Ratifica ed esecuzione dei Protocolli nn. 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali 22 gennaio 2019 |
I progetti di legge all'esame della Commissioni riunite Giustizia ed Affari esteri recano l'autorizzazione alla ratifica e l'esecuzione dei Protocolli n. 15 e n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, fatti a Strasburgo, rispettivamente il 24 giugno ed il 2 ottobre 2013, recanti entrambi emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dal nostro Paese con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, il Protocollo n. 15 - per la cui entrata in vigore è necessaria la ratifica di tutti gli Stati parte della Convenzione - introduce modifiche alla procedura davanti alla Corte europea dei diritti di Strasburgo prevedendo, in particolare, la riduzione da 6 a 4 mesi del termine per il ricorso dalla definitiva pronuncia interna. Ulteriori novità riguardano anche il sistema di rinvio della competenza alla Grande Camera, con l'eliminazione del sistema di veto attualmente concesso agli Stati membri e alla vittima.
Con la ratifica del Protocollo n. 16 - per la cui entrata in vigore è invece richiesta la ratifica di soli 10 Stati - si prevede l'introduzione del cd. parere consultivo su questioni di principio relative all'interpretazione o all'applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli; si tratta di un meccanismo per certi versi analogo al rinvio pregiudiziale esperibile di fronte alla Corte di giustizia dell'Unione europea.
La Convenzione EDULa Convenzione EDULa Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali è stata ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. Il testo della Convenzione, che ha delineato un sistema di protezione dei diritti umani da più parti riconosciuto come la più perfezionata struttura del genere operante al mondo, è stato successivamente integrato e modificato da una serie di Protocolli. Il sistema ha un carattere sussidiario rispetto alle forme di protezione dei diritti umani esistenti negli ordinamenti degli Stati membri: infatti, l'articolo 26 della Convenzione pone la regola del "previo esaurimento dei ricorsi interni" rispetto all'attivazione del sistema internazionale. L'obiettivo del Consiglio d'Europa, in linea del resto con i princìpi internazionali in materia di tutela dei diritti umani, è infatti quello di assicurare che il rispetto dei diritti umani sia assicurato innanzitutto dagli ordinamenti interni.
La Convenzione è articolata in tre parti: il Titolo I, che enuncia una serie di diritti delle singole persone; il Titolo II sulla Corte europea dei diritti dell'uomo e il Titolo III che contiene disposizioni diverse e stabilisce gli obblighi degli Stati contraenti.
Con l'entrata in vigore del Protocollo n. 11 (ratificato dall'Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296) è stato riformato radicalmente il sistema europeo di protezione dei diritti umani costituito dalla Convenzione. L'esigenza di tale riforma scaturiva dal notevole incremento dei ricorsi sottoposti agli organi di tale sistema nonché dall'aumento del numero dei paesi membri della Convenzione.
I due aspetti più rilevanti introdotti dal Protocollo n. 11 sono stati:
a) la generalizzazione del diritto di ricorso individuale, in precedenza previsto da una clausola opzionale e che si impone invece ora a tutti gli Stati parte, collocando il ricorrente individuale sullo stesso piano dello Stato;
b) la soppressione del potere decisionale spettante all'organo politico del Consiglio d'Europa, il Comitato dei ministri, che ha completato la giurisdizionalizzazione del sistema.
La riforma prevede una Corte unica (fondendo così la Corte e la Commissione europea dei diritti dell'uomo in un unico organo) con la possibilità, su ricorso, di un riesame del giudizio di primo grado. Inoltre, contrariamente a quanto avveniva nel passato, i giudici sono ora permanenti, mentre la loro elezione, come nel passato, è effettuata dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa. Viene altresì mantenuto il filtro della ricevibilità dei ricorsi, effettuato da un Comitato di tre giudici che decide all'unanimità, come anche la prassi del regolamento amichevole. Il collegio giudicante, detto Sezione, è normalmente composto da sette giudici, tra i quali il cosiddetto "giudice nazionale". Una volta emessa la sentenza, le parti possono chiederne, entro tre mesi, il riesame, che avviene da parte di una Sezione allargata, composta da diciassette giudici. Un collegio di cinque giudici (Grande Chambre) valuta la ricevibilità del ricorso, che deve essere sostenuto da gravi motivi. La Grande Chambre, di cui fanno parte il Presidente della Sezione ed il giudice nazionale, può anche essere investita dell'esame di primo grado di un ricorso, nel caso in cui la Sezione decida di spogliarsene. In tal caso non si avrà la possibilità del riesame ed è perciò previsto che il potere della Sezione di spogliarsi del caso sia subordinato alla non opposizione delle parti.
