XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 152 di Mercoledì 4 ottobre 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 2 

Audizione di Gianni Gennari:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 2 
Gennari Gianni  ... 2 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Gennari Gianni  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Gennari Gianni  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Gennari Gianni  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5 
Gennari Gianni  ... 5 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5 
Gennari Gianni  ... 5 
Buemi Enrico  ... 6 
Gennari Gianni  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Gennari Gianni  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Gennari Gianni  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Gennari Gianni  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Gennari Gianni  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 7 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 8 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 
Gennari Gianni  ... 9 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 
Gennari Gianni  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 
Gennari Gianni  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 
Gennari Gianni  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 
Gennari Gianni  ... 10 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Gennari Gianni  ... 11 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Gennari Gianni  ... 11 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Grassi Gero (PD)  ... 11 
Gennari Gianni  ... 11 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Gennari Gianni  ... 11 
Grassi Gero (PD)  ... 11 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Gennari Gianni  ... 11 
Grassi Gero (PD)  ... 11 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 
Gennari Gianni  ... 11 
Cervellini Massimo  ... 11 
Gennari Gianni  ... 12 
Cervellini Massimo  ... 12 
Gennari Gianni  ... 12 
Cervellini Massimo  ... 12 
Gennari Gianni  ... 12 
Grassi Gero (PD)  ... 12 
Gennari Gianni  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Gennari Gianni  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Gennari Gianni  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2  

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE . Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione di Gianni Gennari.

  PRESIDENTE . L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Gianni Gennari, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto il nostro invito a intervenire oggi nella seduta della Commissione.
  Il dottor Gennari non richiede molte presentazioni, essendo personalità nota della cultura e del giornalismo. Nel periodo del sequestro Moro svolse le funzioni – possiamo dire – di assistente spirituale di Benigno Zaccagnini. Inoltre, ebbe contatti con alcuni esponenti politici del PCI, come Antonio Tatò, ed era amico di monsignor Cesare Curioni. In seguito, ebbe modo di riflettere su queste vicende in sede pubblicistica, anche sulla base di scambi di idee che ebbe con Curioni e con monsignor Pasquale Macchi.
  Il principale oggetto dell'audizione riguarda le notizie che Gennari poté acquisire nel corso del sequestro Moro e ciò che Curioni gli riferì circa il tentativo della Santa Sede di aprire una trattativa con le Brigate rosse.
  Chiederei, perciò, all'audito di distinguere sempre ciò che è ricordo diretto da sue eventuali valutazioni, che può riferirci, ma che sono successive al ricordo diretto.
  Alla vicenda di monsignor Curioni la Commissione ha dedicato già diverse audizioni. Ricordo, sinteticamente, che, secondo quanto scritto da monsignor Macchi, segretario particolare di Paolo VI, Curioni fu incaricato di cercare contatti per avviare una trattativa al fine di ottenere la liberazione di Moro. La vicenda poi è stata ulteriormente rievocata, in maniera non sempre convergente, da padre Carlo Cremona e da monsignor Fabio Fabbri.
  Curioni si rivolse dapprima ad alcuni avvocati difensori dei brigatisti, tra i quali Edoardo Di Giovanni e Giannino Guiso. Riuscì poi a entrare in contatto con una persona che si accreditò come intermediario con le BR, la cui identità è rimasta ignota. Il 22 aprile fu resa pubblica la lettera del Papa agli uomini delle Brigate Rosse, per la cui stesura sembra che Curioni fu interpellato. Nei contatti tra Curioni e l'intermediario si sarebbe giunti a pianificare le modalità del rilascio di Moro, ma sembra che Curioni, vedendo che il tempo passava invano, abbia iniziato a nutrire crescenti dubbi sulla riuscita della trattativa. Fu anche predisposta una somma di denaro, ma il contatto, per motivi non noti, non ebbe esito.
  Le chiedo innanzitutto di darci qualche elemento della sua conoscenza con don Curioni, che lei descrive come persona a lei molto vicina. Lei interagì con monsignor Curioni nel periodo del sequestro o dopo? Parlaste della vicenda e, se sì, quando?

