unico nazionale del Terzo settore, in sostanziale continuità con le previgenti norme, con alcuni interventi di aggiornamento e razionalizzazione; prevede per le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale la possibilità di applicare un regime forfettario, con contabilità semplificata, per le attività commerciali esercitate, a condizione di non superare il limite di ricavi di 130.000 euro nel periodo d'imposta precedente. Il Capo III (art. 87) introduce una disciplina specifica relativa agli obblighi di tenuta e conservazione delle scritture contabili per le attività degli enti del Terzo settore. Il Capo IV (artt. 88-89) detta le disposizioni transitorie e finali, disciplinando alcune agevolazioni fiscali e molteplici previsioni di coordinamento, ai fini della 'intersezione' della disciplina del codice del Terzo settore con la normativa vigente.
Viene inoltre disposta l’abrogazione dei commi 356 e da 358 a 360 dell’articolo 1 della L. 205/2017 concernenti la disciplina dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati dalle società sportive dilettantistiche aventi scopo di lucro.
In particolare, il comma 356 disponeva (modificando l’articolo 2, comma 2, lett. d), del D.Lgs. 81/2015) che tali contratti, resi, a fini istituzionali, con società sportive dilettantistiche, fossero ammessi anche per le società aventi scopo di lucro, secondo la categoria introdotta dai commi 353 e ss., sostanzialmente permettendo la stipula di contratti di lavoro diversi dalla tipologia del lavoro subordinato.
L’articolo 2, comma 1, del richiamato D.Lgs. 81 ha stabilito che dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Tale disposizione non trova applicazione, ai sensi del successivo comma 2, con riferimento a specifiche fattispecie di co.co.co., tra le quali rientrano (lettera d)) anche alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall'articolo 90 della L. 289/2002, nonché delle società sportive dilettantistiche lucrative.
Con la richiamata abrogazione, quindi, le società sportive dilettantistiche lucrative devono ricondurre alla tipologia di lavoro subordinato “i rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
E’ conseguentemente abrogato il comma 359 ai sensi del quale i compensi derivanti dai richiamati contratti di collaborazione coordinata e continuativa sono considerati - sotto il profilo fiscale - redditi diversi se stipulati da società ed associazioni sportive dilettantistiche riconosciute dal C.O.N.I. ovvero redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente se stipulati dalle società dilettantistiche lucrative riconosciute dal CONI.
Il comma 4 ripristina la normativa in materia di uso e gestione di impianti sportivi vigente prima delle novità introdotte dalla stessa legge di bilancio 2018.
In particolare, novella l’art. 90, co. 24-26, della L. 289/2002, modificato da ultimo dall’art. 1, co. 361, della L. 205/2017, che aveva individuato, relativamente all’uso e alla gestione di impianti sportivi, le società sportive dilettantistiche senza scopo di lucro, nonché le associazioni sportive dilettantistiche, quali interlocutori privilegiati degli enti territoriali.
Tali modifiche sono, in parte, conseguenza dell’abrogazione del co. 353 dello stesso art. 1 della L. 205/2017, disposta dal co. 1 dell’articolo in commento, che aveva introdotto la possibilità di esercizio delle attività sportive da parte di società sportive dilettantistiche con scopo di lucro.
Infatti, a seguito delle modifiche introdotte:
· l’art. 90, co. 24, della L. 289/2002 dispone che l'uso degli impianti sportivi in esercizio da parte degli enti territoriali è aperto a tutti i cittadini e deve essere garantito, sulla base di criteri obiettivi, a tutte le società e associazioni sportive (dilettantistiche e non).
Viene dunque meno la previsione che garantiva l’uso in via preferenziale alle associazioni sportive dilettantistiche (oltre che alle società sportive dilettantistiche senza scopo di lucro, ora non più presenti nell’ordinamento a causa dell’abrogazione del co. 353);
· l’art. 90, co. 26, della L. 289/2002 prevede che le palestre, le aree di gioco e gli impianti sportivi scolastici (compatibilmente con le esigenze dell'attività didattica e delle attività sportive della scuola, comprese quelle extracurriculari) devono essere posti a disposizione (esclusivamente) di società e associazioni sportive dilettantistiche aventi sede nel medesimo comune in cui ha sede l'istituto scolastico o in comuni confinanti.