Come sopra accennato, negli anni successivi al 1950, alla Convenzione sono stati aggiunti dei protocolli, alcuni dei quali prevedono ulteriori diritti, oltre a quelli già delineati dalla Convenzione:
Altri Protocolli che, come più sopra specificato, avevano invece modificato il testo della Convenzione, sono stati sostituiti dal Protocollo n. 11:
|
Il contenuto dei Protocolli nn. 15 e 16ll processo che ha portato all'adozione dei Protocolli nn.15 e 16 è derivato, anzitutto, dalla consapevolezza delle Criticità nel funzionamento della Cortecriticità nel funzionamento della Corte europea dei diritti dell'uomo che, nel tempo, ha accusato notevoli problemi di arretrato, col rischio di realizzare essa stessa una violazione di uno dei diritti fondamentali da essa stessa tutelati, quello alla durata ragionevole del processo (art. 6, par. 1, CEDU). E' apparso inoltre necessario adeguare la struttura e le procedure della Corte a un'utenza potenziale che raggiunge ormai circa 800 milioni di cittadini. Constatando l'insufficienza della risposta venuta dal Protocollo n. 14 (v. supra), e in particolare di misure come l'introduzione di un giudice unico chiamato a decidere i casi manifestamente inammissibili, l'ampliamento delle competenze attribuite ai comitati composti di soli tre giudici e l'aggiunta di un criterio di ammissibilità per il quale la Corte può rifiutare i ricorsi in mancanza di un pregiudizio importante dei diritti del ricorrente, il dibattito sulla riforma della Corte europea dei diritti umani è culminato nella La Conferenza di BrightonConferenza di Brighton dell'aprile 2012. Sulla scia della dichiarazione finale di Brighton - in particolare dell'obbligo degli Stati di provvedere all'attivazione della Convenzione, rafforzando tuttavia il principio di sussidiarietà e il principio del margine di apprezzamento nel rapporto delle rispettive giurisdizioni con la Corte europea - è stato redatto il Protocollo n. 15. Si ricorda che il margine di apprezzamento è costituito dall'ambito in cui la Corte riconosce agli Stati libertà di azione e di manovra, prima di dichiarare che una misura statale di deroga, di limitazione o di interferenza con una libertà garantita dalla CEDU configuri una concreta violazione della Convenzione stessa. Quanto al Protocollo n. 16 la relazione introduttiva al disegno di legge pone in rilievo come la Conferenza di Smirne sul futuro della Corte (26-27 aprile 2011) nella sua dichiarazione finale, invitasse "il Comitato dei Ministri a considerare l'opportunità di introdurre una procedura che consentisse alle più alte giurisdizioni nazionali di richiedere pareri consultivi alla Corte, relativamente all'interpretazione e all'applicazione della Convenzione, per chiarire le disposizioni della Convenzione e la giurisprudenza della Corte, fornendo in questo modo ulteriore attività di indirizzo al fine di aiutare gli Stati parte ad evitare future violazioni". . Il contenuto del Protocollo n. 15Il contenuto del Protocollo n. 15 consta di un preambolo e 9 articoli, il primo dei quali aggiunge un nuovo "considerando" alla fine del preambolo della Convenzione europea sui diritti umani, nel quale si ribadisce la primaria responsabilità delle Parti contraenti, in conformità al principio di sussidiarietà, nel garantire il rispetto dei diritti e delle libertà definiti nella Convenzione medesima e nei suoi Protocolli. Si ribadisce altresì che le Parti contraenti godono di un margine di apprezzamento nell'attuazione delle disposizioni della Convenzione, sotto il controllo della Corte europea dei diritti umani. L'articolo 2 aggiunge un paragrafo dopo il paragrafo 1 dell'articolo 21 della Convenzione, dedicato alle condizioni per l'esercizio delle funzioni di giudice della Corte europea dei diritti umani: in base alla nuova formulazione, i candidati dovranno avere meno di 65 anni di età alla data in cui la lista dei tre candidati di ciascuna Parte contraente deve pervenire all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, come previsto dal successivo articolo 22 della Convenzione. La relazione introduttiva rileva come la