Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Lavoro |
Titolo: | Rideterminazione dell’importo delle pensioni superiori a 4.500 euro mensili |
Riferimenti: | AC N.1071/XVIII |
Serie: | Progetti di legge Numero: 31 |
Data: | 25/09/2018 |
Organi della Camera: | XI Lavoro |
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Camera dei deputati |
XVIII LEGISLATURA |
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Documentazione per l’esame di |
Rideterminazione dell’importo delle pensioni superiori a 4.500 euro mensili
A.C. 1071 |
Schede di lettura |
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n. 31 |
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25 settembre 2018 |
Servizio responsabile: |
Servizio Studi – Dipartimento Lavoro ( 066760-4884 / 066760-4974 – * st_lavoro@camera.it - |
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File: LA0047.docx |
INDICE
§ Il contenuto della proposta di legge
§ Articolo 1, comma 1: trattamenti pensionistici erogati con decorrenza dal 1° gennaio 2019
§ Articolo 1, comma 2: trattamenti pensionistici erogati dal 1° gennaio 1996 al 31 dicembre 2018
§ Articolo 1, comma 3: trattamenti pensionistici antecedenti al 1° gennaio 1996
§ Articolo 1, comma 4: pensionamento con età inferiore a 57 anni
§ Articolo 1, comma 5: titolarità di più pensioni
§ Articolo 2: Organi costituzionali e di rilevanza costituzionale
§ Articolo 3: istituzione di un Fondo Risparmio
§ Articolo 4: clausola di salvaguardia
§ Articolo 5: contribuzione aggiuntiva per periodi di aspettativa sindacale
§ Giurisprudenza costituzionale
§ Elenco delle Tabelle dei coefficienti di trasformazione vigenti dal 1995 ad 2019
§ Integrazione al minimo sulla pensione (o pensione minima)
§ Le prestazioni di invalidità ed inabilità
§ Pensione ai superstiti (di reversibilità)
§ Trattamenti a favore delle vittime del dovere o di azioni terroristiche
La proposta di legge C. n. 1071 (D’Uva ed altri) prevede, a decorrere dal 1° gennaio 2019, una rideterminazione dell’importo dei trattamenti pensionistici pari o superiori a 90.000 euro lordi annui.
In particolare, il provvedimento in esame (che ai sensi dell’articolo 7 entra in vigore il giorno successivo a quella della pubblicazione sulla G.U.) introduce, a regime, un meccanismo di rideterminazione dei suddetti trattamenti pensionistici in relazione alla quota retributiva della pensione (cioè della quota di pensione calcolata sulla retribuzione posseduta).
Il meccanismo introdotto si riferisce ai trattamenti pensionistici futuri (comma 1), a quelli in essere per il periodo dal 1° gennaio 1996 (anno di entrata in vigore del sistema contributivo) al 31 dicembre 2018 (comma 2) e a quelli antecedenti al 1° gennaio 1996, basati sul sistema di calcolo retributivo, (comma 3), agendo in questi ultimi due casi anche retroattivamente sui parametri normativi che nel corso del tempo hanno presieduto al calcolo dei trattamenti pensionistici[1].
La rideterminazione è legata all’età di pensionamento, più precisamente:
· alla differenza tra età anagrafica effettiva del pensionamento ed età anagrafica definita dalla normativa vigente per le pensioni future;
· al rapporto tra diversi coefficienti di trasformazione, a seconda della data di decorrenza dei trattamenti pensionistici sulla base dei parametri di cui alla Tabella A allegata all’articolo 1, comma 2, per le pensioni in essere (periodo dal 1° gennaio 1996 al 31 dicembre 2018),
· all’applicazione dei coefficienti di cui alla Tabella B allegata al provvedimento, per le pensioni erogate fino al 31 dicembre 1995.
Il comma in esame prevede la rideterminazione per i richiamati trattamenti pensionistici, maturati a decorrere dal 2019 e liquidati a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, della gestione speciale dei lavoratori autonomi (si dovrebbe intendere la Gestione separata ex. articolo 2, comma 26, della L. 335/1995), nonché delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’Assicurazione Generale Obbligatoria.
La rideterminazione, che si effettua sulla quota retributiva dell’intero importo della pensione, è il risultato del rapporto tra il coefficiente di trasformazione relativo all’età dell’assicurato al momento del pensionamento (prendendo come riferimento i coefficienti di trasformazione di cui alla Tabella A allegata alla L. 335/1995) ed il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età prevista per il pensionamento di vecchiaia, di cui all’articolo 24, comma 6, del D.L. 201/2011 (pari, a decorrere dal 2019, a 67 anni di età[2]).
Per quanto attiene alla Tabella A di cui alla L. 335/1995, in considerazione del fatto che essa è stata modificata da successivi interventi legislativi, e, da ultimo, da interventi di rango secondario, appare applicabile la tabella n. 5 riportata in allegato (v. infra).
In sostanza, il meccanismo porrebbe al numeratore il coefficiente relativo all’età di pensionamento effettivo ed al denominatore il coefficiente legato all’anzianità richiesta per la pensione di vecchiaia. Il risultato ottenuto, se minore di un valore pari a uno, è applicato alla quota retributiva della pensione indicando la percentuale della riduzione da effettuare.
Si valuti l’opportunità di meglio chiarire se la tabella dei coefficienti di trasformazione indicata nel comma in esame sia quella di cui al decreto direttoriale 15 maggio 2018, in vigore dal 1° gennaio 2019.
Si ricorda che la Tabella contenente i coefficienti di trasformazione allegata alla L. 335/1995 è stata rideterminata da ulteriori interventi normativi e regolamentari. Più specificamente, l’articolo 1, comma 14, della L. 247/2007 ha rideterminato i coefficienti di trasformazione a decorrere dal 1° gennaio 2010. Successivamente, i coefficienti sono stati rideterminati: dal decreto direttoriale 15 maggio 2012, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dal decreto direttoriale 22 giugno 2015, a decorrere dal 1° gennaio 2016 e dal decreto direttoriale 15 maggio 2018 (vedi infra) a decorrere dal 1° gennaio 2019.
Si segnala che il testo prevede la rideterminazione dei trattamenti pensionistici solamente per i lavoratori iscritti all’Assicurazione Generale Obbligatoria ed alle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della stessa, e della Gestione separata INPS, non ricomprendendo quindi altre forme previdenziali (quali ad es. gli iscritti alle casse professionali).
L'Assicurazione generale obbligatoria (A.G.O.) è il regime generale amministrato dall'INPS, che si articola a sua volta in varie gestioni, di cui la principale è il Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD) al quale fa capo la maggior parte dei lavoratori dipendenti.
Le gestioni sostitutive rappresentano gestioni previdenziali alle quali erano iscritti particolari tipologie di lavoratori dipendenti del settore privato, ai quali era garantito (in virtù delle particolari caratteristiche del rapporto di lavoro) un trattamento differenziato (più favorevole) rispetto a quello fornito dall’A.G.O., in relazione sia alla misura della pensione sia all'età di pensionamento.
Alle gestioni esclusive erano iscritti la generalità dei lavoratori dipendenti di amministrazioni statali, degli enti locali e della sanità.
Le gestioni esonerative sono forme previdenziali alternative al regime generale, presenti soprattutto nel settore creditizio (attraverso la gestione diretta da parte delle aziende del settore creditizio).
La Gestione Separata è un fondo pensionistico finanziato con i contributi previdenziali obbligatori dei lavoratori assicurati e nasce con la L. 335/95 (art. 2, c. 26), allo scopo di assicurare la tutela previdenziale a tutte le categorie residuali dei liberi professionisti.
Per una disamina più approfondita delle gestioni si rimanda alla scheda allegata al presente Dossier.
Per quanto riguarda il meccanismo di rideterminazione della pensione, si rileva che il calcolo contributivo si fonda sull’importo totale dei contributi versati (montante) e dei coefficienti di rivalutazione moltiplicati per i coefficienti di trasformazione che variano in base all’età di pensionamento.
La proposta in esame, pertanto, configura una revisione che prende in considerazione solo i coefficienti di trasformazione legati all’età posseduta al momento del pensionamento, a prescindere da un effettivo ricalcolo contributivo.
Inoltre, la proposta non distingue tra chi è andato in pensione (di anzianità) per scelta volontaria e chi è andato in pensione (di vecchiaia) per raggiunti limiti di età.
In tal modo, il meccanismo di rideterminazione introdotto, legando il ricalcolo all’età posseduta al momento del pensionamento, non considera le ’età contributiva dei soggetti interessati e le differenze che possono sussistere tra singole situazioni contributive a parità di età.
Va inoltre rilevato che la legge ha individuato specifiche categorie di lavoratori la cui età di pensionamento è stata determinata in relazione a specifici requisiti[3], che prescindono dall’effettiva maturazione dei requisiti pensionistici stabiliti in via generale ai fini del conseguimento del diritto al pensionamento di vecchiaia (quali, a titolo esemplificativo: i lavoratori c.d. precoci[4], i soggetti con piani di esodo[5], i dipendenti pubblici con massima anzianità contributiva collocati a riposo in relazione alla facoltà di procedere unilateralmente alla risoluzione del rapporto di lavoro da parte delle pubbliche amministrazioni[6]).
Si segnala che la rubrica dell’articolo 1, nel definire l’ambito applicativo della rideterminazione dei trattamenti pensionistici, prevede che la stessa avvenga attraverso il ricalcolo contributivo dei trattamenti pensionistici superiori a 4.500 euro mensili (netti); al comma 1 invece, il meccanismo di rideterminazione opera per le pensioni pari o superiori a 90.000 euro lordi annui (cfr. infra articolo 4).
In riferimento al meccanismo di rideterminazione, si segnala la diversa formulazione del comma 1 in esame, il quale, a base dello stesso, fa riferimento ai “trattamenti pensionistici pari o superiori a 90.000 lordi annui”, rispetto al successivo comma 5, il quale, in caso di titolarità di più pensioni, dispone che la rideterminazione vada applicata “alle quote retributive del reddito pensionistico complessivo lordo superiore a 90.000 euro annui”.
I sistemi di calcolo delle pensioni
Il sistema di calcolo retributivo
Secondo il sistema di calcolo retributivo (applicabile alle anzianità contributive maturate fino al 31 dicembre 2011 ai lavoratori con almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), la pensione è rapportata alla media delle retribuzioni (o redditi per i lavoratori autonomi) degli ultimi anni lavorativi. Le modalità di calcolo (a decorrere dal 1988) sono state stabilite dall’articolo 21 della L. 67/1988. Esso si basa su tre elementi: § l'anzianità contributiva, data dal totale dei contributi, fino ad un massimo di 40 anni, che il lavoratore può far valere al momento del pensionamento e che risultano accreditati sul suo conto assicurativo, siano essi obbligatori, volontari, figurativi, riscattati o ricongiunti; § la retribuzione/reddito pensionabile, data dalla media delle retribuzioni o redditi percepiti negli ultimi anni di attività lavorativa, opportunamente rivalutate sulla base degli indici Istat fissati ogni anno; § l'aliquota di rendimento, pari al 2% annuo della retribuzione/reddito percepiti entro il limite, per poi decrescere per fasce di importo superiore.
L’aliquota di rendimento costituisce l’elemento di raccordo tra retribuzione pensionabile e anzianità contributiva, ed è la percentuale che si applica alla retribuzione media pensionabile per ogni anno di contribuzione. In particolare, tale aliquota si diversifica in relazione alle fasce di retribuzione pensionabile cui si applica. Più specificamente, per le anzianità contributive maturate dal 1° gennaio 1993 (ai sensi dell’articolo 12 del D.Lgs. 503/1992, che ha modificato la tabella allegata all’articolo 21 della L. 67/1988) le aliquote percentuali di rendimento annue per 40 anni di anzianità contributiva sono le seguenti (per il 2018, ai sensi della tabella O dell’allegato 2 alla circolare INPS 186 del 21 dicembre 2017): § 80% fino ad € 46.630,00; § 64% oltre € 46.630,00 e fino ad € 62.017,90; § 54% oltre € 62.017,90 e fino ad € 77.405,80; § 44% oltre € 77.405,80 e fino ad € 88.597,00; § 36% oltre € 88.597,00 Si ricorda, inoltre, che il sistema retributivo prevede un limite massimo alla contribuzione riconosciuta, pari a 40 anni. In altre parole, coloro che hanno lavorato per più di 40 avranno una pensione parametrata su un massimale di 40 anni.
Il sistema di calcolo contributivo
Il sistema di calcolo contributivo del trattamento pensionistico è stato introdotto dalla L.335/1995 (che prevedeva l'applicazione del sistema retributivo sino al 31 dicembre 1995 per i lavoratori che a tale data non avevano raggiunto i 18 anni di contributi). A differenza del sistema retributivo, non lega la prestazione pensionistica alla retribuzione, ma la vincola alla contribuzione accreditata a favore del dipendente nell'arco dell'intera sua vita lavorativa. L'importo della pensione si ottiene quindi moltiplicando il montante contributivo individuale per il coefficiente di trasformazione relativo all'età del dipendente alla data di decorrenza della pensione, al fine di ottenere l'importo attualizzato della pensione annua; in altri termini è la percentuale per la quale si moltiplicano i contributi accumulati in tutta la vita lavorativa al fine di determinare l'importo dell'assegno pensionistico. Tale indice è determinato tenendo conto della speranza di vita media alla pensione e incorporando il tasso di crescita prevista del PIL di lungo periodo (pari all’1,5% annuo). Al fine di tenere conto di eventuali frazioni di anno (rispetto all’età dell’assicurato al momento del pensionamento), il coefficiente di trasformazione viene adeguato con un incremento pari al prodotto di un 1/12 della differenza tra il coefficiente di trasformazione dell’età immediatamente superiore ed il coefficiente dell’età inferiore a quello dell’assicurato ed il numero di mesi. Tali modalità di calcolo comportano un importo finale della pensione percentualmente più basso di quello ottenuto con il sistema di calcolo retributivo, per ovviare a tale decremento si puntò ad incrementare il settore della previdenza complementare. Il sistema di calcolo contributivo, infine, non ha un massimale in relazione agli anni di contributi versati, valendo la regola che rispettato il minimo di contribuzione richiesta ogni lavoratore avrà un trattamento commisurato ai contributi versati nel corso della sua vita lavorativa. Tuttavia, l'articolo 1, c. 707, della L. 190/2014 (Stabilità 2015), integrando l’articolo 24, comma 2, del D.L. 201/2011 ha disposto che, in ogni caso, l'importo complessivo del trattamento pensionistico non possa eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l'applicazione delle regole di calcolo (retributivo) vigenti prima della data di entrata in vigore del D.L. 201/2011, computando, ai fini della determinazione della misura del trattamento, l'anzianità contributiva necessaria per il conseguimento del diritto alla prestazione, integrata da quella eventualmente maturata fra la data di conseguimento del diritto e la data di decorrenza del primo periodo utile per la corresponsione della prestazione stessa.
Per una disamina più approfondita su tale sistema di calcolo, si rimanda alla scheda allegata al presente Dossier.
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Il comma in esame stabilisce, per i trattamenti pensionistici diretti con decorrenza anteriore al 1° gennaio 2019 (ma successivi al 31 dicembre 1995) di identico importo di cui al comma 1, una riduzione delle quote retributive alla risultante del rapporto tra il coefficiente di trasformazione vigente al momento del pensionamento relativo all’età anagrafica del soggetto alla medesima data ed il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età di pensionamento riportato nella Tabella A allegata al provvedimento in esame, a seconda dell’anno di decorrenza della pensione. Nel caso in cui l’età al momento del pensionamento sia superiore a 65 anni, viene comunque utilizzato il coefficiente di trasformazione relativo all’età di 65 anni.
