Camera dei deputati - Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa) |
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento Istituzioni |
Titolo: | D.L. 113/2018 - A.S. 840-A Sicurezza e immigrazione |
Serie: | Progetti di legge Numero: 40/2 |
Data: | 08/11/2018 |
Organi della Camera: | I Affari costituzionali, II Giustizia |
Decreto-legge immigrazione
e sicurezza pubblica
con gli emendamenti approvati dalla Commissione Affari costituzionali in sede referente
Dossier per l'Assemblea
D.L. 113/2018 - A.S. n. 840
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Dossier n. 66/1
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Approfondimenti:
La protezione per motivi umanitari nell'ordinamento italiano (antecedente il decreto legge).................................................................................. 8
Principi di diritto espressi dalla giurisprudenza in materia di protezione umanitaria........................................................................................ 20
Cenni sul diritto di asilo e sulla protezione internazionale................... 24
Protezione per motivi umanitari; protezione temporanea; protezione temporanea per motivi umanitari........................................................ 27
La legislazione italiana e lo straniero migrante. Il quadro normativo (e le sue stratificazioni) dagli anni Ottanta ad oggi..................................... 31
Articolo 4 (Modalità di esecuzione dell'espulsione)
Articolo 5 (In materia di divieto di reingresso)
Articolo 6 (Imputazione di risorse per i rimpatri)
Articolo 7 (Diniego e revoca della protezione internazionale)
Articolo 8 (Cessazione della protezione internazionale)
Articolo 9 (Domanda reiterata e domanda presentata alla frontiera)
Articolo 10 (Procedimento immediato innanzi alla Commissione territoriale)
Articolo 11 (Istituzione di sezioni dell’Unità di Dublino)
Articolo 12 (Accoglienza dei richiedenti asilo)
Articolo 12-bis (em. 12.0.5) (Monitoraggio dei flussi migratori)
Articolo 13 (Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica)
Articolo 14 (Acquisizione e revoca della cittadinanza)
Articolo 15 (Gratuito patrocinio)
Articolo 15, comma 1-bis (em. 15.603) (Processo amministrativo telematico)
Articolo 16 (Braccialetti elettronici)
Articolo 19 (Sperimentazione di armi ad impulsi elettrici da parte delle Polizie municipali)
Articolo 19-bis (em. 19.0.3) (Dotazioni della polizia municipale)
Articolo 20 (Estensione dell’applicazione del DASPO)
Articolo 21 (Estensione dell’ambito di applicazione del DASPO urbano)
Articolo 21-bis (em. 21.0.7 testo 3) (Esercizio molesto dell'accattonaggio)
Articolo 21-bis (em. 21.0.8) (Modifiche alla disciplina sull'accattonaggio dei minori)
Articolo 21-bis (em. 21.0.10 testo 2) (Disposizioni in materia di parcheg-giatori abusivi)
Articolo 22 (Potenziamento degli apparati tecnico-logistici del Ministero dell'interno)
Articolo 24 (Modifiche al codice antimafia)
Articolo 25 (Sanzioni in materia di subappalti illeciti)
Articolo 26 (Monitoraggio dei cantieri)
Articolo 27 (Disposizioni per migliorare la circolarità informativa)
Articolo 28 (Modifiche all'articolo 143 del Testo unico degli enti locali)
Articolo 29-bis (em. 29.0.1) (Circolazione di veicoli immatricolati all'estero )
Articolo 30 (em. 30.4) (Modifiche al reato di invasione di terreni o edifici)
Articolo 31-bis (em. 31.0.1) (Divieto di esecuzione degli arresti domiciliari in immobili occupati)
Articolo 32-bis (em. 32.0.501) (Disposizioni in materia di tecnologia 5G)
Articolo 32-bis (em. 32.0.600) (Riorganizzazione del Servizio Centrale di Protezione)
Articolo 32-bis (em. 32.0.2. testo 2) (Centro alti studi del Ministero dell'interno)
Articolo 34 (Incremento richiamo personale volontario del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco)
Articolo 35-bis (em. 35.0.604) (Modifiche all'articolo 50 del Testo unico degli enti locali)
Articolo 36 (Razionalizzazione delle procedure di gestione e destinazione dei beni confiscati)
Articolo 36-bis (em. 36.0.100) (Iscrizione di provvedimenti al Registro delle imprese)
Articolo 37-bis (em. 37.0.500) (Organizzazione e funzionamento dell'Agenzia)
Articolo 38 (Deroga alle regole sul contenimento della spesa degli enti pubblici)
Articolo 39 (Copertura finanziaria)
Articolo 40 (Entrata in vigore)
Articolo 1, comma 1; comma 2, lettera a); comma 4;
commi da 6 a 9
(Abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari
e disciplina di casi speciali di permesso di soggiorno temporaneo
per esigenze di carattere umanitario)
Il decreto-legge si articola in tre parti (altrettanti suoi Titoli, cui si aggiunge un quarto, recante disposizioni finanziarie e finali) in materia rispettivamente di:
ü immigrazione;
ü sicurezza pubblica;
ü organizzazione dell'amministrazione civile del Ministero dell'interno e dell'Agenzia nazionale per i beni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata.
Il Titolo I reca "Disposizioni in materia di rilascio di speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione internazionale e di immigrazione".
In avvio l'articolo 1 reca l'abrogazione dell'istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari - quale previsto dal Testo unico in materia di immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998: v. suo articolo 5, comma 6).
La corrispettiva tutela sostanziale si prevede permanga per alcune fattispecie di permessi di soggiorno "speciali".
Alcune di esse - per vittime di violenza o grave sfruttamento, di violenza domestica, di particolare sfruttamento lavorativo - sono già previste dal Testo unico dell'immigrazione (rispettivamente all'articolo 18, articolo 18-bis ed articolo 22, comma 12-quater). In parte ricevono qui una ridefinizione.
Altre fattispecie (per le quali non sarebbe comunque possibile il rimpatrio, posti i principi fondamentali dell'ordinamento italiano e internazionale) non erano puntualmente disciplinate dal Testo unico (trovando semmai applicazione nelle prassi delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale) e ricevono ora una tipizzazione e disciplina. Sono: condizioni di salute di eccezionale gravità; situazioni contingenti di calamità naturale nel Paese di origine che impediscono temporaneamente il rientro dello straniero in condizioni di sicurezza (così, rispettivamente, i novelli articolo 19, comma 2, lettera d-bis) ed articolo 20-bis, che vengono introdotti nel Testo unico dell'immigrazione).
È altresì introdotto un permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile (mediante l'inserimento di un articolo 42-bis entro il Testo unico dell'immigrazione).
Infine sono poste disposizioni circa le controversie relative al rilascio dei permessi 'speciali' sopra ricordati, quanto a giudice competente e procedimento di trattazione delle impugnazioni.
Su tale articolo, la Commissione referente ha approvato gli emendamenti: 1.28; 1.37; 1.48; identici 1.52 e 1.53 e 1.54 testi 2 (v. infra nel corso della presente scheda di lettura).
LA PROTEZIONE PER MOTIVI UMANITARI NELL'ORDINAMENTO ITALIANO (ANTECEDENTE IL DECRETO-LEGGE)
La protezione per motivi umanitari - su cui il decreto-legge incide, sopprimendola quale istituto generale e mantenendone solo singole tipologie quale protezione "speciale" riconducibile a movente umanitario - è istituto riconducibile a previsioni dell'ordinamento interno italiano. La sua disciplina dunque non trova la fonte diretta in atti dell'Unione europea o pattizi internazionali (l'articolo 6, par. 4, della direttiva 115/2008/UE prevede la possibilità - non l'obbligo - per gli Stati membri di ampliare l'ambito delle forme di protezione tipiche sino ad estenderlo ai motivi "umanitari", "caritatevoli" o "di altra natura", rilasciando un permesso di soggiorno autonomo o altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno sia irregolare). Per comodità espositiva, essa può essere distinta in due fattispecie. Vi è una protezione per motivi umanitari 'esterna' alla procedura di asilo. Ha il suo fondamento nell'articolo 5, comma 6 del Testo unico sull'immigrazione, il decreto legislativo n. 286 del 1998 (si intende, nel testo antecedente il decreto-legge in esame). Vi è una protezione per motivi umanitari 'interna' alla procedura di asilo. Ha il suo fondamento nell'articolo 32, comma 3 del decreto legislativo n. 25 del 2008. La prima - la protezione umanitaria 'esterna' alla procedura di asilo - si ha allorché ricorrano "seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano" (nel testo antecedente il decreto-legge in esame). - sicché il permesso di soggiorno non è rifiutabile né revocabile. È così rilasciato (dal questore) un "permesso di soggiorno per motivi umanitari". Il suo richiedente è (secondo orientamento giurisprudenziale) titolare di un diritto soggettivo, per questo riguardo. L'autorità amministrativa che rilascia quel permesso di soggiorno (come specifica una disposizione attuativa del Testo unico: articolo 11, comma 1, lettera c-ter) del d.P.R. n. 394 del 1999) lo accerta, acquisendo dall'interessato la documentazione riguardante i motivi della richiesta, correlati ad "oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale". La seconda - la protezione umanitaria 'interna' alla procedura di asilo - si ha allorché una domanda di protezione internazionale, avanzata da un richiedente, non possa essere accolta (per mancanza dei presupposti) dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, e tuttavia questa ravvisi "possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario" (come recita l'articolo 32, comma 3 del decreto legislativo n. 25 del 2008, nel testo antecedente il decreto-legge in esame). La Commissione in tal caso trasmette gli atti al questore, il quale è tenuto (secondo l'orientamento giurisprudenziale) a rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nell'uno come nell'altro caso, devono ricorrere "seri" o "gravi" motivi di carattere umanitario (rilevati nel primo caso dal questore direttamente, nel secondo caso dalla Commissione in modo vincolante per il questore). Un indice della presenza di quei motivi è dato dall'applicabilità del divieto di refoulement, che l'articolo 19, comma 1 del Testo unico così definisce: "In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzioni per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione". Pertanto, là dove si rilevi una situazione soggettiva afferente al divieto di espulsione e di respingimento e tuttavia non convogliabile entro la protezione internazionale (riconoscimento di status di rifugiato o protezione sussidiaria), si è entro la protezione per motivi umanitari. Nel divieto di respingimento ed espulsione si concreta il principio di non refoulement: principio inderogabile sancito dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951, dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed altri patti internazionali. Quel divieto si applica del pari qualora esistano "fondati motivi" per ritenere che rinviare una persona verso uno Stato importi "che essa rischi di essere sottoposta a tortura". Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Così recita l'articolo 19, comma 1.1 del Testo unico (comma introdotto dalla legge n. 110 del 2017).
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. in ultimo Cass. Civ., sez I, 23/02/2018, n. 4455, da cui qui si cita testualmente), la protezione per motivi umanitari "costituisce una forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia". Essa è collocata in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale (status di rifugiato e protezione sussidiaria), potendo l’autorità amministrativa e giurisdizionale procedere alla valutazione della ricorrenza dei suoi presupposti soltanto subordinatamente all’accertamento negativo della sussistenza dei presupposti di quelle altre forme di protezione. I “seri motivi” di carattere umanitario oppure risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano (citato articolo 5, comma 6, del Testo unico dell'immigrazione), alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, "non vengono tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore, cosicché costituiscono un catalogo aperto". Siffatti motivi sono "accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza qualificabile come umanitaria, cioè concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale". "Infine, la protezione umanitaria costituisce una delle possibili forme di attuazione dell’asilo costituzionale (art. 10 Cost., terzo comma), secondo il costante orientamento di questa Corte (Cass. 10686 del 2012; 16362 del 2016), unitamente al rifugio politico ed alla protezione sussidiaria, evidenziandosi anche in questa funzione il carattere aperto e non integralmente tipizzabile delle condizioni per il suo riconoscimento, coerentemente con la configurazione ampia del diritto d’asilo contenuto nella norma costituzionale, espressamente riferita all’impedimento nell’esercizio delle libertà democratiche, ovvero ad una formula dai contorni non agevolmente definiti e tutt’ora oggetto di ampio dibattito". Secondo una recente ordinanza della Cassazione (Cass sez. VI-1, ord. N. 23720 del 2018), "la protezione umanitaria, quale misura atipica e residuale, copre situazioni da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica ("status" di rifugiato o protezione sussidiaria), debba provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità". (Si rinvia ad un successivo riquadro per un riepilogo di alcuni orientamenti giurisprudenziali in materia di protezione umanitaria).
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari consente di accedere: all'attività lavorativa, alla formazione, al Servizio sanitario nazionale, ai centri di accoglienza e a misure di assistenza sociale previste per i richiedenti o titolari di protezione internazionale. Il Testo unico non prevede (suo articolo 28 e articolo 29, comma 10) il ricongiungimento familiare. La durata del permesso di soggiorno per motivi umanitari è correlata alle necessità che ne hanno consentito il rilascio: nella prassi amministrativa varia da 6 mesi a due anni. Ma se rilasciato all’esito della procedura di protezione internazionale, ha durata biennale (ai sensi di previsione dell'articolo 14, comma 4, del d.P.R., peraltro soppressa dall'articolo 1, comma 6 del decreto-legge - il quale di contro prevede per questa fattispecie una durata annuale, ai sensi del suo articolo 1, comma 2, lettera a): v. infra nella scheda di lettura).
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Riprendendo l'esame dell'articolato del decreto-legge, l'articolo 1:
ü abroga l'istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari;
ü mantiene fattispecie eccezionali di temporanea tutela dello straniero per esigenze di carattere umanitario (tali che, comunque, non sarebbe consentito il rimpatrio, secondo l'ordinamento interno ed internazionale);
ü mira ad enumerare e tipizzare siffatti permessi di soggiorno speciali;
ü dispone in materia di controversie relative al rilascio dei permessi speciali sopra ricordati.
Siffatte previsioni sono dettate mediante un insieme molteplice di novelle che si 'irradiano' negli atti (non solo di rango primario, si noti) che disciplinano la materia ossia:
- il decreto legislativo n. 286 del 1998 ("Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero");
- il decreto legislativo n. 25 del 2008 ("Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato")
- il decreto-legge n. 13 del 2017 ("Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale");
- il decreto legislativo n. 150 del 2011 ("Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione");
- il d.P.R. n. 394 del 1999 (regolamento di attuazione del citato Testo unico dell'immigrazione);
- il d.P.R. n. 21 del 2015 (regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale, attuativo del decreto legislativo n. 25 del 2008).
L'articolo 1, comma 1 va ad incidere sul Testo unico dell'immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998).
Di tale comma, la lettera a) novella - a fini di coordinamento normativo con le nuove previsioni introdotte, sopra accennate - le disposizioni relative all'accordo di integrazione che lo straniero deve sottoscrivere (quale condizione necessaria per il rilascio del permesso), contestualmente alla presentazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno, impegnandosi a conseguire nel periodo di validità del permesso gli specifici obiettivi di integrazione.
La perdita integrale dei crediti (in cui l'accordo si articola) determina la revoca del permesso di soggiorno e l'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, eseguita dal questore, ad eccezione - recita l'articolo 4-bis, comma 2, terzo periodo del Testo unico - che per lo straniero titolare di permesso di soggiorno per asilo, "per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari", per motivi familiari, di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, di carta di soggiorno per familiare straniero di cittadino dell'Unione europea, nonché dello straniero titolare di altro permesso di soggiorno che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare.
Ebbene, la novella espunge la menzione della titolarità del permesso di soggiorno per richiesta di asilo nonché - conformemente alla generale soppressione dell'istituto - del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
In luogo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, la novella richiama il permesso concesso (dal questore) per i motivi di cui all'articolo 19, commi 1 e 1.1 del Testo unico, cui fa rinvio l'articolo 32, comma 3 del decreto legislativo n. 25 del 2008 (quale novellato anch'esso, dal comma 2 del presente articolo del decreto-legge: v. infra).
In breve: sono i permessi per i casi per i quali operi il divieto di espulsione e di respingimento - giacché in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. Né sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura (nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani).
Dei residui permessi di soggiorno per motivi riconducibili ad una forma di tutela per motivi umanitari, l'articolo 1 mira a fornire una enumerazione, che insieme le tipizzi e circoscriva.
Tale enumerazione emerge nella lettera b) del comma 1, la quale incide sull'articolo 5 (relativo appunto al permesso di soggiorno) del Testo unico dell'immigrazione.
Di questa lettera, i numeri 1) e 3) sopprimono, in quell'articolo del Testo unico, la menzione del permesso di soggiorno "per motivi umanitari".
Ad essa sostituiscono l'enumerazione dei permessi speciali mantenuti od ora introdotti, per alcuni particolari motivi:
ü per cure mediche (ove peraltro si intenda qui le cure mediche degli stranieri che versano in condizioni di salute di eccezionale gravità ai sensi del novellato articolo 19, comma 2, lettera d-bis) del Testo unico dell'immigrazione, potrebbe essere opportuno, sul piano della redazione del testo, un espresso richiamo normativo a quella disposizione);
ü per motivi di protezione sociale ossia per le vittime di violenza o di grave sfruttamento con concreti pericoli per l'incolumità dello straniero (ai sensi dell'articolo 18 del Testo unico);
ü per le vittime di violenza domestica - in presenza dunque di accertate situazioni di violenza o abuso e allorché emerga un concreto ed attuale pericolo per l'incolumità dello straniero, intendendosi per violenza domestica uno o più atti gravi ovvero non episodici di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica, che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima (ai sensi dell'articolo 18-bis del Testo unico);
ü per situazioni di contingente ed eccezionale calamità, la quale non consenta allo straniero il rientro e la permanenza nel Paese di provenienza in condizioni di sicurezza (ai sensi del novello articolo 20-bis del Testo unico);
ü in casi di particolare sfruttamento del lavoratore straniero, il quale abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato contro il datore di lavoro (ai sensi dell'articolo 22, comma 12-quater del Testo unico);
ü per atti di particolare valore civile (ai sensi del novello articolo 42-bis del Testo unico);
ü per i casi di non accoglimento della domanda di protezione internazionale e al contempo di non sottoponibilità dello straniero ad espulsione e respingimento verso uno Stato in cui egli possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali (ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione) o ancora, verso un Stato per cui si abbiano fondati motivi di ritenere che egli rischi di esservi sottoposto a tortura (anche alla luce di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani) (ai sensi del novellato articolo 32, comma 3 del decreto legislativo n. 25 del 2008).
I permessi di soggiorno speciali sopra ricordati presentano una durata variamente modulata dal decreto-legge per le diverse tipologie (v. infra).
Solo entro il perimetro dei permessi di soggiorno così enumerati 'sopravvive' nell'impianto del decreto-legge una forma di tutela altra rispetto a quella propria della protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria) ed alla protezione temporanea per rilevanti esigenze umanitarie (ai sensi dell'articolo 20 del Testo unico dell'immigrazione, la cui disciplina non viene toccata dal decreto-legge in esame: v. infra un apposito riquadro esplicativo).
Dall'attuazione delle disposizioni poste dal comma 1, lettera b), numero 1 - recante appunto l'enumerazione sopra ricordata di permessi di soggiorno speciali - non devono derivare nuovi o maggiori oneri di finanza pubblica, ai sensi della clausola di invarianza posta dal comma 4.
Ancora del comma 1, lettera b) del decreto-legge, il numero 2 - oltre a sopprimere la menzione nell'articolo 5, comma 6 del Testo unico, del permesso di soggiorno per motivi umanitari - sopprime la previsione in quell'articolo che "seri motivi in particolare di carattere umanitari o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano" possano far venir meno la facoltà di rifiuto o revoca del permesso di soggiorno esercitata sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti.
In tal modo viene meno l'ambito di discrezionalità nella valutazione dei "seri motivi", che la norma previgente attribuiva al questore.
La lettera c) riproduce la enumerazione dei permessi di soggiorno speciali sopra ricordati, all'interno delle disposizioni del Testo unico dell'immigrazione (v. suo articolo 9) relative al permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
In particolare, siffatte disposizioni relative al soggiorno di lungo periodo non si applicano ai titolari dei permessi speciali (non più permesso di soggiorno per motivi umanitari).
La lettera d) riproduce la enumerazione dei permessi di soggiorno speciali sopra ricordati, all'interno delle disposizioni del Testo unico dell'immigrazione (v. suo articolo 10-bis) relative all'ingresso e soggiorno illegale dello straniero nello Stato italiano, delle correlative sanzioni, della sospensione del procedimento innanzi all'autorità giudiziaria in caso di presentazione di domanda di protezione e - in particolare - della pronunzia di sentenza di non luogo a procedere nel caso sia intervenuto il riconoscimento della protezione internazionale ovvero il rilascio appunto del permesso di soggiorno speciale.
La lettera e) dispone che il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale rilasciati alle vittime di violenza o di grave sfruttamento con concreti pericoli per la loro incolumità (ai sensi dell'articolo 18 del Testo unico) rechi la dicitura: "casi speciali".
Come le analoghe previsioni, introdotte per i permessi della enumerazione resa dal decreto-legge, è così posta in risalto una 'specialità' (e non ordinarietà) di tal genere di protezione.
La lettera f) reca analoga previsione, stavolta per le vittime di violenza domestica (articolo 18-bis del Testo unico).
Al contempo stabilisce la durata di un anno per tal tipo di permesso di soggiorno speciale.
La durata annuale di un permesso di soggiorno non è profilo marginale, dal momento che l'articolo 41 del Testo unico ad essa associa la equiparazione ai cittadini italiani ai fini delle provvidenze e prestazioni di assistenza sociale.
Peraltro la novella inserisce espressamente la previsione che il permesso di soggiorno speciale per le vittime di violenza domestica consenta l'accesso ai servizi assistenziali ed allo studio nonché l’iscrizione nell’elenco anagrafico previsto per i servizi alle persone in cerca di lavoro (di cui all'articolo 4 del d.P.R. n. 442 del 2000) o lo svolgimento di lavoro subordinato e autonomo, fatti salvi i requisiti minimi di età.
Alla scadenza, il permesso di soggiorno può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo ovvero in permesso di soggiorno per motivi di studio (qualora il titolare sia iscritto ad un corso regolare di studi).
La lettera g) introduce una nuova fattispecie di divieto di espulsione.
Secondo il previgente articolo 19, comma 2 del Testo unico dell'immigrazione, l'espulsione non è consentita (salvo ricorrano motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato) nei confronti degli stranieri: a) minorenni (salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi); b) in possesso della carta di soggiorno; c) conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana; d) donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.
A tali casi la novella aggiunge quello degli stranieri che versino in condizioni di salute di eccezionale gravità, accertate mediante "idonea documentazione", tali da determinare un irreparabile pregiudizio alla loro salute, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza.
L'EMENDAMENTO 1.28 approvato dalla Commissione referente propone di specificare che siffatta documentazione debba essere rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un "medico convenzionato" con il Servizio sanitario nazionale.
Per questi malati gravi si prevede che il questore rilasci un permesso di soggiorno per cure mediche (valido solo nel territorio nazionale), per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, rinnovabile finché persistano le condizioni di salute di eccezionale gravità debitamente certificate.
La lettera h) introduce tra i permessi di soggiorno speciali il permesso di soggiorno per calamità.
È accordato allo straniero il cui rientro e permanenza nel Paese verso il quale dovrebbe fare ritorno non possa avvenire in condizioni di sicurezza, versando quel Paese in una situazione di contingente ed eccezionale calamità.
Esso è rilasciato da questore per la durata di sei mesi; è valido solo nel territorio nazionale; consente di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
L'EMENDAMENTO 1.37 approvato dalla Commissione referente propone di introdurre la previsione della rinnovabilità di tale permesso, per ulteriori sei mesi, in caso di persistenza della eccezionale calamità.
Tali previsioni sono formulate introducendo un apposito articolo 20-bis entro il Testo unico dell'immigrazione.
La lettera i) concerne il permesso di soggiorno (previsto dall'articolo 22, comma 12-quater del Testo unico) accordato al lavoratore straniero oggetto di particolare sfruttamento, il quale denunci il datore di lavoro e cooperi al procedimento penale.
La novella declina la specialità anche di tale tipo permesso (che viene a recare anch'esso la dicitura: "casi speciali").
E viene ad esplicitare che siffatto permesso consente lo svolgimento di attività lavorativa. Alla scadenza esso può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo.
La lettera l) riproduce la enumerazione dei permessi di soggiorno speciali sopra ricordati, all'interno delle disposizioni del Testo unico dell'immigrazione (v. suo articolo 27-ter) relative all'ingresso e soggiorno per ricerca (dunque per periodi superiori a tre mesi, a favore di stranieri in possesso di un titolo di dottorato o di un titolo di studi superiore che nel Paese di conseguimento dia accesso a programmi di dottorato).
Le disposizioni circa l'ingresso e soggiorno per ricerca non si applicano ai titolari dei permessi speciali.
La lettera m) riproduce la enumerazione dei permessi di soggiorno speciali sopra ricordati, all'interno delle disposizioni del Testo unico dell'immigrazione (v. suo articolo 27-quater) relative all'ingresso e soggiorno per lavoratori altamente qualificati.
Tali disposizioni non si applicano ai titolari dei permessi speciali.
La lettera n) novella l'articolo 29 del Testo unico dell'immigrazione, che disciplina il ricongiungimento familiare.
Secondo la disposizione previgente (recata dal comma 10 di quell'articolo) siffatta disciplina non si applica:
a) quando il soggiornante richiedente il riconoscimento dello status di rifugiato non abbia ancora ricevuto una decisione definitiva (qualora il riconoscimento sia stato conseguito, subentra la previsione dell'articolo 29-bis del Testo unico). Tale previsione rimane immodificata;
b) agli stranieri destinatari delle misure di protezione temporanea o delle misure di protezione temporanea umanitaria (su queste misure, v. infra l'apposito riquadro esplicativo). La novella introduce la menzione altresì dell'articolo 20-bis di nuova introduzione, che viene a prevedere un permesso di soggiorno per calamità naturale;
c) ai titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari: tale previsione è soppressa (venendo meno quel tipo di permesso, per effetto del decreto-legge).
Per quanto riguarda il ricongiungimento familiare, esso non era (e non è, a meno che si sia titolari del permesso di soggiorno per calamità naturale ora introdotto) riconosciuto ai titolari del permesso di soggiorno per motivi umanitari, secondo la formulazione dell'articolo 29 del Testo unico.
Par rimane affidata all'evoluzione giurisprudenziale l'interpretazione di quel dettato, di per sé non includente il ricongiungimento, ove riverberi sui permessi di soggiorno per "casi speciali" (comunque riconducibili a profili umanitari) la cui disciplina è stata mantenuta o introdotta dal decreto-legge, la tendenziale parificazione di tutela rispetto alla protezione internazionale che fu adombrata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 19393/09). Esse lì ravvisarono che la situazione giuridica dello straniero il quale richieda il rilascio del permesso per ragioni umanitarie ha consistenza di un vero e proprio diritto soggettivo da annoverare tra i diritti umani fondamentali (in quanto attiene alla vita e all'incolumità fisica della persona), costituzionalmente protetto, costituendo una delle forme di realizzazione del diritto di asilo previsto dall'art. 10, terzo comma della Costituzione, come tale oggetto di protezione alla stregua degli obblighi internazionali - Convenzione di Ginevra del 1951 e CEDU) - per questo riguardo avendo una identità di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, in quanto situazioni tutte riconducili alla categoria dei diritti umani fondamentali.
Per quanto riguarda invece il diritto all'unità familiare, esso rimane scandito dall'articolo 28 del Testo unico, secondo il comma 1 del quale “il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri è riconosciuto, alle condizioni previste dal presente Testo unico, agli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno rilasciato per motivi di lavoro subordinato o autonomo, ovvero per asilo, per studio, per motivi religiosi o per motivi familiari”.
L'EMENDAMENTO 1.48 approvato dalla Commissione referente propone l'inserimento di una lettera n-bis).
La proposta viene a prevedere in tal modo una novella all'articolo 32 del Testo unico dell'immigrazione, che disciplina il permesso di soggiorno per minori stranieri non accompagnati, al compimento del diciottesimo anno d'età. Si tratta di permesso di soggiorno per motivi di studio, di accesso al lavoro ovvero di lavoro subordinato o autonomo.
La novella è abrogativa degli ultimi due periodi del comma 1-bis di quell'articolo 32.
Si viene in tal modo ad abrogare la previsione che il mancato rilascio del parere da parte del Comitato per i minori stranieri (previsto dall'articolo 33 del Testo unico dell'immigrazione) non possa legittimare il rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno - nonché ad abrogare la previsione dell'applicazione a tale procedimento del silenzio assenso (mediante la soppressione del rinvio all'articolo 20, commi 1, 2 e 3 della legge n. 241 del 1990).
La lettera o) novella l'articolo 34 del Testo unico dell'immigrazione, che disciplina l'iscrizione al Servizio sanitario nazionale e il diritto all'assistenza degli stranieri regolarmente soggiornanti svolgenti regolari attività di lavoro (o iscritti nelle liste di collocamento) o che abbiano chiesto il rinnovo del titolo di soggiorno - per lavoro subordinato o autonomo, per motivi familiari, per "asilo politico, per asilo umanitario", per richiesta adozione o per affidamento, per acquisto della cittadinanza - o minori stranieri non accompagnati.
La novella riformula le espressioni sopra virgolettate, aggiornandole in: "per asilo, per protezione sussidiaria" (su cui si veda infra il riquadro dedicato alla protezione internazionale).
Si sopprime così in particolare l'espressione "asilo umanitario", difficilmente collocabile entro l'assetto normativo predisposto dal decreto-legge.
Gli EMENDAMENTI 1.52, 1.53 e 1.54 (testi 2) approvati in identico testo dalla Commissione referente vengono ad aggiungere la menzione (si è detto, ai fini dell'iscrizione al Servizio sanitario nazionale e del diritto all'assistenza) altresì dei richiedenti il rinnovo del permesso per "protezione per casi speciali, protezione speciale, per cure mediche", queste ultime per condizioni di salute di eccezionale gravità (v. supra, lettera g)).
Nell'impianto della disciplina recata dal decreto-legge, si intende che:
- protezione "per casi speciali" è quella ricadente nelle fattispecie tipizzate dall'articolo 1 comma 1, lettera b del medesimo decreto-legge);
- protezione "speciale" è quella per così dire 'residuale', per il verificarsi comunque dei presupposti dell'applicazione del divieto di espulsione (principio di non refoulement), ai sensi dell'articolo 1, comma 2, lettera a).
La lettera p) riproduce la enumerazione dei permessi di soggiorno speciali sopra ricordati, all'interno delle disposizioni del Testo unico dell'immigrazione (v. suo articolo 39) relative all'accesso ai percorsi di istruzione tecnico superiore e ai percorsi di formazione superiore.
Ai titolari dei permessi di soggiorno speciali (non più del permesso di soggiorno per motivi umanitari, soppresso) è comunque consentito l'accesso ai corsi di istruzione tecnica superiore o di formazione superiore e alle scuole di specializzazione delle università, a parità di condizione con gli studenti italiani.
La lettera q) introduce - mediante l'inserimento nel Testo unico di un novello articolo 42-bis - una inedita fattispecie di permesso di soggiorno, per atti di particolare valore civile.
Siffatto permesso di soggiorno, rilasciato dal questore ha durata di due anni, rinnovabile.
Consente l’accesso allo studio nonché di svolgere attività lavorativa; può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato.
Ad autorizzarne il rilascio è il Ministro dell'interno, su proposta del prefetto competente (salvo ricorrano motivi per ritenere che lo straniero risulti pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato).
La novella fa rinvio alla legge n. 13 del 1958 (recante "Norme per la concessione di ricompense al valore civile"), il cui articolo 3 definisce gli atti di particolare valore civile. Tali sono quelli compiuti esponendo scientemente la propria vita a manifesto pericolo, per: salvare persone esposte ad imminente e grave pericolo; impedire o diminuire il danno di un grave disastro pubblico o privato; ristabilire l'ordine pubblico, ove fosse gravemente turbato, e per mantenere forza alla legge; arrestare o partecipare all'arresto di malfattori; promuovere il progresso della scienza od in genere per il bene dell'umanità; tenere alti il nome ed il prestigio della Patria.
Il comma 2 di questo primo articolo del decreto-legge incide sul decreto legislativo n. 25 del 2008, il quale ha dato recepimento alla normativa europea circa il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato.
La lettera a) modifica, di quel decreto legislativo, l'articolo 32, comma 3.
Si tratta della decisione delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, le quali sono le autorità competenti all'esame delle correlative domande (la loro composizione è disciplinata dall'articolo 4 del decreto legislativo n. 25).
La Commissione territoriale può riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, o di contro rigettare la domanda, per assenza dei presupposti per il riconoscimento o per il verificarsi di una delle cause di cessazione od esclusione dalla protezione internazionale o per manifesta infondatezza.
Ebbene, il comma 3 dell'articolo 32 del citato decreto legislativo n. 25 prevedeva - nel testo antecedente il presente decreto-legge - che la Commissione, nel caso in cui non accolga la domanda di protezione internazionale ma ritenga "che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario", trasmettesse gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
La modificazione apportata con la novella viene a circoscrivere l'ambito di valutazione della Commissione territoriale. Questa non valuta più la possibile sussistenza di "gravi motivi umanitari" ma il mero verificarsi dei presupposti dell'applicazione del divieto di espulsione (principio di non refoulement).
La lettera a) inoltre prevede che - al verificarsi di quei presupposti - la Commissione territoriale trasmetta gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno - "salvo che possa disporsi l'allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga". Siffatta previsione 'legifica' quanto già disposto nel regolamento di attuazione del Testo unico dell'immigrazione (v. articolo 28, comma 1, lettera d) del d.P.R. n. 394 del 1999).
Non viene inciso il dettato dell'articolo 32, comma 3 del decreto legislativo n. 25, là dove esso prevede la trasmissione degli atti dalla Commissione territoriale al questore per un "eventuale" rilascio del permesso di soggiorno. Peraltro l'indirizzo giurisprudenziale della Cassazione è per escludere in tale fattispecie discrezionalità valutativa in capo al questore, privo di potere accertativo circa la sussistenza dei presupposti, risultando così tenuto al rilascio.
Il permesso di soggiorno così accordato viene a recare la dicitura “protezione speciale”.
Tale permesso di soggiorno per protezione speciale ha la durata di un anno (è, questa, modificazione di quanto previsto prima del presente decreto-legge dall'articolo 14, comma 4 del d.P.R. n. 21 del 2015, secondo il quale il permesso di soggiorno per motivi umanitari, se rilasciato all'esito della procedura di protezione internazionale, ha durata biennale).
Il permesso per protezione speciale è rinnovabile, previo parere della Commissione territoriale, e consente di svolgere attività lavorativa. Non può tuttavia essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Dunque questa lettera a) viene a sopprimere la previsione di un permesso di soggiorno per gravi motivi umanitari, il cui rilascio sia valutabile dalla Commissione territoriale.
A fronte è l'altra modificazione (recata dal comma 1, lettera b), n. 2 del presente articolo del decreto-legge: v. supra) che sopprime la previsione che il permesso di soggiorno sia altresì rilasciato dal questore rilasciato ove ricorrano "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali"- come prevedeva l'articolo 5, comma 6 del Testo unico dell'immigrazione, secondo dettato ora soppresso.
Il combinato disposto di queste soppressioni riduce l'ambito di valutazione 'discrezionale' da parte della Commissione territoriale e del questore circa la sussistenza di gravi o seri "motivi", facendola rifluire nella verifica dei presupposti di non refoulement (pena la violazione di un principio fondamentale dell'ordinamento italiano ed internazionale) e di tipizzate tipologie di tutela (complementare a quella propria della protezione internazionale non accordata).
In tal modo viene a 'legificarsi' un indirizzo restrittivo che aveva trovato anticipazione, potrebbe dirsi, nella circolare del Ministro dell'interno in ordine al rilascio del permesso di soggiorno per motivi di soggiorno, diramata il 4 luglio 2018 ai prefetti ed ai presidenti delle Commissioni territoriali.
In quella circolare il Ministro (dopo aver ricordato l'elevato numero di domandi di protezione internazionale pendenti: 136.000) richiamava ad una "necessaria rigorosità dell'esame delle circostanze di vulnerabilità degne di tutela che, ovviamente, non possono essere riconducibili a mere e generiche condizioni di difficoltà". E rimarcava come "nonostante l’avvenuto recepimento nel nostro ordinamento della protezione sussidiaria, con cui hanno trovato tutela particolari situazioni soggettive e oggettive di vulnerabilità, la norma de qua [articolo 5, comma 6 del Testo unico dell'immigrazione, antecedente al presente decreto-legge e dunque recante la previsione del permesso di soggiorno per motivi umanitari] è tuttora vigente ed ha, di fatto, legittimato la presenza sul territorio nazionale di richiedenti asilo non aventi i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale il cui numero, nel tempo, si è sempre più ampliato, anche per effetto di una copiosa giurisprudenza che ha orientato l’attività valutativa delle Commissioni". "Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato quindi concesso in una varia gamma di situazioni collegate, a titolo esemplificativo, allo stato di salute, alla maternità, alla minore età, al tragico vissuto personale, alle traversìe affrontate nel viaggio verso l’Italia, alla permanenza prolungata in Libia, per arrivare anche ad essere uno strumento premiale dell’integrazione". E "la tutela umanitaria, concessa inizialmente per due anni, viene di fatto generalmente rinnovata in assenza di controindicazioni soggettive, in via automatica e senza il pur previsto riesame dei presupposti da parte delle Commissioni".
Si ricorda che il permesso di soggiorno per motivi umanitari - prima del decreto-legge - aveva una durata correlata alle necessità che ne avessero consentito il rilascio (nella prassi amministrativa variando da sei mesi a due anni), ma se rilasciato all'esito della procedura di protezione internazionale, aveva durata biennale (ai sensi dell'articolo 14, comma 4 del d.P.R. n. 21 del 2015: secondo previsione soppressa dall'articolo 1, comma 6, lettera b) del decreto-legge, qui infra).
Principi di diritto espressi dalla giurisprudenza in materia di protezione umanitaria
La giurisprudenza, in sede di riesame delle decisioni delle Commissioni territoriali, ha variamente definito i contorni della tutela umanitaria, ritenendo gli stranieri meritevoli del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in presenza di diverse situazioni. Di seguito, si riportano alcuni tra i principi di diritto in prevalenza applicati:
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 10-2018, n. 23720 La protezione umanitaria, quale misura atipica e residuale, copre situazioni da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica ("status" di rifugiato o protezione sussidiaria), debba provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (v. Cass. n. 23604-17); il che implica che la relativa valutazione presuppone essa pure una verifica compiuta, di ordine comparativo, della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d'origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel Paese d'accoglienza.
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 04-09-2018, n. 21610 In tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non deve essere affidata alla mera opinione dei giudice ma costituisce il risultato dì una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nell' art. 3, comma 5, del D.Lgs. n. 251 del 2007, tenendo conto "della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, con riguardo alla sua condizione sociale e all'età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati", quando si ritiene sussistente l'accadimento. Pertanto è compito dell'autorità amministrativa e del giudice dell'impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell'istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l'esercizio di poteri-doveri d'indagine officiosi e l'acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale.
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 28-06-2018, n. 17072 Non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui all' art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all'art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d'interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull'immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale.
Cass. civ. Sez. I, 23/02/2018, n. 4455 [citata nella circolare del Ministro dell'interno del 4 luglio 2018, diramata ai prefetti e ai presidenti delle Commissioni territoriali] II riconoscimento della protezione umanitaria, secondo i parametri normativi stabiliti dagli artt. 5, comma 6, e 19, comma 2, D.Lgs. n. 286 del 1998 (T.U. immigrazione) e dall'art. 32, D.Lgs. n. 251 del 2007, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere l'esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza. Il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale, quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine, idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. La vulnerabilità può essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 36 oppure può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili). Queste ultime tipologie di vulnerabilità richiedono, tuttavia, l’accertamento rigoroso delle condizioni di partenza di privazione dei diritti umani nel paese d’origine perché la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano lai dignità. Ne consegue che il raggiungimento di un livello d’integrazione sociale, personale od anche lavorativa nel paese di accoglienza può costituire un elemento di valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza di una delle variabili rilevanti della “vulnerabiltà” ma non può esaurirne il contenuto. Non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili. Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità. L’accertamento della situazione oggettiva del Paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce delle peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere. È necessaria, pertanto, una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.). Se assunti isolatamente, né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza integrano, di per sé soli e astrattamente considerati, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione in questione.Deve, infatti, osservarsi che il diritto al rispetto della vita privata tutelato dall’art. 8 CEDU al pari del diritto al rispetto della familiare può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (com’è il caso di specie) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (Corte EDU, sent. 08.04.2008, ric. 21878/06, caso Nnyanzi c. Regno Unito, par. 72 ss.).
Corte d'Appello Bari Sent., 21-02-2018 La recente nascita del figlio del richiedente asilo è rilevante per la sussistenza di fondati motivi umanitari, che militano a favore del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Rilevano, a tal fine, esigenze di protezione di diritti fondamentali della persona, quali il diritto alla famiglia, il diritto alla vita familiare e il dovere-diritto all'educazione dei figli.
Corte d'Appello Palermo Sez. I Sent., 14-02-2018 I presupposti per la concessione della protezione umanitaria non coincidono con quelli riguardanti la protezione internazionale, potendosi fondare su ragioni umanitarie o diverse da quelle proprie della protezione sussidiaria o correlate a condizioni temporali limitate o circoscritte. Le situazioni di vulnerabilità che possono dar luogo alla richiesta di rilascio di un permesso per motivi umanitari costituiscono un catalogo che può comprendere situazioni soggettive, quali per esempio motivi di salute, di età, familiari, ma anche situazioni oggettive, quali carestie, disastri naturali o ambientali o altre situazioni similari.
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ordinanza, 06-02-2018, n. 2875 Merita accoglimento la domanda di riconoscimento della protezione internazionale ed umanitaria dello straniero, di origine del Gambia, perseguitato nel suo paese a causa della sua omosessualità. Invero, la circostanza che l'omosessualità sia considerata come reato dall'ordinamento giuridico del Paese di provenienza costituisce una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di pericolo, tale da giustificare la concessione della protezione internazionale.
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ordinanza, 05-02-2018, n. 2767 In tema di protezione internazionale dello straniero, il carattere strettamente privato della vicenda non integra i presupposti della protezione umanitaria, atteso che il diritto alla protezione in parola non può essere riconosciuto neppure per il semplice fatto che lo straniero non versi in condizione di piena integrità fisica, necessitando, invece, che tale condizione sia l'effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza.
Corte d'Appello Torino Sent., 26-01-2018 La situazione di estrema povertà del paese di provenienza del richiedente, non rientra tra le ipotesi per le quali è prevista la concessione della protezione umanitaria.
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 09/10/2017, n. 23604 La protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica ("status" di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l'espulsione e debba provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità.
Corte d'Appello L'Aquila, 01-06-2017 In tema di protezione internazionale dello straniero, la situazione giuridica dello straniero che invochi il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ha natura di diritto soggettivo, che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall'art. 2 della Costituzione e dall'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 21/12/2016, n. 26641 Il diritto alla protezione umanitaria non può essere riconosciuto per il semplice fatto che lo straniero versi in non buone condizioni di salute, necessitando, invece, che tale condizione sia l'effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza.
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La lettera b) ancora del comma 2 di questo primo articolo del decreto-legge - che modifica l'articolo 35-bis, comma 1 del decreto legislativo n. 25 del 2008, per coordinamento normativo con la nuova disciplina posta dal decreto-legge - afferisce al tema delle controversie in materia di riconoscimento della protezione.
Se ne dà conto in una successiva scheda di lettura, relativa alle disposizioni dell'articolo 1 del decreto-legge relative appunto alle controversie.
Il comma 6 abroga i riferimenti al permesso di soggiorno per motivi umanitari presenti nel d.P.R. n. 394 del 1999, recante il regolamento di attuazione del Testo unico in materia di immigrazione.
Il comma 7 abroga i riferimenti al permesso di soggiorno per motivi umanitari presenti nel d.P.R. n. 51 del 2015, recante il regolamento di attuazione del decreto legislativo n. 25 del 2008 sulle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale.
Insieme abrogata risulta la previsione della durata biennale di quel permesso di soggiorno ove rilasciato al termine dell'esame di una domanda di protezione internazionale.
I commi 8 e 9 pongono una disciplina transitoria.
Il comma 8 in particolare concerne i permessi di soggiorno per motivi umanitari in corso di validità al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge.
Essi potranno essere rinnovati, alla loro scadenza, quali permessi di soggiorno di protezione speciale (di durata annuale). É prescritta una previa valutazione della Commissione territoriale competente, circa la sussistenza dei presupposti di non refoulement.
Il comma 9 concerne i permessi di soggiorno per motivi umanitari già riconosciuti dalle Commissioni ma non ancora rilasciati.
Essi saranno rilasciati alle condizioni previste dalla legge al momento in cui le relative decisioni siano state adottate, con le stesse caratteristiche, in termini di durata e convertibilità, del permesso per motivi umanitari.
Alla loro scadenza tali permessi potranno essere rinnovati alle condizioni previste dal comma 8 per i permessi già rilasciati, dunque quali permessi di soggiorno di protezione speciale (di durata annuale).
La disciplina transitoria così posta è dunque riferita al procedimento innanzi la Commissione territoriale competente, non già alla fase successiva ove sia intervenuto ricorso del richiedente presso l'autorità giudiziaria.
CENNI SUL DIRITTO DI ASILO E SULLA "PROTEZIONE INTERNAZIONALE"
Una ricognizione sulla protezione dello straniero nell'ordinamento italiano non può, pur nell'estrema sintesi, non richiamare il dettato della Carta costituzionale. È l'articolo 10 della Costituzione a prescrivere (al secondo comma) per la disciplina della condizione giuridica dello straniero e una riserva di legge e la conformità alle norme ed ai trattati internazionale (per quest'ultimo riguardo superando il principio della reciprocità rispetto alla disciplina degli altri Stati, com'era nell'antecedente ordinamento). Esso prevede (al terzo comma) che "lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto all'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge". E pone il divieto di estradizione dello straniero per reati politici (quarto comma). Tale novero di previsioni - che formulano la generale garanzia della persona straniera nell'ordinamento italiano - si collocano entro i "Principi fondamentali" della Carta repubblicana. La riserva di legge affermata dal citato comma 3 dell'articolo 10 per il diritto all'asilo dello straniero non è stata seguita, ad oggi, da una specifica legge attuativa. Peraltro la giurisprudenza (v. la sentenza n. 4674 del 1997 resa dalla Corte di cassazione a Sezioni unite) ha affermato il carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale, la quale con sufficiente chiarezza delinea la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo. Dunque vi è immeditata precettività della disposizione costituzionale (ed un caso per certi versi peculiare di sua applicazione si ebbe con il riconoscimento, da parte del tribunale di Roma nell'ottobre 1999, dell'asilo politico al leader curdo Ocalan, il quale nemmen più si trovava nel territorio italiano, e fuori del procedimento di riconoscimento dello status di rifugiato politico). Asilo costituzionale e rifugio politico non collimano (benché abbiano ambedue, al ricorrerne dei presupposti, natura di diritto soggettivo, i cui correlativi provvedimenti amministrativi o giudiziari si configurano come dichiarativi non già costitutivi). Il rifugio politico è nozione più circoscritta. Non è sufficiente che nel Paese di origine siano generalmente conculcate le libertà democratiche: il singolo richiedente deve aver subito, o avere il fondato timore di poter subire, specifici atti di persecuzione. Per lungo tempo l'Italia ha avuto una disciplina limitata al riconoscimento dello status di rifugiato, a seguito dell'adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, che definisce appunto lo status di rifugiato (ratificata dalla legge n. 722 del 1954; solo con il decreto-legge n. 416 del 1989 veniva però meno la riserva geografica apposta al momento della ratifica). La Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990 è intervenuta sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea (ratificata dalla legge n. 523 del 1992). A dare impulso ad una maggiore articolazione della disciplina normativa interna è stata l'incidenza delle disposizioni comunitarie. Si deve rammentare infatti come l'asilo, nelle sue varie articolazioni, sia materia di competenza dell'Unione europea, la quale vi persegue una "politica comune", mediante un "sistema europeo comune di asilo" (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). Senza qui soffermarsi su un'evoluzione terminologia (da "asilo" a "protezione internazionale") che il linguaggio normativo dell'Unione europea ormai registra, basta ricordare che la protezione così accordata può essere di tre tipi: ü riconoscimento dello status di rifugiato; ü protezione sussidiaria; ü protezione temporanea (per quest'ultima, si rinvia ad uno specifico riquadro infra). Le prime due tipologie (status di rifugiato e protezione sussidiaria) sono specificazione di una medesima voce: la "protezione internazionale" (dicitura ricorrente nei recenti atti normativi dell'Unione europea, intesi ad 'avvicinare' la disciplina di siffatte due diverse forme di protezione). La prima forma di protezione (status di rifugiato) è accordata a chi sia esposto nel proprio Paese ad atti di persecuzione individuale, configuranti una violazione grave dei suoi diritti fondamentali. La seconda (protezione sussidiaria) è accordata a chi, pur non oggetto di specifici atti individuali di persecuzione, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno se ritornasse nel Paese di origine. Di fonte invece esclusivamente interna è la protezione per motivi umanitari (rectius era, giacché il decreto-legge la sopprime quale istituto generale, mantenendone tuttavia alcune enumerate e tipizzate forme di specifica applicazione). Quella protezione fu introdotta dalla legge n. 80 del 1998 (cd. legge Turco-Napolitano), indi trasfusa nel Testo unico dell'immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998). La Corte di cassazione ha evidenziato (ad esempio: Sez. I della Cass. Civile, sent. n. 4455 del 23 febbraio 2018) che “il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la disciplina dei tre istituti dello status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ad opera delle esaustive previsioni di cui al decreto legislativo n. 251 del 2007, ed all'articolo 5, comma 6 del Testo unico dell'immigrazione, cosicché non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione" del disposto di cui all'articolo 10, terzo comma della Costituzione.
I presupposti e i contenuti delle due forme di protezione internazionale – status di rifugiato e protezione sussidiaria – sono stati disciplinati originariamente dalla direttiva 2004/83/CE del 29 aprile 2004 (c.d. direttiva qualifiche), che è stata recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 251 del 2007 (c.d. decreto qualifiche). La direttiva è stata successivamente modificata dalla direttiva 2011/95/UE, a cui è stata data attuazione con il decreto-legislativo n. 18 del 2014. Quanto alle procedure ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale, la disciplina normativa è posta dal decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, come modificato dal decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, di recepimento della direttiva "procedure" n. 32 del 2013 e della direttiva "accoglienza" n. 33 del 2013. In relazione alla particolare condizione, può essere riconosciuto al cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria. La differente tutela attiene ad una serie di parametri oggettivi e soggettivi che si riferiscono alla storia personale dei richiedenti, alle ragioni delle richieste e ai paesi di provenienza. Il rifugiato è un cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Può trattarsi anche di un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale e, per le stesse ragioni, non può o non vuole farvi ritorno. Ai sensi dell’art. 7 del decreto legislativo n. 251 del 2007, gli atti di persecuzione devono alternativamente: a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, ai sensi dell'articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione sui diritti dell'Uomo; b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a). Gli atti di persecuzione possono, tra l'altro, assumere la forma di: a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; d) rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all'articolo 10, comma 2; e-bis) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie che comportano gravi violazioni di diritti umani fondamentali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare per motivi di natura morale, religiosa, politica o di appartenenza etnica o nazionale; f) atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia. È invece ammissibile alla protezione sussidiaria il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno. Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Sono esclusi dalla protezione gli stranieri già assistiti da un organo o da un'agenzia delle Nazioni Unite diversi dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono riconosciute all'esito dell'istruttoria effettuata dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.
Il permesso di soggiorno per asilo rilasciato ai titolari dello status di rifugiato ha validità quinquennale ed è rinnovabile (art. 23, decreto legislativo n. 251 del 2007). Ai titolari dello status di protezione sussidiaria è rilasciato un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria con validità quinquennale (fino al 2014 la durata era triennale), rinnovabile previa verifica della permanenza delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento della protezione sussidiaria. Tale permesso di soggiorno consente l'accesso al lavoro e allo studio ed è convertibile per motivi di lavoro, sussistendone i requisiti.
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Protezione per motivi umanitari; protezione temporanea; protezione temporanea per motivi umanitari
La materia, di per sé non agevole, dell'asilo e della protezione di migranti che versino in condizioni di vulnerabilità, sconta anche una sua complessità terminologica. Così, ad esempio, tra "protezione temporanea", "protezione per motivi umanitari", "protezione temporanea per motivi umanitari", non è immediata la distinzione - che pur va posta, giacché si tratta di distinte fattispecie, presidiate ciascuna da norme proprie, di diritto dell'Unione europea o interno italiano. In questo riquadro si cerca di delineare, per rapidi cenni, quella distinzione, ricordando che l'intervento normativo recato dall'articolo 1 del decreto-legge in esame incide esclusivamente sulla "protezione per motivi umanitari". Su quest'ultima non ci si sofferma qui ulteriormente, in quanto se ne è trattato in altro precedente riquadro.
La protezione temporanea
L'asilo è materia di competenza dell'Unione europea, la quale vi persegue una "politica comune" mediante un "sistema europeo comune di asilo" (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). La protezione così accordata può essere di tre tipi: ü riconoscimento dello status di rifugiato; ü protezione sussidiaria; ü protezione temporanea. Le prime due tipologie (status di rifugiato e protezione sussidiaria) sono specificazione di una medesima voce: la "protezione internazionale". La terza tipologia - la protezione temporanea - è una procedura di carattere eccezionale che garantisce - nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all'Unione europea che non possono rientrare nel loro Paese d'origine - una tutela immediata e temporanea, in particolare qualora sussista il rischio che il sistema d'asilo non possa far fronte a tale afflusso. Fino ad oggi essa non ha ricevuto alcuna applicazione. Nessuna decisione del Consiglio dei ministri dell'Unione europea ha finora accertato il "massiccio afflusso" di sfollati che ne costituisce il presupposto.
La protezione temporanea (innanzi comparsa nei primi anni Novanta in occasione della cruenta dissoluzione della Jugoslavia) è stata disciplinata dalla direttiva 2001/55/CE - a sua volta recepita nell'ordinamento italiano con decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85. Secondo la definizione normativa, per "sfollati" sono da intendersi i cittadini di Paesi terzi o apolidi che abbiano dovuto abbandonare il loro Paese o regione d'origine o che siano stati evacuati (in particolare in risposta all'appello di organizzazioni internazionali), fuggiti da zone di conflitto armato o di violenza endemica, o soggetti a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani, o già vittime di siffatte violazioni. Sono persone il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulti impossibile a causa della situazione nel Paese di provenienza. La tutela accordata con la protezione temporanea è di tipo collettivo, e presuppone un "afflusso massiccio". È a notare come la "protezione temporanea" sia disciplinata dalla direttiva dell'Unione europea, e non presti ampi margini di autonomia per il singolo Stato membro. Infatti l'"afflusso massiccio" deve essere, oltre che effettivo, anche formalmente accertato con decisione del Consiglio dei ministri dell'Unione europea, adottata a maggioranza qualificata. La decisione del Consiglio indica altresì le capacità di accoglienza comunicate da tutti gli Stati membri, onde ripartire gli sfollati tra loro. La protezione temporanea - della quale il Consiglio stabilisce la durata, prorogabile di sei mesi in sei mesi - ha una durata massima di tre anni. Se al suo termine non sia possibile un rimpatrio sicuro e stabile, il Consiglio è chiamato a trovare soluzioni altre (verosimilmente la protezione sussidiaria). Dopo la decisione del Consiglio, interviene il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri italiano, che precisa le condizioni generali per la concessione della "protezione temporanea", la quale dà il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno apposito (appunto per protezione temporanea), consente il ricongiungimento familiare (alle medesime condizioni previste per il rifugiato), l'accesso allo studio, lo svolgimento di attività lavorative - non già di allontanarsi dal territorio italiano (salvo accordi bilaterali con un altro Stato membro, ovvero in caso di trasferimento volontario tra Stati membri, ovvero previa autorizzazione dell'autorità che ha rilasciato il permesso di soggiorno: così prevede l'articolo 10 del decreto legislativo n. 85 del 2003).
La protezione temporanea per motivi umanitari
Per "protezione temporanea per motivi umanitari" si intende quella protezione che ha il suo fondamento nell'articolo 20 del Testo unico sull'immigrazione (non inciso dal decreto-legge in esame). Esso recita: "Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d'intesa con i Ministri degli affari esteri, dell'interno, per la solidarietà sociale, e con gli altri Ministri eventualmente interessati, sono stabilite, nei limiti delle risorse preordinate allo scopo nell'ambito del Fondo di cui all'articolo 45 [Fondo nazionale per le politiche migratorie], le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all'Unione Europea". E "il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato riferiscono annualmente al Parlamento sull'attuazione delle misure adottate". Dunque, "rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità" in Paesi extra-comunitari, possono legittimare, secondo l'ordinamento italiano, una protezione (nei limiti delle risorse disponibili entro il Fondo per le politiche migratorie). Siffatta protezione ha in comune con la protezione temporanea il carattere collettivo della tutela; se ne distingue tuttavia perché prescinde dalla previa dichiarazione di "afflusso massiccio" da parte delle istituzioni dell'Unione europea nonché dalla definizione di "sfollati" quale formulata dalla direttiva 2001/55/CE. La protezione temporanea per motivi umanitari ex articolo 20 del Testo unico fu applicata negli ultimi anni Novanta, innanzi alla crisi balcanica; è stata ribadita nel 2011, innanzi alla crisi politica che ha investito i Paesi dell'Africa settentrionale cagionando un massiccio afflusso (alcune decine di migliaia) di profughi sulle coste italiane.
In quella occasione - senza soffermarsi sulla dichiarazione dello stato di emergenza umanitaria in tutto il territorio nazionale (previsto fino al 31 dicembre 2011, con d.P.C.m. 12 febbraio 2011; indi prorogato al 31 dicembre 2011, con d.P.C.m. 6 ottobre 2011) e sulla conseguente ordinanza di protezione civile del Presidente del Consiglio (n. 3924 del 18 febbraio 2011, recante tra l'altro la nomina del capo della protezione civile quale commissario delegato per la realizzazione degli interventi), seguita da numerose altre ordinanze - intervenne il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 aprile 2011. Quel d.P.C.m definì le misure umanitarie di protezione temporanea da assicurarsi nel territorio dello Stato italiano a favore di cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa (se affluiti nel territorio nazionale dal 1° gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 aprile 2011). Previde fosse loro rilasciato (dietro richiesta entro un certo termine) un permesso di soggiorno per motivi umanitari della durata di sei mesi (indi prorogata di sei mesi, con d.P.C.m. 6 ottobre 2011, e di ulteriori sei mesi, con d.P.C.m. 15 maggio 2012). Se non avessero avuto titolo a tale permesso di soggiorno, sarebbero stati oggetto di respingimento o espulsione. Il permesso di soggiorno così concesso "consente all'interessato, titolare di un documento di viaggio, la libera circolazione nei Paesi dell'Unione europea, conformemente alle previsioni della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1995 e della normativa comunitaria". Così l'articolo 2, comma 3 del d.P.C.m. 5 aprile 2011. Tale previsione era destinata a suscitare alcune reazioni in ambito europeo (con richiesta di chiarimenti da parte dell'allora Commissario europea agli Interni, sign.ra Malmstron) ed in particolare presso la confinante Francia, la quale reagì immediatamente (con un circolare del ministro dell'interno datata, si noti, 6 aprile 2011) che dettava le istruzioni alle autorità di frontiera. I permessi di soggiorno rilasciati da uno Stato terzo - ricordavano quelle istruzioni (richiamando l'articolo 21 della Convenzione di applicazione di Schengen del 19 giugno 1990) - avrebbero dovuto essere accompagnati da un documento di viaggio valido riconosciuto dalla Francia ed esser stati notificati alla Commissione europea. I titolari avrebbero dovuto beninteso non appartenere a categorie socialmente pericolose, e dimostrare di disporre dei mezzi di sussistenza sufficienti sia per la durata prevista del soggiorno sia per il ritorno nel Paese di provenienza o il transito verso un terzo Stato. In breve, ad una 'unilateralità' insita nel ricorso da parte italiana ex articolo 20 del Testo unico alla protezione temporanea per motivi umanitari - fuori dunque della protezione temporanea disciplinata dall'Unione europea - si giustappose una 'unilateralità' da parte francese nel controllo delle frontiere, curvando in senso restrittivo l'applicazione di Schengen. Ne seguì una tensione dialettica tale da richiedere un raffreddamento politico con un vertice bilaterale a fine aprile (tra gli allora presidenti della Repubblica francese Sarkozy e del Consiglio dei ministri italiano Berlusconi), i quali si rivolsero (con una lettera congiunta) alle istituzioni dell'Unione perché fosse trovata una composizione e più ampia soluzione innanzi all'afflusso di migranti. In tali missiva essi sollecitavano un nuovo partenariato con i Paesi terzi, una maggiore solidarietà tra gli Stati membri, una maggiore sicurezza nello spazio Schengen (rafforzando sia Frontex sia la governance dello spazio Schengen, e vagliando la possibilità di ristabilire temporaneamente controlli eccezionali alle frontiere esterne: a quest'ultima sollecitazione farà seguito il regolamento UE n. 1051 del 2013, circa il controllo di frontiera alle frontiere interne in circostanze eccezionali). Sul piano interno italiano, il 31 dicembre 2012 cessò lo stato di emergenza e si rientrò nella gestione ordinaria da parte del Ministero dell’interno e delle altre amministrazioni competenti, degli interventi concernenti l’afflusso di cittadini stranieri sul territorio nazionale (cfr. ordinanza del capo del dipartimento della protezione civile 28 dicembre 2012, n. 33). Una nota del Ministero dell’interno del 18 febbraio 2013 rilevò la capienza delle risorse residue onde assicurare per sessanta giorni il regime ordinario di accoglienza, prevedendo dopo tale periodo la corresponsione di 500 euro a persona quale misura di uscita. Con il d.P.C.m. del 28 febbraio 2013 fu disciplinata la cessazione delle misure umanitarie di temporanea protezione, prevedendo che i migranti così protetti potessero presentare, entro il 31 marzo 2013, domanda di rimpatrio assistito nel Paese di provenienza o di origine, oppure presentare domanda di conversione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari in permessi per lavoro, famiglia, studio e formazione professionale. In mancanza di una di queste due opzioni, si prevedeva l'espulsione.
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La legislazione italiana e lo straniero migrante. Il quadro normativo (e le sue stratificazioni) dagli anni Ottanta ad oggi
La prima regolamentazione - peraltro circoscritta ad alcuni profili lavoristici - del fenomeno immigratorio in età repubblicana risale ai primi anni Ottanta (legge n. 943 del 1986), connessa alla ratifica ed esecuzione di una convenzione internazionale (del 1975) dell'Organizzazione internazionale del lavoro, in materia di lavoratori migranti. Sul finire di quel medesimo decennio - nel quale si andava allestendo, con l'accordo di Schengen, la libera circolazione europea delle persone - la questione dell'immigrazione irruppe nell'agenda politica italiana (sullo sfondo, la scomposizione del blocco sovietico, con conseguenti flussi migratori e sbarchi clandestini). Il Parlamento si misurò allora con la conversione del decreto-legge n. 416 del 1989. Fu nel segno dell'urgenza e dell'emergenza (si registrò in Senato, impegnato in seconda lettura nella conversione del decreto-legge, un'applicazione del contingentamento dei tempi in Assemblea - strumento approntato con la riforma del Regolamento del Senato del 1988 - per la prima volta corredato dalla 'ghigliottina' degli emendamenti, allo scadere del sessantesimo giorno). La legge di conversione infine approvata (n. 39 del 1990: cd. 'legge Martelli') veniva a porre una prima articolata seppur parziale disciplina dell'immigrazione (sino allora retta da scarne disposizioni del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931). Essa recava disposizioni (oltre che su rifugiati e richiedenti asilo, con abolizione per questi della riserva geografica limitante il riconoscimento ai provenienti dall'Europa) sull'ingresso e sul soggiorno degli stranieri extra-comunitari (secondo il criterio di una programmazione annuale dei flussi di ingresso per ragioni di lavoro) nonché sull'espulsione (decisa dall'autorità giudiziaria o dal ministro dell'interno o dal prefetto, e corredata da alcune tutele giurisdizionali; si veniva a prevedere una espulsione amministrativa per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato). Insieme dispose una regolarizzazione dei cittadini extra-comunitari già presenti nel territorio dello Stato. Seguì il decreto-legge n. 187 del 1993 (cd. 'decreto Conso', convertito dalla legge n. 296 del 1993), intento in una sua parte a recare novelle in materia di espulsione (considerate talune difficoltà applicative nella allora recente disciplina dell'allontanamento, basata sulla scansione: intimazione ad abbandonare il territorio dello Stato, inottemperanza da parte dell'immigrato, ordine di espulsione). L'espulsione fu qui intesa anche come strumento alternativo alla detenzione, e "giustificata essenzialmente dall'interesse pubblico di ridurre l'enorme affollamento carcerario" (secondo passaggio della sentenza n. 62 del 1994 della Corte costituzionale, di non fondatezza di correlativa questione di legittimità costituzionale). Un tentativo di rivisitazione della normativa fu indi condotto ancora con decreto-legge, il n. 489 del 1995 (governo Dini). Nonostante plurime reiterazioni (ultimo della serie, il decreto-legge n. 477 del 1996), non giunse ad essere convertito in legge.
