Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento Giustizia
Titolo: Riforma del processo penale
Riferimenti: AC N.2435/XVIII
Serie: Progetti di legge   Numero: 310
Data: 17/06/2020
Organi della Camera: II Giustizia

 

Riforma del processo penale

A.C. 2435

 

 

 

 

Servizio Studi

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Dossier n. 267

 

 

 

 

 

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Progetti di legge n. 310

 

 

 

 

 

 

 

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INDICE

 

Schede di lettura

Contenuto del disegno di legge........................................................................... 3

Capo I.................................................................................................................... 9

Articolo 1 (Oggetto e procedimento).................................................................. 9

Articolo 2 (Disposizioni per l'efficienza dei procedimenti penali e in materia di notificazioni)............................................................................................................................... 11

Articolo 3 (Indagini preliminari e udienza preliminare)............................... 17

Articolo 4 (Procedimenti speciali)................................................................... 31

Articolo 5 (Giudizio).......................................................................................... 41

Articolo 6 (Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica)   51

Articolo 7 (Appello)............................................................................................ 55

Articolo 8 (Condizioni di procedibilità).......................................................... 67

Articolo 9 (Ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive)..................... 71

Articolo 10 (Disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni)...................... 73

Articolo 11 (Disposizioni in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione)...................................................................................................... 77

Articolo 12 (Termini di durata del processo)................................................. 81

Articolo 13 (Disposizioni per la trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna)............................................................................................................ 87

Capo II................................................................................................................. 91

Articolo 14 (Disposizioni in materia di sospensione della prescrizione).... 91

Capo III............................................................................................................... 97

Articolo 15 (Misure straordinarie per la definizione dell’arretrato penale presso le Corti di appello)................................................................................................................ 97

Articolo 16 (Misure straordinarie per la celere definizione e per il contenimento della durata dei procedimenti giudiziari pendenti).............................................................. 99

Capo IV............................................................................................................. 103

Articolo 17 (Norma di copertura finanziaria).............................................. 103

Articolo 18 (Disposizioni finanziarie)........................................................... 107

 


Schede di lettura

 


Contenuto del disegno di legge

 

Il disegno di legge in esame, presentato alla Camera il 13 marzo 2020, ha lo scopo di rendere il processo penale più veloce ed efficiente, assicurando l'efficacia della risposta giudiziaria nel rispetto delle garanzie difensive.

 

In base alle ultime statistiche pubblicate dal Ministero della giustizia nell'ambito del programma di monitoraggio della giustizia penale, attraverso il quale vengono confrontati i dati riguardanti i procedimenti penali pendenti in un arco temporale piuttosto ampio (2003-2019), negli ultimi anni si è assistito ad una generalizzata diminuzione dei procedimenti penali pendenti, particolarmente marcata nell'anno 2016.

L'andamento calante risulta confermato anche nell'ultimo anno (2019) rispetto all'anno precedente (2018), con l'unica eccezione dei Tribunali per i minorenni, presso i quali si è avuto un incremento dei procedimenti pendenti, come si può osservare nelle tabelle seguenti, nelle quali sono messi a confronto i dati degli ultimi dieci anni (2010-2019).

 

 

Le maggiori criticità nel settore della giustizia penale permangono in riferimento alla durata dei procedimenti, come sottolineato nella Relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 2019 del Primo Presidente della Corte di Cassazione. I dati messi a confronto nella citata Relazione sono quelli che vanno dal 1° luglio del 2018 al 30 giugno 2019.

In tale periodo la durata media dei procedimenti in primo grado:

- è rimasta sostanzialmente stabile per il giudice di pace (-0,4%: da 229 a 228 giorni);

- è cresciuta del 4% per il tribunale (da 378 a 392 giorni).

Per il giudizio di appello, pur registrandosi una diminuzione della durata media (-2,4%: da 861 a 840 giorni), i valori assoluti continuano ad attestarsi su livelli assai elevati (come confermato anche dall'alto tasso di prescrizioni che si verificano nel secondo grado di giudizio, pari a circa il 25% dei procedimenti definiti dalle Corti di appello).

Per quanto riguarda la prescrizione, la Relazione rileva una "costante crescita di efficienza del sistema", come testimonia la costante diminuzione dei casi di prescrizione (da 136.888 del 2016 a 120.907 del 2018), che si verifica perlopiù nella fase delle indagini preliminari (42,7% nel 2018).

La Relazione evidenzia altresì lo scarso utilizzo dei riti alternativi al processo penale ordinario, sottolineando come soltanto l'11% dei procedimenti viene definito attraverso il ricorso a giudizio abbreviato o patteggiamento (7%) ovvero con l'emanazione di un decreto penale irrevocabile (4%).

 

 

Il disegno di legge in esame reca in particolare una delega al Governo per la modifica del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale, nonché per la revisione del regime sanzionatorio delle contravvenzioni ed è articolato in quattro capi.

 

Il capo I (articoli da 1 a 13) contiene deleghe al Governo per l'efficienza del processo penale, che dovranno essere esercitate entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di delega nel rispetto del procedimento delineato dall’articolo 1.

In particolare, il Governo dovrà riformare:

§  la disciplina del deposito degli atti e dei documenti prevedendo che, per tutti i procedimenti penali, in ogni stato e grado, esso possa essere effettuato anche con modalità telematiche e che in alcune ipotesi possa essere effettuato solo con tali modalità;

§  la disciplina delle comunicazioni e notificazioni, prevedendo anche in questo caso modalità telematiche, anche mediante soluzioni tecnologiche diverse dalla PEC; con particolare riferimento all’imputato, si dovrà prevedere che le notificazioni all'imputato non detenuto successive alla prima siano eseguite mediante consegna al difensore (articolo 2).

 

Inoltre, per quanto riguarda nello specifico le indagini preliminari, la riforma incide in primo luogo sulla durata delle stesse, rimodulandone i termini in funzione della gravità dei reati per cui si procede. Per rendere più difficilmente eludibile il termine di durata massima si istituisce un meccanismo di verifica giudiziale della tempestività nell’iscrizione delle notizie di reato da parte del pubblico ministero. Con riguardo alla fase conclusiva delle indagini sono introdotti alcuni obblighi a carico del PM, concernenti in primo luogo l’obbligo di notifica all’indagato e alla parte offesa del deposito degli atti delle indagini entro determinati termini variabili a seconda della gravità astratta del reato per cui si procede e in secondo luogo l’obbligo di presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro il termine di 30 giorni dalla presentazione della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa. Con riguardo all’udienza preliminare sono modificati i criteri decisori per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere (in modo analogo sono modificati i criteri per l’archiviazione), sostituendo il parametro di inidoneità a sostenere l’accusa, con quello dell’inidoneità degli elementi acquisiti a consentire una ragionevole previsione di accoglimento della prospettiva accusatoria nel giudizio. Si interviene inoltre in materia di criteri per la selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre (articolo 3).

 

Il Governo è inoltre delegato a riformare alcuni profili dei riti alternativi, con l’obiettivo di estenderne l’applicabilità con effetti deflattivi del rito dibattimentale. In particolare, il Governo dovrà:

§  consentire l’accesso al patteggiamento quando la pena detentiva risultante dopo l'applicazione delle circostanze e la diminuzione concordata non superi gli 8 anni, in luogo degli attuali 5, ed escludere questo rito per ulteriori delitti, ma solo quando l’accordo dovesse determinare l’applicazione di una pena detentiva superiore a 5 anni;

§  intervenire sul rito abbreviato subordinato ad una integrazione probatoria per consentirlo se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se, nonostante l’integrazione, il rito speciale produce comunque un’economia processuale rispetto al giudizio dibattimentale;

§  aumentare le possibilità di accesso ai riti premiali a fronte del decreto del GIP che dispone il giudizio immediato;

§  intervenire sul procedimento per decreto estendendo da 6 mesi a un anno, il termine a disposizione del PM per chiedere al GIP l’emissione del decreto, stabilendo che presupposto dell’estinzione del reato sia, oltre al decorso dei termini, anche il pagamento della pena pecuniaria e prevedendo che se il condannato rinuncia all’opposizione può essere ammesso a pagare una pena pecuniaria ridotta (articolo 4).

 

Con riguardo al giudizio dibattimentale, la riforma contiene alcune direttive specificamente rivolte all’obiettivo dell’accelerazione del procedimento, tra le quali:

§  la parziale limitazione della rinnovazione dibattimentale in caso di cambiamento fisico di uno dei componenti del collegio;

§  la previsione concernente la rinunzia di una parte all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta che non deve essere più condizionata al consenso delle altre parti;

§  il deposito delle consulenze tecniche e della perizia entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame del consulente o del perito;

§  l’introduzione dei processi relativi ai delitti colposi di comune pericolo tra quelli cui è assicurata priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi.

Sempre con riguardo al giudizio vi sono altresì alcuni principi e criteri che incidono sullo svolgimento del dibattimento con la previsione di una relazione illustrativa della richiesta di prove nonché in tema di calendarizzazione delle udienze (articolo 5).

 

Il Governo dovrà inoltre intervenire sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica per prevedere, nei casi di citazione diretta a giudizio, di un’udienza nella quale il giudice (diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà celebrarsi il giudizio) valuta, sulla base degli atti presenti nel fascicolo del pubblico ministero, se il dibattimento debba essere celebrato o se, al contrario, debba intervenire una pronuncia di sentenza di non luogo a procedere (articolo 6)

 

Per quanto riguarda invece la presentazione dell’appello, la riforma dovrà consentire al difensore di appellare la sentenza solo se munito di uno specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza stessa, ed eliminare le disposizioni che consentono di presentare l’impugnazione nella cancelleria di un ufficio giudiziario diverso da quello che ha emesso l’atto da impugnare e di procedere con telegramma o raccomandata, disciplinando invece il deposito telematico dell’impugnazione. Inoltre, nell’esercizio della delega il Governo dovrà:

- estendere le attuali ipotesi di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere, alle pronunce relative a tutti i reati (contravvenzioni o delitti) puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, con specifiche e limitate esclusioni. Analogamente, dovranno essere estese le attuali ipotesi di inappellabilità delle sentenze di condanna alle sentenze che condannano al lavoro di pubblica utilità;

- prevedere l’attribuzione di specifici giudizi di appello alla competenza della Corte d’appello in composizione monocratica e disciplinare un rito camerale non partecipato per lo svolgimento di tali giudizi;

- prevedere l’applicazione del rito camerale non partecipato anche nei casi nei quali è oggi consentito il rito camerale purché ne faccia richiesta l’imputato e non sia necessario rinnovare l'istruttoria dibattimentale (articolo 7).

 

Ulteriori principi e criteri direttivi delegano il Governo a intervenire:

§  sulle condizioni di procedibilità, prevedendo la procedibilità a querela del reato di lesioni stradali colpose gravi, la remissione tacita della querela in caso di mancata comparizione del querelante all’udienza nella quale sia stato citato in qualità di testimone e l’obbligo in sede di querela di dichiarare o eleggere il domicilio per le notificazioni, ammettendosi a tale fine anche l'indicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata (articolo 8);

§  sui criteri di ragguaglio della pena detentiva alla pena pecuniaria, sostituendo l'attuale misura di 250 euro per ogni giorno di pena detentiva con un importo inferiore, non superiore a 180 euro (articolo 9);

§  sulle contravvenzioni, prevedendo una causa di estinzione di alcune contravvenzioni, destinata a operare già nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall'organo accertatore e del pagamento di una somma di denaro nonché la possibilità di sostituire il pagamento con la prestazione di lavoro di pubblica utilità (articolo 10);

§  sul controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione, per dare seguito a una pronuncia della CEDU, prevedendo uno strumento di impugnazione del decreto di perquisizione o di convalida della perquisizione, anche quando ad essa non consegua un provvedimento di sequestro (articolo 11).

 

Il legislatore delegato dovrà inoltre:

§  introdurre termini di durata del processo penale, che il CSM potrà modificare - in relazione alle specificità di ciascun ufficio giudiziario - con cadenza biennale. I singoli magistrati dovranno adottare misure organizzative del proprio lavoro tali da assicurare la definizione dei processi penali nel rispetto di tali termini; la mancata adozione di tali misure (e non il mancato rispetto dei termini), se imputabile a negligenza inescusabile, potrà rilevare a titolo di responsabilità disciplinare (articolo 12);

§  individuare principi e criteri direttivi per la riforma dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna. In particolare, il Governo dovrà disciplinare una istanza mediante la quale le parti, alla scadenza dei termini di durata del processo fissati in sede di riforma, possono sollecitare la trattazione del giudizio di impugnazione avverso la sentenza di condanna in primo grado. Dalla presentazione dell’istanza il processo dovrà essere definito entro 6 mesi. Spetterà ai dirigenti degli uffici giudiziari e ai singoli magistrati assicurare il rispetto di tali termini dettando idonee misure organizzative. In caso di violazione del termine dovuta a negligenza inescusabile, potranno essere applicate sanzioni disciplinari, ma non prima del 1° gennaio 2024 (articolo 13);

Il Capo II consta del solo articolo 14, che modifica l’art. 159 del codice penale, relativo alla sospensione del termine di prescrizione. In questo caso, dunque, il disegno di legge non prevede una delega al Governo, ma interviene direttamente sulla disciplina del codice penale con la finalità di:

-         modificare l’istituto – introdotto dalla legge n. 3 del 2019 – che blocca la prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, prevedendo, dopo una sentenza di assoluzione, che il termine di prescrizione continui a correre e, dopo una sentenza di condanna, che il termine sia sospeso fino alla pronuncia definitiva, salva l’ipotesi di assoluzione in appello;

-         consentire, in caso di assoluzione in appello dopo la condanna in primo grado, il computo dei periodi di sospensione della prescrizione maturati dopo la condanna;

-         prevedere che, in caso di assoluzione in primo grado, se il termine di prescrizione scade entro un anno dal deposito della sentenza, che lo stesso sia sospeso per massimo un anno e mezzo, al fine di consentire il giudizio di appello, e per massimo 6 mesi, al fine di consentire il giudizio in cassazione. Se durante tali sospensioni, si verifica un’ulteriore causa di sospensione, i termini sono prolungati e, in caso di conferma dell’assoluzione in appello, tali periodi di sospensione dovranno essere nuovamente computati.

 

 

Il capo III (articoli 15 e 16) contiene norme immediatamente precettive che prevedono misure straordinarie per la celere definizione e per il contenimento della durata dei procedimenti pendenti presso le corti di appello. In particolare, l’articolo 15, il cui contenuto è stato anticipato nel decreto-legge n. 34 del 2020, in corso di conversione, introduce modifiche alla disciplina dei giudici ausiliari in appello, aumentandone il numero e consentendo il loro impiego nei procedimenti penali, mentre l’articolo 16 autorizza il Ministero della giustizia ad assumere un contingente massimo di 1.000 unità di personale amministrativo non dirigenziale di area II/F2.

 

Il capo IV (articoli 17 e 18) contiene le disposizioni finanziarie.

 

 

 

 


Capo I

Articolo 1
(Oggetto e procedimento)

 

 

Il capo I del disegno di legge (artt. 1-13) contiene deleghe al Governo per l'efficienza del processo penale.

 

In particolare, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di delega, il Governo deve adottare uno o più decreti legislativi di riforma, novellando il codice di procedura penale, il codice penale e le leggi speciali e rivedendo il regime sanzionatorio delle contravvenzioni nel rispetto delle garanzie difensive e dei principi e criteri direttivi previsti dagli articoli del disegno di legge in relazione alle diverse materie di intervento.

 

La procedura da seguire nell’attuazione della delega è delineata dal comma 2 dell’articolo 1, che prevede che gli schemi di decreto legislativo siano adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro per l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione e con il Ministro per la pubblica amministrazione. Su tali schemi deve essere acquisito il parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, che si esprimono entro sessanta giorni dalla ricezione degli schemi medesimi; in caso di inutile decorso del termine, i decreti possono essere emanati anche senza i prescritti pareri.

 

La medesima procedura di cui al comma 2 deve essere seguita qualora, entro due anni dalla data di entrata in vigore dell’ultimo dei decreti legislativi di attuazione della delega, il Governo ritenga necessario adottare disposizioni integrative e correttive della riforma (comma 4).

 

Ai sensi del comma 3, infine, il Governo è delegato ad adottare, nei termini e con la procedura di cui ai commi 1 e 2, uno o più decreti legislativi recanti le norme di attuazione delle disposizioni adottate ai sensi del comma 1 e di coordinamento tra le stesse e le altre leggi dello Stato, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme del codice penale, del codice di procedura penale e delle disposizioni contenute in leggi speciali non direttamente investite dai princìpi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie.

 

 


Articolo 2
(Disposizioni per l'efficienza dei procedimenti penali e in materia di notificazioni)

 

L'articolo 2 reca principi e criteri direttivi cui devono ispirarsi i decreti attuativi della delega in tema di efficienza dei procedimenti penali, con particolare riferimento al deposito degli atti e dei documenti, nonché in materia di notificazioni in ogni ordine e grado dei medesimi.

 

Più nel dettaglio il comma 1, lett. a), stabilisce che, nel dare attuazione alla delega, si dovrà prevedere, per tutti i procedimenti penali, in ogni stato e grado, che il deposito di atti e documenti possa essere effettuato anche con modalità telematiche.

La lett. b) pone in capo al Ministero della giustizia, con uno o più decreti di natura non regolamentare, l'individuazione degli uffici giudiziari e delle tipologie di atti per i quali il deposito telematico in oggetto assuma carattere obbligatorio. Tali disposizioni attuative dovranno essere adottate sentiti l'Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio nazionale forense e i consigli dell'ordine degli avvocati interessati, previa verifica e accertamento della funzionalità dei servizi di comunicazione. Ove il deposito è obbligatorio, il capo dell'ufficio può autorizzare il deposito con modalità non telematiche solo quando i sistemi informatici del dominio «giustizia» non siano funzionanti e sussista una situazione d'urgenza. Dovrà comunque essere assicurata agli interessati conoscenza adeguata e tempestiva della circostanza, nonché del rispristino del sistema (lett. c)).

 

Il dominio giustizia (@giustizia.it) è l'insieme delle risorse hardware e software, mediante il quale il Ministero della giustizia tratta in via informatica e telematica qualsiasi tipo di attività, di dato, di servizio, di comunicazione e di procedura (art. 2, co. 1, lett. a), DM 21 febbraio 2011, n. 44).

 

Nei procedimenti penali in ogni stato e grado, si dovrà prevedere che il deposito telematico di atti e documenti:

§  possa avvenire anche mediante soluzioni tecnologiche che assicurino la generazione di un messaggio di avvenuto perfezionamento del deposito, fatto salvo il rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici (lett. d));

§  si consideri avvenuto nel momento in cui è generato il messaggio di conferma del completamento della trasmissione (lett. e)).

 

Il regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione, nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione è stato emanato con il citato decreto del Ministro della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44, in attuazione dell'art. 4 del D.L. n. 193 del 2009.

 

Si ricorda che l'art. 48 del codice dell'amministrazione digitale - CAD (di cui al d.lgs. n. 82 del 2005) prevede che la trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata via posta elettronica certificata -  PEC (o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate da apposite linee guida), equivalga alla notificazione per mezzo della posta, "salvo che la legge disponga diversamente". La norma fa quindi salva la specialità delle normative di settore. Ne consegue che la disposizione non possa essere applicata in via generale al deposito telematico e alle notificazioni nei procedimenti penali[1].

 

Si osserva che la lettera d) non fa riferimento esclusivo al mezzo della posta elettronica certificata - PEC, prevedendo il deposito telematico mediante "soluzioni tecnologiche", a condizione che tali soluzioni assicurino la generazione di un messaggio di avvenuto perfezionamento del deposito.

 

Le lettere da f) a l) e la lettera p), recanti principi e criteri direttivi per la disciplina della trasmissione telematica di comunicazioni e notificazioni, ammettono esplicitamente l'utilizzo di "soluzioni tecnologiche diverse dalla posta elettronica certificata". Tale specificazione sembra rendersi necessaria in quanto la disciplina vigente ammette la trasmissione telematica tramite PEC per alcune notificazioni e comunicazioni.

 

Si dovrà prevedere che le comunicazioni siano effettuate, nei procedimenti penali in ogni stato e grado, con modalità telematiche, anche mediante soluzioni tecnologiche diverse dalla PEC, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici (lett. f)).

Nel caso in cui la notificazione venga eseguita con modalità diversa dalla PEC, si dovrà prevedere che il sistema generi un messaggio di conferma dell'avvenuta trasmissione (lett. h)).

 

Le lettere g) e i) recano disposizioni di analogo tenore con riferimento alle notificazioni a persona diversa dall'imputato. In tale caso si dovrà prevedere:

§  che le notificazioni debbano essere eseguite, nei procedimenti penali in ogni stato e grado, con modalità telematiche, anche diverse dalla PEC (lett. g));

§  che, qualora si adotti una soluzione tecnologica diversa dalla PEC, le notificazioni in oggetto si considerino avvenute nel momento in cui è generato il messaggio di conferma della trasmissione (lett. i)).

Tali disposizioni mirano quindi a prevedere in via generale la possibilità di utilizzare modalità diverse dalla PEC, in sede di attuazione della delega.

 

A tale riguardo si ricorda che l'art. 16, comma 4, del d.l. 179 del 2012 ("decreto crescita") stabilisce che nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria dovranno essere effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procederà, nel procedimento penale, per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, c.p.p.. La notifica avviene quindi via PEC a persona diversa dall'imputato a condizione che tale soggetto sia in possesso di indirizzo PEC incluso in pubblici elenchi e comunque accessibile alle pubbliche amministrazioni. La relazione di notificazione viene redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alle cancellerie. Sulla base di tale precisazione si dovrebbe quindi escludere che le parti private possano fare uso della PEC. L'art 150 c.p.p. prevede che, "quando lo consigliano circostanze particolari", il giudice, con proprio decreto, può disporre la notificazione a persona diversa dall'imputato mediante mezzi comunque idonei a garantire la conoscibilità dell'atto (quindi anche PEC o altri mezzi). L'art. 149 prevede la possibilità da parte del giudice di disporre, anche su richiesta di parte, che, in casi di urgenza, le persone diverse dall'imputato siano avvisate o convocate a mezzo del telefono, a cura della cancelleria o, quando ciò risulti impossibile, con telegramma. L'art. 151, comma 2, prevede che la consegna di copia all'interessato, da parte della segreteria, di atti del pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, abbia valore di notificazione.

L'art. 148, comma 2-bis (inserito dal d.l. n. 374/2001), consente la notifica ai difensori con "mezzi idonei".

Inoltre, l’art. 16, comma 10, del citato d.l. n. 179 del 2012 prevede che sia un decreto avente natura non regolamentare del Ministro della giustizia – da emanare sentiti l'Avvocatura generale dello Stato, il CNF e i consigli dell'ordine degli avvocati interessati – a dare atto della verifica di funzionalità dei servizi di comunicazione telematica (si tratta quindi di decreto emanato con modalità analoghe a quanto previsto dalla lett. b) delle disposizioni in commento, riguardo all'obbligo di deposito notificazione telematica), premettendo così il via alla piena operatività del sistema informatico in taluni uffici giudiziari. A seguito dell'emanazione di diversi decreti, alcuni uffici giudiziari hanno potuto procedere alle notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, c.p.c. e a norme del medesimo art. 16 del d.l. n. 179 del 2012.

La notifica telematica si configura quindi come obbligo, ai sensi dell'art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, solo a condizione che il destinatario sia persona diversa dall'imputato, sia in possesso di indirizzo PEC presente in pubblici elenchi o accessibile da pubbliche amministrazioni, ovvero sia un soggetto obbligato per legge a possedere un indirizzo PEC (quest'ultimo caso è da ricondurre all'art. 16, co. 6, il quale prevede che in caso di mancanza di tale indirizzo sia ammesso il deposito in cancelleria).

A tale obbligo si aggiunge la possibilità generalizzata di notificazione via PEC, ai sensi dell'art. 148, co. 2-bis e 150 c.p.p., in quanto la PEC medesima è da annoverare tra i "mezzi idonei" ivi contemplati. Si tratta però, in questi ultimi casi, di una facoltà, disposta dal giudice con decreto al ricorrere di particolari condizioni.

 

Le lettere l) e m) recano criteri e principi direttive concernenti la disciplina delle notificazioni all'imputato.

 

In particolare, ai sensi della lett. l) si dovrà prevedere che le notificazioni all'imputato non detenuto successive alla prima siano eseguite mediante consegna al difensore. Anche per tali notificazioni dovranno essere previste modalità elettroniche, ivi comprese quelle diverse dalla PEC, assicurando comunque la produzione del messaggio di conferma dell'avvenuta consegna. Inoltre, si dovranno prevedere le deroghe alle disposizioni relative alla notificazione mediante consegna di copia al difensore, al fine di garantire tempestivamente la conoscenza dell'atto da parte dell'imputato, in particolare quando l'imputato sia assistito da un difensore d'ufficio e la prima notificazione non sia stata eseguita mediante consegna dell'atto personalmente all'imputato o a persona idonea a comunicare l'atto all'interessato (ad esempio la persona che con lui conviva, anche temporaneamente). Tale disciplina dovrà trovare applicazione al di fuori dei casi previsti dagli articoli 161 e 162 c.p.p. recanti disciplina del domicilio dichiarato, eletto o determinato per le notificazioni e la relativa comunicazione (v. infra).