Viene dunque meno la previsione secondo cui gli stessi impianti, posti a disposizione in via preferenziale delle associazioni sportive dilettantistiche (e delle società sportive dilettantistiche senza scopo di lucro) aventi sede nel medesimo comune in cui ha sede l'istituto scolastico o in comuni confinanti, potevano (evidentemente) essere messi a disposizione (seppur in subordine) anche di tutte le società e associazioni sportive non dilettantistiche (sempre aventi sede nel medesimo comune o in comuni confinanti).
E’ da considerarsi, invece, diretta conseguenza dell’abrogazione del co. 353 dell’art. 1 della L. 205/2017, la previsione secondo cui – a seguito delle modifiche introdotte dal co. 4 – la gestione degli impianti sportivi, nei casi in cui l’ente territoriale non intenda provvedervi direttamente, è affidata in via preferenziale a società ed associazioni sportive dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline sportive associate e federazioni sportive nazionali (art. 90, co. 25, della L. 289/2002). Infatti, rispetto alla normativa previgente, si elimina unicamente la possibilità di affidare la gestione degli impianti sportivi, nell’ambito delle società sportive dilettantistiche, solo a quelle senza scopo di lucro.
Al riguardo, si ricorda, peraltro, che, con delibera 1300 del 14 dicembre 2016, l’Autorità nazionale anticorruzione aveva fatto presente che, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti (d.lgs. 50/2016), che ha dettato una specifica disciplina per le concessioni di servizi e che ha incluso la “gestione degli impianti sportivi” tra gli appalti di servizi, doveva ritenersi superata e non più applicabile la previsione di cui all’art. 90, co. 25 della L. 289/2002, dettata in un differente contesto normativo.
Il comma 5 prevede la costituzione nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze di un Fondo da destinare a interventi in favore delle società sportive dilettantistiche con una dotazione di 3,4 milioni di euro nel 2018, di 11,5 milioni di euro nell’anno 2019, di 9,8 milioni di euro nell’anno 2020, di 10,2 milioni nell’anno 2021, di 10,3 milioni nell’anno 2022, di 5,6 milioni nell’anno 2023 e di 5,2 milioni a decorrere dall’anno 2024. Ai fini della gestione delle risorse, la norma ne prevede il trasferimento al bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei ministri, con assegnazione all'Ufficio per lo sport presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Alla copertura finanziaria degli oneri derivanti dalla costituzione del Fondo si provvede a valere sulle maggiori entrate e minori spese derivanti dalle disposizioni di cui ai precedenti commi da 1 a 3, che recano modifiche alla disciplina delle associazioni sportive dilettantistiche, nonché la soppressione di alcune misure agevolative, di ordine fiscale e contributivo, a favore delle medesime associazioni, recentemente introdotte con la legge di bilancio per il 2018.
In particolare - come anche indicato nella Relazione tecnica – i mezzi di copertura finanziaria discendono dalla soppressione dei alcuni commi dell’articolo 1 della legge n. 205/2017, disposta dal comma 1, che recano le seguenti agevolazioni:
· la riduzione alla metà dell'aliquota IRES applicata alle società sportive dilettantistiche lucrative riconosciute dal Coni (comma 355),
· l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta al 10% in favore di chi pratica attività sportiva in impianti gestiti da società sportive dilettantistiche lucrative riconosciute dal Coni (comma 358);
· una agevolazione contributiva per i collaboratori coordinati e continuativi che prestano la loro opera in favore delle società dilettantistiche lucrative riconosciute dal Coni (comma 360).
La tabella che segue - tratta dalla Relazione tecnica al decreto-legge in esame - riporta gli effetti stimati, in termini di maggiori entrate e di minori spese, derivanti dalla soppressione delle norme suddette, in coerenza con quanto già indicato nella Relazione tecnica alla legge n. 205/2017 che ha introdotto tali misure:
(Milioni di euro)
|
2018 |
2019 |
2020 |
2021 |
2022 |
2023 |
2024 |
comma 355 |
- |
4,2 |
2,4 |
2,4 |
2,4 |
2,4 |
2,4 |
comma 357 |
1,4 |
2,8 |
2,8 |
2,8 |
2,8 |
2,8 |
2,8 |
comma 360 |
2,0 |
4,5 |
4,6 |
5 |
5,1 |
0,4 |
0 |
Totale |
3,4 |
11,5 |
9,8 |
10,2 |
10,3 |
5,6 |
5,2 |
Articolo 14
(Copertura finanziaria)
L’articolo 14 reca, al comma 1, l’incremento della dotazione del Fondo per interventi strutturali di politica economica e, al comma 2, la quantificazione e la copertura degli oneri finanziari recati dagli articoli 1 e 3 del decreto-legge in esame. Il comma 3 dispone che l’INPS provveda ad monitoraggio trimestrale delle maggiori spese e minori entrate derivanti dagli articoli 1, 2 e 3.