A fine anni Novanta si colloca la disciplina legislativa che, nel suo generale impianto (nonostante alcune successive parziali revisioni e a tratti revirements), tuttora regolamenta la materia dell'immigrazione. La legge n. 40 del 1998 (cd. 'legge Turco-Napolitano') pose infatti una articolata disciplina dell'immigrazione e della condizione dello straniero. Essa è poi rifluita nel Testo unico in materia di immigrazione, dettato dal decreto legislativo n. 286 del 1998 (suo regolamento attuativo, il d.P.R. n. 394 del 1999). Siffatta disciplina (applicabile ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione Europea e gli apolidi) si è prefissa da un lato la determinazione di politiche migratorie (mediante un documento programmatico triennale, da emanarsi con d.P.R, indi una annuale programmazione dell'ingresso degli stranieri per motivi di lavoro, con un cd. 'decreto flussi' emanato dal Presidente del Consiglio), dall'altro una organica definizione delle condizioni di ingresso e soggiorno dello straniero. Per quest'ultimo riguardo, convivono in quella disciplina un approccio solidaristico e di integrazione, per gli stranieri regolarmente soggiornanti (cui viene riconosciuta la titolarità di una pluralità di diritti sociali; ed essi possono conseguire, a talune condizioni, lo status di soggiornante di lungo periodo, a tempo indeterminato), ed altro di maggior rigore, verso gli stranieri 'irregolari'. Agli uni come agli altri sono comunque riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana. Fu posto allora il vigente divieto di espulsione o di respingimento immediato alla frontiera in presenza di "necessità di pubblico soccorso" (articolo 10, comma 2, lettera b) del Testo unico). Al contempo fu previsto, in quel caso come in taluni altri, il trattenimento, in forza di decreto del questore, dello straniero suscettibile di respingimento (dunque non immediato bensì) differito, in Centri di permanenza temporanea ed assistenza, per un termine che era in quella originaria previsione di venti giorni (prorogabili per altri trenta). Tale inedita detenzione amministrativa (quale modalità attuativa delle espulsioni coattive, là dove il respingimento immediato non fosse possibile) era nell'originario disegno normativo pur connesso ad una 'residualità' dell'accompagnamento alla frontiera, rispetto alla 'ordinaria' via (destinata peraltro a presto incontrare problemi di effettività di applicazione) della intimazione da parte del decreto prefettizio di espulsione a lasciare (entro quindici giorni dalla notifica) il territorio dello Stato. La Corte costituzionale ebbe comunque a pronunciarsi su tale trattenimento (previsto dall'articolo 14 del Testo unico), fornendo (ancorché mediante una sentenza interpretativa di rigetto della questione di costituzionalità: la n. 105 del 2001) lo spartito entro cui dover collocare le misure del trattenimento e dell'accompagnamento alla frontiera dello straniero, ravvisate quali incidenti sulla libertà personale, pertanto non adottabili al di fuori delle garanzie a questa rese dall'articolo 13 della Costituzione. Ancora la disciplina del '98 ha disposto il divieto (assoluto) di espulsione e respingimento dello straniero verso uno Stato in cui possa essere oggetto di persecuzione (per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religioni, opinioni politiche, condizioni personali o sociali), secondo il principio di non refoulement sancito da convenzioni internazionali, nonché il divieto (non assoluto) di espulsione di stranieri minorenni o donne in stato di gravidanza (o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio). Così come ha disposto sul ricongiungimento familiare. Misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali - anche in deroga alle disposizioni del Testo unico - venivano riconosciute come adottabili con decreto del Presidente del Consiglio (nei limiti delle disponibilità del Fondo nazionale per le politiche migratorie), per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri fatti di particolare gravità. E si veniva a prevedere (o inasprire) le pene contro chi organizzi o effettui immigrazioni clandestine (senza che costituiscano reato le attività di soccorso e di assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti di stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio). La normativa del '98 fu oggetto di una richiesta di referendum che abrogasse quel Testo unico. La richiesta fu dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale (con sentenza n. 31 del 2000), secondo cui l'eventuale abrogazione avrebbe prodotto un vuoto normativo, tale da non rendere assolvibili obblighi derivanti dai Trattati comunitari.
In avvio di anni Duemila, un mutato indirizzo politico portava all'approvazione della legge n. 189 del 2002 (cd. 'legge Bossi-Fini'). Pur muovendo entro l'alveo del Testo unico, essa vi immetteva un novero di misure più restrittive, sul duplice versante del flusso di ingressi e della immigrazione irregolare. Per il primo riguardo, quella legge mirava a più marcatamente condizionare l'ingresso e la permanenza degli stranieri al concreto esercizio di un'attività lavorativa (non già alla mera sua aspettativa: talché fu inciso il previgente permesso di soggiorno per un anno a fini di inserimento nel mercato del lavoro, dietro richiesta di uno 'sponsor' che garantisse su alloggio, sostentamento, copertura dei costi dell'assistenza sanitaria). Il 'contratto di soggiorno' si profilava come istituto chiave della nuova disciplina (ed era istituito uno sportello unico per l'immigrazione, presso ogni prefettura). Per il secondo riguardo, ossia la lotta contro l'immigrazione irregolare, essa incise sul regime delle espulsioni disposte dal prefetto - insieme stabilendo l'immediata esecutività del decreto motivato di espulsione, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell'interessato (profilo, questo, poi colpito dalla sentenza n. 222 del 2004 della Corte costituzionale: seguiva, da parte del legislatore con il decreto-legge n. 241 del 2004 convertito dalla legge n. 271, la collocazione presso il giudice di pace della competenza della convalida giurisdizionale). Quanto alle modalità esecutive dell'espulsione, la regola diveniva l'esecuzione da parte del questore mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (mantenendosi l'intimidazione a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di quindici giorni soltanto in caso di scadenza della validità del permesso di soggiorno da più di sessanta giorni e contestuale mancata richiesta di rinnovo - salvo che anche per tale caso il prefetto ravvisasse il pericolo di sottrazione dell'interessato all'esecuzione dell'espulsione). Si ampliava (a sessanta giorni) il termine di trattenimento nei centri di permanenza temporanea, nonché si rivedevano, in senso restrittivo, alcuni termini connessi al soggiorno. Senza incidere sulla configurazione dell'immigrazione clandestina come illecito amministrativo (fronteggiata in via preminente con lo strumento dell'espulsione amministrativa, oggetto dei nevralgici articoli 13 e 14 del Testo unico), erano introdotte o inasprite alcune disposizioni penalistiche, circa i delitti di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (avverso "atti diretti a procurare" l'ingresso illegale), di falso, di omesso e ingiustificato allontanamento da parte dello straniero inottemperante all'ordine questorile di lasciare lo Stato (veniva in questo caso previsto l'arresto immediato, seguito da nuova espulsione con esecuzione coattiva: previsione colpita dalla Corte costituzionale con sentenza n. 223 del 2004, perché misura coercitiva limitativa della libertà personale a fronte di mero illecito amministrativo; seguiva la 'replica' del legislatore con il decreto-legge n. 241 del 2004 come convertito dalla legge n. 271, di elevazione a delitto della fattispecie), di reingresso clandestino. E si disponeva circa la contravvenzione di impiego illegale di lavoratore straniero. Misure contro la tratta di persone furono indi dettate dalla legge n. 228 del 2003. Può infine ricordarsi come il decreto-legge n. 144 del 2005 (convertito dalla legge n. 155) abbia previsto un permesso di soggiorno a fini investigativi (in favore degli stranieri che prestino la loro collaborazione all’autorità giudiziaria o agli organi di polizia in relazione a delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico).
Nella seguente, breve XV legislatura (2006-2008), il tema della immigrazione figurava nuovamente in agenda. Tuttavia l'A.C. n. 2976 (cd. 'disegno di legge Amato-Ferrero'), recante delega legislativa per modificare la vigente disciplina dell'immigrazione e della condizione giuridica dello straniero, non ebbe modo di giungere ad alcuna approvazione. Può ricordarsi come allora sia giunto il decreto legislativo n. 251 del 2007 (di recepimento della direttiva comunitaria n. 83 del 2004), che pone la disciplina della protezione internazionale, nella bipartizione di questa in riconoscimento dello status di rifugiato e in protezione sussidiaria (ed intervenuta la successiva direttiva n. 95 del 2011, è stato varato il decreto-legislativo n. 18 del 2014). Quanto alle procedure ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale, la disciplina normativa è posta dal decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, come modificato dal decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, di recepimento della direttiva "procedure" n. 32 del 2013 e della direttiva "accoglienza" n. 33 del 2013. Altra possibile declinazione della protezione di matrice comunitaria, la protezione temporanea, è disciplinata dal decreto legislativo n. 85 del 2008. Sono profili già illustrati in precedenti riquadri illustrativi. Nella ancor seguente XVI legislatura, l'immigrazione si confermava tema di ormai preminente interesse politico-parlamentare. Ne discese l'approvazione del cd. 'pacchetto sicurezza', articolato in più provvedimenti. Infine approvati furono: il decreto-legge n. 92 del 2008; la legge n. 94 del 2009; la legge n. 85 del 2009 di ratifica del Trattato di Prüm (relativo all’approfondimento della cooperazione transfrontaliera a fini di contrasto di terrorismo, criminalità transfrontaliera e migrazione illegale; esso prevede, tra l’altro, l’istituzione di una banca dati del DNA volta a facilitare l'identificazione degli autori dei delitti); il decreto legislativo n. 159 del 2008 sullo status di rifugiato; il decreto legislativo n. 160 del 2008 sui ricongiungimenti familiari. E vi fu una dichiarazione di stato di emergenza per Campania, Lombardia e Lazio (poi estesa a Piemonte e Veneto), per la presenza di numerosi cittadini extracomunitari irregolari e nomadi stabilmente insediati (ma sul cd. 'piano nomadi' si pronunciò il Consiglio di Stato, ravvisandone l'illegittimità con sentenza n. 6050 del 2011). Può altresì ricordarsi il decreto-legge n. 151 del 2008, per la disposizione stanziamento per la costruzione di nuovi Centri di identificazione ed espulsione. Dei provvedimenti testé ricordati, il decreto-legge n. 92 del 2008 (convertito dalla legge n. 125) ha previsto (mediante modifica all'articolo 235 del codice penale) che il giudice ordini l'espulsione dello straniero condannato a reclusione superiore a due anni (anziché a dieci anni, com'era innanzi), dunque estendendo l'ambito di applicazione dell'istituto (ancorché il giudice altresì sia tenuto ad accertare il grado di pericolosità sociale del condannato). Inoltre ha previsto che la trasgressione all’ordine di espulsione o di allontanamento sia punita con la reclusione (da 1 a 4 anni) con l’arresto obbligatorio, anche al di fuori dei casi di flagranza, e si proceda con rito direttissimo; ha aumentato la pena per chi dichiara falsa identità; ha previsto la reclusione (da 1 a 6 anni) per chi alteri parti del proprio o dell’altrui corpo per impedire la propria o altrui identificazione. Ancora, quel decreto-legge introduceva una nuova circostanza aggravante comune (comportante l’aumento della pena fino ad un terzo), qualora il reato fosse stato commesso da soggetto che si trovasse illegalmente sul territorio nazionale (cd. aggravante di clandestinità, poi colpita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 249 del 2010, ravvisante l’illegittimità costituzionale di trattamento penale fondato su qualità personali dei soggetti derivanti dal compimento di atti estranei al fatto-reato). Il decreto-legge n. 92 del 2008 ha inoltre previsto una nuova fattispecie connessa al reato di favoreggiamento della permanenza di immigrati clandestini a scopo di lucro (quando il fatto sia commesso da due o più persone, ovvero riguardi la permanenza di cinque o più persone, la pena è aumentata da un terzo alla metà); ha introdotto il reato di cessione di immobile ad uno straniero irregolare; ha elevato la pena per il datore di lavoro che impieghi lavoratori clandestini. Del pari, ha inciso su profilo processuale, includendo i procedimenti relativi ai delitti commessi in violazione delle norme in materia di immigrazione tra quelli per i quali è assicurata priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza. Così come ha abbreviato il termine entro il quale l’autorità giudiziaria deve concedere o negare il nullaosta dello straniero sottoposto a procedimento penale che deve essere espulso (si ricorda che in caso l’autorità giudiziaria non provveda nei termini, il nulla osta si considera concesso). Ancora, ha conferito ai sindaci il compito di segnalare alle competenti autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza la condizione irregolare dello straniero (o del cittadino comunitario) per l’eventuale adozione di provvedimenti di espulsione o di allontanamento. Ed ha ridenonimato i Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) come Centri di identificazione ed espulsione (CIE). Entro il 'pacchetto sicurezza' sopra menzionato, la legge n. 94 del 2009 ha dettato ulteriori disposizioni. Senza ripercorrere l'intero loro spettro (dall'acquisto della cittadinanza per effetto di matrimonio alla repressione dello sfruttamento minorile con l’introduzione del delitto di impiego di minori nell’accattonaggio, dall'occupazione di suolo pubblico all'iscrizione anagrafica, dal money transfer alle condizioni dei rilascio o rinnovo dei permessi di soggiorno, alle 'ronde'), saliente può dirsene la introduzione della fattispecie penale (contravvenzionale) dell'ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (cd. reato di immigrazione clandestina, di cui all'articolo 10-bis allora inserito, del Testo unico). Suo giudice competente il giudice di pace, comminante l'ammenda prevista salvo che il fatto non costituisca più grave reato, sostituita in alcuni casi dall'espulsione - la cui 'centralità' nella complessiva disciplina era confermata dalla previsione che ai fini della sua esecuzione per lo straniero imputato di ingresso o soggiorno illegale, non fosse da richiedersi il nulla osta dell'autorità giudiziaria. Siffatto reato cd. di immigrazione clandestina è stato pur esso sottoposto al vaglio di costituzionalità. La sentenza n. 250 del 2010 della Corte costituzionale vi ha ravvisato un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore - in quanto, essa annotava in diritto, "il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è, in realtà, agevolmente identificabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria". "Il controllo giuridico dell’immigrazione – che allo Stato, dunque, indubbiamente compete (sentenza n. 5 del 2004), a presidio di valori di rango costituzionale e per l’adempimento di obblighi internazionali – comporta, d’altro canto, necessariamente la configurazione come fatto illecito della violazione delle regole in cui quel controllo si esprime. Determinare quale sia la risposta sanzionatoria più adeguata a tale illecito, e segnatamente stabilire se esso debba assumere una connotazione penale, anziché meramente amministrativa (com’era anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009), rientra nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, il quale ben può modulare diversamente nel tempo – in rapporto alle mutevoli caratteristiche e dimensioni del fenomeno migratorio e alla differente pregnanza delle esigenze ad esso connesse – la qualità e il livello dell’intervento repressivo in materia". Ancora la legge n. 94 del 2009 veniva a novellare il Testo unico per più riguardi, quali: il diniego dell’ammissione all’ingresso in Italia anche per condanna non definitiva, per gravi reati; l'inserimento del riferimento alle condanne per reati che prevedono l’arresto obbligatorio in flagranza, tra gli elementi da considerare ai fini della revoca o del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari; la previsione che la richiesta di iscrizione anagrafica dello straniero possa dar luogo alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile; l'introduzione di un contributo sul permesso di soggiorno; la previsione di un test di conoscenza della lingua italiana per il rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo; l'istituzione di un accordo di integrazione, da sottoscrivere al momento della richiesta del permesso di soggiorno, articolato in crediti (c.d. permesso di soggiorno 'a punti', su cui è intervenuto in via attuativa il d.P.R. n. 179 del 2011); l'obbligo di esibizione del permesso di soggiorno agli uffici della pubblica amministrazione anche ai fini del rilascio degli atti di stato civile o per l’accesso a pubblici servizi (ad eccezione delle prestazioni scolastiche obbligatorie e sanitarie); obbligo di presentazione di un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano da parte del cittadino straniero che vuole contrarre matrimonio in Italia (disposizione questa dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 245 del 2011). Per effetto di quella legge, il tempo massimo di permanenza nei Centri di identificazione e di controllo era esteso (da due) a sei mesi.
Un ulteriore 'tornante' normativo è stato il decreto-legge n. 89 del 2011 (convertito dalla legge n. 129). A cagionarlo è stata giurisprudenza comunitaria, ossia la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, 28 aprile 2011, caso El Dridi (C-61/11), ravvisante l'incompatibilità della cd. 'direttiva rimpatri' (2008/115/CE) con la normativa di uno Stato membro che prevedesse (e tale era il caso dell'articolo 14, comma 5-ter del Testo unico dell'immigrazione, introdottovi dalla legge del 2002) l'irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un Paese terzo, il cui soggiorno fosse irregolare per la sola ragione che questi permanesse nel territorio dello Stato membro violando senza giustificato motivo un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato. Ebbene il decreto-legge del 2011 (per la parte che qui rileva; altre disposizioni concernono la circolazione dei cittadini comunitari, onde attuare la direttiva 2004/38/CE) veniva a recepire (con ritardo) la 'direttiva rimpatri'. In particolare: ha escluso il reato di ingresso e soggiorno illegale per lo straniero in uscita dal territorio nazionale identificato durante i controlli di frontiera; ed ha stabilito i casi di applicabilità dell’esecuzione dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera (esistenza del rischio di fuga; domanda di permesso di soggiorno respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta; ingiustificata inosservanza del termine per la partenza volontaria, prevista dalla nuova disciplina; espulsione dello straniero disposta come sanzione penale e conseguenza di questa) nonché i casi - residuali - nei quali si proceda non già all’espulsione forzata bensì all’intimazione ad abbandonare il territorio dello Stato. Il trattenimento presso i Centri di identificazione ed espulsione qualora non sia possibile procedere all’espulsione, veniva previsto (non solo, come già era, per necessità di soccorso, accertamenti di identità o nazionalità, acquisizione di documenti per il viaggio, verifica della disponibilità di un mezzo di trasporto idoneo) anche per "situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l'effettuazione dell'allontanamento". Erano al contempo previste misure meno coercitive, alternative al trattenimento (consegna del passaporto, obbligo di dimora, obbligo di firma). Il termine massimo di trattenimento in quei Centri era esteso (da sei mesi, previsti dalla legge del 2009) a diciotto mesi. Ancora, il decreto-legge del 2011 ha sostituito, alla reclusione, sanzioni pecuniarie, in caso di inottemperanza all’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale - ferma restando la qualificazione come delitto delle forme di inottemperanza a provvedimenti amministrativi inerenti alla procedura esecutiva dell'espulsione. Ed ha introdotto (in conformità alla giurisprudenza costituzionale) l’esimente del "giustificato motivo" per il mancato allontanamento dal territorio nazionale.
Nel corso del 2011, si ebbe altresì una dichiarazione di emergenza su tutto il territorio nazionale (fino al 31 dicembre 2011, poi prorogata al 31 dicembre 2012). L'emergenza fu dapprima dichiarata nel febbraio 2011, in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa (d.P.C.M. 12 febbraio 2011; indi d.P.C.M. 8 ottobre 2011). Alla dichiarazione dello stato di emergenza conseguiva l’adozione di numerose ordinanze di protezione civile, con le quali affrontare un montante flusso immigratorio.
Tra i provvedimenti legislativi successivamente intervenuti, può ricordarsi il decreto-legge n. 93 del 2013 (convertito dalla legge n. 119), il quale (all'articolo 4) sul contrasto alla violenza di genere ha introdotto nel Testo unico l'articolo 18-bis. Questo prevede il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari alle vittime straniere di atti di violenza in ambito domestico. La finalità del permesso di soggiorno è consentire alla vittima straniera di sottrarsi alla violenza. O il decreto-legge n. 146 del 2013 (convertito dalla legge n. 10 del 2014), recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria. Esso introduce anche alcune disposizioni in materia di trattenimento degli immigrati. In particolare, incide sulla disciplina dell'espulsione come misura alternativa alla detenzione, ampliando il campo di possibile applicazione della misura e prevedendo una velocizzazione delle procedure di identificazione (articolo 6). Inoltre, tra le varie funzioni attribuite al neo-istituito (dall'articolo 7) Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, sono previste verifiche in relazione al trattenimento dello straniero nei Centri di identificazione ed espulsione, alle modalità del trattamento, al loro funzionamento, all'attività di prima assistenza e soccorso. Il decreto legislativo n. 24 del 2014 ha dato recepimento alla direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime. Il decreto-legge n. 119 del 2014 (convertito dalla legge n. 146) ha previsto la riduzione degli obiettivi del Patto di stabilità interno per i i Comuni interessati da flussi migratori. Ed ha dettato disposizioni nella specifica materia della protezione internazionale. A tal fine, oltre ad un incremento delle risorse, ha elevato il numero delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale – che passano da dieci a venti - e previsto il loro insediamento presso le prefetture, le quali forniscono il necessario supporto organizzativo e logistico; ed ha elevato a trenta il numero delle sezioni composte da membri supplenti, insieme introducendo misure per incrementarne la celerità nelle decisioni. In materia di protezione internazionale, la legge n. 154 del 2014 (articolo 7) reca delega al Governo (con termine di suo esercizio 20 luglio 2019) per l'adozione di un Testo unico delle disposizioni di attuazione della normativa dell'Unione europea. La legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità 2015) ha incrementato risorse del Fondo per i richiedenti asilo, ed ha previsto che i minori stranieri non accompagnati accedano ai servizi di accoglienza finanziati dal Fondo per l'asilo, anche se non abbiano presentato domanda di riconoscimento dello status di rifugiato (articolo 1, comma 181-183).
Menzione a sé va riservata alla legge n. 67 del 2014, la quale è venuta a disporre in materia di pene detentive non carcerarie e di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili. Rilevante in essa è la previsione - recata all'articolo 2, comma 3, lettera b) - di una delega (il cui termine di esercizio è di diciotto mesi) al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio dei reati. Tra i principi e criteri direttivi per l'esercizio della delega, figura l'abrogazione del reato di ingresso e soggiorno illegale, con sua trasformazione in illecito amministrativo (com'era prima della legge n. 94 del 2009, la quale, si è ricordato, introdusse l'articolo 10-bis nel Testo unico, recante una nuova fattispecie di reato di ingresso e soggiorno illegale, punito come contravvenzione con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro, attribuito alla competenza del giudice di pace). Il principio di delega prevede che conservino rilievo penale le condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia, vale a dire dei provvedimenti di espulsione già adottati. Pertanto dovrà restare penalmente rilevante il reingresso in violazione di un provvedimento di espulsione. Per i reati trasformati in illeciti amministrativi (dunque anche per l'ingresso e soggiorno illegale) il Governo dovrà prevedere sanzioni adeguate e proporzionate alla gravità della violazione, all'eventuale reiterazione dell'illecito, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle sue conseguenze, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche, e comunque sanzioni pecuniarie comprese tra 5.000 e 50.000 euro nonché eventuali sanzioni amministrative accessorie consistenti nella sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti dell'amministrazione; dovrà consentire la rateizzazione ma anche il pagamento in misura ridotta. Vale ricordare che fino a quando non sia emanato ed entri in vigore decreto legislativo recante siffatta disciplina, permane la normativa vigente - e dunque, la configurazione dell'ingresso e soggiorno illegale quale reato. La depenalizzazione è infatti mero principio di delega, nel dettato della legge n. 67; e circa l'ingresso e soggiorno illegale, essi non sono ricompresi dai decreti legislativi (n. 7 e n. 8, del 2016) attuativi della depenalizzazione prevista dalla legge ricordata (l'articolo 1, comma 4 del decreto legislativo n. 8 espressamente esclude dalla depenalizzazione previstavi i reati di cui al Testo unico dell'immigrazione). Né la giurisprudenza comunitaria (con riferimento alle sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea: 6 dicembre 2012, caso Sagor, C-430/11; 21 marzo 2013, caso Mbaye, C-522/11) ha colpito il reato di immigrazione illegale, di contro ribadendo l'orientamento secondo il quale la cd. 'direttiva rimpatri' non vieta ad uno Stato membro di qualificare il soggiorno irregolare quale reato e punirlo con sanzioni penali. La sentenza della Corte di giustizia sopra per prima richiamata, se non ha obiettato contro il reato di immigrazione illegale, ha contestato alcune modalità di sua sanzione, ravvisando l'incompatibilità con la direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) di alcune disposizioni del decreto-legge n. 89 del 2011 di suo recepimento. La prima misura contestata risiede nella previsione, contenuta nella disciplina sulla competenza penale del giudice di pace, che la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converta, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi. Se il condannato non richiede di svolgere il lavoro sostitutivo oppure si sottrae ad esso, si applica l'obbligo di permanenza domiciliare al massimo di 45 giorni (articolo 55 del decreto legislativo n. 274 del 2000). Secondo la Corte di giustizia, la previsione dell'obbligo della permanenza domiciliare applicata allo straniero irregolare contraddice il principio della direttiva secondo il quale l'allontanamento deve essere adempiuto con la massima celerità. È vero che il giudice può sostituire la pena dell'ammenda con l'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni (articolo 16, comma 1, del Testo unico). Ma in questo caso l'espulsione è immediata (ivi, comma 2). E qui interviene la seconda censura della Corte di giustizia, secondo cui sì la facoltà di sostituire l'ammenda con l'espulsione non è di per sé vietata dalla 'direttiva rimpatri', tuttavia l'espulsione immediata (ossia senza la concessione di un periodo di tempo per la partenza volontaria) può essere disposta esclusivamente in presenza di stringenti condizioni (quali il pericolo di fuga ecc.). E "qualsiasi valutazione al riguardo deve fondarsi su un esame individuale della fattispecie in cui è coinvolto l'interessato": quindi non può applicarsi automaticamente allo straniero per il solo fatto di essere in posizione irregolare e condannato per il reato di immigrazione clandestina. Per ottemperare a siffatta pronuncia del giudice comunitario, è intervenuto l'articolo 3 della legge n. 161 del 2014. Di questo, va altresì ricordata la disposizione che riduce a 90 giorni il periodo massimo di trattenimento dello straniero nei centri di identificazione ed espulsione (CIE). A tal fine, ha modificato l'articolo 14, comma 5 del Testo unico. Quella disposizione, nel testo previgente, prevedeva che la convalida da parte del giudice della decisione di trattenimento comportasse una permanenza nel CIE di 30 giorni. Nel caso in cui tale periodo non fosse stato sufficiente all'identificazione dell'interessato o all'acquisizione dei documenti necessari per il rimpatrio, il giudice poteva disporre una proroga del trattenimento per altri 30 giorni, ulteriormente prorogabili dietro richiesta del questore, una prima volta di 60 giorni e poi di altri 60 giorni, fino ad un massimo di 180 giorni. Solo in alcuni casi specifici (ossia quando non fosse stato possibile procedere all'allontanamento a causa della mancata cooperazione del Paese terzo interessato al rimpatrio del cittadino o di ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi) il questore poteva chiedere ulteriormente al giudice di pace la proroga del trattenimento, di volta in volta, per periodi non superiori a 60 giorni, fino ad un termine massimo di ulteriori 12 mesi. Tale scansione temporale, calibrata dal decreto-legge n. 89 del 2011 - di per sé compatibile con la normativa comunitaria (direttiva 2008/115/CE, cd. 'direttiva rimpatri', articolo 15, par. 5 e 6) - è stata modificata dalla legge n. 161 del 2014, sia sopprimendo la possibilità della ulteriore proroga di 12 mesi, oltre ai 180 giorni, sia riducendo il termine massimo di 180 giorni alla metà (90 giorni). Qualora lo straniero sia stato già trattenuto in carcere per un periodo pari a 90 giorni (ossia per un tempo corrispondente a quello divenuto massimo di trattenimento nei CIE), può essere trattenuto in un Centro per un periodo massimo di 30 giorni.
Il sistema di accoglienza è stato in parte ridisegnato dal decreto legislativo n. 142 del 2015, inteso al recepimento di due direttive dell'Unione europea in materia di protezione internazionale (la n. 32 e la n. 33, del 2013: rispettivamente direttiva 'procedure' e direttiva 'accoglienza', nel lessico dell'Unione). In ampia misura - riguardo alle strutture - tale disciplina muove sulla falsariga del "Piano nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di stranieri extracomunitari" (definito con intesa tra Stato, Regioni ed enti locali del 10 luglio 2014), inserendo la previsione di 'hub' temporanei appositamente destinati ad accoglienza straordinaria (in caso di saturazione delle strutture ordinarie, a seguito di flussi ravvicinati e numerosi). Inoltre il decreto legislativo n. 142 reca disposizioni su profili quali: l'accoglienza delle persone vulnerabili, primi fra tutti i minori, specie se non accompagnati; le procedure di esame delle domande di protezione internazionale; la durata dell'accoglienza nella pendenza di ricorso giurisdizionale; il trattenimento del richiedente. Riguardo al trattenimento, i casi di sua applicabilità sono determinati dall'articolo 6: di questo, i commi 2 e 3 delineano una applicazione del trattenimento che si direbbe, nell'insieme, più estesa rispetto a quanto innanzi previsto dall'articolo 21 del decreto legislativo n. 25 del 2008. Altre disposizioni dell'articolo 6 disciplinano, del trattenimento, la procedura di convalida e i termini. Il decreto legislativo n. 142 del 2015 dispone altresì, tra le sue molteplici previsioni, in materia di allontanamento ingiustificato da parte dello straniero dalla struttura di accoglienza (posto che i migranti ospitati in strutture di prima accoglienza o in strutture temporanee allestite in situazioni di emergenza non possono allontanarsene, pena la decadenza dalle condizioni di accoglienza disciplinate dalla normativa) (articolo 13). Ancora, il medesimo decreto legislativo n. 142 del 2015 reca disposizioni in materia di accoglienza e di suo sistema sul territorio, designato con l'acronimo SPRAR (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati), il quale si basa sulla rete di enti locali che vi aderiscono (fu istituzionalizzato dalla legge n. 189 del 2002). Si tratta della 'seconda accoglienza' (laddove la 'prima accoglienza' è assicurata nelle strutture in cui dovrebbero confluire i cittadini di Paesi terzi già registrati e sottoposti alle procedure di foto-segnalamento, per consentire loro la formalizzazione della domanda di protezione internazionale; i centri di 'prima accoglienza' possono essere gestiti da enti locali, anche associati, unioni o consorzi di Comuni, enti pubblici o enti privati che operano nel settore dell’assistenza dei richiedenti asilo o agli immigrati o nel settore dell’assistenza sociale). La 'seconda accoglienza' fa capo soprattutto allo SPRAR, che ha il suo referente nel Ministero dell’interno che dirama periodicamente il bando, ancorché vi giochino un ruolo peculiare le autorità locali (la rete SPRAR si basa su domande di contributo da parte degli enti locali per la realizzazione dei progetti), i quali vi partecipano presentando progetti di accoglienza (secondo criteri stabiliti da un decreto del medesimo ministero).
La legge n. 45 del 2016 ha istituito una Giornata nazionale della memoria delle vittime dell'immigrazione. È il 3 ottobre, giorno in cui (nel 2013) si ebbe un tragico naufragio di migranti a pochi chilometri dalle coste dell'isola di Lampedusa, con 366 vittime.
Tra le disposizioni poi giunte, può ricordarsi l'articolo 12 del decreto-legge n. 193 del 2016, oltre che per l'incremento per il 2016 delle risorse per i centri di trattenimento e di accoglienza per stranieri nonché per i Comuni che accolgano i richiedenti protezione internazionale, anche per la previsione (comma 2-bis) volta ad accordare priorità ai Comuni che accolgano richiedenti protezione internazionale, in sede di distribuzione degli spazi finanziari ceduti dalle Regioni di appartenenza (attraverso una modifica in tal senso dell'articolo 1, comma 729, della legge n. 208 del 2015). L'articolo 1, comma 630 della legge n. 232 del 2016 (legge di bilancio 2017) ha introdotto la facoltà di destinare una parte delle risorse (nel limite massimo di 280 milioni di euro) relative ai programmi operativi cofinanziati dai fondi strutturali e di investimento europei per il periodo 2014-2020, alle attività di trattenimento, accoglienza, inclusione e integrazione degli immigrati.
Il decreto-legge n. 13 del 2017 è venuto ad incidere (ma non esclusivamente) sugli istituti processuali - onde fronteggiare le difficoltà di smaltimento delle domande di protezione internazionale. Esso ha previsto: l'istituzione delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea; misure per la semplificazione delle procedure innanzi alle Commissioni territoriali (anche mercé un maggiore utilizzo della videoregistrazione) e delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei loro provvedimenti di diniego della protezione internazionale (con previsione del rito camerale, di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile); la partecipazione dei richiedenti protezione internazionale ad attività di utilità sociale; misure per l’accelerazione delle procedure di identificazione e per la definizione della posizione giuridica dei cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di migranti; disposizioni urgenti per assicurare l’effettività delle espulsioni e il potenziamento dei centri di permanenza per i rimpatri. Per maggiori approfondimenti, si rinvia al dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati n. 558 della XVII legislatura sul testo del disegno di legge conversione (A.C. n. 4394) infine approvato senza ulteriore modificazione e divenuto legge. Infine, la legge n. 47 del 2017 ha posto "Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati". Esse si applicano - in accordo con i principi fondamentali della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza - al “minore straniero non accompagnato” ovvero il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell’UE che si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato o che è altrimenti sottoposto alla giurisdizione italiana, privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili. Tra le principali misure introdotte, il testo (composto di 22 articoli) disciplina le procedure per l’accertamento dell’età e per l’identificazione; istituisce un elenco di “tutori volontari” presso i tribunali per i minorenni; integra il sistema di prima accoglienza dedicato esclusivamente ai minori con quello SPRAR; istituisce un Sistema informativo nazionale, dove confluisce la "cartella sociale" del minore. Può infine ricordarsi come l'articolo 1, comma 1122, lettera b) della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018) rechi uno stanziamento (di 500.000 euro per il 2018; di 1,5 milioni per ciascuno degli anni 2019 e 2020) per l'avvio sperimentale di un Piano nazionale per la realizzazione di interventi di ritorno volontario assistito. La disciplina del ritorno volontario assistito è posta dall'articolo 14-ter del Testo unico dell'immigrazione (articolo introdottovi dal decreto-legge n. 89 del 2011).
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Articolo 1, comma 2, lettera b); commi da 3 a 5
(In materia di controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei provvedimenti delle Commissioni territoriali o nazionale di diniego della "protezione speciale")
Queste disposizioni disciplinano le controversie relative ai provvedimenti sfavorevoli resi, in ordine al riconoscimento della "protezione speciale", dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale o dalla Commissione nazionale.
Si dispone che il giudice competente - ossia le Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, istituite (per effetto del decreto-legge n. 13 del 2017) presso ciascun Tribunale ordinario del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello - decidano con rito sommario di cognizione.
Il comma 2, lettera b) di questo primo articolo del decreto-legge modifica l'articolo 35-bis, comma 1 del decreto legislativo n. 25 del 2008, per coordinamento normativo con la nuova disciplina posta dal decreto-legge circa la protezione che esso definisce "speciale" (e non più "per motivi umanitari").
La disposizione del decreto-legislativo n. 25 che viene incisa (introdottavi dal decreto-legge n. 13 del 2017: suo articolo 6, comma 1, lettera g)) ha previsto che le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei provvedimenti di revoca o cessazione della protezione internazionale siano decise dall'autorità giudiziaria con il rito camerale, di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile (in luogo del rito sommario di cognizione da parte del tribunale distrettuale in composizione monocratica, com'era fino ad allora).
Tale previsione è venuta a costituire deroga a quanto previsto dall'articolo 742-bis del codice di procedura civile, in base al quale le disposizioni del codice si applicano a tutti i procedimenti in camera di consiglio "che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone".
Ebbene, la novella estende la previsione dell'applicazione del rito camerale altresì ai giudizi sul mancato riconoscimento dei presupposti per la protezione speciale (sostitutiva della protezione per motivi umanitari, ai sensi dell'articolo 32, comma 3 del decreto legislativo n. 25 così come novellato dall'articolo 1, comma 2, lettera a) del presente decreto-legge).
Le caratteristiche essenziali del procedimento camerale di cui agli articoli 737 ss. del codice di procedura civile possono essere così riassunte: il procedimento si attiva in genere con "ricorso" dell'interessato (art. 737 c.p.c.), si svolge in genere senza seguire forme rituali, non richiede espressamente la forma del contraddittorio (l'art. 738, 3° comma, c.p.c. prevede solo l'eventualità che il giudice assuma informazioni) e termina con l'adozione di un decreto (art. 737 c.p.c.) ? anche immediatamente esecutivo (art. 741, 2° comma, c.p.c.) ? suscettibile in genere (ma con talune eccezioni) di revoca o modifica da parte dello stesso giudice che lo ha emesso (art. 742 c.p.c.).
Il comma 3 modifica le disposizioni poste dall'articolo 3 del decreto-legge n. 13 del 2017. Quell'articolo, qui novellato, determina le competenze delle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, istituite presso ciascun tribunale ordinario del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello.
La lettera a) - per la quale è posta dal comma 4 una espressa clausola di invarianza finanziaria - si articola in tre numeri:
Ø il numero 1) reca una disposizione di coordinamento con quella di cui al comma 2, lettera b) sopra ricordato. Si assicura cioè che tra le competenze delle sezioni specializzate sia quella a giudicare delle controversie innescate da decisione delle Commissioni territoriali e nazionale ravvisanti la mancanza dei presupposti della "protezione speciale";
Ø il numero 2) attribuisce alla competenza delle sezioni specializzate le controversie in materia di diniego della "protezione speciale" proposta dalle Commissioni territoriali quando valutano la sussistenza del divieto di refoulement ai sensi degli articoli 32, comma 3, del decreto legislativo n. 25 del 2008 e dell'articolo 19, commi 1 e 1.1 del testo unico in materia di immigrazione di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998;
Ø il numero 3) precisa la competenza delle sezioni specializzate è a giudicare altresì delle controversie relative ai casi di protezione "speciale" di cui agli articoli 18, 18-bis, 19, comma 2, lettere d) e d-bis), 20-bis, 22, comma 12-quater, del Testo unico dell'immigrazione, quali rivisitati o introdotti dal decreto-legge. Sono rispettivamente situazioni di: esposizione a tratta; violenza domestica; donne in stato di gravidanza o nei sei mesi dalla nascita del figlio; condizioni di salute di eccezionale gravità; calamità che non consenta il rientro nel Paese di provenienza; particolare sfruttamento lavorativo.
Parrebbe suscettibile di approfondimento la formulazione del numero 3), là dove menziona l'articolo 19, comma 2, lettera d) del Testo Unico (relativa alla gravidanza e maternità nei sei mesi successivi), che non è stata incisa dal decreto-legge e che si pone come una condizione di inespellibilità dello straniero al pari di altre fattispecie previste dal medesimo articolo 19, comma 2 del Testo unico (minore età; convivenza con parenti entro il secondo grado o con il coniuge italiano; possesso della carta di soggiorno) invece non richiamate.
La lettera b) ancora del comma 3 di questo articolo 1 del decreto-legge reca una disposizione di coordinamento con quella di cui al comma 2, lettera b) sopra ricordato.
Si assicura in tal modo (novellando l'articolo 4-bis dell'articolo 3 del decreto-legge n. 13 del 2017) che il giudizio sulle controversie inerenti la mancanza dei presupposti della "protezione speciale" sia ricompreso tra quelli decisi dal tribunale in composizione collegiale, per la cui trattazione sia designato dal presidente della sezione specializzata un componente del collegio e per la cui soluzione il collegio decida in camera di consiglio sul merito della controversia quando ritenga che non sia necessaria una istruzione.
Il comma 5 dispone (mediante l'introduzione di un novello articolo 19-ter entro il decreto legislativo n. 150 del 2011) l'applicazione del rito sommario di cognizione innanzi alle sezioni specializzate per le controversie in materia di rifiuto di rilascio, diniego di rinnovo o revoca dei permessi di soggiorno di protezione speciale.
La competenza è della sezione specializzata del luogo in cui ha sede l'autorità che ha adottato il provvedimento.
È ripetuta la previsione che il tribunale giudichi in composizione collegiale e per la trattazione della controversia sia designato dal presidente della sezione specializzata un componente del collegio.
Il ricorso deve essere proposto entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento, a pena di inammissibilità - o entro sessanta giorni, se il ricorrente risieda all'estero.
Il ricorso può essere depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italiana (in questo secondo caso, l’autenticazione della sottoscrizione e l’inoltro alla autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedimento sono effettuate presso la medesima rappresentanza. La procura speciale al difensore è rilasciata altresì dinanzi alla autorità consolare).
Quando sia presentata istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato (ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 150 del 2011), l’ordinanza è adottata entro cinque giorni.
Il ricorso deve essere proposto entro trenta giorni dalla notificazione, ovvero sessanta, se il ricorrente risiede all’estero. Quando è presentata istanza di sospensiva, il giudice decide entro cinque giorni.
L’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile.
Il termine per proporre ricorso in Cassazione è fissato in trenta giorni (decorrenti dalla comunicazione dell’ordinanza a cura della cancelleria, da effettuarsi anche nei confronti della parte non costituita).
La procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione dell’ordinanza impugnata (a tal fine, il difensore certifica la data di rilascio in suo favore della procura).
Si applicano le disposizioni di cui ai commi 14 e 15 dell’articolo 35-bis del decreto legislativo n. 25 del gennaio 2008. E dunque: la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non opera nei procedimenti; la controversia è trattata in via di urgenza.
Articolo 2
(Prolungamento della durata massima del trattenimento dello straniero nei Centri di permanenza per il rimpatrio
e disposizioni per la realizzazione dei medesimi Centri)
L'articolo 2 è diretto a prolungare il periodo massimo di trattenimento dello straniero all'interno dei Centri di permanenza per i rimpatri.
Autorizza, inoltre, a ricorrere alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara (art. 63 del codice dei contratti pubblici) al fine di assicurare una tempestiva messa a punto dei Centri medesimi.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato gli emendamenti 2.11 (testo 2) e 2.12 (testo 2).
I Centri di identificazione ed espulsione (Cie) hanno assunto la denominazione di Centri di permanenza per i rimpatri per effetto della disposizione di cui all'art. 19, comma 1, del decreto-legge n. 13 del 2017.
In essi sono trasferiti gli stranieri che: si trovano in una posizione irregolare; all'esito delle attività di screening sanitario, pre-identificazione, nonché delle attività investigative, decidono di non presentare domanda di protezione internazionale; si rifiutano di essere foto-segnalati.
L'art. 19 del decreto-legge n. 13 ha previsto l'adozione di iniziative volte a realizzare l'ampliamento della rete dei centri di permanenza per i rimpatri, assicurandone la distribuzione sull'intero territorio nazionale, posto che la capacità di accoglienza di tali strutture risulta funzionale a garantire l'efficacia delle procedure di rimpatrio.
Il comma 1 eleva da 90 a 180 giorni il periodo massimo di trattenimento dello straniero all'interno dei Centri di permanenza per i rimpatri (lettera a)).
Eleva parallelamente da 90 a 180 giorni il periodo di trattenimento dello straniero presso le strutture carcerarie, superato il quale lo straniero può essere trattenuto presso il centro di permanenza per i rimpatri per un periodo massimo di 30 giorni (lettera b)).
Dall'attuazione delle disposizioni di cui al comma 1 non devono derivare nuovi o maggiori oneri di finanza pubblica, prescrive il comma 3.
La durata massima del trattenimento degli stranieri presso i Centri di permanenza per i rimpatri è stabilita - nel contesto della disciplina dell'esecuzione dell'espulsione - dall'art. 14, comma 5, del testo unico sull'immigrazione di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998.
Il trattenimento pre-espulsivo
Nei centri di permanenza per i rimpatri sono trattenuti, per il tempo strettamente necessario, gli stranieri per i quali non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione a causa di ostacoli quali la necessità di prestare soccorso dello straniero, di effettuare accertamenti sulla sua nazionalità e identità, di acquisire i documenti per il viaggio e di reperire un idoneo vettore (art. 14, comma 1, del testo unico sull'immigrazione).
Si tratta del cd. "trattenimento pre-espulsivo".
Il trattenimento nel centro di permanenza per i rimpatri è disposto dal questore e sottoposto a convalida del giudice di pace.
Come asserito dalla Corte costituzionale, il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale e, come tale, non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione (sentt. 105/2001 e 222/2004).
Il provvedimento di trattenimento risulta, pertanto, legittimo solo in presenza dei casi indicati dalla legge e subordinatamente al controllo da parte del giudice della convalida.
La Corte precisa che il provvedimento del questore di trattenimento in un centro di permanenza temporanea "deve essere trasmesso al giudice senza ritardo e comunque entro le quarantotto ore ed è assoggettato alla convalida 'nei modi di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile, sentito l’interessato', con cessazione di 'ogni effetto qualora non sia convalidato nelle quarantotto ore successive' (art. 14, comma 4). La convalida dell’autorità giudiziaria riguarda anche l’eventuale provvedimento di proroga del trattenimento, con possibilità di ricorso in Cassazione (art. 14, comma 6)" (sent. n. 222/2004).
La proroga del trattenimento
Il comma 5 dell'art. 14 - i cui periodi quinto e sesto sono oggetto di novella da parte del comma in esame - disciplina la proroga dei termini di trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri.
Tra le diverse modifiche intervenute sul comma 5 nel corso del tempo, la legge n. 161 del 2014 aveva ridotto a 90 giorni il termine massimo di trattenimento, precedentemente fissato in 180 giorni.
Con la modifica apportata dal decreto-legge in esame viene ripristinato il più ampio termine di 180 giorni.
Il comma 5 prevede che la convalida del provvedimento di trattenimento da parte del giudice di pace comporti la permanenza nel centro per un periodo di 30 giorni, prorogabili di ulteriori 30 qualora l'accertamento dell'identità e della nazionalità ovvero l'acquisizione di documenti per il viaggio presentino gravi difficoltà. La proroga è disposta dal giudice, su richiesta del questore.
Trascorso tale termine, il questore può chiedere al giudice di pace una o più proroghe, qualora siano emersi elementi concreti che consentano di ritenere probabile l'identificazione ovvero le proroghe risultino necessarie per organizzare le operazioni di rimpatrio.
In ogni caso il periodo massimo di trattenimento dello straniero all'interno del centro di permanenza per i rimpatri non poteva essere superiore a 90 giorni. Essi divengono 180 per effetto della modifica introdotta dal decreto-legge in commento.
Lo straniero, già trattenuto presso le strutture carcerarie per un periodo pari a quello di 90 giorni (180 a seguito dell'entrata in vigore del decreto-legge in esame), può essere trattenuto presso il centro per un periodo massimo di 30 giorni, prorogabili di ulteriori 15 giorni, previa convalida da parte del giudice di pace, nei casi di particolare complessità delle procedure di identificazione e di organizzazione del rimpatrio.
Nella relazione illustrativa del disegno di legge di conversione si specifica che il prolungamento dei termini di trattenimento disposto dal comma in esame risulta conforme a quanto previsto dall'art. 18 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2008/115/CE ("Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare"), il quale, al paragrafo 1, autorizza gli Stati membri a prevedere tempi più lunghi per il riesame giudiziario e misure urgenti in deroga alla disciplina del trattenimento nei casi in cui un numero eccezionalmente elevato di cittadini di Paesi terzi da rimpatriare comporti "un notevole onere imprevisto per la capacità dei centri di permanenza temporanea di uno Stato membro o per il suo personale amministrativo o giudiziario".
In relazione alle modalità di svolgimento del procedimento di proroga, la giurisprudenza ha precisato che anche per la decisione relativa alla richiesta di proroga devono essere assicurate le garanzie del contraddittorio - consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell’audizione dell’interessato - previste espressamente dall’art. 14, comma 4, per il primo trattenimento (Corte di cassazione-Sez. Civile n. 4544 del 24 febbraio 2010, n. 13767 dell’8 giugno 2010, n. 15223/2013).
Più recentemente (6 ottobre 2016) la Corte europea dei diritti dell'uomo - nella causa Richmond Yaw e altri c. Italia - ha condannato l’Italia a risarcire il danno causato ad alcuni cittadini ghanesi per il mancato rispetto del contraddittorio nel procedimento di proroga del trattenimento.
Il comma 2 consente - al fine di assicurare la tempestiva esecuzione dei lavori di costruzione, completamento, adeguamento ovvero ristrutturazione dei Centri di permanenza per i rimpatri - di ricorrere alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, la cui applicazione è circoscritta ai casi e alle circostanze indicati dall'art. 63 del codice dei contratti pubblici.
Il ricorso a tale procedura è autorizzato per un periodo non superiore a 3 anni dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame e per lavori di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria.
Nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza e rotazione, l’invito contenente l’indicazione dei criteri di aggiudicazione deve essere rivolto ad almeno 5 operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei.
L'art. 63 del decreto legislativo n. 50 del 2016 (codice dei contratti pubblici) fissa casi e circostanze in cui le amministrazioni aggiudicatrici possono aggiudicare appalti pubblici mediante una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, dando conto, con adeguata motivazione, della sussistenza dei relativi presupposti.
In particolare, il comma 6 dell'art. 63 dispone che le amministrazioni aggiudicatrici individuino gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economica e finanziaria e tecniche e professionali desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e selezionino almeno 5 operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei.
L'amministrazione aggiudicatrice è tenuta a scegliere l'operatore economico che ha offerto le condizioni più vantaggiose (ai sensi dell'articolo 95 del codice dei contratti pubblici), previa verifica del possesso dei requisiti di partecipazione previsti per l'affidamento di contratti di uguale importo mediante procedura aperta, ristretta o mediante procedura competitiva con negoziazione.
La Commissione referente ha approvato gli emendamenti 2.11 (testo 2) e 2.12 (testo 2).
L'EMENDAMENTO 2.11 (testo 2) è volto a prevedere (ferma una clausola di invarianza finanziaria) una vigilanza dell'Autorità nazionale anticorruzione nella procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, attivata per lavori di costruzione, completamento, adeguamento ovvero ristrutturazione dei Centri di permanenza per i rimpatri.
Quella qui prevista è una vigilanza collaborativa, quale prevista dall'ordinamento (articolo 213, comma 3, lettera h) del codice dei contratti pubblici, decreto legislativo n. 50 del 2016) per "affidamenti di particolare interesse", attuata previa stipula di protocolli di intesa con le stazioni appaltanti richiedenti, finalizzata a supportarle nella predisposizione degli atti e nell'attività di gestione dell'intera procedura di gara.
L'EMENDAMENTO 2.12 (testo 2) è volto a prevedere uno specifico obbligo di pubblicità e trasparenza per gli enti gestori dei centri di accoglienza - nonché per gli enti gestori dei centri di permanenza per i rimpatri.
Tali enti sono tenuti - prevede la disposizione così proposta - a pubblicare la rendicontazione della gestione, sul proprio sito internet o sul sito del Ministero dell'interno.
La rendicontazione deve indicare le spesse effettivamente sostenute e le entrate percepite, ed essere redatta secondo i criteri stabiliti dalle convenzioni stipulate.
Articolo 3
(Trattenimento per la determinazione o la verifica dell’identità e della cittadinanza dei richiedenti asilo)
L'articolo 3 interviene sulla disciplina del trattenimento di stranieri che abbiano presentato domanda di protezione internazionale, recata dai decreti legislativi n. 142 del 2015 e n. 25 del 2008.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato l'emendamento 3.34 (v. infra).
Il comma 1 (mediante l'inserimento di un comma 3-bis nell'art. 6 del decreto legislativo n. 142) introduce due nuove ipotesi di trattenimento motivate dalla necessità di determinare o verificare l’identità o la cittadinanza dello straniero richiedente protezione internazionale (lettera a)).
L'art. 6 del decreto legislativo n. 142 del 2015 vieta di poter trattenere il richiedente protezione internazionale al solo fine di esaminare la sua domanda.
Enumera poi alcuni casi in cui il richiedente protezione internazionale è trattenuto nei Centri di permanenza per i rimpatri (se possibile, in appositi spazi di tali Centri).
Il trattenimento nei Centri in questione è, ad esempio, disposto nei confronti di soggetti che costituiscano un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica ovvero nei confronti di richiedenti protezione internazionale per i quali sussista rischio di fuga.
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2013/33/UE, recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, all'art. 8, par. 3, lett. a), pone tra le ipotesi di trattenimento del richiedente protezione internazionale la necessità di determinarne o verificarne l'identità o la cittadinanza.
Le nuove ipotesi di trattenimento introdotte dal comma in esame sono autorizzate in luoghi determinati e per tempi definiti.
In particolare i trattenimenti sono autorizzati:
ü allo scopo di determinare o verificare l’identità o la cittadinanza dello straniero richiedente protezione internazionale, per il tempo strettamente necessario, e comunque non superiore a 30 giorni: negli appositi punti di crisi individuati dall’articolo 10-ter, comma 1, del testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998).
L'articolo 10-ter è stato inserito nel testo unico sull'immigrazione dal decreto-legge n. 13 del 2017, che ha in tal modo disciplinato con fonte legislativa il metodo hotspot.
Il comma 1 dell'art. 10-ter individua due tipi di "appositi punti di crisi" dove condurre gli stranieri rintracciati in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunti nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare:
§ punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge n. 451 del 1995, vale a dire i tre centri dislocati lungo la frontiera marittima delle coste pugliesi per le esigenze di prima assistenza a favore di stranieri privi di qualsiasi mezzo di sostentamento e in attesa di identificazione o espulsione (di cui il decreto-legge n. 451 ha disposto l'istituzione).
Con il successivo regolamento di attuazione (decreto del Ministro dell'interno n. 233 del 1996) è stato previsto che i tre centri di accoglienza fossero istituiti nelle città di Brindisi, Lecce e Otranto, fatta salva la possibilità - in relazione al modificarsi dei flussi migratori e compatibilmente con le dotazioni di bilancio - di attivare nuove strutture in altri comuni o di chiudere, anche temporaneamente, quelle esistenti;
§ punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui all'art. 9 del decreto legislativo n. 142 del 2015, vale a dire i centri governativi di prima accoglienza istituiti con decreto del Ministro dell'interno per le esigenze di prima accoglienza e per l'espletamento delle operazioni necessarie alla definizione della posizione giuridica.
Prima della codificazione legislativa di cui all'art. 10-ter, il metodo hotspot era stato introdotto e regolato nell'ordinamento italiano con atti del Ministero dell'interno.
In particolare, la Roadmap del 28 settembre 2015 ha, tra l'altro, effettuato una ricognizione delle capacità del sistema di prima accoglienza, comprensivo dei posti di prima accoglienza disponibili nelle aree hotspot.
Gli hotspot sono stati individuati in alcune strutture situate presso porti di sbarco selezionati, dove vengono effettuate le procedure previste, come lo screening sanitario, la pre-identificazione, la registrazione, il foto-segnalamento e i rilievi dattiloscopici degli stranieri.
Il sistema di prima accoglienza è costituito da strutture appartenenti ad ex centri governativi (CARA/CDA e CPSA), che in seguito si sono riconfigurati come Regional Hubs.
Gli hubs sono strutture aperte, destinate a ricevere i cittadini di Paesi terzi - già registrati e sottoposti alle procedure di foto-segnalamento - che, avendo aderito alla procedura di ricollocazione, devono formalizzare la domanda di protezione internazionale.
ü qualora non sia stato possibile pervenire alla determinazione ovvero alla verifica dell’identità o della cittadinanza dello straniero richiedente protezione internazionale, per un periodo massimo di 180 giorni: nei Centri di permanenza per i rimpatri di cui all’art. 14 del testo unico sull'immigrazione, in conformità alle disposizioni relative alla proroga del trattenimento nei medesimi Centri (articolo 14, comma 5).
Per il trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri di cui all’art. 14 del testo unico sull'immigrazione, si rinvia all'illustrazione dell'art. 2.
Come specificato nella Roadmap del Ministero dell'interno, la possibilità di rimpatriare i migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale è soggetta alla loro identificazione. Alcuni Paesi di origine ritengono sufficiente l’accertamento della nazionalità, mentre per altri Paesi di origine è necessaria la completa identificazione del migrante da parte delle Autorità competenti.
Le lettere b) e c) del comma 1 in esame apportano modificazioni di coordinamento con il nuovo comma 3-bis (inserito dalla lettera a) del comma in esame) rispettivamente ai commi 7 e 9 dell'articolo 6 del decreto legislativo n. 142.
In particolare:
ü al comma 7 dell'articolo 6, la nuova ipotesi di trattenimento nei Centri di permanenza di cui al comma 3-bis, secondo periodo, è ricompresa nell'applicazione della disposizione che prevede la permanenza del richiedente protezione internazionale nella struttura di trattenimento, in conseguenza del ricorso giurisdizionale proposto contro la decisione di rigetto della Commissione territoriale che si pronuncia sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria (artt. 35 e 35-bis del decreto legislativo n. 25 del 2008).
Ai sensi del comma 7 dell'art. 6 la permanenza del richiedente nella struttura di trattenimento è consentita fino all'adozione del decreto di concessione o diniego della sospensione del provvedimento impugnato (art. 35-bis, comma 4, del decreto legislativo n. 25 del 2008), nonché per tutto il tempo in cui il richiedente è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale in conseguenza del ricorso proposto.
Le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale sono deputate a esaminare le domande di asilo e ad assumere le decisioni in merito a tali richieste.
ü al comma 9 dell'art. 6, le due nuove ipotesi di trattenimento nelle strutture di cui al comma 3-bis sono ricomprese tra i motivi che - una volta venuti meno - determinano la cessazione del trattenimento.
Il comma 2 introduce nel decreto legislativo n. 25 del 2008 modificazioni di coordinamento con la nuova ipotesi di trattenimento negli appositi punti di crisi individuati dall’articolo 10-ter, comma 1, del testo unico sull'immigrazione, introdotta dal comma 1.
In particolare:
ü la lettera a) inserisce il riferimento alle strutture di cui all'art. 10-ter nell’articolo 23-bis, comma 1, del decreto legislativo n. 25. Esso prevede, pertanto, la sospensione dell'esame della domanda di protezione internazionale nel caso in cui il richiedente si allontani senza giustificato motivo dalle strutture di accoglienza ovvero si sottragga alla misura del trattenimento nelle strutture di cui all'art. 10-ter (punti di crisi) e nei Centri di permanenza per i rimpatri;
ü la lettera b) inserisce il riferimento alle strutture di cui all'art. 10-ter nell’art. 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 25, che - a seguito della modifica intervenuta - include, tra i soggetti cui spetta un esame prioritario della domanda di protezione internazionale, i richiedenti per i quali sia stato disposto il trattenimento anche nei punti di crisi di cui all'art. 10-ter oltre che nei Centri di permanenza per i rimpatri;
ü la lettera c) inserisce il riferimento alle strutture di cui all'art. 10-ter nell’articolo 35-bis, comma 3, lettera a), del decreto legislativo n. 25. Esso - nel contesto della disciplina delle controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale - include dunque, tra le ipotesi in cui la proposizione del ricorso non determina la sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, il caso in cui il ricorso sia stato proposto da parte di un soggetto trattenuto anche nelle strutture di cui all’art. 10-ter oltre che nei Centri di permanenza per i rimpatri.
L'EMENDAMENTO 3.34 approvato dalla Commissione referente propone un ulteriore coordinamento normativo.
Esso prevede l'inserimento (entro l'articolo 7, comma 5, lettera e) del decreto-legge n. 146 del 2013) delle strutture degli appositi punti di crisi - individuati dall’articolo 10-ter, comma 1, del Testo unico sull'immigrazione quali centri di prima accoglienza (v. supra, comma 1, lettera a)) - quali luogo in cui il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale possa condurre la verifica del rispetto degli adempimenti connessi a diritti dello straniero.
Sono i diritti di essere assistito da un difensore nel procedimento di convalida del trattenimento e di essere trattenuto con il rispetto dei diritti fondamentali della persona (anche con libertà di colloquio all'interno del centro e con visitatori provenienti dall'esterno, in particolare con il difensore e con i ministri di culto), nonché connessi al funzionamento dei centri o comunque alle attività di accoglienza, assistenza e per le esigenze igienico-sanitarie, relative al soccorso dello straniero (cfr. articoli 20-23 del d.P.R. n. 394 del 1999, regolamento attuativo del Testo unico dell'immigrazione).
Chiude l'articolo una clausola di invarianza finanziaria, posta dal comma 3.
Articolo 4
(Modalità di esecuzione dell'espulsione)
L'articolo 4 introduce alcune modalità di temporanea permanenza dello straniero in attesa di provvedimento di espulsione.
In particolare, viene a prevedere che, ad alcune condizioni, tale permanenza possa aversi in luoghi diversi dai Centri di permanenza per il rimpatrio.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato gli emendamenti 4.6 e 4.600.
L'articolo novella l'articolo 13, comma 5-bis del Testo unico dell'immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998).
Il tema afferisce all'esecuzione del provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, disposto dal questore (nei casi previsti dal citato articolo 13, al comma 4).
Il provvedimento deve essere - secondo la norma vigente, per questa parte immodificata - comunicato al giudice di pace territorialmente competente, il quale decide della sua convalida (entro le quarantotto ore successive alla comunicazione del provvedimento alla cancelleria). Fino alla decisione della convalida, l'esecuzione del provvedimento di espulsione è sospesa. Intervenuta la convalida, il provvedimento di accompagnamento alla frontiera diventa esecutivo (avverso il decreto di convalida è proponibile ricorso per cassazione, tuttavia il relativo ricorso non sospende l'esecuzione dell'allontanamento dal territorio nazionale).
Recita l'articolo comma 13, comma 5-bis che "in attesa della definizione del procedimento di convalida, lo straniero espulso è trattenuto in uno dei Centri di permanenza per i rimpatri [di cui all'articolo 14 del Testo unico; sono stati così ridenominati dall'articolo 19, comma 1 del decreto-legge n. 13 del 2917, innanzi erano i centri di identificazione ed espulsione - CIE], salvo che il procedimento possa essere definito nel luogo in cui è stato adottato il provvedimento di allontanamento anche prima del trasferimento in uno dei centri disponibili".
A tale dettato, l'articolo aggiunge una previsione relativa al caso non vi sia disponibilità di posti nei Centri di permanenza per i rimpatri o "in quelli ubicati nel circondario del Tribunale competente" (parrebbe suscettibile di approfondimento il grado di determinatezza della espressione: "quelli"; l'EMENDAMENTO 4.600 approvato dalla Commissione referente ne propone la soppressione).
In questa ipotesi di indisponibilità di posti, si viene a prevedere che su richiesta del questore, il giudice di pace possa autorizzare (con il decreto di fissazione dell'udienza di convalida) la temporanea permanenza dello straniero in "strutture diverse e idonee", nella disponibilità dell'Autorità di pubblica sicurezza. Questo, fino alla definizione del procedimento di convalida.
L'EMENDAMENTO 4.6 approvato dalla Commissione referente propone l'inserimento della espressa previsione che le strutture e i locali sopra ricordati garantiscano "condizioni di trattenimento che assicurano il rispetto della dignità della persona".
Per le disposizioni fin qui riportate, è prevista - dal comma 2 - una clausola di invarianza finanziaria.
Non così per le previsioni che seguono.
L'articolo in esame aggiunge infatti che qualora le condizioni di indisponibilità dei posti permangano anche dopo l’udienza di convalida, il giudice possa autorizzare la permanenza, in locali idonei presso l’ufficio di frontiera interessato, sino all’esecuzione dell’effettivo allontanamento e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida.
Ad avviso della relazione illustrativa del disegno di legge, "la norma è in linea con la direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008 in materia di rimpatri che non esclude che il trattenimento dei cittadini di Paesi terzi possa essere disposto in luoghi diversi da quelli all’uopo destinati, atteso che il considerando n. 17 e l’articolo 16 della citata Direttiva prevedono che il trattenimento debba avvenire “di norma” presso gli appositi centri di permanenza temporanea, non escludendo pertanto possibili luoghi idonei alternativi".
Ancora rileva la relazione illustrativa come la disposizione sia analoga a quella di cui all’articolo 558, comma 4-bis, del codice di procedura penale, con riferimento all’ipotesi ivi prevista della convalida dell’arresto e giudizio direttissimo.
Per siffatta disposizione del decreto-legge, relativa all'autorizzazione alla permanenza resa dal giudice fino all'esecuzione dell'effettivo allontanamento, il citato comma 2 prevede uno stanziamento - relativo all'anno 2019 - pari a 1,5 milioni di euro.
Tali risorse sono a valere sul Fondo asilo, migrazione e integrazione (cd. FAMI ossia lo strumento finanziario istituito con Regolamento UE n. 516/2014 con l’obiettivo di promuovere una gestione integrata dei flussi migratori, in ordine ai molteplici aspetti del fenomeno: asilo, integrazione e rimpatrio; la dotazione finanziaria comunitaria complessivamente attribuita all’Italia è pari ad € 381,48 milioni di euro).
Dalla Relazione al Parlamento 2018 del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: ad aprile 2018 risultano operativi 5 Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) con una capienza complessiva pari a 538 posti:
- Roma con una capienza di 125 posti per ospiti di sesso femminile;
- Bari con una capienza di 90 posti per ospiti di sesso maschile;
- Brindisi con una capienza di 48 posti per ospiti di sesso maschile;
- Torino con una capienza di 175 posti per ospiti di sesso maschile;
- Potenza con una capienza di 100 posti per ospiti di sesso maschile.
Il Centro di Caltanissetta risulta temporaneamente chiuso per lavori di ristrutturazione che si sono resi necessari a seguito dei danneggiamenti determinati alla struttura da alcuni ospiti nel mese di dicembre dello scorso anno.
Nel Rapporto indirizzato dal Garante al Ministero dell'interno in data 6 settembre 2018 (riferito, tuttavia, a visite effettuate nei 4 Cpr di Bari, Brindisi, Potenza e Torino a febbraio-marzo 2018), per il Centro di Palazzo San Gervasio-Potenza viene riportato, al momento della visita, il dato di una capienza effettiva pari a 72 posti, "che diventeranno 152 a lavori completati".
Peraltro - nel rendere le comunicazioni sulle linee programmatiche del proprio Dicastero di fronte alle Commissioni congiunte Affari costituzionali della Camera e del Senato (seduta del 25 luglio 2018) - il Ministro dell'interno ha asserito che "i CPR attualmente attivi sono sei (Torino, Roma, Bari, Brindisi, Palazzo S. Gervasio (Pz) e Caltanissetta) per una disponibilità complessiva di 880 posti".
Il Ministro ha inoltre annunciato, entro il corrente anno, la riattivazione di nuovi centri - per circa 400 posti - attraverso la riconversione dell’ex carcere di Macomer (in provincia di Nuoro), il ripristino della funzionalità del centro di Modena (ex Cie) e la riconversione dei due centri di Gradisca d’Isonzo e di Milano, già operativi come centri di accoglienza per richiedenti asilo.
Per l’anno 2019 viene annunciata la realizzazione di ulteriori centri e l'individuazione di altri siti nelle regioni attualmente prive di Cpr.
Il Fondo Asilo Migrazione e Integrazione (FAMI) è finanziato dal bilancio dell’Unione Europea per il periodo di programmazione 2014/20. In tale fondo sono confluiti i seguenti fondi del periodo precedente 2007/13: il FEI (fondo europeo integrazione cittadini paesi terzi), FER (Rifugiati), FR (rimpatri).
Il FAMI è disciplinato dai Reg. (UE) 514/2014 e 516/2014. Le risorse del FAMI si attivano a cura degli Stati Membri mediante specifichi programmi nazionali. Il Programma Nazionale dell’Italia è a titolarità del Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione ed è il documento programmatico elaborato dall’Italia per la definizione degli obiettivi strategici e operativi nonché degli interventi da realizzare con la dotazione finanziaria a disposizione.
Obiettivo del FAMI è in particolare quello di promuovere una gestione integrata dei flussi migratori sostenendo tutti gli aspetti del fenomeno: asilo, integrazione e rimpatrio.
Il Fondo offre un supporto agli Stati per perseguire i seguenti obiettivi:
· rafforzare e sviluppare tutti gli aspetti del sistema europeo comune di asilo, compresa la sua dimensione esterna;
· sostenere la migrazione legale verso gli Stati membri in funzione del loro fabbisogno economico ed occupazionale e promuovere l’effettiva integrazione dei cittadini di Paesi terzi nelle società ospitanti;
· promuovere strategie di rimpatrio eque ed efficaci negli Stati membri, che contribuiscano a contrastare l’immigrazione illegale, con particolare attenzione al carattere durevole del rimpatrio e alla riammissione effettiva nei paesi di origine e di transito;
· migliorare la solidarietà e la ripartizione delle responsabilità fra gli Stati membri, specie quelli più esposti ai flussi migratori e di richiedenti asilo, anche attraverso la cooperazione pratica.
Articolo 5
(In materia di divieto di reingresso)
L’articolo 5 novella disposizione del Testo unico dell'immigrazione, aggiornando un riferimento normativo e disponendo circa l'ambito di applicazione del divieto di reingresso dello straniero espulso.
Questo articolo novella l'articolo 13, comma 14-bis del Testo unico in materia di immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998), esplicitando che il divieto di reingresso nei confronti dello straniero destinatario di un provvedimento di espulsione abbia efficacia nell'intero spazio Schengen nonché negli Stati non membri dell'Unione europea cui comunque si applichi l'acquis di Schengen.