Il primo atto notificato all'imputato, inoltre, secondo i principi e i criteri di cui alla lett. m), dovrà anche contenere un avviso per informare l'interessato che le notificazioni successive alla prima sono effettuate mediante consegna al difensore, anche con modalità telematiche, e che l'imputato abbia l'onere di indicare al difensore un recapito idoneo, ed ogni successivo mutamento dello stesso, ove effettuare le comunicazioni.

La lett. o) prevede, conseguentemente, che in sede di attuazione della delega si dovrà procedere al coordinamento tra la notificazione mediante consegna di copia al difensore e la notificazione nel caso di dichiarazione o elezione di domicilio, anche con specifico riguardo alle notificazioni all'imputato detenuto, ai sensi dell'articolo 156 del codice di procedura penale (v. infra).

Ai sensi della lett. p) si dovrà prevedere che, nel caso di impugnazione dell'imputato o di opposizione al decreto penale di condanna, tutte le notificazioni all'imputato siano effettuate mediante consegna di copia al difensore e si dovranno disciplinare, per tali casi, le modalità di notifica mediante la modalità telematica, anche con strumento diverso dalla PEC.

 

Per quanto concerne le notifiche all'imputato non detenuto, l'art. 161 c.p.p. stabilisce che il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato non detenuto né internato, lo invitano a dichiarare la casa di abitazione o il luogo in cui l'imputato esercita abitualmente l'attività lavorativa (vale a dire uno dei luoghi indicati nell'art. 157, co. 1, c.p.p.) ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni. Fuori da questi casi, l'invito a dichiarare o eleggere domicilio è formulato con l'informazione di garanzia o con il primo atto notificato per disposizione dell'autorità giudiziaria. In ogni caso l'imputato è avvertito dell'obbligo di dichiarare ogni mutamento. In caso di mancanza, di insufficienza o di inidoneità della dichiarazione o della elezione di domicilio, le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in cui l'atto è stato notificato. Si prevede quindi specifica disciplina per il detenuto scarcerato (per causa diversa dal proscioglimento definitivo) o dimesso da istituto per l'esecuzione di misure di sicurezza. Quando la notificazione al domicilio determinato sia impossibile ovvero siano insufficienti, mancanti o inidonee l'elezione o dichiarazione di domicilio, l'art. 161, comma 4, prevede che le notificazioni siano eseguite mediante consegna al difensore.

Al riguardo si segnala che alcune pronunce hanno confermato la validità delle notifiche al difensore tramite PEC, effettuate ai sensi dell'art. 161, comma 4, c.p.c. citato[2].  

L'art. 162 c.p.p. disciplina la comunicazione del domicilio dichiarato o eletto, effettuata dall'imputato all'autorità che procede, con dichiarazione raccolta a verbale ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata, con sottoscrizione autenticata da un notaio o da persona autorizzata o dal difensore. La dichiarazione può essere eseguita anche nella cancelleria del tribunale del luogo nel quale l'imputato si trova, con successiva comunicazione del verbale all'autorità che procede. Finché l'autorità giudiziaria che procede non ha ricevuto il verbale o la comunicazione, sono valide le notificazioni disposte nel domicilio precedentemente dichiarato o eletto. Si prevede che, nel caso di elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, debba essere comunicato all'autorità procedente, unitamente alla dichiarazione, anche l'assenso del difensore domiciliatario.

Riguardo alle notifiche all'imputato detenuto, l'art. 156 prevede la loro esecuzione nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona. Sono quindi dettate specifiche disposizioni relative al caso del rifiuto o dell'assenza legittima del detenuto dal luogo di detenzione. Le norme si applicano anche quando risulti che l'imputato è detenuto per causa diversa dal procedimento per il quale deve eseguirsi la notificazione o è internato in un istituto penitenziario.

 

Secondo quanto previsto dalla lett. n) si dovrà prevede che l'omessa o ritardata comunicazione all'assistito, per causa imputabile al medesimo assistito, non costituisca inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale del difensore.

 

Si ricorda, infine, che a seguito dell'emergenza da Covid-19 sono state dettate specifiche disposizione in materia di comunicazioni e notificazioni relative ai procedimenti le cui udienze sono rinviate d’ufficio a data successiva al 11 maggio 2020 (termine così fissato dal d.l. 23/2020), ai sensi delle medesime disposizioni dettate a seguito dell'emergenza[3].


Articolo 3
(Indagini preliminari e udienza preliminare)

 

L’articolo 3 detta principi e criteri direttivi volti a riformare alcuni profili della disciplina in materia di durata delle indagini preliminari, rimodulandone i termini in funzione della gravità dei reati, in materia di fase conclusiva delle indagini, con la finalità di evitare la stasi del processo e garantire maggiormente tanto gli indagati quanto la parte offesa dal reato, e in materia di criteri decisori per la sentenza di non luogo a procedere al termine dell’udienza preliminare.

 

 

Un primo gruppo di principi e criteri, è accomunato dallo scopo di aumentare l’efficienza della fase delle indagini preliminari.

Tale obiettivo è, anzitutto, perseguito tramite le lettere c) e d), con le quali il Governo è delegato a riformare i termini di durata delle indagini preliminari, rimodulandoli in funzione della gravità dei reati per cui si procede.

La riforma intende incidere sia sulla durata ordinaria delle indagini che su quella massima (ossia sul regime delle proroghe).

La disciplina attuale prevede un termine ordinario per la durata delle indagini che è di 6 mesi per la generalità dei reati. Fanno eccezione solo le indagini per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a) (reati di particolare gravità) la cui durata ordinaria è di un anno.

La durata massima è attualmente fissata in 18 mesi. Il termine è invece di due anni se si procede per i citati reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), oppure si tratta di indagini particolarmente complesse, oppure ove sia necessario mentenere collegamenti tra più Procure, infine ove sia necessario compiere atti all’estero (art. 407, comma 2, lett. b), c) e d) (si veda più nel dettaglio infra).

 

Le novità apportate dalla riforma sono essenzialmente le seguenti:

§  si estende di sei mesi (passa da 6 mesi a un anno) la durata del termine ordinario delle indagini per le fattispecie considerate gravi o complesse; il termine massimo, rimane comunque di 24 mesi;

§  si riduce la durata massima delle indagini per i reati di medio/bassa gravità, le quali, diventando prorogabili solo una volta al massimo per 6 mesi, potrebbero al massimo raggiungere un anno (in luogo degli attuali 18 mesi).

 

Più nel dettaglio, la lettera c), è volta a stabilire il seguente regime di durata ordinaria delle indagini:

§  un anno per la generalità dei reati;

§  sei mesi per le fattispecie punite con la sola sanzione pecuniaria o con pena non superiore nel massimo a tre anni di reclusione (sola o congiunta a pena pecuniaria);

§  un anno e sei mesi per i procedimenti relativi ai delitti contemplati dall’articolo 407, comma 2, c.p.p.

La lettera d) interviene invece sull’istituto della proroga, stabilendo che quest’ultima possa essere richiesta una volta soltanto, per un lasso di tempo non superiore a sei mesi.

 

In base alla riforma il nuovo regime della durata delle indagini dovrebbe dunque essere questo:

§  per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a 3 anni sola o congiunta alla pena pecuniaria, il termine di durata è 6 mesi e tale termine è  prorogabile una sola volta di 6 mesi; attualmente per tali reati il termine di durata è 6 mesi, prorogabili fino ad un totale di 18 mesi:  quindi pur restando invariato il termine ordinario, viene abbreviato quello massimo, che passa da 18 mesi a  12 mesi;

Nella disciplina vigente, tale tipologia di reati rientra nella previsione generale di cui all’art. 405 c.p.p., comma 2, che fissa il termine ordinario delle indagini, in sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato. Per quanto riguarda la durata massima, tali reati rientrano nella generale previsione di cui all’art. 407, comma 1, che fissa il termine massimo a 18 mesi.

 

§  per i delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a) c.p.c. il termine di durata ordinaria passa dagli attuali 12 ai 18 mesi; il termine di durata massima resta tuttavia invariato: 24 mesi nella normativa vigente e 24 mesi in base alla riforma (che consente una sola proroga di sei mesi); per i casi di cui all’articolo 407, secondo comma, lettere b) e c), il termine ordinario passa da 6 mesi a 18 mesi; resta invariato il termine massimo di 24 mesi (nella normativa vigente consentite proroghe fino a 24 mesi, nella riforma una sola proroga di 6 mesi).

L’articolo 405, comma 2 stabilisce che il regime di durata ordinaria delle indagini è di un anno se si procede per taluno dei delitti indicati nell'articolo 407 comma 2 lettera a). Tale ultima disposizione comprende un vasto elenco di reati gravi. Si tratta di: devastazione, saccheggio e strage (art. 285. c.p.); guerra civile (c.p. art. 286); associazioni di tipo mafioso anche straniere    c.p. art. 416-bis; strage  (art. 422. c.p); contrabbando di tabacchi lavorati esteri aggravato e ipotesi aggravata dell’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (artt. 291-ter e 291-quater del D.P.R. 23/01/1973, n. 43); omicidio (art. 575 c.p.); rapina (art. 628 c.p.); estorsione (art. 629 c.p.); sequestro di persona (art. 630 c.p.); delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis c.p ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo ; delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale; associazioni sovversive (art. 270. c.p.); formazione e partecipazione a Banda armata. c.p. art. 306; delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine; ipotesi aggravate di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 80, comma 2, e 74 del dPR 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni; associazione a delinquere (art. 416 c.p.)  nei casi in cui è obbligatorio l'arresto in flagranza; circostanze aggravanti della violenza sessuale (art. 609-ter c.p).. atti sessuali con minorenne (art. 609-quater. c.p). Violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.); promozione, direzione, organizzazione, finanziamento o trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ( art. 12, comma 3, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286).

Le ipotesi di cui all’art. 407, comma 2, lettere b),c) e d) sono attualmente soggette alla disciplina generale con riferimento alla durata ordinaria delle indagini (6 mesi), mentre il termine per la durata massima è 24 mesi, così come le ipotesi sopradescritte di cui alla lettera a). Si tratta: delle notizie di reato che rendono particolarmente complesse le investigazioni per la molteplicità di fatti tra loro collegati ovvero per l'elevato numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese; delle indagini che richiedono il compimento di atti all'estero; dei procedimenti in cui è indispensabile mantenere il collegamento tra più uffici del pubblico ministero.

 

§  per tutti gli altri reati, il termine è di 12 mesi, prorogabili fino al massimo 18 mesi; attualmente il termine è di 6 mesi prorogabili fino ad un massimo di 18 mesi (tranne alcuni specifici delitti): quindi il termine resta invariato. Tra questi tuttavia vi sono alcuni specifici reati (richiamati all’art. 406, comma 2-ter c.p.p.) il cui termine massimo delle indagini sembra ampliarsi con la riforma: attualmente si prevede che per tali reati la proroga possa essere concessa una sola volta e dunque la durata massima sarebbe un anno (sei mesi termine ordinario più sei di proroga): nella riforma passando il termine ordinario a 12 mesi, con la proroga di 6 mesi si arriverebbe a 18 mesi.

Il comma 2-ter dell’articolo 406 detta una disciplina speciale in materia di materia di proroga delle indagini , per alcuni specifici reati, stabilendo che in tali casi la proroga stessa può essere concessa per non più di una volta. Si tratta dei seguenti reati: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); omicidio colposo ( art. 589 c.p) omicidio stradale (art. 589-bis c.p.); lesioni personali colpose (art. 590 c.p.); lesioni personali stradali gravi o gravissime (art.590-bis. c.p.)    ; atti persecutori (art. 612-bis c.p.). 

Più in generale l’articolo. art. 406 c.p.p. dispone in materia di proroga del termine delle indagini preliminari, che può essere richiesta al giudice dal P.M. prima della scadenza La richiesta contiene l'indicazione della notizia di reato e l'esposizione dei motivi che la giustificano. Ulteriori proroghe possono essere richieste dal pubblico ministero nei casi di particolare complessità delle indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato. Ciascuna proroga può essere autorizzata dal giudice per un tempo non superiore a sei mesi.

 

Durata massima delle indagini preliminari (artt. 405-407 c.p.p.)

                    Normativa vigente

Principi di delega

Reati gravi di particolare allarme sociale (art. 407, comma 2, lett. a)

Massimo 24 mesi

12 mesi prorogabili 2 volte
(12+6+6)

Massimo 24 mesi

18 mesi prorogabili 1 volta
(18+6)

Reati complessi (art. 407, comma 2, lett.b); indagini che richiedono il compimento di atti all'estero, lett c); procedimenti in cui è indispensabile mantenere il collegamento tra più uffici del PM, lett. d)

Massimo 24 mesi

6 mesi prorogabili 3 volte
(6+6+6+6)

Reati puniti con sola pena pecuniaria o con reclusione fino a 3 anni (sola o congiunta a pena pecuniaria)

Massimo 18 mesi

6 mesi prorogabili 2 volte
(6+6+6)

Massimo 12 mesi

6 mesi prorogabili 1 volta
(6+6)

Tutti gli altri reati

Massimo 18 mesi

6 mesi prorogabili 2 volte
(6+6+6)

Massimo 18 mesi

12 mesi prorogabili 1 volta
(12+6)

Reati di cui agli artt. 572, 589, co. 2, 589 bis, 590, co. 3, 590 bis e 612-bis c.p.

Max 12 mesi

6 mesi prorogabili 1 volta
(6+6)

 

Alla durata massima delle indagini preliminari si ricollegano, sia pure indirettamente i principi e criteri espressi nella lettera l).

Con tale lettera si delega il Governo ad istituire un meccanismo di verifica giudiziale della tempestività nell’iscrizione delle notizie di reato da parte del pubblico ministero, al fine di rendere, come specificato nella Relazione illustrativa, “ineludibile il termine di durata massima delle indagini preliminari”.

L’art. 335 c.p.p. prevede che il pubblico ministero iscriva immediatamente, nell'apposito registro custodito presso l'ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito Se nel corso delle indagini preliminari muta la qualificazione giuridica del fatto ovvero questo risulta diversamente circostanziato, il pubblico ministero cura l'aggiornamento delle iscrizioni senza procedere a nuove iscrizioni.

 

In particolare il Governo dovrà attribuire al g.u.p. o al giudice del dibattimento (a seconda che vi sia o meno l’udienza preliminare) - fino a che le parti non abbiano formulato le conclusioni nell'udienza preliminare o, se questa manchi, subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti in giudizio, - il potere di accertare, su richiesta motivata dell’interessato, la data di reale acquisizione della notizia di reato da parte del pubblico ministero; e ciò ai fini della valutazione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo l’effettiva scadenza del termine di durata massima delle investigazioni.

Lo scopo della disposizione di delega è dunque ravvisabile nel tentativo di evitare che l’accusa ritardi nell’adempiere all’obbligo di tempestiva iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.

Con riguardo alla tematica della sindacabilità delle scelte dei pubblici ministeri in punto di iscrizione delle notizie di reato la Cassazione afferma che «l’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione […] rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del p.m. ed è sottratto, in ordine all’an e al quando, al sindacato del giudice». Cass., sez. un., 21 gennaio 2000, Nello stesso senso, Cass., sez. I, 16 maggio 2019, n. 40122, ; Cass., sez. I, 16 ottobre 2018, n. 49985; Cass., sez. V, 23 maggio 2017, n. 44044.

 

 

Le lettere e), f) e g), incidono sulla fase conclusiva delle indagini preliminari, con l’obiettivo da un lato di rafforzare le garanzie dell’indagato e della persona offesa e dall’altro di ridurre i momenti di stasi del processo.

 

In particolare, con la lettera e) il Governo è delegato a prevedere l’obbligo a carico del pubblico ministero di notificare l'avviso del deposito della documentazione relativa alle indagini espletate, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato, che nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione abbia dichiarato di volerne essere informata.

Tale obbligo dovrà scattare solo nei casi in cui lo stesso pubblico ministero, entro determinati termini:

§  non abbia notificato l'avviso della conclusione delle indagini previsto dall'articolo 415-bis c.p.p.;

L’articolo 415-bis c.p.p. (introdotto nel codice di rito dalla legge 479/1999) pone l’obbligo al P.M., al termine delle indagini preliminari e prima di esercitare l’azione penale di notificare all’indagato e al difensore (nonché, quando si procede per i reati di maltrattamenti contro familiari e atti persecutori anche al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa) un avviso contenente l’enunciazione del fatto per cui si procede, della data e del luogo del reato commesso; nonché l’informazione che gli atti delle indagini sono depositati presso la segreteria del P.M.

Gli atti di indagine non depositati sono inutilizzabili.

L’obbligo del P.M. di notificare l’avviso della conclusione delle indagini è limitato al caso in cui il P.M. si determini a richiedere la celebrazione dell’udienza preliminare, ma un’estensione dell’operatività della disposizione di cui all’art. 415 bis è prevista dall’art. 550 c.p.p. in tema di citazione diretta a giudizio.

 

§  oppure non abbia richiesto l'archiviazione.

 

I termini entro i quali il PM deve attivarsi sono variabili a seconda della gravità astratta del reato per cui si procede, ossia entro i termini, decorrenti dalla scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari:

§  tre mesi nei casi ordinari;

§  sei mesi  nei casi di cui all'articolo 407, comma 2, lettera b), ossia nei casi di notizie di reato che rendono particolarmente complesse le investigazioni per la molteplicità di fatti tra loro collegati ovvero per l'elevato numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese;

§  dodici mesi nei casi di indagini per i gravi delitti di cui all’art. 407 comma 2, lettera a), numeri 1), 3) e 4), c.p.p.

Come già ricordato, si tratta dei delitti:

-          di cui agli articoli 285 (devastazione saccheggio strage), 286 (guerra civile), 416-bis (associazione mafiosa) e 422 (strage) del codice penale, 291-ter, limitatamente alle ipotesi aggravate previste dalle lettere a), d) ed e) del comma 2,( circostanze aggravanti del delitto di contrabbando di tabacchi lavorati esteri) e 291-quater, comma 4, (associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri aggravata) del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43;

-          commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (associazione mafiosa)

-          commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonché delitti di cui agli articoli 270, terzo comma (associazione sovversiva aggravata) e 306, secondo comma, del codice penale (partecipazione banda armata)

 

Oggetto della notifica deve essere oltre l'avviso del deposito anche l’avviso in merito alla facoltà della persona sottoposta alle indagini e del suo difensore nonché della persona offesa dal reato di prenderne visione ed estrarne copia.

Solo con riferimento ai procedimenti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 1), 3) e 4), del codice di procedura penale (vedi sopra) la notifica del predetto avviso potrà essere ritardata, per un limitato periodo di tempo e con provvedimento motivato.

Il mancato rispetto dei termini stabiliti per la notifica del deposito degli atti non appare sanzionata con la inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine.

 

Secondo quanto specificato nella Relazione illustrativa tale previsione sarebbe volta a rimediare ad eventuali ritardi o stasi nelle indagini assicurando l’effettiva conoscenza di tutti gli atti alle persone interessate (siano persone soggette ad indagini, siano parti offese), le quali avrebbero così maggiori possibilità di attivarsi per eventuali indagini difensive e per sollecitare le iniziative nel loro interesse (archiviazione o esercizio dell’azione penale).

L’obiettivo della riforma dovrebbe quindi essere quello di ridurre l’intervallo tra la conclusione delle indagini e il momento effettivo di esercizio dell’azione penale.

 

Secondo quanto previsto dalla lettera f), la violazione delle prescrizioni (di cui alla lettera e) in ordine all’obbligo di deposito degli atti di indagine entro i termini previsti comporterà responsabilità disciplinare del pubblico ministero quando sia addebitabile a negligenza inescusabile.

 

La lettera g) stabilisce che il pubblico ministero, una volta notificato l’avviso di deposito degli atti, debba presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro il termine di 30 giornidalla presentazione della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa”.

Al riguardo si ricorda che, nello stesso senso della disposizione in esame, può essere considerata la disposizione di cui al comma 3-bis, introdotta nell’art. 407 c.p.p. dalla legge 103/2017 (c.d. Riforma Orlando). Con tale disposizione si è fissato un determinato lasso di tempo entro cui l’accusa deve prendere le sue determinazioni in merito all’azione penale. In particolare la disposizione prevede che in ogni caso il pubblico ministero è tenuto a esercitare l'azione penale o a richiedere l'archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all'articolo 415-bis. Per taluni delitti più gravi e di complesso accertamento (art. 407, comma 2, letta, nn. 1, 2, 3 e 4) il termine per l’esercizio dell’azione penale è di 15 mesi.

 

Anche tale obbligo comporterà responsabilità disciplinare del pubblico ministero in caso di negligenza inescusabile e non sarà sanzionata con la inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza del termine.

Andrebbe valutata l’opportunità di specificare il contenuto della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa, dalla quale scatta la messa in mora del pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’archiviazione.

 

Come è noto il D.lgs. 109 del 2006, che disciplina gli illeciti disciplinari dei magistrati, specifica che costituisce illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (art. 2, comma 1, lettera g). Inoltre tra gli illeciti disciplinari è individuato il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni; si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell'atto (art. 2, comma 1 lettera q)). Secondo la giurisprudenza, per l'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lett. g., D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 ("la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile") non basta che siano stati utilizzati istituti giuridici, (le ipotesi di revoca dall'ammissione al patrocinio a spese dello Stato e la necessità dell'istanza di parte per la distrazione delle spese processuali), in modo difforme dal dettato legislativo e fuori dei requisiti espressamente indicati dalla norma; occorre, infatti, la sussistenza dell'altro requisito ineludibile per l'integrazione dell'illecito disciplinare contestato, consistente nella compromissione della considerazione del singolo magistrato e del prestigio dell'ordine giudiziario. (Cass. civ. Sez. Unite, 15/04/2020, n. 7832).

In tema di responsabilità disciplinare del magistrato per il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel deposito dei provvedimenti, secondo la Giurisprudenza, la violazione del dovere di auto-organizzazione costituisce elemento centrale della verifica della esigibilità di una condotta più tempestiva da parte dell'incolpato, sicché nella motivazione della sentenza il giudice disciplinare non può limitarsi ad affermare in modo apodittico che il ritardo non è giustificabile ma deve rendere manifeste le ragioni per le quali una diversa organizzazione del lavoro sarebbe stata non solo possibile, ma anche idonea ad eliminare o ridurre i ritardi oggetto dell'incolpazione (Cass. civ. Sez. Unite Sent., 07/10/2019, n. 25020 ).

 

Un ulteriore filone di intervento della riforma è rappresentato dall’obiettivo di deflazionare i ruoli dibattimentali. In particolare appaiono riconducibili a tale scopo i principi e criteri direttivi di cui alle lettere a) ed i).

Con tali lettere il disegno di legge riformula i criteri decisori di cui agli articoli 125 disp. att. c.p.p. e 425, comma 3, c.p.p. incidendo dunque, sia sulla regola di giudizio dell’archiviazione, sia su quella per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.

In particolare con la lettera a), il Governo è delegato a riformare la disposizione che attualmente prevede che il pubblico ministero presenti al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l'infondatezza della notizia di reato “perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere accusa in giudizio”.

Si sostituisce, al riguardo, il parametro dell’inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio, con l’insufficienza o contradditorietà degli elementi acquisiti i quali “comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettiva accusatoria nel giudizio».

 

Analogamente con la lettera i) si delega il governo ad incidere sulla disciplina della sentenza di non luogo a procedere al termine dell’udienza preliminare, modificando la regola, enunciata dal comma 3 dell’art. 425 c.p.p., in base alla quale il G.U.P. pronunciata la sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio.

Si ricorda che con regola di giudizio si intende la norma che delimita il thema probandum dell’udienza preliminare; vale a dire i fatti che vanno accertati ai fini della pronuncia del non luogo a procedere, Attualmente la “regola di giudizio” è imperniata sulla “inidoneità” degli elementi raccolti a «sostenere l’accusa in giudizio». Non si tratta di un criterio univocamente interpretato in via giurisprudenziale : al riguardo si ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza 28 gennaio 1991, n. 88 ha specificato che il «quadro acquisitivo» va valutato «non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no dell’accertamento giudiziale, che è l’autentica prospettiva di un pubblico ministero, il quale, nel sistema, è la parte pubblica incaricata di instaurare il processo». In seguito a tale decisione della Corte costituzionale, la giurisprudenza ha specificato che si tratta di una prognosi che concerne l’“utilità” del dibattimento (si vedano, fra le ultime, Cass., sez. V, 28 gennaio 2019, n. 37322; Cass sez. IV, 29 maggio 2018, n. 24073). In base all’elaborazione giurisprudenziale si dovrebbe transitare al giudizio quando quest’ultimo, grazie alle superiori risorse cognitive attivabili con all’impiego del contraddittorio nella formazione della prova, apporterebbe elementi rilevanti ai fini della decisione di merito (In questo senso, Cass., sez. V, 28 gennaio 2019, n. 37322; Cass., sez. I, 5 dicembre 2018, n. 11570; Cass., sez. IV, 23 novembre 2017, n. 851; Cass., sez. IV, 3 ottobre 2017, n. 1886 ; Cass., sez. IV, 19 maggio 2016, n. 26215,; Cass., sez. IV, 21 aprile 2016, n. 21592; Cass., sez. IV, 20 aprile 2016, n. 19208; Cass., sez. IV, 8 marzo 2012, n. 1392; Cass., sez. IV, 27 ottobre 2010, n. 44845).