  GIANNI GENNARI . Dunque, io ho conosciuto monsignor Curioni intorno a metà degli anni Settanta. Allora avevo una veste diversa, esercitavo il ministero sacerdotale. Oggi non lo esercito più, ma quello che il sacramento ha impresso resta. Non lo esercito più, avendo avuto il permesso pro gratia, l'autorizzazione a sposarmi da parte Pag. 3 di Giovanni Paolo II attraverso la mediazione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger. Don Cesare Curioni ha celebrato il nostro matrimonio.
  Lo avevo conosciuto intorno a metà degli anni Settanta perché mi aveva chiamato a San Vittore – lui era lì già da una quindicina d'anni – a parlare alle detenute. Io andai a Milano, però gli dissi: «Scusa, ma come faccio io a parlare a della gente che non so che vita fa?» Allora trovammo un piccolo ghiribizzo (non so se lo posso dire): col permesso del direttore di allora, io sono rimasto un paio di giorni come detenuto tra gli uomini, per avere un'idea della vita che si conduceva. Ricordo che era un momento in cui c'erano state le prime ribellioni interne. Avevano bruciato delle stanze di un corridoio. Passammo, una mattina, insieme con altri due che stavano in cella con me e che si meravigliavano perché io ero detenuto; dovetti inventare che avevo emesso degli assegni a vuoto per giustificare che stavo lì con loro. Quando arrivammo, c'era un corridoio con quattro o cinque stanze bruciate, e la cappella intatta. Dissi: «Ma, scusate, avete bruciato tutto meno la cappella...?». Risposero: «Lì c'è don Cesare. Chi lo tocca don Cesare? È quello a cui vogliamo tutti bene».
  Questo lo ricordo per dire che tipo di uomo era. Era un uomo di poche parole, però di molti fatti.
  Sono andato al funerale di don Cesare a gennaio del 1996 in compagnia di monsignor Macchi, che era l'ex segretario di Paolo VI. Per quanto riguarda il rapporto tra Paolo VI e la tragedia Moro, ho tra le mani – eccola qua – la copia delle bozze – non il libro, ma le bozze – del libro di don Macchi. Mi mandò le bozze per dirmi «Vedi se c'è qualcosa di scorretto». L'unica cosa scorretta era la data della morte di don Cesare, attribuita al 1997. Invece, è morto nel 1996, purtroppo.
  È certo che lui, in quel momento, cercò di ottenere qualcosa, però non è solo un'invenzione di don Cesare. Su «La Civiltà Cattolica» del 15 aprile 1978, cioè in piena vicenda della prigionia di Moro – ho qui l'originale – c'è scritto esplicitamente: «I margini di manovra sono assai stretti. Lo Stato e la DC non possono cedere al ricatto dei terroristi, né scendere a trattative con essi. Ciò, però,– non significa che attraverso possibili canali diversi non si possa e non si debba far nulla per tentare di salvare la vita dell'onorevole Moro».– «La Civiltà Cattolica» scrive sempre sotto mandato della Segreteria di Stato; le bozze sono riviste dalla Segreteria di Stato.
  Di fatto era stato avviato attraverso qualcuno – e questo qualcuno resta ignoto, don Cesare non me l'ha mai detto, ma forse anche perché la cosa poi non è andata a termine – una specie di patto preventivo: con la raccolta di denaro (si parla di 10, si parla di 15 miliardi che erano pronti) insieme con la liberazione di Paola Besuschio, si prevedeva la possibilità di una liberazione. Tutti sappiamo com'è andata. Sappiamo che proprio la mattina nella quale Fanfani doveva annunciare la liberazione ... Carlo Cremona mi ha raccontato personalmente che lui attendeva al telefono, anche per mandato di Macchi e di Paolo VI, l'annuncio della liberazione e, invece, è arrivata la telefonata che annunciava la morte, l'esecuzione di Moro.
  Qui poi c'è tutto il discorso dei miei rapporti con Zaccagnini e Berlinguer in quel momento. Io consegnerò qui una memoria molto ampia – sono 34 pagine, più alcune appendici – in cui racconto com'è andata in quelle giornate.
  A dire la verità, comincio dall'8 marzo del 1978, sei giorni prima del rapimento Moro, quando Francesca Mambro mi sputò in faccia davanti al liceo Giulio Cesare, dicendo: «Prete rosso, a te prima o poi ti ammazziamo». Non scherzavano, perché nel 1980, un anno e mezzo dopo, davanti al Giulio Cesare hanno ucciso un poliziotto e accecato quello che era il vigile del quartiere. Il poliziotto si chiamava Serpico di soprannome. Quello era un momento in cui gli assassinii erano piuttosto frequenti.
  Tra l'altro, ricordo – anche se non c'entra nulla – di aver fatto amicizia anche con Carlo Casalegno, che era a «La Stampa» e che in quei giorni, nel 1977, fu ammazzato anch'egli. Non si preparava un bell'anno 1978. Pag. 4 
  Tra l'altro, dietro le spalle – questo non lo sa nessuno, però – Paolo VI aveva, a fine 1977, manifestato l'intenzione di dimettersi, perché era troppo stanco e voleva dare il buon esempio. Avendo scritto la Ingravescentem aetatem, con la quale mandava in pensione i cardinali a ottant'anni, quando avrebbe compiuto il suo ottantesimo anno, a settembre del 1977, avrebbe dato le dimissioni anche lui.
  È stato dissuaso con la forza, in qualche modo, da coloro che stavano intorno a lui e, quindi, Paolo VI è rimasto ancora per gli ultimi otto o nove mesi del suo pontificato. Certo, ha sofferto tantissimo e l'amicizia con Moro era antica.
  Io Moro l'avevo conosciuto di persona all'inizio degli anni Settanta – tra il 1968 e il 1971-72 – perché durante l'estate andavo, come viceassistente dei Laureati cattolici italiani, ad assistere, da consigliere spirituale, delle case di vacanza dei Laureati cattolici. Ne avevano una a Ziano di Fiemme e una a Borca di Cadore. Moro veniva spesso alla messa del sabato sera, in cui c'era anche un tentativo da parte mia di conferenza sulle lettere di San Paolo. Arrivava con la famiglia all'inizio della messa e poi si tratteneva. L'ultima volta che l'ho visto era a fine 1977, al cinema, a vedere I diavoli di Ken Russell. Con lui c'era il maresciallo Leonardi, che mi conosceva. Un cenno di saluto e niente di più, non ho mai avuto altre relazioni.

  PRESIDENTE . Posso farle una serie di domande di dettaglio?

  GIANNI GENNARI . Certo.

  PRESIDENTE . Poi, se ci lascia la memoria scritta, la leggiamo.