Secondo la disciplina vigente, lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione non può rientrare nel territorio dello Stato (salvo speciale autorizzazione del Ministro dell'interno). Tale divieto è presidiato dalla sanzione di una reclusione da uno a quattro anni (indi da una nuova espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera).
Il divieto di reingresso è registrato dall'autorità di pubblica sicurezza e inserito nel sistema di informazione Schengen.
La novella aggiorna il riferimento normativo europeo, menzionando il Regolamento (CE) n. 1987/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 2006.
È il regolamento intervenuto a disciplinare il cd. SIS II, vale a dire l'istituzione, l’esercizio e l’uso del Sistema d’Informazione Schengen di seconda generazione.
La novella altresì scandisce che l'iscrizione nel sistema informativo Schengen comporta il divieto di ingresso e soggiorno nel territorio degli Stati membri dell'Unione europea (nonché negli Stati non membri cui si applichi l'acquis di Schengen).
Siffatta previsione non può essere che mero ribadimento di quanto normato a livello europeo. In particolare può ricordarsi come l'articolo 5, comma 1 del regolamento (CE) n. 562 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006, cd. codice frontiere Schengen, preveda quale condizione per l'ingresso in uno Stato membro di uno straniero cittadino di Paese terzo, di non essere segnalato nel SIS ai fini della non ammissione.
Quest'ultima previsione era stata anteceduta da una direttiva comunitaria relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi, cui ha dato recepimento nell'ordinamento italiano il decreto legislativo n. 12 del 2005.
Articolo 5-bis (em. 5.0.600)
(In materia di respingimento dello straniero disposto dal questore e suo inserimento nel sistema Schengen)
Prevede l'estensione al provvedimento di respingimento dell'applicazione delle disposizioni circa la convalida da parte del giudice di pace e la ricorribilità innanzi all'autorità giudiziaria, già vigenti per il provvedimento di espulsione.
Prevede altresì che il respingimento importi il divieto di reingresso, presidiato da specifiche sanzioni.
Tale divieto è inserito nel sistema d'informazione Schengen, comportando il divieto di ingresso e soggiorno negli Stati dell'Unione europea e dell'acquis Schengen.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 5.0.600.
Esso ha per oggetto il respingimento con accompagnamento alla frontiera disposto dal questore nei confronti degli stranieri che entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, siano fermati all'ingresso o subito dopo (o siano stati temporaneamente ammessi nel territorio solo per necessità di pubblico soccorso). javascript:wrap.link_replacer.scroll('102')
Ebbene, si viene a prevedere - mediante novelle all'articolo 10 del decreto legislativo n. 286 del 1998, Testo unico dell'immigrazione - che tale provvedimento di respingimento sia comunicato immediatamente (e comunque entro quarantotto ore) dal questore al giudice di pace, per la convalida (con sospensione dell'esecuzione, finché questa non intervenga entro le quarantotto ore successive), con le garanzie processuali (incluso il gratuito patrocinio) per la difesa dello straniero destinatario del provvedimento. Questo gli viene comunicato (insieme con le modalità di impugnazione) in lingua da lui conosciuta.
Avverso il respingimento è ammesso il ricorso per impugnazione innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria. Tali controversie sono disciplinate con rito sommario di cognizione, ed il giudizio è definito, in ogni caso, entro venti giorni dalla data di deposito del ricorso. L'ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile.
Tali previsioni sono introdotte mediante rinvio all'articolo 13, commi 5-bis, 5-ter, 7 ed 8 del Testo unico dell'immigrazione.
Allo straniero destinatario del provvedimento di respingimento è fatto divieto di reingresso nel territorio dello Stato - salva speciale autorizzazione del Ministro dell'interno. Tale previsione non si applica (per effetto del rinvio all'articolo 13, comma 13, terzo periodo del Testo unico) nei confronti dello straniero già espulso (o parrebbe da ritenersi, già respinto) per il quale sia stato autorizzato il ricongiungimento familiare.
Il divieto di reingresso opera per un periodo da tre a cinque anni, "tenuto conto delle circostanze pertinenti il singolo caso".
In caso di trasgressione, scattano le sanzioni: lo straniero "è punito" (rectius: condannato) con la reclusione da uno a quattro anni ed è espulso con accompagnato immediato alla frontiera.
E se già sia stato così condannato, allo straniero che faccia un nuovo ingresso illegale nel territorio italiano si applica altresì una pena da uno a cinque anni di reclusione.
Per siffatte fattispecie di violazione del divieto di reingresso, è previsto come obbligatorio l'arresto del trasgressore - anche fuori dei casi di flagranza - e si applica il rito direttissimo.
Si ricorda che l'articolo 10 del Testo unico, qui novellato, prevede (al comma 4) che le disposizioni sul respingimento non si applichino nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l'asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l'adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari.
L'autorità di pubblica sicurezza inserisce il divieto di reingresso nel sistema di informazione Schengen.
Il divieto di reingresso nel territorio italiano comporta il divieto di ingresso e soggiorno negli Stati membri dell'Unione europea e negli Stati non membri che comunque applichino le regole del sistema Schengen sulla circolazione delle persone.
Articolo 6
(Imputazione di risorse per i rimpatri)
L’articolo 6 assegna al Fondo rimpatri presso il Ministero dell'interno le risorse stanziate dalla legge di bilancio 2018 per l'avvio di un programma di rimpatrio volontario assistito.
Questo articolo non modifica gli stanziamenti; modifica, degli stanziamenti, la destinazione.
Per intendere questa modificazione, vale ricordare come il Testo unico dell'immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998) abbia istituito - all'articolo 14-bis - un Fondo rimpatri presso il Ministero dell'interno, finalizzato a finanziare le spese per il rimpatrio degli stranieri verso il Paese di origine ovvero di provenienza.
Il medesimo Testo unico dispone - all'articolo 14-ter - in materia di programmi di rimpatrio volontario ed assistito. Sono programmi attuati dal Ministero dell'interno, anche in collaborazione con le organizzazioni internazionali e intergovernative, con gli enti locali e con associazioni attive nell'assistenza agli immigrati.
A questi ultimi programma si rivolgeva l'articolo 1, comma 1122, lettera b) della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018).
Quel comma ha previsto - al fine di incrementare il ricorso alla misura del rimpatrio volontario assistito - l'avvio, in via sperimentale, di un Piano nazionale per la realizzazione di interventi di rimpatrio volontario assistito comprensivi di misure di reintegrazione e di reinserimento dei rimpatriati nel Paese di origine, per il periodo 2018-2020. Tale Piano avrebbe dovuto prevedere l'istituzione fino a un massimo di trenta sportelli comunali sì che svolgessero alcune funzioni (attività informative, di supporto, di orientamento e di assistenza sociale e legale per gli stranieri che possono accedere ai programmi di rimpatrio volontario assistito esistenti, in concorso con le associazioni più rappresentative degli enti locali e in accordo con le prefetture uffici territoriali del Governo, con le questure e con le organizzazioni internazionali; la formazione di personale interno; c l'informazione sui progetti che prevedono, in partenariato, la reintegrazione nei Paesi di origine dei destinatari dei programmi di rimpatrio volontario assistito). Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministro dell'interno, sarebbero state stabilite le linee guida e le modalità di attuazione del suddetto Piano.
Per l'attuazione di tale previsioni, il comma 1122, lettera b) ha autorizzato la spesa (fino a): 500.000 per il 2018; 1.500.000 euro per il 2019; 1.500.000 euro per il 2020.
Tali importi non sono modificati dalla novella recata dal presente articolo 6 del decreto-legge.
Ne risulta modificata invece la destinazione.
La novella infatti riformula il comma 1122, lettera b) della legge di bilancio 2018 sì da destinare quei medesimi importi al Fondo rimpatri, sopprimendo il 'vincolo' legislativo della destinazione ad un Piano nazionale per la realizzazione di interventi di rimpatrio volontario assistito.
Al riguardo la relazione illustrativa del disegno di legge di conversione annota che "le attività di informazione e supporto ai migranti che intendono accedere ai rimpatri volontari e assistiti sono già svolte dalle organizzazioni internazionali della cui collaborazione si avvale il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, anche attraverso le progettazioni avviate sui fondi FAMI".
Consegue alla novella che le risorse individuate dalla legge di bilancio 2018 possano, ma non debbano, essere destinate ai rimpatri volontari e assistiti (attingendo in tal caso al Fondo rimpatri, previa determinazione annuale con decreto del Ministro dell'interno delle risorse in esso disponibili per tale finalità - ai sensi dell'articolo 14-ter, comma 7 del Testo unico dell'immigrazione).
Al contempo, le risorse possono (ora) essere destinate anche a forme di rimpatrio altre rispetto al rimpatrio volontario e assistito.
Il rimpatrio volontario assistito consiste nella possibilità di ritorno offerta ai migranti che non possano o non vogliano restare nel Paese ospitante e che desiderano, in modo volontario e spontaneo, ritornare nel proprio Paese d´origine. L'istituto del rimpatrio volontario assistito è stato introdotto nell'ordinamento italiano dall'articolo 14-ter del Testo unico sull'immigrazione, ivi inserito dal decreto-legge n. 89 del 2011 (come convertito dalla legge n. 129 del 2011).
Secondo la disciplina dettata dall'articolo 14-ter del Testo unico sull'immigrazione, i relativi programmi di rimpatrio sono attuati dal Ministero dell'Interno, anche in collaborazione con le organizzazioni internazionali o intergovernative esperte nel settore dei rimpatri, con gli enti locali e con associazioni attive nell'assistenza agli immigrati. Le disposizioni sul rimpatrio volontario assistito non si applicano, però, a coloro i quali sono destinatari di un provvedimento di espulsione come sanzione penale o conseguenza di questa, o sono destinatari di un provvedimento di estradizione o di un mandato di arresto europeo o di un mandato di arresto da parte della Corte penale internazionale. Ai sensi dell'articolo 14-ter del testo unico sull'immigrazione, al finanziamento dei programmi di rimpatrio volontario assistito si provvede nei limiti: a) delle risorse disponibili del Fondo rimpatri, di cui all'articolo 14-bis, individuate annualmente con decreto del Ministro dell'interno; b) delle risorse disponibili dei fondi europei destinati a tale scopo, secondo le relative modalità di gestione.
Il quadro normativo del rimpatrio volontario e assistito delineato dall'articolo 14-ter aggiuntosi al Testo unico sull'immigrazione, è stato successivamente integrato dal decreto ministeriale 27 ottobre 2011, recante Linee guida per l'attuazione dei programmi di rimpatrio volontario e assistito (le quali si applicano ai cittadini di Paesi non appartenenti all'Unione Europea e agli apolidi che fanno richiesta di partecipazione ai programmi di rimpatrio volontario e assistito). I programmi di rimpatrio volontario e assistito possono prevedere le seguenti attività: a) divulgazione di informazioni sulla possibilità di usufruire di sostegno al rimpatrio e sulle modalità di partecipazione ai relativi programmi; b) assistenza al cittadino straniero in fase di presentazione della richiesta e di altri adempimenti necessari per il rimpatrio; c) informazione sui diritti e doveri del cittadino straniero connessi alla partecipazione al programma di rimpatrio; d) organizzazione dei trasferimenti, assistenza del cittadino straniero, con particolare riguardo ai soggetti vulnerabili; e) corresponsione di un contributo economico per le prime esigenze nonché assistenza ed eventuale sostegno del cittadino straniero, al momento dell'arrivo nel Paese di destinazione; f) collaborazione con i Paesi di destinazione del cittadino straniero, al fine di promuovere adeguate condizioni di inserimento.
Articolo 6-bis (em. 6.0.600 testo 2)
(Regolazione e controllo del lavoro dei familiari del personale di rappresentanze diplomatico-consolari straniere e di organizzazioni internazionali)
Prevede che i familiari conviventi - notificati come tali - di agenti diplomatici, di membri del personale amministrativo e tecnico, di funzionari e impiegati consolari o di funzionari internazionali possano svolgere attività lavorativa nel territorio della Repubblica, previa comunicazione tramite i canali diplomatici.
Si tratta di articolo aggiuntivo, proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 6.0.600 (testo 2).
I familiari conviventi (notificati come tali) di agenti diplomatici, di membri del personale amministrativo e tecnico, di funzionari e impiegati consolari o di funzionari internazionali possono svolgere - si prevede al comma 1 - attività lavorativa nel territorio della Repubblica.
Tale attività lavorativa può essere svolta a condizioni di reciprocità e solamente per il periodo in cui i soggetti interessati possiedano la condizione di familiare convivente come stabilita:
§ dalle disposizioni degli accordi di sede con organizzazioni internazionali applicabili;
§ le norme delle Convenzioni internazionali in materia qui richiamate.
Quanto alle Convenzioni internazionali, l'articolo in esame richiama esplicitamente:
§ articolo 37, paragrafi 1 e 2, della Convenzione sulle relazioni diplomatiche, fatta a Vienna il 18 aprile 1961. Tali disposizioni estendono privilegi e immunità previsti dalla medesima Convenzione (agli articoli da 29 a 35) ai membri conviventi delle famiglie dell’agente diplomatico (par. 1) e del personale amministrativo e tecnico (par. 2);
§ articolo 46 della Convenzione sulle relazioni consolari, fatta a Vienna il 24 aprile 1963, ove si prevede l'esenzione dagli "obblighi di immatricolazione" e del " permesso di dimora" per i funzionari consolari, gli impiegati consolari e "i membri delle loro famiglie viventi con loro in comunione domestica".
Il comma 2 dell'articolo aggiuntivo specifica i familiari cui si applichino le disposizioni:
§ il coniuge non legalmente separato di età non inferiore ai diciotto anni,
§ la parte di unione civile tra persone dello stesso sesso,
§ i figli minori, anche del coniuge, o nati fuori dal matrimonio, non coniugati, a condizione che l'altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso,
§ i figli di età inferiore ai 25 anni qualora a carico,
§ i figli con disabilità a prescindere dalla loro età,
§ i minori di cui è possibile richiedere il ricongiungimento (ai sensi all'articolo 29, comma 2, secondo periodo, del t.u. immigrazione - decreto legislativo n. 286 del 1998) adottati o affidati o sottoposti a tutela. Si tratta, anche in questo caso, di "figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l'altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso".
Il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale accerta l'equivalenza tra le situazioni regolate da ordinamenti stranieri e le norme nazionali in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze (di cui alla legge n. 76 del 2016).
Il comma 3 del nuovo articolo in esame specifica che l'immunità dalla giurisdizione civile e amministrativa, ove prevista, non si estende agli atti compiuti nell'esercizio dell'attività lavorativa svolta dai familiari del personale di rappresentanze diplomatico-consolari straniere e di organizzazioni internazionali. Sono fatte salve le norme italiane in materia fiscale, previdenziale e di lavoro, nonché le diverse disposizioni di accordi internazionali applicabili.
Infine si prevede che dall'attuazione del presente articolo non debbano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (comma 4).
Articolo 7
(Diniego e revoca della protezione internazionale)
L’articolo 7 amplia il novero dei reati che, in caso di condanna definitiva, comportano il diniego e la revoca della protezione internazionale, includendovi ulteriori ipotesi delittuose ritenute di particolare allarme sociale, quali resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali gravi, lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, mutilazioni genitali femminili, furto aggravato da porto di armi o narcotici e furto in abitazione.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato l'emendamento 7.10 (testo 2).
L'articolo modifica il D.Lgs. 251/2007 che disciplina l’attribuzione della protezione internazionale e il contenuto di tale protezione, ed in particolare l’articolo 12 (diniego dello status di rifugiato) e l’articolo 16 (esclusione dello status di protezione sussidiaria). La modifica incide anche sugli articoli 13 (revoca dello status di rifugiato) e 18 (revoca dello status di protezione sussidiaria), per via dei rinvii interni di questi ai primi due articoli citati.
Il D.Lgs. 251/2007 ha recepito la c.d. direttiva qualifiche, successivamente sostituita dalla direttiva 2011/95/UE. La nuova direttiva qualifiche è stata recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 18/2014, che ha modificato il D.lgs. 251/2007.
Lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono riconosciute dopo l'istruttoria svolta dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.
All’esito dell’esame, la Commissione competente può riconoscere lo status di rifugiato oppure negarlo e riconoscere all’interessato lo status di protezione sussidiaria, ovvero escludere anche la protezione sussidiaria (v. anche il “procedimento immediato” previsto dall’art. 10).
Le cause di diniego dello status di rifugiato sono molteplici (art. 12).
In primo luogo, lo status è negato, quando, a seguito della valutazione individuale:
· non vengono individuati i presupposti necessari per il suo riconoscimento, ossia gli atti di persecuzione gravi e personali compiuti nei suoi confronti, riconducibili a forme di discriminazione come definiti dalla convezione di Ginevra (motivi di razza, religione, nazionalità ecc.);
· esistono motivi di cessazione dello status di rifugiato (ad esempio se l’interessato si è ristabilito volontariamente nel Paese che ha lasciato a causa di persecuzione);
· lo straniero è escluso perché già fruisce della protezione o dell’assistenza di un’organizzazione o di un’istituzione delle Nazioni Unite che non sia l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, o perché ha commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o contro l'umanità, o che abbia commesso al di fuori del territorio italiano, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un reato grave.
In secondo luogo, lo status di rifugiato non è concesso qualora sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato.
Infine, costituisce causa ostativa alla concessione dello status di rifugiato la condanna con sentenza definitiva per i reati di grave allarme sociale previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale (tra cui associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di droga e al contrabbando di tabacchi, terrorismo, strage, omicidio, rapina aggravata).
La disposizione in esame incide su quest’ultima ipotesi, individuando ulteriori reati quali causa di diniego di concessione dello status di rifugiato (art. 12, D.Lgs. 251/2007) e di esclusione della protezione sussidiaria (art. 16, D.Lgs. 251/2007). Le nuove cause ostative sono costituite dalle condanne per i seguenti delitti previsti dal codice penale:
· resistenza a pubblico ufficiale (art. 336);
· lesioni personali gravi (art. 583);
· mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis);
· lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive (art. 583-quater);
· furto aggravato dal porto di armi o narcotici (artt. 624 e 625, primo comma, n. 3);
· furto in abitazione (artt. 624-bis). Nella versione originale la disposizione prevedeva che, per costituire causa di esclusione, il furto dovesse essere aggravato dal porto di armi o narcotici (art. 625, primo comma, n. 3) c.p.). L'eliminazione del riferimento all’aggravante è conseguenza delle previsioni proposte dall’EMENDAMENTO 7.10 (testo 2) approvato dalla Commissione referente.
Viene, infine, precisato dall’art. 7 che, ai fini del mancato riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, rilevano anche le fattispecie non aggravate dei delitti previsti dal citato art. 407, comma 2, lett. a).
Il riferimento sembra riguardare il contrabbando di tabacchi (art. 291-ter, TU doganale); produzione, traffico e detenzione illecita di droga (art. 73, TU stupefacenti) e associazione per delinquere (art. 416 c.p.).
Articolo 7-bis (em. 7.0.500)
(Disposizioni in materia di Paesi di origine sicuri e manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale)
Prevede l’adozione, con decreto del Ministro dell’interno, di un elenco di Paesi di origine sicuri, al fine di accelerare la procedura di esame delle domande di protezione internazionale delle persone che provengono da uno di questi Paesi. Inoltre, amplia le cause di manifesta infondatezza delle medesime domande, comprendendovi, tra le altre, anche la provenienza da un Paese di origine sicuro, qualora il richiedente non dimostri la sussistenza dei gravi motivi per ritenere quel Paese non sicuro, in relazione alla sua situazione particolare.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 7.0.500.
Il concetto di "Paese di origine sicuro", ai fini della semplificazione dell’esame della domanda di asilo, è previsto (in via facoltativa) a livello comunitario dalla direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale ("direttiva procedure"). La direttiva è stata recepita nell’ordinamento italiano dal D.Lgs. 142/2015 - che ha modificato il D.Lgs. 25/2008 di attuazione della prima direttiva procedure del 2005 – senza tuttavia attivare il meccanismo di Paese di origine sicuro, possibilità che, invece, viene attuata dalla disposizione in esame.
A norma dell'articolo 36 della direttiva procedure, un Paese non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro per un determinato richiedente, previo esame individuale della domanda, solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese o è un apolide che in precedenza soggiornava in quel Paese.
Pertanto, in base all'articolo 37 della direttiva gli Stati membri possono introdurre una normativa che consenta di designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. La valutazione volta ad accertare che un Paese è un Paese di origine sicuro deve basarsi su una serie di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni fornite da altri Stati membri, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.
L'allegato I della direttiva reca i criteri che presiedono alla compilazione della lista di Paesi sicuri: un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Il concetto di "Paese terzo sicuro" va distinto dal concetto di "Paese di origine sicuro". La direttiva 2013/32/UE stabilisce che gli Stati membri hanno la possibilità di non esaminare nel merito una domanda di asilo quando, a motivo di un legame sufficiente con un Paese terzo sicuro, il richiedente può invece cercare protezione in tale Stato. In presenza delle condizioni necessarie, la disposizione consente quindi agli Stati membri di chiudere la procedura di asilo e di rimpatriare il richiedente asilo verso il Paese terzo in questione.
Dei Paesi membri, 12 hanno adottato il concetto di Paese di origine sicuro: Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Lettonia, Malta, Repubblica Ceca, Regno Unito e Slovacchia. Le liste nazionali in vigore, pubblicate dalla Commissione europea, non includono gli stessi Paesi. La maggior parte dei Paesi considera sicuri del tutto o in parte i 7 Paesi terzi proposti come sicuri dalla Commissione, ossia, Albania, Bosnia Erzegovina, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Turchia. Per approfondire si veda Safe country concepts a cura di European Council on Refugees and Exiles (ECRE).
L’articolo 7, comma 1, lettera a), inserisce un articolo 2-bis nel testo del D.Lgs. 25/2008 (di recepimento della citata "direttiva procedure") che riproduce sostanzialmente il contenuto degli artt. 36 e 37 e l’Allegato I della medesima direttiva.
Con la novella si dispone l’adozione (e l’aggiornamento periodico) dell'elenco dei Paesi di origine sicuri (non appartenenti all’Unione europea) con un decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con i Ministri dell'interno e della giustizia. Tale elenco è notificato alla Commissione europea.
I parametri per la valutazione del Paese per il suo inserimento nell’elenco di un Paese sono:
§ l’ordinamento giuridico;
§ l'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico;
§ la situazione politica generale.
Sulla base di tali parametri, un Paese è inserito nell’elenco se ”si può dimostrare che, in via generale e costante” non verificano al suo interno:
§ atti di persecuzione quali definiti dall'articolo 7 del D.Lgs. 251/2007;
Si tratta di violazioni gravi dei diritti umani fondamentali oppure costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo ad una violazione grave dei diritti umani fondamentali.
Tali atti possono assumere la forma di:
- atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;
- provvedimenti discriminatori di carattere legislativo, amministrativo, di polizia o giudiziario;
- azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;
- rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici;
- azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini;
- azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie che comportano gravi violazioni di diritti umani fondamentali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare per motivi di natura morale, religiosa, politica o di appartenenza etnica o nazionale;
- atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia.
§ tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante;
§ pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Viene specificato, che la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l'eccezione di parti del territorio o di categorie di persone.
Ai fini della valutazione del Paese sicuro, oltre al grado di rispetto da parte dello Stato dei diritti fondamentali, si deve tener conto anche della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti.
Si devono perciò valutare:
§ le disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate;
§ il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti
- nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (ratificata ai sensi L. 848/1955),
- nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966 (ratificato ai sensi della L. 881/1977),
- nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984;
§ il rispetto del principio di non respingimento (non-refoulement) di cui all'articolo 33 della Convenzione di Ginevra;
In base a tale principio, è posto il divieto assoluto di espulsione e di respingimento del rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche, a meno che non sussistano seri motivi per ritenere che egli sia un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese.
§ un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.
In bade alla disposizione in esame, la valutazione volta ad accertare che uno Stato è un Paese di origine sicuro si basa sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo che si avvale anche delle notizie elaborate dal centro di documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei Paesi di origine dei richiedenti istituito presso la medesima Commissione.
Inoltre, ai fini della compilazione dell’elenco si tengono conto in particolare delle informazioni fornite da altri Stati membri dell'Unione europea, dall'EASO (l'Ufficio UE di sostegno per l'asilo con sede a La Valletta, Malta), dall'UNHCR (l’Agenzia ONU per i rifugiati, dal Consiglio d'Europa) e da altre organizzazioni internazionali competenti.
Un Paese di origine sicuro, inserito nell’elenco, può essere considerato Paese di origine sicuro solo per il richiedente che vi ha cittadinanza (e per l’apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova).
Quest’ultima disposizione riproduce sostanzialmente il contenuto dell’articolo 36 della direttiva 2013/32/UE che contiene anche la specificazione (non ripresa testualmente nella disposizione in esame) che in ogni caso si deve procedere “all’esame individuale della domanda”.
Si ricorda che ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, della Convenzione europea dei diritti dell’umani (CEDU), le espulsioni collettive di stranieri sono vietate. Secondo la giurisprudenza della corte CEDU, si deve intendere per espulsione collettiva, «qualsiasi misura che costringa degli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un paese, ad eccezione del caso in cui tale misura sia presa al termine e sulla base di un esame ragionevole e obiettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che formano il gruppo». Pertanto, è necessario evitare l’allontanamento di cittadini stranieri senza esaminare la loro situazione personale e senza consentire loro di esporre i propri argomenti contro la misura presa dall’autorità competente (Khlaifia c. Italia, sent. 15 dicembre 2016 ric. n. 45302/05).
Al contempo, la successiva lettera b) dell’articolo in esame (si vedano anche le lettere d) ed e) prevede che se la domanda di protezione internazionale è rigettata a causa della provenienza del richiedente da un Paese di origine sicuro, la decisione di rigetto è motivata dando atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere il Paese non sicuro (pur se compreso nell’elenco) in relazione alla sua situazione particolare. Si ricorda che, in generale, la decisione di rigetto della domanda deve essere motivata di fatto e di diritto e contenere le indicazioni sui mezzi di impugnazione ammissibili (art. 9, comma 2, D.Lgs. 25/2008).
In proposito, si valuti l’opportunità di chiarire se il provvedimento relativo alla nuova fattispecie di rigetto della domanda debba contenere le indicazioni sulla sua impugnabilità, come previsto in via generale dall’articolo 9, comma 2, del D.Lgs. 25/2008.
Per quanto riguarda la motivazione del provvedimenti di rigetto, si ricorda la corte CEDU (?onka c. Belgio sent. 5 febbraio 2002, ric. 51564/99) nel costatare una violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, ha rilevato che le autorità avevano motivato l’espulsione di un gruppo di richiedenti protezione in termini identici per tutti.
E’ previsto, invece, un avviso preventivo che l’Ufficio di Polizia è tenuto a rendere al richiedente asilo. L’Ufficio deve informare il richiedente che, se egli proviene da un Paese di origine sicuro, la sua domanda potrebbe essere respinta. A tal fine, la Commissione nazionale è tenuta ad indicare nell’opuscolo informativo che illustra le procedure dell’esame della domanda e i diritti del richiedente, anche l’elenco dei Paesi di origine sicuri (lettera c).
Ai sensi delle lettere d) ed e) dell’articolo in esame, le domande presentate da soggetti provenienti da Paesi di origine sicuri sono esaminate in via prioritaria (art. 28 del D.Lgs. 25/2008) e sono sottoposte alla speciale procedura accelerata (prevista dall’art. 28-bis, D.Lgs. 25/2008).
Tale procedura prescrive un termine massimo entro il quale è necessario svolgere l’audizione dell’interessato da parte della commissione territoriale per l’asilo competente pari a 14 giorni (in luogo dei 30 previsti dalla procedura ordinaria). Anche i termini di eventuali proroghe sono ridotti (ad un terzo) nella procedura accelerata.
Viene, inoltre, ampliato il novero delle domande sottoposte alla procedura accelerata (lettera e) ed f), comprendendovi, oltre a quelle presentate da un soggetto proveniente da un Paese di origine sicuro, quelle presentate da chi:
§ ha rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie o palesemente false, che contraddicono informazioni verificate sul Paese di origine;
§ ha indotto in errore le autorità presentando informazioni o documenti falsi o omettendo informazioni o documenti riguardanti la sua identità o cittadinanza che avrebbero potuto influenzare la decisione negativamente, ovvero ha dolosamente distrutto o fatto sparire un documento di identità o di viaggio che avrebbe permesso di accertarne l'identità o la cittadinanza;
§ è entrato illegalmente nel territorio nazionale o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno e senza giustificato motivo non ha presentato la domanda tempestivamente rispetto alle circostanze del suo ingresso;
§ ha rifiutato di adempiere all'obbligo del rilievo dattiloscopico (a norma del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013);
§ si trova trattenuto in un centro di permanenza per i rimpatri (di cui all’art. 14 D.Lgs. 286/1998) per i motivi di cui all'articolo 6, commi 2, lettere a), b) e c), e 3 del D.Lgs. 142/2015, ossia:
- per aver commesso crimini particolarmente gravi (ai sensi dell'articolo 1, paragrafo F della Convenzione di Ginevra);
- sia stato raggiunto da un provvedimento di espulsione da parte dello Ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza della Stato o da parte del prefetto per essere stato oggetto di misura di prevenzione (di cui all'articolo 13, commi 1 e 2, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) o da parte del Ministro dell'interno o, su sua delega, dal prefetto per motivi di terrorismo (articolo 3, comma 1, D.L. 144/2005);
- costituisce un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica;
- vi sono fondati motivi per ritenere che la domanda è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l'esecuzione del respingimento o dell'espulsione.
Le domande di cui sopra sono considerate manifestamente infondate (lettera g) e sono raggruppate nel nuovo articolo 28-ter del D.Lgs. 25/2008 (introdotto dalla lettera f) aggiungendosi all’unica ipotesi di domanda infondata, prevista dalla normativa vigente, ossia quella in cui il richiedente ha sollevato esclusivamente questioni che non hanno attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale (art. 28-bis, comma 2, lett. a), D.Lgs. 25/2008).
Nel settembre 2015, la Commissione europea ha presentato una proposta (COM(2015)452) di regolamento che istituisce un elenco comune dell'UE di Paesi di origine sicuri ai fini della direttiva 2013/32/UE.
Nella lista dei Paesi di origine sicuri a livello UE proposti dalla Commissione figuravano l’Albania, la Bosnia Erzegovina, l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, il Kosovo, il Montenegro, la Serbia e la Turchia.
Tale proposta, è stata successivamente assorbita[1] nella proposta di regolamento (COM(2016)467), che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE, presentata dalla Commissione europea nel luglio 2016 e tuttora all’esame delle Istituzioni legislative europee. Oltre a riprodurre l’elenco citato (nell’allegato 1) di Paesi terzi di origine considerati sicuri a livello UE, la nuova proposta di regolamento mira, tra l’altro, ad armonizzare le conseguenze procedurali dell’applicazione dei concetti di Paese sicuro, ivi compreso il caso specifico del Paese di origine sicuro[2].
In particolare, nel disegno della Commissione europea, l'applicazione del concetto di Paese di origine sicuro consentirebbe allo Stato membro di esaminare la domanda muovendo dalla presunzione relativa che il Paese di origine del richiedente sia sicuro. L'applicazione del concetto permetterebbe di trattare la domanda con procedura d'esame accelerata (articolo 40, paragrafo 1, lettera e) e, se la domanda è respinta su tale base per manifesta infondatezza, l'impugnazione non determinerebbe automaticamente un effetto sospensivo (articolo 54, paragrafo 2, lettera a). La proposta definisce, tra l’altro, il concetto di Paese di origine sicuro, prevedendo una procedura ad hoc per la sospensione e il depennamento di un Paese dall’elenco citato comune dell’UE dei Paesi di origine sicuri.
Si segnala che l’articolo 50, paragrafo 1, della proposta di regolamento sulla procedura comune di asilo (la cui rubrica recita: Designazione dei paesi terzi sicuri e dei paesi di origine sicuri a livello nazionale), come formulato dalla Commissione europea, stabilisce che per un periodo di cinque anni a decorrere dall'entrata in vigore del regolamento gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che, ai fini dell'esame delle domande di protezione internazionale, consente di designare a livello nazionale Paesi terzi sicuri o Paesi di origine sicuri diversi da quelli designati a livello di Unione o compresi nell'elenco comune dell'UE citato. Il medesimo articolo prevede disposizioni di raccordo nel caso in cui un Paese terzo sia rimosso dalla lista dei Paesi di origine sicuri a livello UE mentre uno Stato membro lo ritenga rispondente ai requisiti stabiliti dal regolamento.
A tal proposito, merita rilevare che la Commissione europea, nella relazione introduttiva della proposta, indica tra gli obiettivi del nuovo regime quello di evolvere verso una totale armonizzazione delle designazioni di Paese di origine sicuro e di Paese terzo sicuro a livello di Unione, in base alle proposte presentate dalla Commissione stessa assistita dall'Agenzia europea per l'asilo.
La Commissione europea precisa, altresì, che la proposta citata include pertanto una clausola di caducità in base alla quale gli Stati membri potranno mantenere le designazioni nazionali di Paese di origine sicuro o di Paese terzo sicuro soltanto per un periodo massimo di cinque anni a decorrere dall'entrata in vigore del progetto di regolamento.
Giova, peraltro, ricordare che la proposta di regolamento sulla procedura comune di asilo, compresa la sezione relativa ai vari concetti di Paese sicuro, a più di due anni dall’avvio dell’iter legislativo, è tuttora oggetto di negoziato tra gli Stati membri presso il Consiglio dell’UE, il quale non ha ancora approvato un mandato negoziale alla Presidenza in vista di un testo di compromesso condiviso con il Parlamento europeo.
Tale procedimento legislativo deve, inoltre, inquadrarsi nell’ambito del processo di riforma complessivo del Sistema comune europeo di asilo avviato nel 2016, che, attraverso sette proposte normative, abbraccia tutti gli aspetti relativi alla gestione delle domande di protezione internazionale e dei relativi richiedenti nell’UE, compresa la revisione della disciplina sui criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di paese terzo o da un apolide (il regolamento Dublino).
Allo stato, sebbene alcune proposte normative nell’ambito della riforma siano in uno stadio più avanzato del rispettivo iter legislativo, il Consiglio dell’UE ha sinora perseguito un “approccio a pacchetto”, lavorando in vista di un accordo complessivo tra Stati membri per l’intera riforma del sistema di asilo, basata sul giusto equilibrio tra principio di solidarietà e responsabilità. Tale impostazione (alla quale ha fatto riferimento da ultimo lo stesso Consiglio europeo del 28-29 giugno 2018) è stata, peraltro, sottolineata più volte dalla delegazione italiana in sede di negoziato presso il Consiglio dell’UE come elemento prioritario ai fini del prosieguo dell’iter legislativo della complessiva riforma del sistema comune europeo.
Articolo 8
(Cessazione della protezione internazionale)
Specifica che per l’applicazione della particolare causa di cessazione dello status di protezione internazionale, dovuta al volontario ristabilimento dell’interessato nel Paese che ha lasciato per timore di essere perseguitato, è rilevante ogni rientro nel Paese di origine, qualora non sia giustificato da gravi e comprovati motivi.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato l'emendamento 8.3.
L'articolo modifica il D.Lgs. 251/2007 che disciplina l’attribuzione della protezione internazionale e il contenuto di tale protezione, ed in particolare l’articolo 9 (cessazione dello status di rifugiato) e l’articolo 15 (cessazione dello status di protezione sussidiaria).
Le cause di cessazione dello status di rifugiato sono le seguenti:
· essersi volontariamente avvalsi di nuovo della protezione del Paese di cui ha la cittadinanza;
· volontario riacquisto della cittadinanza
· acquisto della cittadinanza italiana o di altra cittadinanza e godimento della protezione del Paese di cui ha acquistato la cittadinanza;
· ristabilimento volontario nel Paese che ha lasciato o in cui non ha fatto ritorno per timore di essere perseguitato;
· venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato, anche in caso di apolide.
Per l'applicazione dell’ultimo punto, il cambiamento delle circostanze deve essere non temporaneo e tale da eliminare il fondato timore di persecuzioni; non devono inoltre sussistere gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine.
In ogni caso, la cessazione è dichiarata sulla base di una valutazione individuale della situazione personale del rifugiato.
Parzialmente diversa è la disciplina di cessazione dello status di protezione sussidiaria.
La cessazione dello status di protezione sussidiaria è dichiarata, sempre su base individuale, se le circostanze che hanno indotto al riconoscimento sono venute meno o sono mutate in misura tale che la protezione non è più necessaria.
E’ necessario, inoltre, che:
· il mutamento delle circostanze sia significativa e non temporanea in modo che l’interessato non sia più esposto al rischio di danno grave[3];
· non sussistano gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine;
· non vi siano motivi imperativi derivanti da precedenti persecuzioni tali da rifiutare di avvalersi della protezione del Paese di cui l’interessato ha la cittadinanza.
La disposizione in esame (secondo modifica proposta dall’EMENDAMENTO 8.3 approvato dalla Commissione referente) prevede che, in entrambi i casi, ai fini della cessazione dello status posseduto (rifugiato o protezione sussidiaria), “è rilevante ogni rientro nel Paese di origine, ove non giustificato da gravi e comprovati motivi”. Nella versione originale del decreto-legge in esame si prevede, in luogo della presenza di gravi motivi, la necessità di valutazione del caso concreto.
La novella ha impatto diverso sulla normativa previgente.
Per lo status di rifugiato, infatti, come si è visto, è previsto che la cessazione possa derivare dal ristabilimento volontariamente nel Paese che ha lasciato o in cui non ha fatto ritorno per timore di essere perseguitato. La norma in commento specifica per l’applicazione di tale disposizione rileva ogni rientro nel Paese di origine.
Per quanto riguarda la protezione sussidiaria, come si è visto, tale causa di cessazione non è prevista. La novella va ad integrare la disposizione (art. 15, comma 2) secondo la quale il mutamento delle circostanze che hanno indotto il riconoscimento deve essere significativa e non temporanea per produrre la cessazione dello status. Secondo la novella, nel valutare la portata di tale mutamento, è rilevante ogni rientro nel Paese di origine.
La causa di cessazione dello status di rifugiato nella versione previgente, ossia il ristabilimento volontario dell’interessato nel Paese che ha lasciato o in cui non ha fatto ritorno per timore di persecuzioni è prevista, in termini sostanzialmente analoghi, dalla Convenzione di Ginevra del 1951 (art. 1, sez. C, n. 4) ratificata con la legge 722/1954 e dalla direttiva 2011/95/UE (art. 11, comma 1, lett. d), la cosiddetta direttiva “qualifiche”, recepita nell’ordinamento interno con il citato D.Lgs. 251/2007 (art. 9, comma 1, lett. d), come da ultimo integrato dal D.Lgs. 18/2014.
La disposizione si applica sia ai rifugiati cittadini di uno Stato sia ai rifugiati apolidi.
È all’esame delle istituzioni europee una proposta di regolamento sulle qualifiche (COM/2016/0466) che dovrebbe sostituire la direttiva 2011/95/UE. Essa sostanzialmente conferma tra i casi di cessazione dello status di rifugiato quello in cui l'interessato si sia volontariamente ristabilito nel paese che ha lasciato o in cui non ha fatto ritorno per timore di essere perseguitato (articolo 11 "Cessazione", comma 1, lettera d). Quindi la nuova disposizione sarebbe una novità solo per la forma perché si passerebbe dalla direttiva al regolamento.
Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, per “ristabilimento volontario” si intende il ritorno del soggetto nel Paese di cittadinanza di precedente residenza abituale al fine di risiedervi in permanenza: “se un rifugiato, munito non di un passaporto nazionale ma, ad esempio, di un documento di viaggio rilasciato dal Paese di residenza si reca nel Paese di origine per un soggiorno temporaneo ciò non costituisce un ristabilimento volontario della residenza e quindi non implica la perdita dello status di rifugiato”. Tali situazioni – sempre secondo l’interpretazione dell’UHNCR “vanno valutate caso per caso. Per esempio, il fatto di rendere visita ad un genitore anziano e sofferente non ha la stessa importanza, nei rapporti del rifugiato con il suo Paese di origine, del fatto di recarsi regolarmente nel Paese d’origine per trascorrervi le vacanze o per stabilirvi rapporti di affari” (UHNCR, Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, paragrafi 125 e 134). Così come la visita di un rifugiato nel proprio Paese per acquisire informazioni sulla situazione del Paese non comporta automaticamente la perdita dello status di rifugiato (UNHCR, Note on the Cessation Clauses EC/47/SC/CRP.30).
Nella stessa linea la prassi vigente nel nostro Paese: il ristabilimento nel Paese di origine deve essere volontario e non determinato da obblighi giuridici. Inoltre, l’interessato deve essere rientrato nel Paese di origine allo scopo di farvi ritorno stabilmente: rientri brevi ed episodici non realizzano ipotesi di cessazione (SPRAR, UNHCR, ASGI, La tutela dei richiedenti asilo. Manuale giuridico per l’operatore, 2018, pag. 18)
Dall’analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia UE non risultano pronunce in merito al concetto di ristabilimento volontario quale causa di cessazione dello status di rifugiato (art. 11, comma 1, lett. d) della dir. 2011/95/UE).
Si può ricordare, sotto altro profilo, una sentenza della CGUE del 2010 che è intervenuta su un’altra causa di cessazione dello status di rifugiato, ossia quella basata sulla constatazione del venir meno delle circostanze che ne hanno determinato il riconoscimento (art. 11, comma 1, lett. e) della dir. 2011/95/UE).
In tale occasione, la Corte ha stabilito il principio che una persona perde lo status di rifugiato quando, considerato un cambiamento delle circostanze avente un carattere significativo e una natura non temporanea, occorso nel paese terzo interessato, vengano meno le circostanze alla base del fondato timore della persona stessa di essere perseguitata a causa di uno dei motivi di cui all’art. 2, lett. c), della direttiva 2004/83, circostanze a seguito delle quali essa è stata riconosciuta come rifugiata, e non sussistano altri motivi di timore di «essere perseguitata» ai sensi dell’art. 2, lett. c), di tale direttiva. Ai fini della valutazione di un cambiamento delle circostanze, le autorità competenti dello Stato membro devono verificare, tenuto conto della situazione individuale del rifugiato, che il soggetto o i soggetti che offrono protezione abbiano adottato adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori, che quindi dispongano, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione e che il cittadino interessato, in caso di cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a detta protezione (Cause riunite C?175/08, C?176/08, C?178/08 e C?179/08 Aydin Salahadin Abdulla e altri contro Bundesrepublik Deutschland).
Articolo 9
(Domanda reiterata e domanda presentata alla frontiera)
L’articolo 9 (oggetto di modifiche proposte dagli emendamenti 9.600 e 9.601 approvati dalla Commissione referente, nonché dalla parte consequenziale dell’articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione con l'emendamento 7.0.500) esclude dal beneficio dell’autorizzazione a rimanere sul territorio nazionale i richiedenti asilo che reiterino la domanda per ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento di allontanamento ovvero perché la prima domanda reiterata è stata giudicata inammissibile o rigettata perché infondata. Si dispongono inoltre: 1) una procedura accelerata di esame della domanda di asilo per determinati soggetti; 2) una nuova causa di inammissibilità della domanda di asilo (la domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale); 3) limitazioni alla sospensione il procedimento di espulsione in pendenza di un ricorso sulle decisioni delle commissioni territoriali. L’emendamento 9. 600, approvato in Commissione, mira a maggiormente definire la “domanda reiterata”.
L’EMENDAMENTO 9.600 approvato dalla Commissione referente propone di aggiungere al comma 1 dell’articolo 9 la lettera 0a) che introduce nell’articolo 2 del decreto legislativo n. 25 del 2008 la definizione di domanda reiterata. In particolare, viene definita domanda reiterata:
· l’ulteriore domanda presentata dopo che è stata adottata una decisione definitiva su una domanda precedente;
· l’ulteriore domanda presentata quando il richiedente abbia esplicitamente ritirato la domanda precedente;
Per definire il ritiro la disposizione richiama l’articolo 23 del decreto legislativo n. 25 del 2008 che prevede che “nel caso in cui il richiedente decida di ritirare la domanda prima dell'audizione presso la competente Commissione territoriale, il ritiro è formalizzato per iscritto e comunicato alla Commissione territoriale che dichiara l'estinzione del procedimento”.
· l’ulteriore domanda presentata dopo che la Commissione territoriale abbia adottato una decisione di estinzione del procedimento o di rigetto della domanda “ai sensi dell’articolo 23-bis, comma 2” del decreto legislativo n. 25 del 2008.
Il citato articolo 23-bis disciplina in realtà solo una fattispecie di estinzione del procedimento, vale a dire quella che si verifica quando, in presenza di una sospensione del procedimento perché il richiedente si è allontanato senza giustificato motivo dalla struttura di accoglienza o ha rifiutato il trattenimento, entro dodici mesi il richiedente non chiede la riapertura. Sul punto parrebbe opportuno un chiarimento.
La definizione di domanda reiterata riprende quella contenuta nell’articolo 1 lettera q), della direttiva 2013/32/CE. In particolare, questa disposizione definisce reiterata “un’ulteriore domanda di protezione internazionale presentata dopo che è stata adottata una decisione definitiva su una domanda precedente, anche nel caso in cui il richiedente abbia esplicitamente ritirato la domanda e nel caso in cui l’autorità accertante abbia respinto la domanda in seguito al suo ritiro implicito ai sensi dell’articolo 28, paragrafo 1” (quest’ultima norma qualifica come ritiro implicito il fatto che il richiedente non abbia risposto alla richiesta di fornire informazioni essenziali per la sua domanda ovvero sia fuggito o si sia allontanato senza autorizzazione dal luogo in cui viveva o era trattenuto).
La lettera a) del comma 1, attraverso la sostituzione dell’articolo 7, comma 2, del decreto legislativo n. 25 del 2008, introduce nuove limitazioni all’autorizzazione riconosciuta al richiedente asilo di rimanere sul territorio nazionale fino alla decisione della Commissione territoriale sulla domanda di protezione internazionale.
La disciplina previgente stabiliva infatti che non potessero beneficiare di tale autorizzazione i soggetti che dovessero essere estradati verso un altro Stato in virtù degli obblighi previsti da un mandato di arresto europeo ovvero consegnati ad una Corte o ad un Tribunale penale internazionale o, infine, avviati verso un altro Stato dell'Unione competente per l'esame dell'istanza di protezione internazionale.
A queste fattispecie si aggiungono ora:
· i soggetti che hanno presentato una prima “domanda reiterata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale”
· coloro che manifestano la volontà di presentare un’altra domanda reiterata a seguito di:
1. una decisione della Commissione territoriale di inammissibilità[4] della domanda reiterata perché priva di nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine[5]
2. una decisione definitiva[6] che respinge la domanda reiterata per insussistenza dei presupposti, per cessazione o esclusione della cause di protezione internazionale[7] o per manifesta infondatezza[8]
Come segnala la relazione illustrativa, la norma utilizza la facoltà riconosciuta dall’articolo 9 della direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione
Internazionale. Tale articolo infatti consente agli Stati membri di derogare al diritto di permanenza dello straniero nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di protezione internazionale nei casi di domanda reiterata ai sensi dell’articolo 41 della direttiva.
Al riguardo si segnala che l’articolo 41 della direttiva nel disciplinare appunto le deroghe al diritto di rimanere nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda precisa che “gli Stati membri possono ammettere tale deroga solo se l’autorità accertante ritenga che la decisione di rimpatrio non comporti il «refoulement» diretto o indiretto, in violazione degli obblighi incombenti allo Stato membro a livello internazionale e dell’Unione”.
Si ricorda che il principio di “non refoulement” (o non respingimento) è affermato dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati: «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
Il numero 1) della lettera b) del comma 1 introduce nell’articolo 28-bis del decreto legislativo n. 25 del 2008, dedicato alle procedure accelerate di esame della domanda di asilo, nuove tipologie di procedura accelerata. In particolare si prevede:
· la decisione entro cinque giorni da parte della Commissione territoriale sull’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale già respinta che sia stata reiterata senza addurre nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine (fattispecie prevista come causa di inammissibilità della domanda dall’articolo 29 comma 1 del medesimo decreto legislativo); i cinque giorni decorrono dalla trasmissione da parte della questura della documentazione che – indica la norma – deve avvenire “senza ritardo”(nuovo comma 1-bis dell’articolo 28-bis);
· sulla base della parte consequenziale dell’articolo aggiuntivo introdotto con l'emendamento 7.0.500, approvato in Commissione, la decisione entro cinque giorni da parte della Commissione territoriale sull’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale anche per la domanda presentata da un richiedente proveniente da un Paese designato sicuro ai sensi del nuovo articolo 2-bis introdotto dall’articolo 7-bis (si ricorda che in base al nuovo articolo 28-bis, introdotto dal medesimo articolo 7-bis, la provenienza da un Paese designato come sicuro qualifica la domanda del richiedente come manifestamente infondata, fermo restando che ai sensi del medesimo articolo 2-bis la qualifica di “paese sicuro” deve essere valutata con riferimento alla specifica situazione del richiedente che può infatti invocare gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese per la situazione particolare in cui il richiedente si trova);
Il successivo numero 2 sopprime, per esigenze di coordinamento la previsione (art. 28-bis, comma 2, lettera b) che i tempi massimi di esame della fattispecie di domanda sopra indicata ammontassero a complessivi 18 giorni. Sempre per esigenze di coordinamento la successiva lettera c) dispone la soppressione, per questa tipologia di domande, della possibilità per il richiedente asilo di presentare osservazioni.
· la decisione entro due giorni dall’audizione che deve avvenire entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione (si tratta della tempistica prevista dal comma 1 dell’articolo 28) anche nel caso in cui il richiedente asilo presenti la domanda direttamente alla frontiera o nelle zone di transito da individuare con decreto del Ministro dell’interno (ai sensi del nuovo comma 1-quater), dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli (nuovo comma 1-ter); il comma 1-quater consente al decreto del Ministro dell’interno di istituire nelle zone di frontiera e nelle zone di transito fino a cinque ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali per l’esame delle domande previste, nel numero massimo di 20 dall’articolo 4, comma 2, del decreto legislativo n. 25 del 2008. La parte consequenziale dell’articolo aggiuntivo 7.0.500, approvato in Commissione, prevede la medesima procedura anche per la domanda presentata da un richiedente proveniente da un Paese designato sicuro ai sensi del nuovo articolo 2-bis introdotto dall’articolo 7-bis.
Al riguardo, parrebbe da precisare quale sia la tipologia di procedura accelerata da applicare al richiedente proveniente da un Paese designato sicuro poiché tale fattispecie è richiamata sia al comma 1-bis sia al comma 1-ter.
Il comma 2-bis dell’articolo 4 del citato decreto legislativo n. 25 del 2008 già prevede la possibilità di istituire presso ciascuna Commissione territoriale, al verificarsi di un eccezionale incremento delle domande di asilo connesso all'andamento dei flussi migratori e per il tempo strettamente necessario, una o più sezioni fino a un numero massimo complessivo di trenta per l'intero territorio nazionale.
Per esigenze di coordinamento, il successivo numero 3 sopprime la previsione (art. 28-bis, comma 2, lettera b) che i tempi massimi di esame per la domanda di un richiedente asilo fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera ammontassero a complessivi 18 giorni.
Come segnala la relazione illustrativa, la norma utilizza la facoltà riconosciuta dall’articolo 31, paragrafo 8, lettera g) della già richiamata direttiva 2013/32/UE. La disposizione della direttiva consente infatti agli Stati membri di prevedere una procedura d’esame della domanda accelerata e/o svolta alla frontiera o nelle zone di transito qualora il richiedente presenta la domanda al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione anteriore o imminente che ne comporterebbe l’allontanamento.
Al riguardo, andrebbe chiarita l’effettiva necessità di rimettere ad una fonte secondaria l’individuazione delle zone di frontiera e di transito. In particolare, per quanto riguarda le zone di transito, l’espressione è già utilizzata nel decreto legislativo n. 25 del 2008 (articoli 1 e 10-bis), senza che la sua definizione sia rimessa ad atti secondari, ed appare pacifico che nelle disposizioni richiamate sono definite “zone di transito” gli uffici e le zone immediatamente prospicienti i valichi di frontiera.
La lettera d) del comma 1 prevede una nuova causa di inammissibilità della domanda di protezione internazionale: si tratta della domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale del richiedente asilo. Ciò attraverso l’inserimento nel decreto legislativo n. 25 del 2008 di un nuovo articolo 29-bis.
La lettera e) del comma 1 limita – attraverso modifiche all’articolo 35-bis del decreto legislativo n. 25 del 2008 - la sospensione del procedimento di espulsione in pendenza di un ricorso sulle decisioni delle commissioni territoriali. In particolare, non godranno più della sospensione:
· coloro che facciano ricorso avverso il rigetto di una domanda, presentata dopo essere stati fermati per avere eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera ovvero dopo essere stati fermati in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l'adozione o l'esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento (numero 1, che modifica il comma 3 lettera d dell’articolo 35-bis);
· coloro che facciano ricorso avverso la dichiarazione di inammissibilità di una domanda reiterata senza addurre nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine, ai sensi dell’articolo 29, comma 1, lettera b) del decreto legislativo n. 25 del 2008; nella disciplina previgente la sospensione del procedimento di espulsione non poteva essere applicata solo in caso di secondo rigetto (numero 2, che modifica il comma 5 dell’articolo 35-bis; per le ulteriori modifiche a tale comma operate dal provvedimento in esame si rinvia alla scheda relativa all’articolo 10)
Il comma 2, a seguito dell’approvazione in Commissione referente dell’EMENDAMENTO 9.601, autorizza la spesa di 1.860.915 euro a decorrere dall’anno 2019 per la copertura degli oneri derivanti dall’attuazione delle nuove tipologie di procedura accelerata di esame di cui al comma 1 lettera b) (che comprende anche, come si è visto, la possibilità di istituire fino a cinque ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali per l’esame delle domande di protezione territoriale).
Il medesimo emendamento ha soppresso lo stanziamento di 465.228,75 euro per l’anno 2018.
Ai relativi oneri si provvede ai sensi della copertura finanziaria complessiva del provvedimento prevista dall’articolo 39.
In Commissione referente è stato inoltre approvato l’EMENDAMENTO 9.601, volto a introdurre i nuovi commi 2-bis e 2-ter.
Il comma 2-bis consente l’istituzione, a decorrere dal 1° gennaio 2019 e con durata massima di otto mesi, di ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali per il riconoscimento delle domande di protezione internazionale, fino ad un numero massimo di dieci.
Tali sezioni si vanno ad aggiungere a quelle specificamente previste nelle zone di frontiera e nelle zone di transito dal nuovo comma 1-quater dell’articolo 28-bis, comma introdotto dal numero 1) della lettera b) del comma 1.
Il comma 2-ter autorizza, per l’istituzione delle nuove sezioni, una spesa di 2.481.220 per l’anno 2019, anche in questo caso coperta ai sensi dell’articolo 39.
Articolo 10
(Procedimento immediato innanzi alla Commissione territoriale)
L’articolo 10 interviene sulla disciplina relativa alle decisioni che la Commissione territoriale può assumere al termine dell’esame della domanda di protezione internazionale.
In primo luogo sono ridefinite – in base a quanto proposto dall’emendamento 10.5 approvato dalla Commissione referente - le ipotesi in cui la Commissione può adottare una decisione di rigetto della domanda.
In secondo luogo è prevista una procedura “accelerata” di esame da parte della Commissione in determinate ipotesi. È infatti stabilito che (salvo il caso in cui la domanda sia già stata rigettata dalla Commissione territoriale, specifica l’emendamento 10.600 approvato dalla Commissione referente) il questore dia tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente nell’ipotesi in cui il richiedente protezione internazionale sia sottoposto a procedimento penale per uno dei reati riconosciuti di particolare gravità dall’ordinamento e ricorrono le condizioni che consentono, previa valutazione, il trattenimento del richiedente.
Analoga comunicazione deve essere effettuata nel caso in cui il richiedente sia stato condannato, anche con sentenza non definitiva di condanna, per i suddetti reati.
La Commissione territoriale è quindi tenuta a provvedere nell’immediatezza all’audizione del richiedente e ad adottare contestuale decisione, valutando l’accoglimento della domanda, la sospensione del procedimento o il rigetto della domanda - specifica l’emendamento 10.9 approvato dalla Commissione referente.
Salvo il caso in cui la Commissione trasmetta gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno per gravi motivi di carattere umanitario, il richiedente ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche nel caso in cui abbia presentato ricorso avverso la decisione della Commissione.
Il provvedimento adottato dalla Commissione territoriale in base a tale previsione, inoltre, viene incluso tra le fattispecie per le quali la proposizione del ricorso o dell'istanza cautelare non sospende l'efficacia esecutiva della decisione della Commissione che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale (alla luce del combinato disposto con la nuova previsione recata dall’art. 9 del decreto-legge).
L'emendamento 10.600 approvato dalla Commissione referente specifica inoltre che quando sopravvengono i casi e le condizioni in questione (sottoposizione del richiedente a procedimento penale o condanna per reati di particolare gravità e procedura accelerata per la decisione della Commissione) cessano gli effetti di sospensione del provvedimento impugnato già prodotti a seguito della proposizione del ricorso.
L’articolo in esame, integra – al comma 1, lettera a) - la disciplina vigente riguardo alle decisioni di rigetto che la Commissione territoriale può adottare (art. 32 del d. lgs. 25/2008) al termine del procedimento di esame della domanda del richiedente protezione internazionale.
Attualmente, la Commissione territoriale può concludere il procedimento di esame della domanda con i seguenti provvedimenti ai sensi dell’art. 32, comma 1, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25:
· riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria (lett. a);
· rigettare la domanda qualora non sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale o ricorra una delle cause di cessazione o esclusione dalla protezione internazionale previste dal medesimo decreto legislativo (lett. b);
· rigettare la domanda per manifesta infondatezza (lett. b-bis).
Secondo quanto previsto dall’emendamento 10.5 approvato dalla Commissione referente, la Commissione territoriale può rigettare la domanda nel caso in cui in una parte del territorio del paese d'origine il richiedente non ha fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corre rischi effettivi di subire danni gravi o ha accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi e può legalmente e senza pericolo recarvisi ed essere ammesso e si può ragionevolmente supporre che vi si ristabilisca'.
Si ricorda che la direttiva 2013/32/UE (c.d. direttiva procedure) dispone in particolare (art. 10) che “nell’esaminare una domanda di protezione internazionale, l’autorità accertante determina anzitutto se al richiedente sia attribuibile la qualifica di rifugiato e, in caso contrario, se l’interessato sia ammissibile alla protezione sussidiaria”. Le decisioni dell’autorità accertante devono inoltre essere adottate previo congruo esame. La decisione con cui viene respinta una domanda riguardante lo status di rifugiato e/o lo status di protezione sussidiaria deve essere corredata di motivazioni de jure e de facto e il richiedente deve essere informato per iscritto dei mezzi per impugnare tale decisione negativa.
Con le altre modifiche previste dall’articolo 10 si prevede, in particolare, una procedura “accelerata” di esame da parte della Commissione nel caso in cui il richiedente protezione internazionale sia sottoposto a procedimento penale per uno dei reati riconosciuti di particolare gravità dall’ordinamento (per i quali è consentita una più ampia durata delle indagini preliminari) e ricorrono le condizioni che consentono, previa valutazione, il trattenimento del richiedente: in tali casi si prevede che il questore ne dia tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente. Analoga comunicazione deve essere effettuata nel caso in cui il richiedente sia stato condannato, anche con sentenza non definitiva di condanna, per i suddetti reati. La comunicazione non è effettuata nel caso in cui la domanda sia già stata rigettata dalla Commissione territoriale, come specificato dall’emendamento 10.600 approvato dalla Commissione referente.
Il testo richiama le condizioni di cui all’articolo 6, comma 1, lettere a), b) e c) del d. lgs. 142/2015 ai sensi del quale il richiedente è trattenuto, ove possibile in appositi spazi, nei centri di permanenza per i rimpatri, sulla base di una valutazione caso per caso, quando:
a) si trova nelle condizioni previste dall'articolo 1, paragrafo F della Convenzione relativa allo status di rifugiato, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, ratificata con la legge 24 luglio 1954, n. 722, e modificata dal protocollo di New York del 31 gennaio 1967, ratificato con la legge 14 febbraio 1970, n. 95;
b) si trova nelle condizioni per l’espulsione di cui all'articolo 13, commi 1 e 2, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e nei casi di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (v. infra);
c) costituisce un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica. Nella valutazione della pericolosità si tiene conto di eventuali condanne, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti indicati dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti agli stupefacenti, alla libertà sessuale, al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite.
I reati richiamati sono quelli di particolare gravità per i quali l’ordinamento prevede il termine di 18 mesi di durata massima delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 407 c.p.p., comma 1, lett. a), richiamato dagli articoli 12 e 16 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251[9]) quali, terrorismo, strage, mafia, omicidio, rapina aggravata, sfruttamento sessuale dei minori e violenza sessuale.
In base alla normativa vigente, alla sentenza definitiva di condanna per uno dei suddetti reati di cui all’art. 407 c.p.p. (richiamati dagli articoli 12 e 16 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251) consegue il diniego della richiesta di conferimento dello status di rifugiato e l’esclusione dello status di protezione sussidiaria costituendo lo straniero “percolo per l’ordine pubblico e la sicurezza”.
Una volta ricevuta tale comunicazione, la Commissione territoriale è tenuta a provvedere nell’immediatezza all’audizione del richiedente e ad adottare contestuale decisione; è dunque introdotto un “procedimento immediato” come recita la rubrica. Come specificato dall’emendamento 10.9, la Commissione territoriale può, a quel punto, valutare:
- l’accoglimento della domanda;
- la sospensione del procedimento;
- il rigetto della domanda.
Le ultime due decisioni ed il verificarsi delle ipotesi previste dagli articoli 23 e 29 comportano alla scadenza del termine per l'impugnazione l'obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale, salvo che gli sia stato rilasciato un permesso di soggiorno ad altro titolo. A tale fine, alla scadenza del termine per l'impugnazione, si provvede ai sensi del citato articolo 13, commi 4 e 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (procedimento per l’espulsione), salvo gli effetti della sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato.
Per quanto riguarda il procedimento immediato ivi previsto, si ricorda che la normativa prevede, all’art. 28-bis del d. lgs. 25/2008 “Procedure accelerate” stabilendo che nel caso in cui la domanda è presentata da un richiedente per il quale è stato disposto il trattenimento nei centri di permanenza per i rimpatri appena ricevuta la domanda, la questura provvede immediatamente alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all'audizione. La decisione è adottata entro i successivi due giorni. Per le ulteriori previsioni introdotte dal provvedimento in esame si veda la scheda relativa all’art. 9.
Salvo il caso in cui la Commissione trasmetta gli atti per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno per gravi motivi di carattere umanitario, il richiedente è previsto l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche nel caso in cui abbia presentato ricorso avverso la decisione della Commissione.
Si ricorda ai sensi dell’art. 7 del d. lgs. 25/2008, il richiedente è autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato fino alla decisione della Commissione territoriale ai sensi dell'articolo 32.
Tale previsione non si applica a coloro che debbano essere: a) estradati verso un altro Stato in virtù degli obblighi previsti da un mandato di arresto europeo; b) consegnati ad una Corte o ad un Tribunale penale internazionale; c) avviati verso un altro Stato dell'Unione competente per l'esame dell'istanza di protezione internazionale. Per le ulteriori previsioni introdotte dal provvedimento in esame si veda la scheda relativa all’articolo 9.
Per quanto riguarda le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale, queste sono disciplinate principalmente dall’art. 35-bis del d. lgs. 25/2008 (introdotto dal decreto-legge 13/2017). Tale articolo è ora oggetto di modifiche ai sensi dell’art. 1 del provvedimento in esame (v. scheda art. 1).
Secondo quanto disposto dall’art. 35-bis (cui vanno aggiunte le modifiche dell’art. 1) il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all'estero, e può essere depositato anche a mezzo del servizio postale ovvero per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italiana. In tal caso l'autenticazione della sottoscrizione e l'inoltro all'autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedimento sono effettuate presso la medesima rappresentanza. La procura speciale al difensore è rilasciata altresì dinanzi all'autorità consolare. n alcuni casi (quali l’adozione di un provvedimento di trattenimento) i termini sono ridotti della metà.
La proposizione del ricorso sospende l'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto:
a) da parte di un soggetto nei cui confronti è stato adottato un provvedimento di trattenimento in un centro (di cui all'articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286);
b) avverso il provvedimento che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale;
c) avverso il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza (ai sensi dell'articolo 32, comma 1, lettera b-bis);
d) avverso il provvedimento adottato nei confronti dei soggetti per i quali è prevista una procedura accelerata (articolo 28-bis, comma 2, lettera c).
In tali casi l'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa, quando ricorrono gravi e circostanziate ragioni e assunte, ove occorra, sommarie informazioni, con decreto motivato, pronunciato entro cinque giorni dalla presentazione dell'istanza di sospensione e senza la preventiva convocazione della controparte. La proposizione del ricorso o dell'istanza cautelare non sospende l'efficacia esecutiva del provvedimento che dichiara, per la seconda volta, inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale.
La Commissione che ha adottato l'atto impugnato è tenuta a rendere disponibili entro venti giorni dalla notificazione del ricorso, copia della domanda di protezione internazionale presentata, della videoregistrazione, del verbale di trascrizione della videoregistrazione, nonché dell'intera documentazione comunque acquisita nel corso della procedura di esame, ivi compresa l'indicazione della documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei Paesi di provenienza dei richiedenti utilizzata.
Il procedimento è trattato in camera di consiglio. Per la decisione il giudice si avvale anche delle informazioni sulla situazione socio-politico-economica del Paese di provenienza che la Commissione nazionale aggiorna costantemente e rende disponibili all'autorità giudiziaria con modalità previste dalle specifiche tecniche.
E' fissata udienza per la comparizione delle parti esclusivamente quando il giudice:
a) visionata la videoregistrazione, ritiene necessario disporre l'audizione dell'interessato;
b) ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti;
c) dispone consulenza tecnica ovvero, anche d'ufficio, l'assunzione di mezzi di prova.
L'udienza è altresì disposta quando ricorra almeno una delle seguenti ipotesi:
a) la videoregistrazione non è disponibile;
b) l'interessato ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice, sulla base delle motivazioni esposte dal ricorrente, ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione;
c) l'impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado.
Il ricorrente può depositare una nota difensiva entro i venti giorni successivi.
Entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso, il Tribunale decide, sulla base degli elementi esistenti al momento della decisione, con decreto che rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria. Il decreto non è reclamabile. La sospensione degli effetti del provvedimento impugnato, viene meno se con decreto, anche non definitivo, il ricorso è rigettato. Il termine per proporre ricorso per cassazione è di giorni trenta e decorre dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria, da effettuarsi anche nei confronti della parte non costituita. La procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato; a tal fine il difensore certifica la data di rilascio in suo favore della procura medesima. In caso di rigetto, la Corte di cassazione decide sull'impugnazione entro sei mesi dal deposito del ricorso. Quando sussistono fondati motivi, il giudice che ha pronunciato il decreto impugnato può disporre la sospensione degli effetti del predetto decreto, con conseguente ripristino, in caso di sospensione di decreto di rigetto, della sospensione dell'efficacia esecutiva della decisione della Commissione. La sospensione di cui al periodo precedente è disposta su istanza di parte da depositarsi entro cinque giorni dalla proposizione del ricorso per cassazione. La controparte può depositare una propria nota difensiva entro cinque giorni dalla comunicazione, a cura della cancelleria, dell'istanza di sospensione. Il giudice decide entro i successivi cinque giorni con decreto non impugnabile.