 

Anche in questo caso, il parametro di inidoneità a sostenere l’accusa, viene sostituito da quello dell’inidoneità degli elementi acquisiti a consentire una ragionevole previsione di accoglimento della prospettiva accusatoria nel giudizio.

La novità sembra dunque risiedere nell’oggetto della valutazione prognostica che compie il G.U.P. che non dovrebbe essere più imperniata sull’utilità del dibattimento (così come specificato dalla giurisprudenza), ma piuttosto sulla “ragionevole” previsione di accoglimento della tesi accusatoria e dunque sulla decisione conclusiva dell’udienza dibattimentale.

 

Come specificato nella Relazione illustrativa, attraverso la riformulazione degli artt. 125 disp. att. c.p.p. e 425, comma 3, c.p.p. si intendono, «evitare inutili esperienze processuali destinate sin dall’origine ad avere esiti assolutori scontati».

Si segnala che nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019 il Primo Presidente della Corte di Cassazione, dopo aver fatto riferimento a una «bassa funzione di filtro svolta in udienza preliminare», ha auspicato una «ridefinizione della regola di giudizio di cui all’art. 425 c.p.p. che ponga l’accento sulla effettiva prognosi dell’accusa.

 

Con riguardo all’archiviazione, la lettera b) è volta ad escludere l'obbligo di notificazione dell'avviso della richiesta dell’archiviazione stessa (art. 408, comma 2, c.p.p.), alla persona offesa che abbia rimesso la querela.

L’art. 408. c.p.p. prevede che se la notizia di reato è infondata il pubblico ministero presenta al giudice richiesta di archiviazione. Il comma 2 prevede l’obbligo per il pubblico ministero di notificare l’avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia dichiarato di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Si ricorda peraltro che il comma 3 del medesimo articolo prevede che nell'avviso sia precisato che, nel termine di venti giorni, la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare opposizione con richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari.

La remissione della querela (art. 340 c.p.p.) dell’atto irrevocabile ed incondizionato con cui la persona offesa, dopo aver proposto querela, manifesta espressamente o tacitamente la volontà che non si proceda penalmente per il fatto di reato. Costituisce una causa di estinzione del reato (art. 152 c.p.).

 

Infine la lettera h) interviene in materia di criteri per la selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. Allo scopo si delega il Governo a prevedere che:

§  gli uffici del pubblico ministero individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica;

§  l’elaborazione dei criteri sia affidata al procuratore della Repubblica previa interlocuzione con il Procuratore generale presso la Corte d’appello e con il Presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti;

 

Secondo quanto specificato nella Relazione illustrativa “il disegno di legge si fa carico di assicurare che anche nella trattazione degli affari penali da parte degli uffici del pubblico ministero si imponga la salvaguardia, tra gli altri, dei princìpi di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione pubblica: princìpi incompatibili con una sostanziale discrezionalità del singolo magistrato nelle scelte sulle priorità”.

Sotto il profilo normativo, il tema dei criteri di priorità è stato introdotto per la prima volta nel 1998, con l’art. 227 del d.lvo n. 51, istitutivo del giudice unico di primo grado. Con tale disposizione il legislatore, al fine di assicurare la rapida definizione dei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, disponeva di tener conto della gravità e concreta offensività del reato, del pregiudizio che poteva derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, dell’interesse della persona offesa.

Il successivo intervento normativo in materia è nel 2000, con l’introduzione dell’art. 132 bis disp.att. c.p.p. da parte  del d.l. 341/2000, convertito in legge n. 4/2001. Tale disposizione, nella sua originaria formulazione assegnava priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza ai quei soli procedimenti nell’ambito dei quali risultassero applicate misure cautelari custodialistiche i cui termini fossero prossimi alla scadenza. Il tema delle priorità, sia pure implicitamente, è stato nuovamente affrontato dal legislatore nel 2006, con la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. L’art. 1 del d.lvo 106/2006 attribuiva al Procuratore della Repubblica il potere-dovere di determinare i criteri di organizzazione dell’ufficio ed altresì i criteri cui dovevano attenersi i sostituti procuratori (o gli eventuali Procuratori aggiunti) nell’esercizio delle deleghe da lui conferite; l’art. 4 del citato decreto attribuiva inoltre al Procuratore il potere (non l’obbligo) di definire nel progetto organizzativo dell’ufficio i criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti. Da tali previsioni derivava, sia pure implicitamente, il potere di stabilire le priorità nella trattazione degli affari penali, segnando il passaggio da una previsione necessariamente transitoria (quale quella afferente all’istituzione del giudice unico) ad una situazione strutturale.

 La questione è stata infine nuovamente ripresa nel 2008 con il d.l. n. 92, convertito in legge n. 125/2008, che ha riformulato l’art. 132 bis disp.att. c.p.p., introducendo indicazioni vincolanti per gli uffici giudicanti in tema di formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, con attribuzione di priorità assoluta a talune tipologie di reato connotate da speciale gravità (si rivia al riguardo alla scheda di lettura relativa all’articolo 5).

Il d.l. 92/2008, con l’art. 2 ter, proprio al fine di agevolare la rapida definizione dei procedimenti “prioritari”, attribuiva ai dirigenti degli uffici giudicanti la possibilità di rinviare per un tempo non superiore a 18 mesi e con sospensione della prescrizione, i processi afferenti a reati commessi in epoca antecedente il 2.5.2006 rientranti nell’ambito di applicazione dell’indulto disposto con legge n. 241 del 2006. Per quanto poi attiene ai criteri del rinvio, ribadiva i parametri già dettati dal legislatore del 1998, e cioè: gravità e concreta offensività del reato, pregiudizio potenzialmente derivante dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, interesse della persona offesa.

Alla luce dei problemi di sovraccarico giudiziario, di carenze organizzative e di risorse di personale tecnico e amministrativo, è stato più volte giustificato il ricorso alle cosiddette ‘buone prassi’ nella gestione dei procedimenti penali, attuate attraverso circolari interne agli uffici di Procura nelle quali vengono indicati parametri orientativi nella gestione della tempistica, non necessariamente osservanti del criterio cronologico.

Si deve ritenere quindi che allo stato attuale non esistano regole di fonte legislativa che riguardano l’operare dei pubblici ministeri i quali si avvalgono dunque, nei singoli uffici, di direttive interne fornite dal procuratore capo anche in base alla disposizione secondo cui “il procuratore della Repubblica assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale… e il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio” (art. 1 comma 2 d.lgs. 106/2006). L’ eterogeneità delle circolari interne, cui sono vincolati i singoli sostituti, ha determinato diversi interventi del CSM che, pur ribadendo la necessaria vincolatività del principio ex art. 112 Cost. che vieta attività selettive soggettive ed arbitrarie, ha ritenuto ammissibili i criteri orientativi interni purché funzionali a scelte razionali, trasparenti e prevedibili, in una attuazione ‘realistica’ della obbligatorietà dell’azione penale basata su modelli virtuosi che escludano formule autorizzative a non accettabili omissioni.

Il C.S.M. ha in più occasioni focalizzato la propria attenzione sull’adozione di parametri orientativi nella tempistica di definizione dei procedimenti penali, in un’ottica di buona amministrazione e uniformità di esercizio dell’azione penale.

In particolare, con la delibera 13.11.2008, il C.S.M. in merito all’art. 132 bis disp.att. c.p.p.:

-ha individuato la ratio sottesa alla disposizione nella necessità di “mitigare gli effetti deleteri di quell’eccesso di spontaneismo che conduceva in epoche passate giudici e pubblici ministeri ad una valutazione pressochè arbitraria dei tempi di fissazione e trattazione dei processi”;

- ha precisato che l’elencazione normativa di cui all’art. 132 bis disp.att. c.p.p. non esauriva le aree di priorità, suscettibili di ampliamento alla luce del prudente apprezzamento del giudicante;

-pur confinando l’operatività dell’art. 132 bis disp.att. c.p.p. all’esercizio della funzione giudicante, ha auspicato“un opportuno concerto” con la Procura della Repubblica ai sensi degli artt. 132 comma 2 e 160 disp. att. c.p.p. in ragione delle implicazioni che la selezione di priorità comporta sul principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e sul suo corretto, puntuale ed uniforme esercizio;

-ha precisato infine che i provvedimenti organizzativi in punto di priorità non hanno natura tabellare e non sono dunque soggetti alla procedura prevista per le variazioni tabellari.

Con la delibera del 9 luglio del 2014 il CSM è intervenuto in merito alla necessità di individuare criteri di priorità nella trattazione degli affari penali negli uffici, in considerazione della concreta e sempre più diffusa estrema difficoltà di procedere, nello stesso modo e secondo gli stessi tempi, alla trattazione di tutti gli affari pendenti. Lo scopo è quello di razionalizzare l’allocazione delle scarse risorse disponibili per la trattazione dei procedimenti penali, evitando sia l’affidamento delle scelte di trattazione alla valutazione, caso per caso, del magistrato operante, sia il fatalistico abbandono al criterio della pura casualità.

Il CSM ha affermato che l’individuazione di priorità, ulteriori rispetto a quelle legali, dovrà transitare attraverso atti di indirizzo rimessi alla responsabilità del capo dell’ufficio. Tali atti di indirizzo dovranno essere emanati in occasione della formazione delle tabelle di organizzazione dell’ufficio e delle tabelle infradistrettuali, a cadenza triennale, ed annualmente rinnovati all’atto della predisposizione annuale del programma di gestione dei procedimenti penali.

 


Articolo 4
(Procedimenti speciali)

 

L’articolo 4 detta principi e criteri direttivi per la riforma dei riti alternativi, finalizzati ad estenderne l’applicabilità con effetti deflattivi del rito dibattimentale.

 

In questo senso vanno i principi e criteri direttivi espressi dalla lettera a) per la modifica dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativo ai presupposti per accedere al patteggiamento.

Di seguito, con l’ausilio di uno schema, si evidenziano le caratteristiche attuali del rito speciale e gli intendimenti della riforma.

 

Applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.)

                    Normativa vigente

Principi di delega

Definizione

È un procedimento speciale alternativo al rito ordinario che consente all’imputato di trovare un accordo preliminare con la Procura sull’entità della pena da scontare. Il patteggiamento si risolve in una rinuncia dell’imputato a contestare l’accusa in cambio di uno sconto sulla pena fino a un terzo. Il giudice, al quale è indirizzata la richiesta congiunta delle parti, ha il potere di accoglierla o rigettarla, ma non di modificarla.

 

Presupposti

La pena detentiva risultante dopo la diminuzione concordata non deve superare i 5 anni di reclusione, soli o congiunti a pena pecuniaria.

Per alcuni delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.[4], l'accesso al rito è subordinato alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato.

La pena risultante dopo la diminuzione concordata non deve superare gli 8 anni di reclusione, soli o congiunti a pena pecuniaria

Esclusioni

L’accesso al rito è precluso per i delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale (art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.[5]), i delitti di pedopornografia[6], di violenza sessuale[7], nonché a tutti coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi reiterati, qualora la pena superi 2 anni soli o congiunti a pena pecuniaria.

Escludere il patteggiamento anche per i seguenti delitti quando l’accordo comporterebbe l’applicazione di una pena superiore a 5 anni di reclusione: strage; costrizione o induzione al matrimonio; maltrattamenti contro familiari e conviventi; omicidio; concorso in infanticidio; omicidio del consenziente aggravato; istigazione o aiuto al suicidio aggravato; lesione personale e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso aggravati[8]; corruzione di minorenne, atti persecutori e diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.

 

 

 

In particolare, il Governo dovrà:

§  consentire l’accesso a questo rito speciale quando la pena detentiva risultante dopo l'applicazione delle circostanze e la diminuzione concordata non superi gli 8 anni, in luogo degli attuali 5;

 

L’elevazione a 8 anni della pena detentiva applicabile in esito al patteggiamento comporta che il rito speciale sia applicabile, in astratto, ai delitti puniti con una pena edittale fino a 12 anni di reclusione (potrebbe trattarsi anche di un delitto punito più severamente se sono applicabili circostanze attenuanti).

 

§  escludere questo rito speciale anche per ulteriori delitti (v. sopra), rispetto a quelli già previsti dall’art. 444, ma solo quando l’accordo dovesse determinare l’applicazione di una pena detentiva superiore a 5 anni. In sostanza, dunque, per alcuni specifici delitti, l’elevazione da 5 a 8 anni della pena applicabile in esito al patteggiamento viene sterilizzata.

 

Si tratta dei seguenti delitti: strage (art. 422); costrizione o induzione al matrimonio (558-bis); maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572); omicidio (art. 575); concorso in infanticidio (art. 578, secondo comma); omicidio del consenziente aggravato (art. 579, terzo comma); istigazione o aiuto al suicidio aggravato (art. 580, secondo comma); lesioni personali (art. 582) e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso aggravati (art. 583-quinquies), nelle ipotesi in cui ricorre taluna delle aggravanti di cui agli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma; corruzione di minorenne (art. 609-quinquies); atti persecutori (art. 612-bis); diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter).

 

 

La lettera b) individua principi e criteri direttivi per la modifica delle condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a una integrazione probatoria.

 

Si ricorda che il giudizio abbreviato (artt. 438-443 c.p.p.) è un rito speciale, in virtù del quale il processo viene definito in sede di udienza preliminare, con decisione assunta allo stato degli atti delle indagini preliminari, che hanno qui piena valenza probatoria; è un giudizio di tipo volontario, presupponendo una richiesta da parte dell'imputato, ed ha natura premiale. La premialità consiste nel fatto che, se l'imputato viene condannato, si opera una riduzione della pena nella misura di un terzo per i delitti e della metà per le contravvenzioni.

La richiesta, ai sensi dell'articolo 438 c.p.p., può essere formulata soltanto dall'imputato nel corso dell'udienza preliminare o (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 169 del 2003) prima dell'apertura del dibattimento, nel caso in cui l'imputato riproponga la richiesta di giudizio abbreviato subordinato ad un'integrazione probatoria, già respinta dal giudice dell'udienza preliminare. Se l'imputato avanza la richiesta subito dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive, il giudice provvede soltanto dopo il decorso dell'eventuale termine (massimo 60 giorni) chiesto dal P.M. per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa; in tale caso l'imputato può revocare la richiesta di rito abbreviato (comma 4). Alla richiesta segue l'ordinanza del giudice che dispone il giudizio abbreviato.

Nel caso in cui l'imputato abbia subordinato la richiesta ad un'integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione, il rito speciale è adottato soltanto se il giudice valuta l'integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento; se il giudice ammette l’integrazione probatoria, il PM può chiedere l'ammissione di prova contraria e sarà, in esito all’istruttoria, possibile anche cambiare l’imputazione (comma 5). Quando la richiesta sia subordinata ad integrazione probatoria, poi negata dal giudice, l'imputato può chiedere ugualmente il rito abbreviato senza integrazione oppure il patteggiamento (comma 5-bis). La richiesta di abbreviato in udienza preliminare comporta la sanatoria delle eventuali nullità (non assolute), la non rilevabilità delle inutilizzabilità (eccetto quelle derivanti da un divieto probatorio) e la preclusione a sollevare questioni sulla competenza territoriale del giudice (comma 6-bis).

Si ricorda altresì che in questa legislatura il Parlamento ha approvato la legge n. 33 del 2019, che è intervenuta sul rito abbreviato escludendolo per delitti puniti con l’ergastolo.

 

La norma di delega non prevede una riforma del rito abbreviato ma soltanto un limitato intervento riformatore per l’ipotesi in cui il rito speciale sia richiesto dall’imputato subordinatamente ad una integrazione probatoria (art. 438, comma 5, c.p.).

 

Rito abbreviato condizionato (art. 438, comma 5, c.p.p.)

                    Normativa vigente

Principi di delega

Definizione

Si consente all’imputato di subordinare la sua richiesta di giudizio abbreviato ad un’integrazione probatoria “necessaria ai fini della decisione”, da effettuarsi in udienza innanzi al giudice. È onere del richiedente indicare le fonti di prova da assumere, relativamente alle quali la norma non prevede preclusioni.

 

Presupposti

Il giudice dispone il giudizio abbreviato “se l'integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili”.

Prevedere l’ammissione al giudizio abbreviato “se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale.

 

In base alla delega, il legislatore delegato dovrà prevedere che il giudice ammetta il rito con integrazione probatoria quando:

 

§  l’integrazione risulti necessaria ai fini della decisione. In questo non si ravvisano profili di novità rispetto alla formulazione vigente dell’art. 438, comma 5.

 

Con la sentenza n. 44711 del 2004 le Sezioni Unite della Cassazione penale hanno statuito che le ulteriori acquisizioni probatorie devono essere soltanto integrative, e non sostitutive, del materiale già acquisito e utilizzabile come base cognitiva, in quanto strumentali ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio. Inoltre, la integrazione richiesta può reputarsi necessaria qualora risulti indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico-valutativo per la deliberazione in ordine a un qualsiasi aspetto della "regiudicanda". Così, la valutazione della necessità della integrazione non si identifica con la impossibilità di decidere o con la incertezza della prova, ma presuppone, da un lato, la incompletezza di una informazione probatoria in atti, e, dall'altro, una prognosi di positivo completamento del materiale cognitivo per mezzo della attività integrativa richiesta (v. anche C., Sez. II, 18.10.2007, n. 43329; C., Sez. II, 14.1.2009, n. 5229).

 

§  il rito speciale, nonostante l’integrazione probatoria, produca comunque un’economia processuale rispetto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale.
Anche in questo caso, già attualmente in base al comma 5 dell’art. 438, il giudice dispone il giudizio abbreviato se l'integrazione probatoria richiesta risulta compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, alle quali è connessa la premialità del rito stesso.

 

Si valuti l’opportunità di meglio definire i profili riformatori rispetto al quadro normativo vigente.

 

 

La lettera c) contiene i principi e criteri direttivi per la riforma del giudizio immediato.

 

Il giudizio immediato (artt. 453 e seguenti c.p.p.) è un procedimento penale speciale che, come accade anche per il giudizio direttissimo, si caratterizza per l'assenza dell'udienza preliminare e il passaggio diretto dalla fase delle indagini preliminari al dibattimento. Esso non ha carattere premiale, non essendo prevista alcuna riduzione di pena per l'imputato.

Possono chiedere il giudizio immediato sia il PM che l’imputato. In entrambi i casi non è necessario il consenso della controparte e decide dell’ammissione al giudizio immediato il giudice delle indagini preliminari, su base cartolare, entro 5 giorni dalla richiesta.

Si distinguono:

-          giudizio immediato ordinario, che può essere richiesto dal PM entro 90 giorni dalla iscrizione della notizia di reato. I presupposti sono che il rito speciale non pregiudichi gravemente le indagini, che la prova sia evidente e, alternativamente, che sia stata interrogata la persona sottoposta alle indagini sui fatti dai quali emerge l'evidenza della prova ovvero che la stessa abbia omesso di comparizione nonostante la rituale convocazione;

-          giudizio immediato per l’imputato in custodia cautelare, che deve essere richiesto dal PM entro 180 giorni dall’esecuzione della misura custodiale, se ciò non pregiudichi gravemente le indagini. La richiesta deve essere formulata dopo la definizione del procedimento di riesame della misura e, se la custodia viene poi revocata o annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il giudice deve rigettare la richiesta del PM;

-          giudizio immediato su richiesta dell’imputato, che deve intervenire almeno 3 giorni prima della data fissata per l’udienza preliminare (art. 419, co. 5, c.p.p.) o dopo che gli stia stato notificato il decreto penale di condanna (art. 461, co. 3, c.p.p.). Nel primo caso l’imputato mirerà ad accelerare la verifica dibattimentale dell’accusa, saltando l’udienza preliminare; nel secondo caso farà opposizione alla condanna, chiedendo il dibattimento.

Anche laddove venga concesso il giudizio immediato, la normativa vigente garantisce comunque il diritto dell’imputato a conseguire sconti di pena attraverso l’accesso al patteggiamento o al giudizio abbreviato. In particolare, nel decreto del GIP che dispone il giudizio immediato deve essere contenuto l’avviso che l’imputato può chiedere, in sua alternativa, il giudizio abbreviato ovvero l’applicazione della pena concordata (art. 456, co. 2, c.p.p.). La conversione del rito deve essere richiesta nella cancelleria del GIP entro 15 giorni dalla notificazione del decreto (art. 458, co. 1, c.p.p.).

 

In realtà, la norma di delega, più che prefigurare una riforma del giudizio immediato, mira ad aumentare le possibilità di accesso ai riti premiali a fronte del decreto del GIP che dispone il giudizio immediato.

In particolare, infatti, il legislatore delegato è delegato a prevedere:

§  che quando l’imputato avanza richiesta di giudizio abbreviato condizionato da integrazione probatoria (art. 438, co. 5), e il GIP glielo nega, l’imputato possa allora avanzare richiesta di giudizio abbreviato senza integrazione probatoria (art. 438, co. 1, c.p.p.) o richiesta di patteggiamento (art. 444 c.p.p.)

 

In merito si ricorda che già attualmente – a seguito della riforma operata dalla legge n. 103 del 2017 - l’art. 438, comma 5-bis, dispone che «Con la richiesta presentata ai sensi del comma 5 [giudizio abbreviato condizionato da integrazione probatoria] può essere proposta, subordinatamente al suo rigetto, la richiesta di cui al comma 1 [giudizio abbreviato senza integrazione probatoria], oppure quella di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 [patteggiamento]».

Si valuti l’opportunità di meglio definire i profili riformatori rispetto al quadro normativo vigente.

 

§  che quando l’imputato intende richiedere l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444, ma non trova d’accordo il PM, oppure quanto la richiesta di patteggiamento è rigettata dal GIP, l’imputato possa allora avanzare richiesta di giudizio abbreviato.

 

 

La lettera d) individua i principi e criteri direttivi per la riforma del procedimento per decreto.

 

Procedimento per decreto (art. 459 e ss. c.p.p.)

                    Normativa vigente

Principi di delega

Definizione

È un rito speciale che permette di anticipare la condanna ad una pena pecuniaria prima del giudizio (saltando sia l’udienza preliminare che il dibattimento), salva opposizione (nel qual caso si avrà dibattimento, ma non udienza preliminare). Applicabile a fronte di chiare fonti di prova, quando il PM ritenga che sia possibile applicare soltanto una pena pecuniaria (anche se inflitta in sostituzione di pena detentiva) e il GIP vi acconsenta.

 

Presupposti

Deve essere applicabile solo una pena pecuniaria (multa o ammenda), direttamente, o in sostituzione di pena detentiva.

 

Il PM può avanzare richiesta entro 6 mesi dall'iscrizione dell'indagato nel registro delle notizie di reato (termine ritenuto dalla giurisprudenza ordinatorio).

Il PM può avanzare richiesta entro un anno dall’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato

Non deve essere necessaria l’applicazione di una misura di sicurezza.

 

Premialità

Può essere applicata una pena diminuita sino alla metà del minimo edittale.

Il condannato, entro 10 giorni dalla notifica del decreto penale di condanna, può rinunciare all’opposizione pagando la pena pecuniaria ridotta di un quinto.

Non sono applicate le pene accessorie.

La confisca può essere disposta solo se obbligatoria.

Non sono dovute le spese del procedimento.

 

Il reato si estingue dopo 5 anni (per i delitti) e 2 anni (per le contravvenzioni) se l’imputato non commette altri reati della stessa indole; la condanna non ostacola una successiva sospensione condizionale della pena.

Ulteriore presupposto per l’estinzione del reato è il pagamento della pena pecuniaria

L’accertamento contenuto nel decreto non è efficace negli altri giudizi, civili o amministrativi.

 

 

Il legislatore delegato dovrà intervenire sul procedimento per decreto:

§  estendendo da 6 mesi a un anno, dall’iscrizione del nome dell’indagato sul registro di cui all’art. 335 c.p.p., il termine a disposizione del PM per chiedere al GIP l’emissione del decreto;

Il termine per presentare la richiesta di decreto penale era originariamente di 4 mesi; fu elevato a 6 nel 1990, al fine di allinearlo a quello previsto per la chiusura delle indagini preliminari.