  GIANNI GENNARI . La cosa più importante, però, è che... Nella mia vita c'è stata una successione di fatti, ecco perché la memoria scritta che vi consegno è importante, e l'ultimo fatto è il più sconcertante. L'anno dopo, nel 1979, una famiglia di amici, qui a Roma – se volete, faccio pure il nome: Enrico Longo, che era funzionario della Presidenza del Consiglio, e Gioia Longo Di Cristofaro, che è ancora oggi docente all'Università di Roma come antropologa, discepola di Tullio Tentori – durante la vicenda Moro, in un incontro con altre cinque o sei persone, tra cui Giorgio Bachelet, fratello di Vittorio Bachelet, si misero in testa di tentare di studiare gli anagrammi su alcune frasi incomprensibili delle lettere di Moro e isolarono due testi. Il primo era: «Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po’ diverso»; l'altro era: «È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte». Dicevano – io non so se è vero, ma tra loro c'era gente che conosceva Moro da quarant'anni – che Moro si dilettava di giochi di anagrammi eccetera. Isolarono due frasi e me le sottoposero. Io lavoravo anche a «L'Europeo», in quel momento – era già il 1979-80 – e conoscevo un anagrammista speciale, Ennio Peres, che è ancora vivo. Gli diedi il pacchetto di sigarette dentro cui avevano messo le lettere dell'alfabeto per vedere che cosa... Peres in un primo momento fu scettico: «Qualsiasi cosa si può trovare con tutte queste frasi». Però, poi, a ragion veduta, fu sorpreso, perché rimanevano fuori una sola lettera nel primo anagramma e due sole lettere nel secondo anagramma; erano due frasi che, anagrammate, parlavano di una casa tra la via Flaminia e la via Cassia, una specie di sotterraneo dalle cui finestre si vedevano...

  PRESIDENTE . Bimbi.

  GIANNI GENNARI . Pini e bimbi.
  La cosa rimaneva così. Ero allora praticante a «Paese Sera» e incaricammo – eravamo nel 1986 – un collega, Enrico Fontana, di andare a vedere da quelle parti. Fontana individuò un caseggiato con un sotterraneo di mattoni rossi eccetera e la cosa uscì sul giornale.
  Questa cosa non ebbe alcun riscontro. Ci fu soltanto l’«Avanti!» che allora dette un trafilettino di quattro righe. Però, io qui ho gli originali della prima pagina di «Paese Sera», che parlava di «mistero Moro» eccetera. Questa cosa non suscitò alcun interesse da parte della stampa, salvo un trafiletto de l’«Avanti!». Pag. 5 
  Successe, però, che quindici giorni dopo si presentò a «Paese Sera» un anziano signore, Viktor Aurel Spachtholz – io qui ho il suo biglietto da visita, che ci ha rilasciato – il quale disse di sapere quale poteva essere la casa e ci raccontò che in quella casa aveva fatto lezioni di pittura a un importante magistrato italiano, di cui fece il nome (nei miei scritti io non l'ho fatto, neppure nell'ultimo): Carmelo Spagnuolo, il magistrato che fu deposto, forse anche per intervento di Moro, in conseguenza, se non vado errato, della vicenda Sindona. Spachtholz aveva fatto lezioni di pittura a questo ex magistrato e un giorno, quando festeggiarono un evento, la vendita di un quadro o la fine delle lezioni, lo portò in un sotterraneo. Al racconto di Spachtholz erano presenti Claudio Fracassi e Piero Pratesi, quindi non ero solo. Erano presenti perché quando il portiere di Paese Sera – che, giustamente, era molto proletario – mi aveva detto: «C'è un signore strano, coi calzoni alla zuava, che vuole parlare con te», io mi premurai che ci fossero pure il direttore e l'ex direttore, appunto Claudio Fracassi e Piero Pratesi. Piero è morto. È stata una persona straordinaria. Fracassi credo che sia vivo, per fortuna quindi potrebbe confermare il racconto. Quel signore venne su e disse che sapeva che in quella casa c'era... La casa era di Carmelo Spagnuolo e...

  PRESIDENTE . Eravamo rimasti al punto in cui Spagnuolo era sceso nel sotterraneo.

  GIANNI GENNARI . Per festeggiare scesero giù nello scantinato, dove c'era una serie di botti di vino. Spachtholz disse: «Ma questa non è una cantina, questa è una prigione», e Spagnuolo gli avrebbe risposto: «Da questa prigione cambieremo la vita dell'Italia». Ovviamente...

  PRESIDENTE . Però era il 1979 quando Spagnuolo gliel'ha detto? O prima?