In questo caso, la rideterminazione viene effettuata prendendo come riferimento il coefficiente di trasformazione vigente al momento del pensionamento (al numeratore) con il coefficiente di trasformazione relativo alle età contenute nella Tabella A allegata al presente provvedimento (al denominatore). Per individuare il coefficiente corrispondente sembrerebbe doversi fare riferimento alla tabella vigente al 1° gennaio 2019 (v. infra Tabella n. 5). Anche in questo caso un differenziale minore di un valore pari ad uno indicherà la percentuale della quota retributiva di pensione da rideterminare.
Al riguardo, appare opportuno un chiarimento in ordine alla metodologia seguita per la rideterminazione della quota retributiva della pensione, sia con riferimento alla costruzione della Tabella A allegata al provvedimento, sia all’individuazione delle tabelle di riferimento dei coefficienti di trasformazione da utilizzare per la rideterminazione.
A tal proposito, si osserva che le età di pensionamento indicate nella suddetta Tabella A (che sembra costruita utilizzando il cd. sistema “ora per allora”) differiscono con le età di pensionamento di vecchiaia vigenti alle corrispondenti date di decorrenza dei trattamenti; in particolare, il differenziale tra queste ultime (età di pensionamento di vecchiaia vigenti alle diverse date) e le prime (età indicate nella Tabella A alle diverse date) appare crescente mano a mano che si procede a ritroso nel tempo (v. al riguardo la ricostruzione sulle età pensionabili allegata al presente Dossier).
In proposito, si può segnalare che, prima della cd. Riforma Amato (D.Lgs. 503/1992), l’età per il pensionamento di vecchiaia era pari, in generale, a 60 anni per gli uomini e 55 anni per le donne (età successivamente innalzate, rispettivamente, a 65 e 60 anni dal 1° gennaio 1993).
Inoltre, il testo del comma 2 in esame applica la rideterminazione alle sole pensioni dirette erogate nel periodo che va dal 1° gennaio 1996 al 31 dicembre 2018, e non anche alle pensioni di reversibilità in essere. Si ricorda, a tal proposito, che il comma 1, che dispone la rideterminazione dei trattamenti pensionistici a decorrere dal 1° gennaio 2019, non distingue tra trattamenti pensionistici diretti e di reversibilità; tuttavia l’articolo 6 esclude, in ogni caso, dall’applicazione della rideterminazione, tra gli altri, anche i trattamenti pensionistici ai superstiti.
Il comma in esame applica alle pensioni con decorrenza antecedente al 1° gennaio 1996 i coefficienti di trasformazione in vigore fino alla data del 31 dicembre 2009, di cui alla Tabella B allegata al provvedimento in esame, identica alla Tabella A allegata alla L. 335/1995.
Il comma in esame interviene quindi sulle pensioni liquidate interamente con la quota retributiva, dal momento che il calcolo con il sistema contributivo è stato introdotto nell’ordinamento dalla L. 335/1995 a decorrere dal 1° gennaio 1996.
In questo caso, la rideterminazione opera applicando i coefficienti di trasformazione in vigore alla data del 31 dicembre 2009, contenuti nella Tabella B allegata al provvedimento in esame (identica alla originaria Tabella A allegata alla L. 335/1995) relativi all’età effettiva del pensionamento e all’età prevista per il pensionamento di vecchiaia: dividendo tra loro tali coefficienti si ottiene il differenziale che, se minore di uno, indicherà la percentuale della rideterminazione della quota retributiva della pensione.
In relazione alle età di uscita previste dalle tabelle succedutesi a decorrere dalla L. 335/1995, la norma riconduce ad un’età pensionabile più elevata tutte le situazioni che prevedevano un’uscita dal mondo del lavoro con età che, anche se significativamente più basse (nonché diverse tra uomini e donne), rispettavano la normativa vigente al momento del pensionamento.
Il comma in esame stabilisce che, nel caso in cui l’età alla decorrenza della pensione sia inferiore a 57 anni, venga utilizzato il coefficiente di trasformazione relativo a tale età. Tale previsione si intende riferita ai casi di cui ai precedenti commi da 1 a 3.
In riferimento al comma 4 (così come per il comma 1), si valuti l’opportunità di meglio definire quali siano le Tabelle contenenti i coefficienti di trasformazione da utilizzare in ognuno dei casi disciplinati, alla luce delle modifiche sulle medesime tabelle succedutesi nel corso del tempo (vedi supra al comma 1).
Il comma in esame, infine, prevede che in caso di titolarità di più pensioni, il ricalcolo viene applicato alle quote retributive del reddito pensionistico complessivo lordo superiore a 90.000 euro.
La norma disciplina i casi in cui il pensionato sia titolare di 2 o più trattamenti previdenziali. Appare utile ricordare, in proposito, che in questi casi l’erogazione della pensione può essere comunque unificata (è il caso in cui il pensionato sia stato assicurato presso l’A.G.O. e le forme esclusive o sostitutive di essa: l’INPS, pur con evidenza contabile diversa, erogherà una sola pensione), o possono essere erogate diverse pensioni da diversi Enti (è il caso in cui il soggetto sia titolare di assegni vitalizi, pensioni erogate da organismi internazionali, pensioni estere non in convenzione, pensioni supplementari, pensioni di Casse professionali nel caso in cui l’iscritto non abbia cumulato, o, più in generale, soggetti che hanno prestato la loro opera professionale per più datori di lavoro senza avere un’unica posizione lavorativa, per i quali andrebbe precisato a quale gestione far riferimento).
In riferimento al meccanismo di ricalcolo, si segnala la diversa formulazione del precedente comma 1 rispetto al comma 5 in esame, in quanto quest’ultimo fa riferimento “alle quote retributive del reddito pensionistico complessivo lordo superiore a 90.000 euro annui”.
L’articolo in esame dispone che gli organi costituzionali, e di rilevanza costituzionale, adeguino i propri ordinamenti previdenziali, nell’ambito della propria autonomia, alle disposizioni di cui al precedente articolo 1 entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame.
In proposito si ricorda che, in particolare nell’arco dell’ultimo quinquennio, alcune disposizioni legislative sono intervenute al fine di dettare norme per il concorso degli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale alla riduzione della spesa pubblica o per prevedere l’adeguamento dei rispettivi ordinamenti al nuovo quadro normativo, con una formulazione volta a preservare l’autonomia dei rispettivi ordinamenti.
Tra queste si ricordano in particolare:
· art. 1 della legge n. 11/2016 “1. Il Governo è delegato ad adottare, entro il 18 aprile 2016, un decreto legislativo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, rispettivamente sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, di seguito denominato «decreto di recepimento delle direttive», nonché, entro il 31 luglio 2016, un decreto legislativo per il riordino complessivo della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di seguito denominato «decreto di riordino», ferma restando la facoltà per il Governo di adottare entro il 18 aprile 2016 un unico decreto legislativo per le materie di cui al presente alinea, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi generali di cui all'articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, e dei seguenti princìpi e criteri direttivi specifici […]. 7. Gli organi costituzionali stabiliscono nei propri ordinamenti modalità attuative dei princìpi e criteri direttivi previsti dalla presente legge nell'ambito delle prerogative costituzionalmente riconosciute;
· art. 1, comma 519, legge 208/2015: “Nelle acquisizioni di beni e servizi di cui ai commi da 512 al presente comma[7] gli organi costituzionali adottano le misure idonee a realizzare le economie previste nella rispettiva autonomia, secondo le modalità stabilite nel proprio ordinamento”;
· art. 6 del decreto-legge n. 90/2014 “Divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza. […] Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell'ambito della propria autonomia”;
· art. 17 del decreto-legge n. 66/2014 “1. Per l'anno 2014, gli importi corrispondenti alle riduzioni di spesa autonomamente deliberate dalla Presidenza della Repubblica, dal Senato della Repubblica, dalla Camera dei deputati e dalla Corte Costituzionale, secondo le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, sono versati, nella misura complessiva di 50 milioni di euro, all'entrata del bilancio dello Stato. 2. Per l'anno 2014, gli stanziamenti iscritti in bilancio per le spese di funzionamento della Corte dei conti, del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali, del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana sono ridotti, complessivamente, di euro 5.305.000. 2-bis. Le riduzioni di spesa di cui ai commi 1 e 2 sono ripartite tra i vari soggetti in misura proporzionale al rispettivo onere a carico della finanza pubblica per l'anno 2013;
· art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013 “Ai soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, le amministrazioni e gli enti pubblici compresi nell'elenco ISTAT di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono erogare trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, eccedano il limite fissato ai sensi dell'articolo 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Nei trattamenti pensionistici di cui al presente comma sono compresi i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive. Sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi. Gli organi costituzionali applicano i princìpi di cui al presente comma nel rispetto dei propri ordinamenti”;
· art. 2-bis del decreto-legge n. 120/2013 “(Facoltà di recesso delle pubbliche amministrazioni da contratti di locazione). - 1. Anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di contenimento della spesa di cui agli articoli 2, comma 5, e 3, comma 1, le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell'ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere, entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l'esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dal contratto”.
L’articolo in esame istituisce (comma 1) un apposito Fondo risparmio, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nel quale confluiscono tutti i risparmi ottenuti con la rideterminazione dei trattamenti pensionistici pari o superiori ad 90.000 euro lordi annui.
Le modalità di attuazione e gestione del richiamato Fondo è demandata ad un apposito decreto interministeriale, da emanarsi entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame (comma 2). Lo stesso decreto contiene altresì le destinazioni degli aumenti ottenuti dalle disposizioni di cui ai commi precedenti a favore delle pensioni minime e le pensioni sociali.
L’integrazione al minimo sulla pensione (o pensione minima) rappresenta un importo aggiuntivo sulla pensione normalmente riconosciuta qualora quest’ultima sia di un importo al di sotto di una soglia considerata come idonea a garantire una vita dignitosa (importo per il 2018 pari a 507,51 euro).
L'assegno sociale è una prestazione economica, erogata a domanda, in favore dei cittadini che si trovano in condizioni economiche particolarmente disagiate con redditi non superiori alle soglie previste annualmente dalla legge.
Per una disamina più completa degli istituti richiamati si rimanda alle schede allegate al presente Dossier.
Sotto il profilo della redazione formale del testo, si segnala che la pensione sociale è stata sostituita, dal 1° gennaio 1996, dall’assegno sociale (istituito dall’articolo 3, comma 6, della L. 335/1995).
L’articolo in esame istituisce un’apposita clausola di salvaguardia, in virtù della quale il meccanismo di rideterminazione previsto dal precedente articolo 1 non può in alcun caso comportare un ammontare della pensione o degli assegni vitalizi inferiore a 4.500 netti mensili, nonché perequazioni.
In sostanza la norma sembra definire un “pavimento”, cioè una soglia minima, che interviene a seguito delle operazioni di rideterminazione dell’importo e di prelievo fiscale, nel senso di ricondurre l’importo netto del trattamento pensionistico alla cifra indicata in caso riduzione al di sotto della medesima soglia.
Al riguardo, si segnala che, mentre il precedente comma 1 fa riferimento alla rideterminazione dei soli trattamenti pensionistici, sia nell’articolo 4 sia nella relazione illustrativa si fa riferimento anche alla rideterminazione degli assegni vitalizi, senza specificare tuttavia a quale tipologia di vitalizi si faccia riferimento.
Si segnala, inoltre, che, in riferimento alla locuzione “nonché perequazioni” si valuti l’opportunità di esplicitare se il limite indicato sia soggetto o meno agli indici di rivalutazione ISTAT.
La perequazione automatica delle pensioni è un meccanismo attraverso il quale l'importo della pensione viene rivalutato (adeguandolo all'aumento del costo della vita, come determinato dall'ISTAT) al fine di proteggere il potere d'acquisto. Negli ultimi anni si sono succeduti una serie di interventi legislativi volti a limitare la rivalutazione, con finalità di contenimento della spesa previdenziale.
Per una disamina completa dell’istituto si rimanda alla scheda allegata al presente Dossier.
L’articolo in esame fornendo un’interpretazione autentica (e quindi con efficacia ex tunc) dell’articolo 3, commi 5 e 6, del D.Lgs 564/1996, prevede il ricalcolo della contribuzione aggiuntiva relativa ai periodi di aspettativa per attività sindacali.
L’articolo 3, commi 5 e 6, del D.Lgs. 564/1996 ha introdotto una particolare forma di contribuzione per i lavoratori in aspettativa sindacale ai sensi dell'articolo 31 della L. 300/1970, ovvero per i lavoratori in distacco sindacale con diritto alla retribuzione da parte del datore di lavoro.
Più specificamente, il comma 5 stabilisce la facoltà, per le organizzazioni sindacali, di versare, per i periodi successivi al 1° dicembre 1996 una contribuzione aggiuntiva sull'eventuale differenza tra le somme corrisposte per lo svolgimento dell'attività sindacale ai lavoratori collocati in aspettativa ex articolo 31 della L. 300/1970 e la retribuzione di riferimento per il calcolo del contributo figurativo di cui all’articolo 8, ottavo comma, della L. 155/1981 (che dispone che per i lavoratori in aspettativa per incarichi sindacali le retribuzioni da riconoscere ai fini del calcolo della pensione siano commisurate alla retribuzione della categoria e qualifica professionale posseduta dall'interessato al momento del collocamento in aspettativa e, di volta in volta, adeguate in relazione alla dinamica salariale e di carriera della stessa categoria e qualifica). Tale facoltà può essere esercitata direttamente dall'organizzazione sindacale previa richiesta di autorizzazione alla sede competente INPS, mediante il versamento, entro il 30 settembre dell’anno successivo a quello dell’inizio dell’aspettativa, di una somma pari all'aliquota di contribuzione del regime pensionistico di appartenenza del lavoratore applicata alla differenza tra le somme corrisposte dall'organizzazione sindacale e la retribuzione figurativa accreditata.
Il successivo comma 6 prevede che negli stessi termini e con le stesse modalità le organizzazioni sindacali possono altresì effettuare versamenti contributivi per gli emolumenti e le indennità che abbiano corrisposto ai lavoratori collocati in distacco sindacale con diritto a retribuzione erogata dal proprio datore di lavoro.
In particolare, si prevede che le richiamate disposizioni si interpretino nel senso che gli emolumenti e le indennità corrisposti per lo svolgimento di attività sindacali devono essere ricondotti alla quota di pensione di cui all’articolo 13, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 503/1992, e cioè alla quota di pensione corrispondente all'importo del trattamento pensionistico relativo alle anzianità contributive acquisite a decorrere dal 1° gennaio 1993, calcolato secondo le norme contenute nello stesso D.Lgs. 503 (cd. Quota B).
Al riguardo, si ricorda che per le pensioni maturate successivamente al 31 dicembre 1992 il richiamato D.Lgs. 503/1992 (articolo 3) ha ampliato gradualmente il periodo di riferimento per la determinazione della retribuzione pensionabile.
Più specificamente:
· per i lavoratori dipendenti iscritti all'A.G.O. (e ai fondi sostitutivi ed esclusivi della stessa) con almeno 15 anni di contribuzione al 31 dicembre 1992 la Quota B si determina sulla media degli ultimi 10 anni (520 settimane) delle retribuzioni utili percepite dal lavoratore (degli ultimi 15 anni, pari a 780 settimane, per i lavoratori autonomi);
· per i lavoratori con meno di 15 anni di contributi alla data del 31 dicembre 1992 la Quota B si determina prendendo in considerazione i 5 anni utili (260 settimane) anteriori alla decorrenza della pensione (10 anni se autonomo), incrementati dei periodi contributivi compresi tra il 1° gennaio 1993 e la fine del mese precedente la decorrenza della pensione (articolo 3, comma 1 del D.Lgs 503/1992);
· per i lavoratori privi di anzianità assicurativa al 1° gennaio 1993 iscritti, dalla predetta data, la Quota B viene invece determinata sulla base delle retribuzioni imponibili relative agli anni coperti da contribuzione assicurativa riferita all'intera vita lavorativa (articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 373/1993).