La relazione illustrativa specifica che anche in questo caso l’allungamento del termine è determinato da ragioni di omogeneità con le nuove previsioni sui termini di durata delle indagini preliminari introdotte dall’art. 3 (v. sopra).

Si ricorda peraltro che l'inosservanza del termine per presentare la richiesta non comporta nullità o decadenza, in quanto le nullità e le decadenze sono soltanto quelle tassativamente previste dalla legge e qui la legge nulla prevede: si tratta di un termine ordinatorio (cfr. Cass. pen. Sez. V, 04/02/2004, n. 27514). Tuttavia, il G.I.P. può legittimamente rifiutare l'emissione del decreto penale richiesto tardivamente, con conseguente restituzione degli atti al P.M., che, pertanto, non si configura come atto abnorme, atteso che l'anzidetta natura ordinatoria del termine ex art. 459 non implica che il medesimo non debba essere rispettato (cfr. da ultimo Cass. pen. Sez. II Sent., 07/03/2019, n. 21485).

 

§  stabilendo che presupposto dell’estinzione del reato sia, oltre al decorso dei termini di 5 o 2 anni – a seconda che si tratti di delitto o di contravvenzione – anche il pagamento della pena pecuniaria. La relazione illustrativa afferma, infatti, che attualmente l’effettivo recupero delle pene pecuniarie è attestato su livelli bassissimi, inferiori al 10%;

§  prevedendo che se il condannato rinuncia all’opposizione può essere ammesso a pagare, entro 10 giorni dalla notificazione del decreto penale di condanna, la pena pecuniaria ridotta di un quinto.

 

Come chiarisce la relazione illustrativa, la gran parte delle opposizioni al decreto penale di condanna sono volte a evitare o procrastinare il pagamento di una sanzione pecuniaria reputata di eccessiva entità; per questo il Governo propone il pagamento in misura ridotta nel caso di rinuncia all'opposizione e di adempimento entro il termine di 10 giorni.

 

 


Articolo 5
(Giudizio)

 

L’articolo 5 è volto all’individuazione dei principi e criteri di delega dedicati al giudizio di primo grado.

 

In particolare, la lettera a), in tema di calendarizzazione delle udienze, intende rendere obbligatorio per i giudici fissare e comunicare alle parti, laddove il dibattimento non possa concludersi in un’unica soluzione, un calendario organizzativo delle udienze che si stimano necessarie tenere per lo svolgimento dell’istruzione probatoria e per la discussione.

 

Come è noto l'udienza indica tutto il tempo di una singola giornata, dedicato allo svolgimento di uno o più dibattimenti; dibattimento, invece, indica la trattazione in udienza di un determinato processo. Il giudizio, invece, è una fase del processo in cui le parti e il giudice mirano a verificare i fatti oggetto dell'imputazione, con le forme imposte dalla pubblicità (art. 471), dal contraddittorio (artt. 466, 486, 493, 498, 516, 546), dall'immediatezza (artt. 498, 525), dalla concentrazione (artt. 477 e 544) e dall'oralità (artt. 499, 500, 514, 526).

La disciplina relativa alla durata e prosecuzione del dibattimento è ispirata al principio di concentrazione in base al quale non dovrebbero esserci intervalli  di tempo tra l’assunzione delle prove in udienza, la discussione finale e la deliberazione della sentenza. L’art. 477 c.p.p., infatti, al comma 1 precisa che quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo. Al di fuori dei casi di differimento ex art. 477, 1° co., il comma 2 dell’art. 477 consente la sospensione soltanto per ragioni di assoluta necessità  e per un termine massimo che, computate tutte le dilazioni, non oltrepassi i dieci giorni, esclusi i festivi.

La disposizione secondo la quale il dibattimento si esaurisce in un’unica udienza è normalmente disattesa nella prassi, dato che molteplici circostanza possono indurre al rinvio ad altra udienza. Si ricorda, peraltro che la giurisprudenza ha specificato che il rinvio dell'udienza deve essere disposto sulla base delle singole evenienze processuali e delle esigenze di ruolo e la determinazione della sua durata attiene al potere ordinatorio del giudice di merito, che si sottrae al sindacato della Corte di cassazione, a nulla rilevando la eventuale programmazione preventiva delle udienze di rinvio. (Cass. pen. Sez. I Sent., 09/12/2008, n. 47789)

Si ricorda, al riguardo, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 132 del 2019 ha specificato  che dal tenore dell’art. 477 c.p.p., nell’impianto del vigente codice di procedura penale, il principio di immediatezza della prova è strettamente correlato al principio di oralità: principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continuità. La Corte afferma tuttavia che “l’esperienza maturata in trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale restituisce, peraltro, una realtà assai lontana dal modello ideale immaginato dal legislatore. I dibattimenti che si concludono nell’arco di un’unica udienza sono l’eccezione; mentre la regola è rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni”. la Consulta nella medesima sentenza n. 132 del 2019 ha suggerito quale via per ovviare agli inconvenienti evidenziati anche quella di intervenire mediante provvedimenti atti a favorire la concentrazione temporale dei dibattimenti, così da assicurarne la conclusione in udienze immediatamente consecutive (o meglio in un’unica udienza)

Secondo quanto specificato nella Relazione illustrativa, tale criterio avrebbe il vantaggio di coinvolgere le parti nella gestione del ruolo del giudice relativamente al singolo processo, di prevenire – per quanto possibile – rinvii delle udienze determinati da impedimenti professionali.

 

 

La lettera b) delega il Governo ad introdurre l’obbligo per tutte le parti di effettuare una relazione illustrativa sulla richiesta di prove dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento.

Si ricorda che l’art. 190 c.p.p.. prevede che le prove siano ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti. La legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio. I provvedimenti sull'ammissione della prova possono essere revocati sentite le parti in contraddittorio.

Si ricorda altresì che ai sensi dell’art. 493. c.p.p. il pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell'imputato nell'ordine indicano i fatti che intendono provare e chiedono l'ammissione delle prove. Nella formulazione dell’articolo precedente alla legge 16 dicembre 1999, n. 479, si faceva riferimento all’ “esposizione introduttiva e richieste di prova”, prevedendosi da parte del pubblico ministero l’esposizione concisa dei fatti oggetto dell'imputazione e l’indicazione le prove di cui chiede l'ammissione. Esisteva dunque una puntuale distinzione, tra i poteri del pubblico ministero, al quale era riconosciuto l'onere di esporre i fatti, e quelli delle parti private che, invece, dovevano solo indicarli. Con la modifica del 1999, è stata resa omogenea la struttura procedurale, ed il sistema è stato improntato ad un’equiparazione sostanziale di tutte le parti che, ad oggi, devono indicare i fatti che intendono provare.

Con i criteri di delega in oggetto non si ritorna alla precedente formulazione della disposizione, in quanto l’illustrazione della richiesta di prove è estesa a tutte le parti e non solo al pubblico ministero.

La lettera c) è volta a prevedere che la rinunzia di una parte all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta non sia condizionata al consenso delle altre parti.

L’art. 495 c.p.p.. contiene la disciplina dei provvedimenti del giudice in ordine alla prova, stabilendo in particolare che il giudice, sentite le parti, provvede con ordinanza all'ammissione delle prove a norma degli articoli 190, comma 1, e 190-bis..In particolare il comma 4 bis prevede che nel corso dell'istruzione dibattimentale ogni parte abbia la possibilità di rinunziare, con il consenso dell'altra parte, alla assunzione di prove già ammesse. Seppure si tratti di prove richieste da una sola parte che, pertanto, può rinunciarvi, è sempre necessario il consenso delle altre parti, diventando la prova, una volta ammessa, patrimonio di tutte le parti coinvolte nella vicenda processuale che, necessariamente, devono esprimere la volontà a che non siano acquisite e valutate ai fini della decisione.

Si ricorda peraltro che l’art. 507 c.p.p. prevede che, terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prove. Secondo la giurisprudenza il giudice può esercitare il potere di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall'art. 507 cod. proc. pen., anche con riferimento a quelle prove alla cui ammissione le parti hanno rinunciato.. Cass. pen. Sez. II Sent., 14/06/2019, n. 30662

 

La lettera d) delega il Governo a prevedere che il deposito delle consulenze tecniche e della perizia avvenga entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame del consulente o del perito.

Come è noto la perizia e la consulenza tecnica sono mezzi di prova che si sostanziano, alternativamente o cumulativamente, nello svolgimento di indagini, nell’acquisizione di dati o nell’effettuazione di valutazioni che richiedono per la loro natura particolari competenze tecniche, scientifiche o artistiche. La perizia (artt. 220 e ss.c.p.p.) costituisce mezzo di prova “neutro” (essendone affidato l’espletamento ad un soggetto terzo, quindi imparziale, nominato dal giudice) ed essenzialmente discrezionale (essendo rimessa al giudice la valutazione sul requisito della sua “occorrenza”). Oltre che a richiesta di parte, può essere disposta anche d’ufficio. La consulenza tecnica, invece, può esperirsi: nell’ambito di una perizia già disposta, concedendo alle parti facoltà di nominare propri consulenti che possono partecipare alle operazioni peritali al fine di realizzare il contraddittorio nella formazione della prova (art. 225 c.p.p.); “extra-perizia” quando la perizia non sia stata disposta e già dal momento delle indagini preliminari (art. 233 c.p.p.).

Con riguardo ai termini per il deposito delle perizie e delle consulenze tecniche, si ricorda preliminarmente che qualora sia indispensabile illustrare con note scritte il parere, il perito può chiedere al giudice di essere autorizzato a presentare relazione scritta (art. 227, comma 5). Il perito procede immediatamente ai necessari accertamenti e risponde ai quesiti con parere raccolto nel verbale. Se, per la complessità dei quesiti, il perito non ritiene di poter dare immediata risposta, può chiedere un termine al giudice. Quando non ritiene di concedere il termine, il giudice provvede alla sostituzione del perito; altrimenti fissa la data, non oltre novanta giorni, nella quale il perito stesso dovrà rispondere ai quesiti e dispone perché ne venga data comunicazione alle parti e ai consulenti tecnici. Quando risultano necessari accertamenti di particolare complessità, il termine può essere prorogato dal giudice, su richiesta motivata del perito, anche più volte per periodi non superiori a trenta giorni. In ogni caso, il termine per la risposta ai quesiti, anche se prorogato, non può superare i sei mesi.

In tema di perizia, il mancato rispetto del termine, di natura ordinatoria, per il deposito della relazione non ne comporta la nullità o l'inutilizzabilità. Cass. pen. Sez. III Sent., 30/10/2017, n. 13108.

In relazione alle attività dei consulenti tecnici l’art. 230 c.p.p.. prevede che essi possono assistere al conferimento dell'incarico al perito e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale. Essi possono partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione. Se sono nominati dopo l'esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti tecnici possono esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia. La nomina dei consulenti tecnici e lo svolgimento della loro attività non può ritardare l'esecuzione della perizia e il compimento delle altre attività processuali.

Con riguardo alla consulenza tecnica fuori dei casi di perizia l’art. 233 c.p.p, prevede che quando non è stata disposta perizia ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici. Questi possono esporre al giudice il proprio parere, anche presentando memorie.

 

La medesima lettera d) specifica che resta ferma la disciplina delle letture e dell’indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione.

L’istituto delle letture disciplina il modo di utilizzazione in dibattimento degli atti formatisi nelle precedenti fasi del procedimento penale. Tali atti prima della loro lettura hanno solo una mera potenziale valenza probatoria che diviene effettiva solo dopo la legittima acquisizione attraverso la loro lettura.

L’art. 511 c.p.p. precisa che è sempre consentita la lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento. La selezione di tali atti, precostituiti al di fuori del dibattimento e che confluiscono nel predetto fascicolo, è regolata dall’art. 431 (per l’udienza preliminare), dall’art. 457 (per il giudizio immediato), 553 (per la citazione diretta a giudizio). Di tali atti può essere data lettura, tuttavia in ossequio al principio dell’oralità, quando si tratta di dichiarazioni o perizie, la lettura deve essere successiva all’esame della persona, a meno che tale esame non abbia luogo. (art. 511, commi 1-3)

Invece della lettura il giudice può indicare in modo specifico gli atti utilizzabili per la decisione (comma 5) e tale indicazione equivale a lettura; Il giudice dispone tuttavia la lettura, integrale o parziale, quando si tratta di verbali di dichiarazioni e una parte ne fa richiesta. Se si tratta di altri atti, il giudice è vincolato alla richiesta di lettura solo nel caso di un serio disaccordo sul contenuto di essi.

 

La lettera e) è tesa ad intervenire sulla tematica della rinnovazione del dibattimento nel caso di mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio.

Gli artt. 525, comma 2, e 526, comma 1, c.p.p, rispettivamente prevedono la partecipazione alla deliberazione della sentenza degli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento e il divieto di utilizzazione, ai fini della deliberazione, di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. L’art. 511 c.p.p., nel disciplinare la lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento e utilizzabili per la decisione, consente la lettura dei verbali di dichiarazioni solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo.

Dal combinato disposto degli artt. 525, comma 2, 526, comma 1, e 511 c.p.p. deriva l’obbligo, per il giudice del dibattimento, di ripetere l’assunzione della prova dichiarativa ogni qualvolta muti la composizione del collegio giudicante, laddove le parti processuali non acconsentano alla lettura delle dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al precedente organo giudicante (Corte di cassazione, Sez. Unite. penali, sentenza 17 febbraio 1999, n. 2; Cass. Pen. sezione prima, sentenza 4 novembre 1999, n. 12496; Cass. Pen. sezione prima, sentenza 7 dicembre 2001-10 maggio 2002, n. 17804; Cass. Pen. sezione prima, sentenza 23 settembre 2004, n. 37537; Cass. Pen. sezione quinta, sentenza 7 novembre 2006-31 gennaio 2007, n. 3613; Cass. Pen. sezione quinta, sentenza 15 dicembre 2011, n. 46561; Cass. Pen. sezione quinta, sentenza 11 maggio 2017, n. 23015).

Come rilevato anche dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 132 del 2019, “la dilatazione in un ampio arco temporale dei dibattimenti crea inevitabilmente il rischio che il giudice che ha iniziato il processo si trovi nell’impossibilità di condurlo a termine, o comunque che il collegio giudicante muti la propria composizione, per le ragioni più varie”. Il che comporta  la necessità di rinnovare le prove dichiarative già assunte in precedenza, salvo che le parti consentano alla loro lettura. La corte rileva peraltro che “Frequente è, d’altra parte, l’eventualità che la nuova escussione si risolva nella mera conferma delle dichiarazioni rese tempo addietro dal testimone, il quale avrà d’altra parte una memoria ormai assai meno vivida dei fatti sui quali, allora, aveva deposto: senza, dunque, che il nuovo giudice possa trarre dal contatto diretto con il testimone alcun beneficio addizionale, in termini di formazione del proprio convincimento, rispetto a quanto già emerge dalle trascrizioni delle sue precedenti dichiarazioni, comunque acquisibili al fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 511, comma 2, c.p.p. una volta che il testimone venga risentito”.

 

Nello specifico, l’intervento del Governo consisterà in una deroga all’obbligo, per il giudice del dibattimento, di ripetere l’assunzione della prova dichiarativa ogni qualvolta muti la composizione del collegio giudicante. La deroga dovrà riguardare i procedimenti di competenza del tribunale, con riguardo ai casi nei quali

§  vi sia il cambiamento di una delle persone fisiche componenti del collegio

§  a causa di tale cambiamento debba essere esaminato un testimone o una persona imputata in un procedimento connesso, e questi abbiano già reso dichiarazioni nel dibattimento svolto innanzi al collegio diversamente composto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate.

 

In tali casi il Governo dovrà prevedere l’estensione della regola - di cui all’articolo 190-bis, comma 1, c.p.p., in base alla quale la rinnovazione è consentita solo:

§  se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni;

§  ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze.

 

L’art. 190-bis c.p.p. prevede una limitazione dell’obbligo di rinnovazione dell'assunzione della testimonianza. Tale limitazione presuppone la presenza di (precedenti) dichiarazioni rese da un testimone o da una delle persone indicate nell'art. 210 e assunte nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, nel medesimo procedimento, in sede di incidente probatorio o nel dibattimento, ovvero di dichiarazioni rese in altro procedimento, i cui verbali siano stati acquisiti ai sensi dell'art. 238. L'esame del testimone o dell'imputato in procedimento connesso o collegato è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario, sulla base di specifiche esigenze. L’articolo 190-bis è una disposizione di carattere eccezionale, applicabile solo ai procedimenti per alcuni specifici gravi delitti in relazione ai quali si pone l'esigenza di non esporre i dichiaranti (testimoni e coimputati) a pericoli per la sicurezza e l'incolumità, o a intimidazione, violenza o, e le dichiarazioni a rischi di ritrattazione o difformità, insiti nella ripetizione dell'esame. Tale disposizione si applica infatti esclusivamente nei procedimenti per taluno dei delitti di grave allarme sociale indicati nell'articolo 51, comma 3-bis c.p.p[9].,).nonché quando si procede per uno dei reati sessuali in cui siano convolti minori (pornografia virtuale; turismo per sfruttamento della prostituzione minorile; atti sessuali con minorenne; corruzione di minorenne etc), se l'esame richiesto riguarda un testimone minore degli anni diciotto e, in ogni caso, quando l'esame testimoniale richiesto riguarda una persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità.

Si può peraltro ricordare che la giurisprudenza di legittimità già oggi applica l’art. 190-bis, comma 1, c.p.p. anche nell’ipotesi di rinnovazione in seguito a mutamento di composizione del collegio per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p. (in proposito, cfr., tra le più recenti, Cass., sez. I, 2 aprile 2019, n. 39348; Cass., sez. I, 3 luglio 2018, n. 42888; Cass., sez. VI, 10 aprile 2018, n. 29660).

 

Come si desume anche dalla Relazione illustrativa, mediante tale principio il Governo intende ottemperare ai moniti espressi dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 132 del 2019 con la quale la Corte stessa, constatando come la dilatazione dei tempi processuali che deriva dalla necessità di riconvocare i testimoni produca costi significativi, “in termini tanto di ragionevole durata del processo, quanto di efficiente amministrazione della giustizia penale”, ha invitato il legislatore ad adottare “l’adozione di rimedi strutturali in grado di ovviare agli inconvenienti evidenziati, assicurando al contempo piena tutela al diritto di difesa dell’imputato”, tra i quali “la previsione […] di ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide”.

Al riguardo, la Corte considera che il diritto della parte alla nuova audizione dei testimoni di fronte al nuovo giudice o al mutato collegio «non è assoluto, ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) dal legislatore» (ordinanza n. 205 del 2010), “restando ferma – in particolare – la possibilità per il legislatore di introdurre «presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio» del diritto in questione (ordinanze n. 318 del 2008 e n. 67 del 2007)”.

 

Infine la lettera f),  è volta ad inserire i  processi relativi ai delitti colposi di comune pericolo (ossia delitti colposi: di danno, di pericolo, contro la salute pubblica e omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro) nell’elenco di quelli cui è assicurata la priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, ai sensi dell’articolo 132-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale.

 

La disciplina relativa ai reati colposi di comune pericolo trova posto nel Capo III del Titolo VI (Delitti contro l’incolumità pubblica) del Libro II (Delitti in generale). Si tratta della forma colposa dei principali fatti previsti come delitti dolosi contro l’incolumità pubblica e sono dunque sottoposti a pena anche quando, senza essere voluti si sono verificati a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline. In particolare; l’art. 449 c.p. prevede il delitto colposo di danno a carico di chiunque, al di fuori delle ipotesi previste nel secondo comma dell'articolo 423-bis (incendio boschivo), cagiona per colpa un incendio o un altro disastro; l’ art. 450 prevede il delitto colposo di pericolo a carico di chiunque, con la propria azione od omissione colposa, fa sorgere o persistere il pericolo di un disastro ferroviario, di una inondazione, di un naufragio, o della sommersione di una nave o di un altro edificio natante; l’art. 451 prevede il delitto di omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro, a carico di chiunque, per colpa, omette di collocare, ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi destinati all'estinzione di un incendio, o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro; l’art. 452 prevede i delitti colposi contro la salute pubblica a carico di chiunque commette per colpa i fatti che danno luogo ad epidemia o avvelenamento delle acque o sostanze alimentari.

 

Con riferimento all’articolo 132 disp. att. c.p.p., si ricorda che esso è stato introdotto dal decreto legge 341/2000 e nella sua originaria formulazione assegnava priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza ai quei soli procedimenti nell’ambito dei quali risultassero applicate misure cautelari di custodia i cui termini fossero prossimi alla scadenza. Successivamente il D.lvo 106/2006 attribuiva al Procuratore della Repubblica il potere-dovere di determinare i criteri di organizzazione dell’ufficio ed altresì i criteri cui dovevano attenersi i sostituti procuratori (o gli eventuali Procuratori aggiunti) nell’esercizio delle deleghe da lui conferite; nonchè attribuiva inoltre al Procuratore il potere (non l’obbligo) di definire nel progetto organizzativo dell’ufficio i criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti.

Il d.l. n. 92/2008, convertito in legge n. 125/2008, ha riformulato l’art. 132 bis disp. att. c.p.p., introducendo una regolamentazione di dettaglio delle priorità da assicurare ad alcuni procedimenti, (con attribuzione di priorità assoluta a talune tipologie di reato connotate da speciale gravità), nella fissazione dei ruoli di udienza e nella loro trattazione dibattimentale, rimandando ad un provvedimento da adottare da parte del dirigente la fissazione degli aspetti organizzativi necessari in vista del raggiungimento dell’obiettivo. Tale disposizione è stata ulteriormente integrata; con il decreto legge 93/2013 convertito nella legge n. 119/2013, che ha inserito tra i processi cui attribuire priorità assoluti quelli per reati di maltrattamenti contro i familiari; violenza sessuale e stalking; successivamente la legge. 23 giugno 2017, n. 161 che vi ha inserito ai processi nei quali vi sono beni sequestrati in funzione della confisca, dalla legge 17 ottobre 2017, n. 103, che vi ha inserito i processi per reati di corruzione e concussione; e da ultimo dalla legge n. 36 del  2019, ha inserito tra le priorità i processi per delitti di omicidio o lesioni personali colpose commessi per legittima difesa.

 

 

 


Articolo 6
(Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica)

 

L’articolo 6 interviene sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, prevedendo nei casi in cui l’esercizio dell’azione penale avviene con citazione diretta a giudizio, di un’udienza, nella quale il giudice (diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà celebrarsi il giudizio) valuta, sulla base degli atti presenti nel fascicolo del pubblico ministero, se il dibattimento debba essere celebrato o se, al contrario, debba intervenire una pronuncia di sentenza di non luogo a procedere.

 

Come è noto, l’istituto del giudice unico è stato introdotto nell’ordinamento con il d.lgs. n. 51 del 1998, con il quale è stato contestualmente abolito l’ufficio del pretore nonché la procura circondariale presso la procura.

Attualmente la disciplina del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica è contenuta nel Libro VIII della Parte II del codice di procedura penale. L'intero libro VIII, originariamente composto dagli articoli da 549 a 567, è stato sostituito, con gli attuali articoli da 549 a 559, dall'art. 44, della legge 16 dicembre 1999, n. 479. L’articolo 549 che apre il libro VIII stabilisce che in relazione al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica “per tutto ciò che non è previsto nel presente libro o in altre disposizioni, si osservano le norme contenute nei libri che precedono, in quanto applicabili”. Da ciò si deduce che il modello procedurale operante per il giudizio ordinario collegiale è altresì applicabile al rito monocratico, salvo specifiche disposizioni che derogano. In particolare. Si ricorda peraltro che le differenze tra rito monocratico e collegiale non risiedono nelle modalità di svolgimento della fase delle indagini, bensì soprattutto nell’accesso alla fase dibattimentale (è infatti prevista in alcuni specifici casi la citazione diretta a giudizio in luogo dell’udienza preliminare), e nello svolgimento del dibattimento, che è celebrato in modo più agile.

 

In particolare, il Governo è delegato, con la lettera a), ad incidere nei procedimenti attribuiti alla competenza del giudice monocratico in cui l’esercizio dell’azione penale avviene con citazione diretta a giudizio (di cui all’articolo 550 c.p.p.), ossia nei procedimenti - per specifici reati - in cui non si fa luogo all’udienza preliminare.

Si ricorda, al riguardo, che in seguito all’entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479:

·         per i reati attribuiti al rito collegiale (salva l’attivazione di un rito alternativo) si fa sempre luogo all’udienza preliminare:

·         per i reati attribuiti al giudice monocratico si fa luogo alla citazione diretta a giudizio per i reati previsti dall’articolo 550 c.p.p. (i reati contravvenzionali ovvero i delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva ed i reati specificamente indicati: violenza o minaccia a un pubblico ufficiale; resistenza a un pubblico ufficiale; oltraggio a un magistrato in udienza aggravato; violazione di sigilli aggravata; rissa aggravata con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; lesioni personali stradali, anche se aggravate; furto aggravato; ricettazione). Si fa luogo all’udienza preliminare in tutti gli altri casi attribuiti alla cognizione del giudice monocratico (art. 33 ter) e non inclusi nelle ipotesi di citazione diretta.