nuova formulazione dell'articolo 21 miri a consentire a giudici altamente qualificati di rimanere in carica per l'intero periodo di nove anni previsto, cosa che nella formulazione vigente (art. 23, par. 2, del quale l'articolo 2 del Protocollo n. 15 prevede la soppressione) è preclusa ai giudici più anziani, dovendo il mandato terminare comunque a 70 anni. L'articolo 3 prevede la soppressione della parte finale dell'articolo 30 della Convenzione, e segnatamente della possibilità che una delle Parti si opponga alla rimessione alla Grande Camera (Grande Chambre) di una questione oggetto di ricorso innanzi a una Camera della Corte europea, la quale sollevi gravi problemi interpretativi, o la cui soluzione rischi di andare in contrasto con la precedente giurisprudenza della Corte.L'art. 4 modificando l'art. 35 della Convenzione riduce da sei mesi a quattro mesi dalla sentenza definitiva nazionale il termine di presentazione del ricorso alla CEDU. L'articolo 5 interviene ugualmente sull'articolo 35 della Convenzione, ma sul par. 3, lettera b), che riguarda una delle condizioni di irricevibilità di un ricorso da parte della Corte europea, e in particolare la fattispecie per la quale il ricorrente non abbia subito un pregiudizio importante dei propri diritti. L'articolo 5 del Protocollo n. 15 in esame sopprime l'ultima parte della lettera b), rimuovendo dal giudizio della Corte sull'entità del pregiudizio subito dal ricorrente la preoccupazione di non rigettare ricorsi non debitamente esaminati dai tribunali interni. Tale misure è intesa ad agevolare il giudizio di apprezzamento della Corte sull'entità del pregiudizio subito dal ricorrente. Infine, gli articoli 6-9 contengono disposizioni finali e transitorie del Protocollo n. 15: depositario del Protocollo sarà il Segretario generale del Consiglio d'Europa, presso il quale verranno depositati gli strumenti di ratifica, accettazione o approvazione delle Parti contraenti. L'entrata in vigore del Protocollo avverrà il primo giorno del mese successivo alla scadenza di tre mesi dalla data in cui tutte le Parti contraenti della Convenzione europea sui diritti umani avranno espresso il loro consenso a essere vincolate dal Protocollo n. 15. Sono previste altresì disposizioni di carattere transitorio riguardanti i candidati alla carica di giudice, le cause già pendenti per le quali si sia proposta la rimessione alla Grande Camera, la finestra temporale entro la quale poter presentare ricorsi alla Corte europea. Il contenuto del Protocollo n. 16Il Protocollo n. 16, agevolando l'interazione tra giudici nazionali e Corte europea dei diritti dell'uomo sulla base di un modello procedimentale in parte analogo al rinvio pregiudiziale (interpretativo) alla Corte di giustizia dell'Unione europea (CGUE), prevede che le alte giurisdizioni nazionali possano chiedere, nell'ambito di una causa pendente davanti ad esse, pareri consultivi non vincolanti alla Corte europea su questioni di principio relative all'interpretazione o applicazione dei diritti e delle libertà contemplati dalla Convenzione e dai suoi Protocolli. Il Protocollo si compone di un preambolo e di 11 articoli, il primo dei quali prevede che le più alte giurisdizioni di ciascuna Parte contraente, designate come previsto nell'articolo 10 del Protocollo, possono presentare alla Corte europea richiesta di pareri consultivi - che l'art. 5 precisa essere non vincolanti - su questioni di principio concernenti i diritti e le libertà definiti dal sistema della Convenzione europea e relativi protocolli. Viene altresì specificato che tali pareri consultivi possono essere richiesti solo nell'ambito di una causa pendente dinanzi alla giurisdizione che presenta la domanda, la quale deve altresì motivare la richiesta di parere e produrre elementi di fatto e di diritto emersi nella causa. L'articolo 2 prevede il ruolo centrale della Grande Camera: infatti un collegio di cinque giudici ad essa appartenenti decide l'accoglimento della richiesta di parere consultivo, motivando l'eventuale rigetto di essa. Il parere consultivo, se la richiesta è accolta, viene