Il comma 1 incrementa la dotazione del Fondo per interventi strutturali di politica economica (Fispe) di 4,5 milioni di euro per l’anno 2018, di 28,1 milioni di euro per l’anno 2020, di 68,9 milioni di euro per l’anno 2021, di 69,2 milioni di euro per l’anno 2022, di 69,5 milioni di euro per l’anno 2023, di 69,9 milioni di euro per l’anno 2024, di 70,3 milioni di euro per l’anno 2025, di 70,7 milioni di euro per l’anno 2026, di 71 milioni di euro per l’anno 2027 e 71,3 milioni di euro a decorrere dall’anno 2028.
Il Fondo per interventi strutturali di politica economica (Fispe) è stato istituito dall'articolo 10, comma 5, del decreto-legge n. 282 del 2004, al fine di agevolare il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica. Il Fondo viene utilizzato in modo flessibile ai fini del reperimento delle risorse occorrenti a copertura di interventi legislativi recanti oneri finanziari.
Il comma 2 reca la quantificazione e la copertura degli oneri finanziari derivanti dagli articoli 1 e 3 del decreto-legge in esame (che dispongono, rispettivamente: la modifica alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, la nuova disciplina dell’indennità di licenziamento ingiustificato, e l’ incremento contribuzione contratto a tempo determinato), nonché dal precedente comma 1 dell’articolo 14 in esame.
Si segnala che il comma 2 non reca una quantificazione complessiva degli oneri recati dalle disposizioni indicate dal comma medesimo.
Le relative coperture finanziarie sono reperite come segue:
§ quanto a 5,9 milioni di euro per anno 2018 e a 7,4 milioni di euro per l’anno 2019, mediante corrispondente riduzione del Fondo per il finanziamento della riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive (di cui all'articolo 1, comma 107, della L. 190/2014).
L’articolo 1, comma 107, della L. 190/2014, ha stanziato risorse per la copertura degli oneri derivanti dall’attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (di riforma del mercato del lavoro, cd. jobs act), istituendo a tal fine il richiamato Fondo per il finanziamento della riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Più specificamente, il Fondo è stato istituito per fare fronte agli oneri derivanti dall’attuazione dei provvedimenti normativi di riforma degli ammortizzatori sociali (compresi gli ammortizzatori sociali in deroga), dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di quelli in materia di riordino dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, nonché per fare fronte agli oneri derivanti dall'attuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, al fine di consentire la relativa riduzione di oneri diretti e indiretti. Quanto alla disponibilità finanziaria del Fondo, originariamente istituito in bilancio con una dotazione di 2,2 miliardi di euro annui per il biennio 2015-2016 e di 2 miliardi di euro a decorrere dal 2017 (cap. 1250/Lavoro), nella legge di bilancio per il 2018 (D.M. 2812/2017 di ripartizione in capitoli) risultano iscritti 57,333 milioni di euro per il 2018 (ad oggi ne residuano 30,833), 11,4 milioni per il 2019 e 51,9 milioni per il 2020.
§ quanto a 10,8 milioni di euro per l'anno 2019, mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica (Fispe) (su tale Fondo v.sopra)
§ quanto a 4,5 milioni per l’anno 2018, a 42,5 milioni di euro per l’anno 2019, a 2 milioni di euro per l’anno 2020 e a 36 milioni di euro a decorrere dall’anno 2021, mediante quota parte delle maggiori entrate di cui all’articolo 9, comma 6;
§ quanto a 11,3 milioni di euro per l'anno 2018, a 75,5 milioni di euro per l’anno 2019, in 104,1 milioni di euro per l’anno 2020, a 120 milioni di euro per l’anno 2021, a 121,2 milioni di euro per l’anno 2022, a 122,4 milioni di euro per l’anno 2023, a 123,6 milioni di euro per l’anno 2024, a 124,9 milioni di euro per l’anno 2025, a 126,2 milioni di euro per l’anno 2026, a 127,5 milioni di euro per l’anno 2027 e 128,7 milioni di euro a decorrere dall’anno 2028, mediante le maggiori entrate e le minori spese di cui agli articoli 1, 2 e 3.
