Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3
Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3
Audizione di Luigi Carli:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3
Carli Luigi ... 4
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5
Carli Luigi ... 5
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5
Carli Luigi ... 5
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5
Carli Luigi ... 5
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5
Carli Luigi ... 5
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5
Carli Luigi ... 5
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6
Carli Luigi ... 6
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6
Carli Luigi ... 6
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7
Carli Luigi ... 7
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7
Carli Luigi ... 7
Grassi Gero (PD) ... 8
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8
Carli Luigi ... 8
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8
Carli Luigi ... 8
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8
Carli Luigi ... 8
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9
Carli Luigi ... 9
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9
Carli Luigi ... 9
Grassi Gero (PD) ... 9
Carli Luigi ... 9
Grassi Gero (PD) ... 9
Carli Luigi ... 9
Grassi Gero (PD) ... 9
Carli Luigi ... 9
Grassi Gero (PD) ... 9
Carli Luigi ... 9
Grassi Gero (PD) ... 9
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9
Carli Luigi ... 9
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9
Carli Luigi ... 9
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10
Carli Luigi ... 10
Grassi Gero (PD) ... 10
Carli Luigi ... 10
Grassi Gero (PD) ... 10
Carli Luigi ... 10
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10
Carli Luigi ... 10
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10
Carli Luigi ... 10
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10
Carli Luigi ... 10
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10
Carli Luigi ... 10
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10
Carli Luigi ... 10
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Grassi Gero (PD) ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 11
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11
Carli Luigi ... 12
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12
Carli Luigi ... 12
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12
Carli Luigi ... 12
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12
Carli Luigi ... 12
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12
Carli Luigi ... 12
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12
Carli Luigi ... 12
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12
Carli Luigi ... 12
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12
Carli Luigi ... 13
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13
Carli Luigi ... 13
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13
Carli Luigi ... 13
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13
Carli Luigi ... 13
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13
Carli Luigi ... 13
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13
Carli Luigi ... 13
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14
Carli Luigi ... 14
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14
Carli Luigi ... 14
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14
Carli Luigi ... 14
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14
Carli Luigi ... 14
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14
Bolognesi Paolo (PD) ... 14
Carli Luigi ... 14
Bolognesi Paolo (PD) ... 15
Carli Luigi ... 15
Bolognesi Paolo (PD) ... 15
Carli Luigi ... 15
Bolognesi Paolo (PD) ... 15
Carli Luigi ... 15
Bolognesi Paolo (PD) ... 16
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16
Bolognesi Paolo (PD) ... 16
Carli Luigi ... 16
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16
Carli Luigi ... 16
Grassi Gero (PD) ... 16
Carli Luigi ... 16
Grassi Gero (PD) ... 17
Carli Luigi ... 17
Grassi Gero (PD) ... 17
Carli Luigi ... 17
Grassi Gero (PD) ... 17
Carli Luigi ... 17
Grassi Gero (PD) ... 17
Carli Luigi ... 17
Grassi Gero (PD) ... 17
Carli Luigi ... 17
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17
Carli Luigi ... 17
Grassi Gero (PD) ... 17
Carli Luigi ... 17
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17
Carli Luigi ... 17
Grassi Gero (PD) ... 18
Carli Luigi ... 18
Grassi Gero (PD) ... 18
Carli Luigi ... 18
Grassi Gero (PD) ... 18
Carli Luigi ... 18
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18
Carli Luigi ... 18
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18
Grassi Gero (PD) ... 18
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19
Carli Luigi ... 19
Grassi Gero (PD) ... 19
Carli Luigi ... 19
Grassi Gero (PD) ... 19
Carli Luigi ... 19
Grassi Gero (PD) ... 19
Carli Luigi ... 19
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19
Grassi Gero (PD) ... 19
Carli Luigi ... 19
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19
Grassi Gero (PD) ... 19
Carli Luigi ... 19
Grassi Gero (PD) ... 19
Carli Luigi ... 19
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19
Carli Luigi ... 19
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20
Grassi Gero (PD) ... 20
Carli Luigi ... 20
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20
Grassi Gero (PD) ... 20
Carli Luigi ... 20
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20