poi emesso dalla Grande Camera. Sono previste garanzie per le quali nel collegio e nella Grande Camera siano rappresentate le istanze della Parte richiedente, con la presenza del giudice ad essa riferito o di persona comunque ad essa gradita. L'articolo 3 conferisce al Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa e alla Parte contraente da cui proviene la richiesta di parere il diritto di presentare osservazioni scritte e di prendere parte alle udienze. Peraltro, il Presidente della Corte europea può invitare anche altre Parti contraenti o persone ad esercitare le medesime prerogative. In base agli articoli 4-6 i pareri consultivi emessi dalla Grande Camera sono motivati e pubblicati ed è altresì prevista la dissenting opinion. Natura non vincolante dei pareri resi dalla CorteI pareri consultivi, come detto, non sono vincolanti. Le Parti contraenti considerano gli articoli da 1 a 5 del Protocollo in esame come articoli addizionali alla Convenzione europea dei diritti umani. I rimanenti articoli da 7 a 11 del Protocollo in esame contengono le consuete disposizioni finali: depositario del Protocollo sarà il Segretario generale del Consiglio d'Europa. L'entrata in vigore del Protocollo avverrà il primo giorno del mese successivo alla scadenza di tre mesi dalla data in cui almeno 10 Parti contraenti della Convenzione europea sui diritti umani avranno espresso il loro consenso ad essere vincolate dal Protocollo medesimo. Il Protocollo non ammette la formulazione di riserve alle sue disposizioni, in difformità a quanto previsto dall'articolo 57 della Convenzione europea dei diritti umani. Peraltro ciascuna delle Parti contraenti, al momento della firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, accettazione o approvazione, con dichiarazione indirizzata al depositario, indica quali siano le autorità giudiziarie nazionali competenti per richiedere pareri consultivi della Corte europea. Come accennato, la procedura consultiva introdotta dal Protocollo ricalca in parte quella del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea. Tale procedura consente - e, in alcuni casi, obbliga - una giurisdizione nazionale di ogni grado di interrogare la Corte di giustizia sull'interpretazione o sulla validità del diritto europeo nell'ambito di un contenzioso in cui tale giurisdizione venga coinvolta. A differenza delle altre procedure giurisdizionali, il rinvio pregiudiziale non è un ricorso contro un atto europeo o nazionale, bensì un quesito sull'applicazione del diritto europeo. In relazione alle principali differenze tra la procedura consultiva di cui al Protocollo n. 16 e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea - oltre al fatto che, ai sensi del Protocollo, i pareri consultivi possono essere chiesti solo dalle alte giurisdizioni nazionali di ultima istanza - è soprattutto la non vincolatività delle pronunce a costituire il principale discrimine rispetto alle decisioni sulle questioni pregiudiziali; infatti, la decisione della Corte di giustizia - che risponde non con un parere ma con una sentenza (o con ordinanza motivata quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio) - è vincolante non solo per la giurisdizione nazionale che ha avviato il rinvio pregiudiziale ma anche per tutte le giurisdizioni nazionali degli Stati membri. Il meccanismo del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE mira pertanto a garantire uniformità in sede di applicazione giudiziale a tutto il diritto dell'Unione europea. L'articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE) precisa, poi, che le giurisdizioni nazionali di ultima istanza, le cui decisioni non possono essere oggetto di ricorso, hanno l'obbligo di adire la Corte di Giustizia per la richiesta di un rinvio pregiudiziale (salvo nel caso in cui esista già una giurisprudenza della Corte in materia o nel caso in cui l'interpretazione della norma di diritto dell'UE in questione sia evidente). I giudici nazionali non di ultimo grado possono, invece, adire la Corte di giustizia se nutrono dubbi sull'interpretazione di una disposizione europea.