Quando non è prevista l’udienza preliminare, il P.M. ha funzioni propulsive di invio del processo al giudice del dibattimento, in quanto è lo stesso P.M. ad emettere il decreto di citazione a giudizio (art. 552 c.p.p.), che contiene tutti gli elementi necessari alla vocatio in jus. Per quanto attiene alla fase predibattimentale e di giudizio si osservano le norme previste per il rito collegiale, salve alcune specificazioni (artt. da 553 a 559 c.p.p.).

 

La novità introdotta con la riforma, attiene alla previsione, in relazione ai suddetti procedimenti, di un’udienza innanzi al tribunale in composizione monocratica, nella quale il giudice (diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà celebrarsi il giudizio) valuta, sulla base degli atti presenti nel fascicolo del pubblico ministero, se il dibattimento debba essere celebrato o se, al contrario, debba intervenire una pronuncia di sentenza di non luogo a procedere qualora:

§  sussiste una causa di estinzione del reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita;

§  il fatto non è previsto dalla legge come reato, se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato

§   l’imputato è una persona non punibile per qualsiasi causa;

§  gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono, quand’anche confermati in giudizio, una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria.

 

Si tratta dei medesimi elementi che sono alla base della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere (art. 425 c.p.p.) al termine dell’udienza preliminare. La regola di giudizio in base alla quale si pronuncia sentenza di non luogo a procedere se gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria corrisponde alla modifica alla regola di giudizio di cui all’art. 425 c.p.p. che il Governo dovrà introdurre in base ai principi e criteri contenuti nell’art. 3, lettera i, per l’analisi della quale si rinvia alla scheda di lettura relativa all’articolo 3).

Nella Relazione illustrativa si specifica che la disposizione in esame è volta all’introduzione di un’udienza « filtro » volta a consentire, anche nel caso di processi per i quali non sia prevista l’udienza preliminare propriamente detta, un vaglio volto a evitare la celebrazione di dibattimenti inutili, quando appaia scontato o notevolmente probabile che essi abbiano a concludersi con il proscioglimento.

 

Nella suddetta udienza, il Governo è inoltre delegato a fissare il termine, a pena di decadenza, per la richiesta:

§  del giudizio abbreviato;

Attualmente l’art. 556, comma 2, prevede che nel caso in cui vi sia stata la citazione diretta, la richiesta dovrà essere avanzata al giudice del dibattimento, a pena di decadenza prima della sua apertura e sarà questi a celebrare il rito abbreviato secondo le disposizioni perviste per tale giudizio.

 

§  di applicazione della pena su richiesta;

L’art. 555, comma 2, prevede che la richiesta di patteggiamento dovrà essere presentata dall’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

 

§  per la domanda di oblazione.

Ai sensi dell’art. 557, in relazione all’opposizione al decreto penale di condanna, l’imputato se propone oblazione deve a pena di decadenza avanzare eventuale istanza di giudizio abbreviato, patteggiamento o oblazione in detta sede, essendogli preclusa la possibilità di richiedere un rito alternativo nel dibattimento conseguente all’opposizione.

 

In analogia con quanto previsto dall’articolo 425 c.p.p, comma 4, la lettera b), delega il Governo a prevedere l’impossibilità per il giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere, se ritiene che dal proscioglimento debba conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

Il comma 4 dell’art. 425 c.p.p prevede infatti che il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca

 

Infine, con la lettera c) il Governo è delegato ad estendere alla sentenza di non luogo a procedere pronunciata al termine dell’udienza “filtro” per i procedimenti a citazione diretta, l’applicazione delle disposizioni in materia di requisiti della sentenza (art. 426 c.p.p.), di condanna del querelante alle spese e ai danni (art. 427 c.p.p.)  e di impugnazione della sentenza (art. 428 c.p.p.) (Con riguardo all’impugnazione della sentenza, si rinvia alla scheda di lettura relativa all’articolo 7).

 

 


Articolo 7
(Appello)

 

L’articolo 7 detta principi e criteri direttivi per la riforma del giudizio d’appello, che la stessa relazione illustrativa qualifica come il «segmento del procedimento penale che costituisce ormai la strettoia più angusta del giudizio di merito, destinata ad accumulare il maggior carico di affari per effetto delle modifiche apportate al regime della prescrizione con la legge n. 3 del 2019».

 

Si ricorda che la riforma delle impugnazioni penali era al centro anche della legge n 103 del 2017 che, nella scorsa legislatura, ha delegato il Governo ad intervenire in un’ottica di limitazione dell’istituto. È conseguentemente intervenuto il decreto legislativo n. 11 del 2018, che ha mirato a deflazionare il numero dei procedimenti che gravano sugli uffici giudiziari e a semplificarne le procedure sia in appello che in Cassazione, in attuazione del principio della ragionevole durata del processo, riducendo la legittimazione all'impugnazione di merito:

- al pubblico ministero, al quale è precluso l'appello delle sentenze di condanna, ossia delle sentenze che hanno riconosciuto la fondatezza della pretesa punitiva, salvo in alcuni specifici casi (ad esempio, sentenza di condanna che modifica il titolo del reato o che esclude l'esistenza di aggravanti ad effetto speciale);

- all'imputato, al quale è precluso l'appello delle sentenze di proscioglimento pronunciate con le più ampie formule liberatorie.

 

 

In particolare, in base alla lettera a), il legislatore delegato dovrà consentire al difensore di impugnare la sentenza solo se munito di uno specifico mandato a impugnare, rilasciato dalla parte successivamente alla pronuncia della sentenza stessa.

 

Impugnazione dell’imputato (art. 571 c.p.p.)

                    Normativa vigente

Principi di delega

Ruolo del difensore

È legittimato ad impugnare la sentenza il difensore che l’imputato ha nominato a tale scopo ma anche quello che riveste la qualità di difensore, di fiducia o d’ufficio, al momento dell’impugnazione

Per proporre impugnazione, il difensore deve aver ricevuto uno specifico mandato in tal senso, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza da impugnare

Attualmente, salvo quanto previsto per il ricorso per cassazione (per il quale è escluso che l’imputato possa impugnare autonomamente, avendo la legge n. 103/2017 prescritto che il ricorso sia redatto e sottoscritto da un avvocato patrocinante presso le giurisdizioni superiori, in ragione del tecnicismo dell'atto), l'imputato può proporre impugnazione personalmente o per mezzo di un procuratore speciale nominato anche prima della emissione del provvedimento.

Oltre all’imputato, in base all’art. 571, terzo comma, può proporre impugnazione anche il difensore dell'imputato che risulti nominato al momento del deposito del provvedimento da impugnare o il difensore nominato a tal fine. Il potere di impugnare spetta anche al difensore dell’imputato assente.

Peraltro, se l’impugnazione è proposta dal difensore, l’imputato può, nei modi previsti per la rinuncia, togliere effetto all'impugnazione.

 

La delega, dunque, mira a evitare che il difensore possa procedere all’impugnazione all’insaputa dell’interessato, prescrivendo invece una specifica manifestazione di volontà dell’imputato, che deve dotare il difensore dell’apposito mandato successivamente alla pronuncia della sentenza da impugnare.

 

La relazione illustrativa afferma che “la modifica consente di assicurare che il processo di impugnazione si svolga solo se l'imputato è sicuramente a conoscenza della sentenza. Si evita così l'inutile celebrazione di procedimenti (in appello e in cassazione) nei confronti di imputati incolpevolmente ignari del processo, cui può conseguire la rescissione del giudicato (articolo 629-bis del codice di procedura penale), con conseguente vanificazione di attività processuali onerose, in relazione sia all'uso delle risorse, sia al prolungamento dei tempi della giustizia, sia – molto spesso – alle spese per il patrocinio a carico dello Stato (nel caso di irreperibilità dell'imputato). In tal modo viene inoltre disincentivato il possibile abuso del processo”.

 

La delega non prevede un regime speciale per l’impugnazione della sentenza da parte del difensore dell’imputato assente.

 

Si ricorda che, fino al 1999, l’art. 571 c.p.p. disponeva che “contro una sentenza contumaciale” il difensore potesse proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste. Tale previsione è stata soppressa dalla legge n. 479 del 1999 avendo ritenuto il legislatore che siffatta previsione restringesse il diritto di difesa dell'imputato contumace rispetto a quello presente o assente per rinuncia espressa.

Conseguentemente, attualmente, si riconosce al difensore dell'imputato contumace la facoltà di poter proporre gravame anche in assenza di specifico mandato, fermo restando il potere dell'imputato, ai sensi dell’art. 175 c.p.p., di essere restituito in termini per porre nel nulla l'atto proposto dal difensore, al fine di esercitare il proprio diritto all'impugnazione.

Con la delega in commento, per quanto riguarda l’impugnazione da parte dell’imputato contumace si torna dunque alla disciplina pre-1999, che stavolta viene estesa a tutti.

 

La lettera b) interviene sulla modalità di presentazione dell’impugnazione e di spedizione dell’atto di impugnazione di cui agli articoli 582 e 583 c.p.p.

 

La forma di presentazione del gravame è disciplinata dall’articolo 582 c.p.p., il quale dispone che è presentato “personalmente ovvero a mezzo di incaricato” nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (art. 582, comma 1), e che ha l’onere di notificare l’impugnazione alle altre parti (art. 584 c.p.p.) e di comporre il fascicolo che deve essere trasmesso al giudice dell’impugnazione (art. 590 c.p.p.). Le parti private e i difensori possono presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano se tale luogo è diverso da quello in cui fu è messo il provvedimento, ovvero davanti a un agente consolare all'estero. In tali casi l’atto deve essere immediatamente trasmesso alla cancelleria del giudice che ebbe ad emettere il provvedimento impugnato (art. 582, comma 2).

Altre forme di presentazione sono indicate nell’art. 583 c.p.p., ove è previsto che le parti e i difensori possono proporre l’impugnazione con telegramma ovvero con raccomandata indirizzata alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. In tal caso, l’impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma. In caso di telegramma esso deve essere presentato all’ufficio postale e non dettato telefonicamente; in tale ultimo caso, infatti, la forma di comunicazione prescelta non garantisce la provenienza dell’atto e l’autenticazione della sottoscrizione.

La rigidità delle norme riguardanti la presentazione o spedizione dell’impugnazione che, come visto, prevedono a pena di inammissibilità forme particolari atte a garantirne non solo la ricezione, ma anche e soprattutto l’autenticità e la provenienza, ha indotto la giurisprudenza a ritenere inammissibile il gravame proposto a mezzo fax, poiché tale strumento tecnico, la cui utilizzazione non è prevista dalle norme in tema di impugnazione, non è comunque idoneo a garantirne la provenienza.

 

 

 

 

 

Modalità di presentazione dell’impugnazione (art. 582 e 583 c.p.p.)

                    Normativa vigente

Principi di delega

Art. 582, comma 2

Possibilità per le parti private e i difensori di presentare l'impugnazione nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento, ovvero davanti a un agente consolare all'estero.

Sopprimere

Art. 583

Le parti e i difensori possono proporre l'impugnazione con telegramma o raccomandata indirizzati alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Il pubblico ufficiale addetto allega agli atti la busta contenente l'atto di impugnazione e appone su quest'ultimo l'indicazione del giorno della ricezione e la propria sottoscrizione. L'impugnazione presentata con queste modalità si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma.

Sopprimere

 

 

Prevedere la possibilità del deposito dell'atto di impugnazione con modalità telematiche

 

Il legislatore delegato dovrà eliminare le disposizioni che consentono di presentare l’impugnazione nella cancelleria di un ufficio giudiziario diverso da quello che ha emesso l’atto da impugnare (art. 582, comma 2) e di procedere con telegramma o raccomandata (art. 583), disciplinando invece il deposito telematico dell’impugnazione.

 

Attualmente, nonostante l’art. 48 del Codice dell’amministrazione digitale (d.p.r. 82/2005) abbia equiparato – “salvo che la legge disponga altrimenti” – la trasmissione del documento informatico attraverso posta elettronica certificata alla notificazione per mezzo della posta, la giurisprudenza ha sempre negato la possibilità di presentare l’impugnazione con tali modalità.

Tra le pronunzie più recenti, è stato negato l’uso della p.e.c. per proporre opposizione a decreto penale di condanna (Cass. pen. Sez. IV, 23/01/2018, n. 21056), per impugnare una misura cautelare (Cass. pen. Sez. III Sent., 13/04/2018, n. 38411), per opporsi ad un provvedimento di revoca dell'ammissione al gratuito patrocinio (Cass. pen. Sez. IV Sent., 30/03/2016, n. 18823), per presentare una richiesta di riesame (Cass. pen. Sez. II, 03/12/2015, n. 12878); è stata altresì ritenuta “irricevibile” una memoria difensiva inviata via p.e.c. (Cass. pen. Sez. I Sent., 15/11/2019, n. 2020), e uguale sorte hanno avuto i ricorsi per cassazione - reputati inammissibili (cfr., da ultimo, Cass. pen. Sez. IV Sent., 27/11/2019, n. 52092).

La Cassazione ritiene, infatti, che pur ammettendo l’equiparazione sul piano del valore legale della p.e.c. alla raccomandata con ricevuta di ritorno, come ormai risulta da molteplici disposizioni normative, la posta elettronica certificata resta un mezzo non idoneo, in assenza di una norma ad hoc che espressamente consenta l’inoltro via p.e.c. degli atti di parte anche nel processo penale, come è invece per gli atti del processo civile.

Inoltre, il fatto che l’art. 16 del decreto-legge n. 179 del 2012 abbia espressamente disciplinato le comunicazioni e notificazioni a mezzo p.e.c nei confronti delle parti diverse dall’imputato viene utilizzato quale argomento a fortiori per negare tale possibilità in senso inverso (dalla parte privata a quella pubblica), stante appunto il silentio legis. Siffatta tassatività, a parere dei giudici di legittimità, non può essere superata o revocata in dubbio dalla equiparazione normativa ex art. 48 C.A.D. di cui si è detto, in virtù della clausola (“salvo che la legge disponga diversamente”) ivi contenuta a favore delle normative di settore.

Oltre al quadro normativo, la Corte evidenzia anche il dato tecnico: «l’inesistenza nel procedimento penale di un fascicolo telematico, che costituisce il necessario approdo dell’architettura digitale degli atti giudiziari, quale strumento di ricezione e raccolta in tempo reale degli atti del processo, accessibile e consultabile da tutte le parti, rende l’atto depositato a mezzo PEC di fatto anch’esso inesistente, necessitando per essere visibile in concreto dell’attività di stampa da parte della cancelleria che dovrebbe comunque inserire il documento nel fascicolo d’ufficio, di formazione e composizione esclusivamente cartacea» (cfr. Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 11/07/2017) 08-11-2017, n. 50932).

 

 

Le lettere c)-e) delegano il Governo a estendere le attuali ipotesi di inappellabilità delle sentenze.

 

Attualmente, l’art. 593 c.p.p. (Casi di appello), qualifica come inappellabili le sentenze di condanna al pagamento di un’ammenda (si tratta dunque delle condanne per contravvenzioni per le quali il giudice applica la sola pena pecuniarie). Tutte le altre sentenze di condanna possono sempre essere appellate dall’imputato mentre il PM può appellarle solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria[10].

Per quanto riguarda le sentenze di proscioglimento, sono inappellabili quelle relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa (ammenda o arresto). Tutte le altre sentenze di proscioglimento possono essere appellate da PM, mentre l’imputato può appellarle purché siano state emesse al termine del dibattimento (rito ordinario) e non si tratti di sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso.

Evidentemente, l’esclusione dell’appello non preclude la possibilità di ricorrere comunque in Cassazione.

 

 

Casi di appello (artt. 428 e 593 c.p.p.)

                    Normativa vigente

Principi di delega

Sentenza di condanna

Inappellabile se relativa al pagamento di un’ammenda

Aggiungere l’inappellabilità se la pena è sostituita con il lavoro di pubblica utilità (lett.d)

In tutti gli altri casi:

- Imputato: sempre

- PM: solo se è modificato il titolo del reato, o esclusa la sussistenza di un’aggravante ad effetto speciale, o stabilita una pena di specie diversa da quella ordinaria

 

Sentenza di proscioglimento e di non luogo a procedere

Inappellabile se relativa a contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa (ammenda o arresto).

Aggiungere l’inappellabilità se relativa a delitti puniti con la sola multa o con pena alternativa (multa o reclusione), a meno che non si proceda per: lesioni colpose gravi, anche commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario o propaganda di idee discriminatorie (lett. c). Stessa cosa per le sentenze di non luogo a procedere (lett. e)

In tutti gli altri casi:

- PM: sempre

- Imputato: purché non si tratti di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso (c.d. assoluzione con formula piena).

 

 

 

In base alla lettera c), il legislatore delegato dovrà aggiungere anche l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa. Se attualmente, dunque, l’inappellabilità riguarda esclusivamente le contravvenzioni punite con ammenda o con pena alternativa (ammenda o arresto), il Governo dovrà estendere l’inappellabilità anche alle sentenze pronunciate in relazione a delitti puniti con la sola multa o con pena alternativa (multa o reclusione).

 

Sono, ad esempio, puniti con pena alternativa i seguenti delitti previsti dal codice penale: omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.); violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa (art. 335 c.p.); astensione dagli incanti (art. 354 c.p.); omessa denuncia di reato da parte del cittadino (art. 364 c.p.); rifiuto di uffici legalmente dovuti (art. 366 c.p.); evasione per colpa del custode (art. 387 c.p.); mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388 c.p.); adulterazione o contraffazione di altre cose in danno della pubblica salute (art. 441 c.p.); omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro (art. 451 c.p.); frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.); maltrattamento di animali (art. 544-ter c.p.); violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.); lesioni personali colpose (art. 590 c.p.); omissione di soccorso (art. 593 c.p.); propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa (art. 604-bis c.p.); violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.); rivelazione del contenuto di corrispondenza (art. 618 c.p.); insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.).

 

Nell’introdurre la riforma, dovranno essere escluse comunque dall’inappellabilità, le sentenze di proscioglimento pronunciate in relazione ai seguenti delitti:

§  lesioni colpose gravi (art. 590, secondo comma c.p.);

§  lesioni colpose gravi commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 590, terzo comma c.p.).

Per le lesioni gravissime, previste dalla medesima disposizione, è prevista esclusivamente la pena detentiva quindi non rientrano nel campo d’applicazione della riforma.

§  responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario (art. 590-sexies c.p.);

§  propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istigazione a commettere o commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 604-bis, primo comma, c.p.).

 

La relazione illustrativa motiva queste eccezioni ritenendo che si tratti di “reati di particolare allarme sociale o il cui accertamento comporta, di solito, la soluzione di questioni tecniche complesse e controvertibili”.

 

 

La lettera e) delega il Governo a disciplinare l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere negli stessi termini previsti per le sentenze di proscioglimento.

 

Si ricorda che il genus della sentenza di proscioglimento racchiude le diverse tipologie di sentenze di non doversi procedere e di assoluzione. Il criterio differenziale tra le due forme di proscioglimento deve ravvisarsi nel tipo di cause che vi danno luogo. Il giudice adotta la formula dichiarativa “non doversi procedere” quando difetti una delle condizioni di procedibilità propriamente dette (querela, istanza, richiesta di procedimento e autorizzazione a procedere; art. 529 c.p.p.), ovvero altre situazioni atipiche (ad esempio, errore di persona; art. 68 c.p.p.) che si risolvano in una causa di improcedibilità, nonché quando sussiste una causa estintiva di reato (es. morte dell’imputato; art. 69 c.p.p.). Il giudice adotta invece una delle formule assolutorie contenute nell’art. 530 quando difetta la colpevolezza nel merito (fatto che non sussiste, fatto non commesso dall’imputato, fatto non costituente reato o non previsto dalla legge come reato), ovvero la imputabilità o punibilità dell’imputato.

L’art. 429 c.p.p. prevede che contro la sentenza di non luogo a procedere (prevista v. art. 425 c.p.p.) possa proporre appello il PM mentre, per quanto riguarda l’imputato, che egli possa procedere a meno che la sentenza non abbia dichiarato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso. La riforma del 2018 ha aggiunto – analogamente alla modifica apportata all’art. 593 c.p.p. - l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa.

 

La disposizione va letta in combinato con la modifica apportata dall’art. 3 all’art. 425 c.p.p., in base alla quale sono modificati i criteri decisori per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere sostituendosi il parametro di inidoneità a sostenere l’accusa, con quello dell’inidoneità degli elementi acquisiti a consentire una ragionevole previsione di accoglimento della prospettiva accusatoria nel giudizio.

 

La lettera d) estende invece le ipotesi di inappellabilità della sentenza di condanna, aggiungendo all’attuale inappellabilità delle sentenze che condannano al pagamento di un’ammenda, l'inappellabilità della sentenza che condanna al lavoro di pubblica utilità.

 

Si ricorda che il lavoro di pubblica utilità è una pena che può applicare in caso di condanna il giudice di pace, in alternativa alla permanenza domiciliare, ma solo su richiesta dell’imputato (art. 54, d.lgs. n. 274 del 2000) (v. infra, art. 10).

 

Come evidenziato dalla relazione illustrativa, questa previsione di inappellabilità si collega alle modalità di applicazione di tale sanzione e alla sua ratio risultando “incongruo consentire al condannato di impugnare la decisione nel merito e, in tal modo, di differire l'esecuzione di una misura che egli stesso ha richiesto o alla quale, comunque, non si è opposto, tanto più ove si consideri che tale misura può corrispondere utilmente alle esigenze rieducative e di risocializzazione cui è finalizzata solo se tempestiva (sia rispetto al fatto-reato, sia rispetto alla predisposizione dello specifico programma di lavoro offerto dagli enti convenzionati e sottoposto al giudicante)”.

 

Si anticipa che specifiche modifiche al giudizio di impugnazione delle sentenze di condanna sono previste dall’art. 13 del disegno di legge (v. infra).

 

Le lettere f) e g) delegano il Governo a prevedere l’attribuzione di specifici giudizi di appello alla competenza della Corte d’appello in composizione monocratica ed a disciplinare un rito camerale non partecipato per lo svolgimento di tali giudizi.

 

Si ricorda che già attualmente il giudizio di appello è affidato al tribunale in composizione monocratica in relazione alle sentenze del giudice di pace (art. 39, d.lgs. n. 274 del 2000).

 

In particolare, la lettera f) delega il Governo ad attribuire alla Corte d’appello in composizione monocratica la competenza a decidere dell’impugnazione avverso i provvedimenti adottati nei procedimenti di citazione diretta a giudizio di cui all’art. 550 c.p.p.

 

Si ricorda che, a seguito della riforma del 1999 (c.d. Legge Carotti, n. 479 del 1999), per i reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale si prevede sempre l’udienza preliminare (salva l’applicazione dei riti alternativi), mentre per quelli attribuiti al tribunale in composizione monocratica è possibile saltare l’udienza preliminare e andare direttamente all’udienza di comparizione e poi al dibattimento (salva la definizione anticipata).

La citazione diretta a giudizio, ai sensi dell’art. 550 c.p.p., è prevista:

-          per i reati contravvenzionali

-          per i delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a 4 anni

-          per i delitti puniti con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva (non superiore nel massimo a 4 anni)

-          per altri reati espressamente indicati: violenza o minaccia a un pubblico ufficiale; resistenza a un pubblico ufficiale; oltraggio aggravato a un magistrato in udienza; violazione di sigilli aggravata; rissa aggravata (con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime); lesioni personali stradali, anche se aggravate; furto aggravato; ricettazione.

 

La delega dunque interviene sul principio di collegialità del giudizio dinanzi alla Corte d’appello, prevedendo che la stessa possa giudicare anche in composizione monocratica.

L’abbandono del collegio dovrà essere introdotto per i procedimenti penali nei quali si applica la citazione diretta a giudizio di cui all’art. 550 c.p.p., e che dunque saranno decisi, tanto in primo grado quanto in appello da un giudice monocratico.

 

La relazione illustrativa ritiene questa previsione “coerente con l'assetto del giudizio di primo grado (che già prevede la competenza del tribunale in composizione monocratica) e consentita dall'introduzione di un'ulteriore garanzia per l'imputato, data dal vaglio preliminare, affidato a un giudice del tribunale, della sussistenza delle condizioni per un'eventuale sentenza di non luogo a procedere nel caso dei procedimenti a citazione diretta”.

 

 

La lettera g) delega il Governo a disciplinare, per i giudizi di impugnazione attribuiti alla competenza della Corte d’appello in composizione monocratica (v. sopra), un rito camerale non partecipato.