Carli Luigi ... 21
Grassi Gero (PD) ... 21
Carli Luigi ... 21
Bolognesi Paolo (PD) ... 21
Carli Luigi ... 21
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21
Carli Luigi ... 21
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21
Carli Luigi ... 21
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21
Carli Luigi ... 21
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21
Audizione di Domenico Di Petrillo:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21
Di Petrillo Domenico ... 22
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24
Di Petrillo Domenico ... 24
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25
Di Petrillo Domenico ... 25
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 26
Di Petrillo Domenico ... 26
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27
Di Petrillo Domenico ... 27
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27
Di Petrillo Domenico ... 27
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27
Di Petrillo Domenico ... 27
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28
Di Petrillo Domenico ... 28
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28
Di Petrillo Domenico ... 28
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28
Di Petrillo Domenico ... 28
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28
Di Petrillo Domenico ... 28
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28
Di Petrillo Domenico ... 28
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28
Di Petrillo Domenico ... 29
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 29
Di Petrillo Domenico ... 29
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 29
Di Petrillo Domenico ... 29
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 29
Di Petrillo Domenico ... 29
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 29
Di Petrillo Domenico ... 29
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 29
Di Petrillo Domenico ... 29
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 30 ... 30
Di Petrillo Domenico ... 33
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 33
Di Petrillo Domenico ... 33
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 33
Di Petrillo Domenico ... 33
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 33
Di Petrillo Domenico ... 33
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 33
Di Petrillo Domenico ... 33
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Bolognesi Paolo (PD) ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 34
Di Petrillo Domenico ... 34
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 35
Di Petrillo Domenico ... 35
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 35
Di Petrillo Domenico ... 35
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 35
Di Petrillo Domenico ... 35
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 35
Di Petrillo Domenico ... 35
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 35
Di Petrillo Domenico ... 35
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 35
Bolognesi Paolo (PD) ... 36
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 36
Bolognesi Paolo (PD) ... 36
Di Petrillo Domenico ... 36
Bolognesi Paolo (PD) ... 36
Di Petrillo Domenico ... 36
Bolognesi Paolo (PD) ... 36
Di Petrillo Domenico ... 36
Bolognesi Paolo (PD) ... 36
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 36
Bolognesi Paolo (PD) ... 36
Di Petrillo Domenico ... 36
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 37
Di Petrillo Domenico ... 37
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 37
Di Petrillo Domenico ... 37
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 38
Di Petrillo Domenico ... 38
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 38
Di Petrillo Domenico ... 38
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 38
Bolognesi Paolo (PD) ... 38
Di Petrillo Domenico ... 38
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 38
Bolognesi Paolo (PD) ... 38
Di Petrillo Domenico ... 38
Bolognesi Paolo (PD) ... 38
Di Petrillo Domenico ... 38
Bolognesi Paolo (PD) ... 38
Di Petrillo Domenico ... 38
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 38
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIUSEPPE FIORONI
La seduta comincia alle 14.25.
Comunicazioni del presidente.
PRESIDENTE . Comunico che:
il 16 giugno 2017 la dottoressa Picardi, il generale Scriccia e la dottoressa Tintisona hanno depositato i verbali, riservati, di sommarie informazioni rese da Giovanni Pagnozzi, Francesco Poci e Angelo Bocchetti;
nella stessa data la dottoressa Tintisona ha depositato sei faldoni, segreti, di documentazione della Polizia di Stato relativa ad Alessio Casimirri;
nella stessa data il colonnello Occhipinti ha depositato i dati identificativi di tre ex sottufficiali della Guardia di finanza;
il 19 giugno 2017 il dottor Donadio ha depositato una nota, riservata, relativa all'odierna audizione del dottor Carli;
nella stessa data il dottor Salvini ha depositato il verbale, riservato, di sommarie informazioni rese da Ugo Bossi;
nella stessa data il generale Scriccia ha depositato due note, riservate, relative al generale Delfino e alle dichiarazioni a suo tempo rese da Walter Di Cera;
nella stessa data è stata acquisita una nota, segreta, inviata dal tenente colonnello Giraudo, relativa a notizie sul sequestro Moro.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE . Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
Audizione di Luigi Carli.