  GIANNI GENNARI . No, prima, prima. Prima ancora della vicenda Moro. La cosa risaliva all'inizio o a metà degli anni Settanta.
  La cosa interessante è che lui voleva andare subito. Noi, ovviamente, siccome era pomeriggio e dovevamo chiudere il giornale eccetera... Però, poi, su «Paese Sera» – era il 1986 – uscirono queste pagine di Enrico Fontana.
  Una cosa che sorprende, però, è che in mezzo a queste cose uscì il libro di Leonardo Sciascia, L'affaire Moro. Io avevo avuto conoscenza di Leonardo Sciascia quando aveva scritto Todo modo. Il mio primo ingresso a «Paese Sera» fu per una presentazione di quello strano film sul romanzo di Sciascia. Sciascia, esaminando la vicenda Moro, analizza esattamente le stesse due frasi e dice: «Qui dentro ci deve essere un messaggio». Sono tutte e due le frasi che avevano isolato i miei amici Gioia Longo e Giorgio Bachelet. Tra l'altro, Giorgio Bachelet aveva avvertito di questa decifrazione il fratello, che è stato ucciso nel 1980.
  La cosa sorprendente è che noi non andammo immediatamente, però quindici giorni dopo venimmo a sapere che Viktor Aurel Spachtholz era stato trovato morto in casa sua a Vettica di Amalfi. Arrivò il 1988. Ennio Peres mi telefonò e mi disse: «Guarda, sta per uscire una nuova rivista magnifica, straordinaria, tutta basata sui giochi di anagrammi eccetera. Perché non tiriamo nuovamente fuori la vicenda di cui abbiamo parlato due anni fa?» Io dissi: «Va bene, ritiriamola fuori». Feci parecchia resistenza. Poi – io qui ho anche la fattura – mi dettero un milione e accettai. Non ho scritto assolutamente niente di nuovo. Ho scritto quelle cose che avevo già detto. Uscì il numero della rivista, «Giochi Magazine», con in primo piano Agnelli e con: «Caso Moro: c'è un enigma nelle lettere». C'erano quattro pagine, due mie, firmate Ersilio Quarelli (ho usato uno pseudonimo) e le altre due, invece, di Ennio Peres, l'anagrammista che analizza la cosa. Nell'anticipazione del giornale il direttore Giuseppe Meroni parla dello scoop e annuncia: «I prossimi numeri saranno ancora più magnifici» eccetera. Esce «Giochi Magazine», e lo stesso giorno, o il giorno dopo, il direttore è licenziato e la rivista viene chiusa, soppressa. Questo numero è l'unico numero della rivista che è uscito. Pag. 6 L'editore era di Bologna e so che era un petroliere. Credo che qui qualcuno si ricordi il cognome. Adesso non me lo ricordo.

  ENRICO BUEMI . Ci sarà scritto nella rivista qual era la società editrice.

  GIANNI GENNARI . Nel memoriale che vi lascio c'è. È un memoriale che racconta tutta questa storia e in cui si parla di Curioni, di Macchi, di Paolo VI...

  PRESIDENTE . Su Curioni le dobbiamo fare due o tre domande.

  GIANNI GENNARI . Va bene.
  Quello che mi sorprende – posso dirlo con molta tranquillità? – è che le cose mi vengano chieste trentanove anni dopo. Siccome queste cose non è che sono state nascoste – le ho pubblicate, le ho scritte su «Paese Sera», le ho ripetute altre volte – per fortuna, trentanove anni dopo qualcuno mi chiede conto.
  Per quanto riguarda le trattative, ho difeso – e qui ho un biglietto della moglie di Zaccagnini, che mi ringrazia – con forza la memoria sia di Paolo VI sia di Zaccagnini, e anche, in qualche modo, quella di Berlinguer. Io ero a contatto con Berlinguer attraverso Tonino Tatò...

  PRESIDENTE . L'editore di «Giochi Magazine» era il gruppo Monti-Riffeser.

  GIANNI GENNARI . Io ero in contatto con Berlinguer attraverso Tonino Tatò e Giglia Tedesco. Giglia Tedesco era vicepresidente del Senato e Tonino Tatò era il segretario particolare di Berlinguer. Venivano a messa da me, insieme con altri. Allora si chiamavano cattocomunisti. A me dicevano soltanto comunista; oggi lo dicono del Papa: tutto sommato, mi pare che sia un bel vantaggio.

  PRESIDENTE . È che, nel frattempo, si sono estinti i comunisti. Non si preoccupi.
  Sono rimasti i nostalgici.

  GIANNI GENNARI . Quel comunismo lì era inaccettabile anche allora, quindi, evidentemente... I tentativi di Enrico Berlinguer di uscire dalla filosofia marxista e leninista sono noti a tutti. Si sa che fece togliere dallo statuto del partito la professione antireligiosa, materialista e immanentista e lo fece togliere anche in conseguenza della sua famosa lettera a monsignor Bettazzi. C'era stata la lettera di Bettazzi a Berlinguer, cui Berlinguer rispose un anno e mezzo dopo; la preparammo insieme a Franco Rodano e Tonino Tatò e lo stesso Berlinguer per tre mesi, nell'estate del 1977.

  PRESIDENTE . Adesso la ringraziamo, ci leggiamo la memoria e arriviamo a don Curioni. Le devo fare alcune domande precise.
  In una serie di articoli suoi del 2012, pubblicati su «Affari italiani» e «Vatican Insider», lei ha ricordato, riferendosi a Curioni: «Mi ha manifestato tanti dubbi sulle dichiarazioni dei terroristi stessi, mentre non ha mai avuto un dubbio sul fatto che un vero e proprio canale con le BR attive non ci fu mai». Monsignor Fabbri, audito dalla Commissione, ha valorizzato, invece, la serietà del canale della trattativa.
  Questa idea di don Curioni che lei riporta, riguardo al fatto che l'intermediario non era più solido di tanto, non era vero, è una sua opinione o gliel'ha detta proprio direttamente don Curioni?

  GIANNI GENNARI . Me l'ha detta direttamente don Curioni e ritengo che don Fabbri abbia semplicemente pensato – siccome don Cesare non scherzava quando diceva certe cose – che don Cesare avesse trovato qualche intermediario...
  Don Cesare aveva parlato anche con Curcio e Franceschini, che erano processati allora a Torino. Quando erano ripresi dicevano, di Moro: «Lo abbiamo in mano, lo teniamo in mano». A don Cesare dissero personalmente: «Noi non ne sappiamo niente».
  Tra l'altro, qui dietro c'è il famoso discorso di Pinerolo. Non lo ricorda nessuno, ma è il momento decisivo della storia delle Brigate rosse. Moretti diede appuntamento Pag. 7 a Curcio e Franceschini a settembre del 1974 al passaggio al livello di Pinerolo.

  PRESIDENTE . E poi arrivò un po’ tardi, lui.