Il comma 3 introduce una procedura volta a garantire la neutralità sui saldi di finanza pubblica del provvedimento in esame.
In particolare, si dispone che l’Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS) provveda ad un monitoraggio trimestrale degli oneri derivanti dagli articoli 1, 2 e 3 del provvedimento (in termini di maggiori entrate e di minori spese).
Le risultanze sono comunicate dall’INPS al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Ministero dell'economia e delle finanze, entro il mese successivo al trimestre di riferimento, anche ai fini dell’adozione delle eventuali iniziative da intraprendere ai sensi dell’articolo 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196.
Il riferimento è da intendersi alla procedura per la compensazione degli oneri che eccedono le previsioni di spesa, prevista dall’articolo 17, commi 12-14, della legge di contabilità n. 196/2009, laddove si prevede che il Ministro dell’economia sulla base delle informazioni trasmesse dai ministri competenti provvede al monitoraggio e successivamente, qualora siano in procinto di verificarsi scostamenti dell'andamento degli oneri rispetto alle previsioni, provvede alla riduzione degli stanziamenti del Ministero competente.
Si valuti l’opportunità, nel rinviare all’articolo 17, della legge di contabilità n. 196/2009, di richiamare espressamente i commi 12 e 12-bis, 12-ter e 12-quater.
In sintesi, si sensi del comma 12 dell’articolo 17 della legge di contabilità pubblica, il Ministero dell'economia e delle finanze, sulla base delle informazioni trasmesse dai Ministeri competenti, provvede al monitoraggio degli oneri derivanti dalle leggi di spesa, al fine di prevenire l'eventuale verificarsi di scostamenti dell'andamento dei medesimi oneri rispetto alle previsioni.
I commi da 12-bis a 12-quater dell’articolo 17 dispongono una procedura per la compensazione degli oneri che eccedono le previsioni di spesa. Si prevede a tal fine che il Ministro dell'economia, in attesa di successive misure correttive, provvede per l'esercizio in corso alla riduzione degli stanziamenti iscritti nello stato di previsione del Ministero competente; qualora i suddetti stanziamenti non siano sufficienti alla copertura finanziaria del maggior onere, allo stesso si dovrà provvedere con DPCM, previa delibera del Consiglio dei ministri, mediante riduzione degli stanziamenti iscritti negli stati di previsione della spesa Gli schemi di entrambi di decreti vanno trasmessi alle Commissioni bilancio delle Camere, che si esprimono entro sette giorni, decorsi i quali i decreti possono comunque essere adottati. Qualora gli scostamenti non siano compensabili nel corso dell’esercizio, il Ministro dell'economia assume tempestivamente (comma 13) le conseguenti iniziative legislative. Per gli esercizi successivi a quello in corso si provvede con la legge di bilancio.
Il comma 4 autorizza infine il Ministro dell’economia e delle finanze ad apportare con propri decreti le occorrenti variazioni di bilancio.
Articolo 15
(Entrata in vigore)
L’articolo 15 prevede che il provvedimento in esame entri in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e quindi il 14 luglio 2018.
[1] Si ricorda, in ogni caso, che, in base all'art. 20, comma 1, lettere a) e b), del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il contratto di lavoro a termine non è ammesso: per la sostituzione di lavoratori in sciopero; presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisca il contratto a tempo determinato, salvo che quest'ultimo sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti o per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità o che il medesimo abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi.
[2] Riguardo all'àmbito delle attività stagionali, cfr. il D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, a cui fa rinvio il citato D.Lgs. n. 81, in attesa dell'emanazione di un decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (cfr. l'art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 81).
[3] Quest'ultima specificazione era stata introdotta dall'art. 21, comma 1, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133.
[4] Di cui all'art. 25, commi 2 e 3, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, e successive modificazioni.
[5] Per le società start up innovative già costituite alla data di entrata in vigore del citato D.L. n. 179 del 2012, ha trovato in passato applicazione una norma transitoria, relativa alla deroga in oggetto.
[6] Ai sensi del richiamato articolo 29 sono esclusi dal campo di applicazione del contratto a termine, in quanto già disciplinati da specifiche normative:
a) ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 25 e 27, i rapporti instaurati ai sensi dell'articolo 8, comma 2, della legge n. 223 del 1991;
b) i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato, così come definiti dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 375;
c) i richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco.