PRESIDENTE . L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Luigi Carli, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire questo pomeriggio in Commissione. Le domande che porrò al dottor Carli, fanno riferimento in alcuni passaggi a parti di documentazione riservata o segreta; preciso quindi che tali parti (e solo esse), in quanto oggetto di mie domande, si intendono declassificate.
Il dottor Carli è stato magistrato presso la Procura di Genova e ha condotto importanti attività sulle Brigate rosse, in particolare dal 1979 al 1983. È stato, dunque, uno dei protagonisti dello smantellamento della colonna genovese.
L'audizione è stata deliberata in relazione a una serie di attività di indagine sulla vicenda della scoperta del covo brigatista di via Fracchia, che la Commissione ha delegato ai propri consulenti. In tale ambito il dottor Carli è già stato sentito a sommarie informazioni da collaboratori della Commissione il 17 maggio 2017.
L'audizione ha la finalità di offrire alla Commissione elementi sulla colonna genovese delle Brigate rosse, sulle caratteristiche del suo rapporto con Moretti e con il sequestro Moro e sulla vicenda del covo di via Fracchia, scoperto il 28 marzo 1980. Prima di lasciare la parola ai colleghi, farò una serie di domande.
Dottor Carli, in una lunga intervista rilasciata per il volume Le vene aperte del delitto Moro (pubblicato a Firenze nel 2009), lei ha sottolineato l'origine più universitaria che operaia della colonna genovese. Ha Pag. 4 pure richiamato la vicenda del primo processo ai brigatisti genovesi, quello del 1979-80, che portò a numerose assoluzioni, tra cui quella di Enrico Fenzi, in quanto si ritenne che molti imputati appartenessero a una generica area di estremismo politico, più che alle Brigate rosse. La settimana scorsa la Commissione ha audito proprio Fenzi, che ha molto insistito sul rapporto sporadico che egli ebbe con le Brigate rosse nel periodo 1978-79, dicendoci di aver partecipato a una sola azione in maniera marginale, perché serviva a fargli passare la frontiera dell'appartenenza, e di non aver fatto pressoché nient'altro.
Alla luce di tutto ciò, può riepilogarci una sua valutazione complessiva sulla colonna genovese delle BR? Ritiene che questo mondo universitario possa aver avuto almeno un ruolo, sinora mai compiutamente dimostrato, nell'elaborazione ideologica e documentale delle Brigate rosse?
LUIGI CARLI . Saluto tutti e vi ringrazio per essere qui e soprattutto anche per indurmi a fare – nonostante io abbia buona memoria – dei miracoli di memoria, perché quarant'anni non sono pochi neanche per me.
Io qualcosa ho scritto. Credo che risulti anche da interviste che avevo fatto con un professore di storia moderna dell'Università di Bologna. Debbo confermare quello che ho detto. Sostanzialmente, le Brigate rosse a Genova nacquero all'interno dell'università, in due facoltà in particolare, quella di Lettere e quella di Medicina. In questa prospettiva, soprattutto nella facoltà di Lettere, si inquadra poi il ruolo di Enrico Fenzi, che io ho avuto la ventura di conoscere ancora prima che fosse un militante politico, perché era l'amico fraterno di un mio amico, un certo Giancarlo Cavanenghi, professore anche lui – non so se poi fosse arrivato a livello di università – deceduto tragicamente in un incidente aereo. Questo mi servì poi, a suo tempo, per riuscire a convincere Fenzi a parlare. Fenzi, vedendo una faccia che, tutto sommato, non gli era sconosciuta, e avendo maturato una certa volontà di dissociarsi (collegata a vicende personali, familiari e ideologiche), mi raccontò poi la sua storia. Fu una grossa collaborazione quella di Fenzi, perché ci portò poi all'arresto dell'allora capo della colonna genovese Lo Bianco e alla cattura, a Milano, addirittura di Moretti, che era il capo in testa delle Brigate rosse.