In sostanza, l’articolo in esame prevede un ricalcolo dei trattamenti pensionistici per i soggetti richiamati non più legato alla retribuzione della categoria e qualifica professionale posseduta al momento del collocamento in aspettativa, bensì alla base imponibile cui far riferimento per il calcolo della pensione riparametrata sul periodo di riferimento temporale disposto dal D.Lgs. 503/1992.
Ai sensi dell’articolo in esame, le disposizioni di cui all’articolo 1 non si applicano alle pensioni di invalidità e ai trattamenti pensionistici di invalidità, di cui alla L. 222/1984, nonché ai trattamenti pensionistici riconosciuti ai superstiti e ai trattamenti riconosciuti alle vittime del dovere o di azioni terroristiche, di cui alla L. 466/1980.
La pensione di invalidità, introdotta dal R.D.L. 636/1939 è una provvidenza che spetta al lavoratore dipendente o autonomo che abbia subito una riduzione delle capacità di guadagno, a causa di infermità o difetto fisico o mentale.
L’assegno ordinario di invalidità, disciplinato dall’articolo 1 della L. 222/1984, spettante al lavoratore che ha subito una riduzione delle capacità di lavoro, a causa di infermità o difetto fisico o mentale
La pensione di reversibilità è stata istituita con R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636 (articoli 1 e 13) con effetto dal 1° gennaio 1945 e successivamente disciplinata dall'articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 503/1992, dall’articolo 1, comma 41, della L. 335/1995, da varie disposizioni contenute nella L. 662/1996, dall’articolo 1 del D.L. 346/2000 e dall’articolo 73 della L. 388/2000..
La pensione ai superstiti gestita dall'INPS può essere:
· una pensione di reversibilità, se il defunto era già titolare di pensione diretta (vecchiaia, anzianità, invalidità del vecchio ordinamento, inabilità);
· una pensione indiretta, se il defunto alla data del decesso aveva almeno 15 anni di contributi oppure era assicurato da almeno 5 anni di cui almeno 3 versati nel quinquennio precedente.
L’esigenza di tutelare in maniera aggiuntiva i soggetti (militari, forze dell’ordine, dipendenti pubblici) resi permanentemente invalidi o deceduti a seguito di specifiche attività ha recato l'introduzione, nel nostro ordinamento, alla categorie delle vittime del dovere, alle quali vengono riconosciuti specifici vantaggi economici. Tali vantaggi, introdotti per la prima volta con la L. 466/1980, sono stati di seguito interessati da altri interventi legislativi (tra i quali si ricorda in particolare la L. 266/2005, che ha anche perseguito lo scopo di armonizzare tale normativa con quella delle vittime del terrorismo.
La pensione di inabilità, Introdotta dall’articolo 2 della L. 222/1984, è una prestazione che spetta ai lavoratori iscritti all’assicurazione generale obbligatoria dell’INPS (nonché alle forme esclusive e sostitutive) che, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovino in assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività di lavoro, ma che possano far valere almeno 5 anni di contributi di cui 3 nei 5 anni precedenti la domanda di fruizione.
Per una disamina più completa degli istituti, si rimanda alle schede allegate al presente Dossier.
La materia previdenziale, oggetto della proposta di legge C. 1071, è stata oggetto di un’ampia giurisprudenza costituzionale che, con riferimento ai principali profili della materia (natura dei contributi previdenziali, adeguatezza delle prestazioni ai sensi dell’articolo 38 Cost., limitazione di benefici precedentemente riconosciuti e conseguente discrezionalità del legislatore, tutela dell’affidamento dei singoli e sicurezza giuridica) riflette, sostanzialmente, l’evoluzione della legislazione pensionistica, segnata dall’inversione di tendenza operata a partire dalla seconda metà degli anni ’80 a fronte dell’esplosione della spesa e della necessità di garantire la sostenibilità di lungo periodo del sistema.
Di seguito si dà conto dell’evoluzione degli orientamenti della giurisprudenza della Corte costituzionale sui principali profili su cui interviene la proposta di legge in esame.
Negli anni ’60 e ’70 la Corte è impegnata soprattutto nel tentativo di dare razionalità a un quadro normativo assai complesso e articolato (ereditato in parte dalla legislazione fascista), che si caratterizza per le numerose sentenze “additive” (le c.d. sentenze che costano) con le quali, assumendo a parametro l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza formale e sostanziale), si procede ad adeguare le normative meno favorevoli a quelle più favorevoli, livellando verso l’alto prestazioni e benefici (tra le tante: sentenze n. 78 del 1967; n. 124 del 1968; n. 5 del 1969; n. 144 del 1971, n. 57 del 1973 e n.240/1994).
Per quanto concerne, specificamente, la possibilità per il legislatore di modificare in senso peggiorativo i trattamenti pensionistici, la giurisprudenza di questo periodo (sentenze n. 26/80 e 349/85), facendo leva sugli articoli 36 e 38 Cost., porta sostanzialmente a ritenere che il lavoratore abbia diritto a “una particolare protezione, nel senso che il suo trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, del quale lo stato di pensionamento costituisce un prolungamento ai fini previdenziali, deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle esigenze di vita per una esistenza libera e dignitosa”. A tale riguardo la Corte precisa, in particolare, che “proporzionalità e adeguatezza alle esigenze di vita non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta”.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘80, la Corte fornisce il proprio contributo per invertire le spinte espansionistiche insite nel sistema, valorizzando il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie. Già nelle sentenze n.180/1982 e n.220/1988 la Corte afferma il principio della discrezionalità del legislatore nella determinazione dell’ammontare delle prestazioni sociali tenendo conto della disponibilità delle risorse finanziarie. Le scelte del legislatore, volte a contenere la spesa (anche con misure peggiorative a carattere retroattivo), vengono tuttavia censurate dalla Corte laddove la normativa si presenti manifestamente irrazionale (sentenze n. 73/1992, n. 485/1992 e n. 347/1997).
Quanto alla natura dei contributi previdenziali, la Corte, pur con una giurisprudenza non sempre lineare (frutto del compromesso tra la logica mutualistica e quella solidaristica che, allo stesso tempo, informano il nostro sistema previdenziale), ha affermato che “i contributi non vanno a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicchè i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi”; allo stesso tempo, però, per quanto i contributi trascendano gli interessi dei singoli che li versano, “essi danno sempre vita al diritto del lavoratore di conseguire corrispondenti prestazioni previdenziali”, ciò da cui discende che il legislatore non può prescindere dal principio di proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali (sentenza n.173/1986; si vedano anche, a tale proposito, le sentenze n.501/1988, N. 72/1990 e n.96/1991).
Per quanto concerne i trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, a condizione che l’intervento del legislatore sia fondato su una incontestabile ragionevolezza a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex plurimis). Non è dunque possibile intervenire in modo irrazionale frustrando, in particolare, in modo eccessivo l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente (sentenze n.349/1985, n.173/1986, n.822/1998, n.211/1997, n.416/1999). La norma successiva, in particolare “non può tradire l'affidamento del privato sull'avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali” (sentenze 24/2009 e 156/2007). Con la sentenza n. 310 del 2013 la Corte costituzionale ha richiamato il consolidato orientamento in base al quale le condizioni per escludere la irragionevolezza delle misure (nel caso di specie, quelle relative al blocco dell’adeguamento ed al blocco della progressione economica per classi e scatti) vanno ravvisate nel carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario, consentaneo allo scopo prefissato, nonché temporalmente limitato, dei sacrifici richiesti, e nella sussistenza di esigenze di contenimento della spesa pubblica. In particolare, con la sentenza n. 223 del 2012, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, del D.L. n. 78/2010, nella parte in cui disponeva che, per un triennio, i trattamenti economici complessivi dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche superiori a determinate soglie fossero ridotti di una quota percentuale, la Corte ha rilevato come l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano. Tuttavia, “è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale”. Nella medesima sentenza, la Corte costituzionale ha evidenziato come l’art. 53 Cost. non consente trattamenti in peius di determinate categorie di redditi da lavoro. Tra gli elementi presi in considerazione dalla Corte, in tale quadro, vi è stato il fatto che “è stata stabilita in via autoritativa una decurtazione patrimoniale («riduzione» del trattamento economico), senza che rilevi la volontà – in ordine all’an, al quantum, al quando ed al quomodo – di chi la subisce”.
In precedenza, intervenendo relativamente ai contributi di solidarietà sulle pensioni di importo elevato, con la sentenza n.119/1981 la Corte, prendendo atto che nel frattempo il legislatore, dando attuazione all'articolo 53 Cost., aveva provveduto ad introdurre un'imposta personale progressiva (IRPEF, introdotta a decorrere dal 1° gennaio 1974), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del contributo di solidarietà limitatamente alla sua applicazione successivamente al 1° gennaio 1974. La Corte ha evidenziato che “appare in conseguenza vulnerato il principio dell'eguaglianza in relazione alla capacità contributiva, sancito dagli artt. 3 e 53 della Costituzione, atteso che, nei confronti dei titolari di altri redditi, e più specificamente di redditi da lavoro dipendente (cui la pensione, ai fini dell'applicazione dell'IRPEF, è assimilata), i titolari delle pensioni su cui si è applicato tanto l'IRPEF quanto la ritenuta a favore del Fondo sociale, sono stati, a parità di reddito e di capacità contributiva, colpiti in misura ingiustificatamente e notevolmente maggiore".
Successivamente, la Corte (ordinanza n.22/2003, confermata dall'ordinanza n.160/2007) ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 37 della legge n.488/1999, con cui era stato introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2000 e per un periodo di tre anni, un contributo di solidarietà del 2 per cento sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a un massimale annuo (123 milioni di lire). La Corte ha evidenziato come le risorse derivanti dal contributo di solidarietà abbiano "concorso inizialmente ad alimentare un apposito fondo destinato a garantire misure di carattere previdenziale per i lavoratori temporanei" e, successivamente, sono state "acquisite alle gestioni previdenziali obbligatorie". La Corte osserva, in particolare, che "il contributo di solidarietà, non potendo essere configurato come un contributo previdenziale in senso tecnico (sentenza n. 421 del 1995), va inquadrato nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all'art. 23 della Costituzione, costituendo una prestazione patrimoniale avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori (sentenza n. 178 del 2000), con la conseguenza che l'invocato parametro di cui all'art. 53 Cost. deve ritenersi inconferente, siccome riguardante la materia della imposizione tributaria in senso stretto". La Corte aggiunge, poi, che la scelta discrezionale del legislatore "è stata operata in attuazione dei principi solidaristici sanciti dall'art. 2 della Costituzione, attraverso l'imposizione di un'ulteriore prestazione patrimoniale gravante solo su alcuni trattamenti previdenziali obbligatori che superino un certo importo stabilito dalla legge, al fine di concorrere al finanziamento dello stesso sistema previdenziale.
La Corte costituzionale è tornata sul tema con la sentenza n.116/2013, con cui ha dichiarato l'illegittimità dell’articolo 18, comma 22-bis, del D.L. 98/2011, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, pari al 5% per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10% per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15% per la parte eccedente i 200.000 euro. La Corte, assumendo che il contributo di solidarietà ha natura tributaria e, quindi, deve essere commisurato alla capacità contributiva ai sensi dell’articolo 53 della Costituzione, ha ritenuto che la disposizione violi il principio di uguaglianza e i criteri di progressività, dando vita ad un trattamento discriminatorio. Secondo la Corte, infatti, “[…] trattasi di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L’intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi”.
La Corte, nell’evidenziare anche come sia stato adottato un criterio diverso per i pensionati rispetto a quello usato per gli altri contribuenti, con ciò portando a “un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita”. La Corte ha ricordato che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 30/2004 e ordinanza n. 166/2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro”.
Con l’ordinanza n. 314/2000 la Corte costituzionale ha al contempo ricordato che la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione).
Con la sentenza n. 70/2015 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 24, comma 25, del D.L. 201/2011 nella parte in cui ha introdotto un limite alla rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici erogati dall'INPS per gli anni 2012 e 2013, escludendo da tale meccanismo tutte le pensioni il cui importo complessivo risultava superiore "a tre volte il trattamento minimo INPS. Ad avviso della Corte, la mancata rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, si pone in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati[8].
Successivamente, la Corte, con la sentenza n. 173/2016 si è pronunciata sul contributo di solidarietà di cui all’articolo 1, comma 486, della L 147/2013 (legge di stabilità 2014), il quale ha previsto - per il triennio 2014-2016 - una riduzione dell’importo delle pensioni, già in essere, di importo superiore a quattordici volte il trattamento minimo INPS, “a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie” (nella misura del 6% della parte eccedente l’importo lordo fra 14 e 20 volte il trattamento minimo INPS; del 12% per lo scaglione ulteriore e per il 18% per la parte eccedente l'importo lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo, pari a circa 15 mila euro mensili).
A differenza della precedente sentenza n. 116/2013, che aveva ritenuto illegittimo un analogo prelievo, la Corte ha confermato la legittimità della trattenuta, visto che la norma, a differenza del passato, aveva previsto che i risparmi conseguenti al taglio delle pensioni non andassero ad arricchire il bilancio generale dello Stato, ma rimanessero acquisiti alle gestioni previdenziali INPS, così da instaurare forme di solidarietà tutte interne al sistema pensionistico e previdenziale.
Secondo la Corte, infatti, tale prelievo non è configurabile come tributo “non essendo acquisito allo Stato, né destinato alla fiscalità generale, ed essendo, invece, prelevato, in via diretta, dall’INPS e dagli altri enti previdenziali coinvolti, i quali – anziché versarlo all’Erario in qualità di sostituti di imposta – lo trattengono all’interno delle proprie gestioni, con specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali, anche per quanto attiene ai trattamenti dei soggetti cosiddetti esodati”.
Allo stesso tempo, la Corte ha precisato come tale contributo costituisca “una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza», dettando anzi la “ricetta” per far sì che ogni prelievo solidale possa superare lo scrutinio di costituzionalità, così da palesarsi come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.)”.
La Corte ha dunque precisato che “in linea di principio, il contributo di solidarietà sulle pensioni può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio ‘stretto’ di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà.
In tale prospettiva, la Corte ha sottolineato come sia indispensabile che la legge assicuri il rispetto di alcune condizioni, atte a configurare l’intervento ablativo come sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile. Il contributo, dunque, deve operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà “forte”, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori – endogeni ed esogeni (il più delle volte tra loro intrecciati: crisi economica internazionale, impatto sulla economia nazionale, disoccupazione, mancata alimentazione della previdenza, riforme strutturali del sistema pensionistico) – che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore. Anche in un contesto siffatto, la Corte ha evidenziato che un contributo sulle pensioni costituisce una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza. Il prelievo, per essere solidale e ragionevole, e non infrangere la garanzia costituzionale dell’art. 38 Cost. (agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale: sentenza n. 116 del 2010), non può, altresì, che incidere sulle “pensioni più elevate”; parametro, questo, da misurare in rapporto al “nucleo essenziale” di protezione previdenziale assicurata dalla Costituzione, ossia la “pensione minima”. Inoltre, “l’incidenza sulle pensioni (ancorché) “più elevate” deve essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili: per cui, le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura”.