Inoltre, sono altresì esclusi dal campo di applicazione delle disposizioni sul contratto a tempo determinato:
· i contratti di lavoro a tempo determinato con i dirigenti, che non possono avere una durata superiore a cinque anni, salvo il diritto del dirigente di recedere a norma dell'articolo 2118 del codice civile una volta trascorso un triennio;
· i rapporti per l'esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, nei casi individuati dai contratti collettivi, fermo l'obbligo di comunicare l'instaurazione del rapporto di lavoro entro il giorno antecedente;
· i contratti a tempo determinato stipulati con il personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze e con il personale sanitario, anche dirigente, del Servizio sanitario nazionale;
· i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n. 240
[7] La norma fa riferimento ai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché ai contratti collettivi aziendali, stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
[8] Si ricorda altresì che l'art. 29, comma 4, del D.Lgs. n. 81 specifica che resta fermo quanto disposto dal suddetto art. 36 del D.Lgs. n. 165, e successive modificazioni.
[9] Per un'ipotesi specifica nella quale anche i lavoratori assunti a tempo indeterminato in data antecedente rientrano nell'àmbito in esame, cfr. l'art. 1, comma 3, del citato D.Lgs. n. 23.
[10] Riguardo alla fattispecie di licenziamenti (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, la tutela più favorevole al lavoratore summenzionata non si applica (ai sensi dell'art. 9, comma 1, del citato D.Lgs. n. 23) qualora il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni.
[11] Quest'ultima è costituita dalla retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
[12] Per alcuni criteri specifici di calcolo dell'anzianità, cfr. gli artt. 7 e 8 del citato D.Lgs. n. 23.
[13] Si ricorda che l'art. 51, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001 prevede che la citata L. n. 300 del 1970 si applichi alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti.
[14] Se per l'effetto delle nuove assunzioni l'azienda raggiunge il requisito occupazionale di cui all'articolo 18, commi 8 e 9, della L. 300/1970 (superamento della soglia dei 15/60 dipendenti, 5 se agricola), il nuovo regime trova applicazione non soltanto nei confronti dei nuovi assunti, ma anche dei dipendenti assunti fino al 6 marzo 2015 (ai sensi dell’articolo 1 del D.Lgs. 23/2015). Si ricorda, inoltre, che ai licenziamenti disciplinati dal D.Lgs. 23/2015 non si applica, ai sensi dell’articolo 11 dello stesso D.Lgs. 23, il rito speciale per l'impugnativa del licenziamento ex articolo 1, commi 48-68, della L. 92/2012.
[15] Viene inoltre dedotto quanto percepito nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum). In ogni caso, l'indennità risarcitoria non può essere inferiore a 5 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.
[16] Sempre dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro.
[17] L’articolo 2, comma 28, della L. 92/2012 ha introdotto (per il finanziamento dell’Aspi, attualmente NASpI) un contributo, aggiuntivo rispetto all’aliquota ordinaria, pari all’1.4%, da calcolarsi sulle retribuzioni imponibili ai fini previdenziali con riferimento ai rapporti di lavoro non a tempo indeterminato. Il contributo non si applica a specifiche fattispecie (articolo 2, comma 29), e deve essere restituito, successivamente al decorso del periodo di prova, al datore di lavoro in caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato (articolo 2, comma 30).
[18] Ai sensi dell'art. 2, commi 29 e 30, della L. 28 giugno 2012, n. 92, e successive modificazioni.
[19] Riguardo all'àmbito delle attività stagionali, cfr. il D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, a cui fa rinvio il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, in attesa dell'emanazione di un decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (cfr. l'art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 81).
[20] Le graduatorie permanenti dei docenti – nelle quali erano inseriti i docenti che avevano superato le prove dei concorsi per l’accesso ai ruoli (art. 401, d.lgs. 297/1994) – sono state trasformate in graduatorie ad esaurimento (GAE) dalla L. finanziaria 2007 (art. 1, co. 605, lett. c), L. 296/2006), che aveva fatto salva l’inclusione nelle medesime, da effettuare per il biennio 2007-2008, di determinate categorie di soggetti già in possesso di abilitazione e, con riserva del conseguimento del titolo di abilitazione, di quanti, alla data della sua entrata in vigore, stessero già frequentando, fra l’altro, alcuni corsi abilitanti speciali (destinati, tra l’altro, a soggetti in possesso del diploma dell'istituto magistrale conseguito fra il 1999 e il 2002).