  GIANNI GENNARI . No, Moretti non è arrivato per niente e dice che non sa per quale ragione non è arrivato. Invece, Moretti aveva spinto per far entrare nelle Brigate rosse Frate Mitra, quel rivoluzionario in Sud America, italiano, prete, raccomandato all'opinione pubblica italiana da Giorgio Pisanò, che tutti sappiamo benissimo... Si chiamava «Candido», mi pare, la sua rivista: «Arriva il nuovo Che Guevara, arriva il nuovo...»

  PRESIDENTE . E poi Frate Mitra li ha traditi tutti.
  Ritorniamo a don Curioni, sennò ci perdiamo e, purtroppo, alle 15 dobbiamo concludere l'audizione, perché i parlamentari devono andare in Aula.

  GIANNI GENNARI . Cesare mi parlò della differenza che c'è tra le ferite su un corpo morto e le ferite su un corpo vivo.

  PRESIDENTE . Adesso ci arriviamo. Mi faccia fare le domande in fila.
  In un articolo pubblicato da lei su «Avvenire» il 10 novembre 2009, lei ha dato altri dettagli sul tema della trattativa che fu tentata da monsignor Curioni. Ha scritto, in particolare, quello che lei ha ricordato adesso, cioè che Curioni parlò con Curcio e Franceschini, i quali si dissero del tutto estranei alla vicenda.
  Franceschini, nella sua audizione del 27 ottobre 2016, si è limitato a dire: «Curioni lo incontrammo perché lui ci era venuto a parlare, perché lui era il cappellano del carcere». Nell'ultima audizione presso la Commissione Adriana Faranda, invece, ha sottolineato che Curcio e Franceschini non erano favorevoli a cedere senza contropartite e, anzi, sostenevano ideologicamente la linea dura.
  Lei, oltre quello che ha detto, cioè che Curcio e Franceschini dissero a Curioni che non c'entravano niente con la vicenda Moro e, quindi, non ne sapevano niente...

  GIANNI GENNARI . Franceschini poi avanza molti dubbi su tutta la vicenda della gestione di Moretti.

  PRESIDENTE . Però a lei non è rimasto in mente altro, detto da don Curioni?

  GIANNI GENNARI . No. Devo dire, sinceramente, che io con Cesare...

  PRESIDENTE . Don Curioni non le ha detto più altro, quindi. Ha detto solo che li aveva incontrati e che i due brigatisti non erano in grado di aprire nessun canale.

  GIANNI GENNARI . No, però don Cesare mi disse che probabilmente si arrivava a uno sbocco. Questo me lo disse nei giorni immediatamente precedenti il 9 maggio. Su questo era stato preavvertito Macchi ed era stato preavvertito padre Cremona, che è stato al telefono tutta la mattina...

  PRESIDENTE . In attesa della liberazione.
  In diversi articoli (uno di Marco Tosatti su «La Stampa» del 19 aprile 2004 e due suoi, su «Europa» del 3 maggio 2008 e su «Avvenire» del 10 novembre 2009) si afferma che Curioni era con Macchi e con Paolo VI nell'appartamento papale la sera del 21 aprile.

  GIANNI GENNARI . Questo me l'ha detto don Cesare personalmente.

  PRESIDENTE . E che partecipò materialmente alla stesura della lettera del Papa «agli uomini delle Brigate rosse».

  GIANNI GENNARI . Sotto dettatura di Paolo VI scrisse la brutta copia della famosa lettera.

  PRESIDENTE . Perché su questo ci induce in errore, forse, monsignor Fabbri, che, invece, dichiara che quel giorno Curioni si trovava in Lombardia e che quindi parlò solo per telefono con Paolo VI.

Pag. 8 

  GIANNI GENNARI . Cesare mi ha detto – questo lo posso dire con certezza – che era presente, che ha scritto la brutta copia che poi Paolo VI ha ricopiato e che quel «senza condizioni» era presente fin dalla prima dettatura.(*) 

  PRESIDENTE . Quindi, ricapitolando – questo solo per amore della storia – non ci fu un'ingerenza della Presidenza del Consiglio su Paolo VI per far modificare il testo e inserire le parole «senza condizioni»?

  GIANNI GENNARI . Assolutamente. Per quello che so io, no.

  PRESIDENTE . Lo sa perché glielo disse don Curioni, che era presente quando la lettera si scriveva.

  GIANNI GENNARI . Che era presente, esattamente.

  PRESIDENTE . E quelle parole non sono state aggiunte, ma ci sono sempre state, dall'inizio.

  GIANNI GENNARI . Assolutamente. Questo mi disse don Cesare, che mi raccontò che aveva scritto lui di sua mano, sotto dettatura di Paolo VI, la brutta copia della lettera.

  PRESIDENTE . In un articolo del 2012 lei ha scritto: «Monsignor Curioni, per esempio, era convinto – e certo aveva parlato in tanti anni con tante persone, sia delle istituzioni, che incontrava essendo, per lavoro, nei ruoli del Ministero di grazia e giustizia come ispettore capo di tutte le carceri italiane relativamente all'assistenza religiosa dei detenuti, sia dei protagonisti, compresi molti brigatisti in prigione – che sul cadavere di Moro ci fosse un solo colpo sparato a bruciapelo su Moro vivo, che aveva lasciato l'alone caratteristico di bruciatura e mostrava il sangue che ne era fuoriuscito, mentre tutti gli altri colpi, una decina, fossero stati sparati a distanza maggiore e dopo parecchio tempo, forse più di un'ora, e quindi non avevano né l'alone di bruciatura, né il sangue». Per quanto lei ne sa, quella di Curioni era una convinzione soggettiva oppure si fondava su qualche confidenza relativa ai reperti autoptici o di chi indagava?