Da ultimo la Corte costituzionale (sentenza n. 173/2018), intervenendo su una questione specifica relativa alla contribuzione previdenziale per i lavoratori autonomi, ha evidenziato come “la contribuzione acquisita nella fase successiva al perfezionamento del requisito minimo contributivo non può tradursi nel detrimento della misura della prestazione pensionistica già virtualmente maturata, e comporta, conseguentemente, che i periodi contributivi che abbiano comportato una minore contribuzione vanno esclusi ai fini del calcolo della pensione (ex plurimis, sentenze n. 388 del 1995, n. 264 del 1994, n. 428 del 1992, n. 307 del 1989 e n. 822 del 1988). Da qui la definizione del principio anche in termini di immodificabilità in peius dell’importo della prestazione determinabile alla data del conseguimento del requisito per l’accesso al trattamento pensionistico”.
La Corte ha, in tale quadro, ricordato come “il sistema previdenziale è certamente improntato a logiche di solidarietà e non di mera corrispettività, ma anche per il regime pensionistico dei lavoratori autonomi iscritti all’INPS risulta irragionevole che il versamento di contributi correlati all’attività lavorativa prestata dopo il conseguimento del requisito per accedere alla pensione, anziché assolvere alla funzione fisiologica e naturale di incrementare il trattamento pensionistico, determini il paradossale effetto di ridurre l’entità della prestazione”.
La riforma della previdenza obbligatoria operata dalla L. 335/1995 (c.d. riforma Dini) ha introdotto il metodo di calcolo contributivo dei trattamenti pensionistici, in luogo del metodo retributivo.
Muovendo dalla constatazione che il metodo retributivo costituisse una fonte di iniquità del sistema, sia intergenerazionale, sia interna a ciascuna generazione di percettori, tale legge ha introdotto un nuovo metodo di calcolo dei trattamenti pensionistici, mediante il quale si ritengono perseguibili, a regime, entrambi gli obiettivi della sostenibilità finanziaria del sistema e della equità nei rendimenti corrisposti.
Differentemente da quest'ultimo, il metodo contributivo, come prefigurato nei commi da 6 a 16 dell'articolo 1 della L. 335/1995, mette in relazione vita contributiva e trattamento previdenziale di ciascun soggetto: ciò comporta che, a regime, il pensionato riceverà un trattamento commisurato a quanto ha accumulato nel suo periodo attivo. E' però importante sottolineare che il nuovo sistema contributivo si muove sempre all'interno di un sistema previdenziale a ripartizione: la pensione è sì commisurata alla storia contributiva del lavoratore, ma è comunque pagata dalle entrate contributive correnti del sistema, che resta a pieno titolo un sistema pensionistico pubblico. Può dunque parlarsi di un sistema contributivo che funziona all'interno di un quadro ripartitorio pubblico.
La totale diversità del nuovo metodo impose una sua introduzione graduale, delineata dai commi 12 e 13 dell'articolo 1, che in sostanza stabilirono una tripartizione del sistema di computo delle pensioni. In particolare:
- per i lavoratori privi di anzianità contributiva alla data del 1° gennaio 1996 (c.d. neo-assunti) la pensione sarebbe stata calcolata interamente con il metodo contributivo;
- per i lavoratori con una anzianità contributiva inferiore a 18 anni, la pensione sarebbe stata calcolata con il metodo del "pro-rata", cioè dalla somma di una quota, corrispondente alle anzianità anteriori al 31 dicembre 1995, determinata, (con riferimento alla data di decorrenza della pensione), con il metodo retributivo previgente alla predetta data e di una quota, corrispondente alle ulteriori anzianità contributive, calcolata con il sistema contributivo;
- per i lavoratori con almeno 18 anni di anzianità, la pensione sarebbe stata liquidata interamente secondo il sistema retributivo.
Negli ultimi due casi, fu prevista l'eventualità di liquidare il trattamento esclusivamente con le regole contributive, in conseguenza dell'esercizio della facoltà di opzione prevista dal comma 23 dell'articolo 1 della L. 335/1995, ai sensi del quale i lavoratori interessati potevano optare per l'integrale liquidazione della pensione con il metodo contributivo, se in possesso di una anzianità contributiva pari almeno a 15 anni, di cui almeno 5 nel nuovo sistema contributivo (cioè a partire dal 1° gennaio 2001, iniziando il nuovo sistema dal 1° gennaio 1996).
Il secondo elemento innovatore, strettamente dipendente dalla scelta del metodo contributivo, è costituito dal meccanismo di funzionamento del metodo medesimo, incentrato sulla capitalizzazione (figurativa) dei contributi versati. In particolare, la capitalizzazione è effettuata secondo un indicatore oggettivo, costituito, secondo quanto puntualmente specifica l'articolo 1, comma 9, della L. 335/1995, dalla variazione media quinquennale del PIL nominale, calcolata con riferimento al quinquennio di ciascun anno da rivalutare. L'accumulo contributivo così capitalizzato dà luogo al "montante contributivo": quest'ultimo, rapportato ai divisori (cd. coefficienti di trasformazione) previsti dalla Tabella A allegata alla legge (e che sono anch'essi costituiti secondo un criterio oggettivo, rapportato alla speranza di vita del pensionato viene moltiplicato per i coefficienti di trasformazione), danno come prodotto l'ammontare della rendita pensionistica di ciascuno. E' importante sottolineare, coerentemente con quanto prima accennato in ordine al quadro ripartitorio pubblico in cui si muoveva il nuovo sistema, che la capitalizzazione di ciascuna contribuzione è di carattere figurativo, (è stata infatti definita come capitalizzazione simulata) poiché con i versamenti via via acquisiti si continuano a pagare le pensioni a carico del sistema[9].
Più specificamente, il metodo contributivo presuppone che per ciascun destinatario venga istituita una sorta di conto di tipo patrimoniale, nel quale vengono accreditati anno per anno i contributi versati, che sono capitalizzati ad un tasso di rendimento pari al tasso di crescita del sistema economico; il processo è continuo, nel senso che il conto patrimoniale individuale si accresce anno per anno sia per effetto del versamento di nuovi contributi, sia per la rivalutazione di quelli già versati. Alla fine della vita lavorativa, l'interessato si vede accreditato una patrimonio finanziario (ovviamente di carattere nozionale e teorico, poiché nel frattempo i suoi contributi hanno pagato i trattamenti pensionistici correnti), che verrà distribuito sugli anni di godimento atteso della pensione. In questo punto si introduce il parametro del divisore, ovvero il numero utilizzato per trasformare il montante contributivo in rendita, che varia (principalmente, ma non soltanto) in relazione all'età di pensionamento: chi va in pensione in età più giovane ha infatti una speranza di vita maggiore, e di conseguenza, a parità di montante contributivo, gli si applicherà un divisore più elevato (cioè un minor coefficiente di trasformazione) e dall'operazione deriverà una rendita di minor ammontare rispetto a coloro che, con il medesimo montante, vanno in pensione in età più tarda
Si ricorda che, nell'ambito del sistema contributivo di calcolo della pensione, il coefficiente di trasformazione è il valore al quale si moltiplica il montante individuale dei contributi al fine di ottenere l'importo attualizzato della pensione annua, in altri termini è la percentuale per la quale si moltiplicano i contributi accumulati in tutta la vita lavorativa al fine di determinare l'importo dell'assegno pensionistico.
Nel sistema contributivo, il calcolo della pensione si basa sui contributi effettivamente versati dal lavoratore (e dal datore di lavoro) durante tutta la vita lavorativa.
In sostanza, ogni anno occorre:
- individuare la retribuzione annua dei lavoratori dipendenti (o i redditi conseguiti dai lavoratori autonomi o parasubordinati o da altri soggetti);
- calcolare i contributi di ogni anno sulla base dell'aliquota di computo (pari ad esempio, per i lavoratori dipendenti, al 33%). Tale somma darà l'entità dell'accantonamento annuale;
- determinare il montante individuale, che si ottiene sommando i contributi di ciascun anno opportunamente rivalutati sulla base del tasso annuo di capitalizzazione (dato dalla variazione media quinquennale del PIL nominale - che sconta la variazione del PIL reale legato alla crescita reale del paese e la variazione del PIL legata all'inflazione,
- appositamente calcolata dall'ISTAT -, con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare;
- applicare al montante contributivo il coefficiente di trasformazione (cioè il parametro che, ai fini dell'applicazione del metodo contributivo, è utilizzato per convertire in pensione annua il montante individuale maturato alla cessazione dal servizio). I coefficienti determinano quindi la percentuale del montante da corrispondere come pensione annua in tutti i casi di calcolo contributivo.
Al fine di tenere conto di eventuali frazioni di anno (rispetto all’età dell’assicurato al momento del pensionamento), il coefficiente di trasformazione viene adeguato con un incremento pari al prodotto di un 1/12 della differenza tra il coefficiente di trasformazione dell’età immediatamente superiore ed il coefficiente dell’età inferiore a quello dell’assicurato ed il numero di mesi.
Tali indici variano in base all'età anagrafica al momento del pensionamento e sono costruiti tenendo conto della speranza di vita media alla pensione e incorporando il tasso di crescita del PIL di lungo periodo stimato nell'1,5%. Introdotti dall'articolo 1, comma 6, della L. 335/1995, ai sensi dell'articolo 1, comma 14, della L. 247/2007, tali coefficienti sono stati rideterminati, da ultimo, con il Decreto Direttoriale 15 maggio 2018 emanato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, a decorrere dal 1° gennaio 2019, nella misura indicata dalla specifica tabella allegata (v. infra). Il successivo comma 15, semplificando la procedura per la rideterminazione dei coefficienti e riducendone la periodicità, ha disposto la rideterminazione triennale degli stessi con apposito decreto interministeriale. L'accesso ai trattamenti per i destinatari del sistema contributivo è condizionato alla maturazione dell'età minima di 57 anni, fatte salve alcune eccezioni. Il valore del coefficiente di trasformazione è legato all'età posseduta, aumentando al crescere della stessa.
Più specificamente, si considera il limite inferiore di 57 anni (età inferiore) per arrivare ad un valore massimo del coefficiente in corrispondenza dei 71 anni (età superiore). In sostanza, quindi, un'età pensionabile più avanzata permette di conseguire una pensione più consistente. Nel metodo di calcolo contributivo il coefficiente di trasformazione in rendita (divisore), come il coefficiente di trasformazione (valore), serve per calcolare l'importo annuo della pensione di vecchiaia.
L’articolo 24, il comma 2 del D.L. 201/2011 ha disposto, a decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità maturate a decorrere dalla medesima data, il calcolo della quota di pensione corrispondente a tali anzianità secondo il metodo di calcolo contributivo, calcolo pro-rata: il sistema di calcolo contributivo viene applicato ad una parte del montante complessivo (intendendo l'altra parte calcolata con il sistema retributivo, fino al 31 dicembre 2011).
Successivamente, l'articolo 1, c. 707, della L. 190/2014 (Stabilità 2015), integrando il richiamato comma 2, il quale ha disposto che, in ogni caso, l'importo complessivo del trattamento pensionistico non possa eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l'applicazione delle regole di calcolo (retributivo) vigenti prima della data di entrata in vigore del D.L. 201/2011, computando, ai fini della determinazione della misura del trattamento, l'anzianità contributiva necessaria per il conseguimento del diritto alla prestazione, integrata da quella eventualmente maturata fra la data di conseguimento del diritto e la data di decorrenza del primo periodo utile per la corresponsione della prestazione stessa.
Si ricorda, inoltre, che il comma 708 del medesimo art. 1 della L. 190/2014 stabilisce che il richiamato limite si applichi ai trattamenti pensionistici (compresi quelli già liquidati al 1° gennaio 2015) con effetto a decorrere dal 1° gennaio 2015. Resta in ogni caso fermo il termine di 24 mesi di cui al primo periodo del comma 2 dell'articolo 3 del D.L. n. 79/1997, per le modalità di liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, per i lavoratori che accedono al pensionamento a età inferiore a quella corrispondente ai limiti di età, con esclusione delle cause di cessazione per inabilità derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente.
L'articolo 24 del D.L. 201/2011 (riforma cd. Fornero) ha attuato una revisione complessiva del sistema pensionistico.
In primo luogo sono stati (progressivamente e a decorrere dal 1° gennaio 2012) ridefiniti i requisiti anagrafici per il pensionamento di vecchiaia, i quali, a decorrere dal 1° gennaio 2018 sono pari (considerando gli adeguamenti agli incrementi della speranza di vita già intervenuti) a 66 anni e 7 mesi. In seguito dell'adeguamento degli incrementi alla speranza di vita, dal 2019 l'età minima per l'accesso al trattamento pensionistico risulta essere non inferiore a 67 anni (si ricorda, al riguardo, che la riforma Fornero aveva comunque stabilito che i requisiti anagrafici dovessero essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni per i soggetti che maturassero il diritto al pensionamento a partire dall'anno 2021).
In secondo luogo, sono stati ridefiniti i requisiti per l'accesso al pensionamento in base all'anzianità contributiva, innalzando il requisito in precedenza previsto di 40 anni. A decorrere dal 1° gennaio 2016 l'accesso al trattamento pensionistico (cd. pensione anticipata) è consentito esclusivamente qualora risulti maturata un'anzianità contributiva (tenendo conto degli incrementi legati all'aumento dell'aspettativa di vita) di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne (43 anni e 3 mesi per gli uomini e 42 anno e 3 mesi per le donne a decorrere dal 2019).
In virtù di tale disposizione è stata quindi soppressa (a decorrere dal 2012), la possibilità di accedere al pensionamento anticipato con il sistema delle cd. "quote" introdotto dalla L. 247/2007, con un'anzianità minima compresa tra 35 e 36 anni di contributi.