In particolare, alle GAE si attinge per la copertura del 50% dei posti di ruolo disponibili (art. 399, d.lgs. 297/1994) Alle stesse si fa ricorso anche per il conferimento delle supplenze annuali, per la copertura di cattedre e posti di insegnamento effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l'intero anno scolastico, e delle supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche, per la copertura di cattedre e posti di insegnamento non vacanti, di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre e fino al termine dell'anno scolastico (art. 4 della L. 124/1999).
[21] Per il conferimento delle supplenze annuali che non sia stato possibile coprire con il personale incluso nelle GAE e delle supplenze temporanee per la sostituzione del personale temporaneamente assente e per la copertura di posti resisi disponibili, per qualsiasi causa, dopo il 31 dicembre di ciascun anno, il dirigente scolastico costituisce, sulla base delle domande prodotte, apposite graduatorie – c.d. graduatorie di istituto –, in relazione agli insegnamenti impartiti nella scuola o alla tipologia di posto, distinte in tre fasce, da utilizzare nell’ordine. Nello specifico: la I fascia comprende gli aspiranti inseriti nelle GAE per il medesimo posto o classe di concorso cui è riferita la graduatoria di istituto; la II fascia comprende gli aspiranti non inseriti nella corrispondente GAE, ma forniti di specifica abilitazione o idoneità al concorso cui è riferita la graduatoria di istituto; la III fascia comprende gli aspiranti forniti (solo) di titolo di studio valido per l'accesso all'insegnamento richiesto (art. 5 e 7 del DM 13 giugno 2007, n. 131).
[22] Il primo aggiornamento delle GAE – il primo, dunque, successivo all’intervento dell’art. 1, co. 605, lett. c), della L. 296/2006, e valido per gli aa.ss. 2007/08 e 2008/09 – è stato disposto con D.D.G. 16 marzo 2007, che ha anche precisato i requisiti necessari per i nuovi inserimenti nelle stesse. In particolare, potevano presentare domanda di inserimento nelle GAE gli aspiranti in possesso di:
a) idoneità o abilitazione all'insegnamento conseguita a seguito del superamento dei concorsi a cattedre e posti per titoli ed esami;
b) idoneità conseguita a seguito del superamento del concorso per titoli ed esami a posti di personale educativo nelle istituzioni educative;
c) abilitazione all'insegnamento conseguita all’esito della frequenza di corsi SSIS e COBASLID o presso la scuola di didattica della musica;
d) abilitazione o idoneità conseguita a seguito di partecipazione alle sessioni riservate;
e) abilitazione o idoneità conseguita a seguito di partecipazione ai corsi speciali;
f) idoneità o abilitazione all’insegnamento conseguita in uno degli Stati dell’UE e riconosciute con provvedimento direttoriale, ai sensi delle direttive comunitarie 89/48 CEE e 92/51 CEE;
g) laurea in Scienze della formazione primaria avente valore abilitante.
In seguito, l’art. 5-bis del D.L. 137/2008 (L. 169/2008) ha consentito l’inserimento nelle GAE di ulteriori gruppi di docenti che avevano conseguito il titolo abilitante all’esito di corsi medio tempore attivati.
Ancora successivamente, l’art. 14, co. 2-ter, del D.L. 216/2011 (L. 14/2012), pur ribadendo che le GAE restavano chiuse, ha consentito l’iscrizione nelle stesse dei docenti che avevano conseguito l’abilitazione all’esito della frequenza di altri corsi, medio tempore attivati.
[23] La medesima Ordinanza, avente anche il valore di sentenza parziale, aveva al contempo respinto le domande di immissione nelle GAE dei possessori di laurea in scienza della formazione o altra laurea, nonché di abilitazione conseguita nei percorsi abilitanti speciali (PAS) conclusi entro il mese di luglio 2014, o di tirocinio formativo attivo (TFA), o idonei al concorso a cattedre, indetto con DDG n. 82 del 2012.