  GIANNI GENNARI . Mi è difficile rispondere, però don Cesare non mi ha mai detto qualcosa che non corrispondesse a quello che lui aveva visto. Cioè non era... Era un tipo molto concreto.

  PRESIDENTE . Quindi, quello che lei scrive è quello che le ha riferito Curioni, cioè l'idea di un colpo a bruciapelo a Moro vivo e poi dopo, a distanza di tempo, altri colpi a Moro già morto (ed ecco perché non c'erano gli aloni e tutto il resto).

  GIANNI GENNARI . Così almeno mi ha detto don Cesare e io non posso che riferirlo. Non ho mai dubitato della serietà. Se voleva tenere nascosto qualcosa, non lo diceva. Se parlava, parlava...

  PRESIDENTE . Perché voleva farlo.

  GIANNI GENNARI . ...da persona seria.

  PRESIDENTE . Lei ha ricordato che alla fine di aprile del 1978...

  GIANNI GENNARI . Mi meraviglio, ma allora sono stato molto letto!

  PRESIDENTE . Soprattutto perché abbiamo altre fonti. Noi le chiediamo per sapere se conferma alcune sue affermazioni che risultano diverse da quelle di altre fonti.
  Lei ha ricordato che alla fine di aprile del 1978 portò a Berlinguer un biglietto di Zaccagnini, che lei non lesse.

Pag. 9 

  GIANNI GENNARI . Certo.

  PRESIDENTE . Ha anche sottolineato il suo rapporto con Tatò. Durante il sequestro Moro lei vide Tatò, gli trasmise informazioni e messaggi, ne raccolse confidenze?

  GIANNI GENNARI . Certo, una quindicina di volte, perché parecchie notti, una quindicina, le passavo con il povero Benigno, che era veramente, drammaticamente...

  PRESIDENTE . Provato.

  GIANNI GENNARI . Tra l'altro – una delle cose che forse non sa nessuno – se non avessero rapito Moro, la mattina del 16 marzo 1978, Benigno Zaccagnini si sarebbe dimesso da segretario della Democrazia cristiana, perché non era per niente d'accordo sulle nomine dei ministri che erano state fatte da Moro e Andreotti insieme e, in particolare, non avrebbe voluto che ci fosse Gava nel nuovo Governo.
  Per quanto riguarda quella mattina in cui portai una lettera di Benigno a Berlinguer e poi portai indietro la risposta – lo racconto nel mio memoriale – mi successe una cosa singolare. Io parcheggiai esattamente nel posto dove un mese dopo sarebbe stata trovata la R4 e sentii, scendendo dalla macchina – queste sono cose strane, lo riconosco – qualcosa che mi teneva fermato, che mi teneva su quel terreno. C'era una staccionata, c'era un cancello, c'erano i lavori interni dentro, proprio di fronte a palazzo Caetani. Quella mattina io avevo parcheggiato lì. Avevo la Peugeot 104 e, quando scesi, sentii...
  La mattina del 9 maggio, quando, arrivato a casa, accesi la TV e vidi la trasmissione. Chissà come l'avevano saputo: la GBR, che era una televisione libera, praticamente stava sul posto, dicono, qualche minuto dopo il ritrovamento dell'auto. Ho l'impressione che ci fosse qualcuno lì all'interno che lo sapeva da prima, perché far trovare il giornalista con la cinepresa eccetera e la trasmissione mi pareva un po’...

  PRESIDENTE . C'è qualche messaggio di Tatò di particolare rilevanza?

  GIANNI GENNARI . Io non li leggevo.

  PRESIDENTE . Ah, lei non li leggeva.

  GIANNI GENNARI . No, io non leggevo quello che scriveva Benigno a Berlinguer e quello che Berlinguer scriveva a Zaccagnini. Non mi sono mai permesso, anche perché che cosa potevo dire? Che competenze avevo?

  PRESIDENTE . In un articolo apparso su «Avvenire» del 22 ottobre 1999 lei ha scritto che Zaccagnini era informato e consenziente circa il tentativo di trattativa promosso da Paolo VI.

  GIANNI GENNARI . Che poi non era una trattativa. Sì, chiamiamola trattativa. Era...

  PRESIDENTE . Era un diverso modo di trattare, non da parte dello Stato.
  Del resto, lo stesso Andreotti, in una lunga intervista pubblicata su «Il Giornale» dell'11 settembre 2003, ha ricordato che la Santa Sede chiese una sorta di nulla osta e che il Governo italiano lo concesse, secondo le parole di Andreotti, «dopo essermi consultato con Berlinguer».
  Per quanto a lei noto, chi tra gli esponenti della DC teneva i rapporti con la Santa Sede durante il sequestro Moro, oltre ad Andreotti? Cosa seppero direttamente Zaccagnini e i suoi collaboratori dei tentativi di trattativa effettuati da parte di esponenti della Chiesa, in particolare da parte di monsignor Curioni?

  GIANNI GENNARI . Cosa seppe Zaccagnini? Zaccagnini delle cose di monsignor Curioni sapeva tutto, perché gliele dicevo io e Curioni sapeva bene che ero in rapporti...

  PRESIDENTE . E chi altro sapeva? Sapevano Zaccagnini e Andreotti, o sapeva l'ufficio politico della DC?