Questi
i
Princìpi cardine della nuova procedura
princìpi cardine della nuova procedura secondo le disposizioni del Protocollo n. 16 alla Convenzione:
a) le autorità giudiziarie competenti «possono» richiedere alla Corte un parere consultivo, meramente facoltativo;Le giurisdizioni nazionali non sono, quindi, mai obbligate a chiedere il parere, anche se si prospettino dubbi interpretativi sull'interpretazione o l'applicazione dei diritti e delle libertà oggetto della Convenzione; b) competenti a richiedere un parere consultivo della Corte sono «le più alte giurisdizioni di un'alta parte contraente», con tale locuzione intendendosi le autorità giudiziarie al vertice del sistema giudiziario nazionale; tali autorità ex art. 10 del Protocollo dovranno essere nominate dalle parti contraenti alla firma o al deposito dello strumento di ratifica (ma l'elenco delle autorità potrà successivamente essere modificato); c) le questioni sulle quali una giurisdizione interna può richiedere il parere consultivo della Corte sono le "questioni di principio relative all'interpretazione o all'applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli". La possibilità di emanare pareri consultivi è prevista dall'art. 47 della Convenzione secondo il quale la Corte, su richiesta del Comitato dei Ministri, può fornire pareri consultivi su questioni giuridiche relative all'interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli. d) la richiesta di parere consultivo deve essere presentata nell'ambito di una causa pendente dinanzi all'autorità giudiziaria che avanza la richiesta; quest'ultima dovrà essere motivata e produrre tutti gli elementi pertinenti al contesto giuridico e fattuale della causa; e) la decisione "filtro" sulla richiesta di parere consultivo spetta ad un collegio di 5 giudici della Grande Camera e, fermo restando che ogni eventuale rigetto della richiesta deve essere motivato; se il collegio decide di accogliere la richiesta, il parere è espresso dalla Grande Camera. Anche in relazione al filtro di ammissibilità della richiesta di parere consultivo a 5 giudici della Corte, si ricorda l'analogia procedurale con l'art. 43 della Convenzione; tale disposizione prevede che ogni parte alla controversia può, in situazioni eccezionali, chiedere che il caso già deciso in primo grado davanti ad una delle camere della Corte EDU sia rinviato dinnanzi alla Grande Camera, ove un collegio di 5 giudici accoglie la domanda quando la questione oggetto del ricorso solleva gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o comunque un'importante questione di carattere generale. f) i pareri consultivi non sono vincolanti. Sarà in capo all'autorità richiedente il potere di decidere degli effetti del parere consultivo nel procedimento nazionale.Ferma restando l'opportunità di chiarire alle giurisdizioni nazionali l'effettiva portata delle disposizioni della Convenzione EDU, alimentando così la giurisprudenza della Corte e contribuendo ad evitare future violazioni, il limite principale delle pronunce della Grande camera consiste nella loro non vincolatività. Potrebbe, infatti, accadere che il giudice nazionale non accolga l'interpretazione fornita dalla Corte europea e non la applichi al caso davanti ad essa pendente. Inoltre, anche nel caso opposto (cioè se la decisione del giudice nazionale si conformi al parere consultivo) la parte del processo potrebbe ritenere erronea l'applicazione del parere al caso concreto operata dal giudice nazionale ed adire la stessa Corte europea in sede contenziosa. g) i pareri consultivi devono essere motivati; se il parere non esprime, in tutto o in parte, l'opinione unanime dei giudici, ciascuno dei giudici ha il diritto di allegare allo stesso la propria opinione separata. Anche la previsione sull'obbligo di motivazione si rifà all'art. 49 della Convenzione che contempla, analogamente, l'ipotesi di allegazione della dissenting opinion sui pareri consultivi richiesti dal Comitato dei ministri ai sensi del citato art. 47. |
Contenuto dei progetti di legge di ratificaI due progetti di legge - il disegno di legge C. 1124 e la proposta di legge C. 35 d'iniziativa del deputato Schullian ed altri - riproducono il contenuto dell'A.S. 2921, già approvato dalla Camera dei deputati nella scorsa legislatura. In particolare, gli Autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzionearticoli 1 e 2 contengono, rispettivamente, l'autorizzazione alla ratifica dei Protocolli nn. 15 e 16 e il relativo ordine di esecuzione. Il Protocollo 15, non è ancora in vigore a livello internazionale: è stato sinora firmato da 45 Stati membri del Consiglio d'Europa, 43 dei quali hanno depositato gli strumenti di ratifica (non lo ha fatto ancora, oltre all'Italia, la Bosnia-Erzegovina, cha ha sottoscritto il Protocollo l'11 maggio 2018). Il Protocollo 16 è in vigore a livello internazionale dal 1° agosto 2018 avendo raggiunto le 10 ratifiche da parte di Stati membri del Consiglio d'Europa. Gli strumenti di ratifica sono stati depositati da Albania, Armenia, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Lituania, San Marino, Slovenia e Ucraina. L'articolo 2 precisa, in particolare, che piena esecuzione al Protocollo n. 15 è data