[24] Già con nota Prot. 15457 del 20 maggio 2015, il MIUR, rispondendo ad alcune richieste di chiarimento avanzate dagli Uffici scolastici regionali, aveva evidenziato che la sentenza 1973/2015 “così come chiarito dall'Avvocatura generale dello Stato esplica i suoi effetti solamente nei confronti dei soggetti appellanti. Viceversa, rispetto ai ricorrenti in primo grado che non abbiano impugnato la sentenza del TAR Lazio n. 7858 del 21 luglio 2014, quest'ultima deve ritenersi passata in giudicato. In linea con tale orientamento, deve ritenersi che debbano essere inseriti a pieno titolo nelle graduatorie ad esaurimento i destinatari di sentenze che abbiano definito, nel merito, la controversia in senso favorevole ai ricorrenti. Diversamente, si ritiene che nelle graduatorie ad esaurimento debbano essere inseriti con riserva i diretti destinatari di ordinanze cautelari favorevoli, con esclusione di coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione giuridica, abbiano tuttavia prestato acquiescenza al decreto ministeriale non invocando alcuna tutela giurisdizionale”.
[25] Rientrano nello Spazio economico europeo (SEE) gli Stati membri dell’Unione europea, l’Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia. La base giuridica per lo Spazio Economico Europeo è rinvenibile nell'articolo 217 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (accordi di associazione). Il SEE è stato istituito nel 1994 allo scopo di estendere le disposizioni applicate dall'Unione europea al proprio mercato interno ai paesi dell'Associazione europea di libero scambio (EFTA). La Norvegia, l'Islanda e il Liechtenstein sono membri del SEE, mentre la Svizzera fa parte dell'EFTA ma non del SEE.
La legislazione dell'UE relativa al mercato interno diventa parte della legislazione dei paesi SEE una volta che questi ultimi accettano di recepirla. L'attuazione e la concreta applicazione sono quindi assoggettate al controllo di appositi organismi EFTA e di un Comitato parlamentare misto.
Il SEE trascende i tradizionali accordi di libero scambio (ALS) in quanto estende l'insieme dei diritti e degli obblighi legati al mercato interno dell'UE ai tre Paesi aderenti. Il SEE include le quattro libertà del mercato interno (libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali) e le relative politiche (concorrenza, trasporti, energia nonché cooperazione economica e monetaria).
L'accordo include politiche orizzontali strettamente correlate alle quattro libertà: le politiche in materia di protezione dei consumatori, ambiente, statistica e diritto societario; nonché una serie di politiche di accompagnamento come quelle relative alla ricerca e allo sviluppo tecnologico, che non sono basate sull'acquis dell'UE o su atti giuridicamente vincolanti, ma sono attuate mediante attività di cooperazione.
[26] In particolare, la norma prevede che i crediti nascenti dai finanziamenti erogati sono preferiti a ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli per retribuzioni e provvigioni previsti dall'articolo 2751-bis del codice civile e fatti salvi i diritti preesistenti dei terzi.
[27] Ai fini dell'applicazione dei numeri 1) e 2) si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
[28] L’articolo 107 infatti, ai paragrafi 2 e 3, disciplina alcune specifiche ipotesi in cui gli aiuti sono compatibili, ovvero possono considerarsi compatibili con il mercato interno. Ai sensi del paragrafo 2 dell’articolo 107 TFUE, sono compatibili con il mercato interno:
a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti;
b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali;
c) gli aiuti concessi all'economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione. Cinque anni dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare una decisione che abroga la presente lettera.
Ai sensi del paragrafo 3, possono considerarsi compatibili con il mercato interno:
a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni di cui all'articolo 349, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e sociale;
b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell'economia di uno Stato membro;
c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse;
d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell'Unione in misura contraria all'interesse comune;
e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione.
[29] In generale, il concetto di giustificato motivo oggettivo, secondo la dottrina e la giurisprudenza, è riconducibile alle ragioni dirette ad una migliore efficienza gestionale, ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, che determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di posti di lavoro.
[30] Tuttavia, nel caso di mercati del lavoro di dimensioni ridotte, come i piccoli Stati membri o le regioni periferiche, oppure in circostanze eccezionali, possono essere presentate domande per un numero di esuberi inferiore a quello considerato in generale.
[31] Si tratta del Fondo istituito dall'articolo 10, comma 5, del decreto-legge n. 282 del 2004, al fine di agevolare il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica. Il Fondo viene utilizzato in modo flessibile ai fini del reperimento delle risorse occorrenti a copertura di interventi legislativi recanti oneri finanziari,