La controversia è trattata in ogni grado in via di urgenza.
Ai fini dell’obbligo di lasciare il territorio nazionale, il testo richiama le modalità dettate dal Testo unico immigrazione (d. lgs. 286/1998) all’articolo 13, commi 3, 4 e 5 per procedere all’espulsione.
Le previsioni richiamate dispongono, in particolare, che l’espulsione sia disposta in ogni caso con decreto motivato immediatamente esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato. Inoltre, quando lo straniero è sottoposto a procedimento penale e non si trova in stato di custodia cautelare in carcere, il questore, prima di eseguire l'espulsione, è tenuto a richiedere il nulla osta all'autorità giudiziaria, che può negarlo solo in presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all'accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all'interesse della persona offesa (comma 3).
L'espulsione è eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica nei casi previsti dal comma 4 (quali, tra gli altri, il sussistere del rischio di fuga, il respingimento della domanda di permesso di soggiorno in quanto manifestamente infondata o fraudolenta, la non osservanza del termine per la partenza volontaria senza giustificato motivo).
Lo straniero, destinatario di un provvedimento d'espulsione, qualora non ricorrano le condizioni per l'accompagnamento immediato alla frontiera di cui al comma 4, può chiedere al prefetto, ai fini dell'esecuzione dell'espulsione, la concessione di un periodo per la partenza volontaria, anche attraverso programmi di rimpatrio volontario ed assistito. Il prefetto, valutato il singolo caso, con lo stesso provvedimento di espulsione, intima lo straniero a lasciare volontariamente il territorio nazionale, entro un termine compreso tra 7 e 30 giorni, termine prorogabile ove necessario.
Sotto il profilo della tutela del contumace nel procedimento penale (in corso per il soggetto destinatario del provvedimento di allontanamento dal territorio italiano) si richiama la giurisprudenza CEDU (e, in particolare, la sentenza del 10 novembre 2004 causa Sejdovic c. Italia) in cui è stata constatato la violazione dell’art. 6 CEDU e preso atto che la suddetta violazione conseguiva a una disfunzione dell’ordinamento italiano in materia di processo in contumacia; aveva quindi affermato l’obbligo dell’Italia di garantire, con opportune misure, la tutela del diritto del contumace ad avere un giusto processo, laddove manchi la prova che questi fosse a conoscenza del processo stesso o che ad esso si fosse volontariamente sottratto; aveva inoltre dichiarato che la constatazione dell’intervenuta violazione rappresentava una sufficiente soddisfazione equitativa del danno morale sofferto; aveva infine posto a carico dell’Italia il versamento, a favore del ricorrente, di 6.000,16 euro per spese di giudizio, con interessi.
A sua volta, il comma 1, lettera b) integra il comma 5 dell’articolo 35-bis del d. lgs. 25/2008, che disciplina le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale e la proposizione dell’istanza cautelare, aggiungendo il richiamo al provvedimento adottato dalla Commissione in base alle modifiche disposte dalla lettera a).
Ai sensi dell’art. 35 del d. lgs. 25/2008 contro la decisione della Commissione territoriale e la decisione della Commissione nazionale sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria è ammesso ricorso dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria. Il ricorso è ammesso anche nel caso in cui l'interessato abbia richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato e sia stato ammesso esclusivamente alla protezione sussidiaria.
In particolare, il comma 5 dell’art. 35-bis, come modificato dall’art. 9 del decreto-legge in esame, prevede che la proposizione del ricorso o dell'istanza cautelare (per sospendere l'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato) non sospende l'efficacia esecutiva del provvedimento che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale in quanto il richiedente ha reiterato identica domanda senza addurre nuovi elementi (ai sensi dell'articolo 29, comma 1, lettera b) nonché, secondo quanto aggiunto dalla disposizione in esame, in base alla decisione adottata dalla Commissione (ai sensi dell’art. 32, comma1-bis, introdotto dall’art. 10 in esame) che – come illustrato – riguarda il caso in cui il richiedente protezione internazionale sia sottoposto a procedimento penale, o sia stato condannato, anche con sentenza non definitiva di condanna, per reati riconosciuti di particolare gravità dall’ordinamento.
L'emendamento 10.600 approvato dalla Commissione referente specifica inoltre che quando nel corso del procedimento giurisdizionale in materia di riconoscimento della protezione internazionale, disciplinato dall’art. 35-bis del d. lgs. 25/2008 (recepimento della direttiva 2005/85/CE sulle procedure), sopravvengono i casi e le condizioni del citato art. 32, comma 1-bis (sottoposizione del richiedente a procedimento penale per reati di particolare gravità e procedura accelerata per la decisione della Commissione) cessano gli effetti di sospensione del provvedimento impugnato già prodotti a seguito della proposizione del ricorso ai sensi del comma 3 del medesimo art. 35-bis.
Il citato comma 3 prevede che “la proposizione del ricorso sospende l'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato”, tranne alcune ipotesi espressamente previste dalla legge.
Articolo 11
(Istituzione di sezioni dell’Unità di Dublino)
L’articolo 11 prevede la possibilità di istituire presso le prefetture fino ad un massimo di tre articolazioni territoriali dell’Unità di Dublino. Tale Unità attualmente opera, all’interno del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Ministero dell’interno, nell’ambito delle previsioni della cd. normativa Dublino ai fini dello scambio di informazioni e della verifica dello Stato membro UE competente dell’esame della domanda d’asilo presentata in uno degli altri Stati membri da un cittadino di un Paese terzo (o apolide).
L’articolo 11 del provvedimento in esame si compone di due commi.
Il comma 1 prevede la possibilità di istituire fino ad un massimo di tre articolazioni territoriali dell’Unità di Dublino. Tali articolazioni, istituite con decreto del ministero (rectius Ministro) dell’interno, sono chiamate ad operare presso le prefetture nel limite delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Come mostrato dall’apposito organigramma del Ministero dell’interno, attualmente l’unità di Dublino opera all’interno della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Ministero dell’interno.
La struttura è preposta a determinare lo Stato membro UE competente dell’esame della domanda d’asilo presentata in uno degli altri Stati membri da un cittadino di un Paese terzo (o apolide) ai sensi della cd. normativa Dublino (attualmente del Regolamento (UE) 604/2013 in vigore dal 1 gennaio 2014 in combinato disposto con il regolamento EURODAC, n. 603/2013). L’unità svolge anche attività strumentali, di supporto e relative al contenzioso.
Obiettivo citata della regolamentazione europea è quello di garantire, da un lato, al richiedente asilo che la sua domanda sia effettivamente esaminata da uno Stato membro dell’UE e, dall’altro, evitare che un esso presenti la propria istanza in più Stati membri (cd. asylum shopping).
Per assolvere tali finalità l’Unità Dublino ha il compito di scambiare, con gli altri Stati membri, informazioni sui richiedenti asilo e di verificare lo Stato membro responsabile della valutazione della domanda di protezione internazionale organizzando conseguentemente i relativi trasferimenti.
Contro le decisioni di trasferimento operate dall’Unità è ammesso ricorso presso la sezione di tribunale specializzata in materia di immigrazione.
Il comma 2 dell’articolo in esame interviene dunque sulle disposizioni del decreto-legge n. 13/2017 circa la competenza delle sezioni di tribunale specializzate in materia di immigrazione con riferimento alle istituende articolazioni territoriali dell’Unità Dublino ai sensi del comma 1.
Attualmente la sezione di tribunale specializzata in materia di immigrazione competente per conoscere dei ricorsi presentati è quella istituita presso la Corte di appello di Roma. Il comma 2 specifica che, nel caso di istituzione delle articolazioni nelle prefetture, ai sensi del comma 1, i provvedimenti emanati sono impugnabili presso la sezione specializzata territorialmente competente (la competenza delle sezioni coincide con l’estensione dei circondari di corte di appello).
Nella relazione tecnica (RT), di accompagnamento al decreto-legge in esame, si afferma che l’individuazione delle prefetture in cui istituire le articolazioni dell’unità di Dublino verranno effettuate in relazione alle esigenze contingenti connesse ai movimenti secondari dei richiedenti asilo, che interessano principalmente le frontiere terrestri. Nella RT si rileva inoltre che tali articolazioni territoriali saranno realizzate preponendo a capo di esse viceprefetti e viceprefetti aggiunti in servizio presso la medesima Prefettura sede della sezione al fine di garantire l’identità di funzioni rispetto a quelle assicurate in sede centrale. A tal fine il decreto ministeriale previsto al comma 1 dovrà procedere anche ad una parziale modifica di quanto previsto dal D.M. 13 maggio 2014, con il quale sono stati da ultimo individuati i posti di funzione dirigenziali di livello non generale da attribuire, nell’ambito delle Prefetture –UTG, ai funzionari della carriera prefettizia.
Articolo 12
(Accoglienza dei richiedenti asilo)
L’articolo 12 interviene sulle disposizioni concernenti il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) al fine di riservare i servizi di accoglienza degli enti locali ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati, escludendo dalla possibilità di usufruire dei relativi servizi i richiedenti la protezione internazionale, come finora previsto. Sono inclusi tra i beneficiari del Sistema di protezione, in luogo dei titolari del permesso di soggiorno per motivi umanitari (istituto su cui interviene l’articolo 1 del decreto-legge), i titolari dei permessi di soggiorno “speciali” previsti dal Testo unico in materia di immigrazione, come modificato dal medesimo art. 1 del decreto-legge, nell’ipotesi in cui non accedano a sistemi di protezione specificamente dedicati.
L’emendamento 12.601 approvato dalla Commissione referente prevede che i minori non accompagnati richiedenti asilo, al compimento della maggiore età possano rimanere nel Sistema di protezione fino alla definizione della domanda di protezione internazionale.
In conseguenza delle modifiche recate allo SPRAR viene ristrutturato l’impianto complessivo del sistema di accoglienza dei migranti sul territorio, articolato in prima e seconda accoglienza ai sensi del D.Lgs. n. 142 del 2015.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato, oltre al già ricordato emendamento 12.601, gli emendamenti 12.600, 12.46 e 12.50.
L’articolo in esame interviene sulla platea dei beneficiari dei servizi di accoglienza sul territorio per i migranti prestati dagli enti locali nell’ambito del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR).
In via preliminare occorre pertanto ricordare che finora il sistema SPRAR ha finanziato gli enti locali per la realizzazione di progetti destinati all’accoglienza dei richiedenti asilo, dei rifugiati e destinatari di protezione sussidiaria e di altre forme di protezione umanitaria.
Il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR)
Lo SPRAR è stato istituzionalizzato dalla legge n. 189 del 2002 (c.d. legge Martelli), che ha modificato il decreto-legge n. 416 del 1989 ("Norme urgenti in materia di asilo politico, ingresso e soggiorno di cittadini extracomunitari e regolarizzazione di cittadini extracomunitari e apolidi"). In particolare il sistema di accoglienza territoriale e il suo finanziamento sono disciplinati dagli articoli aggiuntivi 1-sexies e 1-septies del decreto-legge, volti ad introdurre un sistema di accoglienza pubblico, diffuso su tutto il territorio italiano con il coinvolgimento delle istituzioni centrali e locali secondo una condivisione di responsabilità tra Ministero dell’interno ed enti locali.
Gli enti locali aderiscono al sistema SPRAR su base volontaria e attuano i progetti con il supporto delle realtà del terzo settore. A coordinare lo SPRAR è il Servizio centrale, attivato dal Ministero dell'interno e affidato con convenzione all'Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci), con funzioni di informazione e coordinamento, consulenza, supporto tecnico e monitoraggio. Ai sensi della normativa vigente, i progetti di accoglienza integrata vengono finanziati annualmente dal Ministro dell'interno, coprendo i costi complessivi dei vari servizi forniti dai territori nella misura massima del 95%.
Il finanziamento è a carico del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo, istituito dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, che ha modificato il decreto legge n. 416 del 1989 e nel quale confluiscono sia risorse nazionali, provenienti dallo stato di previsione del Ministero dell’interno, sia assegnazioni annuali del Fondo europeo per i rifugiati. Per l’attuazione di ulteriori posti, tali fondi sono integrati con risorse del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI).
Ciascun ente locale elabora progetti in linea con le necessità e i criteri indicati dal Ministero e - per finanziarli - presenta un’apposita domanda di ammissione al contributo. Le linee guida e le modalità di presentazione delle domande di contributo sono oggetto di un decreto ministeriale che il Ministro dell'interno emana sentita la Conferenza unificata. Il decreto deve prevedere e regolamentare anche la predisposizione di servizi rivolti a persone con esigenze particolari, come minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, persone affette da malattie mentali o vittime di violenza, torture, mutilazioni genitali.
Con la riforma del sistema di accoglienza definito con il D.Lgs. n. 142 del 2015 in attuazione delle direttive europee 2013/32/UE e 2013/33/UE, si è ribadita la scelta per un’accoglienza diffusa gestita dalle Prefetture con il coinvolgimento dei territori, che trova il suo perno centrale nello SPRAR, sistema di seconda accoglienza, riservato anche ai minori stranieri non accompagnati, di cui si è assicurato il potenziamento (artt. 14 e 15 del D.Lgs. 142, su cui, si v. infra, il box dedicato).
Tale cornice normativa riflette il modello di accoglienza «diffusa» e basata su regole definite al di fuori di una logica emergenziale, che era già emerso nell'Intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 10 luglio 2014 da Stato, regioni ed enti locali, nella quale era stato concordato il "Piano operativo nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari".
Al fine di modificare l’ambito di applicazione soggettivo dei servizi di accoglienza dello SPRAR l’articolo in esame modifica diverse disposizioni.
In primo luogo, il comma 1 novella in più parti l’art. 1-sexies del D.L. 416/1989 relativo allo SPRAR.
La lettera a) riscrive il comma 1, per qualificare i servizi dello SPRAR sostituendo il riferimento all’accoglienza “dei richiedenti asilo e alla tutela dei rifugiati e degli stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria” con il riferimento ai servizi di accoglienza “per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati”.
A tale riguardo, si ricorda che ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 251/2007 (c.d. decreto qualifiche) il titolare o beneficiario di protezione internazionale è il cittadino straniero cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria.
Rispetto al quadro normativo finora vigente, sono pertanto esclusi dall’ambito di applicazione dei servizi della rete SPRAR i richiedenti asilo (ossia gli stranieri che hanno presentato una domanda di protezione internazionale sulla quale non è ancora stata adottata una decisione definitiva).
Inoltre, in luogo degli “stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria” (istituto abrogato dall’art. 1 del DL in esame), finora riconosciuti dalla legge come beneficiari dei servizi finanziati dal Fondo SPRAR, la nuova formulazione del comma 1 dell’art. 1-sexies, D.L. 416/1989 prevede che possano accedere ai servizi di accoglienza anche i titolari dei permessi di soggiorno “speciali” previsti dal Testo unico in materia di immigrazione, come ridisciplinati o introdotti dall’articolo 1 del decreto legge in esame, a condizione che tali soggetti non accedano a sistemi di protezione specificamente dedicati.
Segnatamente e alle condizioni previste, possono accedere allo SPRAR i titolari di:
§ permesso di soggiorno per vittime di violenza o grave sfruttamento ex art. 18 del TU immigrazione;
§ permesso di soggiorno per vittime di violenza domestica ex art. 18-bis, TU immigrazione;
§ permesso di soggiorno per condizioni di salute di eccezionale gravità ex art. 19, co. 2, lett. d-bis), TU immigrazione, introdotto dall’art. 1 del decreto in esame;
§ permesso di soggiorno per vittime di particolare sfruttamento lavorativo ex art. 22, co. 12-quater, TU immigrazione;
§ permesso di soggiorno per calamità ex art. 20-bis TU immigrazione, introdotto dall’art. 1 del decreto in esame;
§ permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile ex art. 42-bis TU immigrazione, introdotto dall’art. 1 del decreto in esame.
Per l’analisi e la descrizione delle norme relative ai diversi titoli di soggiorno menzionati, si rinvia, supra, alla scheda di lettura dell’articolo 1.
Non si segnalano, invece, novità per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati, richiedenti o non la protezione internazionale, ai quali già dal 2015 è riconosciuta la possibilità di accedere ai servizi di accoglienza finanziati con il Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell'asilo (Fondo SPRAR).
Fino alla legge di stabilità 2015, solo i minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo, ai sensi dell'art. 26 del D.Lgs. 25/2008, erano immediatamente avviati nelle strutture di accoglienza della rete SPRAR. La legge citata ha consentito, invece, la possibilità di accedere a tali servizi anche per i minori non accompagnati non richiedenti protezione internazionale, nei limiti dei posti e delle risorse disponibili (art. 1, comma 183, L. n. 190/2014). Con le modifiche da ultimo introdotte con la L. 47 del 2017 (art. 12) è stata eliminata ogni distinzione minori richiedenti e non richiedenti la protezione internazionale ai fini dell'accesso ai servizi finanziati con il Fondo SPRAR, a prescindere dai posti disponibili.
L’EMENDAMENTO 12.600 approvato dalla Commissione referente propone l’inserimento di nuove disposizioni (lettere a-bis) e a-ter) che riformulano i commi 2 e 3 dell’art. 1-sexies del citato D.L. 416, i quali attualmente prevedono, per i servizi di accoglienza degli enti locali, forme di sostegno finanziario apprestate dal Ministero dell’interno e poste a carico di un fondo ad hoc, il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (Fnpsa), istituito dal successivo art. 1-septies.
La nuova formulazione proposta stabilisce, in particolare, che:
§ con decreto del Ministro dell’interno, acquisito il parere della Conferenza unificata (che si specifica debba esprimersi entro trenta giorni) sono fissati i criteri e le modalità per la presentazione da parte degli enti locali delle domande di contributo per la realizzazione e la prosecuzione dei progetti di accoglienza;
§ con decreto del Ministro dell’interno si provvede all’ammissione al finanziamento dei progetti presentati dagli enti locali, nei limiti delle risorse disponibili del Fnpsa. La disposizione introdotta non specifica la periodicità dell’assegnazione delle risorse.
Per quanto concerne il quadro normativo vigente, le disponibilità del fondo sono assegnate annualmente con decreto del Ministro dell’interno (artt. 1-sexies, D.L. n. 416/1989). Il testo del DL prevede che il finanziamento del Ministero dell’Interno copre fino al 80% del costo complessivo di ciascuna iniziativa territoriale, ma dal 2015 tale quota è stata aumentata per effetto dell’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 142/2015, che demanda ad un decreto del Ministro dell'interno la determinazione delle modalità di presentazione da parte degli enti locali delle domande di contributo a valere sul Fnpsa, anche in deroga al limita dell'80%, nonché l’individuazione delle linee guida per la predisposizione dei servizi di accoglienza da assicurare da parte degli enti locali. In attuazione di tale disposizione, è stato adottato il D.M. 10 agosto 2016, che detta anche le nuove linee guida per il funzionamento dello SPRAR. In particolare, attualmente il finanziamento da parte del Fondo è assicurato per un triennio, in misura che può arrivare sino al 95% del costo complessivo.
Per effetto della modifica proposta dalla lettera in esame, nonché della contestuale abrogazione dell’art. 14, co. 2, del D.Lgs. n. 142/2015 (disposta ai sensi della successiva lettera f), su cui si v., infra), è eliminato il riferimento legislativo alla quota parte di sostegno finanziario dei servizi assicurati dagli enti locali mediante l’utilizzo delle risorse iscritte nel Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo.
È inoltre disposta l’abrogazione del comma 3 dell’art. 1-sexies, che stabilisce il contenuto necessario del decreto annuale sull’assegnazione delle risorse SPRAR con particolare riferimento alla prima attuazione.
La lettera b) del comma 1 dell’articolo in esame modifica il comma 4 del citato art. 1-sexies, che prevede il Servizio centrale dello SPRAR, per adeguare il rifermento della destinazione del sistema di protezione ai nuovi soggetti beneficiari indicati al comma 1.
A sua volta, la successiva lettera c) interviene con una disposizione di coordinamento sul comma 5, nella parte in cui si prevede che il servizio centrale dello SPRAR svolga attività di monitoraggio della presenza sul territorio dei soggetti beneficiari dei servizi ai sensi del comma 1.
Da ultimo, si provvede a ridenominare il “Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati” in “Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati” (lettera d)).
Un secondo gruppo di modifiche (comma 2) ha ad oggetto il D.Lgs. n. 142 del 2015 (c.d. decreto accoglienza) che disciplina il sistema di accoglienza nazionale in attuazione delle direttive europee 2013/32/UE e 2013/33/UE.
Il sistema di accoglienza dei migranti e il ruolo dello SPRAR prima del decreto-legge
Il sistema di accoglienza dei migranti nel territorio italiano è disciplinato dal decreto legislativo n. 142/2015, adottato in attuazione delle direttive europee 2013/32/UE e 2013/33/UE.
Il sistema di accoglienza delineato si fonda, in primo luogo, sul principio della leale collaborazione, secondo forme apposite di coordinamento nazionale e regionale, basate sul Tavolo di coordinamento nazionale insediato presso il Ministero dell'interno con compiti di indirizzo, pianificazione e programmazione in materia di accoglienza, compresi quelli di individuare i criteri di ripartizione regionale dei posti da destinare alle finalità di accoglienza.
I destinatari del sistema di accoglienza disciplinato dal D.Lgs. n. 142/2015 sono gli stranieri non comunitari e gli apolidi, richiedenti protezione internazionale (ossia il riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria) nel territorio nazionale (comprese le frontiere e le zone di transito), nonché i familiari inclusi nella domanda di protezione. Le misure di accoglienza si applicano dal momento di manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale e si applicano anche nei confronti di coloro per i quali è necessario stabilire lo Stato membro competente all'esame della domanda ai sensi del cd. regolamento Dublino III (art. 1). Se la Commissione territoriale rigetta la domanda, la durata dell'accoglienza è commisurata a quella del ricorso giurisdizionale. Le misure di accoglienza pertanto continuano ad essere assicurate fino alla scadenza del termine per l'impugnazione della decisione.
In tale quadro le funzioni di soccorso e prima assistenza dei migranti, nonché le funzioni di identificazione, in base agli impegni assunti dallo Stato italiano nell'ambito dell'Agenda europea sulla migrazione (2015) sono svolte nelle aree c.d. hotspot (punti di crisi) allestite nei luoghi dello sbarco per consentire le operazioni di prima assistenza, screening sanitario, identificazione e somministrazione di informative in merito alle modalità di richiesta della protezione internazionale o di partecipazione al programma di relocation.
I migranti che manifestano l'intenzione di chiedere la protezione internazionale, a meno che non ricorrano le condizioni che necessitino il trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri, sono accompagnati nei centri governativi di prima accoglienza, che hanno la funzione di consentire l'identificazione dello straniero (ove non sia stato possibile completare le operazioni negli hotspot), la verbalizzazione e l'avvio della procedura di esame della domanda di asilo, l'accertamento delle condizioni di salute e la sussistenza di eventuali situazioni di vulnerabilità che comportino speciali misure di assistenza.
Tale funzione è innanzitutto svolta dai centri di accoglienza già esistenti al momento dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 142/2015, come i Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (CARA) e i Centri di accoglienza (CDA).
In caso di esaurimento dei posti all'interno delle strutture di prima accoglienza, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti cui l'ordinario sistema di accoglienza non sia in grado di far fronte, questi possono essere ospitati in strutture temporanee di emergenza, cd. CAS (art. 11, D.Lgs. n. 142/2015).
Solamente i richiedenti asilo che possono costituire un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica sono trattenuti in apposite sezioni dei Centri di permanenza per i rimpatri (ex CIE) allestiti per gli immigrati clandestini.
Una volta esaurita la prima fase di accoglienza, gli stranieri che abbiano formalizzato la domanda di asilo e siano privi di mezzi di sussistenza adeguati sono avviati nelle strutture territoriali che costituiscono il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati - SPRAR (art. 14, D.Lgs. n. 142 del 2015). La valutazione dei mezzi di sussistenza dei richiedenti asilo viene effettuata dalla prefettura ed il parametro utilizzato è l'importo annuo dell'assegno sociale, con le modalità disciplinate dall’art. 15, D.Lgs. 142/2015. Il decreto ha previsto che i progetti di accoglienza vengano finanziati dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, istituito dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, coprendo i costi complessivi dei vari servizi forniti dai territori anche in deroga al limite dell’’80%. Tuttavia, per l’attuazione di ulteriori posti, tali fondi sono integrati con risorse del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI).
Qualora i posti dello SPRAR siano temporaneamente indisponibili, la permanenza nel centro di prima accoglienza si protrae per il tempo necessario al trasferimento nella struttura di seconda accoglienza.
Si ricorda, in proposito, che secondi i dati diffusi nella Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza di stranieri nel territorio nazionale, riferita all'anno 2017 trasmessa a fine agosto 2018 dal Ministero dell’interno al Parlamento (Doc. LI, n. 1), alla data del 31 dicembre 2017 si registrano nel sistema accoglienza nel suo complesso 183.681 migranti ospitati nelle strutture temporanee, negli hotspot, nei centri di prima accoglienza e nello SPRAR.
Più in dettaglio, la rete della prima accoglienza è costituita da 15 strutture di accoglienza dislocate e da 9.132 strutture di accoglienza temporanea (cd. CAS) dislocate nel territorio. Complessivamente tali centri ospitano la maggior parte dei richiedenti asilo (158.821).
Per quanto concerne la seconda accoglienza, secondo i dati del Ministero, nel corso dell’anno 2017 sono stati finanziati in totale 10.949 nuovi posti, di cui 7642 relativi a 260 nuovi progetti presentati da 253 Enti e 3307 posti in ampliamento della capacità di accoglienza autorizzata agli enti già titolari di progetti.
In particolare, attraverso le modifiche agli articoli 8 e 9, D.Lgs. n. 142 introdotte dalle lettere b) e c) del comma 2 dell’articolo in esame, viene eliminata l’articolazione in due fasi del sistema nazionale di accoglienza dei richiedenti asilo. Tale sistema – basato “sulla leale collaborazione tra i livelli di governo interessati” – è attualmente articolato in una fase di «prima accoglienza» assicurata in centri di prima accoglienza governativi (articolo 9), nonché nelle strutture temporanee autorizzate dal Prefetto (articolo 11), ed una di «seconda accoglienza» disposta nelle strutture SPRAR (articolo 14).
Pur eliminando il riferimento alla seconda accoglienza, il sistema che ne risulta continua a basarsi sul principio del coordinamento a livello nazionale e regionale di cui all’art. 16 del D.lgs. n. 142 del 2015 e sulle strutture di cui agli articoli 9 e 11 del medesimo decreto.
Ai sensi del citato articolo 16, il Tavolo di coordinamento nazionale, insediato presso il Ministero dell’interno - Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, predispone annualmente, salva la necessità di un termine più breve, un Piano nazionale per l'accoglienza che, sulla base delle previsioni di arrivo per il periodo considerato, individua il fabbisogno dei posti da destinare alle finalità di accoglienza, compresi i criteri di ripartizione regionale dei posti da destinare alle finalità di accoglienza. Le linee di indirizzo e la programmazione predisposti dal Tavolo nazionale sono attuati a livello territoriale attraverso Tavoli di coordinamento regionale insediati presso le prefetture - UTG del capoluogo di Regione, che individuano, i criteri di localizzazione delle strutture governative, nonché i criteri di ripartizione, all'interno della Regione, dei posti da destinare alle finalità di accoglienza.
La prima accoglienza e i dati
Nell’impianto normativo vigente, i centri governativi di prima accoglienza (articolo 9, decreto accoglienza) sono istituiti con decreto del Ministro dell’Interno, sentita la Conferenza unificata, secondo la programmazione dei tavoli di coordinamento nazionale ed interregionali. A tale funzione possono essere riconvertiti anche i centri per i richiedenti asilo – i CARA, nonché i centri di primo soccorso e accoglienza governativi – i CPSA/CDA. La gestione dei centri di prima accoglienza può essere affidata ad enti locali, ad enti pubblici e privati che operano nei settori dell'immigrazione o dell'assistenza sociale, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici (art. 10).
Le strutture temporanee di emergenza, cd. CAS (art. 11, D.Lgs. n. 142/2015) sono individuate dalle prefetture - uffici territoriali del Governo, sentito l'ente locale nel cui territorio è situata la struttura (secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici) e la permanenza in tali strutture è stabilita per un tempo limitato, in attesa del trasferimento nelle strutture di prima accoglienza.
Secondi i dati diffusi nella Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza di stranieri nel territorio nazionale, riferita all'anno 2017 trasmessa a fine agosto 2018 dal Ministero dell’interno al Parlamento (Doc. LI, n. 1), la rete della prima accoglienza è costituita da:
· 15 centri governativi, che contano la presenza di 10.319 migranti;
· 9.132 strutture di accoglienza temporanea (cd. CAS) dislocate nel territorio, con un aumento rispetto alle 7.572 strutture del 2016 pari al 20,6%. Complessivamente tali centri ospitano la maggior parte dei richiedenti asilo, pari a 148.502.
Inoltre viene riscritto dalla lettera f) del comma 2 l’articolo 14 del D.Lgs. n. 142/2015, dedicato alla disciplina del sistema di accoglienza territoriale, abrogando le parti concernenti lo SPRAR. All’esito delle modifiche introdotte, la disposizione (ora rubricata “Modalità di accesso al sistema di accoglienza”) prevede che il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle misure di accoglienza del decreto.
Si prevede, inoltre, di inserire un inciso al comma 3 dell’articolo 14 in base al quale per accedere alle misure di accoglienza il richiedente dichiara di essere privo di mezzi sufficienti di sussistenza. La disposizione in realtà recupera una norma già oggi prevista dall’articolo 15, co. 1 del D.Lgs. 142/2015, che viene contestualmente abrogata (si v. infra). Resta fermo che la valutazione dell’insufficienza dei mezzi di sussistenza è effettuata dalla prefettura - Ufficio territoriale del Governo con riferimento all'importo annuo dell’assegno sociale.
Ulteriori modifiche sono conseguentemente introdotte all’articolo 15 del decreto accoglienza (comma 2, lettera g)), concernente le modalità di accesso al sistema di accoglienza territoriale. Oltre a modificare la rubrica dell’articolo, che va a disciplinare le “modalità di individuazione della struttura di accoglienza”, sono abrogati i commi 1 e 2 che fanno riferimento allo SPRAR.
La disciplina che risulta dall’intervento di modifica prevede (commi 3 e 4, art. 15, decreto accoglienza) che la prefettura provvede all’invio del richiedente nella struttura individuata, anche avvalendosi dei mezzi di trasporto messi a disposizione dal gestore. L’accoglienza è disposta nella struttura individuata ed è subordinata all’effettiva permanenza del richiedente in quella struttura, salvo il trasferimento in altro centro, che può essere disposto, per motivate ragioni, dalla prefettura - ufficio territoriale del Governo in cui ha sede la struttura di accoglienza che ospita il richiedente.
Si osserva in proposito che non appare di univoca interpretazione l’individuazione delle strutture di accoglienza a cui si riferisce la norma contenuta nell’art. 15, co. 3, del decreto, all’esito delle modifiche disposte. In particolare, si valuti l’opportunità di coordinare tale disposizione con quelle che disciplinano le strutture di accoglienza ancora disciplinate dal decreto, ossia i centri di prima accoglienza governativi (articolo 9) e le strutture temporanee autorizzate dal Prefetto (articolo 11).
In relazione alla eliminazione della rete SPRAR dall’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale le lettere a), d), e), h), i), ed n) del comma 2 dell’articolo 12 del decreto recano altre modifiche testuali di coordinamento anche agli articoli 5 (Domicilio), 11 (Misure straordinarie di accoglienza), 12 (Condizioni materiali di accoglienza), 17 (Accoglienza di persone portatrici di esigenze particolari), 20 (Monitoraggio e controllo) e 23 (Revoca delle condizioni di accoglienza).
In riferimento all’articolo 20 del decreto accoglienza, si segnala che l’ultimo periodo, nel prevedere l’oggetto delle attività di monitoraggio svolto dal Ministero dell’interno, fa riferimento anche ai “servizi di accoglienza previsti dall’articolo 14 a soggetti attuatori da parte degli enti locali” che partecipano alla ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo. Alla luce delle modifiche che il decreto ha apportato all’articolo 14, si valuti l’opportunità di un ulteriore coordinamento normativo all’articolo 20.
La lettera l) del comma 2 dell’articolo in esame abroga il comma 3 dell’articolo 22 del decreto accoglienza, il quale prevede la possibilità per i richiedenti che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell’articolo 14 di frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell’ente locale dedicato all’accoglienza del richiedente.
La lettera m) - secondo la modifica che ne propone l’emendamento 12.50 approvato dalla Commissione referente - modifica l’articolo 22-bis del decreto accoglienza che prevede iniziative di implementazione dell’impiego dei richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali.
Con le modifiche proposte, tali incentivi sono tesi a favorire il coinvolgimento dei titolari di protezione internazionale - in luogo dei richiedenti asilo, come previsto attualmente.
In proposito, si ricorda che l’art. 8 del D.L. n. 13/2017 ha introdotto nel D.Lgs. 142/2015 l’articolo 22-bis, relativo alla partecipazione dei richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali. La disposizione, nel far rinvio alla normativa vigente in materia di lavori socialmente utili, individua nel prefetto, d'intesa con i comuni e con le regioni e le province autonome, il soggetto promotore di tal tipo di attività, anche con la stipula di protocolli di intesa con i comuni, con le regioni e le province autonome e con le organizzazioni del terzo settore. L'impiego dei richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali si svolge “nel quadro delle disposizioni normative vigenti”.
I progetti presentati dai Comuni, dalle regioni e dalle province autonome che prestano i servizi di accoglienza nell’ambito della rete SPRAR sono esaminati con priorità ai fini dell'assegnazione delle risorse.
L’ emendamento 12.46 approvato dalla Commissione referente prevede una ulteriore modifica al decreto n. 142 del 2015 (articolo 19) in materia di accoglienza dei minori non accompagnati (introducendo una lettera h-bis).
La novella è volta in particolare a garantire che i comuni che assicurano l’accoglienza dei minori in caso di temporanea indisponibilità nelle strutture governative e in quelle finanziate nell’ambito dello SPRAR e che, a tal fine, possono accedere ai contributi statali a valere sul Fondo nazionale per l’accoglienza dei minori (come disposto dall’articolo 19, comma 3), siano sgravati da ogni spesa o onere per l’accoglienza prestata ai minori stranieri non accompagnati.
Un terzo gruppo di modifiche (comma 3) ha ad oggetto il D.Lgs. n. 25 del 2008 (c.d. decreto procedure) che disciplina le procedure per l'esame delle domande di protezione internazionale presentate nel territorio nazionale. Si tratta di due modifiche di coordinamento testuale: la prima all’art. 4, co. 5, per eliminare un riferimento alle strutture di accoglienza della rete SPRAR e la seconda, all’art. 13, co. 2, per sostituire un rinvio normativo ad una disposizione abrogata con quello alla disposizione vigente.
Il comma 4 prevede in via generale, che la denominazione “Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati” sostituisca in tutte le disposizioni di legge o di regolamento,
le definizioni di “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati”, nonché “Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati”.
I commi 5 e 6 recano due disposizioni transitorie in base alle quali i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria già presenti nel Sistema di protezione (SPRAR) alla data di entrata in vigore del decreto-legge rimangono in accoglienza nel Sistema fino alla scadenza del progetto di accoglienza in corso, già finanziato. Per i titolari di protezione umanitaria l’accoglienza non può essere protratta oltre la scadenza del periodo previsto dalle disposizioni di attuazione sul funzionamento del Sistema medesimo e comunque non oltre la scadenza del progetto di accoglienza.
In proposito, si richiamano gli ultimi dati ufficiali del sistema SPRAR[10] riferiti a luglio 2018:
§ oltre 1200 comuni coinvolti (di cui 653 titolari di progetto). Complessivamente gli enti locali titolari di progetti sono 754.
§ 877 progetti avviati;
§ 35.881 posti finanziati (di cui 31.647 ordinari, 3.500 in favore di minori stranieri non accompagnati e 734 per persone con disagio o disabilità).
L’ emendamento 12.601 approvato dalla Commissione referente propone l'inserimento di una nuova disposizione (comma 5-bis) affinché i minori non accompagnati richiedenti asilo al compimento della maggiore età possano rimanere nel Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati fino alla definizione della domanda di protezione internazionale.
Tale proposta appare finalizzata ad assicurare la permanenza in accoglienza nel sistema di protezione di coloro che, entrati come minori, permangono nella condizione di richiedenti asilo al compimento della maggiore età, nelle more della definizione della domanda di protezione internazionale.
Ai sensi del comma 7 è inserita la clausola di neutralità finanziaria, in base alla quale dall’attuazione delle disposizioni esaminate non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e le amministrazioni provvedono ai relativi adempimenti con le risorse disponibili a legislazione vigente.
Articolo 12-bis (em. 12.0.5)
(Monitoraggio dei flussi migratori)
L’articolo prevede un monitoraggio sull'andamento dei flussi migratori a fini di chiusura di strutture di accoglienza emergenziale temporanea.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 12.0.5.
Esso prevede che entro un anno dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge, il Ministro dell'interno effettui un monitoraggio sull'andamento dei flussi migratori.
La finalità è la "progressiva chiusura" delle strutture di cui all'articolo 11 del decreto legislativo n. 142 del 2015 (l'atto di attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale).
L'articolo 11 del decreto legislativo n. 142 del 2015 sopra richiamato ha per oggetto misure straordinarie di accoglienza, nel caso in cui sia temporaneamente esaurita la disponibilità di posti all'interno dei centri di prima accoglienza, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti.
In tal caso esso prevede che l'accoglienza possa essere disposta (dal prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno) in strutture temporanee, appositamente allestite (previa valutazione delle condizioni di salute del richiedente, anche al fine di accertare la sussistenza di esigenze particolari di accoglienza).
Tali strutture sono individuare dalle Prefetture-uffici territoriali del Governo, sentito l'ente locale nel cui territorio è situata la struttura, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. È consentito, nei casi di estrema urgenza, il ricorso alle procedure di affidamento diretto.
L'accoglienza in siffatte strutture è limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nei centri di prima accoglienza o nella rete SPRAR.
Articolo 12-bis (em. 12.0.6)
(Obblighi di trasparenza per le cooperative sociali svolgenti attività a favore di stranieri)
L’articolo prevede un particolare obbligo di pubblicazione di informazioni da parte delle cooperative sociali svolgenti attività a favore di stranieri immigrati.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 12.0.6.
Esso novella disposizione della legge annuale per il mercato e la concorrenza n. 124 del 2017, recata dal suo articolo 1, comma 125 - là dove pone obblighi di pubblicazione in ordine alle sovvenzioni di provenienza pubblica ricevute da alcune categorie di soggetti: le associazioni di protezione ambientale (a carattere nazionale ovvero quelle presenti in almeno cinque regioni), le associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale (di cui all'articolo 137 del Codice del consumo, decreto legislativo n. 206 del 2005); le associazioni, le Onlus e le fondazioni.
Tali soggetti sono tenuti a pubblicare, nei propri siti o portali, le informazioni relative a sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque a vantaggi economici di qualunque genere ricevuti da: pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui al articolo 2-bis del decreto legislativo n. 33 del 2013; società controllate di diritto o di fatto direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni, ivi comprese quelle che emettono azioni quotate in mercati regolamentati, e società da loro partecipate; società in partecipazione pubblica, ivi comprese quelle che emettono azioni quotate in mercati regolamentati e le società da loro partecipate.
Ebbene, la novella ora proposta aggiunge uno specifico obbligo per le cooperative sociali operanti nel settore dell'integrazione e assistenza agli stranieri oggetto delle previsioni del Testo unico dell'immigrazione.
Esse sono tenute - prevede la novella - a pubblicare trimestralmente sui propri siti o portali digitali l'elenco dei soggetti a cui vengano versate somme per lo svolgimento di servizi finalizzati ad attività di integrazione, assistenza e protezione sociale.
Articolo 13
(Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica)
L’articolo 13 prevede che il permesso di soggiorno per richiesta asilo non consente l’iscrizione all’anagrafe dei residenti, fermo restando che esso costituisce documento di riconoscimento.
L’articolo 13 modifica le disposizioni del D.Lgs. n. 142 del 2015 in materia di domiciliazione e iscrizione anagrafica del richiedente asilo.
In particolare, la lettera a) modifica l’articolo 4 che disciplina il rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo, inserendo due nuove disposizioni.
Si ricorda che, al momento della richiesta di protezione internazionale viene lasciata una ricevuta attestante la presentazione della domanda di protezione internazionale che costituisce permesso di soggiorno provvisorio. Successivamente, il richiedente ottiene un permesso di soggiorno per richiesta asilo della durata di sei mesi (pari al termine entro cui la procedura per il riconoscimento o il diniego della protezione internazionale, da parte della Commissione territoriale, dovrebbe concludersi), ferma restando la rinnovabilità del permesso di soggiorno per richiesta asilo, fino alla decisione sulla domanda di protezione o sull'impugnazione del suo diniego (art. 4, D.lgs. n. 142/2015).
Da un lato, si esplicita che il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisce documento di riconoscimento ai sensi del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, adottato con D.P.R. n. 445/2000.
In particolare, ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. c) del citato DPR n. 445 del 2000 per documento di riconoscimento si intende ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consenta l'identificazione personale del titolare.
Dall’altro si stabilisce che il medesimo permesso di soggiorno non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del regolamento anagrafico (D.P.R. n. 223/1989) e dell’art. 6, co. 7 del Testo unico delle disposizioni in materia di immigrazione (D.Lgs. n. 286 del 1998).
In proposito si ricorda che l’anagrafe della popolazione residente è la raccolta sistematica dell'insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio (art. 1, regolamento anagrafico).
Il regolamento si conforma all’art. 1 della legge 1228/1954 (cd. legge anagrafica) ai sensi del quale: “In ogni Comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente. Nell’anagrafe della popolazione residente sono registrate le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che hanno fissato nel Comune la residenza, nonché le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel Comune il proprio domicilio, in conformità del regolamento per l’esecuzione della presente legge”.
Si richiama inoltre, l’art. 6, co. 7 del TU immigrazione, in base al quale le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione. In ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza. Dell'avvenuta iscrizione o variazione l'ufficio dà comunicazione alla questura territorialmente competente.
In proposito si ricorda che il Codice Civile definisce la residenza come il luogo in cui la persona ha la dimora abituale (art. 43, co. 2 c.c.) distinguendola dal domicilio, definito, invece, come il luogo ove essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi (art. 43, co. 1 c.c.).
Pertanto la disposizione in esame deroga al principio espresso nel testo unico per i titolari di un permesso di soggiorno per richiesta asilo.
Secondo la relazione illustrativa, l’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso di soggiorno per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire in via preventiva la condizione giuridica del richiedente.
In relazione alle modifiche previste dalla disposizione in esame, va richiamato che l’iscrizione anagrafica è comunque il presupposto per l’esercizio di alcuni diritti sociali.
In proposito, come riportato nelle Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, a cura del Servizio Centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), l’iscrizione anagrafica è il presupposto, ad esempio, per:
• l’accesso all’assistenza sociale e la concessione di eventuali sussidi o agevolazioni previste da ogni comune, ad esempio quelle basate sulle condizioni di reddito, verificate mediante l’indicatore ISEE, erogati dalla pubblica amministrazione o da soggetti dalla stessa delegati;
• l’accesso ad altri diritti sociali, tra i quali la partecipazione a bandi per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, i sussidi per i canoni di locazione o l’acquisto della prima casa;
• diritti di partecipazione popolare all’amministrazione locale, previsti dagli statuti comunali;
• la facoltà di presentare determinate dichiarazioni da rendersi davanti all’Ufficiale di Stato civile in materia di cittadinanza;
• per il rilascio della carta di identità e delle certificazioni anagrafiche;
• per chiedere e ottenere il conseguimento della patente di guida italiana o la conversione della patente di guida estera (art. 118-bis codice della strada).
Al riguardo, si ricorda che la giurisprudenza della Corte costituzionale afferma comunque la titolarità da parte dello straniero di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona (sentenza n. 148 del 2008) ed in particolare, con riferimento all’assistenza sanitaria, riconosce che “esiste un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto”. Tale nucleo è riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso (sentenza n. 252 del 2001; cfr. anche la sentenza n. 269 del 2010)
La lettera b) del comma 1 dell’articolo 13 riscrive interamente il comma 3 dell’articolo 5 del D.Lgs. n. 142 stabilendo che l’accesso ai servizi previsto dal decreto medesimo e a quelli erogati comunque ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio come individuato ai sensi dei commi 1 e 2 del medesimo articolo[11], mentre il testo previgente stabiliva che il centro o la struttura di accoglienza per il richiedente titolare del permesso di soggiorno costituisce luogo di dimora abituale per l’iscrizione anagrafica ai sensi del citato art. 6, co. 7 del TU immigrazione (si v. supra).
Viene inoltre modificato il comma 4 dell’articolo 5 nel senso di riconoscere in capo al prefetto competente in base al luogo di presentazione della domanda ovvero alla sede della struttura di accoglienza il potere di stabilire un luogo di domicilio (e non più di residenza) o un’area geografica ove il richiedente può circolare.
In base al vigente quadro normativo (art. 5, D.Lgs. 142 del 2015), il richiedente ha l'obbligo di comunicare alla questura il proprio domicilio o residenza, così come ogni successivo mutamento. Tale obbligo si intende assolto tramite dichiarazione del richiedente da riportare nella domanda di protezione internazionale. L’indirizzo del centro o della struttura di accoglienza, per il richiedente che vi si trovi, costituisce il domicilio agli effetti del procedimento di riconoscimento della protezione internazionale e del trattenimento.
La lettera c) dell’articolo in esame abroga l’articolo 5-bis del decreto legislativo n. 142 del 2015, introdotto dal D.L. n. 13/2017 (art. 8, co. 1, lett. a-bis)), il quale ha stabilito l’iscrizione obbligatoria nell'anagrafe della popolazione residente del richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di accoglienza che non vi risulti già iscritto individualmente. È previsto l'obbligo del responsabile della convivenza di comunicare entro venti giorni al competente ufficio dell'anagrafe la variazione della convivenza. La disposizione si applica a coloro che sono ospitati nei centri di prima accoglienza, di accoglienza temporanea e nei centri del sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati - SPRAR, ma non anche ai richiedenti asilo trattenuti negli ex CIE. Ha infine previsto che la comunicazione, da parte del responsabile della convivenza anagrafica, della revoca delle misure di accoglienza o dell'allontanamento non giustificato del richiedente protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione anagrafica con effetto immediato.
Si ricorda che ai sensi del regolamento anagrafico della popolazione residente, ai fini anagrafici per convivenza s’intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune. La convivenza anagrafica ha un responsabile, individuata nella persona che normalmente dirige la convivenza stessa, che ha la responsabilità delle dichiarazioni anagrafiche dei componenti la convivenza (artt. 5 e 6 D.P.R. 223/1989).
Articolo 14
(Acquisizione e revoca della cittadinanza)
L’articolo 14 introduce nuove disposizioni in materia di acquisizione e revoca della cittadinanza, modificando ed integrando a tal fine la legge n. 91 del 1992. In particolare, è abrogata la disposizione che preclude il rigetto dell’istanza di acquisizione della cittadinanza per matrimonio decorsi due anni dall’istanza. Inoltre si innalza da 200 a 250 euro l’importo del contributo richiesto per gli atti relativi alla cittadinanza.
La Commissione referente ha approvato alcuni emendamenti.
L'emendamento 14.7 richiede per l’acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio e per concessione di legge anche il possesso da parte dell’interessato di un’adeguata conoscenza della lingua italiana.
L'emendamento 14.17 estende da ventiquattro a quarantotto mesi il termine per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio e per c.d. naturalizzazione. Inoltre, introduce nuove ipotesi di revoca della cittadinanza in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo ed eversione.
Infine l’emendamento 14.600 individua il termine di sei mesi per il rilascio degli estratti e dei certificati di stato civile occorrenti ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana.
Il comma 1 alla lettera a) abroga il comma 2 dell’articolo 8 della legge n. 91 del 1992, che, in relazione alla istanza di acquisizione della cittadinanza per matrimonio, preclude il rigetto dell’istanza ove siano decorsi due anni dalla data di presentazione dell’istanza medesima, corredata dalla documentazione prevista dalla legge.
La norma abrogata, in pratica, assegnava alla competente autorità amministrativa un termine perentorio di due anni per pronunciarsi sulla istanza di cittadinanza, con la precisazione che, una volta decorso tale termine, restava preclusa all’Amministrazione l’emanazione del decreto di rigetto della domanda, venendo ad operare una sorta di silenzio assenso sulla relativa istanza dello straniero coniugato con un cittadino italiano, atteso che per effetto dell’inutile decorso del termine l’amministrazione perde il potere di negare la cittadinanza.
L’acquisto della cittadinanza da parte di stranieri o apolidi che hanno contratto matrimonio con cittadini italiani è disciplinata dagli articoli da 5 a 8 della L. n. 91 del 1992. Gli stranieri coniugi di cittadini italiani ottengono la cittadinanza, dietro richiesta presentata al prefetto del luogo di residenza dell'interessato, oppure, se residenti all’estero, all’autorità consolare competente, se possono soddisfare, contemporaneamente, le seguenti condizioni:
§ residenza legale nel territorio italiano da almeno due anni, successivi al matrimonio, o, in alternativa, per gli stranieri residenti all’estero, il decorso di tre anni dalla data del matrimonio tra lo straniero e il cittadino. I predetti termini sono ridotti della metà in presenza di figli nati dai coniugi;
§ persistenza del vincolo matrimoniale;
§ insussistenza della separazione legale;
§ assenza di condanne penali per i delitti contro la personalità internazionale e interna dello Stato e contro i diritti politici dei cittadini;
§ assenza di condanne penali per i delitti non colposi per i quali è prevista una pena edittale non inferiore a tre anni;
§ assenza di condanne penali per reati non politici, con pena detentiva superiore a un anno, inflitte da autorità giudiziarie straniere con sentenza riconosciuta in Italia;
§ insussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.
Si segnala, inoltre, che la direttiva del Ministro dell’interno 7 marzo 2012 ha trasferito ai prefetti la competenza ad adottare provvedimenti in materia di concessione o diniego della cittadinanza nei confronti di cittadini stranieri coniugi di cittadini italiani. La competenza sarà, invece, del capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, qualora il coniuge straniero abbia la residenza all’estero, e del Ministro dell’interno nel caso sussistano ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica.
L’emendamento 14.7 approvato dalla Commissione referente propone l'inserimento di una lettera a-bis).
La proposta introduce alla legge sulla cittadinanza l’articolo 9.1, che subordina l’acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio (art. 5) e per concessione di legge (art. 9) al possesso da parte dell’interessato di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello 81 (rectius B1) del Quadro Comune Europeo di Rifermento per le Lingue (QCER). Sotto il profilo della formulazione del testo, si valuti l’opportunità di sostituire l’espressione “concessione” della cittadinanza (che attualmente è riferibile alla fattispecie prevista dal solo art. 9) con quella di “acquisto”.
Il Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue- QCER (Common European Framework of Reference for Languages -CEFR) è stato messo a punto dal Consiglio d'Europa come parte principale del progetto Language Learning for European Citizenship (apprendimento delle lingue per la cittadinanza europea), allo scopo, fra l’altro, di aiutare a superare gli ostacoli nella comunicazione derivanti dai diversi sistemi educativi presenti in Europa e di definire livelli di competenza su cui misurare i progressi di apprendimento. Il CEFR si articola in sei livelli di riferimento (A1, A2, B1, B2, C1 e C2), che costituiscono i parametri per valutare il livello di competenza linguistica individuale.
In particolare, il livello B1 prevede la capacità di sostenere conversazioni semplici su argomenti noti o di interesse, comprendendo gli elementi principali in un discorso, la capacità di comprendere l’essenziale di trasmissioni radiofoniche e televisive su argomenti di attualità o temi di interesse personale o professionale, la comprensione di testi scritti di uso corrente legati alla sfera quotidiana o al lavoro, la scrittura di testi semplici su argomenti noti o di interesse.
Per dimostrare tale conoscenza, all’atto di presentazione dell’istanza i richiedenti sono tenuti:
§ ad attestare il possesso di un titolo di studio rilasciato da un istituto di istruzione pubblico o privato riconosciuto dal Ministero degli affari esteri (MAECI) o dal Ministero dell’istruzione (MIUR);
Il possesso di un titolo di studio rilasciato da istituti d’istruzione riconosciuti dal MAECI (scuole italiane all’estero) costituisce attestazione della conoscenza linguistica richiesta dalla norma.
§ ovvero a produrre apposita certificazione della lingua, rilasciata da un ente certificatore riconosciuto dal Ministero degli affari esteri o dal Ministero dell’istruzione.
Le certificazioni relative alla competenza linguistica CLIQ (Certificazione Lingua Italiana di Qualità) sono rilasciate, previo il superamento di prove d’esame, dai quattro enti certificatori riconosciuti dal MAECI: la Società Dante Alighieri, l’Università per Stranieri di Perugia, l’Università per Stranieri di Siena e l’Università degli Studi Roma Tre. All’estero è possibile sostenere gli esami per il rilascio dei certificati di competenza linguistica CLIQ presso diversi enti che sono elencati nel sito del MAECI alla pagina: https://www.linguaitaliana.esteri.it/lingua/corsi/certificazioni/ricerca.do
Da tale specifico onere di attestazione sono esclusi coloro che hanno sottoscritto l’accordo di integrazione di cui all’art. 4-bis del TU in materia di immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998) e i titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, trattandosi di situazioni per le quali la legge già presuppone una valutazione di conoscenza della lingua italiana.
Per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno lo straniero deve stipulare un accordo di integrazione (art. 4-bis, D.Lgs. n. 286/1998), introdotto dalla legge sulla sicurezza (L. 94/2009) quale processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri (art. 1, comma 25). L’accordo di integrazione è diventato operativo con l'adozione del regolamento di attuazione (DPR 14 settembre 2011, n. 179). L’accordo funziona con un sistema di attribuzione di crediti, di cui 16 sono assegnati all'atto della sottoscrizione. La conoscenza della lingua e della cultura italiana rappresenta l’elemento centrale dell'Accordo di integrazione: con la sottoscrizione dell'Accordo lo straniero si impegna, infatti, ad acquisire una conoscenza della lingua italiana parlata equivalente almeno al livello A2 del quadro comune europeo di riferimento per le lingue emanato dal Consiglio d’Europa.
Inoltre, il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, riservato agli stranieri residenti da lungo tempo nel nostro Paese, è subordinato al superamento da parte del richiedente di un test di conoscenza della lingua italiana (art. 1, comma 22, lett. i). Le modalità di svolgimento del test sono state definite con il decreto del Ministro dell'interno 4 giugno 2010.
La lettera b) del comma 1 innalza da 200 a 250 euro l’importo del contributo richiesto per le istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza ai sensi dell’art. 9-bis, comma 2, della L. 91/1992.
Tale contributo è stato introdotto dalla legge n. 94/2009 (art. 1, comma 12), nell’ambito del c.d. “pacchetto sicurezza”. Considerato l’esplicito riferimento della norma alle istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza italiana, devono ritenersi escluse dal pagamento del contributo le istanze di riconoscimento della cittadinanza “iure sanguinis” (art. 1, co. 1, lett. a), L. 91/1992) nonché tutte le forme di automatismo previste dalla legge 91/1992 (art. 1 comma 1, lett. b); art. 1 comma 2; art. 2, comma 1; art. 3, comma 1; art. 13 comma 1, lett. d); art. 14).
Il gettito derivante dal contributo è destinato (art. 9-bis, comma 3, L. 91/1992):
§ per la metà, al finanziamento di progetti del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno diretti alla collaborazione internazionale e alla cooperazione e assistenza ai Paesi terzi in materia di immigrazione;
§ per l’altra metà, alla copertura degli oneri connessi alle attività istruttorie inerenti ai procedimenti in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza.
È inoltre previsto che alle istanze o dichiarazioni relative alla cittadinanza deve essere comunque allegata la certificazione comprovante il possesso dei requisiti richiesti per legge (art. 9-bis, comma 1, L. 91/1992).
La lettera c) del comma 1 introduce l’articolo 9-ter nella legge n. 91/1992 che estende da ventiquattro a quarantotto mesi il termine per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio (art. 5) e per c.d. naturalizzazione (art. 9). Il termine decorre dalla data di presentazione della istanza.
Ai sensi dell’articolo 9 della L. n. 91 del 1992, l'acquisto della cittadinanza può avvenire per concessione di legge (c.d. naturalizzazione): a differenza delle altre modalità di acquisto della cittadinanza, che riservano all'autorità margini di intervento molto ristretti, l’emanazione del provvedimento di concessione della cittadinanza è soggetto ad una valutazione discrezionale di opportunità da parte della pubblica amministrazione, pur attenuata dall’obbligo del parere preventivo del Consiglio di Stato.
Il periodo di residenza legale in Italia, graduato in funzione dello status degli stranieri richiedenti, che costituisce il requisito fondamentale per conseguire la cittadinanza secondo tale modalità, deve essere ininterrotto e attuale al momento della presentazione dell'istanza per la concessione della cittadinanza.
Può presentare domanda per ottenere la concessione della cittadinanza italiana il cittadino straniero che si trova in una delle seguenti condizioni:
§ residente in Italia da almeno dieci anni, se cittadino non appartenente all'Unione europea, o da almeno quattro anni, se cittadino comunitario (art. 9, co. 1, lett. f) e d)): ai fini della concessione della cittadinanza italiana allo straniero va valutato il periodo di soggiorno in Italia assistito da regolare permesso, per cui va esclusa la rilevanza del periodo in cui lo straniero medesimo sia risultato anagraficamente residente nel paese (C. Stato, sez. IV, 07-05-1999, n. 799);
§ apolide residente in Italia da almeno cinque anni (art. 9, co. 1, lett. e));
§ il cui padre o la cui madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato in Italia e, in entrambi i casi, vi risiede da almeno tre anni (art. 9, co. 1, lett. a));
§ maggiorenne adottato da cittadino italiano e residente in Italia da almeno cinque anni (art. 9, co. 1, lett. b));
§ chi abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato italiano, anche all'estero, per almeno cinque anni (art. 9, co. 1, lett. c)). Salvi i casi previsti dall'art. 4 della legge, nel quale si richiede specificamente l'esistenza di un rapporto di pubblico impiego, si considera che abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato chi sia stato parte di un rapporto di lavoro dipendente con retribuzione a carico del bilancio dello Stato (D.P.R. 572/1993, art. 1, co. 2, lett. c)).
Attualmente il termine per completare il percorso istruttorio con l’adozione del provvedimento conclusivo di riconoscimento della cittadinanza iure matrimonii è previsto dall’art. 8, co. 2, della L. n. 91/1992, che viene abrogata dalla lettera a) del comma 1 dell’articolo in esame. Tale termine è peraltro considerato perentorio per costante e consolidata giurisprudenza.
Per le istanze di cittadinanza per concessione di legge, ai sensi del regolamento sui procedimenti di acquisto della cittadinanza (D.P.R. n. 362/1994, articolo 3), il termine previsto per la conclusione del procedimento è anch’esso fissato in due anni (“settecentotrenta giorni dalla data di presentazione della domanda”), ma in tal caso, per consolidato orientamento della giurisprudenza, il termine non riveste carattere perentorio. Il procedimento di concessione presenta infatti un carattere di maggiore complessità rispetto al precedente, in quanto l'istruttoria è finalizzata a verificare sulla base di vari indici (reddito, stabilità dell'attività lavorativa, raggiungimento di un sufficiente grado di integrazione, assenza di motivi ostativi attinenti alla sicurezza e di precedenti penali) la coincidenza tra l'interesse del richiedente la cittadinanza e l’interesse pubblico.
Si ricorda che con finalità di semplificazione dei procedimenti, il decreto-legge c.d. “del fare” (D.L. 69/2013, art. 33, comma 2-bis) ha previsto, che gli uffici pubblici coinvolti nei procedimenti di rilascio della cittadinanza acquisiscono e trasmettono dati e documenti attraverso gli strumenti informatici.
L’emendamento 14.17 approvato dalla Commissione referente propone di abrogare il secondo comma dell’articolo aggiuntivo 9-ter, come introdotto dal decreto legge, ai sensi del quale il termine di quarantotto mesi si applica altresì ai procedimenti di riconoscimento della cittadinanza avviati dall’autorità diplomatica o consolare o dall’Ufficiale di stato civile a seguito di istanze fondate su fatti accaduti prima del 1° gennaio 1948.
In proposito, si richiamano i procedimenti avviati per il riconoscimento della cittadinanza italiana ai cittadini stranieri di ceppo italiano, che, discendenti di seconda, terza e quarta generazione ed oltre di emigrati italiani che rivendicano la titolarità dello status civitatis italiano iure sanguinis (art. 1, co. 1, lett. a), L. 91/1992). Tale riconoscimento deve essere subordinato al verificarsi di determinate condizioni ed al documentato accertamento di circostanze, che in alcuni casi si fonda su fatti antecedenti il 1948. Per quanto concerne i termini del procedimento, il D.P.C.M. 3 marzo 2011, n. 90, per il provvedimento di rilascio della cittadinanza da parte delle autorità consolari stabilisce un termine di settecentotrenta giorni.
Si richiamano altresì gli articoli 17-bis e 17-ter della L. 91/1992, introdotti dalla L. 124/2006, che consentono ai soggetti già cittadini italiani (ed ai loro discendenti in linea retta), un tempo residenti nei territori ceduti alla ex Jugoslavia e che non avevano esercitato nei termini previsti dal Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 e dal Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, il previsto diritto di opzione, di ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana mediante la presentazione di un’apposita istanza, corredata da documentazione idonea a dimostrare il possesso dei requisiti di cui all’art. 19 del Trattato di Parigi (reso esecutivo con d.l.C.P.S. n. 1430 del 1947) e all’art. 3 del Trattato di Osimo (ratificato con l. n. 77 del 1973).
Infine, il comma 2, precisa che la nuova disciplina dei termini si applica anche ai procedimenti di conferimento della cittadinanza in corso alla data di entrata in vigore del decreto.
La lettera d) del comma 1 introduce nella L. n. 91 del 1992 il nuovo articolo 10-bis, che prevede un’ipotesi di revoca della cittadinanza in caso di condanna definitiva per i seguenti reati:
§ delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale per i quali la legge prevede la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a 5 anni o nel massimo a 10 anni (art. 407, comma 2, lett. a), n. 4);
Si ricorda che la finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale può operare sia come elemento costitutivo del reato (es. art. 280 c.p., attentato per finalità terroristiche o di eversione) che come circostanza aggravante del reato (art. 270-bis.1 c.p., che per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, punibili con pena diversa dall'ergastolo, prevede che la pena sia aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato).
In particolare, la finalità di terrorismo è individuata dal legislatore – ai sensi dell’art. 270-sexies c.p.- nelle «condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia».
Quanto alla finalità di eversione dell’ordine costituzionale, si ricorda anzitutto che ai sensi dell’art. 11, della legge n. 304 del 1982, tale espressione corrisponde all’espressione “finalità di eversione dell’ordine democratico, usata dal codice penale e dalla legislazione anteriore al 1982.
Indubbiamente, dunque, sono da ricondurre all’art. 407, co.2, lett. a) n. 4, per i limiti di pena e perché la finalità terroristica o di eversione è elemento costitutivo del reato, le seguenti fattispecie:
§ capi o promotori di associazioni sovversive (art. 270 c.p., reclusione da 5 a 10 anni);
§ associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis c.p., reclusione da 7 a 15 anni);
§ arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quater c.p., reclusione da 7 a 15 anni);
§ organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo (art. 270-quater.1 c.p., reclusione da 5 a 8 anni);
§ addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270-quinquies c.p., reclusione da 5 a 10 anni);
§ finanziamento di condotte con finalità di terrorismo (art. 270-quinquies.1 c.p., reclusione da 7 a 15 anni);
§ attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280 c.p., reclusione non inferiore a 20 anni);
§ atti di terrorismo nucleare (art. 280-ter c.p., reclusione non inferiore a 15 anni);
§ sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289-bis c.p., reclusione da 25 a 30 anni).
Il catalogo non può dirsi esaustivo in quanto qualsiasi delitto potrebbe in astratto essere commesso con finalità di terrorismo o eversione. A tal fine, infatti, l’art. 270-bis.1 c.p. stabilisce che quando la finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico costituisce una aggravante di un diverso reato, la pena prevista per il reato – se diversa dall’ergastolo - è aumentata della metà.
§ ricostituzione, anche sotto falso nome o in forma simulata, di associazioni sovversive delle quali sia stato ordinato lo scioglimento (art. 407, co. 1, lett. a) n. 4, che rinvia all’art. 270, terzo comma, c.p.);
La fattispecie presuppone che l'associazione sia stata sciolta con provvedimento dell'autorità amministrativa, di tal che, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 210 TULPS, che regolava il potere di scioglimento, l'ambito di applicazione della fattispecie appare ridotto alla sola ipotesi prevista dall’art. 3 della legge n. 645 del 1952 (Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione), che consente al Ministro dell'Interno e al Governo di sciogliere le associazioni fasciste riorganizzatesi in partito.
§ partecipazione a banda armata (art. 407, co. 1, lett. a), n. 4, che rinvia all’art. 306, secondo comma, c.p.);
L’art. 306, secondo comma, del codice penale punisce con la reclusione da 3 a 9 anni coloro che partecipano a una banda armata, formata per commettere uno dei delitti non colposi previsti dai capi I e II del Titolo I del codice penale (si tratta dei delitti contro la personalità internazionale e interna dello Stato, articoli da 241 a 292 c.p.).
§ assistenza agli appartenenti ad associazioni sovversive o associazioni con finalità di terrorismo, anche internazionale (art. 270-ter c.p.). Questa fattispecie è espressamente richiamata dal legislatore in quanto, per l’entità della pena prevista, non rientra nel catalogo di delitti di cui all’art. 407, co. 2, lett. a) n. 4) c.p.p.
L’art. 270-ter c.p. punisce con la reclusione fino a 4 anni chiunque - fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento - «dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano alle associazioni» sovversive (di cui all’art. 270 c.p.) o alle associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico (di cui all’art. 270-bis c.p.). La fattispecie è aggravata se l'assistenza è prestata continuativamente e non è punibile chi commette il fatto in favore di un prossimo congiunto.
§ sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro per prevenire il finanziamento del terrorismo (art. 270-quinquies.2 c.p.). Anche questa fattispecie è espressamente richiamata dal legislatore in quanto, per l’entità della pena prevista, non rientra nel catalogo di delitti di cui all’art. 407, co. 2, lett. a) n. 4) c.p.p.
L’art. 270-quinquies.2 c.p. punisce con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 3.000 a 15.000 euro chiunque sottrae, distrugge, disperde, sopprime o deteriora beni o denaro, sottoposti a sequestro per prevenire il finanziamento delle condotte con finalità di terrorismo.