il primo giorno del mese successivo alla scadenza dei tre mesi decorrenti dalla data in cui tutte le Alte parti contraenti la Convenzione dei diritti dell'uomo abbiano espresso il consenso ad essere vincolate dal Protocollo. La piena esecuzione al Protocollo n. 16 (che è, invece, un Protocollo opzionale) è data il primo giorno del mese successivo alla scadenza dei tre mesi decorrenti dalla data in cui dieci Alte Parti contraenti la Convenzione abbiano espresso analogo consenso. L'Sospensione del processo per richiesta di parere alla CEDUarticolo 3 costituisce attuazione dell'art. 10 del protocollo n. 16 che prevede che ogni Parte contraente della Convenzione debba indicare al momento della firma o del deposito dello strumento di ratifica quali siano le alte giurisdizioni che possono fare richiesta dei pareri consultivi, non vincolanti, alla Corte europea dei diritti dell'uomo su questioni di principio relative all'interpretazione o applicazione dei diritti e delle libertà contemplati dalla Convenzione EDU e dai suoi Protocolli. La ratio dell'istituto, non è quella di trasferire la causa alla Corte, quanto, piuttosto, di conferire all'autorità giudiziaria che presenta la richiesta i mezzi necessari per garantire il rispetto dei diritti previsti nella Convenzione durante l'esame della causa pendente dinanzi ad essa e, in prospettiva, di evitare l'intervento dei giudici sovranazionali successivamente all'esaurimento delle vie di ricorso interne.
L'articolo 5 del Protocollo prevede espressamente che "i pareri consultivi non sono vincolanti". Ciò vuol dire che i pareri non sono vincolanti non solo nei confronti del richiedente il parere, ma anche nei confronti degli altri giudici nazionali, che restano i giudici che devono applicare la Convenzione nell'ordinamento interno, secondo il principio di sussidiarietà. Ne consegue che l'autorità richiedente decide sugli effetti del parere consultivo nel procedimento nazionale, potendo, in astratto, disattenderlo. Ciò peraltro implica che l'adozione del parere consultivo non impedisce a colui che sia stato parte nella causa in cui è stato richiesto di esercitare, successivamente alla sua conclusione, il proprio diritto a proporre ricorso individuale ai sensi dell'art. 34 della Convenzione, vale a dire che egli può comunque portare la causa dinanzi alla Corte. Peraltro sembra potersi ritenere che in tal caso nemmeno la Corte, una volta investita del ricorso, sia vincolata al proprio parere consultivo, così come a qualsiasi altro precedente della sua giurisprudenza.
Le alte giurisdizioni nazionali che possono presentare alla Grande Camera della CEDU le richieste di parere consultivo sono (comma 1):
Si tratta quindi di giudici di ultima istanza del processo penale, civile, amministrativo, contabile, tributario e militare. La richiesta di parere deve essere presentata nell'ambito di una causa pendente dinanzi all'autorità giudiziaria che presenta la richiesta. Viene quindi parzialmente meno, la differenza tra l'investitura della Corte, possibile solo a processo definito a livello nazioale e quindi dopo la formazione del giudicato, e quella della Corte di Giustizia dell'Unione europea, che viene operata in sede di richiesta pregiudiziale nel corso del giudizio pendente a livello nazionale. Oggi la Corte Edu potrà essere chiamata anche in corso di causa ad esprimere un parere consultivo sulla questione sottoposta dal giudice nazionale. Il giudice che abbia un dubbio in ordine all'interpretazione o applicazione di una disposizione alla luce della CEDU, nell'ambito di una causa pendente, potrà dunque adire la Corte Edu. Resta tuttavia fermo il principio in base al quale, nel nostro ordinamento, il giudice non potrà disapplicare direttamente la disposizione in contrasto con la CEDU, ma dovrà in ogni caso sollevare la questione di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale deducendo la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione al parametro interposto costituito dalle stesse norme della Convenzione. La Corte costituzionale ha infatti sempre affermato la sua competenza a risolvere, attraverso il sindacato di legittimità costituzionale, il contrasto tra norme interne e norme pattizie internazionali (cfr. Corte cost., 348 e 349 del 2007; n. 39/2008; nn. 311 e 317 del 2009; nn. 138 e 187 del 2010; nn. 1, 80, 113, 236, 303, del 2011). In particolare, essa ha costantemente statuito che l'art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l'espressione "obblighi internazionali" in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali. Così interpretato, esso ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. (vedi infra). L'art. 3 prevede che il giudice che richiede il parere consultivo alla Corte europea dei diritti dell'uomo può disporre la sospensione del processo fino alla ricezione del parere stesso (comma 2). Si tratta dell'introduzione di una nuova ipotesi di sospensione facoltativa del processo, che si aggiunge a quelle già previste dall'ordinamento. Si ricorda che la richiesta di decisione pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea provoca la sospensione obbligatoria della procedura nazionale fino al momento in cui la Corte abbia deliberato.