  GIANNI GENNARI . Andreotti non lo so, ma certamente io a Berlinguer dicevo quello che mi aveva detto Zaccagnini, salvo che fossero messaggi (che allora non leggevo), e Pag. 10 a Zaccagnini quello che mi aveva detto Berlinguer. E dicevo ad ambedue quello che pensava Curioni, se si poteva fare qualcosa o meno.

  PRESIDENTE . Nell'ambito dei tentativi di salvare la vita di Moro risulta che ci fu un'attivazione di esponenti socialisti lombardi, come Umberto Giovine, che tentarono di coordinare la loro azione con quella, ben nota, di monsignor Luigi Bettazzi, di padre David Maria Turoldo e di padre Camillo De Piaz. In questo ambito fu coinvolto anche il giornalista di «Famiglia Cristiana» Guglielmo Sasinini, che ne riferiva al suo direttore, don Giuseppe Zilli. Lei sa qualcosa di questa vicenda e sa se si sovrapponeva o era ad adiuvandum del tentativo di Curioni?

  GIANNI GENNARI . Io so soltanto che monsignor Bettazzi propose di darsi come ostaggio in cambio di Moro. Un pensiero molto generoso, ma, a mio parere, ingenuo, perché coloro che avevano rapito Moro volevano agire su Moro e non su monsignor Bettazzi. Quindi, l'idea generosa, spirituale, della sostituzione vicaria, che richiama al sacrificio biblico, mi sembra molto ingenua.

  PRESIDENTE . Monsignor Curioni le ha detto mai se il modo in cui era stato ucciso l'onorevole Moro, nella metodologia dei colpi sparati non a bruciapelo, lo aiutava ad avere una opinione su chi poteva essere stato il killer?

  GIANNI GENNARI . No. Io so che il killer è stato individuato in quello che poi fu ferito dalle parti delle Mura Appio-latine, uno dei brigatisti. Dicono che sia stato lui che ha sparato il colpo decisivo.

  PRESIDENTE . Lì erano più quelli che hanno sparato di quanti ce ne entravano tra il portabagagli e il garage, un sovraffollamento di colpevoli.
  Ma adesso lasciamo stare quello che hanno dichiarato i brigatisti. A lei monsignor Curioni non ha mai detto: «Secondo me, per come ha ucciso, mi dà l'idea che fosse il tale?»

  GIANNI GENNARI . No.

  PRESIDENTE . Non gliel'ha detto mai.
  L'abbé Pierre venne a Roma poco dopo il rapimento di Aldo Moro per perorare la causa di Innocente Salvoni. Salvoni aveva sposato una nipote dell'abbé Pierre ed era tra i sospettati di cui fu diramata la foto dopo l'agguato di via Fani.
  Secondo le dichiarazioni rese il 28 marzo 1983 da Carlo Fortunato al giudice Mastelloni, il religioso francese si recò nella sede della DC in piazza del Gesù. Zaccagnini smentì al giudice Calogero di aver mai incontrato l'abbé Pierre.
  Lei si ricorda se l'abbé Pierre andò a piazza del Gesù?

  GIANNI GENNARI . Zaccagnini non mi ha mai detto che l'abbé Pierre è andato a piazza del Gesù. Per quello che mi riguarda, non me l'ha detto. È probabile che me l'avrebbe detto, perché io sono stato vicino a Zaccagnini anche oltre la morte di Moro.
  Tra l'altro, una delle cose a cui tengo di più, che a mio parere fa fare una bellissima figura sia a Zaccagnini che a qualcun altro, è che il giorno prima dell'elezione di Pertini alla Presidenza della Repubblica incontrai Benigno. Io lavoravo a «Paese Sera» e lui aveva un ufficio al secondo piano dello stesso palazzo, a via del Tritone; e con lui c'era pure Mattarella, l'attuale Presidente della Repubblica. Qualche volta lungo le scale avevo incontrato Mattarella, ma io incontrai Benigno a via Due Macelli. Mi abbracciò e mi disse: «Sono molto arrabbiato». Chiesi: «Perché?» Rispose: «Perché i miei non votano Pertini come Presidente». Già c'erano state, mi pare, 15 o 20 votazioni, non ricordo quante erano. Io gli dissi: «Scusami, ma tu sei o non sei il segretario della Democrazia cristiana?» Disse: «Sì». Proseguii: «Ti ricordi che, la prima volta che ci siamo incontrati, mi hai detto che se non avessero rapito Moro, tu avresti dato le dimissioni da segretario della Democrazia cristiana?». Rispose: «Sì». Allora io dissi: «Allora tu stasera ai Pag. 11 tuoi dici: “Se domani mattina non votate Pertini, io me ne vado. Do le dimissioni”». Non so se Benigno l'ha fatto, però la mattina dopo i democristiani votarono Pertini. Perché Berlinguer era d'accordo, Craxi pure – dopo qualche esitazione – era d'accordo e mancava la «firma» dei democristiani. Fu un comportamento da galantuomo di Zaccagnini.

  PRESIDENTE . Lei, stando molto vicino a Zaccagnini in quel periodo, ricorda se era atteso o no dal segretario del partito un intervento del Presidente del Senato Fanfani la mattina della riunione della direzione della DC, il 9 maggio?

  GIANNI GENNARI . Si sapeva dal giorno prima che Fanfani avrebbe detto delle cose molto importanti.

  PRESIDENTE . Quindi, si sapeva da parte di padre Cremona che il 9 poteva essere liberato Moro e si sapeva che Fanfani avrebbe parlato...

  GIANNI GENNARI . Di questo.

  PRESIDENTE . Di questo.
  Io non ho altre domande. Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire.