La revoca della cittadinanza è adottata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno, entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
Conseguentemente il comma 3 dell’articolo modifica la L. 13/1991 (art. 1, co. 3) che elenca gli atti adottabili nella forma del DPR, aggiungendo il provvedimento di revoca della cittadinanza.
In base alla formulazione del testo, le fattispecie di revoca sono applicabili solo nel caso in cui la cittadinanza italiana sia stata acquisita per matrimonio (art. 5, L. n. 91/1992), per naturalizzazione (art. 9), ovvero ai sensi dell’articolo 4, co. 2, della medesima legge. Tale ultima ipotesi riguarda i casi di acquisto della cittadinanza dello straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età.
Nel silenzio della disposizione, si intende che la revoca della cittadinanza nelle ipotesi previste possa determinare, per coloro che hanno rinunciato alla cittadinanza del Paese di origine, la condizione di apolidia dei soggetti condannati in via definitiva per i reati stabiliti dalla norma.
Sul punto appare opportuno un chiarimento.
Il nuovo art. 10-bis, introdotto dalla disposizione in esame, innova il quadro normativo finora vigente, che contempla limitate ipotesi di perdita automatica della cittadinanza, nonché disciplina i casi di rinuncia volontaria.
In particolare, la legge n. 91/1992 contempla tre ipotesi di perdita automatica della cittadinanza italiana, nei seguenti casi:
§ la revoca dell’adozione per colpa dell’adottato ha come conseguenza la perdita automatica della cittadinanza acquistata da quest’ultimo in virtù dell'adozione, purché egli abbia un'altra cittadinanza o la riacquisti (art. 3, co. 3);
§ la mancata ottemperanza all'intimazione del Governo italiano di lasciare un impiego pubblico o una carica pubblica che il cittadino abbia accettato da uno Stato o ente pubblico estero o da un ente internazionale cui non partecipi l'Italia, o la mancata ottemperanza all'invito di abbandonare il servizio militare che il cittadino presti per uno Stato estero (art. 12, co. 1);
§ l’assunzione di una carica pubblica o la prestazione del servizio militare per uno Stato estero, o l'acquisto volontario della cittadinanza dello Stato considerato, quando tali circostanze si verifichino durante lo stato di guerra con esso (art. 12, co. 2).
Inoltre, i cittadini italiani possono rinunciare volontariamente alla cittadinanza italiana purché si trasferiscano, o abbiano trasferito, la propria residenza all’estero e siano titolari di un’altra o di altre cittadinanze (L. 91/1992, art. 11). La facoltà di rinuncia alla cittadinanza italiana in questo caso può essere esercitata soltanto dai cittadini maggiorenni.
Coloro che hanno ottenuto la cittadinanza italiana durante la minore età, in quanto figli conviventi con il genitore che ha acquistato o riacquistato la cittadinanza, hanno la facoltà di rinunciare ad essa (senza limiti di tempo), una volta divenuti maggiorenni, sempre che siano in possesso di un'altra cittadinanza (art. 14).
Può inoltre rinunciare alla cittadinanza italiana il soggetto maggiorenne in possesso di un'altra cittadinanza – anche se risiede in Italia – a seguito di revoca dell’adozione per fatti imputabili all’adottante. La rinuncia deve essere resa entro un anno dalla revoca (art. 3, co. 4).
Circa la possibilità di revocare lo status civitatis, viene in rilievo innanzitutto l’articolo 22 della Costituzione italiana, ai sensi del quale la cittadinanza non può mai essere revocata «per motivi politici» (articolo 22).
È controverso se la disposizione costituzionale si limiti a vietare la privazione della cittadinanza come strumento di repressione del dissenso, o se essa vieti di attribuire rilievo ai motivi diversamente riconducibili ad interessi politici in senso ampio, cioè agli interessi assunti come propri dell’intera comunità internazionale. In materia di cittadinanza sono pochi gli interventi della Corte costituzionale, i quali hanno fatto applicazione non dell’art. 22 della Costituzione, bensì generalmente dell’articolo 3. Così, nella sentenza n. la sentenza n. 87 del 1975 nella parte in cui prevedeva la perdita della cittadinanza italiana per la donna che, sposando uno straniero, avesse acquistato la cittadinanza del marito, indipendentemente dalla volontà della donna. In tale sentenza, così come in pronunce successive, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittime in particolare le norme fondate sull’automatismo del meccanismo di acquisto o perdita della cittadinanza.
Nella sentenza n. 30 del 1983, la Corte ha dichiarato incostituzionale la previgente legge 555/1912 nella parte in cui non prevedeva l’acquisto della cittadinanza italiana jure sanguinis anche per discendenza materna.
Nell’ordinanza n. 490 del 1988, la Corte ha ad ogni modo escluso che l’acquisto della cittadinanza italiana non è un diritto fondamentale.
Occorre inoltre richiamare le norme internazionali in tema di diritti dell’uomo che contengono riferimenti alla cittadinanza. In particolare, per l’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ogni individuo ha diritto a possedere “una cittadinanza”, a non esserne “arbitrariamente privato” e a mutarla.
Per quanto riguarda gli effetti delle norme internazionali pattizie sull’ordinamento italiano, l’art. 26, co. 3, della L. 91/1992 fa salve, in via generale, le disposizioni previste dagli accordi internazionali, affermandone pertanto la prevalenza sulla disciplina interna.
In conformità con il citato art. 15, vige il principio internazionale che impone di limitare il fenomeno dell’apolidia. In proposito, si ricorda che l’Italia ha sottoscritto e ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sulla riduzione dei casi di apolidia, fatta a New York il 30 agosto 1961. La Convenzione prevede in particolare che nessuno Stato Contraente può privare una persona della sua cittadinanza, qualora tale privazione rendesse tale persona apolide (articolo 8, paragrafo 1). Al tempo stesso dispone la facoltà degli stati contraenti (articolo 8, paragrafo 3) di mantenere il diritto di privare una persona della sua cittadinanza qualora al momento della firma, della ratifica o dell’adesione specifichi l’intenzione di conservare tale diritto su uno o più dei seguenti motivi, a condizione che in quella circostanza tali motivi fossero presenti nel proprio diritto nazionale:
1) nel caso in cui, incompatibilmente con il suo dovere di lealtà verso lo Stato Contraente, la persona, in violazione di un divieto esplicito dallo Stato Contraente, abbia reso o continuato a prestare servizi, oppure abbia ricevuto o continuato a ricevere emolumenti da un altro Stato, oppure si sia comportata in modo da recare grave pregiudizio agli interessi vitali dello Stato;
2) nel caso in cui la persona abbia prestato un giuramento, o reso una dichiarazione formale di fedeltà ad un altro Stato, o dato prova definitiva della sua determinazione a ripudiare la sua fedeltà allo Stato Contraente.
Uno Stato Contraente non potrà esercitare tale potere di privazione se non in conformità con la legge, che dovrà prevedere per l'interessato il diritto ad un equo processo dì fronte a un tribunale o ad altro organo indipendente.
L’Italia ha ratificato e reso esecutiva tale Convenzione con la legge n. 162 del 2015, avvalendosi della facoltà di cui all'articolo 8, paragrafo 3, della Convenzione.
In relazione all’ambito di applicazione, la revoca prevista dalla disposizione in esame opera in relazione alla cittadinanza italiana acquisita da stranieri nelle tre modalità di cui agli artt. 4, co. 2, 5 e 9 della L. n. 91 del 1992 ed è esclusa per i cittadini italiani iure sanguinis. Le tre ipotesi previste sono tra loro diverse ed in particolare, si ricorda che:
§ l’acquisizione della cittadinanza dello straniero nato in Italia con residenza legale ininterrotta fino alla maggiore età, avviene di diritto previa dichiarazione da effettuarsi entro un anno dalla suddetta età (art. 4, co. 2);
§ l’acquisizione della cittadinanza iure matrimonii avviene su richiesta dell’interessato, trascorsi due anni di residenza legale ed in presenza di alcuni requisiti precisi stabiliti dalla legge, tra i quali figura l’assenza di condanne per determini tipi di reati. Un margine di discrezionalità parrebbe limitato solo all’ipotesi ammessa dalla stessa legge in cui la cittadinanza a seguito di matrimonio può essere negata per «la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica» (art. 6);
§ la concessione della cittadinanza per c.d. naturalizzazione ai sensi dell’art. 9 della L. n. 91 del 1992 avviene sulla base di una discrezionalità amministrativa riferita a parametri indicati in parte dalla legge e in parte dalla giurisprudenza (si v. supra).
In relazione all’ambito di operatività delle ipotesi di revoca introdotte andrebbe valutato se, a fronte di una condanna definitiva per determinati reati, sia configurabile che le conseguenze (in termini di revoca della cittadinanza) differiscano in base alla modalità con cui la cittadinanza sia stata acquisita.
L’EMENDAMENTO 14.600 approvato dalla Commissione referente individua (introducendo il comma 2-bis) il termine di sei mesi per il rilascio degli estratti e dei certificati di stato civile occorrenti ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana. Il termine decorre dalla data della richiesta di cittadinanza presentata da persone in possesso di cittadinanza straniera.
Articolo 15, comma 01 (em. 15.601)
(Attribuzione all’Avvocatura dello Stato delle funzioni di agente del Governo presso la CEDU)
Il comma 01 dell’articolo 15 (oggetto dell’emendamento 15.601 approvato dalla Commissione referente) attribuisce all’Avvocatura generale dello Stato le funzioni di agente del Governo italiano presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il comma 01, la cui introduzione è stata proposta, nel corso dell’esame in sede referente, con l'approvazione dell’emendamento 15.601, attribuisce all’Avvocato generale dello Stato - il quale può delegare un avvocato di Stato - le funzioni di agente del Governo, per rappresentare lo Stato italiano dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nei procedimenti in cui è parte l’Italia.
Il Regolamento della CEDU, all’articolo 35, prevede infatti che gli Stati membri della Convenzione siano rappresentati da agenti, che possono farsi assistere da avvocati o consulenti.
Attualmente l’Agente del Governo ha sede presso il Ministero degli affari esteri ed è coadiuvato da due co-Agenti, residenti a Strasburgo, i quali assicurano la difesa scritta ed orale del Governo, curano i rapporti tra la Corte e le Autorità nazionali di volta in volta interessate e coordinano le attività processuali necessarie. Dopo ogni sentenza della Corte, recante la constatazione di una violazione della Convenzione a carico dell’Italia, i co-Agenti seguono, in qualità di esperti giuridici della Rappresentanza Permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa, la fase di esecuzione degli obblighi scaturenti dalla decisione (ai sensi degli articoli 41 e 46 della Convenzione stessa).
La disposizione in commento viene a colmare una lacuna normativa in merito all’individuazione, nell’ordinamento interno, della figura dell’agente di Governo presso la Corte EDU. Attualmente infatti la materia è regolata dalla prassi, in base alla quale, la nomina dell’agente viene effettuata dal Ministro per gli affari esteri su proposta del Ministro della giustizia. Non vi è alcuna disposizione che preveda specifici requisiti per la nomina.
Con riguardo all’attribuzione delle funzioni all’Avvocatura dello Stato, si ricorda peraltro che anche nel caso dell’agente del governo italiano presso la Corte di giustizia dell'Unione europea, le funzioni dello stesso sono già attualmente svolte da un avvocato dello Stato. In tale caso però, a differenza di quanto previsto dalla disposizione in commento, la nomina dell’avvocato di Stato è di competenza della Presidenza del Consiglio, o del Ministro per gli affari europei e del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, sentito l'Avvocato generale dello Stato (articolo 42, comma 3, della legge 24 dicembre 2012, n. 234).
Articolo 15
(Gratuito patrocinio)
L’articolo 15 modifica il TU spese di giustizia prevedendo, nel processo civile, che la dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione comporti la mancata liquidazione del compenso al difensore ammesso al gratuito patrocinio. Analogamente, non sono liquidate dallo Stato le spese per consulenze tecniche di parte che appaiano, già all’atto del conferimento dell’incarico, irrilevanti o superflue a fini probatori. Tuttavia, la Commissione referente ha approvato un emendamento (15.602) che propone la soppressione del riferimento al solo processo civile, così estendendo la nuova disciplina anche al processo amministrativo, contabile e tributario.
L’articolo 15 aggiunge al TU spese di giustizia (d.P.R. n. 115 del 2002) un nuovo art. 130-bis che esclude, nel gratuito patrocinio nel processo civile:
§ il diritto del difensore al compenso professionale ove l’impugnazione, anche incidentale, venga dichiarata inammissibile.
§ il diritto del consulente tecnico di parte alla liquidazione delle spese sostenute quando le consulenze apparivano irrilevanti o superflue ai fini della prova già al momento del conferimento dell'incarico
La norma mira a responsabilizzare il difensore escludendo il diritto al compenso (come gratuito patrocinio) nel caso in cui l’impugnazione sia dichiarata inammissibile. La ratio di tale disposizione appare quella di evitare ricorsi palesemente infondati o ex ante evidentemente privi dei necessari requisiti di ammissibilità
Nel corso dell’esame in Commissione referente è stato, tuttavia, approvato l’emendamento 15.602 che sopprime all’art. 15 il riferimento al solo processo civile.
L’effetto è quello di estendere la disciplina del nuovo art. 130-bis, oltre che al processo civile, anche al processo amministrativo, contabile e tributario.
Tale previsione mutua quanto previsto dall’art. 106 del TU spese di giustizia per il gratuito patrocinio nel settore penale.
L’articolo 106 del TU spese di giustizia è stato recentemente oggetto di scrutinio di costituzionalità. La Corte costituzionale, con sentenza 30 gennaio 2018 n. 16, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 106 nella parte in cui prevede che il compenso al difensore della parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato non venga liquidato qualora l'impugnazione venga dichiarata inammissibile, senza distinzione in merito alla causa della inammissibilità, in riferimento agli artt. 3, co. 2, 24, co. 2 e 3, e 36 Cost. Secondo la Consulta, nel patrocinio a spese dello Stato “è cruciale l'individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia. Citando la propria giurisprudenza (da ultimo, la sentenza n. 178 del 2017) la Corte ha sottolineato la frequenza del “riferimento al generale obbiettivo di limitare le spese giudiziali” evidenziando “il particolare scopo di contenere tali spese soprattutto nei confronti delle parti private”. La disposizione censurata - prosegue la Corte – “non limita irragionevolmente il diritto di difesa, ma sollecita una particolare attenzione in capo al difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato. E la mancata liquidazione del compenso, se le impugnazioni coltivate dalla parte siano dichiarate inammissibili, si giustifica, per le ipotesi in cui la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione risulti ex ante prevedibile, proprio perché, altrimenti, i costi di attività difensive superflue sarebbero a carico della collettività”.
Articolo 15, comma 1-bis (em. 15.603)
(Processo amministrativo telematico)
Prevede che i giudizi amministrativi depositati con modalità telematiche devono, non più fino al 1° gennaio 2019, ma a regime, essere accompagnati anche da una conforme copia cartacea del ricorso e degli scritti difensivi.
La disposizione in esame, la cui introduzione è proposta dalla Commissione referente con l'approvazione dell’emendamento 15.603, modifica l’art. 7, comma 4, del D.L. 168 del 2016 (Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa) prevedendo, nel processo amministrativo telematico, l’obbligo - a regime - di depositare una copia cartacea del ricorso e delle memorie difensive presentati al giudice amministrativo con modalità telematiche; analogo obbligo concerne l'attestazione di conformità al corrispondente deposito telematico.
Il citato art. 7, comma 4, prevedeva tale disciplina come transitoria. Nel primo anno di vigenza del processo amministrativo telematico è stato, infatti, previsto un doppio binario.
L’art. 7, comma 4 del DL 168 del 2016, limitava l’obbligo di deposito cartaceo ai giudizi introdotti con ricorso davanti al giudice amministrativo depositato, sia in primo grado che in appello, dal 1° gennaio 2017 fino al 1° gennaio 2018. Tale termine è stato poi prorogato al 1° gennaio 2019 dalla legge di bilancio 2018 (art. 1, comma 1150).
Per i ricorsi depositati prima del 1° gennaio 2017 è stata, invece, prevista dal comma 3 dell’art. 7 del citato decreto legge - fino all’esaurimento del grado di giudizio e, in ogni caso, non oltre il 1° gennaio 2018 – l’applicazione delle disposizioni previgenti la data di entrata in vigore del DL 168/2017.
Articolo 15-bis (em.15.0.3 testo 2)
(Obblighi di comunicazione a favore del procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minorenni)
L’articolo 15-bis introduce una serie di modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e al codice di procedura penale volte a prevedere puntuali obblighi di comunicazione a favore del procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minorenni.
L'articolo 15-bis, del quale la Commissione referente ha proposto l'inserimento con l'approvazione dell'emendamento 15.0.3 (testo 2), inserisce in primo luogo, nella legge sull’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) l’articolo 11-bis, rubricato “Comunicazioni al Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni” (comma 1).
La Procura per i Minorenni è un organo giudiziario specializzato, istituito presso ogni Tribunale per i Minorenni, caratterizzato dalla specificità delle funzioni ad esso attribuite per ragione del destinatario dei suoi interventi, il minore d'età, la cui tutela è imposta dalla normativa sovrannazionale ed interna.
La Procura ha competenze nei seguenti tre ambiti:
· penale per tutti i reati commessi da soggetti di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni. Per i minori di anni quattordici vige nel nostro ordinamento il principio secondo cui gli stessi non siano perseguibili penalmente, pur restando soggetti alla possibilità di applicazione di una misura di sicurezza o di avvio di una procedura amministrativa;
· civile per l’attuazione di iniziative in presenza di un eventuale stato di abbandono dei minori e per l’esercizio del controllo della responsabilità genitoriale.
In tale ambito civile vengono svolte, inoltre, attività ispettive nei confronti degli istituti di assistenza pubblici e privati e delle comunità di tipo familiare. La funzione di vigilanza e di controllo su tali strutture è esercitata da un magistrato della Procura, che di solito si avvale della polizia giudiziaria o dei servizi territoriali (Servizi sociali del Comune e della ASL);
· amministrativo, previsto che "Quando un minore degli anni 18 dà manifeste prove di irregolarità della condotta o del carattere, il Procuratore della Repubblica, l'ufficio di servizio sociale minorile, i genitori, il tutore, gli organismi di educazione, di protezione e di assistenza dell'infanzia e dell'adolescenza, possono riferire i fatti al Tribunale per i Minorenni, il quale, a mezzo di uno dei suoi componenti all'uopo designato dal Presidente, esplica approfondite indagini sulla personalità del minore e dispone con decreto motivato una delle seguenti misure: affidamento del minore al servizio sociale minorile; collocamento in una casa di rieducazione o in un istituto medico-psico-pedagogico".
Il nuovo articolo 11-bis O.P. impone agli istituti penitenziari e agli istituti a custodia attenuata per detenute madri (c.d. ICAM) l’obbligo di trasmettere, semestralmente, al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del luogo ove hanno sede, l'elenco di tutti i minori collocati presso di loro con l'indicazione specifica, per ciascuno di essi delle seguenti informazioni:
· della località di residenza dei genitori,
· dei rapporti con la famiglia
· delle condizioni psicofisiche del minore stesso.
Il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, assunte le necessarie informazioni, chiede al tribunale, con ricorso motivato, di adottare i provvedimenti di propria competenza. A tal fine il procuratore, che trasmette gli atti al medesimo tribunale con relazione informativa, ogni sei mesi, può effettuare o disporre ispezioni (anche straordinarie) nei medesimi istituti indicati.
I pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio, gli esercenti un servizio di pubblica necessità che entrano in contatto con il minore recluso in un istituto penitenziario o in un ICAM debbono riferire al più presto al direttore dell'istituto su condotte del genitore pregiudizievoli al minore medesimo. Il direttore dell'istituto è tenuto a sua volta a darne comunicazione al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni.
Il comma 2 dell’articolo 15-bis apporta modifiche al codice di procedura penale.
In particolare la lettera a) inserisce nel codice di rito il nuovo articolo 387-bis (Adempimenti della polizia giudiziaria nel caso di arresto o di fermo di madre di prole di minore età), il quale prevede che nel caso di arresto o fermo di madre di prole di minore età, la polizia giudiziaria debba darne notizia al PM del luogo ove l'arresto o il fermo è stato eseguito, nonché al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del luogo dell'arresto o del fermo.
La lettera b) aggiunge un ulteriore comma all’articolo 293 c.p.p., il quale prevede che copia dell'ordinanza che dispone la custodia cautelare in carcere nei confronti di madre di prole di minore età debba essere comunicata al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del luogo di esecuzione della misura.
Infine la lettera c), integrando l’articolo 656 c.p.p. stabilisce che l'ordine di esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva nei confronti di madre di prole di minore età, debba essere comunicata al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni del luogo di esecuzione della sentenza.
Articolo 16
(Braccialetti elettronici)
L’articolo 16 consente, nel corso del procedimento penale, l’uso dei braccialetti elettronici come modalità di applicazione e controllo dell’imputato soggetto alle misure dell’allontanamento dalla casa familiare.
L’articolo 16 modifica la formulazione dell’art. 282-bis c.p.p. in materia di allontanamento dalla casa familiare.
Viene integrato con i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e gli atti persecutori (cd. stalking) (art. 612-bis c.p.) il catalogo dei reati indicati dall’art. 282-bis che consentono, nel corso del procedimento penale, l’uso dei braccialetti elettronici come modalità di esecuzione dell’allontanamento dalla casa familiare.
L’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) è una misura coercitiva di protezione disposta dal giudice, soggetta alla disciplina delle misure cautelari, che consiste essenzialmente nell’ordine rivolto all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice. Con l’allontanamento, il giudice può inoltre prescrivere all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro.
Il comma 6 dell’art. 282-bis consente l’applicazione di tale misura anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p per l’applicazione delle misure coercitive (delitti puniti con reclusione superiore nel massimo a tre anni), anche mediante l’uso dei cd. braccialetti elettronici (art. 275-bis, c.p.p.) nei procedimenti per particolari delitti, tassativamente indicati dal legislatore, commessi in danno dei prossimi congiunti o del convivente: una serie di reati contro la libertà sessuale, lesioni personali aggravate, minacce aggravate, violazione degli obblighi di assistenza familiare, abuso dei mezzi di correzione, lesioni volontarie aggravate e minaccia aggravata (art. 282 bis, comma 6).
Il vigente art. 275-bis c.p.p. prevede l’uso di tale misura coercitiva da parte del giudice all’atto della disposizione degli arresti domiciliari, anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere. A meno che non lo ritenga necessario in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare, il giudice può disporre procedure di controllo dell’imputato mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (ove disponibili). Se l'imputato nega il consenso della misura, il giudice applica la custodia cautelare in carcere.
L’inserimento di tali delitti nel comma 6 dell’art. 282-bis c.p.p. non produce effetti ulteriori, trattandosi già di fattispecie che, in ragione dei limiti di pena, già consentono l’applicazione dell’allontanamento dalla casa familiare.
Il comma 2 dell’articolo 16 precisa che dall’attuazione della disposizione non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Si ricorda che, per la fornitura dei c.d. braccialetti elettronici (che in realtà sono ora cavigliere), è stato concluso un contratto tra il Ministero dell’interno e Fastweb. L’azienda si è impegnata a fornire fino a 1.000 dispositivi al mese per 36 mesi, oltre alla manutenzione di tutti i dispositivi attualmente in uso. Il precedente appalto – che scade a dicembre 2018 – era stato vinto nel 2011 da Telecom Italia e riguarda la fornitura di 2.000 dispositivi.
Articolo 17
(Prescrizioni in materia di contratto di noleggio di autoveicoli per finalità di prevenzione del terrorismo)
L’articolo 17 pone in capo agli esercenti di attività di autonoleggio di veicoli senza conducente l'obbligo di comunicare i dati identificativi dei clienti.
La comunicazione avviene contestualmente della stipula del contratto e comunque con "congruo anticipo" rispetto al momento della consegna del veicolo. Tali comunicazioni sono oggetto di riscontro con i dati già disponibili presso il CED interforze, all'esito del quale possono essere inviate segnalazioni alle Forze di polizia per gli ulteriori controlli. I dati comunicati sono conservati per un periodo di tempo non superiore a sette giorni.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato l'emendamento 17.3.
L'articolo esplicita al comma 1 esplicita la finalità della disposizione individuandola nella prevenzione del terrorismo.
I destinatari delle disposizioni sono individuati dal medesimo comma mediante rinvio all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 481 del 2001, recante disciplina dell'attività di noleggio di autoveicoli senza conducente.
Con l'emendamento 17.3 approvato in sede referente si propone di escludere da tale obbligo i contratti di noleggio di autoveicoli per servizi di mobilità condivisa, quali, in particolare il car sharing, al fine di non compromettere la facilità di utilizzo).
Gli esercenti delle attività di noleggio comunicano, quindi, i dati identificativi riportati nel documento di identità presentato dal cliente. Tali dati sono quindi oggetto di raffronto da parte del centro elaborazione dati (CED), istituito ai sensi dell'articolo 8 della legge n. 121 del 1981 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza) presso il Ministero dell'interno.
Il CED – Centro elaborazione dati - interforze è la banca dati che fornisce il supporto informatico per l’attività operativa e investigativa delle Forze di Polizia. Il Centro è incardinato nell'ambito del Servizio per il Sistema Informativo Interforze (S.S.I.I.) della Direzione centrale della Polizia criminale, interna al Dipartimento della pubblica sicurezza.
Il Centro provvede alla. raccolta, elaborazione, classificazione e conservazione delle informazioni e dei dati in materia di:
- tutela dell'ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità e loro diramazione. Tali dati devono riferirsi a notizie risultanti da documenti conservati dalla pubblica amministrazione o da enti pubblici, da sentenze o provvedimenti dell'autorità giudiziaria nonché da atti concernenti l'istruzione penale o derivanti da indagini di polizia;
- tutela dell'ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità e loro diramazione in possesso delle polizie degli Stati membri dell'Unione europea, e di ogni altro Stato con il quale siano raggiunte specifiche intese in tal senso;
- operazioni o posizioni bancarie nei limiti richiesti da indagini di polizia giudiziaria e su espresso mandato dell'autorità giudiziaria, senza che possa essere opposto il segreto da parte degli organi responsabili delle aziende di credito o degli istituti di credito di diritto pubblico.
L’articolo 21 della legge 26 marzo 2001, n. 128, prevede inoltre che nel CED debbano confluire tutte le notizie e le informazioni acquisite dalla Forze di Polizia nel corso delle attività di prevenzione e repressione dei reati e di quelle amministrative.
L’accesso ai dati contenuti nel CED, regolamentato dall'art. 9 della legge n. 121 del 1981, è consentito agli ufficiali di polizia giudiziaria, agli ufficiali di pubblica sicurezza, ai funzionari dei servizi di informazione e sicurezza e agli agenti di polizia giudiziaria debitamente autorizzati. L'accesso ai dati e alle informazioni è altresì consentito all'autorità giudiziaria ai fini degli accertamenti necessari per i procedimenti in corso e nei limiti stabiliti dal c.p.p.
È comunque vietata ogni utilizzazione delle informazioni e dei dati per finalità diverse da quelle di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità. È altresì vietata ogni circolazione delle informazioni all'interno della pubblica amministrazione e la raccolta di informazioni e dati sui cittadini per il solo fatto della loro razza, fede religiosa od opinione politica, o della loro adesione a movimenti sindacali, cooperativi, assistenziali, culturali, nonché per le attività svolte come appartenenti ad organizzazioni legalmente operanti in tali settori.
Quanto alla nozione di "autoveicolo" il comma 1 rinvia all'articolo 54 del nuovo codice della strada (decreto legislativo n. 282 del 1992).
Si tratta, in sintesi, di: autovetture; autobus; autoveicoli per trasporto promiscuo di massa inferiore a determinati limiti e capaci di contenere al massimo nove posti compreso quello del conducente; autocarri; trattori stradali; autoveicoli per trasporti specifici oppure per uso speciale; autotreni; autoarticolati; autosnodati; autocaravan; mezzi d'opera.
Il comma 2 prevede che il CED proceda al confronto automatico delle informazioni inviate con quelle già detenute concernenti segnalazione dell'Autorità giudiziaria, dell'Autorità di pubblica sicurezza o segnalazioni inserite dalle Forze di polizia per finalità antiterrorismo. In caso emergano situazioni potenzialmente rilevanti per le finalità di prevenzione del terrorismo, il CED provvede ad inviare una segnalazione all'Ufficio o comando delle Forze di polizia per eventuali ulteriori controlli. L'autorità di pubblica sicurezza può ordinare che le persone pericolose o sospette e coloro che non sono in grado o si rifiutano di provare la loro identità siano sottoposti a rilievi segnaletici (ai sensi dell'articolo 4, primo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). Ai sensi del comma 3 i dati possono essere conservati per un periodo non superiore a sette giorni. Il medesimo comma demanda ad un decreto del Ministro dell'interno, di natura non regolamentare, sentito il parere del Garante per la protezione dei dati personali, la definizione delle modalità tecniche di trasmissione e conservazione dei dati. Il decreto deve essere emanato entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge in esame; il parere del Garante deve essere reso entro 45 giorni dalla richiesta, trascorsi i quali il decreto ministeriale può essere comunque emanato. Il comma 4 reca la clausola di invarianza finanziaria; il Ministero dell'interno - Dipartimento di Pubblica Sicurezza provvede all'attuazione del presente articolo con le risorse - umane e strumentali - disponibili a legislazione vigente.
Riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle Forze di Polizia cfr. infra la scheda sull'articolo 18.
Articolo 18
(Disposizioni in materia di accesso al CED interforze da parte del personale della polizia municipale)
L’articolo 18 amplia la possibilità di accesso del personale della polizia municipale ai dati presenti nella banca dati interforze CED del Ministero dell’interno.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato l'emendamento 18.600 (testo 2).
Il comma 1 consente l'accesso al CED (Centro elaborazioni dati) interforze al personale dei Corpi e servizi di polizia municipale dei Comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, al fine di verificare l'esistenza di eventuali provvedimenti di ricerca o di rintraccio nei confronti delle persone controllate.
La norma si applica al personale della polizia municipale che assolve compiti di polizia stradale ed in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza, quando procede al controllo ed all'identificazione delle persone. L'EMENDAMENTO 18.600 (testo 2) approvato in sede referente propone che tali disposizioni trovino applicazione, "progressivamente" nel corso del 2019, agli altri comuni capoluogo di provincia.
Inoltre, con l'introduzione di un nuovo comma 1-bis al presente articolo, si propone che le disposizioni in esame siano ulteriormente estese ad altri comuni diversi da quelli individuati dal comma 1, sulla base di parametri determinati con un decreto del Ministro dell'interno, previo accordo in Conferenza Stato-Città e autonomie locali. Tali parametri sono connessi:
§ alla classe demografica,
§ al rapporto numerico tra il personale della polizia municipale assunto a tempo indeterminato e il numero di abitanti residenti,
§ al numero delle infrazioni alle norme sulla sicurezza stradale rilevate nello svolgimento dei servizi di polizia stradale (di cui all'articolo 12 del codice della strada).
Il CED – Centro elaborazione dati, istituito ai sensi dell’art. 8 della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza), è la banca dati che fornisce il supporto informatico per l’attività operativa e investigativa delle Forze di Polizia.
Riguardo al CED interforze si veda supra la scheda relativa all'articolo 17.
Il comma in esame:
§ deroga l'articolo 9 della legge n. 121 del 1981 sugli accessi al CED interforze
§ mantiene ferma la disciplina dettata dall'articolo 16-quater del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 8
L’accesso ai dati contenuti nel CED è regolamentato dall'articolo 9 della legge n. 121 del 1981, il quale lo consente: agli ufficiali di polizia giudiziaria; agli ufficiali di pubblica sicurezza; ai funzionari dei servizi di informazione e sicurezza; agli agenti di polizia giudiziaria debitamente autorizzati. L'accesso ai dati e alle informazioni è altresì consentito all'autorità giudiziaria ai fini degli accertamenti necessari per i procedimenti in corso e nei limiti stabiliti dal c.p.p.
La disciplina concernente l'accesso della polizia municipale al CED interforze è posta dall'articolo 16-quater del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 8.
Tale articolo stabilisce che il personale di polizia municipale – se addetto ai servizi di polizia stradale e in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza – possa accedere, presso il CED, a: lo schedario dei veicoli rubati; lo schedario dei documenti d’identità rubati o smarriti; le informazioni contenute nel CED e concernenti i permessi di soggiorno rilasciati e rinnovati.
Inoltre, viene data facoltà al personale della polizia municipale, previa apposita abilitazione, di svolgere un ruolo attivo, immettendo nel CED i dati raccolti autonomamente relativi ai veicoli rubati e ai documenti rubati o smarriti.
Anche tali accessi sono consentiti dal suddetto articolo 16-quater in deroga all'articolo 9 della legge n. 121 del 1991.
Il comma 2 dell'articolo in esame demanda ad un decreto del Ministro dell'interno la definizione delle modalità di collegamento al CED ed i relativi standard di sicurezza. Esso fissa, inoltre, il numero massimo di agenti di polizia municipale che ciascun comune può abilitare all'accesso. Il decreto è emanato entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali ed il Garante per la protezione dei dati personali.
L'EMENDAMENTO 18.600 (testo 2) interviene, inoltre, sulle disposizioni finanziarie modificando il comma 3 e aggiungendo un comma 3-bis.
Il comma 3 rinvia all'articolo 39 per la copertura finanziaria degli oneri derivanti dall'attuazione del presente articolo, valutati in 150.000 euro per il 2018. A tale riguardo la Commissione propone la seguente nuova autorizzazione di spesa: 150.000 euro per l'anno 2018 e di 175.000 euro per l'anno 2019. Ai relativi oneri si provvede ai sensi dell'articolo 39 per l'anno 2018; per l'anno 2019 mediante corrispondente riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica (art. 10, comma 5, del decreto-legge n. 282 del 2004).
introduce un nuovo comma 3-bis che stabilisce che agli oneri derivanti dall'attuazione del comma 1-bis - nel limite di 25.000 euro - si provvede mediante corrispondente utilizzo di quota parte delle entrate derivanti dal contributo sui premi assicurativi, raccolti nel territorio dello Stato, nei rami incendio, responsabilità civile diversi, auto rischi diversi e furto, relativi ai contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 1990 e destinato al Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell'usura (art. 18, comma 1, lett. a), della legge n. 44 del 1999).
In tema di trattamento di dati personali da parte delle Forze di Polizia è intervenuto il decreto legislativo n. 51 del 2018 abrogando, tra l'altro, gli articoli da 53 a 56 del Codice in materia di protezione dei dati personali (di cui al decreto legislativo n. 196 del 2003) dedicati a tale materia. L'articolo 57 del medesimo Codice è abrogato dall'8 giugno 2019 (decorso un anno dall'entrata in vigore della nuova disciplina). In attuazione della direttiva (UE) 2016/680, il decreto legislativo n. 51 citato si applica al "trattamento interamente o parzialmente automatizzato di dati personali delle persone fisiche e al trattamento non automatizzato di dati personali delle persone fisiche contenuti in un archivio o ad esso destinati, svolti dalle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati, o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica". Tale disciplina non riguarda i trattamenti per finalità di difesa e di sicurezza dello Stato (disciplinati dall'articolo 58 del Codice) che non sono trattati dalla direttiva 2016/680 citata né dal Regolamento (UE) 2016/679 (concernente la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali).
L'articolo 57 del Codice, in vigore al momento della redazione della presente scheda, demanda ad un decreto del Presidente della Repubblica l'individuazione delle modalità di attuazione dei principi del Codice medesimo relativamente al trattamento dei dati effettuato dal Centro elaborazioni dati e da organi, uffici o comandi di polizia, anche ad integrazione e modifica del decreto del Presidente della Repubblica 3 maggio 1982, n. 378, recante le procedure di raccolta, accesso, comunicazione, correzione, cancellazione ed integrazione dei dati e delle informazioni, registrati negli archivi magnetici del centro elaborazione dati di cui all'art. 8 della legge 1 aprile 1981, n. 121.
Articolo 18-bis (em. 18.0.5)
(Disposizioni in materia di accesso alle banche dati presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti )
Estende agli enti locali la possibilità di accedere gratuitamente al sistema informativo della Direzione generale per la Motorizzazione, limitatamente all'espletamento delle funzioni di polizia locale.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 18.0.5.
A tal fine propone una novella all'articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 634 del 1994. Quest'ultimo articolo prevede, al comma 1, che le pubbliche amministrazioni e le persone giuridiche e fisiche private possano accedere alle informazioni contenute nella banca dati della Direzione generale della Motorizzazione. Il comma 2, nel testo vigente, stabilisce che gli organi costituzionali, giurisdizionali e le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato possono usufruire gratuitamente dell'accesso per gli specifici compiti d'istituto.
La banca dati in oggetto contiene l’Archivio nazionale dei veicoli e l’Anagrafe nazionale degli abilitati alla guida, disciplinati dagli artt. 225 e 226 del nuovo codice della strada (si veda, in proposito, la pagina internet del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti).
Articolo 19
(Sperimentazione di armi ad impulsi elettrici da parte delle Polizie municipali)
L’articolo 19 è diretto a consentire alla Polizia municipale di utilizzare, in via sperimentale, armi comuni ad impulsi elettrici. In esito alla sperimentazione, i comuni potranno deliberare, con proprio regolamento, di assegnare in dotazione effettiva di reparto dette armi.
Concluso l'esame in sede referente, la Commissione affari costituzionali propone l'approvazione di tre proposte emendative volte: ad estendere la platea dei comuni che potranno fare ricorso alla sperimentazione (emendamento 19.600), sostituire i riferimenti alla "polizia municipale" con quelli alla "polizia locale" (emendamento 19.7) e operare un richiamo alla fonte istitutiva della Conferenza unificata citata nel testo (emendamento 19.3).
Il comma 1 attribuisce ai comuni con popolazione superiore ai centomila abitanti la facoltà di dotare di armi comuni ad "impulsi elettrici" (al comma 1 i termini sono invero richiamati al singolare a differenza del resto del testo), in via sperimentale e per il periodo di sei mesi, due unità di personale individuato fra gli appartenenti ai dipendenti Corpi e Servizi di polizia municipale.
Con l'emendamento 19.7 approvato dalla Commissione referente si propone di sostituire i termini "polizia municipale" con quelli a "polizia locale"[12].
L'ordinamento della "polizia municipale" è disciplinato dalla legge n. 65 del 1986 che demanda ai comuni la facoltà di organizzare, per l'espletamento delle funzioni di polizia locale, un servizio di polizia municipale.
I termini "polizia locale" sono peraltro correntemente utilizzati nell'ambito della legislazione nazionale e in alcuni interventi legislativi statali[13].
Qualora l'emendamento 19.7 venisse approvato nel corso dell'esame in Aula del decreto-legge, occorrerebbe verificare l'opportunità di operare analoga modifica terminologica in altre parti del provvedimento[14], per ragioni di coerenza sistemica.
L'emendamento 19.600 approvato dalla Commissione referente mira ad estendere la portata della disposizione:
i) a tutti i comuni capoluogo, quindi inclusi quelli con popolazione inferiore o pari a centomila abitanti (gli altri comuni capoluogo sono già inclusi nella formulazione originaria);
ii) ad altri comuni (cioè non capoluoghi di provincia o con popolazione inferiore a centomila abitanti) che rientrino nei parametri "connessi alle caratteristiche socioeconomiche, alla classe demografica, all'afflusso turistico e agli indici di delittuosità", definiti con decreto del ministro dell'interno previo accordo sancito in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali.
Al riguardo, la norma, nel demandare al decreto ministeriale la definizione dei parametri, non prevede alcuna procedura per l'attestazione del rispetto dei medesimi da parte dei comuni interessati all'avvio della sperimentazione.
É previsto che il personale individuato sia munito della qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Ai sensi dell'art.5 della legge n.65 del 1986 il prefetto può conferire al personale che svolge servizio di polizia municipale, previa comunicazione del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza, dopo aver accertato il possesso di determinati requisiti (godimento dei diritti civili e politici; non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione; non essere stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici). Inoltre, nell'esercizio delle funzioni di agente di pubblica sicurezza, il personale dipende operativamente dalla competente autorità di pubblica sicurezza nel rispetto di eventuali intese fra le dette autorità e il sindaco (comma 4); al personale della polizia municipale a cui è conferita tale qualifica, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, è consentito di portare, senza licenza, le armi, di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio, anche fuori dal servizio, purché nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei casi previsti dalla stessa legge. Tali modalità e casi sono stabiliti, in via generale, con apposito regolamento approvato con decreto del Ministro dell'interno, sentita l'Associazione nazionale dei comuni d'Italia (ANCI).
L'attivazione di tale facoltà e la disciplina della sperimentazione è demandata ad apposito regolamento comunale, adottato nel rispetto delle linee generali in materia di formazione del personale contenute nell'accodo sancito in sede di Conferenza Unificata (l'emendamento 19.7 approvato dalla Commissione referente propone di specificare che si tratta della Conferenza "di cui all'articolo 8 del decreto legislativo n. 281 del 1997").
La richiamata Conferenza è un organo che riunisce la Conferenza Stato-città ed autonomie locali e la Conferenza Stato-regioni nei casi in cui siano affrontate questioni che investono materie e compiti di interesse comune delle regioni, delle province, dei comuni e delle comunità montane.
La scelta di prevedere che i comuni debbano conformarsi alle linee generali in materia di formazione sancite nell'accordo risponde all'esigenza di assicurare una disciplina tendenzialmente uniforme sul territorio nazionale.
La scelta, invece, di demandare all'accordo in sede di Conferenza unificata (e non ad esempio alla Conferenza Stato-città), appare coerente con l'esigenza di assicurare un coinvolgimento delle regioni in materie quali la formazione professionale (cui è riconducibile la formazione del personale) e la tutela della salute, ascrivibili alla competenza legislativa regionale (esclusiva la prima, ai sensi del combinato disposto dell'art.117, commi terzo e quarto della Costituzione, e concorrente la seconda, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost).
L'accordo cui fa rinvio la norma è al riguardo in linea con la giurisprudenza costituzionale, secondo la quale l'intervento legislativo dello Stato in materie di competenza regionale (anche residuale) nei casi in cui si registra un intreccio di competenze[15] è legittimo nella misura in cui viene assicurato il coinvolgimento delle autonomie territoriali.
Ai sensi del comma 2, i regolamenti comunali disciplinanti la sperimentazione:
i) si attengono al rispetto dei "principi di precauzione e di salvaguardia dell’incolumità pubblica";
ii) subordinano l'avvio della sperimentazione ad un periodo di adeguato addestramento del personale interessato;
iii) dispongono che la sperimentazione avvenga previa intesa con i competenti servizi sanitari delle Regioni.
Ai sensi del comma 3, a conclusione del periodo di sperimentazione, i Comuni, con proprio regolamento, possono deliberare di assegnare in dotazione effettiva di reparto l’arma comune ad impulsi elettrici. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’interno 4 marzo 1987, n. 145, ad eccezione di quanto previsto dall’articolo 2, comma 2.
Il DM n.145 del 1987 detta norme sull'armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza. L'art.2, comma 2, richiamato dalla disposizione in commento stabilisce che i regolamenti comunali che disciplinano i servizi di polizia municipale per i quali gli addetti in possesso delle qualità di agente di pubblica sicurezza portano, senza licenza, le armi di cui sono dotati, nonché i termini e le modalità del servizio prestato con armi, siano trasmessi al prefetto. Ai sensi della disposizione in commento tale adempimento non è dovuto con riguardo alla disciplina delle armi ad impulsi elettrici.
Affinché il comune possa procedere alla messa a regime del ricorso allo strumento ad impulsi elettronici, occorre che l'arma risulti "positivamente sperimentata".
In proposito, la disposizione non detta alcun principio circa la modalità con cui debba essere effettuata tale valutazione, che pare pertanto demandata alla piena discrezionalità dei comuni (in assenza di richiami a criteri eventualmente rimessi alla Conferenza unificata o alla Conferenza Stato-città). Non è peraltro chiaro se un'eventuale valutazione negativa possa costituire un ostacolo alla possibilità di procedere, in un secondo momento (anche a seguito del rinnovo degli organi comunali) alla messa a regime dello strumento.
Il comma 4 pone a carico dei Comuni e delle Regioni gli oneri derivanti, rispettivamente, dalla sperimentazione e dalla formazione del personale delle polizie municipali interessato, nei limiti delle risorse disponibili nei propri bilanci.
Al termine del periodo di sperimentazione, qualora questo abbia dato esiti positivi e i Comuni decidano di introdurre in via definitiva tale strumento fra quelli in dotazione effettiva alla Polizia municipale, le regioni parrebbero essere chiamate a sostenere i costi della formazione a regime.
Il comma 5 interviene su una precedente disposizione legislativa con cui è stato demandato ad un decreto del Ministro dell'interno l'avvio da parte dell'Amministrazione della pubblica sicurezza della sperimentazione della "pistola elettrica Taser" (art.8, comma 1-bis, del DL n.119 del 2014), sostituendo detto riferimento con quello alla "arma comune ad impulsi elettrici", per evidenti ragioni di armonizzazione con l'articolo in esame.
Al riguardo, si segnala che l'art.8, comma 1-bis è stato attuato con DM del 4 luglio 2018 con cui è stata avviata la sperimentazione del Taser per l'espletamento di compiti istituzionali della Polizia di Stato, dell'Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza. La durata della sperimentazione è di tre mesi (prorogabile per ulteriori tre mesi) e ha luogo nelle seguenti città: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia e Brindisi.
Articolo 19-bis (em. 19.0.2. testo 2)
(Obbligo per locatori con contratti di durata inferiore a trenta giorni)
Prevede che l'obbligo di far esibire il documento di identità valga anche per i locatori o sublocatori che lochino immobili o parti di essi con contratti di durata inferiore a trenta giorni.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'l'emendamento 19.0.2 (testo 2).
Reca interpretazione autentica dell'articolo 109 del Testo unico di pubblica sicurezza (regio decreto n. 773 del 1931).
L'articolo 109 del Testo unico prevede che i gestori di esercizi alberghieri e di altre strutture ricettive (compresi i campeggi) nonché i proprietari o gestori di case e di appartamenti per vacanze e gli affittacamere, ivi compresi i gestori di strutture di accoglienza non convenzionali (ad eccezione dei rifugi alpini inclusi in apposito elenco istituito dalla Regione o dalla Provincia autonoma), possano dare alloggio esclusivamente a persone munite della carta d'identità o di altro documento idoneo ad attestarne l'identità secondo le norme vigenti (per gli stranieri extracomunitari è sufficiente l'esibizione del passaporto o di altro documento che sia considerato ad esso equivalente in forza di accordi internazionali, purché munito della fotografia del titolare).
L'articolo interpretazione la disposizione affinché sia intesa applicarsi anche ai locatori o sublocatori che lochino immobili o parti di essi con contratti di durata inferiore a trenta giorni.
Articolo 19-bis (em. 19.0.3)
(Dotazioni della polizia municipale)
Reca disposizione interpretativa sì da sancire per il personale della polizia municipale la portabilità delle armi senza licenza fuori del territorio dell'ente di appartenenza, per il caso di necessità dovuto alla flagranza dell'illecito commesso nel territorio di appartenenza.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell''emendamento 19.0.3.
Esso incide sull'articolo 5, comma 5, primo periodo della legge n. 65 del 1986 (legge-quadro sull'ordinamento della polizia municipale)
Quella disposizione disciplina, per il personale che svolga servizio di polizia municipale, le funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale, ausiliarie di pubblica sicurezza.
Secondo il dettato della disposizione vigente, gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali sia stata conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono portare (previa deliberazione in tal senso del Consiglio comunale) senza licenza le armi di cui siano stati dotati in relazione al tipo di servizio (nei termini e modalità previsti dai rispettivi regolamenti), anche fuori dal servizio, purché nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza e nei casi di cui all'articolo 4.
La portabilità dell'arma è dunque riferita alla qualifica di pubblica sicurezza in capo al singolo addetto della polizia municipale, non già da un porto d'armi come per il comune cittadino.
Il rinvio interno previsto nel citato articolo 5 è all'articolo 4 della medesima legge n. 65, quest'ultimo avente ad oggetto il regolamento comunale del servizio di polizia municipale. Tale regolamento comunale è tenuto ad osservare alcuni criteri, tra i quali:
a) autorizzazione delle missioni esterne al territorio per soli fini di collegamento e di rappresentanza;
b) ammissione delle operazioni esterne di polizia, d'iniziativa dei singoli durante il servizio, esclusivamente in caso di necessità dovuto alla flagranza dell'illecito commesso nel territorio di appartenenza;
c) ammissione delle missioni esterne per soccorso in caso di calamità e disastri, o per rinforzare altri Corpi e servizi in particolari occasioni stagionali o eccezionali, a condizione della previa esistenza di appositi piani o di accordi tra le amministrazioni interessate, e con comunicazione al prefetto.
L'articolo ora proposto dalla Commissione referente va ad incidere, con disposizione che si definisce di interpretazione autentica, sul raccordo interno alle disposizioni or richiamate della legge n. 65.
In particolare, va a scandire la portabilità delle armi senza licenza fuori del territorio dell'ente di appartenenza, esclusivamente per il caso di necessità dovuto alla flagranza dell'illecito commesso nel territorio di appartenenza.
Le altre fattispecie previste dall'articolo 4 (citate sue lettere a) e c)) paiono rimanere disciplinate dal decreto del Ministro dell'interno n. 145 del 1987 ("Norme concernenti l'armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza").
Esso prevede (all'articolo 8) che i servizi di collegamento e di rappresentanza esplicati fuori dal territorio del comune di appartenenza siano svolti di massima senza armi. Tuttavia agli addetti alla polizia municipale cui l'arma sia assegnata in via continuativa, è consentito il porto dell'arma nei Comuni in cui svolgano compiti di collegamento o comunque per raggiungere dal proprio domicilio il luogo di servizio e viceversa.
E prevede (all'articolo 9) che i servizi esplicati fuori dell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza per soccorso in caso di calamità e disastri o per rinforzare altri Corpi e servizi in particolari occasioni stagionali o eccezionali, siano effettuati di massima senza armi. Tuttavia il sindaco del Comune nel cui territorio il servizio esterno deve essere svolto può richiedere (nell'ambito di accordi intercorsi) che un contingente del personale inviato per soccorso o in supporto sia composto da addetti in possesso delle qualità di agente di pubblica sicurezza, il quale effettui il servizio stesso in uniforme e munito di arma, quando ciò sia richiesto dalla natura del servizio, ai fini della sicurezza personale, ai sensi del regolamento comunale di polizia municipale.
In ambedue le fattispecie (collegamento e rappresentanza da un lato, soccorso dall'altro) il sindaco dà comunicazione al prefetto territorialmente competente ed a quello competente per il luogo in cui il servizio esterno sarà prestato, dei contingenti tenuti a prestare servizio con armi fuori dal territorio dell'ente di appartenenza, del tipo di servizio per il quale saranno impiegati e della presumibile durata della missione.
L'arma in dotazione - prevede il citato regolamento ministeriale - è la pistola semi-automatica o la pistola a rotazione, i cui modelli devono essere scelti fra quelli iscritti nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo.
Articolo 20
(Estensione dell’applicazione del DASPO)
L’articolo 20 estende, per finalità di prevenzione, l’applicazione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive (cd. DASPO) agli indiziati di reati di terrorismo, anche internazionale, e di altri reati contro la personalità interna dello Stato e l’ordine pubblico.
L’articolo 20 amplia la platea dei possibili destinatari del divieto di accesso alle manifestazioni sportive (cd. DASPO) comprendendovi i soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale.
La relazione illustrativa sottolinea che la ratio della disposizione risiede nella considerazione che i luoghi di svolgimento di tali eventi sportivi possono rappresentare obiettivi sensibili per potenziali attacchi terroristici.
Il DASPO nelle manifestazioni sportive è previsto dall’art. 6 della legge 401 del 1989. La misura (divieto di accesso alle manifestazioni sportive) è una “misura di prevenzione atipica” (Cass. Sez. 1, n. 42744 del 15/10/2003).
Anche la Corte costituzionale intervenuta più volte sull’istituto, ha inquadrato la misura del DASPO tra quelle di prevenzione, che possono quindi essere inflitte indipendentemente dalla commissione di un reato (cfr sentenza n. 512 del 2002)
La misura può essere emessa:
a) nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva, nel corso degli ultimi 5 anni, per uno dei seguenti reati: porto d’armi od oggetti atti ad offendere; uso di caschi protettivi od altro mezzo idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona; esposizione o introduzione di simboli o emblemi discriminatori o razzisti; lancio di oggetti idonei a recare offesa alla persona, indebito superamento di recinzioni o separazioni dell’impianto sportivo, invasione di terreno di gioco e possesso di artifizi pirotecnici).
b) nei confronti di chi abbia preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive o che abbia, nelle medesime circostanze, incitato, inneggiato, o indotto alla violenza.
Recentemente la Corte di Cassazione (Sez. III, sentenza 16.01.2017 n. 1767) ha specificato che la espressione “in occasione o a causa di manifestazioni sportive” non debba essere intesa nel senso che gli atti di violenza o comunque le restanti condotte che possano giustificare la adozione dei provvedimenti di cui alla legge n. 401 del 1989, art. 6 debbano essersi verificati durante lo svolgimento della manifestazione sportiva ma nel senso che con essa abbiano un immediato nesso eziologico, ancorché non di contemporaneità. La ratio della disposizione in questione è, infatti, quella di prevenire fenomeni di violenza, tali da mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza pubblica, laddove questi siano connessi non con la pratica sportiva ma con l’insorgenza di quegli incontrollabili stati emotivi e passionali che, tanto più ove ci si trovi di fronte ad una moltitudine di persone, spesso covano e si nutrono della appartenenza a frange di tifoserie organizzate, perlopiù, ma non esclusivamente, operanti nell’ambito del gioco del calcio.
Per la Corte un’eventuale limitazione della portata della norma che ne confinasse l’applicazione alla sola durata della manifestazione sportiva, ridurrebbe di molto la efficacia dissuasiva della medesima, posto che renderebbe inapplicabile la relativa disciplina ogniqualvolta gli eventi, pur determinati da una mal governata passione sportiva e dalla distorsione del ruolo del tifoso, si realizzino in un momento diverso dal verificarsi del fattore che li ha scatenati.
Il Daspo viene emesso dal questore o dall’autorità giudiziaria (con la sentenza di condanna per i reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, come sopra specificati).
Il provvedimento può prevedere come prescrizione ulteriore l’obbligo di presentazione in un ufficio o comando di polizia durante lo svolgimento di manifestazioni specificatamente indicate. Tale prescrizione, comportando una limitazione della libertà personale dell’interessato, è sottoposta alla procedura di convalida del provvedimento stesso davanti al GIP competente, sulla base del luogo dove ha sede l’ufficio del questore che ha emesso il provvedimento.
Con riferimento alla durata il divieto e l'ulteriore prescrizione (obbligo di comparizione) non possono avere durata inferiore a un anno e superiore a cinque anni e sono revocati o modificati qualora, anche per effetto di provvedimenti dell'autorità giudiziaria, siano venute meno o siano mutate le condizioni che ne hanno giustificato l'emissione. In caso di condotta di gruppo, la durata non può essere inferiore a tre anni nei confronti di coloro che ne assumono la direzione. Nei confronti dei recidivi è sempre disposta la prescrizione dell’obbligo di comparizione e la durata del nuovo divieto e della prescrizione non può essere inferiore a cinque anni e superiore a otto anni.
Il contravventore alle suddette disposizioni è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 10.000 euro a 40.000 euro. Le stesse disposizioni si applicano nei confronti delle persone che violano in Italia il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive adottato dalle competenti Autorità di uno degli altri Stati membri dell'Unione europea.
Il DASPO viene sempre notificato all'interessato ma, nel caso in cui ad esso si affianchi l'obbligo di comparizione, esso è comunicato anche alla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente (art. 6 comma 3 L. 401/89). In quest’ultimo caso, il Procuratore della Repubblica, entro 48 ore dalla sua notifica all'interessato, ne chiede la convalida al G.i.p. presso il medesimo Tribunale, che deve provvedere entro le successive 48 ore pena la perdita di efficacia, e ha oggi la facoltà di modificare le prescrizioni di cui al comma 2 (in base alle novità legislative del 2014). Tuttavia, il questore può autorizzare l'interessato, in caso di gravi e documentate esigenze, a comunicare per iscritto il luogo in cui questi sia reperibile durante le manifestazioni sportive.
Il DASPO è ricorribile in sede giurisdizionale-amministrativa (ossia al TAR e, in secondo grado, al Consiglio di Stato). Invece l’ordinanza del G.I.P. che lo convalida nelle ipotesi di cui all’art. 6 commi 2 e 3 L. 401/89 è ricorribile per Cassazione, ma il ricorso non ha effetto sospensivo.
Con riguardo all’ampliamento della platea dei destinatari, la disposizione in commento prevede che lo stesso possa essere adottato nei confronti dei soggetti di cui all’art. 4, comma, 1, lett. d) del Codice antimafia (D. Lgs. n. 159 del 2011) ovvero:
d) agli indiziati di uno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-quater, del codice di procedura penale e a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice, nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un'organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all'articolo 270-sexies del codice penale
§ gli indiziati dei delitti di terrorismo (di cui all’art. 51, comma 3-quater, c.p.p.);
§ coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere rilevanti atti preparatori, obiettivamente rilevanti, o esecutivi:
- diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione mediante violenza di uno dei delitti contro l’incolumità pubblica previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o con la commissione dei delitti di cui agli articoli 284 (Insurrezione armata contro i poteri dello Stato), 285 (Strage), 286 (Guerra civile), 306 (Banda armata), 438 (Epidemia), 439 (Avvelenamento di acque o sostanze alimentari), 605 (Sequestro di persona) e 630 (Sequestro di persona a scopo di estorsione) dello stesso codice, nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale;
- diretti a prendere parte ad un conflitto in territorio estero (cd. foreign fighters) a sostegno di un'organizzazione che persegue finalità terroristiche.
Articolo 20-bis (em. 20.0.1)
(Incremento del contributo delle società sportive calcistiche
per il mantenimento dell'ordine pubblico)
Prevede un incremento della contribuzione delle società organizzatrici di eventi calcistici per il mantenimento dell'ordine pubblico.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 20.0.1.
L'articolo incrementa la soglia minima al 5 per cento (dall'1 per cento) e la soglia massima al 10 per cento (dal 3 per cento) della quota degli introiti complessivi derivanti dalla vendita dei biglietti e dei titoli di accesso validamente emessi in occasione degli eventi sportivi calcistici - quota è destinata a finanziare i costi sostenuti per il mantenimento della sicurezza e dell'ordine pubblico in occasione degli eventi e, in particolare, alla copertura dei costi delle ore di lavoro straordinario e dell'indennità di ordine pubblico delle Forze di polizia.
La previsione ha la forma di novella all'articolo 9, comma 3-ter del decreto-legge n. 8 del 2007.
Di quel decreto-legge (recante "Misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche, nonché norme a sostegno della diffusione dello sport e della partecipazione gratuita dei minori alle manifestazioni sportive"), l'articolo 9 pone - si ricorda - specifiche prescrizioni per le società organizzatrici di competizioni riguardanti il gioco del calcio.
Il comma 3-ter vi è stato introdotto dal decreto-legge n. 119 del 2014 (cfr. suo articolo 3, comma 1, lettera c-bis)).
Esso dispone appunto che una quota tra l'1 e il 3 per cento degli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti delle partite sia destinata a finanziare i costi sostenuti per la sicurezza e l'ordine pubblico, con particolare riferimento ai costi degli straordinari e delle indennità di ordine pubblico per le forze dell'ordine.
Tale percentuale, sia minima sia massima, è incrementata dalla proposta in esame, rispettivamente al 5 ed al 10 per cento.
Articolo 21
(Estensione dell’ambito di applicazione del DASPO urbano)
L’articolo 21 estende alle aree su cui insistono presidi sanitari e a quelle destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli l’ambito applicativo della disciplina del cd. DASPO urbano.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato gli emendamenti 21.6 e 21.600, i quali prevedono, rispettivamente, nuove ipotesi di Daspo urbano nonché il raddoppio della durata della misura.
L’articolo 21, novellando il comma 3 dell’art. 9 del decreto-legge n. 14 del 2017 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città) prevede che i regolamenti di polizia urbana possono individuare anche:
§ aree su cui insistono presidi sanitari;
§ aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli
tra quelle per le quali si possono applicare la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 300 euro e l’ordine di allontanamento da parte del sindaco (misura amministrativa, quest’ultima, modellata sul DASPO, il divieto di accesso alle manifestazioni sportive, previsto dalla legge n. 401 del 1989, vedi ante, art. 20). I comportamenti sanzionati in questi luoghi sono quelli di chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione dei predetti luoghi, in violazione dei divieti di stazionamento e di occupazione ivi previsti; nonché quelli di chi, nelle medesime aree, abbia commesso gli illeciti amministrativi di ubriachezza, atti contrari alla pubblica decenza, esercizio abusivo del commercio o parcheggio abusivo (art. 9, commi 1 e 2).
Il D.L. 20 febbraio 2017, n. 14, contiene disposizioni in materia di sicurezza urbana affidando, in particolare, ai sindaci ed alle autorità di pubblica sicurezza nuovi strumenti operativi, contenuti nel Capo II del decreto, volti a prevenire e contrastare l’insorgenza di condotte di diversa natura che – pur non costituendo violazioni di legge - sono comunque di ostacolo alla piena mobilità e fruibilità di specifiche aree pubbliche.
In particolare, l’articolo 9 prevede la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 300 euro a carico di chi ponga in essere condotte che impediscono la libera accessibilità e fruizione delle aree interne di infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti.
Inoltre il comma 3 dell’articolo 9, novellato dalla norma in commento, prevede che le predette norme potranno estendersi, anche ad aree urbane individuate dai regolamenti di polizia urbana su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura, interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico. La competenza è attribuita al sindaco del comune interessato.
Accanto alla sanzione pecuniaria è poi previsto un ordine di allontanamento: contestualmente alla sanzione, infatti, la disposizione prevede che al trasgressore venga ordinato (con atto scritto che deve recare l’indicazione che ne cessa l’efficacia trascorse 48 ore dall’accertamento del fatto e che la sua violazione è punita con la sanzione pecuniaria di cui al comma 1, aumentata del doppio) di allontanarsi dal luogo ove è stato commesso il fatto. Tale ordine opera, per specifica estensione normativa, anche a carico di chi svolge le attività vietate negli artt. 688 (manifesta ubriachezza) e 726 c.p. (atti contrari alla pubblica decenza, turpiloquio), 29 d.l. 114/1998 (esercizio del commercio senza le prescritte autorizzazioni o in violazione di divieti) e 7, comma 15?bis, del codice della strada (esercizio di attività di parcheggiatore abusivo e guardiamacchine), nelle aree innanzi indicate. I contenuti dell'ordine di allontanamento, rivolto per iscritto dall’organo accertatore della violazione (art. 10), sono: le motivazioni sulla base delle quali è stato adottato; la specificazione che ne cessa l'efficacia trascorse 48 ore dall'accertamento del fatto e che la sua violazione è soggetta alla sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 300 euro, aumentata del doppio. Copia del provvedimento è trasmessa con immediatezza al questore competente per territorio con contestuale segnalazione ai competenti servizi socio-sanitari, ove ne ricorrano le condizioni. Alla recidiva nelle condotte illecite consegue la possibilità per il questore, ove dalla condotta tenuta ritenga possa derivare pericolo per la sicurezza pubblica, di disporre con provvedimento motivato il divieto di accesso ad una o più delle aree espressamente individuate e per non più di sei mesi; le modalità applicative del divieto devono comunque essere compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell'atto.
Se le condotte indicate all’art. 9 sono commesse da un condannato con sentenza definitiva (o confermata in appello), nel corso degli ultimi cinque anni per reati contro la persona o il patrimonio, la durata del Daspo urbano non può essere inferiore a sei mesi, né superiore a due anni.
Con l’EMENDAMENTO 21.6 approvato dalla Commissione referente è proposta l’introduzione di un comma 1-bis che modifica i commi 2 e 3 dell’articolo 10 del decreto-legge n. 14 del 2017.
Con la modifica al comma 2 è raddoppiata da sei a dodici mesi la durata del cd. Daspo urbano ovvero il divieto di accesso ad infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto disposto dal questore nei confronti di chi limiti la libera accessibilità di tali aree urbane, vi venga trovato in stato di ubriachezza, vi pratichi il commercio abusivo o di chi violi l’ordine di allontanamento imposto al trasgressore.
Analoga modifica è introdotta al comma 3 dello stesso art. 10. E’, infatti, raddoppiato il limite minimo di durata del Daspo urbano se le sopraindicate condotte vietate sono commesse da un condannato negli ultimi cinque anni per reati contro la persona e il patrimonio, con conferma della sentenza almeno in secondo grado.
Ulteriori misure volte a garantire l’ordine pubblico e la prevenzione di reati nei locali ed esercizi pubblici sono proposte dall'EMENDAMENTO 21.600 approvato dalla Commissione referente, che ha aggiunto all’articolo 21 del decreto-legge i commi 1-bis e 1-ter.
Anzitutto, il comma 1-bis inserisce nel decreto legge n. 14 del 2017, un articolo 13 bis con il quale è esteso l’ambito applicativo del divieto di accesso (cd. Daspo) a locali pubblici e pubblici esercizi, già previsto dall’art. 13 dello stesso decreto legge.
Tale ultima disposizione, su cui l’art. 13-bis è modellato, prevede un Daspo temporaneo adottato dal questore nei confronti di persone condannate con sentenza definitiva o confermata in grado di appello nel corso degli ultimi tre anni per vendita o cessione di stupefacenti (art. 73, TU 309/1990) all'interno o nelle immediate vicinanze di scuole, plessi scolastici, sedi universitarie, in locali pubblici o aperti al pubblico, ovvero in uno dei pubblici esercizi di vendita di bevande alcoliche.
Infatti, il nuovo articolo 13 bis - con la clausola di esclusione delle ipotesi indicate dall’art. 13 - affida al questore, per motivi di sicurezza, la possibilità di disporre il divieto di accesso a locali e esercizi pubblici o locali di pubblico intrattenimento a persone condannate con sentenza definitiva o anche solo confermata in appello nell’ultimo triennio:
§ per reati commessi nel corso di gravi disordini in pubblici esercizi o in locali di pubblico intrattenimento;
§ per reati contro la persona e il patrimonio (esclusi quelli colposi);
§ per produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 73, DPR 309/1990).
Si ricorda come, in relazione alla disciplina del Daspo, che può essere emesso non necessariamente dopo una condanna penale, la Corte costituzionale (sentenza n. 512/2002) ha inquadrato tale misura tra quelle di prevenzione, che possono quindi essere inflitte indipendentemente dalla commissione di un reato accertato definitivamente.
Il divieto di accesso, che può riguardare anche lo stazionamento nelle immediate vicinanze di tali locali e pubblici esercizi, deve essere motivato e, comunque, risultare compatibile con le esigenze di mobilità, lavoro e salute del destinatario del provvedimento.
Dal punto di vista temporale il divieto di accesso e stazionamento:
§ può essere limitato a specifiche fasce orarie;
§ non può durare meno di sei mesi e più di due anni.