Nel
processo penale, la sospensione facoltativa del procedimento è, anzitutto, possibile in presenza di una questione pregiudiziale; l'art. 3 c.p.p. prevede, infatti, che il giudice - quando la decisione dipende dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, ove ritenga seria la questione e se l'azione a norma delle leggi civili è già in corso - può sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione.
Analoga possibilità di sospensione è previsto dall'art. 479 c.p.p. secondo il quale, fermo quanto previsto dall'articolo 3, qualora la decisione sull'esistenza del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso il giudice competente, il giudice penale, se la legge non pone limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa, può disporre la sospensione del dibattimento, fino a che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato. L'art. 41 c.p.p. stabilisce, poi, che ove la dichiarazione di ricusazione del giudice, la corte può disporre, con ordinanza, che il giudice sospenda temporaneamente ogni attività processuale. Allo stesso modo, l'art. 47 c.p.p. stabilisce che, dopo la presentazione della richiesta di rimessione il giudice può disporre con ordinanza la sospensione del processo fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta. Una ipotesi di sospensione obbligatoria del giudizio penale è, invece, disposta dal giudice con ordinanza quando sia proposta una questione di legittimità costituzionale di una legge e il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale(se non ritenga che la questione sollevata manifestamente infondata). Analogamente, il processo penale deve essere sospeso, ai sensi dell'art. 71 c.p.p., per accertata incapacità dell'imputato (sempre che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere). Ancora l'art. 344 c.p.p. impone al giudice di sospendere il processo e il pubblico ministero di richiedere senza ritardo l'autorizzazione a procedere qualora ne sia sorta la necessità dopo che si è proceduto a giudizio direttissimo ovvero dopo che sono state formulate le richieste di giudizio immediato, di rinvio a giudizio,di decreto penale di condanna o di emettere il decreto di citazione a giudizio (nel processo militare, l'art. 261 c.p.m.p. rinvia, per quanto non espressamente stabilito, alla disciplina del codice di procedura penale). Nel processo civile una ipotesi di sospensione facoltativa concordata è dettata dall'art. 296 c.p.c. nel corso della fase istruttoria. Su istanza delle parti, il giudice istruttore, ove sussistano giustificati motivi, può disporre, per una sola volta, che il processo rimanga sospeso per un periodo non superiore a tre mesi, fissando l'udienza per la prosecuzione del processo medesimo. La sospensione del processo civile è, invece, obbligatoria (art. 295 c.p.c.) per il giudice in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa. Allo stesso modo, se è presentato regolamento di giurisdizione in cassazione, il giudice - ex art. 367 c.p.c. - sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata.
Nel
processo amministrativo, in forza del rinvio operato dall'art. 79 del D.Lgs. 104 del 2010, la sospensione del processo è disciplinata dalle stesse disposizioni del codice di procedura civile (oltre che dalle altre leggi e dal diritto dell'Unione europea).
Nel processo contabile, il regolamento di procedura per i giudizi dinnanzi la Corte dei conti (R.D. 13 agosto 1933, n. 1038) non contiene una disciplina completa delle ipotesi di sospensione del giudizio se non nei casi di incidente di falso (artt. 9 e seguenti); attraverso il rinvio generale previsto dall'art. 26, si applicano, pertanto, anche qui le disposizioni previste dal codice di procedura civile e, cioè, gli articoli 295 e seguenti nonché le altre norme che, di volta in volta, prevedono l'arresto del procedimento in presenza dei relativi presupposti.
Nel
processo tributario, l'art.39 detta una ipotesi di sospensione concordata (su richiesta conforme delle parti) nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni stipulate dall'Italia ovvero nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi della Convenzione relativa all'eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/463/CEE del 23 luglio 1990.del D.Lgs 546/1992. Lo stesso art. 39 stabilisce la sospensione obbligatoria quando è presentata querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio; analogo obbligo di sospensione del processo da parte della commissione tributaria sussiste in ogni altro caso in cui essa stessa o altra commissione tributaria deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa.