Il disegno di legge pare voler estendere anche al giudizio in Corte d’appello quanto previsto dall’art. 611 c.p.p. per i giudizi di Cassazione. Tale disposizione prevede che la Cassazione giudichi sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie delle altre parti con procedimento in camera di consiglio, «senza intervento dei difensori», ma all'esito di un contraddittorio cartolare instauratosi a seguito dell'avviso d'udienza (fino a quindici giorni prima dell'udienza, tutte le parti possono presentare motivi nuovi e memorie e, fino a cinque giorni prima, possono presentare memorie di replica).

In particolare, il rito camerale non partecipato dovrà essere previsto quando ne facciano richiesta l'imputato o il suo difensore e non vi sia la necessità di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.

 

 

In base alla lettera h) il rito camerale non partecipato dovrà essere applicabile anche agli altri giudizi della Corte d’appello – e dunque anche ai procedimenti attribuiti ordinariamente al collegio – purché:

§  sia consentita la decisione in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 599 c.p.p., e dunque “quando l'appello ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale”;

§  non sia necessario procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale;

§  ne facciano richiesta l'imputato o il suo difensore.

 

 

 


Articolo 8
(Condizioni di procedibilità)

 

L'articolo 8 del disegno di legge reca i princìpi e criteri direttivi ai quali il Governo deve adeguarsi nell'esercizio della delega in materia di condizioni di procedibilità.

 

La condizione di procedibilità è la manifestazione di volontà della persona offesa dal reato - espressa con le forme del negozio giuridico (querela, istanza di procedimento ex art. 341 c.p.p) - o dell'autorità - espressa con le forme dell'atto (richiesta di procedimento ex art. 342 c.p.p) o del provvedimento amministrativo (autorizzazione a procedere ex art. 343 c.p.p.) - finalizzata alla rimozione di un ostacolo all'esercizio dell'azione penale nei confronti di chi si assume essere autore di un fatto penalmente rilevante.

Nonostante regola generale sulla tutela penale sia la procedibilità d'ufficio da parte del pubblico ministero - titolare dell'azione penale obbligatoria - che la esercita indipendentemente dalla volontà della persona offesa (art. 50 c.p.p.), in alcuni casi la procedibilità è sottoposta, invece, al verificarsi di una condizione.

La principale delle condizioni di procedibilità è la querela della persona offesa (amplius infra), consistente nella dichiarazione facoltativa con la quale un soggetto, sia personalmente che tramite un procuratore speciale, manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato (art. 336 c.p.p.). La querela può essere presentata, oralmente o per iscritto, al P.M., ad un ufficiale di polizia giudiziaria o ad un agente consolare all'estero entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato (art. 124 c.p.).

In quanto diritto disponibile, la querela può essere oggetto di rinuncia (art. 339 c.p.p.) e remissione (art. 340 c.p.p.):

-          la rinuncia espressa alla querela (anche in tal caso, personalmente o a mezzo di procuratore speciale) va fatta con dichiarazione sottoscritta, rilasciata all'interessato o a un suo rappresentante; diversamente, può anche essere fatta oralmente e poi verbalizzata (da un ufficiale di polizia giudiziaria o da un notaio) previa sottoscrizione del dichiarante, che può rinunciare contestualmente anche all'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno;

-          la remissione della querela è una dichiarazione (fatta con le stesse forme della rinuncia) fatta e accettata personalmente o a mezzo di procuratore speciale, ricevuta dall'autorità procedente o da un ufficiale di polizia giudiziaria che deve trasmetterla immediatamente alla predetta autorità. La remissione, nei delitti punibili a querela, estingue il reato (art. 152 c.p.). Se sottoposte a termini o a condizioni, la remissione e la rinuncia alla querela non producono effetti (amplius infra).

 

Più nel dettaglio, ai sensi del comma 1 dell'articolo 8 il legislatore delegato deve prevedere la procedibilità a querela per il reato di lesioni stradali colpose gravi previsto dall'articolo 590-bis, primo comma, c.p. (lett.a). Il comma primo dell'articolo 590-bis c.p. punisce le lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, con la reclusione da tre mesi a un anno per le lesioni gravi e da uno a tre anni per le lesioni gravissime.

 

Come precisa la relazione illustrativa si tratta di un intervento, più volte sollecitato dalla dottrina, volto a restringere la procedibilità ai soli casi in cui vi sia un effettivo e reale interesse della persona offesa alla punizione del responsabile, al fine di evitare l'instaurazione di procedimenti e processi penali numerosi e spesso onerosi sia per la loro durata sia sotto l'aspetto finanziario, trattandosi di materia in cui si impone il ricorso a consulenze e perizie sia dal punto di vista medico legale sia per la ricostruzione della dinamica dei sinistri.

 

E' opportuno ricordare che l’art. 1, comma 16, lett. a) della legge n. 103 del 2017 (c.d. riforma Orlando) aveva delegato il Governo a “prevedere la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, fatta eccezione per il delitto di cui all’art. 610 del codice penale, e per i reati contro il patrimonio previsti dal codice penale, salva in ogni caso la procedibilità d’ufficio quando ricorra una delle seguenti condizioni: 1) la persona offesa sia incapace per età o per infermità; 2) ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale ovvero le circostanze indicate nell’articolo 339 del codice penale; 3) nei reati contro il patrimonio, il danno arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità”.

In attuazione della delega su ricordata è stato adottato il decreto legislativo 10 aprile 2018, n. 36  il quale ha apportato una serie di modifiche al codice penale da un lato, estendendo la procedibilità a querela ad alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio e, dall'altro, limitando per alcuni reati procedibili a querela nelle ipotesi-base, le circostanze aggravanti che ne determinano la procedibilità d'ufficio. Il legislatore delegato non ha incluso nel novero dei reati procedibili a querela ai sensi del d.lgs. n. 36 del 2018 le fattispecie delittuose previste dall’art. 590-bis, comma 1, c.p.

La mancata inclusione tra i delitti procedibili a querela tanto della fattispecie di lesioni personali dolose di cui all’art. 582 c.p., nell’ipotesi in cui consegua una malattia di durata superiore a venti giorni, quanto delle fattispecie di lesioni stradali gravi e gravissime di cui all’art. 590-bis, primo comma, c.p., è stata giustificata dal Governo stesso, nella Relazione illustrativa all'originario schema di decreto legislativo (A.G. 475), “in ragione della considerazione che il legislatore ha già equiparato, ai fini della descrizione della fattispecie, la malattia allo stato di incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, come si ricava agevolmente dalla disposizione in punto di aggravante di cui all’articolo 583, comma 1, n. 1, c.p. Il delitto di lesioni si connota, quindi, per l’evento, che ben può consistere in uno stato di incapacità, e la previsione di delega non qualifica ulteriormente la condizione di incapacità, non specifica se essa debba essere intesa come temporanea o permanente, piena o anche solo parziale, sicché il legislatore delegato non può che accoglierne la nozione più ampia […]. Il criterio di delega di cui all’articolo 1, comma 16, lettera a), numero 1), legge n. 103/2017 impone dunque di preservare la procedibilità d’ufficio quando ricorre la condizione di incapacità della persona offesa per (età o per) infermità”.

Sulla legittimità della scelta del legislatore di non includere fra i reati procedibili a querela anche le lesioni stradali gravi e gravissime di cui al comma primo dell'articolo 590-bis c.p. si è pronunciata favorevolmente la Corte costituzionale con la sentenza n. 223 del 24 ottobre 2019.

In tale sentenza la Corte ha sottolineato che la previsione della procedibilità a querela delle ipotesi delittuose contemplate dall’art. 590-bis, primo comma, c.p., si sarebbe posta in aperta contraddizione con la scelta, compiuta appena due anni prima dal Parlamento con la legge 23 marzo 2016, n. 41 (Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274), di prevedere la procedibilità d’ufficio di tutte le fattispecie di lesioni stradali di cui all’art. 590-bis c.p., in considerazione del particolare allarme sociale determinato dalle condotte che con la nuova incriminazione si intendevano contrastare.

 

 

In secondo luogo il legislatore delegato è chiamato, con riguardo ai reati perseguibili a querela, a prevedere l'obbligo che nell'atto di querela sia dichiarato o eletto il domicilio per le notificazioni, ammettendosi a tale fine anche l'indicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata (lett. b).

 

L'atto di querela (vedi supra) deve recare sia la narrazione d'un fatto sia la richiesta che il suo autore venga perseguito penalmente. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, è orientamento consolidato che la volontà di querelare, purché risulti inequivocabilmente, può essere espressa in qualsiasi modo. Secondo l'articolo 336 c.p.p., la querela va presentata personalmente o a mezzo di procuratore speciale. Per quanto riguarda la procura, questa, in base alla regola generale dell'art. 122, 1° co., deve, a pena d'inammissibilità , essere rilasciata con atto pubblico o scrittura privata autenticata, e contenere, oltre che le indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti cui si riferisce. Bisogna, poi, che la medesima sia allegata alla querela in occasione della presentazione di questa ed indichi specificamente tutti i fatti per i quali si richiede che venga promossa l'azione penale, nonché, se nota, la persona da sottoporre al procedimento; la procura, quindi, non può mai assumere il carattere di mandato generale né essere anteriore al reato.

 

In tema di notificazioni all’imputato è opportuno ricordare che l’elezione o dichiarazione di domicilio sono valide ed efficaci unicamente nell’ambito del procedimento nel quale sono state effettuate, mentre non spiegano alcun effetto nell’ambito di altri procedimenti, sia pure geneticamente collegati a quello originario, tant'è che l’elezione di domicilio, fatta nell’ambito di un procedimento conclusosi con l’archiviazione, non proietta la sua validità nel caso di successiva riapertura delle indagini, la quale dà luogo ad un procedimento formalmente nuovo (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza 20 dicembre 2018 – 31 gennaio 2019, n. 4926).

 

Infine nell'esercizio della delega dovrà essere prevista un'ipotesi tipica di remissione tacita della querela nel caso di ingiustificata mancata comparizione del querelante all'udienza dibattimentale cui sia stato citato in qualità di testimone (lett. c).

 

La remissione della querela è la dichiarazione di volontà dell'offeso, che deve essere accettata dal querelato, diretta a annullare gli effetti di una querela già proposta. Le forme di manifestazione della volontà di rimettere la querela sono varie: la remissione può essere processuale o extraprocessuale e in questo secondo caso può essere contenuta in un'esplicita dichiarazione (remissione espressa) o manifestata attraverso il compimento di atti incompatibili con la volontà di persistere nella querela (remissione tacita).

In proposito è opportuno ricordare che secondo la giurisprudenza non costituirebbero remissione:

a)  l'impegno a rinunciare alla costituzione di parte civile e la mancata comparizione di quest'ultima (Cass. pen. Sez. V, Sentenza 7 marzo 2006, n. 15855);

b)  la revoca espressa della costituzione di parte civile (Cass. pen. Sez. VI, Sentenza 25 marzo 1988, n. 2708);

c)  la mera transazione sul danno (Cass., Sez. IV, Sentenza 18 gennaio 1990, n. 6025).

Intervenendo su una prassi diffusa nei procedimenti avanti il Giudice di Pace, esperiti ai sensi del D.Lgs. 28.8.2000, n. 274 (relativo alla competenza del Giudice di Pace in materia penale), la Cassazione, in una pronuncia a Sezioni Unite, ha chiarito la portata del dettato normativo relativo alla remissione tacita della querela. Ha quindi sostenuto che nel procedimento davanti al giudice di pace la mancata comparizione del querelante - pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela - non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell'art. 152, 2° co., c.p. (Cass. S.U., Sentenza 30 ottobre 2008, n. 46088).


Articolo 9
(Ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive)

 

 

L'articolo 9 del disegno di legge prescrive la revisione dei criteri di ragguaglio della pena detentiva alla pena pecuniaria, diminuendo l'attuale misura di euro 250 per ogni giorno di pena detentiva, da sostituire con un importo inferiore, determinato comunque in una somma non superiore a euro 180.

 

Come si precisa nella relazione illustrativa si tratta di un intervento finalizzato ad "agevolare l'applicazione delle sanzioni sostitutive, limitare le impugnazioni strumentali e, indirettamente, facilitare l'accesso a riti alternativi quale, in primis, l'applicazione della pena su richiesta di parte".

 

L'articolo 135 c.p. fornisce il parametro generale di ragguaglio fra multa/ammenda, da un lato, e reclusione/arresto, dall'altro. L'ammontare di pena pecuniaria equivalente a un giorno di pena detentiva, originariamente fissato in lire venticinquemila o frazione di tale importo, è stato, in seguito a svariati interventi legislativi, aggiornato, in stretta correlazione con il contestuale riallineamento degli importi delle pene pecuniarie alla svalutazione della moneta, onde mantenere costante il valore della misura di unità detentiva. Con la riforma attuata dall'art. 1, legge 5 ottobre 1993, n. 402, il legislatore ha, per la prima volta, innalzato la misura del parametro di ragguaglio, triplicandolo da venticinquemila a settantacinquemila lire, senza rivalutare simmetricamente le entità edittali delle multe e delle ammende. Ne è derivata una decisa rivalutazione della pena detentiva rispetto alla pena pecuniaria, la cui ratio remota sta nella mutata sensibilità circa il valore della libertà, rispetto al patrimonio e i cui scopi pratici sono stati, da un canto, l'esigenza di estendere la sfera di applicabilità della sospensione condizionale della pena, e, dall'altro, di rendere meno trascurabili le pene pecuniarie, irrogate in sostituzione delle pene detentive brevi. In seguito alla conversione in euro delle sanzioni pecuniarie espresse in lire disposta dal decreto legislativo 24 giugno 1998, n 213, il criterio di ragguaglio (pur in assenza di una espressa modifica dell'articolo 135 c.p. da parte del decreto legislativo n. 213) è stato quantificato in 38 euro. La legge 15 luglio 2009, n. 94 ha da ultimo innalzato la misura del parametro di ragguaglio di cui all'articolo 135 c.p., portandolo agli attuali 250 euro.

E' opportuno ricordare, poi, che l'art. 1, comma 53 della legge 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando), ha introdotto (attraverso l'inserimento del comma 1-bis nell'art. 459 c.p.p.), una deroga alla disciplina ordinaria inerente al ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive nel caso dei decreti penali di condanna. In tal caso infatti, il computo va effettuato tra una forbice che oscilla tra un minimo di € 75 per il giorno di pena detentiva ad un massimo di € 225, pari al triplo dell'ammontare di € 75. Nella determinazione dell'ammontare della pena pecuniaria, il Giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare.

 

Sempre con riguardo alla questione del ragguaglio fra pene detentive e pene pecuniarie è necessario ricordare che la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 135 del codice penale, pur dichiarando le questioni inammissibili per un difetto di prospettazione del giudice a quo[11], ha formulato, nella sentenza 11 febbraio 2020, n. 15, l’auspicio che il legislatore intervenga per "restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale. E ciò nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei".


Articolo 10
(Disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni)

 

L'articolo 10 del disegno di legge enuncia princìpi e criteri direttivi cui il Governo dovrà attenersi nell'esercizio della delega in materia di contravvenzioni.

 

Il legislatore delegato è chiamato in primo luogo a prevedere:

 

§  una causa di estinzione delle contravvenzioni destinata a operare nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall'organo accertatore e del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa;

 

Il codice penale, nel titolo VI, distingue le cause di estinzione del reato (capo I) dalle cause di estinzione della pena (capo II). Secondo un tradizionale criterio di distinzione, le prime operano antecedentemente la pronuncia di una sentenza definitiva di condanna ed eliminano qualunque espressione della potestà punitiva statuale; le seconde presuppongono, invece, l’emanazione di una sentenza di condanna, ma ne inficiano l'esecuzione.

Le cause generali di estinzione del reato sono:

•   la morte del reo prima della condanna;

•   la remissione della querela;

•   l’amnistia propria, precedente cioè alla condanna;

•   la prescrizione;

•   l’oblazione nelle contravvenzioni;

•   la sospensione condizionale;

•   il perdono giudiziale.

Con particolare riguardo alla oblazione delle contravvenzioni si ricorda che la proposizione della domanda di oblazione e il pagamento della somma prevista impediscono il giudizio di merito: l’accertamento del giudice penale è limitato alla sussistenza dei presupposti dell’istituto cui segue un decreto di archiviazione o una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato si distingue.

Si distinguono due categorie fondamentali di oblazione:

-          l'oblazione ordinaria o processuale prevista dagli articoli 162 e 162 bis c.p. L'articolo 162 c.p. prevede che nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena dell'ammenda il contravventore è ammesso a pagare, prima dell'apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento. La previsione dell'art. 162-bis, introdotta dall'art. 126, legge n. 689 del 1981, amplia l'ambito di applicazione dell'oblazione alle contravvenzioni punite con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda. La concessione dell'oblazione è subordinata ad una valutazione discrezionale del giudice ed al rispetto dei presupposti soggettivi e oggettivi fissati dalla legge. È, inoltre, disposto il pagamento di una somma più elevata di quella prevista all'art. 162 c.p., determinata in misura pari alla metà del massimo dell'ammenda prevista per la contravvenzione.

-          l'oblazione extra processuale anche nota come conciliazione amministrativa.  Quest’ultima può avvenire in via breve (quando il soggetto è ammesso a pagare una somma fissa direttamente all’atto della contestazione, al funzionario che vi ha proceduto prima della redazione del verbale di contravvenzione) o in via ordinaria (quando il soggetto, dopo la redazione del verbale di accertamento, è ammesso a pagare una somma di denaro all’amministrazione competente che trasmette gli atti all’autorità giudiziaria perché, accertata la regolarità del pagamento, dichiari estinto il reato).

La legge n. 103 del 2007 (c.d. Legge Orlando) ha poi introdotto nel codice penale all'articolo 162-ter una estinzione del reato (per effetto di condotte riparatorie). Tale disposizione stabilisce infatti che nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione il giudice dichiara estinto il reato sentite le parti e la persona offesa quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato.

 

§  la possibilità della prestazione di lavoro di pubblica utilità in alternativa al pagamento della somma di denaro e la possibilità di attenuazione della pena nel caso di adempimento tardivo (lett.a).

 

Il lavoro di pubblica utilità applicato in sentenza è disciplinato dal d.m. 26 marzo 2001 e consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. La prestazione di lavoro, ai sensi del suddetto decreto, viene svolta a favore di persone affette da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; oppure nel settore della protezione civile, della tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. L’attività viene svolta presso gli Enti che hanno sottoscritto con il Ministro, o con i Presidenti dei Tribunali delegati, le convenzioni previste dall’art. 2 comma 1 del d.m. del 2001, che disciplinano le modalità di svolgimento del lavoro, nonché le modalità di raccordo con le autorità incaricate di svolgere le attività di verifica.

Originariamente, la sanzione era prevista nei procedimenti di competenza del giudice di pace, ai sensi dell’art. 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274. L'ambito di applicazione della sanzione è stato successivamente esteso a numerose e diverse fattispecie penali, che hanno configurato il lavoro di pubblica utilità come una modalità di riparazione del danno collegata all’esecuzione di diverse sanzioni e misure penali, che vengono eseguite nella comunità. Attualmente trova applicazione anche:

-          nei casi di violazione del Codice della strada, previsti all’art. 186 comma 9-bis e art. 187 comma 8-bis del d.lgs.285/1992;

-          nei casi di violazione della legge sugli stupefacenti, ai sensi dell’art. 73 comma 5 bis del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309;

-          come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis del codice penale, introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n, 67

-          congiuntamente alla pena dell’arresto o della reclusione domiciliare, ai sensi dell’art. 1 comma 1 lett. i) della legge 28 aprile 2014 n, 67

-          come obbligo del condannato ammesso alla sospensione condizionale della pena, ai sensi dell’art. 165 codice penale e art. 18-bis delle Disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale.

 

In secondo luogo in sede di attuazione della delega il Governo dovrà individuare le contravvenzioni per le quali consentire l'accesso alla causa di estinzione di cui alla lettera a) tra quelle suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie, salvo che concorrano con delitti (lett.b).

 

Con riguardo al principio di delega in esame si valuti l'opportunità di meglio precisare (attraverso ad esempio con un richiamo ai parametri sanzionatori) in relazione a quali contravvenzioni debba essere consentito l'accesso alla nuova causa di estinzione.

 

Come si rileva nella relazione illustrativa l'individuazione di un gruppo di reati contravvenzionali in relazione ai quali, fermo restando per la polizia giudiziaria l'obbligo di riferire al pubblico ministero la notizia di reato (vedi infra), il procedimento penale è sospeso fino alla scadenza del termine che sarà concesso al contravventore per l'adempimento delle prescrizioni impostegli al fine di elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato e per il pagamento di una somma di denaro (con possibilità, in alternativa, della prestazione di lavoro di pubblica utilità), ricalca un modello di estinzione del reato già sperimentato per le contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro e in materia ambientale. Tale intervento consentirebbe, inoltre - evidenzia sempre la relazione - di evitare al reo e al sistema giudiziario la celebrazione di un procedimento penale per reati meno gravi ogniqualvolta l'adempimento delle prescrizioni e il pagamento di una sanzione pecuniaria o la prestazione di lavoro di pubblica utilità garantiscono in tempi rapidi il ripristino dell'ordine giuridico violato dall'illecito e l'eliminazione di ogni conseguenza dannosa, effettiva o potenziale, derivante dallo stesso.

 

Ancora, il Governo è chiamato a mantenere fermo l'obbligo di riferire la notizia di reato ai sensi dell'articolo 347 c.p.p. (lett.c).

 

L'articolo 347 c.p.p. disciplina le attività della polizia giudiziaria relative alla acquisizione della notizia di reato. Con riguardo a tali attività la polizia giudiziaria: riferisce al PM senza ritardo e per iscritto gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi raccolti; indica le fonti di prova e le attività compiute; comunica, ove possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione dell'indagato, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti; indica il giorno e l'ora in cui è stata acquisita la notizia. Tutte queste attività vengono documentate in un atto comunemente denominato informativa di reato.

 

Infine il Governo è chiamato a prevedere la sospensione del procedimento penale dal momento della iscrizione della notizia di reato nel registro delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.) fino al momento in cui il PM riceve comunicazione dell'adempimento o dell'inadempimento delle prescrizioni e del pagamento della somma di denaro di cui alla lettera a) e la fissazione di un termine massimo per la comunicazione stessa (lett.d).

 

 

 


Articolo 11
(Disposizioni in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione)

 

L'articolo 11 del disegno di legge reca i princìpi e criteri direttivi ai quali il Governo deve adeguarsi nell'esercizio della delega in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione.

 

In particolare, il Governo è chiamato a modificare il codice di procedura penale, prevedendo uno strumento di impugnazione del decreto di perquisizione o di convalida della perquisizione, anche quando ad essa non consegua un provvedimento di sequestro.

 

Come si precisa nella relazione illustrativa tale criterio di delega si rende necessario per adeguare la disciplina processuale ai princìpi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione. Sempre nella relazione si ricorda infatti come la Corte di Strasburgo, con sentenza del 27 settembre 2018 (Brazzi v. Italia), abbia "condannato l'Italia per violazione dell'articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata) in un caso di perquisizione domiciliare disposta dal pubblico ministero, non seguita da sequestro, ritenendo che il ricorrente non disponesse né di un controllo di legalità ex ante della misura né di un sindacato ex post della legittimità della stessa. La necessità di colmare la lacuna dell'ordinamento interno si impone [quindi] con urgenza, considerato che la sentenza di condanna dell'Italia è divenuta definitiva a partire dal 18 marzo 2019; da quest'ultima data decorre il termine semestrale per comunicare al Comitato dei Ministri il «piano d'azione» contenente le misure individuali o generali già adottate o che si intende adottare per dare esecuzione al giudicato".

 

La perquisizione - mezzo di ricerca del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, nonché mezzo di ricerca della persona destinataria di un provvedimento restrittivo della libertà - è disposta, ai sensi dell'articolo 247 c.p.p., con decreto motivato, dall'autorità giudiziaria. É delegabile ad un ufficiale di polizia giudiziaria e può investire sia luoghi o cose sia persone.

La perquisizione personale, in particolare, è disposta in presenza del fondato sospetto che taluno occulti sulla propria persona il corpo del reato o le cose ad esso pertinenti. La perquisizione locale (e domiciliare), invece, è legata al fondato motivo di ritenere che tali cose si trovino in un determinato luogo ovvero che in esso possa eseguirsi l'arresto dell'imputato o dell'evaso.

Ai sensi dell'articolo 250 c.p.p. il decreto che dispone la perquisizione locale va consegnato, in copia, all'indagato o all'imputato, se presente, e a chi abbia l'attuale disponibilità del luogo. All'atto della consegna gli interessati vanno avvisati della facoltà di farsi rappresentare o assistere da persona di fiducia, purché questa sia prontamente reperibile e idonea ad assumere la veste di testimone ad atti processuali. In assenza di tali persone, la copia del decreto è consegnata e l'avviso è rivolto a un congiunto, un coabitante o un collaboratore ovvero, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. Se non è possibile provvedere neppure in questo modo, copia del decreto di perquisizione è depositata presso la cancelleria o la segreteria dell'autorità giudiziaria che procede e dell'avvenuto deposito è affisso avviso alla porta del luogo sottoposto a perquisizione.