Oggetto del provvedimento inibitorio potranno essere anche minorenni purché maggiori di 14 anni, previa notifica a chi esercita la responsabilità genitoriale.
Ulteriore prescrizione da seguire nel corso della misura – anch’essa mutuata dalla disciplina del Daspo – potrà riguardare l’obbligo di presentazione presso gli uffici di polizia, anche più volte e in orari specifici. Diversamente da quanto analogamente precisato dall’art. 13 (dover la misura dura fino a 2 anni), non è qui indicata la durata di tale obbligo che, presumibilmente, corrisponderà alla durata del Daspo.
In tali casi, in virtù del rinvio all’applicazione dell’art. 6, commi 3 e 4, della legge 401 del 1989, tale misura – sempre di competenza del questore - dovrà essere comunicata al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente (o al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni) che entro 48 ore, se ritiene che sussistano i presupposti, ne chiede la convalida al GIP. Le prescrizioni imposte cessano di avere efficacia se il PM. con decreto motivato, non avanza la richiesta di convalida entro il termine predetto e se il giudice non dispone la convalida nelle 48 ore successive, con ordinanza. Contro la convalida è proponibile il ricorso per Cassazione che, tuttavia, non sospende l'esecuzione dell'ordinanza.
Il medesimo EMENDAMENTO 21.600 propone di aggiungere un comma 1-ter che novella l’articolo 8 del Codice antimafia (D.Lgs. n. 159 del 2011)
Si prevede che, tra le prescrizioni nei confronti della persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S., il tribunale debba adottare anche il divieto di accedere, anche in specifiche fasce orarie, a esercizi pubblici e a locali di pubblico intrattenimento.
Articolo 21-bis (em. 21.0.600)
(Accordi per misure di prevenzione nei pubblici esercizi a fini di sicurezza pubblica)
Prevede che possano essere sottoscritti tra prefetto ed organizzazioni maggiormente rappresentativi dei pubblici esercenti accordi per prevenire illegalità o pericoli per l'ordine e la sicurezza pubblici - e che l'adempimento su base volontaria di tali misure di prevenzione da parte del pubblico esercizio sia valutabile dal questore ai fini della sospensione o revoca della licenza.
Si tratta di articolo aggiuntivo, proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 21.0.600.
Prevede possano essere sottoscritti accordi tra il prefetto e le organizzazioni maggiormente rappresentative nel settore dei pubblici esercizi, onde individuare specifiche misure di prevenzione rispetto ad atti illegali o situazioni di pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblici.
Tale prevenzione è rivolta a situazioni che possano prodursi all'interno e nelle immediate vicinanze degli esercizi pubblici.
Siffatti esercizi sono individuati a norma dell'articolo 86 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto n. 773 del 1931.
Sono misure basate sulla cooperazione tra i gestori degli esercizi e le Forze di polizia, cui i gestori medesimi si assoggettano, con le modalità previste dagli stessi accordi.
Gli accordi sono adottati nel rispetto di linee guida nazionali approvate, su proposta del Ministro dell'interno, d'intesa con le organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti, sentita la Conferenza Stato-Città ed Autonomie locali. Non si direbbe specificato quale sia il soggetto preposto all'approvazione di tali linee guida nazionali.
Altresì si prevede che l'adesione agli accordi sottoscritti territorialmente ed il loro "puntuale e integrale" rispetto da parte dei gestori degli esercizi pubblici, siano valutati dal questore anche ai fini dell'adozione dei provvedimenti di competenza in caso di eventi rilevanti ai fini dell'eventuale applicazione dell'articolo 100 del citato Testo unico di pubblica sicurezza (sospensione o revoca della licenza).
Del Testo Unico di pubblica sicurezza sono richiamati dunque due articoli.
L'articolo 86 dispone che non possano esercitarsi, senza licenza del questore, alberghi, locande, pensioni, trattorie, osterie, caffè o altri esercizi in cui si vendano al minuto o si consumino vino, birra, liquori od altre bevande anche non alcooliche, né sale pubbliche per bigliardi o per altri giuochi leciti o stabilimenti di bagni, ovvero locali di stallaggio e simili (comma 1).
Per la somministrazione di bevande alcooliche presso enti collettivi o circoli privati di qualunque specie, anche se la vendita o il consumo siano limitati ai soli soci, è necessaria la comunicazione al questore e si applicano i medesimi poteri di controllo degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza previsti per le attività di cui al primo comma (comma 2).
L'articolo 100 prevede che oltre i casi indicati dalla legge, il questore possa sospendere la licenza di un esercizio, anche di vicinato, nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini. Qualora si ripetano i fatti che hanno determinata la sospensione, la licenza può essere revocata.
Articolo 21-bis (em. 21.0.601)
(Sanzioni in caso di inottemperanza al divieto di accesso in specifiche aree urbane)
È volto ad introdurre sanzioni penali in caso di inottemperanza al provvedimento di divieto di accesso in specifiche aree urbane, c.d. DASPO urbano.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 21.0.601,
In particolare, la lettera a) del comma 1, modificando il comma 2 del citato articolo 10 del decreto-legge n. 14 del 2017, introduce la pena dell’arresto da sei mesi ad un anno per colui che abbia contravvenuto al provvedimento del questore che disponeva nei suoi confronti il divieto di accesso ad una o più delle aree espressamente indicate dall’art. 9 del medesimo decreto-legge n. 14 del 2017.
Come è noto l’articolo 9 del DL 14/2017 dispone una sanzione amministrativa pecuniaria e l’ordine di allontanamento per chiunque ponga in essere condotte che impediscono l'accessibilità e la fruizione delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze. Inoltre il comma 3 del medesimo art. 9 prevede che i regolamenti di polizia urbana possono individuare aree urbane alle quali si applicano le suddette disposizioni sulla sanzione amministrativa e l’ordine di allontanamento. Si tratta di aree su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico, nonché aree su cui insistono presidi sanitari e aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli (ai sensi dell’articolo 21 del decreto legge in esame che ha modificato l’articolo 9 del DL 14/2017, vedi sopra).
Soggetto alla sanzione penale dell’arresto è quindi colui che, in quanto recidivo di una delle condotte illecite di cui al citato articolo 9 del DL 14/2017 - limitazione della libera accessibilità delle infrastrutture di trasporto, ubriachezza, commercio abusivo etc.- è stato destinatario di un provvedimento del questore contenente il divieto di accesso alle suddette specifiche aree, e a tale divieto abbia trasgredito.
Si ricorda infatti che ai sensi dell’art. 10 (comma 2) del DL 14 del 2017 la reiterazione dell’illecito amministrativo di cui all’art. 9 del medesimo DL (limitazione della libera accessibilità delle infrastrutture di trasporto, ubriachezza, commercio abusivo) - ove ne derivi un pericolo per la sicurezza – comporta la possibile adozione di un divieto di accesso ai luoghi in cui è stato commesso e reiterato il predetto illecito amministrativo, per un massimo di sei mesi; il provvedimento, adeguatamente motivato, è adottato dal questore e ne individua le più opportune modalità esecutive compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del trasgressore.
Analogamente, la lettera b) del comma 1 modifica il comma 3 dell’art. 10 del DL 14 del 2017, introducendo la pena dell’arresto da uno a due anni per il trasgressore di un provvedimento di divieto di accesso alle predette aree individuate ai sensi dell’art. 9, nel caso in cui si tratti di soggetto condannato, con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, nel corso degli ultimi cinque anni per reati contro la persona o il patrimonio.
Il comma 3 dell’articolo 10 del 14 del 2017 prevede che qualora le condotte illecite di cui all'articolo 9, commi 1 e 2 (limitazione della libera accessibilità delle infrastrutture di trasporto, ubriachezza, commercio abusivo), risultino commesse da soggetto condannato, con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, nel corso degli ultimi cinque anni per reati contro la persona o il patrimonio, la durata del divieto di accesso non può comunque essere inferiore a sei mesi, né superiore a due anni.
Articolo 21-bis (em. 21.0.7 testo 3)
(Esercizio molesto dell'accattonaggio)
Introduce nel codice penale il reato di esercizio molesto dell'accattonaggio.
L'articolo, del quale la Commissione referente ha proposto l'inserimento con l'approvazione dell'emendamento 21.0.7 (testo 3), introduce nel codice penale, all'articolo 669-bis, il reato di esercizio molesto dell'accattonaggio.
La nuova disposizione sanziona con la pena dell'arresto da tre a sei mesi e con l'ammenda da euro 3.000 a euro 6.000 chiunque esercita l'accattonaggio con modalità vessatorie o simulando deformità o malattie o attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti per destare l'altrui pietà.
La nuova fattispecie di reato riprende quando previsto dal secondo comma dell'abrogato articolo 670 del codice penale.
L'articolo 670, sanzionava il reato di mendicità, punendo:
· con la pena dell'arresto fino a tre mesi chiunque mendicava in luogo pubblico o aperto al pubblico (comma primo);
· con la pena dell'arresto da uno a sei mesi nel caso in cui l'accattonaggio fosse stato commesso in modo ripugnante o vessatorio ovvero simulando deformità o malattie o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l'altrui pietà (comma secondo).
La Corte costituzionale, con la Sentenza 28 dicembre 1995, n. 519 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 670, primo comma, in quanto, per la mendicità non invasiva, “non può ritenersi in alcun modo necessitato il ricorso alla regola penale, né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica e dell'ordine pubblico può dirsi seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto”. Con riguardo invece alla mendicità "molesta" di cui al secondo comma dell'articolo 670 c.p., la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale, in quanto “la repressione penale della mendicità che si manifesti in forme invasive, che comportino modalità ripugnanti o vessatorie, ovvero la simulazione di deformità o malattie, è giustificata dall'esigenza di tutelare rilevanti beni giuridici, fra i quali anche lo spontaneo adempimento del dovere sociale di solidarietà, turbato dall'impiego di mezzi fraudolenti volti a destare l'altrui pietà”.
Con riguardo alla formulazione della disposizione è opportuno rilevare che la fattispecie ha carattere sussidiario, in quanto è configurabile solo ove il fatto non costituisca più grave reato. A titolo esemplificativo, lo sfruttamento di anziani o disabili per l’accattonaggio può configurare il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù, di cui all'articolo 600 c.p. (Cass. Sentenza n. 2841 del 2007) e l’utilizzo di animali potrebbe integrare una forma di maltrattamento penalmente rilevante ai sensi dell'articolo 544-ter c.p. Ancora, nei casi più gravi, in cui la mendicità si configura come particolarmente intimidatoria e invasiva si potrebbe considerare configurabile anche il reato di violenza privata di cui all’articolo 610 c.p.
Il nuovo articolo 669-bis c.p. prevede inoltre il sequestro delle cose che sono servite o sono state destinate a commettere l'illecito o che ne costituiscono il provento.
Si tratta di una disposizione che così come formulata desta talune perplessità. In primo luogo si fa riferimento al solo sequestro delle cose e non anche alla confisca delle stesse, in caso di condanna. A ciò si aggiunga che la disposizione, pur richiamando l’istituto del sequestro, quindi sembrerebbe, voler introdurre - analogamente a quanto previsto con riguardo al più grave reato di cui all’articolo 600-ocities c.p. (impiego di minori nell’accattonaggio) una nuova tipologia di confisca. Infine sarebbe opportuna una ulteriore riflessione sulla nozione di “provento”, alla quale sarebbero da preferire quelle di “prezzo, prodotto o profitto”.
Più in generale è opportuno ricordare che gli articoli 321 e ss. c.p.p. disciplinano l'istituto del sequestro preventivo. Si tratta di una misura cautelare reale che può essere disposta quando vi sia il pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze ovvero agevolare la commissione di altri illeciti (cd. sequestro a scopo di prevenzione), nonché laddove debba procedersi alla apprensione di cose di cui andrà disposta la confisca (c.d sequestro a scopo di confisca).
La confisca, invece, è una misura di sicurezza a carattere patrimoniale, che consiste nella espropriazione a favore dello Stato di cose collegate al reato, secondo uno dei criteri di relazione indicati dai commi 1 e 2 dell’articolo 240 c.p. (strumentalità, destinazione, produzione…). Ulteriori specifiche ipotesi di confisca sono poi previsti con riguardo a particolari fattispecie di reato, si pensi a titolo esemplificativo alla confisca delle cose collegate al reato di usura (art. 644 c.p.).
Articolo 21-bis (em. 21.0.8 )
(Modifiche alla disciplina sull'accattonaggio dei minori)
L’articolo 21-bis modifica la disciplina del reato di impiego di minori nell’accattonaggio sanzionando anche la condotta dell’organizzazione dell’altrui accattonaggio.
L'articolo 21-bis, del quale la Commissione referente ha proposto l'inserimento con l'approvazione dell'emendamento 21.0.8, inserisce nell’articolo 600-octies c.p. un nuovo comma. La nuova disposizione punisce con la pena della reclusione da uno a tre anni “chiunque organizzi l’altrui accattonaggio, se ne avvalga o lo favorisca a fini di profitto”.
La previsione in questione sembrerebbe volta a sanzionare tutte quelle forme di “gestione imprenditoriale”, sistematica e continuativa dell’attività di accattonaggio. A ben vedere la disposizione non fa riferimento alla sola organizzazione dell’accattonaggio minorile, ma più genericamente alla organizzazione dell’altrui accattonaggio. A ciò si aggiunga che già, a legislazione vigente, sono sanzionate le condotte di chiunque (vedi infra)- a prescindere dal rapporto con il minore- si avvalga o permetta a terzi di avvalersi del minore per l’accattonaggio e che pertanto la condotta di chi organizza l’altrui accattonaggio (essendo difficilmente configurabile una attività di organizzazione non volta ad “avvalersi” ovvero a “giovarsi” dell’altrui mendicità) potrebbe già considerarsi riconducibile all’ambito di applicazione dell’articolo 600-octies c.p .
L’articolo modifica, conseguentemente, anche la rubrica dell’articolo 600-octies c.p., inserendo il riferimento anche alla “organizzazione dell’accattonaggio”.
L’articolo 600-octies c.p. è stata introdotta dalla legge n. 94 del 2009 contestualmente alla abrogazione dell’articolo 671 c.p.[16], che disciplinava il reato contravvenzionale dell'impiego di minori nell'accattonaggio.
Il delitto di cui all'articolo 600 octies, nella sua formulazione vigente, analogamente alla corrispondente contravvenzione, sanziona con la pena della reclusione fino a tre anni le seguenti condotte:
· avvalersi per mendicare di una persona minore degli anni quattordici o, comunque, non imputabile;
· permettere che tale persona, ove sottoposta alla autorità o affidata alla custodia o vigilanza del soggetto attivo, mendichi;
· ovvero permettere che altri se ne avvalga per mendicare.
Articolo 21-bis (em. 21.0.10 testo 2 )
(Disposizioni in materia di parcheggiatori abusivi)
Interviene sulla disciplina dell’esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore o guardiamacchine.
L'articolo, il cui inserimento è stato proposto dalla Commissione referente con l’approvazione dell’emendamento 21.0.10 (testo 2), modifica il comma 15-bis dell’articolo 7 del Codice della Strada (D.Lgs. 285/1992).
Il comma 15-bis, nella sua formulazione vigente, prevede che, salvo che il fatto costituisca reato, coloro che esercitano abusivamente, anche avvalendosi di altre persone, ovvero determinano altri ad esercitare abusivamente l'attività di parcheggiatore o guardiamacchine sono puniti con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1000 a euro 3500 (la sanzione è stata così rideterminata – da ultimo – dall’articolo 16-bis del decreto-legge n. 14 del 2017, conv. legge n. 48 del 2017).
La sanzione amministrativa pecuniaria è aumentata del doppio:
· se nell'attività sono impiegati minori o
· nei casi di reiterazione.
Si applica, in ogni caso, la sanzione accessoria della confisca delle somme percepite.
L’emendamento approvato interviene sia sulla configurazione dell’illecito sia sull’apparato sanzionatorio:
· sanzionando non più “l’esercizio abusivo” dell’attività di parcheggiatore, ma “l’esercizio senza autorizzazione” di tale attività;
· intervenendo sulle ipotesi aggravate, in relazione alle quali l’attuale illecito amministrativo è trasformato in reato contravvenzionale, sanzionato con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno e dell'ammenda da 2.000 a 7.000 euro.
Tale modifica sembra volta, in parte, a superare i dubbi interpretativi sorti con riguardo alla vigente formulazione della norma, la quale prevede, come detto, che “la sanzione amministrativa pecuniaria è aumentata del doppio”. A ben vedere infatti prevedere che la pena sia aumentata del doppio potrebbe significare, letteralmente, non il mero raddoppio della somma che il trasgressore è tenuto a pagare, ma la “triplicazione” della somma dovuta.
· riducendo la sanzione amministrativa sia nel minimo che nel massimo prevista per l’illecito non aggravato rispettivamente da 1000 euro a 771 euro e da 3.500 euro a 3.101 euro.
In merito al profilo sanzionatorio è necessario rilevare come attualmente E' appena il caso di ricordare che secondo la giurisprudenza, nel caso in cui il parcheggiatore improvvisato pretenda di essere pagato, si configura il reato di estorsione "se, con violenza o minaccia, pretenda il pagamento di un compenso per l'attività di parcheggiatore abusivo” (Cass. sentenza n. 21942 del 2012 e, più recentemente, sentenza n. 30365 del 2018)
Articolo 22
(Potenziamento degli apparati tecnico-logistici del Ministero dell'interno)
L'articolo 22 destina somme a favore del Ministero dell'interno per le straordinarie e contingenti esigenze connesse all'espletamento dei rispettivi compiti istituzionali della Polizia di Stato a del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Tali stanziamenti risultano essere pari a 15 milioni di euro nel 2018 e a 49,15 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2019 al 2025.
Il comma 1 specifica le seguenti finalità dello stanziamento:
§ potenziamento dei sistemi informativi per il contrasto al terrorismo internazionale, ivi compreso il potenziamento dei nuclei NCBR - Nucleare-Batteriologico-Chimico-Radiologico del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco;
§ interventi di manutenzione straordinaria e adeguamento di strutture e impianti.
In ragione dell'innalzamento della minaccia terroristica sono stati adottati, nel corso della scorsa XVII legislatura, specifici provvedimenti di prevenzione e contrasto del terrorismo internazionale. Tra questi si segnala, in particolare: il decreto-legge n. 7 del 2015 che prevede una serie di misure di contrasto del terrorismo, anche internazionale, il coordinamento nazionale delle indagini nei procedimenti per i delitti di terrorismo (nonché la proroga delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia e delle iniziative di cooperazione allo sviluppo). Si rammenta qui solamente come il provvedimento rivolga una particolare attenzione alle attività svolte attraverso la rete Internet, introducendo aggravanti dei delitti di terrorismo se commessi con l'impiego di tecnologie informatiche e potenziando le attività di prevenzione, attraverso una riforma delle intercettazioni preventive e la previsione di una black-list dei siti che vengono utilizzati per la commissione di reati di terrorismo, anche al fine di favorire lo svolgimento delle indagini della polizia giudiziaria, effettuate anche sotto copertura. Sono inoltre introdotti in capo agli Internet providers specifici obblighi di oscuramento dei siti e di rimozione dei contenuti illeciti connessi a reati di terrorismo pubblicati sulla rete.
Sempre nel corso della XVII legislatura, la legge n. 153 del 2016 ha ratificato ratifica alcuni atti internazionali finalizzati anch'essi a reprimere e prevenire attentati terroristici.
Tra gli interventi recenti si segnala Decreto legislativo n. 53 del 2018 , di attuazione della direttiva (UE) 2016/681 sull'uso dei dati del codice di prenotazione (PNR) a fini di prevenzione, accertamento, indagine e azione penale nei confronti dei reati di terrorismo e dei reati gravi (cfr relativo dossier di documentazione)
Si rammenta che il decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177 ha operato un complessivo riordino delle Forze di polizia, mirato alla razionalizzazione, al potenziamento dell'efficacia delle rispettive funzioni, nonché al transito del personale del Corpo forestale dello Stato in altre Forze di polizia che assorbe il medesimo Corpo. Il riordino ha previsto anche l'adeguamento delle dotazioni organiche di ciascun corpo rendendole più vicine alla consistenza effettiva del personale in servizio e rimodulandole nell'ambito dei diversi ruoli.
Il decreto legislativo n. 97 del 2017 ha operato una revisione e riassetto della normativa che disciplina le funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco in materia di soccorso pubblico, prevenzione incendi, protezione civile, difesa civile, incendi boschivi, formazione, nonché l'ordinamento del personale (per gli aspetti non demandati alla contrattazione collettiva nazionale). A tal fine esso ha novellato il decreto legislativo n. 139 del 2006 (per le funzioni e i compiti del Corpo nazionale, irradiantisi nella prevenzione incendi e nel servizio di soccorso pubblico, oltre ad alcune competenze di difesa civile); il decreto legislativo n. 217 del 2005 (per l'ordinamento del suo personale, a seguito dell'innovazione allora costituita dal passaggio del rapporto di impiego dal regime privatistico a quello di diritto pubblico).
L'articolo 24, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139 annovera tra gli interventi di soccorso pubblico posti in capo ai Vigili del Fuoco, il contrasto dei rischi derivanti dall'impiego dell'energia nucleare e dall'uso di sostanze batteriologiche, chimiche e radiologiche. Tale competenza era peraltro già attribuita al Ministero dell'interno e al Corpo dalla legge 13 maggio 1961, n. 469 (abrogata dal citato decreto legislativo n. 139 del 2006). Riguardo alle attività dei nuclei NCBR, si veda la relativa pagina internet del sito del Ministero dell'interno.
In particolare:
§ alla Polizia di Stato sono destinati 10,5 milioni per il 2018 e 36,65 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2019 al 2025;
§ al Corpo Nazionale di Vigili del Fuoco sono destinati 4,5 milioni per l'anno 2018 e 12,5 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2019 al 2025.
Il comma 2 rinvia all'articolo 39 [per i profili di copertura degli oneri.
La relazione tecnica annessa al provvedimento in esame dettaglia maggiormente le finalità degli stanziamenti recati dal presente articolo:
§ 162,7 milioni di euro complessivi dal 2018 al 2025 per adeguamento e potenziamento delle infrastrutture hardware e software dei sistemi informativi al fine di rendere più efficace l'azione di prevenzione e contrasto al terrorismo internazionale e alla radicalizzazione religiosa, anche attraverso il potenziamento del CED interforze presso il Ministero dell'interno (cfr. supra, scheda sull'articolo 17 del decreto-legge in esame);
§ 21,5 milioni di euro complessivi dal 2018 al 2025 per l'adeguamento dell'armamento in dotazione agli agenti di polizia impegnati nelle attività antiterrorismo, con particolare alle esigenze delle Unità Operative di Pronto Intervento (UOPI);
§ 36 milioni di euro complessivi dal 2018 al 2025 per gli automezzi in dotazione al medesimo personale delle UOPI, con particolare riferimento all'acquisizione di auto blindate per le attività antiterrorismo;
§ 47 milioni di euro complessivi dal 2018 al 2025 per interventi su immobili quale conseguenza del potenziamento dei sistemi informativi e tecnologici;
§ 92 milioni di euro complessivi dal 2018 al 2025 a favore del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco per l'aggiornamento tecnologico dei sistemi informativi e dei dispositivi di protezione individuale. Gli adeguamenti sono finalizzati al rinnovo dei mezzi, ad assicurare un più tempestivo intervento, ad aumentare la sicurezza dei soccorritori.
La legge di bilancio 2018 (legge n. 205 del 2017) articolo 1, commi 287-290, 293, 295, 299, 300, autorizzano, in primo luogo, assunzioni straordinarie nelle Forze di polizia e nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco, fino a complessive 7.394 unità nel quinquennio 2018-2022. A tal fine è istituito un Fondo nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze. Viene, inoltre, autorizzata (comma 288) l’assunzione di ulteriori 400 unità nei ruoli iniziali del Corpo dei vigili del fuoco per il 2018, attingendo alle graduatorie del concorso indetto nel 2008. La dotazione organica dei Vigili del fuoco è incrementata di 300 unità.
Tali assunzioni sono finalizzate all’incremento dei servizi di prevenzione e di controllo del territorio e di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica (connessi, in particolare, alle esigenze di contrasto al terrorismo internazionale) e dei servizi di soccorso pubblico, di prevenzione incendi e di lotta agli incendi.
In precedenza, risultano altri interventi finalizzati all’adeguamento dei mezzi delle forze del comparto sicurezza.
La legge di bilancio 2017 (legge n. 232 del 2016), articolo 1, comma 623 ha disposto uno stanziamento di 70 milioni di euro per il 2017 e di 180 milioni per ciascuno degli anni del periodo 2018-2030 per l’acquisto e l’ammodernamento dei mezzi strumentali in uso alle Forze di polizia e al Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, istituendo a tal fine un apposito fondo. All’acquisto di tali mezzi si può procedere, come specificato dalla disposizione in commento, anche attraverso l’utilizzo di meccanismi di centralizzazione degli acquisti tramite Consip S.p.a. e leasing finanziario.
Con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 24 agosto 2017, in sede di riparto di tali somme, sono stati attribuiti al Ministero dell'interno, nel periodo 2017-2030: 343,8 milioni circa per il Dipartimento dei Vigili del Fuoco; 564,3 milioni circa per il Dipartimento di Pubblica Sicurezza - Polizia di Stato e 150 milioni a favore del medesimo Dipartimento - Interforze.
Si richiama, inoltre, il decreto-legge n. 119 del 2014 (art. 8, comma 1) che ha stanziato in favore della Polizia di Stato 8 milioni di euro per l'anno 2014, 36 milioni di euro per l'anno 2015 e 44 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2016 al 2021, per l'acquisto di automezzi e di equipaggiamenti, anche speciali, nonché per interventi di manutenzione straordinaria e adattamento di strutture e impianti.
Al Corpo dei vigili del fuoco sono stati destinati 2 milioni di euro per l'anno 2014, 4 milioni di euro per l'anno 2015 e 6 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2016 al 2021, per l'acquisto di automezzi per il soccorso urgente.
Il medesimo provvedimento prevedeva l’assegnazione, previa valutazione di convenienza, alle forze del comparto della pubblica sicurezza le automobili di proprietà delle amministrazioni pubbliche statali dismesse o da dismettere (art. 8, comma 1-ter).
Relativamente al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, si ricordano (oltre al citato decreto-legge n. 119 del 2014), i seguenti interventi in ordine al potenziamento dei mezzi strumentali da ultimo adottati:
§ il decreto-legge n. 113 del 2016, che ha autorizzato una spesa di 10 milioni per l’ammodernamento dei mezzi e dei dispositivi di protezione individuale del Corpo dei vigili del fuoco per ciascuno anno dal 2016 al 2018, attraverso una corrispondente riduzione del fondo speciale di conto capitale iscritto nell’ambito dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, utilizzando parzialmente l’apposito accantonamento relativo al Ministero dell’interno (art. 6-bis, commi 3 e 4);
§ il decreto-legge n. 189 del 2016, di cui è in corso di esame parlamentare la legge di conversione, che autorizza la spesa di 5 milioni di euro per l’anno 2016 e 45 milioni per l’anno 2017 per le seguenti finalità: ripristinare l’integrità del parco mezzi del Corpo nazionale dei vigili del fuoco; garantire l’attività di raccolta e trasporto del materiale derivante dal crollo degli edifici colpiti dall’evento sismico; assicurare lo svolgimento dell’attività di rimozione e trasporto delle macerie (art. 51, comma 4).
Articolo 22-bis (em. 22.0.3 testo 2)
(Misure per il potenziamento e la sicurezza delle strutture penitenziarie)
L’articolo 22-bis stanzia ulteriori risorse da destinare a interventi urgenti connessi al potenziamento, alla implementazione e all'aggiornamento dei beni strumentali, nonché alla ristrutturazione e alla manutenzione degli edifici e all'adeguamento dei sistemi di sicurezza.
L'articolo 22-bis, il cui inserimento è stato proposto dalla Commissione referente con l’approvazione dell’emendamento 22.0.3 testo 2 - al fine di favorire la piena operatività del Corpo di polizia penitenziaria, nonché l'incremento degli standard di sicurezza e funzionalità delle strutture penitenziarie – autorizza (comma 1) la spesa di:
· 2 milioni di euro per l'anno 2018;
· 15 milioni di euro per l'anno 2019;
· 25 milioni di euro annui per ciascuno degli anni dal 2020 al 2026.
Tali risorse devono essere destinate ad interventi urgenti connessi al potenziamento, alla implementazione e all'aggiornamento dei beni strumentali, nonché alla ristrutturazione e alla manutenzione degli edifici e all'adeguamento dei sistemi di sicurezza.
Il comma 2 dell’articolo autorizza, per le ulteriori esigenze del Corpo di polizia penitenziaria connesse all'approvvigionamento di nuove uniformi e di vestiario, la spesa di euro 4.635.000 per l'anno 2018.
Alla copertura di tali oneri si provvede (l’emendamento 22.0.3 testo 2 modificava all’uopo anche l’articolo 39 del decreto-legge):
· quanto a 4.635.000 di euro per l'anno 2018, mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2018-2020, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2018, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento del Ministero della giustizia;
· quanto a 2.000.000 di euro per l'anno 2018, a 15.000.000 di euro per l'anno 2019 e a 25.000.000 di euro per ciascuno degli anni dal 2020 al 2026, mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di conto capitale iscritto, ai fini del bilancio triennale 2018-2020, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2018, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento del Ministero della giustizia.
L’articolo 23 prevede che siano puniti a titolo di illecito penale sia il blocco stradale che l’ostruzione o l’ingombro di strade ferrate, fattispecie attualmente sanzionate a titolo di illecito amministrativo.
L’articolo 23 novella il D.lgs. 66 del 1948, riconducendo al sistema sanzionatorio penale sia il blocco stradale che l’ostruzione o ingombro di strade ferrate, fattispecie depenalizzate dal D.Lgs. 507 del 1999.
La disciplina sostanziale in materia è contenuta negli articoli 1 e 1-bis del citato D.Lgs. 66 del 1948 (Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione).
L’articolo 1 sanziona con la reclusione da uno a sei anni il reato di blocco ferroviario ovvero l’illecito commesso da chi, per impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ferrata (comma 1); alla stessa pena è soggetto chi con le stesse modalità commette analogo blocco in una zona portuale o nelle acque di fiumi, canali o laghi, per ostacolare la libera navigazione, o comunque ostruisce o ingombra tali zone (comma 2). La pena è raddoppiata se il fatto è commesso da più persone, anche non riunite, ovvero se è commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose (comma 3).
Diversamente dal blocco di strade ferrate (nonché di porti, fiumi, laghi ecc.), il blocco stradale è attualmente punito dall’articolo 1-bis dello stesso D.Lgs. n. 66/1948 come illecito amministrativo, salvo il caso in cui il fatto costituisca reato, in quanto configuri una interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.); in tale ultima ipotesi, infatti, si applica la reclusione fino a un anno (da uno a cinque anni per i promotori o organizzatori). Esclusa la clausola penale, chi fa un blocco stradale o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.032 a 4.131 euro.
La Cassazione penale, Sez. VI, sent. n. 2202 del 2000 ha chiarito come l'art. 1-bis citato, nel prevedere come illecito amministrativo le indicate fattispecie “intende riferirsi ai casi in cui tale condotta non si concretizzi in un impedimento effettivo e reale alla libera circolazione e lascia quindi che rimanga configurabile l'illecito penale di cui all'art. 340 c.p., in tutti quei casi in cui la circolazione venga, invece, effettivamente impedita od ostacolata”.
Sempre Cassazione penale, sent. n. 2205 del 2004, ha ritenuto che la collocazione di oggetti sulla strada ferrata è condotta diversa e maggiormente pericolosa per la sicurezza dei trasporti - in ragione della natura e dei potenziali effetti dell'ingombro - di tutte le altre possibili forme di ostacolo alla circolazione ferroviaria che il legislatore ha voluto depenalizzare. Tra queste ultime, in particolare – prosegue la Suprema Corte - rientra il posizionarsi personalmente sui binari, che, per il naturale istinto di autoconservazione, comporta all'evidenza un rischio minore per l'interesse tutelato.
L’art. 23 del decreto-legge integrando la formulazione dell’art. 1, comma 1, dello stesso D.Lgs. 66/1998 sanziona come reato - oltre al già previsto blocco di strada ferrata - sia il blocco stradale sia l’ostruzione o ingombro dei binari. Anche tali condotte saranno, quindi, punite con la reclusione da uno a sei anni.
Sostanzialmente, si tratta di un ritorno al testo dell’art. 1 del D.lgs. 66 del 1998, previgente alla citata depenalizzazione del 1999.
Per esigenze di coordinamento, viene abrogato dall’art. 25 l’art. 1-bis dello stesso decreto legislativo, che punisce ora le stesse condotte a titolo di illecito amministrativo.
Un’ultima modifica riguarda l’art. 4, comma 3, del TU immigrazione (D.Lgs. 286 del 1998) nel quale i reati di cui al novellato art. 1 del D.Lgs. 66 del 1948 (blocco stradale e ferroviario e altri illeciti contro la libertà di circolazione) vanno ad integrare il catalogo dei reati ostativi alla cui condanna definitiva consegue la mancata concessione allo straniero del visto di ingresso in Italia.
Oltre all’elenco di illeciti in violazione del diritto d’autore previsti dal D.lgs. 633 del 1941, i reati attualmente previsti nel citato catalogo sono la contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi o di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.) e l’introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.).
Articolo 23-bis (em. 23.0.600 testo corretto e subem. 23.0.600/1, 23.0.600/2 e 23.0.600/3)
(Modifiche al codice della strada)
L’articolo 23-bis reca modifiche alle disposizioni del codice della strada che disciplinano il sequestro, la confisca e il fermo amministrativo dei veicoli.
La disposizione, la cui introduzione è stata proposta dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 23.0.600 testo corretto (come subemendato dalle identiche proposte 23.0.600/1, 23.0.600/2 e 23.0.600/3) al comma 1, lettera a) riscrive la disciplina del sequestro amministrativo del veicolo di cui all'articolo 213 del codice della strada.
Il sequestro amministrativo del veicolo è una misura cautelare con la quale si sottrae la disponibilità del bene all'avente diritto e lo si pone a disposizione dell'Autorità amministrativa per i provvedimenti di propria competenza (ad esempio, confisca amministrativa). Il sequestro può essere connesso a violazioni aventi carattere amministrativo ovvero penale.
Le principali disposizioni che comportano il sequestro amministrativo sono le seguenti:
· circolazione con veicolo per il quale non sia stata rilasciata la carta di circolazione (art. 93 C.d.S.) (vedasi, in fondo alla pagina, la modulistica per richiedere il dissequestro del veicolo avente i requisiti per l'immatricolazione);
· fabbricazione, produzione, commercializzazione o vendita di ciclomotori che sviluppino una velocità superiore a quella prevista dall'art. 52 C.d.S. (45 km/h) oppure con un ciclomotore per il quale non è stato rilasciato il certificato di circolazione, se previsto (art. 97 C.d.S.);
· esercitazione alla guida senza avere accanto, in funzione di istruttore, una persona provvista di patente di guida valida (art.122 C.d.S.);
· circolazione con ciclomotore o motociclo in violazione delle norme comportamentali previste (art. 170 C.d.S.);
· circolazione con veicolo sprovvisto di idonea copertura assicurativa (art. 193 C.d.S.);
· circolazione con veicolo sottoposto a fermo amministrativo (art. 214 C.d.S.);
· circolazione con patente ritirata o sospesa (artt. 216 e 218 C.d.S.);
· circolazione in violazione della normativa in materia di trasporto cose (artt. 26 e 46 della legge n. 298/1974 s.m.i.).
Sinteticamente la disposizione in commento modifica l'articolo 213 del codice della strada:
· dettando norme in materia di sequestro (confisca) del veicolo a seguito di trasgressione commessa da minorenne;
· abrogando la specifica normativa prevista dall'attuale comma 2-quinquies dell'articolo 213 del codice della strada nel caso in cui oggetto di sequestro sia un motociclo o un ciclomotore e prevedendo quindi che anche in questo caso trovi applicazione il principio generale per il quale il veicolo deve essere affidato al custode-proprietario
Tale disciplina prevede che in caso di sequestro di ciclomotore o motociclo, finalizzato alla confisca amministrativa dello stesso, non è possibile l’affidamento in custodia al conducente o al proprietario, ma il veicolo sequestrato deve essere sempre consegnato al custode-acquirente convenzionato. Il proprietario del mezzo sequestrato, se non è stato già emesso il provvedimento di confisca, può richiederne l’affidamento in custodia solo dopo che siano trascorsi almeno 30 giorni dal sequestro. Analoga procedura si applica peraltro nel caso in cui i ciclomotori o motocicli siano stati sequestrati a seguito dell’accertamento di reati commessi alla guida di tali veicoli.
· ridelineando la disciplina prevista nel caso in cui venga rifiutata l'assunzione della custodia del veicolo, riducendo al minimo la protrazione della custodia onerosa presso terzi dei veicoli sottoposti a sequestro.
In base alla normativa vigente, il veicolo viene affidato ad un custode-acquirente (vedi infra) e insieme al verbale di sequestro al proprietario deve essere notificato anche un avviso contenente l’intimazione ad assumerne la custodia entro il termine di 10 giorni dalla notifica, con l’espressa avvertenza che in caso contrario il veicolo sarà trasferito in proprietà al custode. E’ appena il caso di rilevare che non in tutte le province sono stati individuati custodi-convenzionati e in tali province vige l’obbligo di deposito presso un soggetto autorizzato inserito nell’elenco annuale formato dalle prefetture.
Si ritiene opportuno descrivere analiticamente la disciplina dettata dall'articolo 213 del codice della strada, segnalando le eventuali novità introdotte dall'articolo in commento.
L'articolo 213 del codice della strada, conferisce potere, all'organo di polizia che accerta la violazione, di provvedere al sequestro del veicolo o delle altre cose oggetto della violazione, facendone menzione nel verbale di contestazione della violazione (comma 1).
In caso di sequestro il veicolo viene affidato in custodia al proprietario, o in sua assenza al conducente ovvero ad altro soggetto obbligato in solido (es. genitore per figlio minore): tale soggetto è nominato custode con l'obbligo di depositare il veicolo in un luogo di cui abbia la disponibilità o di custodirlo, a proprie spese, in un luogo non sottoposto a pubblico passaggio (es. box, posto auto in un cortile condominiale, etc.), provvedendo al trasporto in condizioni di sicurezza per la circolazione stradale. Il documento di circolazione è trattenuto dall'organo di polizia procedente (comma 2).
Il comma 5 dell'articolo 213 del codice della strada (che solo limitatamente al profilo sanzionatorio, riprende il contenuto del comma 2-ter del vigente articolo 213, prevede che il rifiuto di assumere la custodia comporta l’applicazione di sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.818 a euro 7.276 (da euro 1.835 ad euro 7.341 a legislazione vigente) unitamente alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a tre mesi.
Per la individuazione dei requisiti soggettivi che devono essere posseduti per poter essere nominati custode è necessario fare riferimento alle disposizioni generali dell'art. 259 c.p.p. e con quelle dell'art. 120 c.p.p. che stabiliscono che non può assumere la custodia chi:
a) si trova in manifesto stato di ubriachezza o di intossicazione da sostanze stupefacenti;
b) si trova in manifesta palese infermità mentale;
c) risulta essere sottoposto a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione. L'assenza di misure di sicurezza o di prevenzione deve essere accertata sulla base delle risultanze degli archivi della banca dati interforze di cui all'art.8 della legge 121/1981 ovvero, in caso di impossibilità momentanea di consultazione dei predetti archivi, può formare oggetto di dichiarazione autocertificata da parte della persona alla quale è affidato il veicolo sequestrato o fermato.
Nel caso in cui il sequestro sia ordinato in conseguenza di trasgressione commessa da un minorenne il veicolo è affidato in custodia ai genitori o a chi ne fa le veci o a persona maggiorenne appositamente delegata, previo pagamento delle spese di trasporto e custodia. In caso di rifiuto inoltre l'organo di polizia dispone l'immediata rimozione del veicolo e il suo trasporto presso uno dei soggetti di cui all'articolo 214-bis
L’articolo 214-bis ha previsto la figura del custode-acquirente, convenzionato con il Ministero dell’Interno e con l’Agenzia del Demanio, al quale i veicoli sequestrati, che non sono stati consegnati al proprietario o al conducente, devono essere affidati con l’onere di custodia e con l’eventuale obbligo di acquistarne successivamente la proprietà.
Del deposito del veicolo è data comunicazione mediante pubblicazione nel sito istituzionale della prefettura UTG competente. Decorsi 5 giorni dalla comunicazione se l'avente diritto non ne assume la custodia, pagando gli oneri di recupero e trasporto, il veicolo è trasferito in proprietà al soggetto al quale è stato consegnato. La somma ricavata dalla alienazione è depositata fino alla definizione del procedimento in relazione al quale è stato disposto il sequestro, in un autonomo conto fruttifero presso la tesoreria dello Stato. In caso di confisca questa ha ad oggetto la somma depositata in ogni altro caso, la somma è restituita all'avente diritto.
A legislazione vigente, quando non è stato possibile affidare il veicolo al proprietario o al conducente ovvero ad altro soggetto obbligato in solido, per carenza dei requisiti soggettivi oppure per rifiuto ad assumerne la custodia (quindi il veicolo è stato affidato ad un custode autorizzato), il proprietario (o un suo delegato), entro 10 giorni dalla notifica del verbale di sequestro e dell'avviso, deve assumere la custodia del veicolo, pena l'immediato trasferimento in proprietà al custode acquirente anche ai soli fini della rottamazione nel caso di grave danneggiamento o deterioramento.
Nei casi di cui al comma 5, qualora il soggetto che ha eseguito il sequestro non appartenga alle Forze di polizia, le spese di custodia sono anticipate dall'amministrazione di appartenenza. La liquidazione delle somme dovute alla depositeria spetta alla prefettura – ufficio territoriale del Governo. Divenuto definitivo il provvedimento di confisca, la liquidazione degli importi spetta all'Agenzia del demanio, a decorrere dalla data di trasmissione del provvedimento
(comma 3).
Ad eccezione dei casi di cui al comma 5 continua ad applicarsi la vigente procedura per la quale dopo che siano trascorsi almeno 30 giorni dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento di confisca, il custode del veicolo trasferisce il mezzo, a proprie spese e in condizioni di sicurezza per la circolazione stradale, presso il luogo individuato dal prefetto. Decorso inutilmente il suddetto termine, il trasferimento del veicolo è effettuato a cura dell'organo accertatore e a spese del custode, fatta salva l'eventuale denuncia di quest'ultimo all'autorità giudiziaria qualora si configurino a suo carico estremi di reato. Le cose confiscate sono contrassegnate dal sigillo dell'ufficio cui appartiene il pubblico ufficiale che ha proceduto al sequestro. La determinazione delle modalità di comunicazione, tra gli uffici interessati, dei dati necessari all'espletamento delle procedure in esame resta demandata ad un decreto dirigenziale, da adottarsi di concerto fra il Ministero dell'interno e l'Agenzia del demanio (comma 6).
Contro il provvedimento di sequestro è possibile proporre ricorso al Prefetto e, nel caso di rigetto, il sequestro è confermato. La declaratoria di infondatezza dell'accertamento si estende alla misura cautelare ed importa il dissequestro del veicolo ovvero nei casi del comma 5 la restituzione della somma ricavata dalla alienazione. Relativamente, invece, alla eventuale e successiva emissione di un provvedimento di confisca, allorquando ne ricorrono i presupposti, essa viene disposta dal competente Prefetto attraverso una propria ordinanza – ingiunzione (di cui all'articolo 204), ovvero con distinta ordinanza, stabilendo, in ogni caso, le necessarie prescrizioni relative alla sanzione accessoria. Il Prefetto, appunto, dispone la confisca del veicolo, ovvero, nel caso in cui questo sia stato distrutto, della somma ricavata. Il provvedimento di confisca costituisca titolo esecutivo anche per il recupero delle spese di trasporto e di custodia del veicolo (comma 7).
È sempre disposta la confisca del veicolo in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, diverso da quelli previsti nel presente codice (questo inciso non è contemplato dal vigente comma 2-sexies), sia che il reato sia stato commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne (comma 4, che riproduce quanto previsto dal vigente comma 2-bis).
Ai sensi del comma 8, nel periodo in cui il veicolo è sottoposto al sequestro è fatto divieto di farne uso; infatti, il custode - rectius il soggetto che ha assunto la custodia (attualmente "chiunque") - che circoli abusivamente è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 1.988 a euro 7953 (attualmente da euro 2.006 ad euro 8.025) e, addirittura, con la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente (a legislazione vigente è prevista la sospensione della patente da uno a tre mesi).
In proposito è appena il caso di ricordare che secondo la giurisprudenza circolare con un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo integra unicamente l’illecito di cui all’art. 213, comma 4 (nel testo proposto dall'emendamento approvato è il comma 8), del Codice della Strada e non anche il reato di sottrazione di cose sottoposte a sequestro di
cui all'articolo 334 del codice penale (Cass., Sentenza n. 29791 del 2017)
Tale sanzione - precisa il comma 9- non si applica se il veicolo appartiene a persone estranee alla violazione amministrativa (l'emendamento approvato fa erroneamente riferimento al "comma 1").
Il provvedimento con il quale è disposta la confisca del veicolo deve essere comunicato dal prefetto al P.R.A. per l'annotazione nei propri registri (comma 10).
La lettera b) del comma 1 dell'articolo 23-bis apporta alcune modifiche invece alla disciplina del fermo amministrativo dei veicoli di cui all'articolo 214 del codice della strada.
L'articolo 214 del codice della strada dispone che, a seguito della constatazione delle infrazioni, l’organo di polizia “provvede direttamente a far cessare la circolazione e a far ricoverare il veicolo in un apposito luogo di custodia”.
Il fermo amministrativo del veicolo è sempre disposto per uguale durata nei casi in cui il codice della strada prevede il provvedimento di sospensione della carta di circolazione (comma 7).
Avverso tale provvedimento è ammesso il ricorso al prefetto ai sensi dell’art. 203 Codice della Strada e contro l’ordinanza del prefetto è possibile proporre opposizione dinanzi al giudice ordinario ex articolo 205 del codice della strada (commi 4 e 6).
Per quanto concerne il procedimento, esso si attiva al momento dell’accertamento della violazione, il proprietario (ovvero il conducente o altro soggetto obbligato in solido) è nominato custode e tenuto a custodire l’auto in un luogo non sottoposto a pubblico passaggio, mentre il documento di circolazione viene trattenuto –per tutto il periodo del fermo- dall’organo di polizia (comma 1). Se il conducente è minorenne, il veicolo deve essere sempre affidato a ai genitori o a chi ne fa le veci o a persona maggiorenne appositamente delegata (comma 2). Soltanto nel caso in cui i soggetti predetti rifiutino ovvero non abbiano i requisiti previsti per assumere la custodia, il veicolo fermato deve essere consegnato al custode-acquirente convenzionato e competente per territorio.
Il vigente comma 1-ter dell'articolo 214 prevede che nel caso invece in cui venga sottoposto a fermo un mezzo come la moto o il ciclomotore, la rimozione e la custodia avvengono a cura dell’organo di polizia. Nella formulazione proposta - similmente alla disciplina del sequestro- non è prevista una normativa specifica nel caso di motocicli e ciclomotori.
Nel caso in cui l'autore della violazione sia persona diversa dal proprietario del veicolo e la circolazione è avvenuta contro la sua volontà il veicolo è immediatamente restituito all'avente titolo (comma 3).
La circolazione con mezzi sottoposti a fermo da parte del soggetto che ha assunto la custodia (nella formulazione vigente "chiunque") è vietata e sanzionata, come previsto dal comma 8, col pagamento di una sanzione amministrativa da euro 1988 ad euro 7.953 (da euro 777 a euro 3114 a legislazione vigente) nonché la revoca della patente e la confisca del mezzo.
La lettera c) del comma 1 dell'articolo in esame modifica per coordinamento (in seguito alla introduzione del nuovo comma 5 nell'articolo 213 del codice della strada) l'articolo 214-bis del codice della strada.
La lettera d), infine, inserisce un ulteriore articolo nel codice della strada, l'articolo 215-bis.
Tale modifica sembra mirare a ridurre i rilevanti oneri economici che gravano sull’Erario in conseguenza dei lunghi tempi di giacenza dei veicoli nelle depositerie (attive, come ricordato, nelle province dove non è operativa la procedura del custode-acquirente).
La nuova disposizione impone ai prefetti di provvedere al censimento, con cadenza semestrale, dei veicoli giacenti da oltre sei mesi presso le depositerie a seguito dell'applicazione di misure di sequestro e di fermo, nonché per effetto di provvedimenti amministrativi di confisca non ancora definitivi e di dissequestro.
Dei veicoli giacenti deve essere redatto un elenco da pubblicare sul sito della prefettura (comma 1)
Il comma 2 del nuovo articolo 215-bis prevede che entro 30 giorni dalla pubblicazione dell'elenco, il proprietario può assumere la custodia del veicolo, provvedendo nel contempo al pagamento delle somme dovute alla depositeria. Nel caso di mancata assunzione della custodia i veicoli devono ritenersi "abbandonati" o nel caso di veicoli sottoposti a confisca non ancora definitiva, "confiscati".
Nel caso di vendita, la somma ricavata è depositata fino alla definizione del procedimento in relazione al quale è stato disposto il sequestro o il fermo, in un autonomo conto fruttifero presso la tesoreria dello Stato (comma 3).
Le modalità di comunicazione tra gli uffici interessati sono fissate con decreto dirigenziale, adottato di concerto tra il Ministero dell'interno e l'Agenzia del demanio (comma 4).
Articolo 24
(Modifiche al codice antimafia)
L’articolo 24 interviene in materia di impugnazione delle misure di carattere patrimoniale di cui al codice antimafia, nonché in tema di documentazione antimafia.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato l'emendamento 24.9.
La disposizione in esame, in primo luogo, inserisce un ulteriore comma nell'articolo 10 del codice antimafia in materia di impugnazioni (comma 1, lettera a)). Il nuovo comma 2-quater prevede che in caso di conferma del decreto impugnato, la Corte d'appello pone a carico della parte privata che ha proposto l'impugnazione il pagamento delle spese processuali.
In proposito è opportuno ricordare che la legge 17 ottobre 2017, n. 161 ha introdotto all'articolo 7 del codice antimafia il comma 10-quinquies, il quale prevede che, con riguardo al procedimento di primo grado, il decreto di accoglimento, anche parziale, della proposta pone a carico del proposto il pagamento delle spese processuali. Analoga previsione era contemplata dall'originario disegno di legge in relazione al giudizio d'appello. Quest'ultima previsione, tuttavia, in sede di definitiva approvazione, è stata espunta dall'articolato. L'intervento in esame si propone quindi, come sottolinea anche la relazione illustrativa, di consentire anche in appello nei casi di soccombenza la condanna del proposto alle spese "in maniera coerente con gli intenti originariamente perseguiti con la riforma del codice antimafia".
Con riguardo alla questione relativa al pagamento delle spese processuali si segnalano le seguenti decisioni: Cass. Pen., Sez. I, 16 gennaio 2013, n. 15665, n. 254951; Cass. Pen., Sez. I, 26 gennaio 2015 n. 22229,. Cass. Pen., Sez. I, 30 marzo 2015, n. 30100, con cui è stato annullato senza rinvio il decreto della Corte di appello che aveva rigettato la richiesta ed è stata disposta la correzione del decreto definitivo “eliminando la statuizione di condanna al pagamento delle spese processuali”.
L'articolo al comma 1, lettera b), interviene poi sul comma 3-bis dell'articolo 17 del codice antimafia, in materia di titolarità della proposta di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali.
Il comma 3-bis, nella formulazione vigente prima del decreto legge, introduceva, al fine di consentire al procuratore della Repubblica distrettuale di verificare che non si arrecasse pregiudizio alle attività di indagine condotte anche in altri procedimenti, alcuni obblighi in capo al questore e al direttore della Direzione investigativa antimafia. In particolare la disposizione imponeva a tali soggetti di:
· dare immediata comunicazione dei nominativi delle persone fisiche e giuridiche nei cui confronti sono disposti gli accertamenti personali o patrimoniali (lettera a);
· tenere costantemente aggiornato e informato il procuratore della repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto sullo svolgimento delle indagini (lettera b);
· dare comunicazione per iscritto della proposta al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto almeno dieci giorni prima della sua presentazione al tribunale. Il mancato rispetto di tale obbligo informativo comporta l'inammissibilità della proposta (lettera c);
· trasmettere al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto, ove ritengano che non sussistano i presupposti per l'esercizio dell'azione di prevenzione, provvedimento motivato entro dieci giorni dall'adozione dello stesso (lettera d).
Il decreto-legge, nello specifico:
· dispone l'abrogazione della lettera d) del comma 3-bis;
· interviene sulla lettera c) del comma 3-bis:
o prevedendo che la comunicazione della proposta al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto sia "sintetica";
o sopprimendo la "sanzione" della inammissibilità della proposta;
o introducendo l'obbligo di comunicazione da parte del procuratore, nei dieci giorni successivi alla comunicazione della proposta, all'autorità proponente l'eventuale sussistenza di pregiudizi per le indagini preliminari. In questi casi il procuratore deve concordare con l'autorità proponente le modalità per la presentazione congiunta della proposta.
La lettera c) del comma 4 dell'articolo 24 modifica l'articolo 19 del codice antimafia relativo alle indagini patrimoniali.
L'ultimo periodo del comma 4 dell'articolo 19 del codice antimafia prevede che, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica o del giudice procedente, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono procedere al sequestro della documentazione- precisa il decreto-legge- ritenuta utile ai fini delle indagini nei confronti dei soggetti destinatari di misure di prevenzione.
Infine la lettera d) apporta modifiche al comma 8 dell'articolo 67 del codice antimafia estendendo gli effetti dei divieti e delle decadenze conseguenti all'applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello, anche per i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico (art. 640, secondo comma , numero 1) c.p.) e per quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.).
Il comma 8 dell'articolo 67 del codice antimafia, nella formulazione vigente prima del decreto-legge, prevedeva che le fattispecie ostative previste dalla norma (per le quali le persone alle quali è stata applicata una misura di prevenzione non possono ottenere licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio; concessioni di costruzioni e gestione di opere riguardanti la PA...)trovassero applicazione anche nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello, per uno dei gravi delitti di ci all'articolo 51, comma 3-bis c.p.p.
Come rileva la relazione illustrativa i reati di truffa ai danni dello Stato nonostante siano nella prassi le attività delittuose poste in essere più frequentemente per ottenere il controllo illecito degli appalti, non figurano tra le ipotesi rilevanti al fine del diniego del rilascio della documentazione antimafia. La disposizione in commento mira, per l'appunto, a colmare tale lacuna.
Con l'approvazione dell' emendamento 24.9 la Commissione referente ha proposto l'inserimento nell'articolo 24 di un ulteriore comma, il comma 1-bis. Il nuovo comma prevede che le disposizioni di cui agli articoli 83, comma 3-bis, e 91, comma 1-bis, del codice antimafia, limitatamente ai terreni agricoli che usufruiscono di fondi europei per importi non superiori a 25.000 euro, non si applicano fino al 31 dicembre 2019.
Il comma 3-bis dell'articolo 83 del codice antimafia prevede che la documentazione antimafia è sempre prevista nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli e zootecnici demaniali che ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei per un importo superiore a 5.000 euro.
Il comma 1-bis dell'articolo 91 del codice antimafia, prevede invece che l'informazione antimafia è sempre richiesta nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli demaniali che ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei per un importo superiore a 5.000 euro.
Il comma 2 dell'articolo 26 reca la clausola di invarianza finanziaria.
Articolo 25
(Sanzioni in materia di subappalti illeciti)
L'articolo 25 mira ad inasprire il trattamento sanzionatorio per le condotte degli appaltatori, che facciano ricorso, illecitamente a meccanismi di subappalto.
Più nel dettaglio il decreto-legge modifica il comma 1 dell'articolo 21 della legge 13 settembre 1982, n. 646.
La disposizione, nella formulazione vigente prima del decreto-legge, puniva con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda non inferiore a un terzo del valore dell'opera concessa in subappalto o a cottimo e non superiore ad un terzo del valore complessivo dell'opera ricevuta in appalto chiunque, avendo in appalto opere riguardanti la P.A., concede, anche di fatto, in subappalto o cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse senza autorizzazione del committente (primo periodo del comma 1 dell'articolo 21). L'articolo prevedeva inoltre l'applicazione della pena dell'arresto da sei mesi ad un anno e dell'ammenda pari ad un terzo del valore dell'opera ricevuta in subappalto o in cottimo anche nei confronti del subappaltatore e dell'affidatario del cottimo (secondo periodo del comma 1 dell'articolo 21).
Il comma unico dell'articolo 25 del decreto-legge trasforma i reati in questione da contravvenzioni in delitti, puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni e con la multa non inferiore a un terzo del valore dell'opera concessa in subappalto o a cottimo e non superiore ad un terzo del valore complessivo dell'opera ricevuta in sub-appalto.
In proposito è opportuno rilevare che la trasformazione in delitto - in mancanza di una espressa previsione - comporta l'esclusione della punibilità delle ipotesi colpose. Si tratta di una conseguenza di non poco conto soprattutto per gli effetti inter-temporali della trasformazione: in altri termini in sede applicativa si dovrà chiarire se i fatti colposi commessi ante decreto-legge restino punibili alla luce della previgente fattispecie contravvenzionale oppure la restrizione dell'area della rilevanza penale alle sole ipotesi dolose, conseguente alla trasformazione del reato da contravvenzione a delitto, si riverberi anche ai fatti antecedenti alla modifica normativa.
Con riguardo alle ipotesi colpose si segnala Corte d'appello di Milano, Sentenza 18 febbraio 2005, con la quale il giudice meneghino ha ritenuto integrato il reato a titolo di colpa, in quanto il subappaltatore, nel dare inizio ai lavori, avrebbe comunque dovuto accertarsi di essere stato regolarmente autorizzato dall'autorità competente o comunque, nel caso dell'invocata autorizzazione, perfezionatasi con il c.d. "silenzio assenso", accertarsi che la procedura posta in essere dalla stazione appaltante fosse corretta; l'omissione di qualsivoglia controllo da parte del predetto imputato integrerebbe quella colpa idonea a configurare il reato.
Articolo 26
(Monitoraggio dei cantieri)
L'articolo 26 include il prefetto tra i destinatari della notifica preliminare da inviare prima dell'inizio dei lavori in alcuni cantieri temporanei o mobili.
A tal fine, l'articolo novella l'articolo 99, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tale articolo 99 ricade nel Capo I del Titolo IV, dedicato alle misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili. La norma finora vigente prevede, per alcuni di essi, una notifica preliminare, prima dell'inizio dei lavori, inviata all'azienda unità sanitaria locale e alla sede dell'Ispettorato nazionale del lavoro territorialmente competenti, da parte del committente o del responsabile dei lavori.
La novella in esame prevede che la notifica debba essere inviata anche al prefetto territorialmente competente.
L'obbligo di notifica si applica a: cantieri in cui sia prevista la presenza di più imprese esecutrici, anche non contemporanea (fattispecie di cui all'articolo 90, comma 3, del medesimo decreto legislativo n. 81 del 2008, e successive modificazioni); cantieri che ricadano nella precedente categoria per effetto di varianti sopravvenute in corso d'opera; cantieri in cui operi un'unica impresa la cui entità presunta di lavoro non sia inferiore a duecento uomini-giorno.
I contenuti della notifica sono fissati dall'Allegato XII del citato decreto legislativo n. 81. Nella nozione di "cantiere temporaneo o mobile" rientrano[17] tutti i luoghi in cui si effettuino lavori edili o di ingegneria civile compresi nell'Allegato X, e successive modificazioni, del medesimo decreto legislativo.
Si ricorda che l'articolo 93 del cosiddetto codice antimafia (di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011, e successive modificazioni) attribuisce al prefetto - per l'espletamento delle funzioni volte a prevenire infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti - poteri di accesso e di accertamento nei cantieri delle imprese interessate all'esecuzione di lavori pubblici.
Articolo 26-bis (em. 26.0.600)
(Piano di emergenza interno per gli impianti di stoccaggio e lavorazione dei rifiuti)
È articolo come "Piano di emergenza interno per gli impianti di stoccaggio e lavorazione dei rifiuti". Le disposizioni riguardano sia gli impianti già esistenti, sia quelli di nuova costruzione.
Si fa presente che la rubrica fa riferimento ai piani di emergenza interni, mentre i contenuti della disposizione riguardano anche i piani esterni.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 26.0.600.
Il nuovo articolo, formato da dieci commi, nei primi tre commi si occupa di piani di emergenza interni per gli impianti suddetti, mentre i suoi commi da 4 a 9 prevedono piani di emergenza esterni.
Ai sensi del comma 1, la predisposizione di piani di emergenza interni per gli impianti di stoccaggio e lavorazione dei rifiuti è obbligatoria e tale obbligo è posto in capo ai gestori.
Si osserva in proposito che, nell'attuale formulazione della disposizione, l'obbligatorietà della predisposizione del piano è riferita al soggetto sul quale l'obbligo, non risultando invece normata l'ipotesi in cui i soggetti gestori non provvedano ad adempiere tale obbligo.
Le finalità dei piani di emergenza interni sono così indicate: a) il controllo e la limitazione degli incidenti e dei loro effetti dannosi per la salute umana nonché per l'ambiente e per i beni; b) protezione della salute umana e dell'ambiente dalle conseguenze di incidenti rilevanti; c) adeguata informazione verso i lavoratori, i servizi di emergenza o le autorità locali competenti; d) il ripristino e il disinquinamento dell'ambiente dopo un incidente rilevante.
Al riguardo, il testo non indica criteri per stabilire quali incidenti vadano considerati rilevanti, risultando opportuno chiarire la formulazione.
Il comma 2 prevede che il piano di emergenza interno sia periodicamente riesaminato, sperimentato ed eventualmente aggiornato, ad intervalli di tempo adeguati che, comunque, non saranno maggiori di tre anni. Il compito della revisione periodica è del gestore, il quale sarà tenuto a consultare il personale che lavora nell'impianto, ivi compreso il personale di imprese subappaltatrici a lungo termine.
Sarebbe opportuno specificare il concetto di lungo termine relativo ai subappalti con la periodicità prescritta per le revisioni del piano di emergenza.
In ogni caso, la revisione del piano terrà conto dei cambiamenti avvenuti nell'impianto e nei servizi di emergenza, dei progressi tecnici e delle nuove conoscenze in merito alle misure da adottare in caso di incidente rilevante.
Il comma 3, in base al quale il piano di emergenza interna è predisposto entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, vale solo per gli impianti esistenti.
Non appare chiarito se e quale termine ci sia per predisporre i piani di emergenza interni relativi agli impianti futuri, una volta ultimata la loro costruzione.
Con il comma 4, in ordine ai piani di emergenza esterni, si prevede che il gestore trasmetterà al prefetto competente per territorio tutte le informazioni utili per l'elaborazione di un piano di emergenza esterna.
Il comma 5 assegna appunto al prefetto, d'intesa con le regioni e con gli enti locali interessati, la predisposizione del piano di emergenza esterna all'impianto e il coordinamento dell'attuazione di esso. Il comma 5, inoltre, afferma che il fine del piano di emergenza esterna sarà limitare gli effetti dannosi derivanti da incidenti rilevanti.
Peraltro, le finalità del piano di emergenza esterna sono anche l'oggetto del comma 6.
Appare al riguardo opportuno coordinare la norma con il precedente comma 5, in relazione alle finalità del piano.
Le finalità dei piani di emergenza esterna elencate nel comma 6 sono:
a) Il controllo e la limitazione dei danni (identica alla corrispondente finalità dei piani di sicurezza interna di cui al comma 1)
b) la protezione della salute da incidenti rilevanti, che nel caso dell'emergenza esterna si raggiungerà in particolare mediante la cooperazione rafforzata con l'organizzazione di protezione civile negli interventi di soccorso (mentre per l'emergenza interna non si facevano riferimenti alla protezione civile)
c) fornire informazione adeguata, per i piani di emergenza esterna (identica a quella per i piani di emergenza interna visti sopra)
d) il ripristino e disinquinamento dopo un incidente rilevante, finalità che si differenzia dall'analoga finalità relativa alle emergenze interne per il fatto che, per i piani di emergenza invece esterna, si aggiunge che si provvederà sulla base delle disposizioni vigenti.
§ Si ricorda a tale riguardo che in materia, con Circolare n. 4064/2018 del Ministero dell'Ambiente è stata adottata la Circolare ministeriale della Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento n. 4064 del 15 marzo 2018 contenente le “Linee guida per la gestione operativa degli stoccaggi negli impianti di gestione dei rifiuti e per la prevenzione dei rischi”.
§ La formulazione potrebbe essere chiarita, posto che per i piani di emergenza interna non appaiono contemplate deroghe alla legislazione vigente.
Il comma 7 fissa il termine temporale entro il quale il prefetto elaborerà il piano di emergenza esterna. Esso sarà di 12 mesi a partire dal momento in cui avrà ricevuto le necessarie informazioni dal gestore (cfr. comma 4).
Il comma 8 verte sulla revisione periodica del piano di emergenza esterna. La regolazione dettata per i piani di emergenza esterna è sostanzialmente analoga a quella per i piani di emergenza interna: il piano sarà riesaminato, sperimentato ed eventualmente aggiornato ad intervalli di tempo adeguati che, comunque, non supereranno i tre anni, e si terrà conto dei cambiamenti avvenuti nell'impianto e nei servizi di emergenza, dei progressi tecnici e delle nuove conoscenze in merito alle misure da adottare in caso di incidente rilevante. La fondamentale differenza rispetto al piano di emergenza interna riguarda i soggetti incaricati della revisione: per l'emergenza esterna se ne occuperà il prefetto (e non il gestore), il quale consulterà la popolazione (non i lavoratori).
Data l'ampiezza del riferimento alla popolazione, si segnala l'opportunità di precisare le modalità della consultazione.
Il comma 9 prevede l'elaborazione di linee-guida in materia di piani di emergenza esterna e di informazione alla popolazione. Le suddette linee-guida saranno tracciate da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, d'intesa con il Ministro dell'interno per gli aspetti concernenti la prevenzione degli incendi, previo accordo sancito in sede di Conferenza unificata.
Al comma 10 viene prevista l'invarianza finanziaria della disposizione.
Articolo 27
(Disposizioni per migliorare la circolarità informativa)
L’articolo 27 aggiorna l'obbligo di trasmissione delle sentenze di condanna irrevocabili a pene detentive, già esistenti per le cancellerie degli uffici giudiziari aggiungendovi anche i provvedimenti ablativi o restrittivi.
Il comma 1 dell'articolo in commento riscrive l'articolo 160 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Tale disposizione, nella formulazione vigente prima del decreto-legge, prevedeva che i cancellieri delle preture, dei tribunali e delle corti di appello avevano l'obbligo di trasmettere ogni quindici giorni il dispositivo delle sentenze di condanne irrevocabili a pene detentive, al questore della provincia di residenza o di ultima dimora del condannato.
Il decreto-legge interviene sulla disposizione:
· sopprimendo l'ormai superato riferimento alle cancellerie delle preture;
· prevedendo espressamente l'obbligo di trasmissione dei dispositivi delle sentenze di condanna anche per via telematica;
· inserendo tra coloro ai quali devono essere trasmesse le sentenze anche il direttore della Direzione investigativa antimafia;
· prevedendo per le cancellerie presso la sezione misure di prevenzione e presso l'ufficio GIP del tribunale l'obbligo di trasmissione alle questure competenti per territorio e alla Direzione investigativa antimafia di copia dei provvedimenti ablativi o restrittivi.