TABELLA N. 1
Tabella B allegata al provvedimento in esame (identica alla Tabella A allegata alla L. 335/1995, in vigore dal 17 agosto 1995 al 31 dicembre 2009)
Divisori |
Età |
Valori |
21,11869 |
57 |
4,720% |
20,5769 |
58 |
4,860% |
19,9769 |
59 |
5,006% |
19,3669 |
60 |
5,163% |
18,7469 |
61 |
5,334% |
18,1369 |
62 |
5,514% |
17,5269 |
63 |
5,706% |
16,9169 |
64 |
5,911% |
16,2969 |
65 |
6,136% |
Tasso di sconto (tasso annuo di crescita del PIL di lungo periodo stimato)= +1,5%
TABELLA N. 2
Tabella A allegata alla L. 335/1995 (in vigore per il triennio 2010-2012)
Divisori |
Età |
Valori |
22,627 |
57 |
4,419% |
22,035 |
58 |
4,538% |
21,441 |
59 |
4,664% |
20,843 |
60 |
4,798% |
20,241 |
61 |
4,940% |
19,635 |
62 |
5,093% |
19,024 |
63 |
5,257% |
18,409 |
64 |
5,432% |
17,792 |
65 |
5,620% |
Tasso di sconto (tasso annuo di crescita del PIL di lungo periodo stimato)= +1,5%
TABELLA N. 3
Tabella A allegata al decreto direttoriale 15 maggio 2012 (in vigore per il triennio 2013-2015)
Età |
Divisori |
Valori |
57 |
23,236 |
4,304% |
58 |
22,647 |
4,416% |
59 |
22,053 |
4,535% |
60 |
21,457 |
4,661% |
61 |
20,852 |
4,796% |
62 |
20,242 |
4,940% |
63 |
19,629 |
5,094% |
64 |
19,014 |
5,259% |
65 |
18,398 |
5,435% |
66 |
17,782 |
5,624% |
67 |
17,163 |
5,826% |
68 |
16,541 |
6,046% |
69 |
15,917 |
6,283% |
70 |
15,288 |
6,541% |
Tasso di sconto (tasso annuo di crescita del PIL di lungo periodo stimato)=+1,5%
TABELLA N. 4
Tabella A allegata al decreto direttoriale 22 maggio 2015 (in vigore per il triennio 2016-2018)
Età |
Divisori |
Valori |
57 |
23,550 |
4,246% |
58 |
22,969 |
4,354% |
59 |
22,382 |
4,468% |
60 |
21,789 |
4,589% |
61 |
21,192 |
4,719% |
62 |
20,593 |
4,856% |
63 |
19,991 |
5,002% |
64 |
19,385 |
5,159% |
65 |
18,777 |
5,326% |
66 |
18,163 |
5,506% |
67 |
17,544 |
5,700% |
68 |
16,922 |
5,910% |
69 |
16,301 |
6,135% |
70 |
15,678 |
6,378% |
Tasso di sconto (tasso annuo di crescita del PIL di lungo periodo stimato)=+1,5%
TABELLA N. 5
Tabella A allegata al decreto direttoriale 15 maggio 2018 (in vigore dal 1° gennaio 2019)
Età |
Divisori |
Valori |
57 |
23,812 |
4,200% |
58 |
23,236 |
4,304% |
59 |
22,654 |
4,414% |
60 |
22,067 |
4,532% |
61 |
21,475 |
4,657% |
62 |
20,878 |
4,790% |
63 |
20,276 |
4,932% |
64 |
19,672 |
5,083% |
65 |
19,064 |
5,245% |
66 |
18,455 |
5,419% |
67 |
17,844 |
5,604% |
68 |
17,231 |
5,804% |
69 |
16,609 |
6,021% |
70 |
15,982 |
6,257% |
71 |
15,353 |
6,513% |
Tasso di sconto (tasso annuo di crescita del PIL di lungo periodo stimato)= +1,5%
Ai sensi dell’articolo 9 del R.D.L. 636/1939, il limite di età per il pensionamento di vecchiaia era stabilito 60 anni per gli uomini e 55 anni per le donne, in presenza di una contribuzione minima di 15 anni.
Erano altresì previste specifiche deroghe per determinate categorie di lavoratori (ad esempio era possibile il pensionamento a qualsiasi età in caso di lavoratore invalido, cioè l'assicurato con capacità di guadagno - in occupazioni confacenti alle sue attitudini - ridotta in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo).
Il D.Lgs. 503/1992 (cd Riforma Amato) è intervenuto sui requisiti anagrafici e contributivi, non invece sul sistema di calcolo. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’età per il raggiungimento della pensione di vecchiaia viene elevata (dal 1° gennaio 1993) da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini. Vengono inoltre aumentati i requisiti contributivi per la pensione di anzianità, con un aumento da 15 a 20 anni dell’anzianità contributiva minima.
Le successive riforme del sistema pensionistico, tra gli anni 1997 e 2010, sono state orientate essenzialmente all’innalzamento dei requisiti di accesso ai trattamenti pensionistici, non intervenendo invece sul sistema di calcolo previsto dalla riforma Dini.
In particolare, la riforma Maroni (L. 243/2004) introduceva il cosiddetto scalone, ossia l’innalzamento, a partire dal 1° gennaio 2008, dell’età minima per la pensione di anzianità da 57 a 60 anni (61 anni nel 2010 e 62 nel 2014), fermo restando il requisito contributivo di 35 anni. L’innalzamento dei limiti di età riguardava sia il sistema retributivo (puro e misto), sia quello contributivo; per i lavoratori la cui pensione veniva liquidata esclusivamente con questo sistema, il requisito anagrafico minimo previsto era elevato a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini (gli uomini avrebbero potuto, inoltre, accedere al pensionamento se in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 35 anni a 60, 61 o 62 anni di età rispettivamente nel 2008, 2010 e 2014). L’accesso al pensionamento era possibile, a prescindere dal requisito anagrafico, in presenza di un requisito di anzianità contributiva pari a 40 anni (come già disposto dalla L. 335/1995).
Si ricorda che la citata riforma Maroni ha introdotto la cd opzione donna, ossia una misura sperimentale che prevede la possibilità per le lavoratrici che hanno maturato 35 anni di contributi e 57 anni di età per le lavoratrici dipendenti o 58 anni per le lavoratrici autonome (requisito anagrafico da adeguarsi periodicamente all'aumento della speranza di vita), di accedere anticipatamente al trattamento pensionistico, a condizione che optino per il sistema di calcolo contributivo integrale.
Successivamente, è intervenuta in materia la L. 247/2007 (riforma Prodi), la quale ha modificato i requisiti introdotti dalla L. 243/2004 per l‘accesso alla pensione di vecchiaia di cui alla terza ipotesi richiamata in precedenza, non modificando le altre ipotesi.
Pertanto, a seguito di tale modifica, a decorrere dal 2008, per accedere alla pensione di vecchiaia con il sistema contributivo in base all’ipotesi 3), era necessario possedere i seguenti requisiti:
- per il 2008 e dal 1° gennaio 2009 al 30 giugno 2009, almeno 35 anni di anzianità contributiva insieme ad una età anagrafica di almeno 58 anni per i lavoratori dipendenti pubblici e privati e di 59 anni per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS;
- dal 1° luglio 2009 al 31 dicembre 2010, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” (data dalla somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva) pari almeno a 95 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 59 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 96 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 60 anni;
- per gli anni 2011 e 2012, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” pari almeno a 96 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 60 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 97, purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 61 anni;
- dall’anno 2013, infine, a regime, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati, una “quota” pari almeno a 97 purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 61 anni, e per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, una “quota” pari almeno a 98, purché si possieda un’età anagrafica non inferiore a 62 anni (a meno che il Ministro del lavoro non emani il decreto di cui al comma 7 dell’articolo 1 della L. 243/2004 al fine di differire l’innalzamento dei requisiti pensionistici).
Il sistema pensionistico in Italia è stato sostanzialmente modificato dall'articolo 24 del D.L. 201/2011 (cd. Riforma Fornero) che ne ha attuato una revisione complessiva. Di seguito le principali innovazioni.
Dal 1° gennaio 2012 si è disposta l’applicazione a tutti del sistema di calcolo contributivo, attraverso l’applicazione del sistema “pro-rata”, la pensione è composta dalla somma di una parte relativa al periodo pregresso, calcolata con il sistema retributivo, e una parte determinata con il metodo contributivo (a decorrere dal 2012).
La Riforma Fornero ha elevato (progressivamente e a decorrere dal 1° gennaio 2012) i requisiti anagrafici per l’accesso al pensionamento di vecchiaia, i quali, a decorrere dal 1° gennaio 2018 sono pari (considerando gli adeguamenti agli incrementi della speranza di vita già intervenuti) a 66 anni e 7 mesi. In seguito dell'adeguamento degli incrementi alla speranza di vita, dal 2019 l'età minima per l'accesso al trattamento pensionistico risulta essere non inferiore a 67 anni (si ricorda, al riguardo, che la riforma Fornero aveva comunque stabilito che i requisiti anagrafici dovessero essere tali da garantire un'età minima di accesso al trattamento pensionistico non inferiore a 67 anni per i soggetti che maturassero il diritto al pensionamento a partire dall'anno 2021).
Sulla base di quanto disposto dalla Riforma Fornero, l'accesso alla pensione anticipata (ossia in assenza dei nuovi requisiti anagrafici introdotti dalla riforma per il pensionamento di vecchiaia), a decorrere dal 1° gennaio 2012, è consentito esclusivamente se risulta maturata un'anzianità contributiva (fino a tutto il 2018) di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. In virtù di tale disposizione è stata quindi soppressa (a decorrere dal 2012), la possibilità di accedere al pensionamento anticipato con il sistema delle cd. "quote" introdotto dalla L. 247/2007, con un'anzianità minima compresa tra 35 e 36 anni di contributi.
Su tali requisiti opera la norma di cui all'art. 12 del D.L. 78/2010, che prevede l'adeguamento all'incremento della speranza di vita (tali adeguamenti saranno disposti con cadenza biennale dal 1° gennaio 2019, per effetto di quanto previsto dall'art. 24, c. 13, del D.L. 201/2011).
Sulla quota di trattamento relativa alle anzianità contributive maturate antecedentemente il 1° gennaio 2012, la legge ha previsto una riduzione pari ad 1 punto percentuale per ogni anno di anticipo nell'accesso al pensionamento rispetto all'età di 62 anni fino a 60 anni, elevata a 2 punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo al di sotto dei 60 anni (fermo restando il limite anagrafico minimo di 57 anni).
Dopo la riforma del 2011, sulla materia è intervenuta dapprima la legge di Stabilità 2015, che ha escluso l'applicazione della penalizzazione per i soggetti che maturano il previsto requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017. Successivamente, la legge di Stabilità 2016 ha specificato che la suddetta deroga si applica - con effetto sui ratei di pensione decorrenti dal 1° gennaio 2016 - anche per i trattamenti pensionistici liquidati prima del 1° gennaio 2015.
Infine, la legge di bilancio 2017 ha escluso a regime la predetta riduzione percentuale per i trattamenti pensionistici anticipati decorrenti dal 1º gennaio 2018.
L'assegno sociale, istituito dall’articolo 3, comma 6, della L. 335/1995 (e che ha sostituito dal 1° gennaio 1996 la pensione sociale) è una prestazione economica, erogata a domanda, in favore dei cittadini che si trovano in condizioni economiche particolarmente disagiate con redditi non superiori alle soglie previste annualmente dalla legge.
Il diritto alla prestazione è collegato al reddito personale per i cittadini non coniugati e al reddito cumulato con quello del coniuge per i coniugati.
La concessione dell’assegno è subordinata alla verifica annuale del possesso dei requisiti reddituali e di effettiva residenza da parte dei soggetti beneficiari. Non è reversibile ai superstiti e non può essere erogato all’estero. Inoltre, non è soggetto a trattenute I.R.P.E.F..
Per ottenere l’assegno è necessario avere i seguenti requisiti: 67 anni a decorrere dal 1° gennaio 2019; stato di bisogno economico; cittadinanza italiana; iscrizione all’anagrafe del comune di residenza (per i cittadini stranieri comunitari); titolarità del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (per i cittadini extracomunitari); residenza effettiva, stabile e continuativa per almeno 10 anni nel territorio nazionale; reddito non superiore all'importo annuo dell'assegno se il richiedente non è coniugato; reddito cumulato con quello del coniuge non superiore a due volte l'importo annuo dell'assegno se il richiedente è coniugato.
Hanno diritto all’assegno sociale i seguenti soggetti: cittadini italiani; rifugiati politici e rispettivi coniugi ricongiunti; extracomunitari o apolidi in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo ovvero della carta di soggiorno; cittadini comunitari ed i loro familiari a carico iscritti all’anagrafe del Comune di residenza o titolari della carta di soggiorno CE; cittadini della Repubblica di S. Marino.
La misura massima dell’assegno per il 2018 (circolare INPS n. 186 del 21 dicembre 2017) è pari a 453 euro per 13 mensilità, con limite di reddito[10] (in caso di pensionato non coniugato[11]) pari ad 5.889,00 euro annui.
Hanno diritto all’assegno in misura intera i soggetti non coniugati che non possiedono alcun reddito ed i soggetti coniugati che abbiano un reddito familiare inferiore all’ammontare annuo dell’assegno.
Hanno invece diritto all’assegno in misura ridotta i soggetti non coniugati che hanno un reddito inferiore all’importo annuo dell’assegno ed i soggetti coniugati che hanno un reddito familiare inferiore al doppio dell’importo annuo dell’assegno.
Rappresenta un importo aggiuntivo sulla pensione normalmente riconosciuta qualora quest’ultima sia di un importo al di sotto di una soglia considerata come idonea a garantire una vita dignitosa (importo per il 2018 pari a 507,51 euro).
L’integrazione al minimo si applica solamente per le pensioni calcolate con sistema retributivo o misto, la L. 335/1995 ne ha escluso l’applicabilità per le pensioni calcolate con il metodo contributivo.
Il diritto alla pensione minima spetta a tutti i titolari di pensione (uomini e donne indipendentemente dall’età) ma il cui importo è al di sotto di determinate soglie, stabilite annualmente dall’INPS e che variano a seconda che soggetto interessato sia coniugato o meno. Condizione necessaria è comunque di possedere una pensione, nel caso in cui non ci siano stati versamenti contributivi si avrà diritto all’assegno sociale.
L’integrazione al minimo non dipende dal reddito nel caso di pensione ai superstiti, e non spetta a chi è iscritto alla Gestione Separata INPS.
E’ infine opportuno segnalare come i redditi considerati ai fini della fruizione dell’istituto siano stati modificati nel corso degli anni, la seguente tabella offre una sintesi dei valori e limiti di reddito per la fruizione del trattamento minimo in relazione alla decorrenza della pensione.
Trattamento minimo – valori e limiti di reddito |
||||||
Decorrenza pensione |
Pensionato singolo |
Pensionato coniugato |
||||
|
Limiti che escludono pensione |
Limiti che consentono integrazione intera |
Limiti che consentono integrazione totale o parziale |
Limiti che escludono pensione |
Limiti che consentono integrazione intera |
Limiti che consentono integrazione totale o parziale |
Ante 1994 |
Oltre 13.192,92 € |
Fino a 6.596,46 € |
Da 6.596,56 e fino a 13.192,92 |
Irrilevante |
||
Comprese in 1994 |
Oltre 13.192,92 € |
Fino a 6.596,46 € |
Da 6.596,56 e fino a 13.192,92 |
Oltre 32.982,30 |
Fino a 26.385,84 |
Da 26.385,84 e fino a 32.982,30 |
Successive 1994 |
Oltre 13.192,92 € |
Fino a 6.596,46 € |
Oltre 6.596,56 e fino a 13.192,92 |
Oltre 26.385,84 |
Fino a 19.789,38 |
Da 19.789,38 e fino a 26.385,84 |
Il regime generale amministrato dall'INPS si articola a sua volta in varie gestioni. La principale è il Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD) al quale fa capo la maggior parte dei lavoratori dipendenti.
Nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti sono confluite anche, con evidenza contabile separata, ulteriori gestioni (quali l’ex-Fondo per i lavoratori dipendenti dei pubblici esercizi di telefonia in concessione[12]; l’ex-Fondo per i lavoratori dipendenti dell'ENEL e delle aziende elettriche private[13]; l’ex-INPDAI[14]; l’ex-Fondo per i dipendenti del settore dei pubblici servizi di trasporto[15]. Nell’ambito dell’A.G.O. operano poi ulteriori gestioni (quali coltivatori diretti, mezzadri e coloni; artigiani; esercenti commerciali; lavoratori parasubordinati o titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa; associati in partecipazione; dipendenti degli enti pubblici creditizi).
Le gestioni sostitutive rappresentano gestioni previdenziali alle quali erano iscritti particolari tipologie di lavoratori dipendenti del settore privato, ai quali era garantito (in virtù delle particolari caratteristiche del rapporto di lavoro) un trattamento differenziato (più favorevole) rispetto a quello fornito dall’A.G.O., in relazione sia alla misura della pensione sia all'età di pensionamento. Tale regime è venuto progressivamente meno nel corso degli anni '90 (vedi supra) quando le regole complessive sono state allineate a quelle vigenti nell'A.G.O..