Nel procedere alla perquisizione locale, l'autorità giudiziaria può disporre con ulteriore decreto motivato che siano perquisite le persone presenti o sopraggiunte, quando ritiene che le stesse possano occultare il corpo del reato o cose pertinenti al reato. Può inoltre ordinare, enunciando nel verbale i motivi del provvedimento, che taluno non si allontani prima che le operazioni siano concluse. Il trasgressore è trattenuto o ricondotto coattivamente sul posto.

Specifica tutela è apprestata quando il luogo oggetto di perquisizione sia il domicilio dell'interessato. Con particolare riguardo alla perquisizione domiciliare l'articolo 251 c.p.p. stabilisce infatti precisi limiti temporali, vietando che la perquisizione possa compiersi nelle ore dalle 20 alle 7, tranne che nei casi urgenti, previa autorizzazione dell'Autorità giudiziaria.

 

Avverso il decreto di perquisizione la giurisprudenza è uniformemente orientata nel senso di escludere la possibilità di proporre riesame.  La Cassazione, a Sezioni Unite, (sentenza 20 novembre 1996, n. 23) ha espressamente chiarito che, in forza del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione stabilito dall'art. 568 c.p.p., l'istituto del riesame non è applicabile al decreto di perquisizione perché manca l'espressa previsione di tale rimedio con riferimento al provvedimento de quo. Tuttavia, qualora la perquisizione sia finalizzata al sequestro e i due decreti siano inseriti in un unico contesto, il riesame coinvolge anche la perquisizione per la stretta interdipendenza delle due statuizioni, nei limiti, però, di un'indagine strumentale all'accertamento della legittimità del sequestro medesimo. Conseguentemente, in sede di riesame, i motivi che costituiscono autonoma censura di perquisizione non possono essere presi in considerazione.

 

Diversamente, con riferimento alla proponibilità del ricorso per cassazione, si è delineato un contrasto giurisprudenziale. Ad un orientamento prevalente (si veda per tutte Cass., Sez. V, 19 dicembre 2000, n. 6502) secondo cui, in ossequio al principio di tassatività dei casi e dei mezzi di impugnazione di cui all'art. 568, 1° co., il decreto che dispone la perquisizione è inoppugnabile, si oppone altro indirizzo secondo cui, ferma restando la non esperibilità del rimedio del riesame, sarebbe consentito, in virtù della clausola generale di cui all'art. 568, 2° co., il ricorso per cassazione, essendo il decreto di perquisizione disposto dal P.M. provvedimento che incide sulla libertà personale (si veda Cass., Sez. III, 4 febbraio 2000, n. 562).

 

È opportuno ricordare che particolari figure di perquisizione sono disciplinate da leggi speciali, che, nei casi di necessità ed urgenza che non permettano un tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, attribuiscono espressa legittimazione all'espletamento anche ad organi di polizia giudiziaria. Le perquisizioni ed ispezioni sono, fra le altre, previste:

-          dall'art. 103, D.P.R. 9.10.1990, n. 309, nel caso in cui vi sia il fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti;

-          dall'art. 27, L.19.3.1990, n. 55 nell'ambito di operazioni relative ai delitti di associazione di stampo mafioso e di riciclaggio qualora vi sia fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenuti denaro, valori, armi o esplosivi costituenti il prezzo, il prodotto o il profitto delle citate fattispecie criminose;

-          dall'art. 4, L. 22.5.1975, n. 152 con riguardo a persone o mezzi di trasporto al fine di accertare l'eventuale possesso di armi, strumenti di effrazione o esplosivi.

 

 

 


Articolo 12
(Termini di durata del processo)

 

In base all’articolo 12, il legislatore delegato dovrà introdurre termini di durata del processo penale, che il CSM potrà modificare - in relazione alle specificità di ciascun ufficio giudiziario - con cadenza biennale. I singoli magistrati dovranno adottare misure organizzative del proprio lavoro tali da assicurare la definizione dei processi penali nel rispetto di tali termini; la mancata adozione di tali misure (e non il mancato rispetto dei termini), se imputabile a negligenza inescusabile, potrà rilevare a titolo di responsabilità disciplinare.

L’introduzione dei termini di durata del processo penale, e la conseguente violazione di tali termini, non è destinata dunque a produrre conseguenze sul processo stesso.

 

 

In particolare, in base alla lettera a), i magistrati, nell’esercizio delle rispettive funzioni – e, dunque, quali assegnatari del procedimento penale, quali presidenti del collegio o quali dirigenti dell’ufficio, ad esempio - dovranno adottare misure organizzative per assicurare il rispetto dei termini di durata del processo penale, che il legislatore dovrà introdurre secondo il seguente schema:

 

Procedimenti penali

Termini di durata

Reati attribuiti alla competenza del tribunale in composizione monocratica

1 anno per il primo grado +

2 anni per l’appello +

1 anno per il giudizio di Cassazione

=

max 4 anni

Reati attribuiti alla competenza del tribunale in composizione collegiale

2 anni per il primo grado +

2 anni per l’appello +

1 anno per il giudizio di Cassazione

=

max 5 anni

Reati “più gravi” contro la PA e contro l’economia

3 anni per il primo grado +

2 anni per l’appello +

1 anno per il giudizio di Cassazione

=

max 6 anni

Gravi delitti, quali devastazione, saccheggio e strage, guerra civile; delitti di mafia; associazione a delinquere finalizzata al contrabbando; delitti di terrorismo e per tutti i procedimenti caratterizzati da investigazioni complesse per la molteplicità di fatti tra loro collegati ovvero per l'elevato numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese.

Nessun termine

 

Analiticamente, la delega prevede i termini più brevi (max 4 anni) per i procedimenti [rectius: processi] attribuiti alla competenza del tribunale in composizione monocratica.

 

In base all’art. 33-ter c.p.p. sono attribuiti al tribunale in composizione monocratica i delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti (art. 73 TU stupefacenti), sempre che non siano contestate le aggravanti, nonché tutti i reati non attribuiti al tribunale in composizione collegiale o ad altro ufficio giudiziario.

 

 

I termini più lunghi, fino a max 5 anni, sono previsti per i procedimenti [rectius: processi] di competenza del tribunale in composizione collegiale.

 

In base all’art. 33-bis c.p.p. sono attribuiti al tribunale in composizione collegiale i seguenti reati, consumati o tentati:

a) delitti indicati nell'articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 3), 4) e 5), sempre che per essi non sia stabilita la competenza della corte di assise. Peraltro, la delega sul punto esclude la previsione di termini per i procedimenti di cui ai numeri 3) e 4);

b) delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, esclusi quelli indicati dagli articoli 329, 331, primo comma, 332, 334 e 335. Peraltro, la delega sul punto prevede termini più lunghi per i “più gravi reati contro la pubblica amministrazione”;

c) delitti previsti dagli articoli 416, 416-bis, 416-ter, 420, terzo comma, 429, secondo comma, 431, secondo comma, 432, terzo comma, 433, terzo comma, 433-bis, secondo comma, 440, 449, secondo comma, 452, primo comma, n. 2, 513-bis, 564, da 600-bis a 600-sexies, puniti con reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, 609-bis, 609-quater e 644 del codice penale;

d) reati in materia di società, di consorzi e di altri enti privati previsti dal codice civile;

e) delitti previsti dall'articolo 1136 del codice della navigazione;

f) reati ministeriali (artt. 6 e 11, legge cost. n. 1/1989);

g) delitti previsti dagli articoli 216, 223, 228 e 234 della legge fallimentare;

h) delitti in materia di associazioni di carattere militare;

i) delitti previsti dalla legge 20 giugno 1952, n. 645, attuativa della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione;

i-bis) associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater TU dogane). Peraltro, per questo delitto la delega esclude la previsione di termini;

l) interruzione di gravidanza non consensuale (art. 593-ter c.p.);

m) costituzione o partecipazione ad associazioni segrete (legge n. 17/1982);

n) delitto previsto dall'articolo 29, secondo comma, della legge 13 settembre 1982, n. 646, in materia di misure di prevenzione;

o) trasferimento fraudolento di valori (art. 512-bis c.p.);

p) delitti di discriminazione e reati ai quali si applica l’aggravante di discriminazione (artt. 604-bis e ter, c.p.);

q) delitti di produzione e uso di armi chimiche (legge n. 496/1995).

Sono attribuiti altresì al tribunale in composizione collegiale i delitti puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, anche nell'ipotesi del tentativo.

 

 

I termini previsti dalla legge Pinto (legge n. 89 del 2011), che determinano una durata di max 6 anni (3 anni per il primo grado, 2 anni per il secondo grado, 1 per il giudizio di legittimità), sono previsti per i procedimenti “per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l’economia”. Spetterà dunque al legislatore delegato individuare, all’interno dei reati di cui al titolo II del libro II del codice penale (Dei delitti contro la pubblica amministrazione) e di cui capo I del Titolo VIII (Dei delitti contro l'economia pubblica) le fattispecie più gravi alle quali accordare una durata del procedimento penale più lunga.

 

Si ricorda che, in base all’art. 2 della legge n. 89 del 2001, il diritto all’equa riparazione sorge una volta che il processo – sia esso civile o penale - superi un termine di ragionevole durata, che varia a seconda dei gradi di giudizio: 3 anni per il primo, 2 anni per il secondo, 1 per quello in Cassazione.

Si ricorda inoltre che in base alla legge Pinto, per calcolare l’inizio del processo penale, ai fini del computo della sua durata, si prende in considerazione non solo l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ma anche la fase delle indagini preliminari. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 184 del 2015 ha affermato che è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 CEDU, l'art. 2, comma 2-bis, della Legge Pinto, nella parte in cui prevede che - al fine del riconoscimento dell'equa riparazione per violazione del termine ragionevole del procedimento - il processo penale si considera iniziato con l'assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l'indagato, in seguito a un atto dell'autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento a suo carico. La norma censurata, che determina la durata ragionevole del processo, esclude dal relativo calcolo il tempo occupato dallo svolgimento delle indagini preliminari. Detta previsione, dunque, è in contrasto con l'art. 6 CEDU, il quale, ai fini della riparazione per irragionevole durata del processo, esige una nozione di processo autonoma dalle ripartizioni per fasi dell'attività giudiziaria - operate invece in ambito nazionale - tale da abbracciare anche parte delle indagini preliminari, laddove esse hanno comportato la comunicazione formale dell'accusa penale, o comunque il compimento di atti, da parte dell'autorità giudiziaria che si siano ripercossi sulla sfera giuridica della persona.

Il termine di 6 anni previsto dalla Legge Pinto va dunque calcolato a partire dalla comunicazione formale dell’accusa penale e dunque può iniziare a decorrere già nella fase delle indagini preliminari.

 

 

Infine, la delega esclude che siano dettati termini per i processi relativi a specifici delitti.

 

Si tratta dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), numeri 1, 3 e 4, e comma 2, lett. b) del codice di procedura, ovvero:

-          delitti di cui agli articoli 285, 286, 416-bis e 422 del codice penale, 291-ter, limitatamente alle ipotesi aggravate previste dalle lettere a), d) ed e) del comma 2, e 291-quater, comma 4, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43;

-          delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;

-          delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonché delitti di cui agli articoli 270, terzo comma e 306, secondo comma, del codice penale;

-          notizie di reato che rendono particolarmente complesse le investigazioni per la molteplicità di fatti tra loro collegati ovvero per l'elevato numero di persone sottoposte alle indagini o di persone offese.

 

In via preliminare, si osserva dunque che il disegno di legge non prevede la fissazione di termini di durata per i processi di competenza della Corte d’assise e del giudice di pace.

Quindi, si rileva che il disegno di legge pare riferirsi alla durata del processo penale e non del procedimento penale, nonostante il termine “procedimenti” sia utilizzato dai numeri 1), 2) e 3) della lettera a). Stante anche la giurisprudenza costituzionale relativa al decorso dei termini della Legge Pinto (v. sopra), che include invece la fase delle indagini preliminari, si valuti l’opportunità di fare riferimento in modo univoco alla durata del “processo penale”.

 

 

In base alla lettera b), i termini di durata del processo, così delineati dal legislatore delegato, potranno essere variamente modificati dal Consiglio Superiore della Magistratura, sentito il Ministro della giustizia, ogni 2 anni, diversificando la durata del processo in relazione a ciascun ufficio giudiziario tenendo conto:

-         delle pendenze;

-         delle sopravvenienze;

-         della natura dei procedimenti e della loro complessità;

-         delle risorse disponibili;

-         degli ulteriori dati risultanti dai programmi di gestione redatti dai capi degli uffici giudiziari.

 

Il legislatore delegato dovrà dunque introdurre una disciplina generale, applicabile sul tutto il territorio nazionale, destinata a recedere a fronte di una analisi concreta, relativa a ciascun ufficio giudiziario, effettuata dal CSM, e periodicamente aggiornata.

La norma di delega non specifica entro quali margini il Consiglio superiore, apprezzate le circostanze concrete, possa discostarsi dai termini generali, né se il Consiglio possa, oltre che allungare, anche accorciare i termini di durata del processo fissati in modo omogeneo dal legislatore.

 

La diversa durata dei processi penali nei diversi distretti di Corte d’appello e, all’interno dei singoli distretti, nei diversi tribunali è un dato di fatto ampiamente censito dal Ministero della giustizia.

Il disegno di legge prevede che il CSM possa, sentito il Ministro, prendere atto che in specifici uffici giudiziari la durata del processo penale possa essere più lunga rispetto a quella prevista in altre parti d’Italia. Tale maggiore durata, peraltro, potrebbe essere legata anche all’entità delle risorse disponibili nel singolo ufficio giudiziario (presumibilmente facendo riferimento a organico e scoperture, tanto del personale amministrativo quanto di quello di magistratura).

Dalla formulazione della disposizione, il riconoscimento da parte di CSM e Ministro di condizioni territorialmente specifiche, che rendono difficile accertare le responsabilità penali dei cittadini entro termini altrove garantiti, non sembra tradursi in obbligo, per gli stessi organi, di apprestare misure organizzative (ad esempio potenziando le risorse disponibili) tali da colmare quel divario temporale

 

 

In base alla lettera c) il dirigente dell’ufficio giudiziario dovrà:

-         vigilare sull’adozione, da parte dei singoli magistrati, delle misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali nel rispetto dei termini fissati dal legislatore delegato o dal CSM;

-         segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare la mancata adozione delle misure organizzative quando sia imputabile a negligenza inescusabile.

 

Il disegno di legge, dunque, non prevede conseguenze per la violazione del termine di durata del processo penale, ma solo per la mancata adozione di misure organizzative tali da consentire al magistrato, al collegio, o all’ufficio in generale, di rispettare tale termine. Peraltro, la formulazione della disposizione non pare ricomprendere nell’eventuale responsabilità disciplinare l’adozione di misure organizzative che si siano rivelate inadeguate a garantire il rispetto di tali termini.

Inoltre, la responsabilità disciplinare del magistrato potrà essere attivata non per qualsiasi mancata adozione delle misure organizzative, ma solo a fronte di una negligenza inescusabile.

 

La negligenza inescusabile è causa di illecito disciplinare per il magistrato nell’esercizio delle funzioni (ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006) quando determina una grave violazione di legge (lett. g) o il travisamento dei fatti (lett. h) o l'adozione di provvedimenti, anche restrittivi della libertà personale, nei casi non consentiti dalla legge o sulla base di un errore macroscopico (lett. m), ff) e gg), ma in tali casi oltre che inescusabile la negligenza deve essere anche “grave”.

 

Per quanto la lettera c) non lo preveda espressamente, si deve ritenere che l’adozione delle misure organizzative competa anche al dirigente dell’ufficio giudiziario e che dunque anche la mancata adozione delle misure da parte sua possa essere valutata ai fini disciplinari.

Si valuti l’opportunità di introdurre questa specificazione.

 

La relazione illustrativa specifica che l’intento della previsione dell’art. 12 “è di incentivare la promozione di provvedimenti organizzativi virtuosi, che favoriscano una più celere definizione dei procedimenti penali, sulla base delle risorse disponibili e mediante una responsabile attività di analisi e pianificazione, alla stregua di criteri ormai codificati nella stessa normativa secondaria del Consiglio superiore della magistratura (da ultimo la «circolare in materia di programmi di gestione dei procedimenti penali ex art. 37 del d.l. n. 98 del 2011, convertito nella legge n. 111 del 2011, per l'anno 2020», adottata con deliberazione del 16 ottobre 2019)”.


Articolo 13
(Disposizioni per la trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna)

 

L’articolo 13 individua principi e criteri direttivi per la riforma dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna, che – anche con la nuova riforma della prescrizione prevista dal successivo articolo 14 – comportano la sospensione del termine di prescrizione. In particolare, il Governo dovrà disciplinare una istanza mediante la quale le parti, alla scadenza dei termini di durata del processo fissati in sede di riforma, possono sollecitare la trattazione del giudizio di impugnazione avverso la sentenza di condanna in primo grado. Dalla presentazione dell’istanza il processo dovrà essere definito entro 6 mesi. Spetterà ai dirigenti degli uffici giudiziari e ai singoli magistrati assicurare il rispetto di tali termini dettando idonee misure organizzative. In caso di violazione del termine dovuta a negligenza inescusabile, potranno essere applicate sanzioni disciplinari, ma non prima del 1° gennaio 2024.

 

 

In particolare, in base alla lettera a), il Governo dovrà consentire alle parti – e dunque tanto all’imputato e alle altre parti private (o ai loro difensori), quanto al PM - di presentare istanza di immediata definizione del processo quando siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello e in cassazione stabiliti ai sensi dell'articolo 12. Allo spirare dei 2 anni previsti per l’appello, e dell’anno previsto per il giudizio di legittimità (o dei diversi termini fissati dal CSM anche in relazione allo specifico ufficio giudiziario), dunque, le parti potranno sollecitare la trattazione del giudizio (lett. a).

 

Questo meccanismo ricorda i rimedi preventivi previsti dall’art. 1-bis della legge n. 89 del 2001, c.d. Legge Pinto, in forza del quale “la parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione” del termine di ragionevole durata del processo e solo se ha esperito tali rimedi ha poi diritto ad una equa riparazione. In particolare, nel processo penale, tali rimedi preventivi consistono nel deposito – almeno 6 mesi prima che scadano i termini di ragionevole durata – di un’istanza di accelerazione.

 

Se è presentata l’istanza di immediata definizione del processo, lo stesso deve essere definito entro 6 mesi (lett. b).

Si valuti l’opportunità di specificare se con definizione del processo si intende la definizione del grado di giudizio pendente (eventualmente del solo appello) o l’approdo alla sentenza irrevocabile (appello + cassazione).

 

In base alla lettera c), tanto i termini di durata del processo (previsti dall’art. 12 e richiamati dalla lett. a), quanto i 6 mesi previsti dopo l’istanza (previsti dalla lett. b) potranno essere sospesi nelle ipotesi nelle quali si sospende la prescrizione ai sensi dell’art. 159, primo comma, c.p.

 

Si tratta delle sospensioni:

-          imposte da una particolare disposizione di legge;

-          nei casi di autorizzazione a procedere;

-          nel caso di deferimento della questione ad altro giudizio;

-          del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore;

-          del procedimento penale per l’assenza dell’imputato ai sensi dell'art. 420-quater c.p.p.;

-          nei casi di rogatorie all'estero.

 

Inoltre, i medesimi termini sono sospesi anche quando, nel giudizio d’appello, si procede alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Pertanto, il termine di 6 mesi per definire il giudizio in appello, una volta presentata istanza di sollecito, andranno considerati al netto dell’eventuale rinnovo dell’istruzione dibattimentale.

 

 

La lettera d) demanda al capo dell’ufficio giudiziario l’adozione delle misure organizzative idonee a consentire il rispetto del termine semestrale per la definizione del giudizio, una volta depositata l’istanza.

 

La lettera e) prevede che il Governo debba qualificare come illecito disciplinare la violazione, dovuta a negligenza inescusabile:

-         dell’obbligo di dettare misure organizzative per garantire il rispetto del termine di 6 mesi;

-         del termine di 6 mesi per definire il giudizio.

Se la prima violazione è certamente imputabile al dirigente dell’ufficio giudiziario, sul quale grava l’obbligo di predisporre le misure organizzative, più complesso è individuare il responsabile della seconda violazione: il mancato rispetto del termine potrebbe infatti dipendere tanto da difetti organizzativi imputabili all’ufficio giudiziario, e quindi sempre al dirigente, quando a difetti organizzativi dei singoli magistrati o del collegio. Si rammenta che anche i singoli magistrati sono tenuti, in base all’art. 12 (v. sopra) ad adottare proprie misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali nel rispetto dei termini fissati dal legislatore delegato o dal CSM.

Analogamente a quanto previsto dall’art. 12, anche in questo caso la responsabilità disciplinare sussiste solo a fronte di negligenza inescusabile.

 

 

Infine, la lett. f) delega il Governo a introdurre una disposizione transitoria per rimandare al 1° gennaio 2024 l’entrata in vigore delle disposizioni sulla responsabilità disciplinare dei magistrati in caso di violazione del termine semestrale per la conclusione del giudizio – in grado d’appello o in cassazione – dalla presentazione dell’istanza.

Il disegno di legge richiede infatti che, prima di applicare sanzioni disciplinari ai magistrati, sia valutato l’impatto:

§  della riforma, e dunque quali siano stati gli effetti prodotti dai decreti legislativi di attuazione della delega;

§  delle misure previste per la celere definizione dell’arretrato (v. infra, artt. 15 e 16 del d.d.l.);

§  degli atti assunti dal Consiglio superiore della magistratura;

§  delle misure organizzative introdotte dai singoli dirigenti degli uffici giudiziari.

 

 


Capo II

Articolo 14
(Disposizioni in materia di sospensione della prescrizione)

 

Il Capo II consta del solo articolo 14, che modifica l’art. 159 del codice penale, relativo alla sospensione del termine di prescrizione.

In questo caso, dunque, il disegno di legge non prevede una delega al Governo, ma interviene direttamente sulla disciplina del codice penale con la finalità di:

-         modificare l’istituto – introdotto dalla legge n. 3 del 2019 – che blocca la prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, prevedendo, dopo una sentenza di assoluzione, che il termine di prescrizione continui a correre e, dopo una sentenza di condanna, che il termine sia sospeso fino alla pronuncia definitiva (modifica del secondo comma), salva l’ipotesi di assoluzione in appello;

-         consentire, in caso di assoluzione in appello dopo la condanna in primo grado, il computo dei periodi di sospensione della prescrizione maturati dopo la condanna (nuovo terzo comma).

-         prevedere che in caso di assoluzione in primo grado, se il termine di prescrizione scade entro un anno dal deposito della sentenza, che lo stesso sia sospeso per massimo un anno e mezzo, al fine di consentire il giudizio di appello, e per massimo 6 mesi, al fine di consentire il giudizio in cassazione (nuovo quarto comma). Se durante tali sospensioni, si verifica un’ulteriore causa di sospensione, i termini sono prolungati (nuovo sesto comma) e, in caso di conferma dell’assoluzione in appello, tali periodi di sospensione dovranno essere nuovamente computati (nuovo quinto comma).

 

Il disegno di legge torna dunque sulla disciplina della sospensione della prescrizione dopo l’entrata in vigore, il 1° gennaio 2020, della legge n. 3 del 2019 (c.d. Spazzacorrotti), che ha stabilito (sostituendo il secondo comma dell'art. 159 c.p.) il blocco della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado - sia di condanna che di assoluzione - fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del citato decreto. Nonostante la riforma sia infatti intervenuta sulla disposizione che disciplina la sospensione della prescrizione, non di autentica sospensione si è trattato posto che dal momento della pronuncia della sentenza di primo grado non è più prevista alcuna possibilità che il corso della prescrizione riprenda a decorrere, fino alla definitività della sentenza.

 

Per un commento della legge n. 3 del 2019, e del precedente intervento normativo sull’istituto della prescrizione operato dalla legge n. 103 del 2017, si rinvia all’apposito “tema dell’attività parlamentare” ed ai dossier del Servizio studi ivi richiamati.

 

In particolare, il disegno di legge del Governo modifica il secondo comma dell’art. 159 c.p. per circoscrivere la sospensione del corso della prescrizione, prevista a partire dalla pronuncia di primo grado e fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio, alle sole ipotesi di condanna in primo grado (e di decreti penali). Il termine di prescrizione continua a scorrere se la sentenza di primo grado è di assoluzione.