Il comma 2 reca la clausola di invarianza finanziaria, precisando che le amministrazioni interessate devono provvedere ai nuovi adempimenti, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Articolo 28
(Modifiche all'articolo 143 del Testo unico degli enti locali)
L’articolo 28 attribuisce al prefetto la facoltà di imporre l'adozione di determinati atti agli enti locali, in presenza di situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate in grado di alterare le procedure e compromettere il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, nonché il regolare funzionamento dei servizi. A tal fine fissa un termine per l'adozione degli atti, decorso il quale si attiva il procedimento sostitutivo.
Con gli identici emendamenti 28.500 e 28.5 (testo 2) la Commissione referente propone di: 1) integrare la disciplina sull'incandidabilità degli amministratori locali responsabili delle condotte che hanno determinato lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso ricomprendendo anche le competizioni elettorali nazionali ed europee; 2) estendere a due turni elettorali successivi allo scioglimento stesso l'ambito temporale di vigenza della misura dell'incandidabilità.
L'articolo interviene sulla disciplina relativa allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso dettata all'articolo 143 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (di cui al decreto legislativo n.267 del 2000). A tal fine integra quest'ultimo articolo inserendo, dopo il comma 7, un comma aggiuntivo che demanda al prefetto l'individuazione dei prioritari interventi di risanamento dell'ente locale e degli atti da assumere per far cessare le situazioni riscontrate dalla commissione di indagine prefettizia dotata di poteri di accesso all'ente locale e di accertamento, e per ricondurre alla normalità l’attività amministrativa dell'ente.
A tal fine fissa un termine per l’adozione degli atti e fornisce ogni utile supporto tecnico-amministrativo attraverso i propri uffici.
La disposizione in esame si applica nei seguenti casi.
1) Qualora non si proceda allo scioglimento del consiglio comunale o provinciale.
La ratio della disposizione richiamata si spiega con la circostanza che con lo scioglimento eventuali atti diretti a ripristinare la legalità e a ricondurre alla normalità l'attività amministrativa sono adottati dalla Commissione straordinaria, istituita con il decreto di scioglimento, a cui è demandato il compito di esercitare le attribuzioni spettanti al consiglio (comunale o provinciale), alla giunta e al sindaco o presidente di provincia, fino all'insediamento degli organi ordinari a norma di legge.
2) Qualora non siano adottati i provvedimenti (di cui all'art 143, comma 5, v. infra) con cui il Ministro dell'interno, con proprio decreto adottato su proposta del prefetto, fa cessare ogni pregiudizio in atto e riconduce alla normalità la vita amministrativa dell'ente nei casi in cui la relazione prefettizia rilevi la sussistenza degli elementi di collegamento alla criminalità o delle forme di condizionamento ascrivibili al personale dell'ente (si tratta quindi di "infiltrazioni" che non possono essere attribuite al livello politico e per le quali non sarebbe risolutivo lo scioglimento dell'organo consigliare).
In presenza di eventuali provvedimenti adottati ai sensi dell'art.143, comma 5, TUEL, al prefetto è pertanto preclusa l'adozione degli atti in commento.
La portata di tale disposizione potrebbe essere valutata alla luce della possibilità che, nonostante eventuali atti nei confronti del personale (quali la sospensione dall'impiego, ovvero la destinazione ad altro ufficio o altra mansione, di cui al citato art.143, comma 5), non è escluso che possano comunque residuare ambiti di intervento ulteriori per far cessare situazioni (eventualmente) riscontrate connesse a condotte illecite gravi e reiterate e per ricondurre alla normalità l'attività amministrativa dell'ente.
3) Qualora dalla relazione del prefetto, trasmessa al Ministro dell'interno (a conclusione dell'attività di accesso all'ente) emergano, con riferimento ad uno o più settori amministrativi, situazioni sintomatiche di condotte illecite o di eventi criminali sì da alterare le procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni locali e il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati.
Qualora gli atti non siano adottati entro il prescritto termine, né entro l'ulteriore termine assegnato dal prefetto all'ente locale inadempiente (comunque non superiore a 20 giorni), si attiva il potere sostitutivo del prefetto, che individua un commissario ad acta per la loro adozione.
Con riferimento all'attribuzione al prefetto dei poteri contenuti nella disposizione in esame, parrebbe rinvenirsi una possibile disarmonia rispetto al comma 5 dell'art.143 TUEL (non inciso dall'intervento normativo in esame), che demanda al decreto del Ministro dell'interno, e non direttamente al prefetto (cui spetta invece il potere di proposta), l'eventuale adozione di provvedimenti diretti a far cessare ogni pregiudizio in atto e ricondurre alla normalità la vita amministrativa dell'ente nei casi in cui gli elementi di collegamento alla criminalità o le forme di condizionamento siano ascrivibili al personale dell'ente (e non invece agli eletti).
L'attuale tenore della disposizione andrebbe valutato, oltre che per eventuali ragioni di coerenza sistemica, anche alla luce dell'art.114[18] della Costituzione e dell'autonomia riservata agli enti locali.
Eventuali oneri conseguenti alle disposizioni in commento sono posti in capo agli enti locali, tenuti a provvedere con le risorse disponibili a legislazione vigente.
L'art.143 del TUEL detta la disciplina relativa allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare[19]. Il presupposto per lo scioglimento è la presenza di "concreti, univoci e rilevanti elementi" i) su collegamenti con la criminalità organizzata di tipo mafioso degli amministratori; ii) ovvero su forme di condizionamento degli stessi; in entrambi i casi occorre che: risultino compromessi la libera determinazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e il buon andamento o l'imparzialità delle amministrazioni, nonché il regolare funzionamento dei servizi loro affidati; i richiamati collegamenti o le forme di condizionamento siano idonei ad arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica.
Al Prefetto competente per territorio è demandato lo svolgimento di ogni opportuno approfondimento al fine di verificare la sussistenza dei richiamati elementi e a tal fine può nominare una commissione di indagine (composta da tre funzionari della pubblica amministrazione) con poteri di accesso presso l'ente locale interessato.
Successivamente il prefetto, sentito il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica integrato con la partecipazione del procuratore della Repubblica competente per territorio, trasmette al Ministro dell'interno una relazione nella quale si dà conto della eventuale sussistenza degli elementi "concreti, univoci e rilevanti" che giustificherebbero lo scioglimento dell'ente.
L'eventuale scioglimento è disposto con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri entro tre mesi dalla trasmissione della relazione prefettizia.
Qualora la relazione prefettizia rilevi la sussistenza degli elementi di collegamento alla criminalità o delle anzidette forme di condizionamento con riferimento al personale dell'ente - ma non si ritengano sussistenti i presupposti per lo scioglimento dell'ente - con decreto del Ministro dell'interno, su proposta del prefetto, è adottato ogni provvedimento utile a far cessare immediatamente il pregiudizio in atto e ricondurre alla normalità la vita amministrativa dell'ente, inclusa la sospensione dall'impiego del dipendente o la sua destinazione ad altra mansione, con l'obbligo di avvio del conseguente procedimento disciplinare.
Negli altri casi, il Ministro dell'interno, entro tre mesi dalla trasmissione della relazione prefettizia, "emana comunque un decreto di conclusione del procedimento in cui dà conto degli esiti dell'attività di accertamento".
Con il decreto di scioglimento la gestione del comune è affidata ad una commissione straordinaria (per un periodo compreso tra da dodici e diciotto mesi, prorogabili fino ad un massimo di ventiquattro in casi eccezionali) dell'ente che esercita, fino all'insediamento degli organi ordinari a norma di legge, le attribuzioni spettanti al consiglio comunale o provinciale, alla giunta ed al sindaco o presidente di provincia. Gli amministratori ritenuti responsabili dal giudice civile (con provvedimento definitivo, sulla base della proposta di scioglimento inviata dal prefetto) delle condotte che hanno motivato lo scioglimento non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, che si svolgono nella regione nel cui territorio si trova l'ente interessato dallo scioglimento, limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento stesso.
Nel corso dell'esame in sede referente la Commissione affari costituzionali ha approvato gli identici emendamenti 28.500 e 28.5 (testo 2) volti ad inserire, dopo il comma 1, un comma aggiuntivo, che interviene sulla disciplina relativa alla misura interdittiva dell'incandidabilità degli amministratori che si sono resi responsabili, con le proprie condotte, dello scioglimento di consigli comunali e provinciali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare.
L'art.143, comma 11, primo periodo, del TUEL, di cui si propone una modifica, stabilisce che i richiamati amministratori - ferma restando ogni altra misura interdittiva ed accessoria eventualmente prevista - non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, che si svolgono nella regione nel cui territorio si trova l'ente interessato dallo scioglimento. L'incandidabilità deve essere dichiarata con provvedimento definitivo ed è limitata, sotto il profilo temporale, al primo turno elettorale successivo allo scioglimento dell'ente per mafia.
Circa tale ultimo aspetto, la Corte di Cassazione[20] ha chiarito che l'incandidabilità "opera dal momento in cui sia dichiarata con provvedimento definitivo e riguarda il primo turno, ad esso successivo, di ognuna delle tornate elettorali indicate dall'art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, e, quindi, tanto le elezioni regionali, quanto quelle provinciali, comunali e circoscrizionali".
Quanto alla ratio della disciplina vigente, la Corte di Cassazione[21] sostiene che l'incandidabilità di cui all'art.143 "rappresenta una misura interdittiva volta a rimediare al rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l'ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali", e si configura come un rimedio di "extrema ratio", volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni a cui la misura dissolutoria ha inteso ovviare, salvaguardando beni primari della collettività nazionale.
In tema di incandidabilità, oltre all'art.143, si segnala le disposizioni di cui al decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (cosiddetta legge Severino).
Gli emendamenti mirano a rendere più rigorosa la disciplina relativa all'incandidabilità degli amministratori responsabili delle condotte che hanno portato allo scioglimento dei consigli degli enti locali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare, sotto i profili seguenti.
· Viene ampliato il novero delle competizioni elettorali per cui vige l'incandidabilità, includendo quelle alla Camera dei deputati, al Senato della Repubblica e al Parlamento europeo.
Tale estensione è in linea con una delle indicazioni avanzate dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali, anche straniere, nella XVII legislatura[22].
· Estende da uno a due turni elettorali successivi allo scioglimento il limite temporale dell'incandidabilità.
Si segnala infine che viene meno ogni delimitazione territoriale dell'incandidabilità, che ai sensi della normativa vigente riguarda solo le competizioni elettorali nella regione in cui si trova l'ente interessato dallo scioglimento.
Articolo 29
(Incremento delle risorse per le commissioni incaricate di gestire enti sciolti per mafia)
L’articolo 29 incrementa la dotazione delle risorse per la copertura degli oneri finanziari connessi all'attività svolta dalle commissioni straordinarie per la gestione degli enti sciolti in conseguenza a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare.
Il comma 1 incrementa le richiamate risorse, attualmente pari a 5 milioni di euro (ai sensi dell'art.1, comma 706, della legge n.296 del 2007), per un importo fino a un massimo di ulteriori 5 milioni di euro.
A tal fine, la norma dispone che tale incremento sia assicurato attraverso le risorse le risorse che si rendono disponibili in corso d'anno a valere sulle "assegnazioni a qualunque titolo spettanti agli enti locali", fra quelle annualmente corrisposte dal Ministero dell'interno.
Gli oneri a cui fa riferimento la disposizione sono quelli relativi al personale assegnato in via temporanea a supporto dell'attività delle richiamate commissioni straordinarie:
Si tratta, nello specifico, ai sensi dell'art 145 del TUEL, del personale amministrativo e tecnico di amministrazioni ed enti pubblici che, previa intesa con gli stessi (ove occorra anche in posizione di sovraordinazione), viene posto in posizione di comando o distacco, anche in deroga alle norme vigenti.
Al personale assegnato spetta un compenso stabilito dal prefetto in misura non superiore al 50 per cento del compenso spettante a ciascuno dei componenti della commissione straordinaria, nonché, ove dovuto, il trattamento economico di missione.
Per il personale non dipendente dalle amministrazioni centrali o periferiche dello Stato, la prefettura provvede al rimborso al datore di lavoro dello stipendio lordo, per la parte proporzionalmente corrispondente alla durata delle prestazioni rese.
La relazione illustrativa al decreto-legge, circa le finalità della norma, richiama l'esigenza di "attualizzare il valore, fermo all’anno 2007, dello stanziamento" per la copertura dei richiamati oneri. Nella relazione, si dà conto che nell’ultimo decennio l’attività delle commissioni straordinarie "è aumentata in modo esponenziale, in relazione al crescente numero di enti sciolti per infiltrazione" e che ad oggi tale numero è pari a 48 "compresi i comuni di Vittoria e Lametia terme di notevole dimensione".
Il comma 2 autorizza il Ministro dell’economia e delle finanze, su proposta del Ministro dell'interno, ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni compensative di bilancio.
Per l'illustrazione della disciplina relativa allo scioglimento dei Consigli comunali e provinciali in conseguenza a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare si rinvia alla scheda di lettura relativa all'articolo 28.
Articolo 29-bis (em. 29.0.1)
(Circolazione di veicoli immatricolati all'estero )
Reca alcune novelle al codice della strada, in materia di circolazione di veicoli immatricolati all'estero. In particolare, si propone la modifica degli articoli 93 (concernente, tra l'altro, la carta di circolazione), 132 (sulla circolazione dei veicoli immatricolati all'estero) e 196 (inerente la solidarietà in caso di violazioni punibili con sanzione amministrativa pecuniaria) del nuovo codice della strada di cui al decreto legislativo n. 285 del 1992.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 29.0.1.
L'articolo 93 del codice della strada (decreto legislativo n. 285 del 1992) reca disposizioni inerenti l'immatricolazione e l'obbligo del possesso della carta di circolazione per gli autoveicoli, i motoveicoli e i rimorchi. La novella in esame vieta a chi ha stabilito la residenza in Italia da oltre sessanta giorni di circolare con un veicolo immatricolato all'estero (nuovo comma 1-bis dell'articolo 93), salvo quanto previsto per taluni casi di leasing, locazione o comodato (v. infra). Al fine di condurre il veicolo oltre il confine, l'intestatario dello stesso chiede all'ufficio competente della Motorizzazione Civile il rilascio di un foglio di via e della relativa targa (ai sensi dell'articolo 99 del codice), previa consegna del documento di circolazione e delle targhe estere che, successivamente, verranno restituiti dalla Motorizzazione Civile ai competenti uffici dello Stato estero che li ha rilasciati (nuovo comma 1-quater). Si applicano comunque le sanzioni previste dal comma 7-bis (previsto dalla novella in esame, v. infra).
I veicoli concessi in leasing o in locazione senza conducente da impresa costituita in un altro Stato membro dell'Unione europea o dello Spazio economico europeo devono essere dotati di un documento dal quale risulti il titolo e la durata della disponibilità del veicolo. Il documento deve essere custodito a bordo e sottoscritto dall'intestatario. Deve inoltre recare una data certa. Il possesso di tale documento è prescritto anche per il veicolo concesso in comodato a un soggetto residente in Italia e legato da un rapporto di lavoro o di collaborazione con l'impresa estera. La disciplina si applica, nel rispetto del codice doganale comunitario, alle imprese che non abbiano stabilito in Italia una sede secondaria o altra sede effettiva. In mancanza del documento, la disponibilità del veicolo si considera in capo al conducente (nuovo comma 1-ter).
Sono quindi previste le sanzioni (nuovi commi 7-bis e 7-ter).
In caso di violazione del divieto di circolazione dei veicoli immatricolati all'estero, si applica (nuovo comma 7-bis) la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 712 a euro 2.848. Il documento di circolazione è trasmesso all'Ufficio Motorizzazione Civile competente per territorio dall'organo accertatore il quale ordina l'immediata cessazione della circolazione del veicolo e il suo trasporto e deposito in luogo non soggetto a pubblico passaggio. Si applicano, in quanto compatibile, le previsioni dell'articolo 213 del codice (concernente la misura cautelare del sequestro e la sanzione accessoria della confisca amministrativa). Decorsi 180 giorni dalla data della violazione, se il veicolo non è stato immatricolato in Italia oppure non sia stato richiesto il foglio di via, si applica la confisca amministrativa di cui al medesimo articolo 213.
In caso di violazione delle disposizioni su leasing, locazione e comodato, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 250 a euro 1.000. Il verbale di contestazione dovrà prescrivere l'esibizione del documento previsto dal comma 1-ter (v. supra) entro 30 giorni. Il veicolo è sottoposto a fermo amministrativo ai sensi dell'articolo 214 del codice, le cui disposizioni si applicano in quanto compatibili. Il veicolo è riconsegnato (al conducente, al proprietario o al legittimo detentore, ovvero a persona delegata dal proprietario) dopo la presentazione del documento o, in ogni caso, decorsi 60 giorni dall'accertamento della violazione. Nei casi di mancata esibizione del documento, l'organo accertatore applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 712 a euro 3.558 (di cui all'articolo 94, comma 3, del codice), con decorrenza dei termini per la notificazione dal giorno successivo a quello stabilito per la presentazione dei documenti (nuovo comma 7-ter).
Riguardo agli articoli 213 e 214 sopra richiamati si fa rinvio alla scheda relativa all'emendamento 23.0.600 (testo corretto) e relativi subemendamenti, approvato dalla Commissione in sede referente.
L'articolo 132 del codice prevede che il veicolo immatricolato all'estero può circolare in Italia per un anno, sulla base del certificato di immatricolazione dello Stato di origine e soddisfatti gli adempimenti doganali nonché il versamento delle imposte relative alla compravendita di veicoli, ove applicabili. La novella in esame prevede che, decorso l'anno, l'intestatario sia tenuto a chiedere il foglio di via e la targa per il transito oltre i confini con le medesime modalità sopra descritte (v. articolo 93, comma 1-quater). In caso di violazione di tali disposizioni, si applicano le medesime sanzioni di cui all'articolo 93, comma 7-bis, fuori dei casi di leasing, locazione e comodato disciplinati dal comma 1-ter del medesimo articolo (si tratta, come sopra ricordato, di nuove disposizioni proposte dall'emendamento in esame). Il testo vigente dell'articolo 132 prevede l'applicazione della sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 85 a euro 338 per la circolazione del veicolo immatricolato all'estero per un periodo superiore all'anno nel territorio italiano.
L'articolo 196 del codice dispone, tra l'altro, che per le violazioni punibili con la sanzione amministrativa pecuniaria, risponde solidalmente:
§ il locatario, in caso di locazione senza conducente come disciplinata dall'art. 84 del codice della strada; tale disposizione, presente nel testo vigente, viene mantenuta dalla novella in esame;
§ l'intestatario del contrassegno di identificazione, in caso di locazione senza conducente dei ciclomotori; tale disposizione, presente nel testo vigente, viene implicitamente soppressa dalla novella in esame.
L'emendamento in esame propone l'introduzione, inoltre, degli ulteriori seguenti casi di responsabilità solidale:
§ l'intestatario temporaneo del veicolo, quando sia stata omessa la dichiarazione al Dipartimento per i trasporti, la navigazione ed i sistemi informativi e statistici al fine dell'annotazione sulla carta di circolazione – da parte dell'avente causa - di atti da cui derivi una variazione dell'intestatario della carta di circolazione ovvero che comportino la disponibilità del veicolo, per un periodo superiore a trenta giorni, in favore di un soggetto diverso dall'intestatario stesso, (art. 94, comma 4-bis, del codice); tale disposizione è introdotta nell'articolo 196 dalla novella in esame;
§ la persona residente in Italia che ha, a qualunque titolo, la disponibilità del veicolo se non prova che la circolazione del veicolo stesso è avvenuta contro la sua volontà, nei casi indicati dall'articolo 93, commi 1-bis e 1-ter, e dall'articolo 132 (v, supra); tale disposizione, connessa alle altre modifiche proposte dall'emendamento in esame, è introdotta nell'articolo 196 dalla novella in esame.
Articolo 30 (em. 30.4)
(Modifiche al reato di invasione di terreni o edifici)
Modifica la disciplina del reato di invasione di terreni o edifici di cui all'articolo 633 c.p.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 30.4.
L'articolo 633 c.p. sanziona con la pena della reclusione fino a due anni e con la multa da 103 a 1.032 euro la condotta di chi "invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto". Il reato è perseguibile a querela della persona offesa (comma primo).
Il secondo comma dell'articolo 633 c.p. contempla due circostanza aggravanti speciali, la cui presenza modifica il regime di procedibilità implicando la punibilità d'ufficio. La prima circostanza ricorre quando "il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata; la seconda circostanza, invece, ricorre quando il fatto è commesso da più di dieci persone, anche senza armi. Trattandosi di norma a più fattispecie, il concorso di entrambe le circostanze (fatto commesso da più di dieci persone delle quali una palesemente armata), secondo la dottrina, non determinerebbe un doppio aumento di pena
E' opportuno inoltre ricordare che al delitto in questione è applicabile l'aggravante di cui all'articolo 71 del decreto legislativo n. 159 del 2011. Tale disposizione prevede un aumento da un terzo alla metà delle pene previste per una serie di reati, fra i quali anche il delitto di cui all'articolo 633 c.p. nel caso in cui "il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione"; la stessa disposizione del Codice antimafia, poi, oltre a ribadire che per tali reati "in ogni caso si procede d'ufficio", estende anche la possibilità dell'arresto fuori dei casi di flagranza.
Il decreto- legge in conversione introduce un ulteriore comma all'articolo 633 c.p., il quale prevede che, nelle ipotesi aggravate di cui al secondo comma, nei confronti dei promotori e organizzatori dell'invasione, nonché di coloro che hanno compiuto il fatto armati si applica la pena della reclusione fino a quattro anni congiuntamente alla multa da 206 a 2.064 euro.
In proposito è opportuno rilevare che per la configurabilità dell'aggravante prevista dal secondo comma dell'art. 633, la giurisprudenza ritiene necessario che l'azione invasiva sia stata commessa collettivamente, da più persone concorrenti che agiscano riunite e siano presenti simultaneamente sul luogo del delitto per la sua consumazione (Cassazione, sez. II. Sentenza 26 giugno 2016, n. 43120). La disposizione del decreto-legge sembrerebbe escludere quindi dal proprio ambito di applicazione i promotori e organizzatori che pur avendo progettato l'invasione non vi hanno poi, materialmente, preso parte.
Per l'ammissibilità delle operazioni captative nell'ambito dei procedimenti relativi al reato di cui al nuovo terzo comma dell'articolo 633, c.p. si rinvia all'articolo 31 del decreto-legge (tale disposizione è modificata - per coordinamento - dall'emendamento 30.4).
Nel corso dell'esame in Commissione è stato approvato l'emendamento 30.4, interamente sostitutivo dell'articolo 30 del decreto-legge.
L'articolo 30, come riformulato, riscrive l'articolo 633 c.p.:
· modificando la pena detentiva prevista per l''invasione arbitraria di terreni o edifici (dagli attuali "fino a due anni" a "da uno a tre anni");
· ridelineandone le circostanze aggravanti: è prevista la pena della reclusione da due a quattro anni e la multa da euro 206 a euro 2064 nel caso in cui il fatto sia commesso da più di cinque persone ovvero da persona palesemente armata (viene meno la circostanza aggravante che ricorre quando il fatto è commesso da più di dieci persone, anche non armate). Nelle ipotesi aggravate è confermata la procedibilità d'ufficio;
· intervenendo sulla nuova ipotesi aggravata introdotta dal decreto- legge, prevedendo che nel caso in cui l'invasione sia commessa da due o più persone, la pena per i promotori o gli organizzatori è aumentata.
Articolo 31
(Ammissibilità delle intercettazioni in relazione al reato di invasione di terreni o edifici)
L’articolo 31 inserisce trai reati in relazione ai quali possono essere disposte le intercettazioni anche la fattispecie aggravata del delitto di invasione di terreni o edifici.
Più nel dettaglio la disposizione (comma 1) inserisce nel catalogo di delitti di cui alla lettera f-ter) del comma 1 dell'articolo 266 c.p.p., relativo ai limiti di ammissibilità delle intercettazioni, il reato di cui al terzo comma dell'articolo 633 c.p. (vedi articolo 30 del decreto- legge).
L'articolo 266 c.p.p. individua analiticamente e tassativamente i casi in cui è ammessa la captazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche. Le intercettazioni, infatti possono essere disposte in relazione ai soli reati previsti dall'articolo 266 c.p.p., secondo un criterio prevalentemente quantitativo determinato dall'entità della pena edittale, che è prevista in misura minore per i delitti contro la P.A. La disposizione prevede poi una serie di reati, per i quali, in ragione della loro particolare caratteristica o gravità, rendono il mezzo di ricerca della prova in questione più utile (si pensi ai delitti concernenti le sostanze stupefacenti o psicotrope, armi o sostanze esplosive) o più idoneo (si pensi ai reati di usura o disturbo alle persone per mezzo del telefono).
In particolare la lettera f-ter) del comma 1 dell'articolo 266 c.p.p., prevede tra i reati per i quali è possibile ricorrere a tale strumento di indagine i delitti di:
· commercio di sostanze alimentari nocive (art. 444 c.p.);
· contraffazione, alterazione o uso di marchio segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni (art. 473 c.p.);
· introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 c.p.);
· frode nell'esercizio del commercio (art. 515 c.p.);
· vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine (art. 516 c.p.)
· contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (art. 517-quater c.p.).
E' appena il caso di ricordare che altra condizione generale di ammissibilità delle intercettazioni è costituita dalla sussistenza (ex art. 267 c.p.p.) di gravi indizi di reato.
Il comma 2 dell'articolo 31 reca la clausola di invarianza finanziaria.
In proposito la relazione tecnica rileva che la disposizione, finalizzata al contrasto del reato di invasione di edifici nelle forme più aggravate, ha carattere procedurale e i relativi adempimenti giudiziari - trattandosi peraltro di un reato riconducibile ad una casistica contenuta- potranno essere espletati con l'impiego delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. La relazione sottolinea altresì come le spese per le intercettazioni presentino una dinamica di risparmio di spesa sul relativo capitolo 1363, iscritto nel bilancio del Ministero della giustizia- Dipartimento Affari di giustizia, per effetto delle modifiche normative introdotte in materia, determinate in particolare a seguito della revisione delle voci di listino delle prestazioni obbligatorie in attuazione della legge n. 103 del 2017, stabilita dal decreto interministeriale 28 dicembre 2017.
Articolo 31-bis (em. 31.0.1)
(Divieto di esecuzione degli arresti domiciliari in immobili occupati)
Esclude che la misura degli arresti domiciliari possa essere eseguita presso un immobile occupato abusivamente.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 31.0.1.
Esso inserisce un nuovo comma 1-ter nell'articolo 284 c.p.p.
L'articolo 284 c.p.p. disciplina la misura cautelare personale coercitiva degli arresti domiciliari. Presupposto per la concessione degli arresti domiciliari è la disponibilità di un domicilio che sia idoneo.
In merito alla idoneità del domicilio, la Cassazione, con la sentenza n. 10425 del 2018, ha espressamente escluso che, nel concetto di inesistenza di uno dei luoghi ove scontare gli arresti domiciliari, possa rientrare anche l’eventuale inadeguatezza della abitazione sotto il profilo della regolarità dell’occupazione della medesima ovvero della regolarità edilizia.
Il nuovo comma 1-ter - nel quadro dei più ampi interventi per il contrasto del fenomeno delle occupazioni abusive degli immobili - esclude, invece, che la misura cautelare degli arresti domiciliari possa essere eseguita presso un immobile occupato abusivamente.
In proposito si segnala come l'articolo nulla sembra prevedere con riguardo all'affine istituto della detenzione domiciliare di cui all'articolo 47-ter dell'ordinamento penitenziario. Tale misura alternativa alla detenzione inframuraria consiste, a ben vedere, nella possibilità di scontare la pena nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora.
Con riguardo alla formulazione dell'articolo sarebbe opportuno chiarire se nella nozione di "immobili occupati abusivamente" debbano essere ricompresi anche gli immobili in relazione ai quali il titolo che ne giustificava l’occupazione è in corso di risoluzione (ad esempio in forza dell’ordinanza di sfratto per morosità o per finita locazione). Più in generale è opportuno ricordare che il rapporto tra la convalida di sfratto e il provvedimento penale di detenzione domiciliare costituisce una questione particolarmente dibattuta anche a livello giurisprudenziale. In particolare è discusso se la presenza di un soggetto ristretto in detenzione domiciliare presso l’immobile oggetto di rilascio costituisca un ostacolo all’esecuzione del titolo esecutivo: l’orientamento prevalente ritiene che la presenza all’interno dell’immobile oggetto di rilascio di un soggetto sottoposto agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare non è idonea a precludere la prosecuzione dell’esecuzione per rilascio (in epoca risalente, Pret. Monza 30/07/1987 e più recentemente Trib. Napoli, XIV sez. civ., 30 marzo 2018).
Ciò chiarito, è però evidente, da un lato, l’impossibilità di esecuzione dell’ordinanza di sfratto poiché l’uscita dall’abitazione dove il detenuto è ristretto, sia pure in esecuzione di una statuizione civile, integrerebbe il reato di evasione; dall’altro è ovvia l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di influire sulle misure cautelari penali. Secondo l'orientamento prevalente sembrerebbero da escludere sia la possibilità di eseguire sic et simpliciter l’ordinanza di rilascio, sia la remissione al soggetto destinatario del provvedimento penale dell’onere di comunicare l’imminente esecuzione dello sfratto all’autorità giudiziaria competente. Secondo la giurisprudenza di merito al fine di non esporre il soggetto ristretto al rischio di commettere il reato di evasione e di garantire, comunque, il rilascio dell’immobile, dovrebbe essere attribuita - a fronte di opposizione alla liberazione da parte di soggetto gravato di misura cautelare o di detenzione - allo stesso ufficiale giudiziario l'obbligo di tempestiva comunicazione al P.M. della sopravvenuta indisponibilità dell’alloggio eletto luogo di esecuzione della misura restrittiva. Al PM spetterà quindi proporre istanza di revoca e/o modifica della misura della detenzione domiciliare, stante l’impossibilità di fruire del domicilio inizialmente indicato.
Articolo 32
(Disposizioni per la riorganizzazione dell’amministrazione civile del Ministero dell’interno)
L’articolo 32 dispone la riduzione di 29 posti di livello dirigenziale generale in ottemperanza alle prescrizioni previste dal decreto-legge n. 95/2012 (c.d. decreto spending review) al fine di garantire gli obiettivi complessivi di economicità e di revisione della spesa previsti dalla legislazione vigente. Sono, a tal fine, stabilite le conseguenti modifiche all’assetto organizzativo del Ministero ed è prevista l’adozione del nuovo regolamento di organizzazione entro il 31 dicembre 2018. L’adozione di tale regolamento di organizzazione si rende necessaria, come evidenziato anche dalla relazione illustrativa, per rendere effettivo quanto previsto dal D.P.C.M. 22 maggio 2015, la cui efficacia continua a rimanere sospesa in attesa dell’adozione del provvedimento di riorganizzazione.
La disposizione in esame prevede – al comma 1 - l’applicazione della riduzione del 20 per cento stabilita dall’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 95/2012 nella misura pari a 29 posti di livello dirigenziale generale.
Tale riduzione è disposta nell’ambito dei processi di riduzione organizzativa e al fine di garantire gli obiettivi complessivi di economicità e di revisione della spesa previsti dalla legislazione vigente.
La diminuzione di 29 posti di livello dirigenziale generale è così articolata:
a) riduzione di 8 posti di livello dirigenziale generale assegnati ai prefetti nell’ambito degli Uffici centrali del Ministero dell’interno previsti dal regolamento di organizzazione (DPR 7 settembre 2001, n. 398), con conseguente rideterminazione della dotazione organica dei prefetti di cui alla Tabella 1 allegata al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 22 maggio 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 settembre 2015, n. 217
Tale tabella determina le dotazioni organiche del personale appartenente alla carriera prefettizia, alle qualifiche dirigenziali di prima e di seconda fascia dell'Area I comparto Ministeri, nonché del personale delle aree prima, seconda e terza del Ministero dell'interno. In particolare in riferimento alle dotazioni della carriera prefettizia e dei dirigenti di I e II fascia assegnati al ministero dell’interno la citata tabella dispone quanto segue:
Carriera Prefettizia |
|
Prefetto (il provvedimento prevede una riduzione della sola dotazione dei prefetti sono fatte salve le dotazione degli altri ruoli.) |
118 |
Vice prefetto |
700 |
Vice prefetto Aggiunto |
572 |
Totale |
1390 |
Dirigenti Ministero Interno |
|
Dirigenti I Fascia |
4 |
Dirigenti II Fascia |
197 |
Totale |
201 |
Aree |
|
Terza Area |
8.356 |
Seconda Area |
10.883 |
Prima Area |
1.310 |
Totale |
20.549 |
La relazione illustrativa evidenza che ai fini del computo degli otto posti si terrà conto della soppressione della Direzione centrale per gli affari generali della Polizia di Stato del Dipartimento della Pubblica sicurezza già previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 2 agosto 2018, in corso di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, che riscrivendo taluni assetti organizzativi nell’ambito del Dipartimento della Pubblica sicurezza, ha anticipato, limitatamente alla suddetta struttura di livello dirigenziale generale, il più complessivo processo di riorganizzazione cui il Ministero dell’interno dovrà provvedere entro il 31 dicembre 2018, ai sensi dell’art. 12, comma 1- bis, del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13.
b) la soppressione di 21 posti di prefetto collocati a disposizione per specifiche esigenze in base alla normativa vigente. A tal fine sono modificate alcune disposizioni, senza che siano modificati i casi in cui un prefetto può essere collocato a disposizione si riduce il numero di casi in cui si è possibile ricorrere all’istituto, in particolare:
- si limitano a 2 (invece di 9) i prefetti che previa deliberazione del Consiglio dei ministri, possono essere collocati a disposizione del Ministero dell'interno, quando sia richiesto dall'interesse del servizio. (Art 237 DPR 3/1957 Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato.)
- si riduce al 5% in luogo del 15% il limite massimo di prefetti in relazione alla dotazione organica (circa 6 prefetti in luogo di circa 18) che su proposta del ministero dell’interno possono essere collocati a disposizione per le esigenze connesse alla lotta alla criminalità organizzata (art. 3-bis D. L. 345/1991);
- si riduce all’1% in luogo del 3% il limite massimo di prefetti in relazione alla dotazione organica (circa un prefetto in luogo di circa 4) che con decreto del ministero dell’interno su proposta del Capo del Dipartimento delle Politiche del Personale dell'Amministrazione Civile e per le Risorse Strumentali e Finanziarie del Ministero dell'interno possono essere collocati in disponibilità per l'espletamento degli incarichi di gestione commissariale straordinaria, nonché' per specifici incarichi connessi a particolari esigenze di servizio o a situazioni di emergenza. In questo caso lo stato di disponibilità può essere previsto per un periodo non superiore al triennio, prorogabile con provvedimento motivato per un periodo non superiore ad un anno. (art. 12 c. 2-bis d. lgs 139/2000)
L’organizzazione del Ministero dell’interno a livello centrale, con particolare riferimento agli Uffici di livello dirigenziale generale, è contenuta nel DPR n. 398/2001 e successive modificazioni e integrazioni.
Tale Amministrazione è composta da n. 5 Dipartimenti, istituiti dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, i quali si articolano in Uffici di livello dirigenziale generale affidati a prefetti o a dirigenti dell’Area 1 di prima fascia.
Le cinque strutture di primo livello in cui è articolato il Ministero dell'interno sono:
a) Dipartimento per gli affari interni e territoriali;
b) Dipartimento della pubblica sicurezza;
c) Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione;
d) Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile;
e) Dipartimento per le politiche del personale dell'amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie.
Sempre a livello centrale, con il D.P.R. 21 marzo 2002, n. 98 sono stati individuati gli Uffici di diretta collaborazione del Ministro.
Per ciò che concerne il calcolo degli Uffici dirigenziali di livello generale, relativi sia alla carriera prefettizia che alla dirigenza contrattualizzata di I° fascia, così come previsto dall’art. 2, comma 1, lett. a) del DL 95/2012, è stata individuata quale base di computo, sul quale applicare il taglio del 20%, il numero di 147 unità, cui corrispondono altrettanti uffici di livello dirigenziale generale.
La relazione tecnica afferma che la riduzione di 29 Uffici di livello dirigenziale generale, proposta dall’articolo in esame graverà, in termini di contrazione, solamente sul personale dirigenziale di livello generale appartenente alla carriera prefettizia, e non su quello dei dirigenti dell’Area I, anche in relazione del loro esiguo numero.
La relazione tecnica evidenzia inoltre come la riduzione del 20% dei posti di Prefetto, comporterà una riduzione di spesa di € 5.954.385,22 sulla spesa complessiva dei posti in organico pari a € 32.498.166,12.
Viene specificato (comma 2) che restano ferme le dotazioni organiche dei viceprefetti e dei viceprefetti aggiunti, del personale appartenente alle qualifiche dirigenziali di prima e di seconda fascia, nonché del personale non dirigenziale appartenente alle aree prima, seconda e terza dell’Amministrazione civile dell’Interno di cui alla Tabella 1 allegata al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 22 maggio 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 settembre 2015, n. 217.
Il comma 3 modifica l’articolo 42, comma 1, della legge 1° aprile 1981, n. 121, le parole: “di 17 posti” sono sostituite dalle parole: “di 14 posti”.
Tale comma prevede la riduzione a 14 (invece che 17) il numero massimo posti da prefetto da coprire attraverso nomina e inquadramento riservati ai dirigenti della Polizia di Stato che espletano funzioni di polizia.
Il comma 4 prevede che al Ministero (rectius Ministro) dell’interno spetti l’adozione, entro il 31 dicembre 2018 del regolamento di organizzazione che dia seguito alle previsioni dei commi precedenti come già previsto dal citato art. 12, comma 1-bis, primo periodo, del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 aprile 2017, n. 46.
Entro il medesimo termine si provvede a dare attuazione alle disposizioni di cui all’articolo 2, comma 11, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, con conseguente riassorbimento, entro il biennio successivo, degli effetti derivanti dalle riduzioni di cui ai commi 1 e 2.
Nello specifico, nel caso in cui a seguito del processo di riduzione siano presenti aree funzionali in soprannumero rispetto alla nuova pianta organica si prevede la possibilità di attingere da esse la copertura di eventuali posti vacanti in altre aree funzionali. L’esame e l’eventuale riassegnazione è effettuato in esame congiunto con le organizzazioni sindacali.
Articolo 32-bis (em. 32.0.1 testo 2)
(Nucleo per la composizione delle Commissioni straordinarie per la gestione degli enti sciolti per infiltrazione e condizionamenti mafiosi)
Istituisce presso il Ministero dell'interno un nucleo composto di personale della carriera prefettizia, cui attingere per la composizione della commissione straordinaria per la gestione dell'ente locale prevista dall'ordinamento allorché intervenga lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale per infiltrazione o condizionamento di tipo mafioso.
Si tratta di articolo aggiuntivo, proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 32.0.1 (testo 2).
Prevede l'istituzione presso il Ministero dell'interno (Dipartimento per le politiche del personale dell'amministrazione civile) di un nucleo per la gestione degli "enti sciolti" per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare.
Siffatto nucleo, composto da personale della carriera prefettizia, ha assegnato - secondo la disposizione così proposta - un contingente di personale fino a 50 unità (10 con qualifica di prefetto, 40 con qualifica di viceprefetto).
Al nucleo si attinge per la composizione della commissione straordinaria per la gestione dell'ente una volta intervenuto lo scioglimento, il quale è disposto allorché emergano - prevede l'articolo 143 del Testo unico degli enti locali, decreto legislativo n. 267 del 2000 - elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori locali, ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un'alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l'imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica).
Ai sensi dell'immodificato articolo 144 del citato Testo unico, infatti, il decreto di scioglimento procede altresì alla nomina di una commissione straordinaria per la gestione dell'ente, "composta di tre membri scelti tra funzionari dello Stato, in servizio o in quiescenza, e tra magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa in quiescenza". La commissione rimane in carica fino allo svolgimento del primo turno elettorale utile.
La novella ora proposta prevede che i componenti della commissione straordinaria siano individuati "nell'ambito" del nucleo. Non parrebbe con ciò incisa la previsione dell'articolo 144 del Testo unico, secondo la quale a comporre la commissione straordinaria possano essere anche soggetti altri rispetto all'Amministrazione dell'interno.
L'assegnazione al nucleo non determina l'attribuzione di compensi di sorta.
Modalità e criteri dell'assegnazione sono da determinarsi con decreto del Ministro dell'interno di natura non regolamentare, in conformità dell'ordinamento del rapporto d'impiego del personale della carriera prefettizia (quale disciplinato dal decreto legislativo n. 139 del 2000).
Articolo 32-bis (em. 32.0.500)
(Presidente della Commissione per la progressione in carriera del personale della carriera prefettizia)
Interviene sui requisiti previsti dalla legge per la nomina del Presidente della Commissione per la progressione di carriera del personale della carriera prefettizia, eliminando l’obbligo che la scelta sia effettuata tra prefetti preposti alle attività di controllo e valutazione interni nelle pubbliche amministrazioni.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 32.0.500.
La disposizione in esame modifica in particolare l’articolo 17, comma 1, del D.Lgs. 139 del 2000 (che ha riformato la carriera prefettizia), ai sensi del quale è istituita la Commissione per la progressione in carriera con decreto del Ministro dell’interno.
Tale Commissione è presieduta da un prefetto che, in base alla legge, deve essere scelto tra quelli preposti alle attività di controllo e valutazione di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, e composta da tre viceprefetti, due in servizio presso gli uffici territoriali del governo ed uno presso gli uffici centrali, scelti secondo il criterio della rotazione.
Con la modifica proposta, lasciando inalterata la composizione, non si richiede più che il presidente venga scelto tra prefetti preposti ad attività di controllo interno, ma unicamente che il presidente sia un prefetto. Come evidenziato nella relazione tecnica, tale modifica si rende necessaria per garantire la piena operatività della Commissione in seguito alla nuova disciplina degli organi di controllo interno delle p.a. (denominati Organismi indipendenti di valutazione della performance – OIV), in base alla quale i componenti degli OIV non possono essere nominati tra i dipendenti dell’amministrazione interessata.
In proposito, si ricorda che la disciplina dei controlli interni delle pubbliche amministrazioni, come descritti dal D.Lgs. 286/1999, è stata profondamente innovata con il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, che ha disciplinato il ciclo della performance. Con la riforma i servizi di controllo interno di cui al D.Lgs. 286/1999 sono stati sostituiti dagli Organismi indipendenti di valutazione della performance (OIV). Per effetto delle successive modifiche, introdotte dapprima con D.P.R. 105 del 2016 e successivamente con D.Lgs. n. 74 del 2017, l’OIV è costituito, di norma, in forma collegiale con tre componenti e si attribuisce al Dipartimento della funzione pubblica la definizione dei criteri sulla base dei quali, le amministrazioni possono istituire l’Organismo in forma monocratica, nonché i casi in cui sono istituiti organismi in forma associata tra più amministrazioni. È inoltre introdotto il divieto per le amministrazioni di nominare propri dipendenti quali componenti dell’OIV.
Articolo 32-bis (em. 32.0.501)
(Disposizioni in materia di tecnologia 5G)
Interviene in materia di tecnologia 5G prevedendo che in caso di mancata liberazione delle frequenze per il servizio televisivo digitale terrestre gli ispettorati territoriali del Ministero dello sviluppo economico possano procedere alla disattivazione coattiva degli impianti, richiedendo a tal fine al Prefetto l'ausilio della forza pubblica.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 32.0.501.
Esso modifica il comma 1036 del comma 1 della legge n. 205 del 2017 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020).
Tale disposizione, nella sua formulazione vigente, prevede - al primo periodo- che, in caso di mancata liberazione delle frequenze per il servizio televisivo digitale terrestre entro le scadenze stabilite dalla tabella di marcia nazionale e delle bande di spettro 3,6-3,8 GHz e 26,5-27,5 GHz entro il termine di cui al comma 1029 (1 dicembre 2018), gli Ispettorati territoriali del Ministero dello sviluppo economico procedono alla disattivazione coattiva degli impianti, avvalendosi degli organi della polizia postale e delle comunicazioni.
Il nuovo articolo 32-bis modifica il comma in questione prevedendo che nel procedere alla disattivazione coattiva degli impianti gli ispettorati territoriali debbano non più avvalersi della polizia postale, ma richiedere al prefetto l'ausilio della forza pubblica.
La tecnologia 5 G è così denominata in quanto costituisce la 5a generazione di tecnologia progettata per la generazione mobile. Oltre a consentire di trasmettere dati ad una velocità finora sconosciuta, la tecnologia dovrebbe essere caratterizzata da più ampia disponibilità e performance stabilmente migliori.
In materia di transizione verso il 5G la Commissione europea ha adottato la Comunicazione "Il 5G per l'Europa: un piano d'azione" il 14 settembre 2015; il 17 maggio 2017, poi, è stata adottata la decisione del Parlamento europeo e del Consiglio 2017/899.
La Comunicazione della Commissione europea "Il 5G per l'Europa: un piano d'azione" (COM(2016)588) prevede una serie di azioni mirate volte al dispiegamento tempestivo e coordinato in Europa delle reti 5G, la nuova generazione di tecnologia di rete che dovrebbe offrire connessioni dati a velocità di molto superiore ai 10 Gigabit al secondo, tempi di latenza inferiori a 5 millisecondi e capacità di sfruttare tutte le risorse senza fili disponibili (dal Wi-Fi al 4G). Il Piano d'azione mira ad abbattere le differenze esistenti tra i vari Stati membri negli standard 5G e a promuovere un adeguato coordinamento tra gli approcci nazionali attraverso un partenariato tra la Commissione europea, gli Stati membri e l'industria. Si ricorda che tale partenariato (5G-Infrastructure-PPP) è stato lanciato nel 2013 ed è uno dei partenariati pubblico-privato cofinanziati dalla Commissione Ue nell'ambito del programma Horizon 2020 per il campo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT).
Il Piano d'azione è basato sui seguenti elementi chiave:
In tale ambito il Piano prevede 8 azioni:
La Decisione (UE) 2017/899 del Parlamento europeo e del Consiglio prevede che entro il 30 giugno 2020 gli Stati membri autorizzino l'uso della banda di frequenza 694-790 MHz ("dei 700 MHz"). A tal fine essi dovranno concludere i necessari accordi di coordinamento transfrontaliero delle frequenze entro il 31 dicembre 2017. Tale autorizzazione può essere ritardata per un periodo massimo di due anni qualora sussistano uno o più motivi, espressamente enunciati dalla decisione, che dovranno essere debitamente motivati (problemi di coordinamento transfrontaliero irrisolti; necessità e complessità di assicurare la migrazione tecnica di un'ampia fetta di popolazione verso standard di trasmissione avanzati; costi della transizione superiori ai ricavi generati dalle procedure di aggiudicazione; forza maggiore). In questo caso ne dovranno essere informati la Commissione europea e gli altri Stati membri (articolo 1).
Al momento della concessione dei diritti d'uso nella banda larga di frequenza dei 700 MHz, gli Stati membri autorizzano il trasferimento o l'affitto di tali diritti secondo procedure aperte e trasparenti e nel rispetto del diritto dell'Ue (articolo 2).
Inoltre, nell'autorizzare l'uso della banda dei 700 MHz o nel modificare i diritti d'uso esistenti per tale banda, essi dovranno tenere conto della necessità di conseguire specifici obiettivi di velocità e di qualità (almeno 30 Mbps entro il 2020 per tutti cittadini, come previsto dalla Decisione n. 243/2012/UE all'articolo 6, comma 1), tra cui la copertura nelle zone prioritarie nazionali predeterminate e nei principali assi di trasporto terrestre. A tal fine è prevista la possibilità di imporre condizioni ai diritti d'uso (articolo 3).
La banda di frequenza 470-694 MHz ("al di sotto dei 700 MHz") sarà invece disponibile almeno fino al 2030 per la fornitura terrestre di servizi di trasmissione, tra cui i servizi televisivi liberamente accessibili, e per l'uso di apparecchiature audio senza fili per la realizzazione di programmi ed eventi speciali (PMSE) o per e altri usi che siano compatibili con esigenze nazionali di trasmissione e che non causino interferenze dannose alla fornitura terrestre dei servizi di trasmissione negli Stati limitrofi (articolo 4).
I piani e i calendari nazionali ("tabelle di marcia nazionali") dovranno essere elaborati, previa consultazione con i portatori di interesse, e resi pubblici non appena possibile e in ogni caso entro e non oltre il 30 giugno 2018. Le tabelle di marcia dovranno includere anche eventuali misure di sostegno volte a limitare l'impatto della transizione sul pubblico e sulle apparecchiature PMSE senza fili (articolo 5).
La decisione prevede poi la possibilità per gli Stati membri di garantire una forma di compensazione per il costo diretto della migrazione o della riassegnazione dell'uso dello spettro, soprattutto per quello a carico degli utenti finali (articolo 6).
La Commissione europea riferirà al Parlamento europeo e al Consiglio sugli sviluppi relativi all'uso della banda di frequenza al di sotto dei 700 MHz (articolo 7).
Articolo 32-bis (em. 32.0.600)
(Riorganizzazione del Servizio Centrale di Protezione)
Reca novelle alle disposizioni concernenti il Servizio Centrale di Protezione di cui all'articolo 14 del decreto-legge n. 8 del 1991.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 32.0.600.
Il Servizio Centrale di Protezione è la struttura interforze deputata all’attuazione e alla specificazione delle modalità esecutive del programma speciale di protezione deliberato dalla Commissione centrale del Ministero dell’interno. Istituito nell'ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza (con decreto del Ministro dell'interno, che ne stabilisce la dotazione di personale e di mezzi, anche in deroga alle norme vigenti) il Servizio provvede sostanzialmente alla tutela, all’assistenza e a tutte le esigenze di vita delle persone beneficiarie della protezione. Il Servizio è articolato in due sezioni, dotate ciascuna di personale e di strutture differenti e autonome, aventi competenza l'una sui collaboratori di giustizia e l'altra sui testimoni di giustizia. Sul territorio nazionale il Servizio di protezione è articolato in 19 nuclei periferici (i cd. NOP, nuclei operativi di protezione).
Con l'emendamento in esame si intende aggiornare la denominazione del Ministro dell'economia e delle finanze e si prevede l'articolazione del Servizio in due strutture divisionali (non più "sezioni") per la "trattazione separata" delle posizioni, rispettivamente, dei collaboratori e dei testimoni.
All'attuazione delle disposizioni del medesimo articolo 14 del decreto-legge n. 44 del 1991, si provvede nel limite delle risorse - umane, finanziarie e strumentali - previste a legislazione vigente (così prevede un nuovo comma ivi inserito dalla novella in esame).
Per una descrizione della struttura e dei compiti del Servizio Centrale di Protezione si veda la "Relazione sui programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione per coloro che collaborano con la giustizia" (Doc. XCI, n. 8 della XVII legislatura). Secondo quanto esposto da tale Relazione, le "Divisioni" operative II e III, rispettivamente competenti per i testimoni e i collaboratori di giustizia, sono "a loro volta suddivise in "Sezioni" in relazione all'area geografica o criminale di provenienza delle persone protette [...] e curano una serie di attività che, affiancandosi a quelle svolte dai Nuclei Operativi periferici, assicurano l‘applicazione del piano provvisorio e del programma speciale di protezione deliberati in favore dei soggetti tutelati e dei loro familiari".
Articolo 32-bis (em. 32.0.2. testo 2)
(Centro alti studi del Ministero dell'interno)
Istituisce un Centro alti studi del Ministero dell'interno.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 32.0.2 (testo 2).
È qui prevista l'istituzione del Centro Alti Studi del Ministero dell’interno.
Il Centro mira alla valorizzazione della cultura istituzionale e professionale del personale dell'Amministrazione civile dell'interno.
Se ne prevede l'istituzione "presso la Sede didattico-residenziale" afferente al Dipartimento per le politiche del personale dell'Amministrazione civile e per le risorse strumentali e finanziarie del Ministero dell'interno.
La esistente Sede didattico-residenziale (sita in Roma, a via Veientana) opera la formazione del personale del Ministero dell'interno, svolgendo le funzioni innanzi condotte dalla Scuola superiore dell'Amministrazione dell'interno (S.S.A.I.), la quale è stata soppressa dall'articolo 21 del decreto-legge n. 90 del 2014 (che intese "razionalizzare il sistema delle scuole di formazione delle amministrazioni centrali, eliminando la duplicazione degli organismi esistenti" - vi si legge - attribuendone le funzioni alla Scuola nazionale dell'amministrazione).
L'articolo proposto dalla Commissione referente prevede che il Centro sia presieduto da un prefetto (con funzioni di presidente) ed opera attraverso un Consiglio direttivo ed un Comitato scientifico (i cui componenti sono scelti fra rappresentanti dell'Amministrazione civile dell'interno, docenti universitari ed esperti in discipline amministrative, storiche, sociali e della comunicazione).
Al presidente ed ai componenti degli organi ricordati non sono possono essere corrisposti compensi od emolumenti di sorta.
Organizzazione e funzionamento del Centro da disciplinarsi con decreto del Ministro dell'interno di natura non regolamentare.
È posta una complessiva clausola di invarianza finanziaria.
Articolo 33
(Norme in materia di pagamento dei compensi per lavoro straordinario delle Forze di polizia)
L’articolo 33 autorizza la spesa, a partire dal 2018, di 38.091.560 euro per il pagamento dei compensi per prestazioni di lavoro straordinario svolte dagli appartenenti alle Forze di Polizia, anche in deroga al limite dell'ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale delle amministrazioni pubbliche fissato dal D.Lgs. 75/2017.
Nel dettaglio, il comma 1 prevede che, con la finalità di garantire le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, a decorrere dal 2018 sia autorizzata la spesa di un ulteriore importo di 38.091.560 euro per il pagamento degli straordinari degli appartenenti alle Forze di Polizia, ossia Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia penitenziaria. La spesa è a valere sugli stanziamenti di bilancio disponibili.
La disposizione costituisce una deroga al limite dell'ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale delle amministrazioni pubbliche fissato dal D.Lgs. 75/2017 nella misura pari all’importo destinato alle medesime finalità per il 2016.
Il D.Lgs. 75/2017 (adottato in attuazione della legge di riforma della pubblica amministrazione, L. 124/2015) ha previsto, tra l’altro, una progressiva armonizzazione dei trattamenti economici accessori del personale contrattualizzato delle amministrazioni pubbliche, demandata alla contrattazione collettiva (per ogni Comparto o Area di contrattazione) e realizzata attraverso i fondi per la contrattazione integrativa, all’uopo incrementati nella loro componente variabile.
A tal fine, si specifica che la contrattazione collettiva opera, tenendo conto delle risorse annuali destinate alla contrattazione integrativa, la graduale convergenza dei medesimi trattamenti anche mediante la differenziata distribuzione (distintamente per il personale dirigenziale e non dirigenziale) delle risorse finanziarie destinate all'incremento dei fondi per la contrattazione integrativa di ciascuna amministrazione (art. 23, comma 1, D.Lgs. 75/2017).
Nelle more dell’attuazione di tale convergenza, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi, e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa (assicurando comunque l'invarianza della spesa), l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche (di cui all'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 165/2001), dal 1° gennaio 2017 non può superare il corrispondente importo determinato per il 2016 (art. 23, comma 2, D.Lgs. 75/2017).
Sempre dal 1° gennaio 2017 viene contestualmente abrogato l’articolo 1, comma 236, della L. 208/2015, che limita – nelle more dell’adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 (concernenti il riordino della dirigenza pubblica e della disciplina del lavoro alle dipendenze delle P.A.) della L. 124/2015, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche - a decorrere dal 2016, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche precedentemente individuate. Tali risorse, in particolare, non possono superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2015 e, allo stesso tempo, sono automaticamente ridotte in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente.
Il comma 2 specifica che i relativi pagamenti degli straordinari, nelle more dell’adozione del decreto annuale che determina l’ammontare massimo degli straordinari consentiti per le Forze di polizia, sono autorizzati entro i limiti massimi del “decreto applicabile all’anno precedente”.
I limiti a cui la disposizione si riferisce sono quelli relativi al numero complessivo massimo di prestazioni orarie aggiuntive per le esigenze funzionali dei servizi di polizia, da retribuire come lavoro straordinario che, ai sensi dell'articolo 43, 13° comma, della legge 121/1981, deve essere stabilito annualmente con decreto del Ministro dell'interno di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da ultimo adottato nel 2015.
La validità di tali limiti è stata già prorogata, per l’anno 2016, con il decreto-legge 210/2015 di proroga termini (art. 10, comma 8-sexies) e per l’anno 2017 con il decreto-legge 244/2016 (art. 8, comma 2).
Articolo 34
(Incremento richiamo personale volontario del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco)
L’articolo 34 incrementa di 5,9 milioni di euro per l’anno 2019 e di 5 milioni a decorrere dal 2020 gli stanziamenti per la retribuzione del personale volontario dei Vigili del fuoco.
Nel dettaglio, il comma 1 incrementa gli stanziamenti di spesa iscritti nello stato di previsione del Ministero dell’interno, nell’ambito nella missione «Soccorso civile» di 5,9 milioni di euro per l’anno 2019 e di 5 milioni a decorrere dal 2020 e specifica la finalità degli stanziamenti, destinati al richiamo in servizio dei volontari dei Vigili del fuoco in occasione di calamità naturali o catastrofi o per altre necessità del Corpo (art. 9, comma 1 e 2, D.Lgs. 139/2006).
In conseguenza dell’incremento di cui sopra, il comma 2 provvede ad aggiornare il limite dell’autorizzazione annuale complessivo della spesa per l’impiego di personale volontario che viene fissato a 20.952.678 euro per il 2019 e a 20.052.678 euro a decorrere dal 2020.
Infine, reca l’autorizzazione di spesa per gli importi di cui al comma 1 e la relativa copertura, per la quale si fa rinvio all’articolo 39 (comma 3).
Il personale del CNVF è strutturato in due categorie: personale di ruolo e personale volontario.
Solamente il rapporto d'impiego del personale di ruolo è disciplinato in regime di diritto pubblico.
Il personale volontario è iscritto in appositi elenchi, distinti in due tipologie: per le necessità dei distaccamenti volontari del Corpo nazionale e per le necessità delle strutture centrali e periferiche del Corpo. Il solo personale volontario iscritto nel secondo degli elenchi può essere oggetto di eventuali assunzioni in deroga, con conseguente trasformazione del rapporto di servizio in rapporto di impiego con l'amministrazione (D.Lgs. 139/2006, art. 6).
Il personale volontario viene reclutato a domanda ed impiegato nei servizi di istituto a seguito del superamento di un periodo di addestramento iniziale (D.Lgs. 139/2006, art. 8).
Il personale volontario può essere richiamato in servizio:
- in occasione di calamità naturali o catastrofi;
- in caso di necessità delle strutture centrali e periferiche del Corpo nazionale;
- per le esigenze dei distaccamenti volontari del Corpo nazionale, connesse al servizio di soccorso pubblico;
- per frequentare corsi di formazione.
Si segnala che il decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 97 ha aumentato la quota dei posti riservati al personale volontario per i concorsi per l'assunzione dei vigili del fuoco che viene elevata dal 25 al 35%, specificando, altresì, che essa è in favore del personale volontario che, alla data di indizione del bando di concorso, sia iscritto negli appositi elenchi da almeno tre anni e abbia effettuato non meno di 120 giorni di servizio. Riserve di posti sono previste anche in favore del personale volontario in possesso dei requisiti prescritti, nelle procedure per l'accesso ai ruoli dei direttivi, dei direttivi medici, dei direttivi ginnico-sportivi e per l'accesso a ruoli non dirigenti e non direttivi.
Articolo 35
(Disposizioni in materia di riordino dei ruoli del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate)
L’articolo 35 istituisce un Fondo in cui confluiscono le autorizzazioni di spesa già previste per il riordino dei ruoli e delle carriere del personale e delle Forze di polizia e delle Forze armate e non utilizzate (una prima attuazione è stata compiuta con i decreti legislativi n. 94 e n. 95 del 2017), cui si aggiunge uno stanziamento pari a 5 milioni di euro annui a decorrere dal 2018. Le risorse del Fondo sono finalizzate all’adozione di provvedimenti normativi in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate, ivi comprese le Capitanerie di porto.
In proposito si ricorda che la Commissione referente ha approvato l’emendamento X1.600 (si veda scheda) che introduce, all’articolo 1 del disegno di legge di conversione, una disposizione di delega al Governo per l’adozione – entro il 30 settembre 2019 - di decreti legislativi integrativi e correttivi in materia di riordino dei ruoli delle Forze armate e delle Forze di polizia nei limiti delle risorse del fondo di cui al presente articolo.
L’art. 35 istituisce un Fondo, presso il Ministero dell’economia e delle finanze, finalizzato all’adozione di “provvedimenti normativi in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate, ivi comprese le Capitanerie di porto, volti a correggere ed integrare il decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 94, e il decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 95”.
Il decreto legislativo n. 94 del 2017, recante Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, adottato in attuazione della delega prevista dall'articolo 1, comma 5 della legge n. 244 del 2012, ha carattere trasversale e riguarda tutti i ruoli del personale militare. Le disposizioni in esso contenute incidono sul reclutamento, l’avanzamento, la formazione, i compiti, le responsabilità e i trattamenti economici connessi agli accresciuti impegni del personale militare. Viene stabilito il principio generale in base al quale gli ufficiali hanno una carriera a sviluppo dirigenziale e unitario e sono distinti in tre componenti: ufficiali generali e ammiragli, ufficiali superiori e ufficiali inferiori. La categoria dei sottufficiali è comprensiva dei ruoli marescialli (per i quali il Codice prescrive il conseguimento della laurea) e sergenti, gli uni con carriera a sviluppo direttivo e gli altri esecutivo. Inoltre per i gradi apicali di entrambi i ruoli, è prevista l'attribuzione di specifiche qualifiche connesse all'assunzione di funzioni di particolare rilievo in relazione al ruolo d'appartenenza e all'anzianità posseduta. La categoria dei graduati, comprende il ruolo dei volontari in servizio permanente (da caporal maggiore a caporal maggiore capo scelto), caratterizzati da una carriera a sviluppo meramente esecutivo, e quella dei militari di truppa, nel cui alveo sono ricompresi i militari di leva, i volontari in ferma prefissata e, più in generale le varie tipologie di allievi (carabinieri, finanzieri, frequentatori delle Accademie/scuole militari, etc.). E', evidenziato il carattere di specialità dell'ordinamento del personale militare prevedendo, all'uopo, l'applicazione delle norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione solo se espressamente richiamate. Le corrispondenze con le qualifiche degli appartenenti alle Forze di polizia a ordinamento civile sono aggiornate alla luce dei nuovi gradi e qualifiche previsti nell'ordinamento militare.
Altre novità introdotte con il decreto legislativo in esame riguardano:
In relazione al decreto legislativo in esame si segnala che la sopra richiamata legge delega (articolo 1, comma 5 della legge n. 244 del 2012) non ha tempo previsto la facoltà di adottare successivi decreti legislativi correttivi; tale facoltà è stata, invece, prevista dalla legge n. 124/2015, concernente il riordino dei ruoli del personale delle Forze di polizia.
A sua volta, con il decreto legislativo n. 95 del 2017 è stata data attuazione alla delega recata dall’art. 8 della legge n. 124/2015 (legge di riorganizzazione della p.a.) per la revisione dei ruoli del personale delle Forze di polizia (Polizia di Stato; Arma dei carabinieri; Corpo della Guardia di finanza; Corpo di polizia penitenziaria).
Complessivamente la riforma disposta con il D. Lgs. 95/2017 ha perseguito le seguenti finalità:
• l'adeguamento delle dotazioni organiche di ciascun corpo rendendole più vicine alla consistenza effettiva del personale in servizio e rimodulandole nell'ambito dei diversi ruoli;
• la semplificazione dell'ordinamento, anche attraverso la rimodulazione e la valorizzazione del percorso formativo e la riduzione dei tempi per la conclusione delle procedure di selezione, anche attraverso l'utilizzo dei mezzi informatici;
• l'ampliamento delle opportunità di progressione in carriera attraverso la valorizzazione del merito e della professionalità, nonché dell'anzianità di servizio;
• l'elevazione del titolo di studio per l'accesso alla qualifica iniziale dei ruoli di base, nonché al possesso di titoli di studio universitari per la partecipazione al concorso ovvero per l'immissione in servizio, dopo il corso di formazione iniziale, nelle carriere degli ispettori e dei funzionari e ufficiali; l'ampliamento delle funzioni, in particolare, per il personale con qualifica e gradi apicali del ruolo degli agenti e assistenti, dei sovrintendenti e degli ispettori, con il conseguente intervento sui trattamenti economici connessi alle nuove funzioni e responsabilità
• l'adeguamento, in particolare, delle carriere degli ispettori e dei funzionari e ufficiali, attraverso la loro qualificazione professionale, rispettivamente, direttiva e dirigenziale, conseguente al potenziamento delle funzioni;
• l'adeguamento della disciplina della dirigenza e dei relativi trattamenti economici, con il superamento di alcuni istituti risalenti nel tempo.
L’articolo 35, secondo periodo, ricomprende, come si è detto, tra i soggetti destinatari dei futuri provvedimenti di riordino anche il personale del Corpo delle Capitanerie di porto.
Il Corpo delle Capitanerie di Porto -Guardia Costiera è un Corpo della Marina Militare che svolge compiti e funzioni collegate in prevalenza con l'uso del mare per i fini civili e con dipendenza funzionale da vari ministeri che si avvalgono della loro opera, primo fra tutti il Ministero delle Infrastutture e dei Trasporti che ha "ereditato" nel 1994, dal Ministero della marina mercantile, la maggior parte delle funzioni collegate all'uso del mare per attività connesse con la navigazione commerciale e da diporto e sul cui bilancio gravano le spese di funzionamento.
Il Corpo si configura come una struttura altamente specialistica, sia sotto il profilo amministrativo che tecnico-operativo, per l’espletamento di funzioni pubbliche statali che si svolgono negli spazi marittimi di interesse nazionale. Tali spazi comprendono 155.000 Kmq di acque marittime, interne e territoriali, che sono a tutti gli effetti parte del territorio dello Stato, nonchè ulteriori 350.000 KMq di acque sulle quali l'Italia ha diritti eslusivi (sfruttamento delle risorse dei fondali) o doveri (soccorso in mare e protezione dell'ambientemarino): un complesso di aree marine di estensione quasi doppia rispetto all'intero territorio nazionale che ammonta a 301.000 KMq.
Il Corpo dispone di un organico complessivo di circa 11.000 uomini e donne, distribuiti in una struttura capillare costituita da 15 Direzioni Marittime, 55 Capitanerie di porto, 51 Uffici Circondariali Marittimi, 128 Uffici Locali Marittimi e 61 Delegazioni di Spiaggia, mediante la quale il Corpo continua ad esercitare le proprie molteplici attribuzioni, sul mare e lungo le coste del Paese.