Il comma 3 dell'articolo 3 consente alla Corte costituzionale di provvedere con proprie disposizioni all'applicazione del Protocollo n. 16 e quindi, eventualmente, nell'ambito dell'autonomia dell'organo costituzionale, disciplinare le modalità attraverso le quali rivolgersi in via consultiva alla Corte di Strasburgo. L'articolo 4, infine, riguarda l'entrata in vigore della legge, che ha luogo il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. |
Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definiteI due progetti di legge in commento costituiscono esercizio della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di rapporti internazionali, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione. |
Rispetto degli altri princìpi costituzionaliL'art. 117, primo comma, Cost., condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla CEDU. Come evidenziato dalla Corte costituzionale nelle principali sentenze sul punto (n. 348 e n. 349 del 2007), la CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. L'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47». Dunque, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, quindi, «il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un'interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica» (sentenze n. 93 del 2010, n. 113 del 2011, n. 311 e n. 239 del 2009). Se questa verifica dà esito negativo e il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la norma interna né farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo una questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., ovvero all'art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009). Sollevata la questione di legittimità costituzionale, la Corte costituzionale – dopo aver accertato che il denunciato contrasto tra norma interna e norma della CEDU sussiste e non può essere risolto in via interpretativa – è chiamata a verificare se la norma della Convenzione – norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione. In questa, seppur eccezionale, ipotesi, deve essere esclusa l'idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007). Le norme della CEDU, a loro volta, devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenze della Corte costituzionale n. 113 e n. 1 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007). La Corte costituzionale può a sua volta «valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 317 del 2009). Alla Corte costituzionale compete, dunque, apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009). Nella sentenza n. 303/2011 (vertente sull'art. 32 del ‘Collegato lavoro'), il giudice costituzionale si è dichiarato competente ad interpretare "a sua volta" le disposizioni della CEDU, «beninteso nel rispetto sostanziale della giurisprudenza europea formatasi al riguardo, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi». Il tema dei rapporti tra norme della CEDU e ordinamento interno è stato, da ultimo, ripercorso nelle sentenze nn. 49, 96, 150 del 2015. In particolare, nella sentenza n. 49 del 2015 la Corte ha riepilogato taluni fondamentali insegnamenti che devono guidare i giudici nella risoluzione di eventuali antinomie tra norme nazionali e norme della CEDU e nella corretta proposizione di questioni di legittimità costituzionale in riferimento al primo comma dell'art. 117 Cost. In tale quadro, la Corte ha altresì puntualizzato la natura e la portata del vincolo derivante ai giudici comuni dalle interpretazioni della Corte di Strasburgo. A quest'ultima, «compete di pronunciare la "parola ultima" (…) in ordine a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli (…). Tuttavia, sarebbe errato (…) ritenere che la CEDU abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato». Il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è assegnata dall'art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si "esprime l'esigenza che il giudice non riceva se Quest'ultimo, poggiando sull'art. 117, primo comma, Cost. (…), deve coordinarsi con l'art. 101, secondo comma, Cost., nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest'ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso. (…) il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla "giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente" (…), "in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza" (…). È, pertanto, solo un "diritto consolidato", generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. Da ultimo, nella sentenza n. 96 del 2015 la Corte costituzionale ha ribadito che «dalla qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario non può farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all'art. 11 Cost., né, correlativamente, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» e che «i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto dell'Unione è applicabile». Come evidenziato da ultimo nella sentenza n. 150 del 2015, «ove (…) la verifica della praticabilità di una interpretazione della norma interna in senso conforme alla CEDU, realizzata dal giudice comune avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione, dia esito negativo, questi non può far altro che sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. (…). Questa soluzione si collega all'impossibilità di disapplicare la norma ritenuta in contrasto con la norma convenzionale». In più occasioni, inoltre, la Corte costituzionale (da ultimo nella sentenza n. 70 del 2015) ha rilevato come non sia sufficiente la "generica invocazione, quale parametro interposto, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, con il solo richiamo all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU "come interpretata dalla Corte di Strasburgo" senza addurre elementi a sostegno dell'asserito vulnus, in particolare con riferimento alle modalità di incidenza della norma oggetto di impugnazione sul parametro costituzionale evocato. |