 

In base alla Relazione illustrativa, il Governo ha «ritenuto corretto, quindi, valorizzare la differenza di posizione tra coloro nei cui confronti l'interesse dello Stato al perseguimento dei reati contestati si è concretizzato in un provvedimento di accertamento (pur non definitivo) della loro responsabilità e coloro i quali, invece, sono stati assolti. In tal senso si spiega la modifica al secondo comma dell'articolo 159 del codice penale, con la previsione che il corso della prescrizione sia sospeso solo per le sentenze di condanna (oltre che per i decreti penali). L'effetto sospensivo generalizzato di cui all'articolo 159, secondo comma, resta invece precluso per le sentenze di assoluzione».

 

La distinzione tra sentenza di assoluzione e sentenza di condanna in primo grado determina ulteriori conseguenze che il disegno di legge disciplina introducendo nuovi commi nell’art. 159.

 

Se la sentenza di primo grado è di condanna, infatti, il blocco della prescrizione previsto dal secondo comma può essere superato da una sentenza di assoluzione in appello. In questo caso, infatti, il nuovo terzo comma prevede che la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione del secondo comma è ricomputato ai fini del calcolo del termine di prescrizione:

§  in caso di proscioglimento dell'imputato;

§  in caso di annullamento della sentenza di condanna nella parte relativa all'accertamento della sua responsabilità,

§  in caso di dichiarazione di nullità della decisione (in alcune specifiche ipotesi previste dall'art. 604 c.p.p.) con conseguente restituzione degli atti al giudice.

 

Se la sentenza di primo grado è di assoluzione, e viene proposta impugnazione, la regola è che il termine di prescrizione non viene sospeso, ma continua a scorrere (in questo senso disponendo, dopo la modifica, il secondo comma).

Il disegno di legge introduce però una eccezione a questa regola nel nuovo quarto comma dell’art. 159 c.p., disponendo la sospensione dei termini di prescrizione se il reato per il quale si procede si prescrive entro un anno dal deposito della sentenza di primo grado.

In questi specifici casi, dunque, il termine di prescrizione sarà sospeso:

-         per massimo un anno e 6 mesi, per consentire lo svolgimento del giudizio di appello;

-         per massimo 6 mesi, per consentire lo svolgimento del giudizio di legittimità.

 

La relazione illustrativa specifica che «permane l'esigenza che, anche in relazione alla pronuncia di proscioglimento, sia comunque evitato il rischio che i reati oggetto del procedimento possano estinguersi per prescrizione, senza che vi sia il tempo per compiere una rivalutazione nel merito della decisione assolutoria adottata. A tal fine, si introduce un'ipotesi limitata e selettiva di sospensione della prescrizione a seguito di impugnazione della sentenza di proscioglimento: sospensione limitata alla durata massima di un anno e sei mesi in relazione al giudizio di appello e di sei mesi in relazione al giudizio di cassazione, nel solo caso in cui per uno dei reati per cui si procede la prescrizione maturi entro un anno dalla scadenza del termine concesso per il deposito della sentenza di primo grado. Ciò allo scopo di consentire agli uffici giudiziari di disporre di un lasso di tempo congruo – anche alla luce della complessiva riforma del processo penale – per pervenire a rivalutare, eventualmente, il precedente giudizio di assoluzione, evitando il rischio che quella rivalutazione non si possa compiere per lo spirare del termine di prescrizione».

 

Anche questi periodi di sospensione, analogamente a quelli scaturenti dalla sentenza di condanna di primo grado, sono ricomputati ai fini della maturazione della prescrizione, in caso di proscioglimento in appello (nuovo comma quinto).

 

Infine, in base al nuovo sesto comma, in caso di concorso tra la causa di sospensione del quarto comma (per sentenza di assoluzione in prossimità dello spirare del termine di prescrizione) e le altre cause sospensive previste dal primo comma dell'art. 159 (autorizzazione a procedere, deferimento ad altro giudizio, impedimento delle parti o dei difensori, assenza dell'imputato o rogatoria all'estero), il termine è prolungato per il periodo corrispondente.

 

 

Normativa vigente

A.C. 2435

Codice penale

Art. 159

Sospensione del corso della prescrizione

Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di:

1) autorizzazione a procedere, dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l'autorità competente la accoglie

2) deferimento della questione ad altro giudizio, sino al giorno in cui viene decisa la questione

3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore. In caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l'udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell'impedimento aumentato di sessanta giorni. Sono fatte salve le facoltà previste dall'articolo 71, commi 1 e 5, del codice di procedura penale;

3-bis) sospensione del procedimento penale ai sensi dell'articolo 420-quater del codice di procedura penale;

3-ter) rogatorie all'estero, dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l'autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria.

Identico:

Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell'irrevocabilità del decreto di condanna.

Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di condanna di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell'irrevocabilità del decreto di condanna.

 

La prescrizione riprende il suo corso e i periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario al maturare della prescrizione, quando la sentenza di appello proscioglie l'imputato o annulla la sentenza di condanna nella parte relativa all'accertamento della responsabilità o ne dichiara la nullità ai sensi dell'articolo 604, commi 1, 4 o 5-bis, del codice di procedura penale.

 

Quando viene proposta impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento e almeno uno dei reati per cui si procede si prescrive entro un anno dalla scadenza del termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione, il corso della prescrizione è altresì sospeso:

1) per un periodo massimo di un anno e sei mesi dalla scadenza del termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il giudizio di appello;

2) per un periodo massimo di sei mesi dalla scadenza del termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva.

 

I periodi di sospensione di cui al quarto comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario al maturare della prescrizione quando la sentenza che definisce il giudizio in grado di appello, anche se emessa in sede di rinvio, conferma il proscioglimento.

 

Se durante i termini di sospensione di cui al quarto comma si verifica un'ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente».

La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione.

Identico.

Nel caso di sospensione del procedimento ai sensi dell'articolo 420-quater del codice di procedura penale, la durata della sospensione della prescrizione del reato non può superare i termini previsti dal secondo comma dell'articolo 161 del presente codice.

Identico.

 

 

 


Capo III

Articolo 15
(Misure straordinarie per la definizione dell’arretrato penale presso le Corti di appello)

 

L’articolo 15 reca misure straordinarie per la definizione dell’arretrato penale presso le Corti di appello e introduce modifiche alla disciplina dei giudici ausiliari in appello.

E' opportuno rilevare che la disposizione riproduce il contenuto dell'articolo 256 del decreto-legge n. 34 del 2020 (c.d. decreto rilancio) in corso di conversione (AC 2500, al cui dossier si rinvia).

 

Più nel dettaglio il comma 1 (lett. a) e b) dell'articolo interviene sulla disciplina dei giudici ausiliari di Corte d’appello, con particolare riferimento alle disposizioni degli articoli 62 e 63 del decreto-legge n. 69 del 2013, prevedendo:

§  la destinazione dei giudici ausiliari non solo alla definizione dei procedimenti civili, compresi quelli in materia di lavoro e previdenza, ma anche dei procedimenti penali;

§  l'attribuzione ai presidenti delle Corte d’appello del compito di individuare le priorità alle quali destinare i giudici ausiliari all’interno dell’ufficio, anche in attuazione dell’art. 132-bis, comma 2, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura, che demanda al presidente il compito di adottare misure organizzative per assicurare la rapida definizione dei processi per i quali è prevista la trattazione prioritaria;

§  l'aumento da 350 a 850 del numero massimo dei giudici ausiliari di Corte d’appello.

 

Il comma 2 prevede che, entro due mesi dall’entrata in vigore della legge, venga adottato il decreto di cui all’articolo 65, commi 1 e 2, del decreto legge n. 69/2013, per la rideterminazione della pianta organica a esaurimento dei giudici ausiliari e per le modalità e i termini di presentazione delle domande.

 

Per le finalità del presente articolo, al comma 3 è autorizzata la spesa di euro 10.000.000 per ciascuno degli anni dal 2021 al 2024. La copertura di questi oneri è prevista dall'articolo 17 del disegno di legge.

 


Articolo 16
(Misure straordinarie per la celere definizione e per il contenimento della durata dei procedimenti giudiziari pendenti)

 

L’articolo 16 autorizza il Ministero della giustizia ad assumere un contingente massimo di 1.000 unità di personale amministrativo non dirigenziale di area II/F2, in aggiunta alla facoltà di assunzioni ordinarie e straordinarie previste a legislazione vigente, con la specifica finalità di dare attuazione a un programma di misure straordinarie per la celere definizione e per il contenimento della durata dei procedimenti giudiziari pendenti, nonché per assicurare l’avvio della digitalizzazione del processo penale.

 

E' opportuno rilevare che l'articolo 255 del decreto-legge n. 34 del 2020 (c.d decreto rilancio), in corso di conversione ( (AC 2500, al cui dossier si rinvia) ha autorizzato il Ministero della giustizia ad assumere un contingente massimo di 1.000 unità di personale amministrativo non dirigenziale di area II/F1, in aggiunta alla facoltà di assunzioni ordinarie e straordinarie previste a legislazione vigente, per le medesime finalità indicate dall'articolo qui in commento.

 

Più nel dettaglio il comma 1 autorizza il Ministero della giustizia ad assumere un contingente massimo di 1.000 unità di personale amministrativo non dirigenziale di area II/F2, nel biennio 2020-2021, anche in sovrannumero rispetto all’attuale dotazione organica e alle assunzioni già programmate, con decorrenza non anteriore al 1° settembre 2020 e con contratto di lavoro a tempo determinato della durata massima di ventiquattro mesi.

Finalità della disposizione è dare attuazione a un programma di misure straordinarie per la celere definizione e per il contenimento della durata dei procedimenti giudiziari pendenti, nonché assicurare l’avvio della digitalizzazione del processo penale.

L’assunzione del personale di cui sopra è autorizzata ai sensi dell’articolo 36, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e in deroga ai limiti di spesa di cui all’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

 

Il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche", all'articolo 36, comma 2, prevede che le amministrazioni pubbliche possano stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa, esclusivamente nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l'applicazione nelle amministrazioni pubbliche. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare i contratti di cui sopra soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale. I contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato sono disciplinati dagli articoli 30 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, fatta salva la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro (i rinvii operati dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai contratti collettivi devono intendersi riferiti, per quanto riguarda le amministrazioni pubbliche, ai contratti collettivi nazionali stipulati dall'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni - ARAN). Il decreto precisa che non è possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali. Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche possono sottoscrivere contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato.

L'articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica" dispone il contenimento delle spese in materia di impiego pubblico. Stabilisce al riguardo che, a decorrere dall'anno 2011, le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, incluse le Agenzie fiscali, gli enti pubblici non economici, le università e gli enti pubblici, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009. Tali disposizioni costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai quali sono tenuti ad adeguarsi le regioni, le province autonome, gli enti locali e gli enti del Servizio sanitario nazionale. Sono in ogni caso escluse dalle limitazioni previste le spese sostenute per le assunzioni a tempo determinato ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del testo unico sugli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

 

Sempre il comma 1 stabilisce che alle assunzioni si provvede mediante procedure pubbliche espletate nelle forme del concorso unico di cui all’art. 4, comma 3-quinquies, del DL 101 del 2013 e in deroga alle previsioni dei commi 4 e 4-bis dell’art. 35 del citato TU pubblico impiego (la disposizione richiama l'articolo 14, comma 10-ter del decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4 (conv. legge n. 26 del 2019).

 

Per i soggetti positivamente valutati nell'ambito delle procedure di cui all’articolo 50, commi 1-quater e 1-quinquies, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, (conv. legge n. 114 del 2014), nonché per i soggetti ulteriormente selezionati ai fini dello svolgimento delle attività di tirocinio e collaborazione presso gli uffici giudiziari, come attestato dai capi degli uffici medesimi, l'amministrazione può procedere alle assunzioni mediante procedure per soli titoli e colloqui di idoneità.

 

Il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, all'articolo 50, comma 1-quater, stabilisce che, nei concorsi indetti dalla pubblica amministrazione, il completamento del periodo di perfezionamento presso l'ufficio per il processo costituisce titolo di preferenza a parità di merito, ai sensi dell'articolo 5 del Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, e successive modificazioni.

L'articolo 50, comma 1-quinquies, prevede che i soggetti che abbiano completato il tirocinio formativo, di cui all'articolo 37, comma 11, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, e successive modificazioni, e che non abbiano fatto parte dell'ufficio per il processo, nei concorsi indetti dalla pubblica amministrazione, abbiano comunque titolo di preferenza a parità di merito, ai sensi dell'articolo 5 del Regolamento di cui sopra.

 

Ai fini dell'attuazione del presente articolo, il comma 2 autorizza le seguenti spese:

·        euro 13.215.424 per l’anno 2020

·        euro 39.646.271 per l’anno 2021

·        euro 26.430.847 per l’anno 2022

Alla copertura di tali oneri provvede l'articolo 17 del disegno di legge (alla cui scheda di lettura si rinvia).

 


Capo IV

Articolo 17
(Norma di copertura finanziaria)

 

L’articolo 17 reca la copertura finanziaria degli oneri derivanti dagli articoli 15 e 16.

 

Il comma 1 prescrive che, agli oneri derivanti dall’attuazione delle disposizioni degli articoli 15 e 16, quantificati in:

·        euro 13.215.424 per l’anno 2020,

·        euro 49.646.271 per l’anno 2021,

·        euro 36.430.847 per l’anno 2022,

·        euro 10.000.000 per ciascuno degli anni 2023 e 2024,

 

si provveda:

 

a)      quanto a euro 13.215.424 per l’anno 2020 e a euro 10.000.000 per l’anno 2021, mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2020-2022, nell’ambito del Programma Fondi di riserva e speciali della missione "Fondi da ripartire" dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2020, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero dello sviluppo economico per euro 1.700.000 per l’anno 2020, l’accantonamento relativo al Ministero dell’economia e delle finanze per euro 2.500.000 per l’anno 2020, l’accantonamento relativo al Ministero della giustizia per euro 5.500.000 per l’anno 2020 e per euro 10.000.000 per l’anno 2021, l’accantonamento relativo al Ministero della difesa per euro 1.700.000 per l’anno 2020 e l’accantonamento relativo al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali per euro 1.815.424 per l’anno 2020;

 

L'insieme di tutte le risorse stanziate con il bilancio sono distinte fra un numero limitato di grandi finalità (n. 34 Missioni), che vengono perseguite indipendentemente dall'azione politica contingente e hanno un respiro di lungo periodo, ossia di configurazione istituzionale permanente. La struttura prevede due Missioni trasversali, presenti in tutti i Ministeri: "Fondi da ripartire" e "Servizi istituzionali e generali".

La missione "Fondi da ripartire" (Missione 23) raccoglie alcuni fondi di riserva e speciali, che non hanno, in sede di predisposizione della legge di bilancio di previsione, una collocazione specifica, ma la cui attribuzione è demandata ad atti e provvedimenti successivi adottati in corso di gestione. (amplius si veda la legge 27 dicembre 2019, n. 160, recante il Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e il bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022.

 

b)     quanto a euro 25.000.000 per l’anno 2021, a euro 28.000.000 per l’anno 2022 e a euro 10.000.000 per ciascuno degli anni 2023 e 2024, mediante corrispondente riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, recante disposizioni urgenti in materia fiscale e di finanza pubblica, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307;

 

L'articolo 10 ("proroga di termini in materia di definizione di illeciti edilizi"), comma 5, del decreto legge n. 282/2004, prevede che, al fine di agevolare il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, anche mediante interventi volti alla riduzione della pressione fiscale, nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze venga istituito un apposito "Fondo per interventi strutturali di politica economica", alla cui costituzione concorrono le maggiori entrate, valutate in 2.215,5 milioni di euro per l'anno 2005, derivanti dalle disposizioni di cui al comma 1.

L'articolo 10, comma 1, ha apportato modifiche e prorogato alcune disposizioni del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326).

La legge n. 160/2019, n. 160, all'articolo 1, comma 864, ha da ultimo disposto che il Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all'articolo 10, comma 5, del decreto-legge n. 282/2004, sia ridotto di 213 milioni di euro nell'anno 2020, di 3 milioni di euro nell'anno 2028, di 45,9 milioni di euro nel 2029, e incrementato di 10 milioni di euro nell'anno 2030 e di 25 milioni di euro nell'anno 2031.

 

c)      quanto a euro 14.646.271 per l’anno 2021 e a euro 8.430.847 per l’anno 2022, mediante corrispondente riduzione del Fondo di cui all'articolo 1, comma 200, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015).

 

L'articolo 1, comma 200, della legge n. 190/2014 istituisce, nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, un Fondo per far fronte ad esigenze indifferibili che si manifestino nel corso della gestione, con la dotazione di 27 milioni di euro per l'anno 2015 e di 25 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2016. Il Fondo è ripartito annualmente con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare le occorrenti variazioni di bilancio.

 

Il comma 2 autorizza il Ministro dell’economia e delle finanze ad apportare, con propri decreti, le necessarie variazioni di bilancio.

 

 

 

 


Articolo 18
(Disposizioni finanziarie)

 

L'articolo 18 reca la clausola di invarianza finanziaria.

Vi si prevede che dall'attuazione della legge e dei relativi decreti legislativi non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, salvo quanto previsto dagli articoli 15, 16 e 17. Si precisa inoltre che le amministrazioni provvedano agli adempimenti connessi all'attuazione delle disposizioni in esame e dei decreti legislativi emanati in attuazione della delega ivi prevista nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente (comma 1). I decreti legislativi dovranno essere corredati dalla relazione tecnica che ne attesti la neutralità finanziaria oppure dia conto dei nuovi o maggiori oneri e dei relativi mezzi di copertura (comma 2). Secondo il comma 3, qualora i decreti legislativi comportino nuovi o maggiori oneri non compensabili al proprio interno, gli stessi sono emanati solamente successivamente o contestualmente all'entrata in vigore delle disposizioni recanti i relativi mezzi di copertura, ai sensi di quanto stabilito dall'art. 17, comma 2, della legge di contabilità (legge n. 196/2009).

 

L'art. 17, comma 2, della legge di contabilità stabilisce che la legge delega individui i mezzi finanziari per far fronte agli oneri derivanti dai decreti legislativi di attuazione. Qualora non sia possibile determinare tale quantificazione, essa è effettuata al momento dell'adozione dei singoli decreti legislativi ed in caso di nuovi o maggiori oneri gli stessi decreti sono emanati solo successivamente all'entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie.

 



[1]     Ad esempio Cass. pen., sez. 3, sent. n. 48584 del 17/11/2016, ritiene inammissibile la presentazione di memorie, in sede di legittimità, mediante PEC, non potendosi estendere al giudizio penale in cassazione la facoltà di deposito telematico - prevista per il giudizio civile di legittimità ai sensi del d.l. n. 179 del 2012 - di istanze non aventi immediata incidenza sul processo. Diverse pronunce hanno ritenuto inammissibile il deposito telematico di impugnazioni, ad esempio Cass. pen., sez. 5, sent. n. 24332 del 05/06/2015, con riferimento all'impugnazione cautelare proposta dal P.M. mediante PEC, in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell'impugnazione - con raccomandata o telegramma ai sensi dell'art. 583 c.p.p. - sono tassative e non ammettono equipollenti. Quanto alla presentazione di istanze, Cass. pen., sez. 1, sent. n. 18235 del 30/04/2015 ritiene illegittimo l'invio di istanza di rimessione in termini, avanzata a mezzo PEC dal difensore di fiducia dell'imputato, in quanto l'invio telematico da parti private non è consentito nel processo penale. Si segnalano tuttavia alcune pronunce giurisprudenziali che ritengono l'invio di istanze con modalità non previste dal codice di rito (quali appunto il fax o la PEC) irregolare, ma non irricevibile né inammissibile. L'istanza, quindi, deve essere valutata dal giudice ove tempestivamente informato (così Cass. pen., sez. F, sen. n. 45720 del 11/11/2019, riguardo ad un'istanza di sospensione per legittimo impedimento inviata via fax; sez. 2, sent. n. 47427 del 18/11/2014, su analoga istanza inviata a mezzo PEC). Per approfondimenti, v. la relazione tematica del Massimario della Corte di Cassazione "L’utilizzo della posta elettronica certificata nel processo penale", red. M.C. Amoroso, reperibile presso il portale del massimario.

[2]     Le Sezioni unite, con sent. n. 28451 del 28 aprile 2011, la notificazione di un atto all'imputato o ad altra parte privata, in ogni caso in cui possa o debba effettuarsi mediante consegna al difensore, può essere eseguita con telefax o altri mezzi idonei a norma dell'art. 148, comma 2-bis, c.p.p., dovendosi annoverare anche la PEC tra tali mezzi ritenuti idonei. Ad esempio, Cass. pen., sez. 4, sent. n. 16622 del 21/04/2016, ritiene valida la notifica effettuata, ai sensi dell'art. 161, comma quarto, c.p.c., mediante invio al difensore, tramite PEC, dell'atto da notificare all'imputato, atteso che la disposizione di cui all'art. 16, comma 4, d.l. n. 179 del 2012, che esclude la possibilità di utilizzare la PEC per le notificazioni all'imputato, va riferita esclusivamente alle notifiche effettuate direttamente alla persona fisica dello stesso e non a quelle eseguite mediante consegna al difensore, seppure nel suo interesse.

[3]     Si veda l'articolo 83 del decreto legge n. 18 del 2020 (c.d. d.l cura Italia, conv. legge n. 27 del 2020), come da ultimo modificato dal decreto legge n. 28 del 2020, ancora in corso di conversione in Senato (si rinvia all'uopo al dossier relativo all'AS 1786)

[4]     Segnatamente, per i delitti di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis c.p.

[5]     Si tratta dei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all'articolo 12, commi 1, 3 e 3-ter, del TU immigrazione, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall'articolo 74 del TU stupefacenti, dall'articolo 291-quater del TU dogane (comma 3-bis), nonché dei procedimenti per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo (comma 3-quater).

[6]     Segnatamente dei delitti di cui agli artt. 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies c.p.

[7]     Sono le fattispecie di cui agli artt. 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies c.p.

[8]     Si tratta, tanto per l’art. 582 quanto per l’art. 583-quinquies c.p., di fattispecie aggravate in quanto commesse contro l'ascendente o il discendente oppure in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli articoli 572, 583-quinquies, 600-bis, 600-ter, 609-bis, 609-quater e 609-octies oppure commesse dall'autore del delitto di atti persecutori nei confronti della persona offesa (cfr. art. 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1) oppure commesse contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l'altra parte dell'unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva, anche quando il matrimonio, l’unione civile, la convivenza e la relazione affettiva siano cessati, oppure commessi contro il fratello o la sorella o contro un affine in linea retta (cfr. art. 577, primo comma, numero 1 e secondo comma).

[9] Si tratta dei gravi delitti attribuiti alla competenza del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (tra i diversi delitti si ricordano: associazione mafiosa; delitti commessi avvalendosi delle condizioni d'intimidazione mafiosa ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose associazione per delinquere finalizzata alla tratta o alla riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù o all'acquisto e vendita di schiavi nonché all'immigrazione clandestina; associazione per delinquere finalizzata a commettere un delitto di sfruttamento sessuale di minori o di violenza sessuale in danno di minori; associazione per delinquere finalizzata alla contraffazione e all'introduzione nello Stato e commercio di prodotti contraffatti; riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù; tratta di persone; associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope etc

[10]   Quando la sentenza è pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il PM non può appellare la condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato (art. 443, comma 3, c.p.p.). In caso di patteggiamento, solo in caso di dissenso il pubblico ministero può proporre appello altrimenti la sentenza è inappellabile (art. 448, comma 2 c.p.p.).

[11]   L’intervento del Giudice delle leggi era stato sollecitato dal Tribunale ordinario di Firenze, investito di una richiesta di patteggiamento con sostituzione, ai sensi dell'articolo 53, comma 21 della legge n. 689 del 1981, della pena della reclusione con quella della multa, che l’imputato chiedeva di calcolare secondo il tasso di conversione stabilito dall’art. 459 comma 1-bis c.p.p. e più favorevole di quello contemplato dall'articolo 135 c.p. richiamato dalla legge del 1981(75 euro per ogni giorno di pena detentiva, aumentabile fino al triplo tenuto conto delle condizioni economiche individuali e del nucleo familiare).  Il giudice a quo rilevava preliminarmente la sussistenza nell'ordinamento di due diversi tassi di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria: un primo, che ragguaglia un giorno di pena detentiva a una somma compresa tra 75 e 225 euro, previsto dall'articolo 459, comma 1 bis c.p.p. e applicabile ai soli procedimenti per decreto, e un secondo delineato dall'articolo 135 c.p. e richiamato dall'articolo 53 della legge n. 689 del 1981 che equipara un giorno di pena detentiva a una somma compresa tra 250 e 2.500 euro, ed applicabile a tutti gli altri procedimenti. Secondo il giudice rimettente quindi l'articolo 135 c.p. facendo dipendere il tasso di conversione da una scelta discrezionale del p.m. circa le modalità di esercizio dell’azione penale si sarebbe posto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione. La medesima disposizione consentendo potenzialmente l’irrogazione di pene sproporzionate rispetto alla gravità dei fatti, secondo l'avviso del giudice toscano, si sarebbe posta anche in contrasto con l’art. 27 della Costituzione.