I fondi sostitutivi dell'AGO erano tradizionalmente nove: fondo trasporti, dazieri, fondo elettrici, fondo telefonici, Fondo Volo, il Fondo per i dirigenti di aziende industriali (Inpdai), il Fondo di previdenza dello spettacolo (FPLS); il fondo di previdenza degli sportivi professionisti (FPLSP) e il Fondo pensione dei giornalisti. Come accennato in precedenza, nel corso degli anni 90' il legislatore ha soppresso il fondo Elettrici, il fondo Trasporti, il fondo Telefonici e l'Inpdai. Pertanto tutti i lavoratori assunti dopo le suddette riforme sono stati iscritti presso il fondo pensione lavoratori dipendenti in seno all'A.G.O..
Restano dotati ancora di propria personalità giuridica il Fondo Volo, il Fondo Dazieri, il Fondo dello spettacolo e degli sportivi professionisti e la previdenza dei giornalisti. Ad eccezione di quest'ultima forma previdenziale, gestita dall'INPGI in quanto privatizzata (ai sensi del D.Lgs. 509/1994), tutti i Fondi richiamati sono attualmente gestiti dall'INPS..
Alle gestioni esclusive erano iscritti la generalità dei lavoratori dipendenti di amministrazioni statali, degli enti locali e della sanità (anche queste casse sono attualmente gestite dall'INPS, dopo la soppressione dell'INPDAP[16]), i lavoratori dipendenti delle poste (si tratta dei lavoratori iscritti al Fondo Quiescenza Poste ora amministrato dall'INPS dopo la soppressione dell'IPOST[17]) nonché i il personale delle Ferrovie iscritto al fondo Speciale delle Ferrovie dello Stato (anch'esso amministrato dall'INPS dopo la riforma del 2000). Tale regime è venuto progressivamente meno nel corso degli anni '90 quando le regole sono state allineate a quelle vigenti nell'A.G.O..
Le gestioni esonerative sono forme previdenziali alternative al regime generale, presenti soprattutto nel settore creditizio (attraverso la gestione diretta da parte delle aziende del settore creditizio). L’esonero determina un distacco temporaneo e provvisorio dall’A.G.O., potendo i fondi pensione esonerati trasformarsi, in un secondo momento, in fondi integrativi della pensione di base, previo trasferimento dei propri assicurati nel regime obbligatorio gestito dall’INPS. Tali gestioni sono state sostanzialmente soppresse con la riforma del settore creditizio degli anni ’90 e sono all’interno dell’A.G.O. (con evidenza contabile separata) e all’interno delle stesse banche, trasformandosi in trattamenti integrativi.
L'art. 2, commi 26-33, della legge 8 agosto 1995, n. 335, di riforma del sistema pensionistico, ha previsto l'estensione dell'Assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ad alcune categorie di lavoratori autonomi o parasubordinati la cui attività non risultava coperta da assicurazione previdenziale.
E' stata così istituita presso l'INPS, con decorrenza 1° gennaio 1996, una apposita Gestione separata, cui sono tenute ad iscriversi le categorie di lavoratori appresso indicati, con conseguente obbligo di versamento contributivo; la contribuzione è dovuta anche all'INAIL per effetto dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 38/2000, che all'art. 5 (v. INAIL circ. n. 32/2000) che ha sancito l'obbligo assicurativo presso detto Istituto anche per i lavoratori in questione (v. circc. INAIL 13 marzo 2000 e 18 marzo 2004, n. 22).
Sono obbligati all'iscrizione alla Gestione separata, sulla base di disposizioni di carattere generale o particolare (queste ultime di seguito indicate):
· professionisti: si tratta dei soggetti che percepiscono redditi che derivano, come disposto dall'articolo 49, comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (ora art. 53) (Testo Unico Imposte Dirette), dall'esercizio per professione abituale, anche se non esclusiva, di attività di lavoro autonomo. L'attività di cui trattasi non deve, comunque, essere condotta in forma di impresa commerciale. Rientrano, pertanto, in tale categoria e sono tenuti al pagamento del contributo previdenziale:
· professionisti iscritti in albi senza cassa di previdenza ma titolari di partita IVA;
· professionisti iscritti in albi con cassa di previdenza ma non iscritti a quest'ultima;
· professionisti iscritti in albi con cassa di previdenza, in relazione ai redditi professionali non assoggettati a contribuzione presso la cassa stessa;
· professionisti senza albo e senza cassa (si pensi alle professioni di consulente di informatica, esperto in marketing, traduttori o interpreti, ecc.);
· collaboratori coordinati e continuativi: secondo quanto disposto dall'articolo 49, comma 2, del citato D.P.R. n. 917/1986 (ora art. 53), si considerano rapporti di collaborazione coordinata e continuativa quei rapporti aventi per oggetto la prestazione di attività, non rientranti nell'oggetto dell'arte o della professione esercitata dal contribuente ai sensi del comma 1 dello stesso art. 49 (ora art. 53), che, pur avendo contenuto intrinsecamente artistico o professionale, vengono svolte a favore di un soggetto, senza vincolo di subordinazione, e sono inserite in un rapporto unitario e continuativo, con retribuzione periodica prestabilita.
Rientrano, ad esempio, in tale categoria le seguenti figure:
· amministratori, sindaci o revisori di società, associazioni ed altri enti;
· membri di commissione e collegi;
· soggetti che collaborano a giornali, riviste, enciclopedie e simili, tranne i casi in cui si rientri nel diritto d'autore;
· amministratori di condominio;
· venditori porta a porta: sono i soggetti incaricati delle vendite a domicilio (come definiti dall'art. 36 della legge 11 giugno 1971, n. 426, recante la Disciplina del commercio); per effetto dell'art. 44, comma 2, del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, dal 1° gennaio 2004 devono essere iscritti alla Gestione separata, come pure gli esercenti attività di lavoro autonomo occasionale, solo qualora il reddito annuo sia superiore a € 5.000 (INPS circolare 22 gennaio 2004, n. 9; INPS messaggio 2 maggio 2005, n. 17078);
· titolari di borse di studio: per la frequenza ai corsi di dottorato di ricerca (legge 3 agosto 1998, n. 315, art. 1; circ. INPS n. 101/1999); per il sostegno della mobilità internazionale degli studenti ed assegni per attività di tutorato o didattico-integrative, propedeutiche o di recupero (legge n. 170/2003, di conversione del decreto-legge n. 105/2003; circolare INPS n. 133/2003);
· pensionati: coloro che, pur in quiescenza, svolgono le attività sopradescritte; sono tenuti alla contribuzione alla Gestione separata in relazione ai soli redditi percepiti a seguito dell'esercizio di dette attività.
Nei confronti dei soggetti pensionati ultrasessantacinquenni che svolgono attività rientranti tra quelle per le quali è previsto il versamento del contributo in parola, vige la sola facoltà e non l'obbligo di versamento. L'obbligo sussiste, invece, per coloro che hanno un'età compresa fra i 60 e i 65 anni, i quali possono, comunque, chiedere il rimborso dei contributi versati, qualora, al compimento del 65° anno di età, non abbiano maturato il diritto ad alcuna prestazione pensionistica (D.M. 2 maggio 1996, n. 282, art. 4) (v. infra, Disposizioni transitorie);
· medici in formazione specialistica, di cui all'art. 2, comma 26 della legge n. 335/1995 (v. INPS circolare 8 febbraio 2007, n. 37): a decorrere dall'anno accademico 2006-2007 e per la durata della formazione;
· lavoratori dipendenti: sono naturalmente soggetti alla contribuzione in questione anche i lavoratori dipendenti, sia privati che pubblici, che percepiscono compensi che non sono già assoggettati a contribuzione previdenziale obbligatoria;
· associati in partecipazione: dal 1° gennaio 2005, per effetto del comma 157 dell'art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311;
· i Volontari del Servizio civile Nazionale (avviati dal 2006 al 2008);
· i prestatori di lavoro occasionale accessorio.
L’iscrivibilità dei suddetti soggetti è in linea di principio strettamente connessa con la qualificazione fiscale dei redditi che essi percepiscono.
Per lavoratori iscritti a forme di assicurazione obbligatoria per l'invalidità la vecchiaia ed i superstiti, oppure ad una delle gestioni speciali previsti per i lavoratori autonomi, che nel corso della vita lavorativa siano divenuti invalidi o inabili al lavoro, l'ordinamento previdenziale eroga specifiche prestazioni economiche, al fine di rimuovere lo stato di bisogno e disagio economico del lavoratore non più in grado di esplicare o di esplicare solo parzialmente la propria attività di lavoro.
Le prestazioni d’invalidità ed inabilità sono disciplinate attualmente dalla L. 222/84, che ha introdotto profonde modifiche, rispetto a quanto previsto dalla precedente disciplina, contenuta nell’articolo 10 del R.D.L. 636/1939. In particolare, la nuova disciplina, che si applica dal 1° agosto 2018, in ragione del grado della riduzione della capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle sue attitudini(e non più la riduzione della capacità di guadagno), distingue due diverse prestazioni: l'assegno ordinario di invalidità (nel caso in cui sia accertata una specifica invalidità), di durata triennale rinnovabile e la pensione di inabilità (in caso sia accertato uno stato di inabilità).
Pensione di invalidità
La pensione di invalidità, introdotta dal R.D.L. 636/1939 è una provvidenza che spetta al lavoratore dipendente o autonomo che abbia subito una riduzione delle capacità di guadagno, a causa di infermità o difetto fisico o mentale.
L’istituto è stato applicato alle pensioni aventi decorrenza fino a luglio 1984; dal mese successivo è entrata in vigore la L. 222/1984 (comunque per gli aventi diritto sono ancora erogate).
Era considerato invalido un assicurato la cui capacità di guadagno fosse risultata ridotta in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico e mentale, a meno di un terzo (articolo 10, comma 1, del R.D.L. 636/1939).
Dal punto di vista amministrativo era necessario che:
- fossero trascorsi non meno di 5 anni dalla data di inizio dell'assicurazione;
- fossero stati versati in favore dell'assicurato almeno 5 anni di contribuzione equivalenti a 260 settimane, oppure, se lavoratore agricolo, equivalenti ad un numero di giornate compreso tra 350 e 780 a seconda della qualifica rivestita;
- nel quinquennio precedente la domanda di pensione, fosse stato versato in favore dell'assicurato almeno 1 anno di contribuzione equivalente a 52 settimane, oppure, se lavoratore agricolo, equivalenti ad un numero di giornate compreso tra 70 e 156 a seconda del sesso e della qualifica rivestita.
La pensione di invalidità era soggetta a revisione, revoca, sospensione o trasformazione.
La pensione di invalidità era reversibile ai superstiti. Nei casi in cui il pensionato avesse continuato a lavorare dopo la decorrenza della pensione, i contributi non utilizzati erano utili per un supplemento da erogare sulla pensione di reversibilità.
Esiste anche una pensione privilegiata di invalidità, il cui diritto è condizionato alla circostanza che l'invalidità sia riconducibile, con nesso diretto di causalità, al servizio prestato nel corso del rapporto di lavoro soggetto all'obbligo di assicurazione per l'I.V.S.. Il diritto si consegue anche se l'interessato non può far valere i requisiti minimi richiesti per la pensione di invalidità. Trovano applicazione tutte le disposizioni relative alla pensione di invalidità.
Assegno ordinario di invalidità
E' il trattamento (di seguito A.O.I.) disciplinato dall’articolo 1 della L. 222/1984, spettante al lavoratore che ha subito una riduzione delle capacità di lavoro, a causa di infermità o difetto fisico o mentale. L'A.O.I. ha lo scopo di integrare o sostituire la retribuzione, fino a quando sussiste lo stato invalidante; ha carattere temporaneo in quanto, al compimento dell'età pensionabile ed in presenza degli altri requisiti richiesti, viene trasformato in pensione di vecchiaia. Esso è riconosciuto per un periodo di tre anni ed è confermabile per ulteriori periodi triennali, sempreché la riduzione della capacità di lavoro permanga al di sotto del limite di legge. Esso è erogato ai lavoratori dipendenti; autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri); nonché agli iscritti alla gestione separata.
L'A.O.I. va calcolato con riferimento all'anzianità contributiva maturata fino alla fine del mese precedente quello della decorrenza del bonus e l'importo della prestazione è pari a quello che sarebbe spettato all'inizio del periodo di rinuncia all'accredito contributivo, maggiorato degli aumenti di perequazione automatica nel frattempo intervenuti a decorrere dalla data di concessione del bonus medesimo.
Sono richiesti sia requisiti sanitari che requisiti contributivi ai fini della fruizione dell’istituto.
Riguardo ai primi, si considera invalido l'assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini (età, sesso, esperienza professionale), sia ridotta a causa di infermità o difetto fisico e mentale, a meno di un terzo (art. 1, comma 1, L. 222/1984). Il diritto sussiste anche nei casi in cui la riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo preesisteva al rapporto assicurativo, purché vi sia stato un successivo aggravamento o siano sopraggiunte nuove infermità (art. 1, comma 2,L. 222/1984).
Quanto ai requisiti di assicurazione e di contribuzione è necessario che:
- siano trascorsi non meno di 5 anni dalla data di inizio dell'assicurazione;
- risultino complessivamente versati, accreditati o dovuti in favore dell'assicurato almeno 260 contributi settimanali, ovvero 1.350 contributi giornalieri se lavoratore agricolo dipendente;
- risultino versati, accreditati o dovuti in favore dell'interessato nel quinquennio precedente la domanda di pensione almeno 156 contributi settimanali, ovvero 810 contributi giornalieri se lavoratore agricolo dipendente (art. 4, commi 1, 2 e 3, L. 222/1984).
L’assegno è compatibile con l'attività lavorativa, e per il diritto alla fruizione non ci sono limiti di reddito, ed è suscettibile di conferma (vedi supra), di revisione (cioè verifica della persistenza dei requisiti sanitari, in qualsiasi momento, anche dopo il compimento dell'età pensionabile da parte del titolare), di revoca (nel caso in cui cessi lo stato invalidante) o di trasformazione (in pensione di vecchiaia o di inabilità secondo specifiche modalità).
L’importo dell’A.O.I. viene calcolato allo stesso modo delle pensioni, ossia con il sistema retributivo o contribuivo a seconda di quando è stata presentata la domanda (di solito comunque si calcola con il sistema misto), la prestazione viene concessa per 13 mensilità ed è pari, nel suo importo minimo, a 507,41 euro per il 2018.
L’importo dell’assegno ordinario di invalidità viene calcolato allo stesso modo delle pensioni, ossia con il sistema retributivo o contribuivo a seconda di quando è stata presentata la domanda (anche se usualmente si calcola con il sistema misto).
L’assegno ordinario d’invalidità è cumulabile limitatamente con i redditi da lavoro. Per i titolari si prevede, infatti, una riduzione dell’assegno se il titolare continua a lavorare e supera un determinato limite di reddito. In particolare:
- se il reddito supera 4 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 25%: in pratica, se il reddito supera 26.385,84 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 507,42 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 4), l’assegno d’invalidità è ridotto di ¼;
- se il reddito supera 5 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 50%: in pratica, se il reddito supera 32.982,30 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 507,42 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 5), l’assegno d’invalidità viene dimezzato.
Pensione di inabilità
Introdotta dall’articolo 2 della L. 222/1984, è una prestazione che spetta ai lavoratori iscritti all’assicurazione generale obbligatoria dell’INPS (nonché alle forme esclusive e sostitutive) che, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovino in assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività di lavoro, ma che possano far valere almeno 5 anni di contributi di cui 3 nei 5 anni precedenti la domanda di fruizione.