Il Corpo, inoltre, opera in regime di dipendenza funzionale dai diversi Dicasteri, tra i quali il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio? e del mare, e il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, che si avvalgono della sua organizzazione e delle sue competenze specialistiche. Le principali linee di attività sono:
Ø ricerca e soccorso in mare (SAR), con tutta l’organizzazione di coordinamento, controllo, scoperta e comunicazioni attiva nelle 24 ore che tale attività comporta;
Ø sicurezza della navigazione, con controlli ispettivi sistematici su tutto il naviglio nazionale mercantile, da pesca e da diporto e, attraverso l’attività di Port State Control, anche sul naviglio mercantile estero che scala nei porti nazionali;
Ø protezione dell’ambiente marino, in rapporto di dipendenza funzionale dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare , utilizzando sinergicamente a tal fine anche risorse (centrali operative, mezzi aereonavali, sistemi di controllo del traffico navale) già attivati per compiti di soccorso, sicurezza della navigazione e di polizia marittima;
Ø controllo sulla pesca marittima, in rapporto di dipendenza funzionale con il Ministero per le politiche agricole alimentari e forestali: a tal fine il comando generale è l’autorità responsabile del Centro Nazionale di Controllo Pesca e le Capitanerie effettuano i controlli previsti dalla normativa nazionale e comunitaria sull’intera filiera di pesca;
Ø amministrazione periferica delle funzioni statali in materia di formazione del personale marittimo, di iscrizione del naviglio mercantile e da pesca, di diporto nautico, di contenzioso per i reati marittimi depenalizzati;
Ø polizia marittima (cioè polizia tecnico-amministrativa marittima), comprendente la disciplina della navigazione marittima e la regolamentazione di eventi che si svolgono negli spazi marittimi soggetti alla sovranità nazionale, il controllo del traffico marittimo, la manovra delle navi e la sicurezza nei porti, le inchieste sui sinistri marittimi, il controllo del demanio marittimo, i collaudi e le ispezioni periodiche di depositi costieri e di altri impianti pericolosi.
Ulteriori funzioni sono svolte per i Ministeri della difesa (arruolamento personale militare), dei beni culturali e ambientali (archeologia subacquea), degli interni (contrasto immigrazione clandestina), della giustizia, del lavoro (Uffici di collocamento della gente di mare) e del dipartimento della protezione civile, tutte aventi come denominatore comune il mare e la navigazione.
Nel Fondo istituito dalla disposizione in esame sono dunque “cristallizzate” le residue risorse finanziarie già previste dall’autorizzazione di spesa di cui al citato articolo 3, comma 155, secondo periodo, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 incrementate dall’articolo in esame di un ulteriore stanziamento - a decorrere dal 2018 - di 5 milioni di euro annui.
Relativamente alle predette risorse, nella relazione tecnica allegata allo schema di decreto legislativo correttivo per le sole Forze di polizia (A.G. 35), presentato al Parlamento nel mese di luglio 2018, viene evidenziato come siano disponibili 30.120.313 euro per l' anno 2017, 15.089.182 euro per l'anno 2018 e 15.004.387 a decorrere dall' anno 2019, di cui all'articolo 7, comma 2, lettera a), del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148, derivanti dalle risorse finanziarie destinate alla revisione dei ruoli delle Forze di polizia, relative agli ulteriori risparmi di spesa conseguenti all'attuazione del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177 sulla razionalizzazione delle funzioni di polizia.
Lo schema di decreto legislativo in questione (A.G. 35) ha previsto, a sua volta, oneri finanziari così articolati (art. 22): 508.961 euro per l’anno 2018, 1.005.629 euro per l’anno 2019, 923.613 euro per l’anno 2020, 1.032.429 euro per l’anno 2021, 789.425 euro per l’anno 2022, 702.360 euro per l’anno 2023, 723.419 euro per l’anno 2024, 1.015.370 euro per l’anno 2025, 816.467 euro per l’anno 2026, 1.100.429 euro per l’anno 2027, 730.884 euro a decorrere dall’anno 2028.
Si ricorda infine che l’emendamento X1.600 approvato dalla Commissione referente (si veda scheda) introduce, all’art. 1 del disegno di legge di conversione, una disposizione di delega al Governo per l’adozione – entro il 30 settembre 2019 - di decreti legislativi integrativi e correttivi in materia di riordino dei ruoli delle Forze armate e delle Forze di polizia nei limiti delle risorse del fondo di cui al presente articolo.
Articolo 35-bis (em. 35.0.600 testo 2)
(Disposizioni in materia di assunzioni a tempo indeterminato di personale della polizia municipale)
Consente ai comuni, che abbiano rispettato i vincoli di finanza pubblica nell'ultimo triennio, di procedere nell'anno 2019 ad assunzioni di personale della polizia municipale in deroga ai vincoli previsti dalla legge di stabilità per il 2016.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 35.0.600 (testo 2).
Autorizza i comuni ad assumere personale della polizia municipale al fine rafforzare le attività connesse al controllo del territorio e di potenziare gli interventi in materia di sicurezza urbana.
La disposizione deroga esplicitamente all'articolo 1, comma 228, della legge di stabilità per il 2016 (L. 208/2015).
La L. 208/2015 dispone che le regioni e gli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno possono, per il triennio 2016-2018, assumere a tempo indeterminato personale di qualifica non dirigenziale nel limite di un contingente di personale corrispondente, per ciascuno dei predetti anni, ad una spesa pari al 25% di quella relativa al medesimo personale cessato nell’anno precedente[23].
Al riguardo si segnala che il richiamo alla legge di stabilità per il 2016 pare non tener conto che la stessa ha dettato una disciplina circoscritta al triennio 2016-2018, e che, pertanto, a partire dal 2019 la disciplina di riferimento è quella di cui all'articolo 3, comma 5, D.L. 90/2014 (v. infra). Si potrebbe valutare pertanto di sostituire il riferimento all'ar.1, comma 228, della legge di stabilità per il 2016 con quello all'art. 3, comma 5, del D.L. 90/2014, al fine di superare eventuali dubbi interpretativi circa l'applicabilità dei vincoli recati in tale ultima norma.
L'emendamento stabilisce che, nell'esercizio della facoltà di assumere personale della polizia municipale, i comuni:
i) non possano superare la spesa sostenuta per detto personale nell'anno 2016.
Si ricorda che agli enti locali e alle regioni sono stati imposti vincoli assunzioni a partire dal 2007.
Il comma 557 dell'art. 1 della legge n.296 del 2006 ha infatti stabilito limiti alla spesa per il personale, cui, nel tempo, si sono aggiunti vincoli in termini di facoltà assunzioni legate al contingente di personale cessato dal servizio (c.d. turnover).
Quanto al citato D.L. 90/2014, art.3, comma 5, la cui disciplina era stata derogata per il triennio 2016-2018 dalla L.208/2015 ma che tornerà ad applicarsi dal 2019, esso stabilisce che le regioni e gli enti locali hanno la facoltà di assumere un contingente di personale a tempo indeterminato pari ad una determinata percentuale della spesa per il personale di ruolo cessato nell'anno precedente[24]. Tale percentuale dal 2019 è pari al 100 per cento. Dal prossimo anno gli enti territoriali potranno pertanto assumere personale nel limite della spesa complessiva sostenuta per il personale cessato nell'anno precedente[25].
In altri termini, l'emendamento in esame introduce una norma ad hoc per le assunzioni di personale della polizia municipale, che risulta più favorevole della disciplina riferita al restante personale nella misura in cui la spesa sostenuta nel 2016 dal comune interessato per il personale addetto alla polizia municipale sia superiore alla spesa sostenuta nel 2018 per il proprio personale nel suo complesso.
ii) debbano conseguire l'equilibrio di bilancio.
Si rammenta che i bilanci delle regioni, dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle province autonome di Trento e di Bolzano si considerano in equilibrio quando, sia nella fase di previsione che di rendiconto, conseguono un saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali (art. 9 della L.243/2012).
L'emendamento in commento è diretto ai comuni che hanno rispettato gli obiettivi dei vincoli di finanza pubblica nel triennio 2016-2018.
Si tratta di una disposizione in linea con la normativa vigente (art. 1, comma 475[26], L. 232/2016) che prevede, in caso di mancato conseguimento del saldo non negativo fra entrate finali e spese finali, il divieto assoluto di effettuare assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualunque tipologia contrattuale.
Ai sensi della normativa vigente (v. il citato comma 475) è comunque possibile procedere ad assunzioni di personale a tempo determinato, con contratti di durata massima fino al 31 dicembre del medesimo esercizio, qualora le stesse siano necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni di protezione civile, di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale nel rispetto del limite di spesa previsti dalla legislazione vigente. Tale facoltà non è incisa dall'emendamento in esame atteso che quest'ultimo si riferisce esclusivamente ad assunzioni a tempo indeterminato.
Il secondo periodo dell'emendamento dispone che le cessazioni nell'anno 2018 del predetto personale non rilevano ai fini del calcolo della facoltà assunzionali del restante personale.
Con riferimento al comparto in esame, si ricorda che una disciplina per molti aspetti analoga a quella proposta dall'emendamento in esame (ma in quel caso per il biennio precedente) era stata introdotta con l'art.7, comma 2-bis, del D.L. 14/2017.
Il comma 2-bis autorizza, per gli anni 2017 e 2018, i comuni che, nell'anno precedente, hanno rispettato gli obiettivi del pareggio di bilancio, ad assumere a tempo indeterminato, personale di polizia locale nel limite di spesa individuato applicando le percentuali stabilite dall'articolo 3, comma 5, del D.L. n. 90/2014 (e quindi in deroga all'art.1, comma 228, della L.208/2015, v. supra) alla spesa relativa al personale della medesima tipologia cessato nell'anno precedente. Ciò, fermo restando il rispetto degli obblighi di contenimento della spesa di personale di cui all'articolo 1, commi 557 e 562, della L. 296/2006 e precisando che le cessazioni del personale della polizia municipale dell'anno precedente non rilevassero ai fini del calcolo delle facoltà assunzionali del restante personale.
Articolo 35-bis (em. 35.0.604)
(Modifiche all'articolo 50 del Testo unico degli enti locali)
Interviene sulla disciplina delle ordinanze di ordinaria amministrazione del Sindaco in materia di orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche estendendo l'ambito anche agli alimenti, ampliando l'ambito territoriale di applicabilità alle aree cittadine interessate da fenomeni di aggregazione notturna e introducendo sanzioni nel caso di inosservanza delle stesse.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 35.0.604.
Interviene sulla disciplina relativa al potere di ordinanza demandato al Sindaco, in qualità di rappresentante della comunità locale[27], dal Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL - art.50, commi 5 e seguenti, del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267).
L'emendamento si compone di due lettere.
· La lettera a) intende modificare il comma 7-bis dell'art.50 del TUEL[28].
Quest'ultimo attribuisce al Sindaco il potere di adottare ordinanze di ordinaria amministrazione, non contingibili e urgenti, per disporre limitazioni in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche.
Tali ordinanze:
i) sono valide ed efficaci per non più di trenta giorni;
ii) mirano ad assicurare il soddisfacimento delle esigenze di tutela della tranquillità, del riposo dei residenti, nonché dell’ambiente e del patrimonio culturale, in determinate aree delle città interessate da afflusso di persone di particolare rilevanza, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi; iii) sono adottate nel rispetto delle disposizioni relative alla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’articolo 7 della legge n.241 del 1990.
Sono due le modifiche proposte all'art.7-bis, con le finalità di seguito indicate.
1) Un primo obiettivo è l'estensione dell'ambito territoriale di applicabilità dell'ordinanza, ora circoscritto alle sole aree delle città interessate da afflusso particolarmente rilevante di persone, ad "altre aree comunque interessate da fenomeni di aggregazione notturna";
2) Una seconda finalità parrebbe quella di contrastare il degrado urbano, estendendo il potere di ordinanza anche per la limitare gli orari di vendita del settore alimentare o misto e delle attività artigianali di produzione e vendita di prodotti di gastronomia pronti per il consumo immediato nonché di vendita e somministrazione di alimenti e bevande erogati attraverso distributori automatici.
Il comma 7-bis dell'art.143, come eventualmente modificato dall'emendamento in commento, verrebbe ad assumere una struttura normativa complessa, che potrebbe favorire dubbi interpretativi circa la sua effettiva portata. Si potrebbe pertanto valutare una riformulazione della lettera b) dell'emendamento al fine di rendere più agevole la lettura della disposizione del TUEL.
· La lettera b) introduce, dopo il comma 7-bis dell'art.50 del TUEL, un comma aggiuntivo, relativo alle sanzioni in caso di inosservanza delle ordinanze sindacali.
È prevista, in via ordinaria, una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 500 a 5.000 euro. Se la medesima violazione si ripete nell'arco di un anno, è prevista la sospensione dell'attività per un massimo di quindici giorni.
L'emendamento opera un esplicito rinvio, in caso di recidiva, alle disposizioni di cui all'articolo 12, comma 1, del decreto-legge 14/2017 che attribuiscono al questore il potere di sospendere l’attività commerciale per un massimo di quindici giorni nel caso di violazione delle ordinanze emanate ai sensi dell'art 50, commi 5[29] e 7[30].
Articolo 36
(Razionalizzazione delle procedure di gestione e destinazione dei beni confiscati)
L’articolo 36 reca modifiche al codice antimafia in materia di procedure di gestione e destinazione dei beni confiscati.
Su questo articolo la Commissione referente ha approvato gli EMENDAMENTI 36.500, 36.501, 36.502, 36.503, 36.504, 36.600, 36.6 (testo 2) e 36.18 (testo 2).
L'articolo 36, comma 1, modifica l'articolo 35 del codice antimafia relativo alla nomina e revoca dell'amministratore giudiziario. In particolare il comma 2 dell'articolo 35 del codice antimafia prevede, fra le altre, che con decreto interministeriale siano individuati i criteri di nomina degli amministratori giudiziari e dei coadiutori che tengano conto del numero di incarichi aziendali in corso, comunque non superiori a tre. Il comma 2 prevede inoltre che all'atto della nomina l'amministratore giudiziario è tenuto - proprio per il limite suddetto - a comunicare al tribunale se e quali incarichi analoghi egli abbia in corso anche se conferiti da altra autorità.
Tale limite - come rileva la relazione illustrativa - impedisce al professionista di assumere ulteriori incarichi, costringendolo a scegliere l'ente committente, Autorità giudiziaria o Agenzia, per il quale svolgere l'incarico, con plausibile prevalenza della prima sulla seconda per motivazioni di ordine economico.
Il decreto legge, al fine di evitare "la stasi gestionale" originata dalla norma suddetta, consente al professionista di poter acquisire, se del caso, tre incarichi dall'autorità giudiziaria, mantenendo le gestioni già in essere quale coadiutore dell'Agenzia.
Nel corso dell'esame in Commissione referente è stato approvato l'emendamento 36.500, con il quale è stato proposto l'inserimento di un ulteriore comma nell'articolo 36.
La nuova disposizione sostituisce il comma 3 dell'articolo 35-bis del codice antimafia (Responsabilità nella gestione e controlli della pubblica amministrazione). Il comma 3, nella formulazione vigente, prevede che, al fine di consentire la prosecuzione dell'attività dell'impresa sequestrata o confiscata, il prefetto della provincia rilasci all'amministratore giudiziario la nuova documentazione antimafia, la quale ha validità per l'intero periodo di efficacia dei provvedimenti di sequestro e confisca dell'azienda e sino alla destinazione della stessa. L'emendamento governativo interviene sulla procedura, eliminando la competenza del prefetto. Il comma, come riformulato, prevede che dalla data di nomina dell'amministratore giudiziario e sino all'eventuale provvedimento di dissequestro o di revoca della confisca ovvero alla data di destinazione dell'azienda, sono sospesi gli effetti della pregressa documentazione antimafia interdittiva, nonché le procedure pendenti preordinate al conseguimento dei medesimi effetti.
Il comma 2 dell'articolo in esame modifica poi, l'articolo 38 del codice antimafia, che disciplina i compiti dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati. Il decreto-legge:
· consente all'Agenzia di individuare il coadiutore, di cui l'ente si avvale per la gestione dei beni confiscati fino all'emissione del provvedimento di destinazione, anche tra soggetti diversi da quello nominato amministratore giudiziario dal tribunale (num. 1);
· precisa che, se diverso dall'amministratore giudiziario, il soggetto individuato debba essere comunque in possesso della specifica professionalità richiesta per gli amministratori giudiziari (num. 2).
I commi 2-bis e 2-ter dell'articolo 35 del codice antimafia prevedono che l'amministratore deve essere scelto tra gli iscritti nella sezione di esperti in gestione aziendale dell'Albo nazionale degli amministratori giudiziari. L'amministratore inoltre può essere altresì nominato tra il personale dipendente dell'Agenzia.
Nel corso dell'esame in Commissione referente è stato approvato l' emendamento 36.504, il quale premette una ulteriore lettera (la lettera 0a) al comma 2 dell'articolo 36 del decreto legge. La nuova disposizione interviene sul comma 2 dell'articolo 38 del codice antimafia.
Tale disposizione - a legislazione vigente - prevede che all'Agenzia sono comunicati per via telematica i provvedimenti di modifica o revoca del sequestro e quelli di autorizzazione al compimento di atti di amministrazione straordinaria. L'Agenzia effettua le comunicazioni telematiche con l'autorità giudiziaria attraverso il proprio sistema informativo inserendo tutti i dati necessari per consentire quanto previsto dagli articoli 40, comma 3-ter[31], e 41, comma 2-ter[32]. La mancata pubblicazione comporta responsabilità dirigenziale.
L'emendamento approvato prevede in primo luogo che all'Agenzia debbano essere comunicati anche i dati individuati dal regolamento di attuazione previsto dall'articolo 113, comma 2, lettera c), indispensabili per lo svolgimento dei propri compiti istituzionali
L'articolo 113, comma 1 (l'emendamento richiama - erroneamente - il comma 2), demanda ad uno o più regolamenti la disciplina relativa a:
a) l'organizzazione e la dotazione delle risorse umane e strumentali per il funzionamento dell'Agenzia, selezionando personale con specifica competenza in materia di gestione delle aziende, di accesso al credito bancario e ai finanziamenti europei;
b) la contabilità finanziaria ed economico-patrimoniale relativa alla gestione dell'Agenzia, assicurandone la separazione finanziaria e contabile dalle attività di amministrazione e custodia dei beni sequestrati e confiscati;
c) i flussi informativi necessari per l'esercizio dei compiti attribuiti all'Agenzia nonché le modalità delle comunicazioni, da effettuarsi per via telematica, tra l'Agenzia e l'autorità giudiziaria.
L'emendamento poi, modificando il secondo periodo del comma 2 dell'articolo 38 del codice antimafia, prevede che l'Agenzia debba effettuare le comunicazioni telematiche con l'autorità giudiziaria attraverso il proprio sistema informativo "aggiornando dalla data del provvedimento di confisca di secondo grado".
Infine l'emendamento sopprime l'ultimo periodo del comma 2, il quale, come ricordato, precisa che la mancata pubblicazione comporta responsabilità dirigenziale.
Nel corso dell'esame in Commissione referente sono stati approvati due ulteriori emendamentI 36.501 e 36.502 all'articolo 36, volti ad inserire due nuovi commi dopo il comma 2.
Il primo dei due nuovi commi modifica l'articolo 41-ter (Istituzione dei tavoli provinciali permanenti sulle aziende sequestrate e confiscate, presso le prefetture-uffici territoriali del Governo) del codice antimafia. La disposizione del codice antimafia prevede, nella sua formulazione vigente, l'istituzione - al fine di favorire il coordinamento tra le istituzioni, le associazioni, le organizzazioni sindacali e le associazioni dei datori di lavoro più rappresentative a livello nazionale- presso le prefetture-uffici territoriali del Governo, di tavoli provinciali permanenti sulle aziende sequestrate e confiscate. La proposta di modifica rende facoltativa l'istituzione di tali tavoli: spetterà al prefetto valutare se procedere alla istituzione di un tavolo provinciale o meno.
Il secondo dei nuovi commi apporta due modifiche all'articolo 43 del codice antimafia il quale disciplina il rendiconto di gestione.
Il vigente comma 1 dell'articolo 43 del codice antimafia prevede che, all'esito della procedura, e comunque dopo il provvedimento di confisca di primo grado, entro sessanta giorni dal deposito, l'amministratore giudiziario debba presentare al giudice delegato il conto della gestione. La proposta di modifica stabilisce che l'amministratore giudiziario debba presentare il conto di gestione entro sessanta giorni anche dal deposito del provvedimento di confisca di secondo grado.
Inoltre la proposta di modifica sostituisce il comma 5-bis dell'articolo 43, il quale, nella formulazione vigente, prevede che l'Agenzia provvede al rendiconto qualora il sequestro sia revocato. In ogni altro caso trasmette al giudice delegato una relazione sull'amministrazione dei beni, esponendo le somme pagate e riscosse, le spese sostenute e il saldo finale. Il giudice delegato, all'esito degli eventuali chiarimenti richiesti, prende atto della relazione.
La proposta ridisciplina il rendiconto dell'Agenzia nazionale quale amministratore dei beni, prevedendo che l'Agenzia sia tenuta a presentare il rendiconto nel caso di revoca della confisca. Nel caso di confisca definitiva l'Agenzia deve trasmettere al giudice delegato una relazione sull'amministrazione dei beni una relazione sull'amministrazione dei beni, esponendo le somme pagate e riscosse, le spese sostenute e il saldo finale. Il giudice delegato, all'esito degli eventuali chiarimenti richiesti, prende atto della relazione.
In Commissione referente è stato, inoltre, approvato l' emendamento 36.600, il quale aggiunge un ulteriore comma (il comma 2-bis) all'articolo 44 del codice antimafia, in materia di gestione dei beni confiscati.
L'articolo 44 attribuisce all'Agenzia la gestione dei beni confiscati anche in via non definitiva dal decreto di confisca della corte di appello. L'Agenzia deve provvedere al rimborso ed all'anticipazione delle spese, nonché alla liquidazione dei compensi che non trovino copertura nelle risorse della gestione, anche avvalendosi di apposite aperture di credito disposte, a proprio favore, sui fondi dello specifico capitolo istituito nello stato di previsione della spesa del Ministero dell'economia e delle finanze, salva, in ogni caso, l'applicazione della normativa di contabilità generale dello Stato. Per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione l'Agenzia deve richiedere il nulla osta al giudice delegato.
Il nuovo comma 2-bis dell'articolo 44 prevede che per il recupero e la custodia dei veicoli a motore e dei natanti confiscati, l'Agenzia applica le tariffe stabilite con il decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, emanato ai sensi dell'articolo 59 del testo unico in materia di spese di giustizia[33]. Ferme restando tali tariffe l'Agenzia può avvalersi di aziende da essa amministrate operanti nello specifico settore.
Il comma 3 apporta numerose modifiche all'articolo 48 del codice antimafia relativo alla destinazione dei beni e delle somme confiscate.
L'articolo 48, comma 3, del codice antimafia- nella formulazione vigente prima del decreto-legge, prevede varie modalità di destinazione dei beni immobili confiscati. Questi in particolare possono:
· essere mantenuti al patrimonio dello Stato (lett. a e b);
· essere trasferiti in via prioritaria al patrimonio del Comune ove l'immobile è sito; ovvero al patrimonio della provincia o della Regione per finalità istituzionali o sociali (lett. c);
· essere assegnati gratuitamente all'Agenzia o ad una serie di altri soggetti (lett. c-bis);
· essere trasferiti al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, se confiscati per il reato di cui all'articolo 74 del TU stupefacenti (lett. d);
Il comma 3 dell'articolo 36 - in relazione al quale la Commissione referente ha approvato l'emendamento 36.6 (testo 2) - del decreto legge, alla lettera a):
· corregge un refuso contenuto nell'articolo 48 del codice antimafia, nel quale si fa erroneamente riferimento al "Presidente del consiglio dei ministri" invece che al Ministro dell'interno.
A ben vedere al Presidente del Consiglio, secondo l'originaria formulazione del progetto di riforma dal quale è poi scaturita la legge n. 161 del 2017, veniva attribuita la vigilanza sull'Agenzia. Nel testo definitivo della riforma la competenza invece è rimasta in capo al Ministro dell'interno;
· ricomprende le città metropolitane nel novero degli enti territoriali cui possono essere trasferiti i beni immobili confiscati, con la precisazione che essi confluiscono nel relativo patrimonio indisponibile con ciò rendendo esplicito il vincolo che ne preclude il distoglimento dal fine pubblico assegnato;
· supera l'attuale automaticità del trasferimento al Comune dei beni nel caso di confisca conseguente al reato di cui all'articolo 74 del TU in materia di stupefacenti, per la loro destinazione a centri di cura e recupero di tossicodipendenti ovvero a centri e case di lavoro per i riabilitati.
Come sottolinea la relazione illustrativa tale modifica tiene conto della circostanza che non tutti i beni confiscati per tale reato possono prestarsi a tali usi e che gli enti coinvolti potrebbero comunque non essere in grado di utilizzarli.
La lettera b) del comma 3 dell'articolo 36 integra il comma 4 dell'articolo 48 del codice antimafia prevedendo un incremento dei fondi per la contrattazione integrativa grazie ad una quota non superiore al 30% dei proventi e comunque non oltre il 15% del trattamento accessorio in godimento al personale dell'Agenzia, definita con decreto del Ministro dell'interno di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze su proposta dell'Agenzia, derivante dall'utilizzo dei beni immobili confiscati utilizzati dall'Agenzia per finalità economiche.
La lettera c) introduce all'articolo 48 del codice antimafia un ulteriore comma (comma 4-bis) il quale prevede che gli enti territoriali possono richiedere gli immobili confiscati anche allo scopo di incrementare l'offerta sul loro territorio di alloggi da assegnare in locazione a soggetti in particolare condizione di disagio economico o sociale.
La lettera d) riscrive i commi 5, 6 e 7 dell'articolo 48 del codice antimafia, i quali delineano il procedimento di vendita dei beni confiscati.
Tali disposizioni, nella formulazione vigente prima del decreto-legge prevedevano:
· l'osservanza, in quanto compatibili, delle disposizioni del codice di rito civile, con avviso di vendita pubblicato nel sito dell'Agenzia e notizia nei siti dell'Agenzia del demanio e della Prefettura della provincia interessata;
· la vendita per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stima. Nel caso in cui, entro 90 giorni dalla data di pubblicazione dell'avviso di vendita, non pervengano all'Agenzia proposte di acquisto per il corrispettivo sopra indicato, il prezzo minimo della vendita non può essere determinato in misura inferiore all'80% del valore della stima;
· il diritto di opzione prioritaria sull'acquisto per le cooperative edilizie costituite dal personale delle forze armate e di quelle di polizia (comma 6);
· la prelazione all'acquisto per gli enti territoriali (la definizione dei cui termini e modalità è demandata ad un successivo Regolamento) (comma 7);
· la vendita agli enti pubblici aventi tra le altre finalità istituzionali anche quella dell'investimento nel settore immobiliare, alle associazioni di categoria che assicurano maggiori garanzie ed utilità per il perseguimento dell'interesse pubblico e alle fondazioni bancarie;
· il divieto di alienazione per cinque anni dalla data di trascrizione del contratto di vendita;
· la richiesta al prefetto della provincia interessata di un parere obbligatorio, sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica e di ogni informazione utile affinché i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti ai quali furono confiscati, da soggetti altrimenti riconducibili alla criminalità organizzata ovvero utilizzando proventi di natura illecita.
Il decreto-legge riformula il comma 5:
· prevedendo che l'avviso di vendita debba essere pubblicato sui soli siti dell'Agenzia e dell'Agenzia del demanio.
Come precisa la relazione illustrativa l'obbligo di pubblicazione anche sul sito della prefettura rischia di costituire un possibile fattore di ritardo/irregolarità della procedura concorsuale a fronte di ridotti vantaggi in termini di pubblicità dell'asta;
· ampliando la platea dei possibili acquirenti. Si prevede infatti la possibilità di aggiudicazione al migliore offerente, con il bilanciamento di rigorose preclusioni e dei conseguenti controlli, allo scopo di assicurare che comunque il bene non torni all'esito dell'asta nella disponibilità della criminalità organizzata. A tal fine la disposizione prevede il rilascio dell'informazione antimafia.
· Introducendo una procedura di regolarizzazione dell'immobile nei frequenti casi di irregolarità urbanistiche sanabili.
In proposito rileva la relazione illustrativa, come in base alla legislazione vigente prima del decreto legge, non fosse possibile per l'Autorità applicare la deroga prevista per le procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali ex articolo 46, comma 5 del TU edilizia, in base al quale se l'immobile si trova nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, l'aggiudicatario può presentare domanda di permesso in sanatoria entro 120 giorni dal trasferimento del bene. La mancanza di un'analoga previsione con riguardo ai beni confiscati comportava che in caso di sanabilità dell'opera l'onere di proporre la relativa istanza al Comune e poi di provvedere in concreto alla sanatoria ricadeva sull'Agenzia prima della vendita, con un onere ingente e con l'incertezza della vendita.
I nuovi commi 6 e 7 ridelineano la disciplina relativa all'esercizio del diritto di prelazione.
Si prevede in particolare che la prelazione all'acquisto può essere esercitata, a pena di decadenza, nei termini stabiliti dall'avviso pubblico, salvo recesso qualora la migliore offerta pervenuta non sia ritenuta di interesse.
Inoltre è ampliato il novero dei soggetti cui è riconosciuta la prelazione all'acquisto: oltre che agli enti territoriali il diritto di prelazione è riconosciuto anche:
· agli enti pubblici aventi tra le altre finalità istituzionali anche quella dell'investimento nel settore immobiliare,
· alle associazioni di categoria che assicurano maggiori garanzie ed utilità per il perseguimento dell'interesse pubblico
· alle fondazioni bancarie;
· alle cooperative edilizie costituite da personale delle Forze di polizia o delle Forze armate (come detto, prima del decreto-legge, a queste era riconosciuto "il diritto di opzione prioritaria").
La lettera e) inserisce un ulteriore comma, il 7-ter, nell'articolo 48 del codice antimafia, il quale prevede una specifica disciplina per la destinazione dei beni confiscati indivisi.
In questi casi l'Agenzia o il partecipante alla comunione possono promuovere incidente d'esecuzione ex art. 666 c.p.p.. In questi casi il tribunale, disposti i necessari accertamenti tecnici, adotta gli opportuni provvedimenti per ottenere la divisione del bene. La disciplina contempla più ipotesi:
· nel caso in cui il bene sia indivisibile: i partecipanti in buona fede possono chiedere l'assegnazione dell'immobile oggetto di divisione, previa corresponsione del conguaglio dovuto in favore degli aventi diritto, conformemente al valore stimato dal perito del tribunale;
· nel caso in cui l'assegnazione è richiesta da più partecipanti della comunione si fa luogo alla stessa in favore del partecipante titolare della quota maggiore o anche in favore di più partecipanti, se questi la chiedono congiuntamente;
· nel caso in cui l'assegnazione non è chiesta, si procede alla vendita a cura dell'Agenzia e gli altri partecipanti alla comunione hanno diritto alla corresponsione di una somma pari al valore stimato dal perito nominato dal tribunale, con salvezza dei diritti dei creditori iscritti e dei cessionari;
· nel caso di acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, il tribunale ordina il pagamento delle somme, ponendole a carico del Fondo Unico Giustizia.
Nel corso dell'esame in Commissione referente con l'approvazione dell'emendamento 36.6 (testo 2) è stato proposto l'inserimento anche di un ulteriore comma 7-quater all'articolo 48 del codice antimafia, il quale prevede che le modalità di attuazione della disposizione di cui al comma 7-ter, ai sensi della quale, in caso di acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, il tribunale ordina il pagamento delle somme, ponendole a carico del Fondo unico giustizia, sono stabilite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della giustizia.
Con riguardo alla lettera f) nel corso dell'esame in Commissione referente è stato approvato l'emendamento 36.18 (testo 2).
La lettera f), come modificata nel senso proposto dalla Commissione, riscrive il comma 10 dell'articolo 48 del codice antimafia al fine di dare maggiore concretezza all'autonomia riconosciuta dalla legge all'Agenzia. In particolare il comma come modificato prevede una differente ripartizione dei proventi derivanti dalla vendita dei beni confiscati, il novanta percento di tali somme confluiscono nel Fondo Unico Giustizia per essere riassegnati come segue:
· 40% al Ministero dell'interno;
· 40% al Ministero della giustizia
· 20% all'Agenzia per assicurare lo sviluppo delle proprie attività istituzionali.
Il restante dieci per cento delle somme ricavate dalla vendita invece confluisce in un fondo, istituito presso il Ministero dell'interno, per le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dei beni.
Il comma 10, nella formulazione vigente prima del decreto-legge, preveda che le somme derivanti dalla vendita dei beni confiscati dovessero confluire nel Fondo Unico Giustizia per essere riassegnate al 50% per ciascuno dei Ministeri della giustizia e dell'interno.
La lettera g) inserisce il nuovo comma 12-ter nell'articolo 48 del codice antimafia. La nuova disposizione prevede la possibilità di destinare alla vendita, con divieto di cessione per un periodo non inferiore ad un anno, ovvero di distruggere i beni mobili confiscati non utilizzabili dalla stessa Agenzia, né dagli anti enti o dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco per esigenze del soccorso pubblico.
La lettera h) infine introduce sempre all'articolo 48 del codice antimafia un ulteriore comma, il 15-quater, il quale prevede che i beni sequestrati e confiscati che rimangono invenduti decorsi tre anni dall'avvio della procedura, sono mantenuti al patrimonio dello Stato, con provvedimento dell'Agenzia, alla quale resta peraltro affidata la gestione.
Nel corso dell'esame in Commissione referente è stato infine approvato l'emendamento 36.503, il quale introduce un ulteriore comma, dopo il comma 3, all'articolo 36. La disposizione proposta modifica il comma 3-ter dell'articolo 51 del codice antimafia, relativo al regime-fiscale e degli oneri economici. Il comma 3-ter, nella sua formulazione vigente, prevede che qualora sussista un interesse di natura generale, l'Agenzia può richiedere, senza oneri, i provvedimenti di sanatoria, consentiti dalle vigenti disposizioni di legge delle opere realizzate sui beni immobili che siano stati oggetto di confisca definitiva. L'emendamento approvato sostituisce il riferimento alla sussistenza di un interesse di natura generale con il richiamo al perseguimento delle proprie finalità istituzionali.
Il comma 4 dell'articolo 36 del decreto-legge reca la clausola di invarianza finanziaria, precisando che le amministrazioni interessate devono provvedere ai nuovi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Articolo 36-bis (em. 36.0.100)
(Iscrizione di provvedimenti al Registro delle imprese)
L’articolo 36-bis modifica il Codice antimafia per prevedere che tutti i provvedimenti giudiziari relativi al sequestro e alla confisca di prevenzione, relativi a imprese o società, debbano essere iscritti nel registro delle imprese.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 36.0.100.
L'articolo interviene sulla disciplina dell'amministrazione, gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati prevista dal Codice antimafia (d.lgs. n. 159 del 2011), introducendovi l’articolo 51-bis.
Tale nuova previsione impone alle cancellerie giudiziarie di richiedere al registro delle imprese l’iscrizione di una serie di provvedimenti adottati dal giudice nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale relativo ad imprese e società.
In particolare, dovranno essere iscritti i seguenti atti:
- il decreto di sequestro (art. 20 Codice);
- il decreto di confisca (art. 24 Codice);
- il provvedimento del tribunale che dispone l’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende quando non ricorrono i presupposti per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali ma sussistono indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, sia direttamente o indirettamente sottoposto al condizionamento mafioso (art. 34 Codice);
- il provvedimento del tribunale che, in presenza dei medesimi presupposti, dal carattere occasionale, dispone il controllo giudiziario delle attività economiche e delle aziende (art. 34-bis Codice);
- il provvedimento di nomina dell’amministratore giudiziario delle aziende (art. 41 Codice);
- il provvedimento definitivo di confisca (art. 45 Codice).
L’elencazione non ha carattere esaustivo in quanto l’art. 51-bis precisa che dovranno essere iscritti anche «tutti i provvedimenti giudiziari» previsti dal Codice antimafia, «comunque denominati, relativi ad imprese, a società o a quote delle stesse».
La cancelleria dovrà presentare istanza al registro delle imprese entro il giorno successivo al deposito del provvedimento giudiziario.
Per le modalità di presentazione dell’istanza si rinvia alla legge n. 580 del 1993, di riordino delle camere di commercio, che all’art. 8 disciplina appunto il registro delle imprese. Nelle more dell’emanazione di uno specifico regolamento (proposta del Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro della giustizia e con Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, in base all’art. 8, comma 6-bis), la richiesta di iscrizione dovrà essere effettuata con le modalità previste dal D.P.R. n. 581 del 1995 (in base all’art. 8, comma 6-ter).
Si valuti la formulazione della disposizione con particolare riferimento all’esigenza di specificare – non solo nella rubrica dell’articolo – che i provvedimenti giudiziari devono essere iscritti nel registro delle imprese.
Articolo 37
(Disposizioni in materia di organizzazione e di organico dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata)
L’articolo 37 incide, novellandole, sulle disposizioni del Codice antimafia, relative all'organizzazione e all'organico dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati.
La disposizione modifica in primo luogo l'articolo 110 del codice antimafia prevedendo la possibilità di istituire fino a 4 sedi secondarie dell'Agenzia. E' soppressa inoltre la previsione per la quale le sedi dell'Agenzia devono essere stabilite in immobili confiscati (comma 1).
In base all'articolo 110, comma 1, del codice antimafia, nella formulazione in vigore prima del decreto-legge in conversione:
· sono previste due sedi dell'Agenzia: una sede principale a Roma; la sede di e una sede secondaria a Reggio Calabria. In concreto, tuttavia, come evidenzia la relazione tecnica, attualmente permangono, oltre alla sede di Reggio Calabria, anche altre 3 sedi (Palermo, Napoli e Milano) istituite prima dell’entrata in vigore della legge n. 161 del 2017 (che ha modificato l'articolo 110 nel senso qui illustrato), e temporaneamente salvaguardate (rectius "fino all'adeguamento della pianta organica dell'Agenzia") dall’art. 1, comma 292, della legge n. 205 del 2017.
· le sedi, compatibilmente con le esigenze di funzionalità, devono essere stabilite in immobili confiscati alla criminalità organizzata;
· l'Agenzia, dotata di personalità giuridica e di autonomia organizzativa e contabile, è posta sotto la vigilanza del Ministro dell'Interno.
L'articolo 37, al comma 2, interviene poi sull'articolo 112 del codice antimafia:
· prevedendo che alla istituzione delle ulteriori sedi secondarie (vedi supra) provveda l'Agenzia stessa con delibera del Consiglio direttivo. Tali sedi devono essere istituite in regioni ove sono presenti in quantità significativa beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (lettera a, n. 1);
· sopprimendo il parere motivato del Comitato consultivo di indirizzo preliminare alla delibera del Consiglio direttivo con la quale l'Agenzia approva il bilancio preventivo e quello consultivo (lettera a), n. 2 e lettera b).
Il Comitato consultivo di indirizzo è un organo dell'Agenzia, il quale esprime pareri e può presentare proposte. Presieduto dal Direttore dell'Agenzia, esso è composto da undici unità, senza compensi o emolumenti. I membri del Comitato sono rappresentanti dei Ministeri (sviluppo economico; lavoro; istruzione), degli enti territoriali (Regioni; Comuni), delle associazioni del terzo settore, delle associazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, delle cooperative, delle associazioni dei datori di lavoro, un esperto in politica di coesione territoriale (designato dal Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica), un responsabile dei fondi del Programma operativo nazionale "sicurezza" (designato dal Ministro dell'interno). Alle riunioni del Comitato consultivo di indirizzo possono essere chiamati a partecipare rappresentanti del territorio ove si trovino i beni e aziende confiscati.
L'articolo 37, infine, modifica l'articolo 113-bis del codice antimafia in materia di organico dell'Agenzia (comma 3).
E' opportuno ricordare che la dotazione organica dell'Agenzia è determinata dall'articolo 113-bis del codice antimafia in 200 unità complessive ripartite tra le diverse qualifiche.
Più nel dettaglio il comma 3 dell'articolo 37 del decreto-legge:
· limita a 100 - su un totale di 170 previste – le unità di personale da reclutare per il potenziamento dell’organico dell’Agenzia attraverso procedure ordinarie di mobilità (lettera a);
· dispone che le restanti 70 unità possano essere reclutate mediante procedure selettive pubbliche, con oneri a carico dell’Agenzia, mentre per quanto riguarda la spesa “a regime” si provvede ai sensi dell’articolo 41 che detta disposizioni per la copertura finanziaria dei Titoli II e III del provvedimento (lettera b);
· aggiunge due ulteriori commi (4-bis e 4-ter) all'articolo 113-bis del codice antimafia (lettera c).
o Il primo dei due nuovi commi (4-bis) prevede che, nell'ambito della contrattazione collettiva 2019-2021, venga individuata l'indennità di amministrazione spettante agli appartenenti ai ruoli dell'Agenzia, in misura pari a quella corrisposta al personale della corrispondente area del Ministero della giustizia.
Si tratta di una previsione che, come rileva la relazione illustrativa, è volta ad ovviare ad una evidente lacuna normativa. A ben vedere infatti non è mai stata definita l’indennità di amministrazione dell’Agenzia. Tale circostanza, considerata la rilevanza per il personale di tale voce retributiva, fissa e pensionabile, rischia di fatto di minare significativamente gli esiti dell’attività di reclutamento sin dalle procedure di inquadramento e mobilità.
o Il secondo dei due nuovi commi (4-ter) prevede che l’Agenzia può continuare ad avvalersi di un contingente di personale in posizione di comando, distacco e fuori ruolo:
In proposito è opportuno ricordare che il comma 291 dell'articolo 1 della legge n. 205 del 2017 (per l'abrogazione della disposizione si veda l'articolo 38) ha autorizzato, fino all’adeguamento dell’organico, l'Agenzia ad avvalersi di unità - fino a 100 - di personale di amministrazioni pubbliche ed enti pubblici economici, in posizione di comando o di distacco. Negli stessi limiti, la disposizione ha previsto che possa essere oggetto di comando presso l’Agenzia un massimo di 20 unità di personale, con analoga qualifica, proveniente dalle Forze di polizia a ordinamento civile e militare. Il personale di cui si avvalga l'Agenzia può essere distaccato o comandato anche in deroga alla vigente normativa sulla mobilità e nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 17, comma 14 della legge n. 127 del 1997 (il quale prevede che nel caso in cui disposizioni di legge o regolamentari dispongano l'utilizzazione presso le amministrazioni pubbliche di un contingente di personale in posizione di fuori ruolo o di comando, le amministrazioni di appartenenza sono tenute ad adottare il provvedimento di fuori ruolo o di comando entro quindici giorni dalla richiesta). Il personale interessato dalla disposizione conserva il proprio stato giuridico ed economico. I relativi oneri finanziari sono a carico dell’amministrazione di appartenenza. Spetta all'Agenzia nazionale il rimborso a tali amministrazioni dei soli oneri di trattamento accessorio.
Articolo 37-bis (em. 37.0.500)
(Organizzazione e funzionamento dell'Agenzia)
L’articolo 37-bis modifica l'articolo 113 del codice antimafia in materia di organizzazione e funzionamento dell'Agenzia, prevedendo che essa possa richiedere la collaborazione di Amministrazioni centrali dello Stato, di Agenzie fiscali o di altri enti pubblici.
Si tratta di articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione referente con l'approvazione dell'EMENDAMENTO 37.0.500.
L'articolo modifica in particolare il comma 3 dell’articolo 113 del codice antimafia.
L'articolo 113 del codice antimafia demanda la disciplina dell'organizzazione e del funzionamento dell'Agenzia ad uno o più Regolamenti. Il comma 3 dell'articolo 113, nella sua formulazione vigente, prevede, in particolare, che l'Agenzia, per l'assolvimento dei suoi compiti, possa avvalersi di altre amministrazioni ovvero enti pubblici, comprese le Agenzie fiscali, sulla base di apposite convenzioni, anche onerose, solo successivamente alla entrata in vigore del regolamento suddetto (ovvero, nel caso di più regolamenti, dalla entrata in vigore dell'ultimo).
L'emendamento approvato oltre a sopprimere ogni riferimento al "Regolamento", estende il novero di soggetti della cui collaborazione l'Agenzia, sulla base di apposite convenzioni, può avvalersi. Nel dettaglio l'Agenzia potrà avvalersi della collaborazione di:
· amministrazioni centrali dello Stato,
· società ed associazioni in house (l'Agenzia potrà avvalersi di questi soggetti "con le medesime modalità delle amministrazioni);
· Agenzie fiscali;
· enti pubblici.
Articolo 38
(Deroga alle regole sul contenimento della spesa degli enti pubblici)
L’articolo 38 introduce una deroga, valida fino al terzo esercizio finanziario successivo all'adeguamento della dotazione organica, alle norme della spending review con riguardo alla Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati.
Più nel dettaglio il comma 1 dell'articolo introduce un ulteriore comma all'articolo 118 del codice antimafia, recante disposizioni finanziarie. Si prevede che alfine di assicurare la piena ed efficace realizzazione dei compiti affidati all'Agenzia non trovano applicazione nei confronti della stessa le seguenti disposizioni:
· l'articolo 6, commi da 7 a 9 e da 12 a 14, del decreto- legge n. 78 del 2010 (conv. L. n. 122 del 2010);
I commi da 7 a 9 dell'articolo 6 del decreto-legge n. 78 del 2010 (conv. L. n. 122 del 2010) prevedono riduzioni alle spese – sostenute dalle pubbliche amministrazioni appartenenti al conto economico consolidato della P.A, incluse le autorità indipendenti – effettuate per studi e consulenze (comma 7), pubbliche relazioni, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza (comma 8), nonché il divieto di spese per sponsorizzazioni (comma 9).
Il comma 12 introduce limiti alle spese per missioni da parte delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della P.A., incluse le autorità indipendenti. Il comma 13, riduce del 50% la spesa annua, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della P.A., incluse le autorità indipendenti, per attività che siano esclusivamente – secondo la precisazione introdotta dal Senato - di formazione del personale. Il comma 14, riduce la spesa per acquisto, manutenzione, noleggio e esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della P.A., incluse le autorità indipendenti.
· l'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (conv. L. n. 135 del 2012);
Il comma 2 dell'articolo 5 del decreto-legge n. 95 pone un limite pari al 50 per cento dei costi sostenuti per le spese destinate all'acquisto, manutenzione, noleggio ed esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi.
· l'articolo 2, commi da 618 a 623, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.
I commi da 618 a 623 dell'articolo 2 della legge finanziaria 2008 introducono e disciplinano i limiti alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili utilizzati dalle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato.
Tale deroga opera nei confronti dell'Agenzia fino al terzo esercizio finanziario successivo all'adeguamento della dotazione organica di cui all'articolo 113-bis del codice antimafia (come modificato dall'articolo 37 del decreto-legge). Allo scadere della deroga entro 90 giorni, con decreto del Ministero dell'interno di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze su proposta dell'Agenzia vengono stabiliti i criteri specifici per l'applicazione delle norme derogate sulla base delle spese sostenute nel triennio. Gli oneri sono quantificati in 66.194 euro.
Il comma 2 dispone l'abrogazione dei commi 7 e 8 dell'articolo 52 del codice antimafia, conseguente alla introduzione nell'articolo 48 del codice antimafia di un nuovo comma 7-ter (si veda l'articolo 36 del decreto-legge).
Il comma 3 prevede infine l'abrogazione del comma 291 dell'articolo 1 della legge n. 205 del 2017. Si tratta di una abrogazione consequenziale alle modifiche apportate in materia dalla lettera c) del comma 1 dell'articolo 37 del decreto-legge.
Articolo 39
(Copertura finanziaria)
L’articolo 39 reca la quantificazione degli oneri associati al provvedimento e l'indicazione delle coperture finanziarie.
Con l'approvazione degli emendamenti 9.601 e 22.0.3 (testo 2), la Commissione in sede referente propone alcune modifiche all'articolo.
Il comma 1, in particolare, quantifica gli oneri derivanti dagli articoli 9, 18, 22, 22-bis, 34, 37 e 38 in 22.316.423 euro per l'anno 2018, 72.547.109 euro per l'anno 2019, 84.477.109 euro per ciascuno degli anni dal 2020 al 2025, 35.327.109 euro per l'anno 2026 e a 10.327.109 euro a decorrere dall'anno 2027. Il medesimo comma indica quindi le seguenti coperture:
a) quanto a 5.900.000 euro per l'anno 2019 e a 5.000.000 di euro annui a decorrere dall'anno 2020, mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2018-2020, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del MEF per l'anno 2018, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento del Ministero dell'interno;
a-bis) quanto a 4.635.000 di euro per l’anno 2018, mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2018-2020, nell’ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del MEF per l’anno 2018, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento del Ministero della giustizia;
a-ter) quanto a 2.000.000 di euro per l'anno 2018, a 15.000.000 di euro per l’anno 2019 e a 25.000.000 di euro per ciascuno degli anni dal 2020 al 2026, mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di conto capitale iscritto, ai fini del bilancio triennale 2018-2020, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del MEF per l'anno 2018, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento del Ministero della giustizia”;
b) quanto a 15.150.000 euro per l'anno 2018 e a 49.150.000 euro per ciascuno degli anni dal 2019 al 2025, mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di conto capitale iscritto, ai fini del bilancio triennale 2018-2020, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del MEF per l'anno 2018, allo scopo utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero dell'interno;
c) quanto a 66.194 euro per l'anno 2018, a 4.978.329 euro per l'anno 2019, a 5.327.109 euro annui a decorrere dall'anno 2020, mediante corrispondente utilizzo di quota parte delle entrate di cui all'articolo 18, comma 1, lettera a), della legge n. 44 del 1999, affluite all'entrata del bilancio dello Stato, che restano acquisite all'erario.
L'alinea del comma 1 è stato così modificato dall'emendamento 22.0.3 (testo 2) della Commissione referente, che ha anche inserito le lettere a-bis) e a-ter). L'emendamento è volto a potenziare e rendere maggiormente sicure le strutture penitenziarie.
La lettera c) del comma 1 è stata così modificata dall'emendamento 9.601 della Commissione referente al fine di finanziare l'istituzione, a partire dal 1° gennaio 2019, di ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.
L'emendamento 9.601 modifica, per mero errore materiale, la lettera e), anziché la lettera c), del comma 1 dell'articolo in esame.
L'articolo 18, comma 1, della legge n. 44 del 1999 ha istituito il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive. La lettera a) del medesimo comma stabilisce che il Fondo sia alimentato in parte da un contributo sui premi assicurativi, raccolti nel territorio dello Stato, nei rami incendio, responsabilità civile diversi, auto rischi diversi e furto, relativi ai contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 1990.
Il comma 2 autorizza il Ministro dell'economia e delle finanze ad apportare con propri decreti le occorrenti variazioni di bilancio.
Articolo 40
(Entrata in vigore)
L’articolo 40 prevede l’entrata in vigore del decreto il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
Articolo 1, commi 1-bis, ter, quater e quinquies del disegno di legge di conversione
(Delega al Governo in materia di riordino dei ruoli del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate)
La Commissione referente ha approvato l’emendamento X1.600 il quale introduce, all’articolo 1 del disegno di legge di conversione, una disposizione di delega al Governo per l’adozione – entro il 30 settembre 2019 - di decreti legislativi integrativi e correttivi in materia di riordino dei ruoli delle Forze armate e delle Forze di polizia nei limiti delle risorse del fondo di cui all’articolo 35 del decreto-legge in esame. L’articolo 35 istituisce infatti un Fondo in cui confluiscono le autorizzazioni di spesa già previste per il riordino dei ruoli e delle carriere del personale e delle Forze di polizia e delle Forze armate e non utilizzate (una prima attuazione è stata compiuta con i decreti legislativi n. 94 e n. 95 del 2017), cui si aggiunge uno stanziamento pari a 5 milioni di euro annui a decorrere dal 2018.
L’emendamento X1.600 delega il Governo ad adottare – entro il 30 settembre 2019, nei limiti delle risorse del fondo di cui all’articolo 35 del decreto-legge in esame (si veda scheda art. 35) – uno o più decreti legislativi:
a) integrativi della normativa vigente in materia di riordino dei ruoli e delle carriere delle Forze armate nonché correttivi delle disposizioni recate dal decreto legislativo n. 94 del 2017, sulla base dei principi e criteri direttivi dettati dall’art. 1, comma 5, secondo periodo della legge 244 del 2012.
Per quanto riguarda il contenuto del decreto legislativo n. 94 del 2017, recante Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, adottato in attuazione della delega prevista dall'articolo 1, comma 5 della legge n. 244 del 2012, si rinvia al commento dell’articolo 35 del presente provvedimento.
Per quanto concerne, invece, i principi e criteri direttivi che dovranno essere rispettati in sede di adozione dei decreti legislativi previsti dall’emendamento in esame si ricorda che l’art. 1, comma 5, della legge 244 del 2012 richiama a sua volta i principi e i criteri direttivi di cui all'articolo 8, comma 1, lettera a), numero 1), della legge n. 124 del 2015). I principi e criteri direttivi dettati da tale disposizione dispongono, in particolare: la revisione della disciplina in materia di reclutamento, di stato giuridico e di progressione in carriera, tenendo conto del merito e delle professionalità, nell'ottica della semplificazione delle relative procedure, prevedendo l'eventuale unificazione, soppressione ovvero istituzione di ruoli, gradi e qualifiche e la rideterminazione delle relative dotazioni organiche, comprese quelle complessive di ciascuna Forza di polizia, in ragione delle esigenze di funzionalità e della consistenza effettiva alla data di entrata in vigore della presente legge, ferme restando le facoltà assunzionali previste alla medesima data, nonché assicurando il mantenimento della sostanziale equiordinazione del personale delle Forze di polizia e dei connessi trattamenti economici, anche in relazione alle occorrenti disposizioni transitorie, fermi restando le peculiarità ordinamentali e funzionali del personale di ciascuna Forza di polizia, nonché i contenuti e i princìpi di specificità del ruolo delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco dettati dall’art. 19 della legge n. 183 del 2010.
b) integrativi della normativa vigente in materia di revisione dei ruoli del personale delle Forze di polizia nonché correttivi delle disposizioni recate dal decreto legislativo n. 95 del 2017, sulla base dei principi e criteri direttivi dettati dall’art. 8, comma 1, lettera a), n. 1) della legge n. 124 del 2015. Si precisa inoltre che la rideterminazione delle dotazioni organiche complessive delle Forze di polizia, ivi prevista, è attuata in ragione delle nuove esigenze di funzionalità e della consistenza effettiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione, ferme restando le facoltà assunzionali previste dal 1° gennaio 2019.
Per quanto concerne i principi e criteri direttivi dettati dall’art. 8, comma1, lett. a), n. 1) cfr. precedente lettera a). Si ricorda inoltre che per le Forze di polizia è stato adottato – in attuazione della delega legislativa recata dall’art. 8 della legge n. 124/2015 - il d. lgs. 29 maggio 2017 n. 95, richiamato nel testo della disposizione, in materia di riordino delle forze di polizia, entrato in vigore il 7 luglio 2017. Successivamente è stato adottato uno schema di decreto legislativo correttivo ed integrativo del d. lgs. 95/2017 su cui le competenti Commissioni parlamentari del Senato e della Camera hanno espresso un parere favorevole con osservazioni, sullo schema di decreto correttivo (A.G. 35), rispettivamente, nelle sedute del 25 e del 26 settembre 2018.
Nella relazione tecnica allegata al citato schema di decreto legislativo correttivo per le Forze di polizia (A.G. 35) si evidenziava peraltro che “considerato che a legislazione vigente non è prevista analoga facoltà per lo speculare decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 94, recante Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, lo schema di decreto in esame contiene disposizioni in linea con il principio di equiordinazione degli ordinamenti delle Forze armate e delle Forze di polizia”. Nel rispetto del predetto principio, in tale testo vengono apportate correzioni e integrazioni di carattere formale e sistematico, nonché quelle idonee ad intervenire parzialmente sulle criticità applicative emerse nella fase di prima attuazione del complesso intervento normativa di revisione dei ruoli delle Forze di polizia, rinviando ad una fase successiva altri necessari interventi, che potranno essere coperti finanziariamente anche con gran parte delle predette risorse disponibili per la revisione dei ruoli delle Forze di polizia”.
Fermo restando il principio del mantenimento della sostanziale equiordinazione del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia, l’emendamento X1.600 precisa che la rideterminazione delle dotazioni organiche complessive delle Forze di polizia è attuata in ragione delle nuove esigenze di funzionalità e della consistenza effettiva alla data di entrata in vigore della del provvedimento in esame, ferme restando le facoltà assunzionali previste alla data del 1° gennaio 2019.
Per quanto riguarda la procedura di adozione dei decreti legislativi in esame, viene richiamata la procedura prevista dall’articolo 8, comma 5, della legge 124 del 2015 (che ha delegato il Governo al riordino dei ruoli del personale delle Forze di polizia).
In base al suddetto comma 5:
- i decreti legislativi sono adottati su proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con i Ministri interessati, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata e del parere del Consiglio di Stato, che sono resi entro 45 giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere;
- gli schemi di ciascun decreto legislativo sono successivamente trasmessi alle Camere per l'espressione dei pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari e della Commissione parlamentare per la semplificazione, che si pronunciano nel termine di 60 giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il decreto legislativo può essere comunque adottato. E’ prevista inoltre una norma di “scorrimento” del termine di delega nel caso in cui il termine previsto per il parere cada nei 30 giorni che precedono la scadenza del termine o successivamente: in questo caso la scadenza del termine di delega è prorogata di 90 giorni. Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. Le Commissioni competenti per materia possono esprimersi sulle osservazioni del Governo entro il termine di 10 giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, i decreti possono comunque essere adottati.
Si prevede infine che agli eventuali oneri finanziari si provvede nei limiti delle risorse del fondo di cui all’articolo 35 del decreto-legge in esame. L’articolo 35 istituisce infatti un Fondo (si veda scheda articolo 35) in cui confluiscono le autorizzazioni di spesa già previste per il riordino dei ruoli e delle carriere del personale e delle Forze di polizia e delle Forze armate e non utilizzate (una prima attuazione è stata compiuta con i decreti legislativi n. 94 e n. 95 del 2017), cui si aggiunge uno stanziamento pari a 5 milioni di euro annui a decorrere dal 2018.
[1] La prima proposta, sebbene sia formalmente ancora oggetto di iter legislativo, è stata indicata dalla Commissione europea, nel Programma di lavoro 2019 tra quelle che intende ritirare.
[2] Il regime tuttora in esame abbraccia anche i concetti di primo paese di asilo e di Paese terzo sicuro, fattispecie separate (dalla cui applicazione sono ricollegati effetti diversi) dal Paese di origine sicuro
[3] Ai sensi dell’articolo 14 è considerato “danno grave” la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
[4] La valutazione sull’ammissibilità è preliminare all’esame della domanda e in caso di decisione di inammissibilità lo esclude.
[5] Ai sensi dell’articolo 29, comma 1, del decreto legislativo n. 25 del 2008
[6] Successiva cioè all’esame della domanda
[7] Ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 25 del 2008 che richiama per i presupposti e le cause di cessazione o esclusione della protezione internazionale il decreto legislativo n. 251 del 2007.
[8] Ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettera b-bis) del decreto legislativo n. 25 del 2008.
[9] Ai sensi dell’art. 12 TU immigrazione (Diniego dello status di rifugiato) sulla base di una valutazione individuale, lo status di rifugiato non è riconosciuto quando:
a) in conformità a quanto stabilito dagli articoli 3, 4, 5 e 6 non sussistono i presupposti di cui agli articoli 7 e 8 ovvero sussistono le cause di esclusione di cui all'articolo 10;
b) sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato;
c) lo straniero costituisce un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per i reati previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.
In base all’art. 16 del medesimo TU (Esclusione) lo status di protezione sussidiaria è escluso quando sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero:
a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità, quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;
b) abbia commesso, al di fuori del territorio nazionale, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un reato grave. La gravità del reato è valutata anche tenendo conto della pena, non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni, prevista dalla legge italiana per il reato;
c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite;
d) costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato;
d-bis) costituisca un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per i reati previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.
Tali previsioni si applicano anche alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti in esso menzionati.
[10] Dati SPRAR: http://www.sprar.it/i-numeri-dello-sprar
[11] Il richiamato comma 1 prevede che il richiedente protezione internazionale comunichi il proprio domicilio o residenza tramite dichiarazione da riportare nella domanda di protezione internazionale. Ogni eventuale successivo mutamento del domicilio o residenza è comunicato dal richiedente alla medesima questura e alla questura competente per il nuovo domicilio o residenza. Il comma 2 definisce luogo di domicilio, per i richiedenti lì trattenuti, l’indirizzo del centro di permanenza temporanea (ex CIE di cui all’articolo 6 del decreto legislativo n. 142), o del centro governativo di prima accoglienza (di cui all’articolo 9) o delle strutture temporanee di cui all’articolo 11 o della struttura del sistema SPRAR di cui all’articolo 14.
[12] La sostituzione viene operata oltre che al comma 1, anche ai commi 2 e 4.
[13] Cfr. ad es. l'art.7, comma 2-bis, del D.L. 14/2017 in materia di assunzioni di personale della polizia municipale in deroga ai vincoli previsti dalla legge di stabilità per il 2016.
[14] Ad esempio, l'art. 35-bis (che la Commissione propone di inserire nel decreto-legge con l'approvazione dell'emendamento 35.0.600), recante un contenuto per molti aspetti analogo alla disposizione citata nella precedente nota, interviene in materia di facoltà assunzionali dei comuni di personale "della polizia municipale".
[15] Nella fattispecie, alle due richiamate si aggiunge altresì la materia l'"ordine pubblico e sicurezza" in ordine alla quale lo Stato vanta una competenza legislativa esclusiva ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera h)).
[16] «Art. 671 c.p. Impiego di minori nell’accattonaggio- Chiunque si vale, per mendicare, di una persona minore degli anni quattordici o, comunque, non imputabile, la quale sia sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, ovvero permette che tale persona mendichi, o che altri se ne valga per mendicare, è punito con l'arresto da tre mesi a un anno. Qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, la condanna importa la sospensione dall'esercizio della patria potestà o dall'ufficio di tutore».
[17] Ai sensi dell'articolo 89, comma 1, lettera a), dello stesso decreto legislativo.
[18] In particolare il primo e il secondo comma, a mente dei quali "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato" e gli enti territoriali sono "enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione".
[19] Tale ipotesi di scioglimento si aggiunge a quelle di cui all'art. 141, in virtù del quale si ha scioglimento: in presenza di atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico; quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per determinate cause (impedimento permanente, rimozione, decadenza, decesso del sindaco o del presidente della provincia; dimissioni del sindaco o del presidente della provincia; cessazione dalla carica per dimissioni contestuali, ovvero rese anche con atti separati purché contemporaneamente presentati al protocollo dell'ente, della metà più uno dei membri assegnati; riduzione dell'organo assembleare per impossibilità di surroga alla metà dei componenti del consiglio); quando non sia approvato nei termini il bilancio; nelle ipotesi in cui gli enti territoriali al di sopra dei mille abitanti siano sprovvisti dei relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi. Per completezza di informazione si segnala che il TUEL dispone (all'articolo 142) anche in ordine alla rimozione e sospensione di amministratori locali, quando questi compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di ordine pubblico.
[20] Ad esempio, si veda Corte di Cassazione, Sezione I, sent.7316 del 13 aprile 2016.
[21] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sent. n. 1747 del 30 gennaio 2015 (richiamata nella citata sent. n.7316/2016).
[22] Cfr. la relazione conclusiva della Commissione - Doc. XXIII, p.269.
[23] Percentuale elevata al 75%, dal 2018, per i comuni che rispettano il saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali qualora il rapporto dipendenti-popolazione dell'anno precedente sia inferiore al rapporto medio dipendenti-popolazione per classe demografica. La percentuale è elevata al 100% per i comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5.000 abitanti che registrano nell'anno precedente una spesa per il personale inferiore al 24 per cento della media delle entrate correnti registrate nei conti consuntivi dell'ultimo triennio.
[24] La predetta facoltà ad assumere è fissata nella misura del 60 per cento per gli anni 2014 e 2015 e dell'80 per cento negli anni 2016 e 2017 e del 100 per cento a decorrere dall'anno 2018. Come detto, tuttavia, tale disciplina è stata derogata dalla legge n.208 del 2015 per il triennio 2016-2018, per cui la misura del 100 per cento si applica solo dal 2019.
[25] Ciò, fermo restando l'esigenza di assicurare comunque il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio 2011-2013 (l'art.3, comma 5, fa infatti salve le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 557, 557-bis e 557-ter, della L. 296/2006).
[26] Ai sensi del successivo comma 466, qualora il mancato conseguimento del saldo sia inferiore al 3 per cento degli accertamenti delle entrate finali dell'esercizio del mancato conseguimento del saldo, la sanzione della mancata assunzione di personale è circoscritta a quello a tempo indeterminato.
[27] Si rammenta che l'art. 54, comma 4, del TUEL attribuisce al Sindaco, quale ufficiale del Governo (e non quindi come rappresentante della comunità locale), un ulteriore potere di ordinanza "al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana".
[28] Inserito dall'art. 8, comma 1, lett. a), n. 2), D.L. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 aprile 2017, n. 48, recante "Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città".
[29] Si tratta delle ordinanze contingibili e urgenti adottate Sindaco in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale o in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche.
[30] Il comma 7, al primo periodo, attribuisce al Sindaco il compito di coordinare e riorganizzare, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e nell'ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti.
[31]... omissis.. 3-ter. L'amministratore giudiziario, previa autorizzazione scritta del giudice delegato, anche su proposta dell'Agenzia, può, in via prioritaria, concedere in comodato i beni immobili ai soggetti indicati nell'articolo 48, comma 3, lettera c), con cessazione alla data della confisca definitiva. Il tribunale, su proposta del giudice delegato, qualora non si sia già provveduto, dispone l'esecuzione immediata dello sgombero, revocando, se necessario, i provvedimenti emessi ai sensi del comma 2-bis del presente articolo.
[32] ...omissis...2-ter. L'amministratore giudiziario, previa autorizzazione scritta del giudice delegato, anche su proposta dell'Agenzia, può, in data non successiva alla pronuncia della confisca definitiva, in via prioritaria, affittare l'azienda o un ramo di azienda o concederla in comodato agli enti, associazioni e altri soggetti indicati all'articolo 48, comma 3, lettera c), alle cooperative previste dall'articolo 48, comma 8, lettera a), o agli imprenditori attivi nel medesimo settore o settori affini di cui all'articolo 41-quater. Nel caso in cui sia prevedibile l'applicazione dell'articolo 48, comma 8-ter, l'azienda può essere anche concessa in comodato con cessazione di diritto nei casi di cui al periodo precedente e, in deroga al disposto dell'articolo 1808 del codice civile, il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese straordinarie, necessarie e urgenti, sostenute per la conservazione della cosa.
[33]Articolo 59 (L) (Tabelle delle tariffe vigenti)
1. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, ai sensi dell'articolo 17, commi 3 e 4, legge 23 agosto 1988, n. 400, sono approvate le tabelle per la determinazione dell'indennità di custodia. 2. Le tabelle sono redatte con riferimento alle tariffe vigenti, eventualmente concernenti materie analoghe, contemperate con la natura pubblicistica dell'incarico.
3. Le tabelle prevedono, altresì, le riduzioni percentuali dell'indennità in relazione allo stato di conservazione del bene.