  GERO GRASSI . Ritorno su don Curioni. In un'audizione segreta in Commissione, la persona audita ha riferito di aver saputo direttamente da don Curioni il nome e cognome della persona che avrebbe sparato a Moro. Pare che don Curioni questa identificazione, peraltro detta da lui anche a don Fabbri (il quale però in Commissione non ha fatto il nome), l'abbia desunta dalla capacità dello sparatore di «circumnavigare» il cuore con i colpi, senza toccarlo.
  Nel suo rapporto con don Curioni le ha mai parlato dell'autopsia su Moro?

  GIANNI GENNARI . No. Attenzione, però: mi ha detto delle cose che probabilmente si riferivano anche a un esame autoptico, perché, quando mi ha raccontato che c'erano parecchie tracce, una da vivo e le altre da morto, probabilmente si riferiva a quello; però non me l'ha mai detto.
  Adesso io non ricordo il cognome del brigatista rosso, quello che è stato ferito quando fu arrestato, alle Mura latine. Come si chiamava?

  PRESIDENTE . Gallinari.

  GIANNI GENNARI . Prospero Gallinari, sì.

  GERO GRASSI . Che c'entra Gallinari?

  PRESIDENTE . Gennari dice: «Io ho saputo poi che era stato Gallinari a ucciderlo».

  GIANNI GENNARI . Lei ha ricordato l'autopsia, quindi ho ripensato che non avevo detto il nome che prima non ricordavo, ed è venuto fuori adesso: Prospero Gallinari.

  GERO GRASSI . Però, solo per storia, Gallinari ha ammesso di non aver sparato a Moro, in un libro.

  PRESIDENTE . Ho una curiosità: Don Curioni era amico di don Rigoldi, il cappellano del carcere minorile Beccaria?

  GIANNI GENNARI . Non lo so. Io so che don Curioni è stato a San Vittore per trent'anni. Tra l'altro, io so che don Curioni aveva portato Montini al carcere. Quando Montini, non ancora cardinale, era stato mandato via da Roma, come tutti sanno, perché la Curia lo odiava, e fu mandato a Milano come arcivescovo, Pio XII per quattro anni non l'ha fatto cardinale. È stato poi il primo cardinale nominato da Giovanni XXIII. Don Curioni aveva portato Montini, il nuovo arcivescovo, al carcere. Ha fatto poi la stessa identica cosa quando fu nominato arcivescovo Martini. La prima visita di Martini a Milano, grazie a don Cesare Curioni, fu la visita ai carcerati.

  MASSIMO CERVELLINI . La casa dell'ex magistrato, la potenziale casa prigione, rispondeva alle verifiche che faceste, soprattutto Pag. 12  anche sugli aspetti esterni, quelli che venivano richiamati?

  GIANNI GENNARI . I mattoni rossi, sì, eccetera...

  MASSIMO CERVELLINI . E anche pini e bambini, per capirci?

  GIANNI GENNARI . A prima vista sì. Io sentii pure parlare di un asilo infantile che era nelle vicinanze. Tra l'altro, da quella casa in 6-7 minuti si arriva a via Fani.

  MASSIMO CERVELLINI . Seconda domanda: gli esperti di anagrammi hanno trovato anche altre frasi che permettevano l'esclusione di poche...?

  GIANNI GENNARI . No. La cosa veramente singolare, è il modo con cui Moro presenta queste frasi. Per esempio in una delle due frasi, poco prima parla dell'onorevole Misasi, quindi lascia un terzo di pagina bianca (qui tra le cose che lascio c'è la fotocopia, ma voi l'avete sicuramente) e poi comincia con «È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte». Ex abrupto una frase assolutamente incomprensibile per chi conosceva Moro... Quali erano i gravissimi problemi della famiglia di Moro? Non c'erano.

  GERO GRASSI . C'erano. C'erano, e lui li sapeva bene. C'erano ed erano inimmaginabili a chi stava fuori.

  GIANNI GENNARI . Lei sa cose più di me, quindi...

  PRESIDENTE . Al di là di questo, la domanda del senatore Cervellini è: queste cose la Polizia e i Carabinieri le hanno verificate? O vi hanno ritenuto un po’...?
  Per esempio, nel caso di una seduta spiritica, che era afferente quanto l'anagramma, sono andati in un paesino della mia provincia che si chiama Gradoli alle cinque della mattina. Invece, qui, nel caso degli anagrammi, non sono andati a vedere.

  GIANNI GENNARI . L'unico effetto di quella cosa degli anagrammi...

  PRESIDENTE . Fu la chiusura di questa rivista.

  GIANNI GENNARI . Fu la soppressione della rivista «Giochi Magazine».

  PRESIDENTE . Se non ci sono altre domande, ringraziamo il dottor Gennari.
  Per la settimana prossima non sono in grado di dirvi quando potremo riunirci, perché, non sapendo come procederanno le votazioni alla Camera sulla legge elettorale, dobbiamo vedere qual è uno spazio di almeno due ore, tra Camera e Senato, che ci consenta di tenere seduta.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.45.

(*) L'11 ottobre 2017 Giovanni Gennari ha inviato la seguente comunicazione: «Don Cesare mi ha detto di sicuro che ha partecipato di persona alla stesura del messaggio di Paolo VI alle BR, ma non mi disse se lo aveva fatto via telefono o in presenza fisica in Vaticano. Ecco la causa del mio ricordo che, stando alla memoria più diretta di don Fabio Fabbri, risulta inesatto. Ne prendo atto e riconosco il mio errore. Quello che mi risulta, e che ribadisco, è che le parole “senza condizioni” erano nel testo fino dalla prima stesura».