La prestazione è incompatibile con qualsiasi attività di lavoro ed è calcolata oltre che sui contributi di cui l'assicurato risulti già titolare, anche su quelli successivi che sarebbero maturati fino all'età del pensionamento. Anche la pensione di inabilità è una prestazione temporanea, in quanto è suscettibile di revoca ove non dovessero permanere le condizioni di inabilità tale da escludere la permanenza dell'incapacità lavorativa. Il titolare, così come per l’A.O.I., può essere sottoposto ad accertamenti sanitari per la revisione dello stato di inabilità (articolo 9, della L. 222/84).
La pensione di inabilità, al contrario dell'A.O.I., è reversibile.
Assegno mensile di invalidità civile
L’assegno mensile di assistenza, introdotto dall’articolo 13 della L. 118/1971, è una prestazione economica, erogata a domanda, in favore dei soggetti ai quali sia riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa parziale, compresa tra il 74%[18] e il 99%.
Per ottenere l’assegno mensile sono necessari i seguenti requisiti:
· riconoscimento di una percentuale di invalidità compresa tra il 74% ed il 99%;
· disporre di un reddito annuo non superiore a 4.853,29 euro (per il 2018);
· stato di bisogno economico;
· età compresa dal 18° al 65° anno (66 anni e 7 mesi per il 2018);
· cittadinanza italiana;
· iscrizione all’anagrafe del Comune di residenza per i cittadini stranieri comunitari;
· titolarità del permesso di soggiorno di almeno un anno di cui all’art. 41 TU immigrazione per i cittadini stranieri extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, anche se privi di permesso di soggiorno CE di lungo periodo;
· non svolgimento di attività lavorativa (ex articolo 3 della L. 118/1971, salvo casi particolari);
· residenza stabile ed abituale sul territorio nazionale.
L’importo per il 2018 è pari a 282,55 euro per 13 mensilità (per la provincia autonoma di Bolzano è pari a 430,84 euro per 13 mensilità).
L’assegno mensile è incompatibile con qualsiasi pensione diretta di invalidità.
Non ci sono invece incompatibilità al riconoscimento di un'altra prestazione di tipo previdenziale non di invalidità (es. pensione di vecchiaia o pensione anticipata, pensione ai superstiti) fermo restando, tuttavia, che il limite di reddito annuo personale resti al di sotto del limite di reddito stabilito dalla norma[19].
Al compimento dell’età anagrafica per il diritto all’assegno sociale (per il 2018 pari a 66 anni e 7 mesi), l’importo dell’assegno viene adeguato all’importo dell’assegno sociale e non è più possibile sottoporre il soggetto alla verifica della sussistenza dei requisiti sanitari.
In caso di morte del lavoratore subordinato, ai familiari superstiti è riconosciuto il diritto ad un trattamento pensionistico a titolo proprio, a condizione che siano a carico del lavoratore stesso al momento del decesso (si presumono a carico il coniuge e i figli minori, mentre è necessaria la prova per gli altri familiari). La sua funzione è di assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita dei superstiti del lavoratore alla morte di quest'ultimo.
La pensione ai superstiti gestita dall'INPS può essere:
· una pensione di reversibilità, se il defunto era già titolare di pensione diretta (vecchiaia, anzianità, invalidità del vecchio ordinamento, inabilità);
· una pensione indiretta, se il defunto alla data del decesso aveva almeno 15 anni di contributi oppure era assicurato da almeno 5 anni di cui almeno 3 versati nel quinquennio precedente.
La pensione di reversibilità è stata istituita con R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636 (articoli 1 e 13) con effetto dal 1° gennaio 1945 e successivamente disciplinata dall'articolo 2, comma 1, del D.Lgs. 503/1992, dall’articolo 1, comma 41, della L. 335/1995, da varie disposizioni contenute nella L. 662/1996, dall’articolo 1 del D.L. 346/2000 e dall’articolo 73 della L. 388/2000. In materia sono intervenute anche numerose sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale[20], per le quali sono state emanate disposizioni attuative da parte dell’INPS[21]².
La pensione di reversibilità spetta:
· al coniuge, anche se separato o divorziato, a condizione che abbia beneficiato di un assegno di mantenimento e non si sia risposato;
· ai figli (legittimi, legittimati, adottivi, naturali, riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge) che alla data della morte del genitore siano minori, studenti o inabili e a suo carico;
· ai nipoti minori che erano a carico del parente defunto.
In mancanza dei soggetti richiamati, la pensione ai superstiti spetta anche ai genitori e ai fratelli e alle sorelle inabili e a carico.
La pensione ai superstiti di assicurato o di pensionato spetta nella misura del 60% al coniuge, dell’80% al coniuge con un figlio, del 100% al coniuge con due o più figli.
La percentuale complessivamente spettante ai superstiti non può superare il 100%. Le percentuali spettanti sono di importo diverso nel caso in cui abbiano diritto alla pensione soltanto i figli, i fratelli o le sorelle, o i genitori.
Nell'ipotesi in cui non sussista il diritto alla pensione di reversibilità, al coniuge superstite o, in mancanza, ai figli minori, studenti o inabili, spetta un’indennità una tantum, disciplinata dall’articolo 13 dalla L. 218/1952. Essa è calcolata in maniera proporzionale alla misura dei contributi versati a favore del lavoratore defunto, a condizione che nei 5 anni antecedenti la data della morte risulti accreditato in favore del defunto stesso almeno un anno di contribuzione.
Successivamente, l’articolo 1, comma 20, della L. 335/1995, ha riconosciuto, in caso di pensione di vecchiaia calcolata esclusivamente con il sistema contributivo, nel caso in cui non sussistano i requisiti assicurativi e contributivi per la pensione ai superstiti in caso di morte dell'assicurato, che ai medesimi superstiti, a condizione che non possano far valere i requisiti assicurativi e contributivi per la pensione indiretta e che non abbiano diritto a rendite INAIL per infortuni o malattie professionali, in conseguenza della morte dell'assicurato, nonché si trovino in specifiche condizioni reddituali, competa un’indennità una tantum, pari all'ammontare dell'assegno sociale moltiplicato per il numero delle annualità di contribuzione accreditata a favore dell'assicurato, da ripartire fra gli stessi in base ai criteri operanti per la pensione ai superstiti.
Il successivo articolo 1, comma 41, ha esteso in maniera generalizzata (armonizzandola) la disciplina già prevista per l’assicurazione generale obbligatoria per i superstiti a tutte le forme esclusive o sostitutive (si tratta in pratica dei dipendenti della P.A. e dei dipendenti dei Fondi speciali INPS).
Lo stesso comma, con decorrenza 1° settembre 1995, ha altresì previsto limitazioni al cumulo dei trattamenti ai superstiti con i redditi del beneficiario, nei limiti individuati dall’allegata tabella F (terzo periodo); (in sostanza, il titolare della pensione di reversibilità dalla citata data deve rinunciare a parte della rendita se in possesso di un proprio reddito superiore a certi livelli). Il trattamento derivante dal cumulo dei redditi richiamati con la pensione ai superstiti ridotta non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe allo stesso soggetto qualora il reddito risultasse pari al limite massimo delle fasce immediatamente precedenti quella nella quale il reddito posseduto si colloca (quarto periodo). Tali limitazioni al cumulo non trovano applicazione nel caso in cui il beneficiario faccia parte di un nucleo familiare con figli di minore età, studenti ovvero inabili (quinto periodo).
La richiamata tabella F ha disposto:
· che con un reddito superiore a 3 volte il trattamento minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (F.P.L.D.), calcolato in misura pari a 13 volte l'importo in vigore al 1° gennaio, la percentuale di cumulabilità sia pari al 75% del trattamento di reversibilità spettante;
· che con un reddito superiore a 4 volte il trattamento minimo annuo del F.P.L.D., calcolato in misura pari a 13 volte l'importo in vigore al 1° gennaio, la percentuale di cumulabilità sia pari al 60% del trattamento di reversibilità spettante;
· che con un reddito superiore a 5 volte il trattamento minimo annuo del F.P.L.D., calcolato in misura pari a 13 volte l'importo in vigore al 1° gennaio, la percentuale di cumulabilità sia pari al 50% del trattamento di reversibilità spettante.
Con il D.M. 13 gennaio 2003, è stato stabilito che il riconoscimento dell'indennità di cui al richiamato articolo 1, comma 20, spetti ai superstiti dei soggetti assicurati il cui trattamento pensionistico sarebbe stato liquidato esclusivamente con il sistema di calcolo contributivo.
Successivamente, l’articolo 18, comma 5, del D.L. 98/2011 ha ridotto, con effetto sulle pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2012, l'aliquota percentuale della pensione a favore dei superstiti dell’assicurato o pensionato deceduto nei casi in cui il matrimonio con il dante causa sia stato contratto ad età del medesimo superiore a 70 anni e la differenza di età tra i coniugi sia superiore a 20 anni. La riduzione è pari al 10% in ragione di ogni anno di matrimonio con il dante causa mancante rispetto al numero di 10. In caso di frazione di anno la riduzione percentuale è proporzionalmente rideterminata. La riduzione non opera nei casi di presenza di figli di minore età, studenti, ovvero inabili, resta comunque fermo il regime di cumulabilità disciplinato dall'articolo 1, comma 41, della citata L. 335/1995.
Infine, con la L. 125/2011, sono stati esclusi dal diritto alla pensione di reversibilità o indiretta, nonché dal diritto all’indennità una tantum, con effetto retroattivo, i familiari superstiti condannati, con sentenza passato in giudicato, per omicidio del pensionato o dell’iscritto.
Nel nostro ordinamento il meccanismo di rivalutazione delle pensioni è definito dall'articolo 34, comma 1, della L. 448/1998, il quale ha disposto (a decorrere dal 1° gennaio 1999) che esso si applichi, per ogni singolo beneficiario, in funzione dell'importo complessivo dei trattamenti pensionistici corrisposti a carico delle diverse gestioni previdenziali. L'aumento della rivalutazione automatica dovuto viene attribuito, su ciascun trattamento, in misura proporzionale all'ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all'ammontare complessivo.
Dal 2001 l'articolo 69, comma 1, della L. 388/2000 ha suddiviso la perequazione in tre differenti fasce all'interno del trattamento pensionistico complessivo, disponendo l'erogazione della rivalutazione in misura piena (cioè al 100%) per le pensioni di importo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, al 90% per le pensioni di importo comprese tra tre e cinque volte il trattamento minimo e al 75% per le pensioni di importo a cinque volte il trattamento minimo.
Successivamente, l'articolo 18, comma 3, del D.L. 98/2011 ha previsto, per il biennio 2012-2013, limitazioni alla rivalutazione automatica sui trattamenti pensionistici nei seguenti termini:
· la rivalutazione non è concessa per i trattamenti pensionistici di importo superiore a 5 volte il trattamento minimo INPS;
· per gli stessi trattamenti, la rivalutazione opera, nella misura del 70%, nella fascia di importo inferiore a 3 volte il trattamento minimo;
· con un'apposita clausola di salvaguardia, si prevede che, nel caso in cui i trattamenti sottoposti al blocco siano superati, per effetto della rivalutazione, dai trattamenti non sottoposti al blocco della rivalutazione (verosimilmente quelli di importo fino a 5 volte il trattamento minimo o comunque di poco inferiori a tale limite), la rivalutazione sia attribuita fino a concorrenza del limite incrementato di questi ultimi per effetto della rivalutazione automatica.
In materia è quindi intervenuto, nel quadro degli interventi per il contenimento della spesa previdenziale, l'articolo 24, comma 25, del D.L. 201/2011 (cd. riforma Fornero), che (abrogando l'articolo 18, comma 3, del D.L. 98/2011) ha disposto il blocco dell'indicizzazione (sempre per il biennio 2012-2013) per le pensioni di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS, adeguando pienamente quelle di importo complessivo fino a tre volte il richiamato trattamento minimo (e cioè 1.442,99 euro lordi per il 2012).
Successivamente, l'articolo 1, comma 483, della L. 147/2013 (legge di stabilità 2014), il quale ha previsto che per il triennio 2014-2016 (periodo successivamente esteso anche al 2017 e 2018 dall'articolo 1, comma 286, della L. 208/2015) la rivalutazione dei trattamenti pensionistici debba operare nei seguenti termini:
· 100% per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia pari o inferiore a 3 volte il trattamento minimo INPS;
· 95% per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a 3 volte e pari o inferiore a 4 volte il predetto trattamento;
· 75% per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a 4 volte e pari o inferiore a 5 volte il trattamento minimo;
· 50% per i trattamenti pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a 5 volte e pari o inferiore a 6 volte il trattamento minimo;
· 40% nel 2014 e 45% per ciascuno degli anni 2015 e 2016, per i trattamenti pensionistici superiori a 6 volte il trattamento minimo INPS.
Sulla materia è quindi intervenuta la Corte costituzionale, che con la sentenza n. 70/2015 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 24, comma 25, del D.L. 201/2011, nella parte in cui ha disposto la rivalutazione automatica, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS.
A seguito di tale sentenza è stato emanato il D.L. 65/2015, il quale ha introdotto una nuova disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici relativamente al biennio 2012-2013, al fine di garantire una rivalutazione parziale e retroattiva ("nel rispetto del principio dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale") dei trattamenti ricompresi tra tre e sei volte il minimo INPS, confermando sostanzialmente il blocco biennale sui trattamenti superiori a 6 volte il minimo INPS.
Più precisamente, ai sensi del D.L. 65/2015, la perequazione automatica è stata riconosciuta:
· per il biennio 2012-2013 nella misura del:
- 40% per i trattamenti pensionistici di importo complessivo da tre a quattro volte il trattamento minimo INPS;
- 20% per i trattamenti pensionistici di importo complessivo da quattro a cinque volte il trattamento minimo INPS;
- 10% per i trattamenti pensionistici di importo complessivo da cinque a sei volte il trattamento minimo INPS.
· per il biennio 2014-2015, nella misura del 20% di quanto stabilito per il 2012 e 2013 per le pensioni di importo complessivo da tre a sei volte il trattamento minimo INPS;
· a decorrere dal 2016, nella misura del 50% di quanto stabilito per il 2012 e 2013 per le pensioni di importo complessivo da tre a sei volte il trattamento minimo INPS.
Lo stesso D.L. 65/2015 ha inoltre specificato che la rivalutazione riconosciuta per il biennio 2014-2015 in esecuzione della sentenza della Corte costituzionale debba intendersi riferita agli importi pensionistici come rivalutati ai sensi della normativa vigente (ossia, per il triennio 2014-2016 - successivamente esteso anche al 2017 e 2018 dall'articolo 1, comma 286, della L. 208/2015 -, dell'articolo 1, comma 483, della L. 147/2013) per il medesimo biennio, e che nella valutazione dell'importo complessivo di tutti i trattamenti pensionistici in godimento per ogni singolo beneficiario (ossia sulla base di calcolo della rivalutazione) si debba sempre tenere conto degli assegni vitalizi derivanti da uffici elettivi.
L’esigenza di tutelare in maniera aggiuntiva i soggetti (militari, forze dell’ordine, dipendenti pubblici) resi permanentemente invalidi o deceduti a seguito di specifiche attività ha recato l'introduzione, nel nostro ordinamento, alla categorie delle vittime del dovere, alle quali vengono riconosciuti specifici vantaggi economici. Tali vantaggi, introdotti per la prima volta con la L. 466/1980, sono stati di seguito interessati da altri interventi legislativi (tra i quali si ricorda in particolare la L. 266/2005, che ha anche perseguito lo scopo di armonizzare tale normativa con quella delle vittime del terrorismo.
Più specificamente, l'articolo 3 della L. 466/1980 ha incluso determinate categorie di soggetti tra le vittime del dovere (quali magistrati ordinari, l’Arma dei carabinieri, del Corpo della guardia di finanza, della pubblica sicurezza, della polizia penitenziaria, del Corpo forestale dello Stato, vigili del fuoco, Forze armate in servizio d’ordine pubblico o di soccorso), i quali (per ferite o lesioni derivanti dalla propria attività) abbiano riportato un’invalidità permanente non inferiore all’80% della capacità lavorativa o, in ogni caso, la cessazione del rapporto di lavoro.
Successivamente, l’articolo 1, comma 562, della L. 266/2005, ha esteso la categoria ricomprendendo in essa tutti i dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subito un'invalidità permanente in servizio per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza d’eventi verificatesi in particolari situazioni (contrasto ad ogni tipo di criminalità; svolgimento di servizi d’ordine pubblico; vigilanza ad infrastrutture civili e militari; operazioni di soccorso; attività di tutela della pubblica incolumità; azioni in situazioni d’impiego internazionale, non necessariamente ostili). Il successivo comma 563 ha altresì introdotto la categoria dei cd. equiparati alle vittime del dovere, cioè i soggetti che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative.
La medesima L. 266/2005 ha inoltre esteso progressivamente i benefici già previsti in favore delle vittime del terrorismo alle vittime del dovere ovvero ai famigliari superstiti, avvenuta con il DPR 243/2006 (e che consistono nella liquidazione, a partire dal 1° gennaio 2007, di una speciale elargizione pari a 2.000 euro per ogni punto percentuale di invalidità entro un massimo di 200.000 euro. In caso di decesso la speciale elargizione viene erogata, nella misura di 200.000 euro, nei confronti dei superstiti della vittima).
A decorrere dal 1° gennaio 2008, inoltre, alle vittime del dovere e ai soggetti equiparati con una invalidità non inferiore al 25% (ed ai loro familiari superstiti in caso di decesso), oltre alla speciale elargizione, spetta uno speciale assegno vitalizio, non reversibile di 1.033 mensili e l'assegno vitalizio non reversibile, corrisposto a partire dal 26 agosto 2004, pari a 258,23 euro al mese (ai sensi dell'articolo 4, comma 1, del DPR 243/2006).
Le richiamate provvidenze economiche sono esenti da IRPEF e sono soggette, una volta attribuite, alla normale perequazione annuale in materia di pensioni. I benefici vengono concessi su domanda degli interessati ,da presentare alle rispettive amministrazioni d’appartenenza. In caso di decesso della vittima del dovere portatrice di invalidità non inferiore al 25%, ai superstiti aventi diritto alla pensione di reversibilità o indiretta (coniuge, figli minori o maggiorenni, genitori, fratelli e sorelle se conviventi e a carico) sono attribuite, inoltre, due annualità del trattamento di reversibilità, comprensive della 13a mensilità.
Infine, l’articolo 1, comma 211, della L. 232/2016, 211 ha esteso ai trattamenti pensionistici spettanti alle vittime del dovere e ai loro familiari superstiti i benefici fiscali in materia di esenzione dall’IRPEF.
Può essere utile ricordare, inoltre, che oltre ai benefici in precedenza richiamati, l'articolo 82 della L. 388/2000 ha riconosciuto a determinate categorie di soggetti (magistrati ordinari, Arma dei carabinieri, Corpo della guardia di finanza, della pubblica sicurezza, polizia penitenziaria, Corpo forestale dello Stato, vigili del fuoco, appartenenti alle Forze armate in servizio d’ordine pubblico o di soccorso, feriti nell'adempimento del dovere a causa di azioni criminose e i superstiti degli stessi uccisi nelle medesime circostanze), la facoltà di opzione, sia per l'invalido che per i superstiti aventi diritto alla speciale elargizione, per un assegno vitalizio, in luogo della stessa (articoli 3 e 5 della L. 302/1990). Altra differenza riguarda l'assegno vitalizio non reversibile spettante all'invalido o ai superstiti in aggiunta alla speciale elargizione. Tale prestazione è corrisposta nei confronti di tali categorie nella misura maggiorata pari a 500 euro al mese, prevista per le cd. vittime del terrorismo.
Un ulteriore beneficio è previsto dagli articoli 1897 e 2183 del D.Lgs. 66/2010 in favore dei soli superstiti del personale militare e delle Forze di Polizia caduti per il compimento di azioni terroristiche criminose o vittime del dovere in servizio d’ordine pubblico o di vigilanza ad infrastrutture civili o militari, ovvero in operazioni di soccorso. A tali soggetti si riconosce, in luogo della pensione privilegiata indiretta, il trattamento di attività in misura pari al trattamento complessivo retributivo percepito dal congiunto all’epoca del decesso o, qualora più favorevole, in misura pari al trattamento complessivo d’attività del grado immediatamente superiore a quello rivestito dal congiunto all’epoca del decesso, ivi compresi gli emolumenti pensionabili, con esclusione dell’indennità integrativa speciale che è corrisposta nella misura prevista per i pensionati. Analogo trattamento è riconosciuto anche ai superstiti dei magistrati caduti vittime di attentati terroristici o azioni criminose comunque connesse alle funzioni esercitate (ex articolo 1 della L. 437/1978).
[1] Per quanto concerne gli orientamenti della Corte costituzionale in materia di previdenza, si rinvia alla scheda allegata al presente Dossier.
[2] Per tali classi di pensionamento il coefficiente di trasformazione si desume dall’ultima modifica apportata dal decreto direttoriale del 15 maggio 2018 alla Tabella A allegata alla L. 335/1995.
[3] Appare utile evidenziare come l’età di pensionamento negli anni precedenti al 1° gennaio 1996 sia stata innalzata più volte. Prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 503/1992 (cd. Riforma Amato), l’età richiesta per il pensionamento di vecchiaia era pari a 60 anni per gli uomini e 55 anni per le donne (ai sensi dell’articolo 6 della L. 407/1990), tali limiti con il D.Lgs. 503/1992 sono stati elevati (dal 1° gennaio 1993) da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini.
[4] Per lavoratori precoci si intendono coloro che hanno iniziato a lavorare prima della maggiore età, arrivando a maturare una contribuzione particolarmente elevata (pari o superiore a 40 anni di contributi) in corrispondenza ad un'età anagrafica relativamente bassa (spesso intorno ai 60 anni o meno). Alcune problematiche sul pensionamento di tali soggetti sono sorte in seguito all’entrata in vigore del D.L. 201/2011, che, nell’abolire la pensione di anzianità nonché il pensionamento legato all’età contributiva (c.d. quarantesimi) non ha previsto una disciplina specifica per i richiamati soggetti. Le problematiche accennate sono state affrontate dal Legislatore, che con l'articolo 1, commi 199-205, della L. 232/2016, ha disposto una forma di pensionamento anticipato per i cd. lavoratori precoci. Successivamente, le possibilità di accesso al beneficio pensionistico sono state ampliate dalla legge di bilancio per il 2018 (L. 205/2017, articolo 1, commi 162-164 e 166). Per effetto di ciò, a decorrere dal 1° maggio 2017 si prevede, in favore di alcune categorie di soggetti, una riduzione a 41 anni del requisito di anzianità contributiva (per la pensione), indipendentemente dall'età anagrafica (requisito attualmente pari, in via generale, a 42 anni e 10 mesi per gli uomini ed a 41 anni e 10 mesi per le donne). I beneficiari sono costituiti dai soggetti che abbiano almeno 12 mesi di contribuzione per periodi di lavoro effettivo precedenti il compimento del 19° anno di età, siano iscritti ad una forma di previdenza obbligatoria di base da una data precedente il 1° gennaio 1996 e si trovino in determinate condizioni (stato di disoccupazione creatosi a seguito si specifiche cause; assistenza – al momento della richiesta e da almeno 6 mesi – in favore del coniuge o di un parente di primo grado convivente con handicap grave; riduzione della capacità lavorativa, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell'invalidità civile, pari o superiore al 74%; svolgimento, al momento del pensionamento, da almeno 6i anni in via continuativa, in qualità di lavoratore dipendente, nell'ambito di specifiche professioni, di attività lavorative per le quali sia richiesto un impegno tale da rendere particolarmente difficoltosa e rischiosa la loro effettuazione in modo continuativo).
[5] La contrazione del mercato del lavoro, in seguito alla crisi economica dell’ultimo decennio, ha portato molte aziende a dover gestire le strategie di esodo per i propri dipendenti, sia attraverso veri e propri incentivi all’esodo, sia attraverso l’accompagnamento alla pensione. Il ricorso a tali mezzi dipende sia dalla riforma pensionistica che ha elevato l’età per il pensionamento, sia per la riforma del mercato del lavoro (L. 92/2012) che parallelamente ha registrato una contrazione degli ammortizzatori sociali “storici” (v. l’abrogazione graduale dell’indennità di mobilità). Tale scenario presenta un quadro molto complesso con il rischio, per i lavoratori di rimanere senza tutela in attesa di maturare i requisiti per la pensione. In alcuni casi il Legislatore ha previsto specifiche misure di sostegno (es. l’isopensione, l’APE, ecc.), in altri casi è stato possibile solamente pianificare gli esodi attraverso una risoluzione consensuale (ai sensi dell’articolo 7 della L. 604/1966) con erogazione di specifiche indennità e accrediti. Tale situazione ha creato, tra gli altri, il cd. fenomeno degli esodati, alla quale il Legislatore ha risposto disponendo una disciplina transitoria, che fino ad oggi ha comportato 8 salvaguardie di diverse platee di lavoratori, preordinando allo scopo specifiche risorse finanziarie.
[6] L’istituto richiamato è disciplinato dall’articolo 72, comma 11, del D.L. 112/2008 (successivamente modificato ed integrato da diversi interventi legislativi), con il quale è stata introdotta la facoltà per le P.A., incluse le autorità indipendenti (nell’esercizio dei propri poteri generali di organizzazione) di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro e il contratto individuale (con preavviso di sei mesi) nei confronti del personale dipendente (compresi i dirigenti, ma escludendo magistrati, professori universitari e dirigenti medici responsabili di struttura complessa, ma che si applica - non prima del raggiungimento dei 65 anni di età - ai dirigenti medici e del ruolo sanitario, nonché al pubblico dipendente che sia stato sospeso dal servizio o dalla funzione e, comunque, dall'impiego o abbia chiesto di essere collocato anticipatamente in quiescenza a seguito di un procedimento penale conclusosi con sentenza definitiva di proscioglimento) che abbia maturato l’anzianità massima contributiva per l’accesso al pensionamento, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 24, commi 10 e 12, del D.L. 201/2011 (per il 2018: 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne; per il 2019: 43 anni e 3 mesi per gli uomini e 42 anni e 3 mesi per le donne).
[7] Il comma 512 reca l’obbligo per le p.a. di prevedere ai propri approvvigionamenti esclusivamente tramite gli strumenti di acquisto e di negoziazione di Consip Spa o dei soggetti aggregatori.
[8] A seguito della declaratoria di incostituzionalità, il legislatore è nuovamente intervenuto in materia con l'articolo 1 del D.L. 65/2015 introducendo comunque un sistema di rivalutazione delle pensioni parziale, prevedendo in particolare un meccanismo di adeguamento a scaglioni, in base al quale la rivalutazione è stata riconosciuta in misura percentuale diversa, a seconda dell’importo complessivo della pensione in relazione al trattamento minimo INPS..
[9] In questo sistema i contributi, sia dello Stato che del dipendente, non sono cumulati in un fondo apposito, al quale poi si dovrebbe ricorrere per pagare la pensione (sistema a capitalizzazione), ma la pensione viene pagata, invece, utilizzando anno per anno i contributi versati. All’epoca della Riforma Dini, istituire un fondo separato con i contributi dello Stato fu considerato non giustificato, reputando lo Stato in grado di pagare le pensioni.
[10] Ai fini della concessione, sono considerati redditi del richiedente e del coniuge: i redditi assoggettabili all’IRPEF, al netto dell’imposizione fiscale e contributiva; i redditi esenti da imposta; i redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (vincite derivanti dalla sorte, da giochi di abilità, da concorsi a premi, corrisposte dallo Stato, da persone giuridiche pubbliche e private); i redditi soggetti ad imposta sostitutiva (interessi postali e bancari; interessi dei BOT,CCT e di ogni altro titolo di Stato; interessi, premi ed altri frutti delle obbligazioni e titoli similari, emessi da banche e società per azioni; etc.); i redditi di terreni e fabbricati; le pensioni di guerra; le rendite vitalizie erogate dall’INAIL; le pensioni dirette erogate da Stati esteri; le pensioni ed assegni erogati agli invalidi civili, ai ciechi civili, ai sordi; gli assegni alimentari corrisposti a norma del codice civile.
[11] 11.778,00 euro annui nel caso il pensionato sia coniugato. Si ricorda, infatti, che l’assegno sociale viene liquidato in misura intera solamente se non si possiede alcun reddito; al contrario la sua misura viene ridotta in relazione al reddito del percipiente (o del reddito complessivo della coppia). Hanno diritto all'assegno in misura intera i soggetti non coniugati che non possiedono alcun reddito e i soggetti coniugati che hanno un reddito familiare inferiore al totale annuo dell'assegno. Più specificamente, hanno diritto all'assegno in misura ridotta i soggetti non coniugati che hanno un reddito inferiore all'importo annuo dell'assegno e i soggetti coniugati che hanno un reddito familiare compreso tra l'ammontare annuo dell'assegno e il doppio dell'importo annuo dell'assegno. L'assegno, infine, non è soggetto alle trattenute IRPEF.
[12] L. 4 dicembre 1956, n. 1450; D.Lgs. 4 dicembre 1996, n. 658 per l'armonizzazione all'A.G.O.
[13] L. 31 marzo 1956, n. 293; D.Lgs. 16 settembre 1996, n. 562 per l'armonizzazione all'A.G.O.
[14] L. 27 dicembre 1953, n. 967
[15] R.D. 30 settembre 1920, n. 1538.
[16] Soppressa, a decorrere dal 1° gennaio 2012, ai sensi dell’articolo 21, commi 1-9, del D.L. 201/2011.
[17] Soppressa ai sensi dell’articolo 7, commi 1-5, del D.L. 78/2010.
[18] Percentuale così aumentata dall’articolo 9 del D.Lgs. 509/1988.
[19] L’interessato, ad ogni modo, in caso di incompatibilità può optare per il trattamento economico più favorevole. La rinuncia all’uno o all’altro trattamento, in ogni caso, è irrevocabile per l’NPS (esclusivamente per i titolari di rendita INAIL, invece, la facoltà di opzione non comporta una rinuncia al diritto ma la sospensione dell’erogazione della prestazione). Se la situazione di incompatibilità si manifesta dopo la concessione dell’assegno mensile, l’invalido ha l’obbligo di comunicarlo all’Inps entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento con il quale gli viene riconosciuto da parte di un altro ente il trattamento pensionistico di invalidità incompatibile.
[20] A mero titolo esemplificativo, si possono ricordare le seguenti sentenze dei due organismi: Cass., sent. 457/2000, sul riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità al coniuge divorziato; Cass., sent.2471/2003, sulla ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge divorziato; Corte Cost., sent. 461/2000, sul riconoscimento del diritto al trattamento di pensione al coniuge separato ma non convivente “more uxorio”; Corte Cost., sent. 180/1999 sull’equiparazione dei discendenti legittimati al diritto del trattamento.
[21] Soprattutto con le circolari n. 211 del 6 ottobre 1998, n. 38 del 20 febbraio 1996, n. 82 del 28 marzo 1997, n. 28 del 9 febbraio 2000, n. 132 del 27 giugno 2001.