Confermo che le Brigate rosse a Genova nacquero con una sorta di gemmazione, se così si può dire, nell'ambito della sinistra rivoluzionaria genovese che albergava nelle facoltà universitarie che ho citato. Soprattutto, fu una gemmazione quasi – direi – spontanea, dopo le vicende di via Fracchia, tant'è vero che i primi fatti tipici che furono di grosso momento a Genova cominciarono con il sequestro Sossi, proseguirono poi con l'uccisione di Guido Rossa e arrivarono alla vicenda di via Fracchia, ma non erano opera della colonna genovese delle BR.
A Genova non esisteva una colonna vera e propria delle Brigate rosse. Era in formazione, tant'è vero che nella stessa vicenda di via Fracchia furono uccisi il futuro capo delle Brigate rosse genovesi, Dura, e, a parte Annamaria Ludmann che era la prestanome dell'alloggio, erano appartenenti alle BR venuti da fuori.
Quindi, la colonna genovese si formò e divenne operativa per intervento di varie figure carismatiche, ma tutte prodotte, o quasi tutte prodotte, in ambito universitario. La presenza operaia era di scarsissima consistenza nella colonna genovese, che era di circa 60-80 persone. La brigata Italsider era composta di sei o sette persone. Il capo era un certo Gianni Cocconi, che poi si pentì. La decantata brigata Porto era composta da quattro persone e il capo era Angela Scozzafava, che, tra l'altro, io conoscevo indirettamente, perché era la figlia di un commesso del Palazzo di giustizia di Genova. Delle altre colonne alcune erano addirittura sulla carta, però dopo la vicenda di via Fracchia ci fu una svolta di ferocia, sostanzialmente, in cui prevalse, rispetto ad altre colonne che erano presenti in varie parti d'Italia, un'impostazione di tipo militaristico e omicidiario, soprattutto sotto la spinta non più di Dura, che era deceduto in via Fracchia, ma di Lo Bianco e di un certo Baistrocchi, che credo sia Pag. 5 ancora latitante. È l'unico – credo – che si sia sottratto alla cattura.
Quindi, debbo confermare questa realtà: un aggancio sociale, un aggancio in altre esperienze sociali della città, non ci fu, anche perché – ricordo benissimo – prima della vicenda di via Fracchia, sostanzialmente, e anche della vicenda Rossa c'era uno slogan che si poteva riassumere nelle parole: «Né con lo Stato, né con le Brigate rosse».
Dopo la vicenda di via Fracchia, invece, ma già, soprattutto, dopo l'uccisione di Guido Rossa ci fu un completo rovesciamento di simpatie, per cui le Brigate rosse si ritrovarono sostanzialmente emarginate ed emersero le loro caratteristiche, cioè un gruppo di intellettuali di estrazione universitaria, con qualche presenza, ma molto ridotta, di soggetti che provenivano da altre realtà. Erano un po’ dei nichilisti. Mi sembrava di leggere la storia della rivoluzione sovietica o antecedente, quando, a un certo punto, i nobili andavano a fare gli operai per avere una sorta di contatto con la realtà. Mi ricordava Tolstoj, sotto certi altri profili.
Quindi, questa realtà diventò sempre più isolata e, se prima vi era stata una sorta non dico di compiacenza con le BR, ma di scarsa collaborazione con gli organi inquirenti, dopo l'uccisione di Guido Rossa, invece, ci fu un rovesciamento totale di mentalità e di politica. Questo portò a grossi risultati, perché – ripeto – ci fu l'isolamento politico, sociale e ideologico delle Brigate rosse genovesi.
PRESIDENTE . Su quello che ha detto, dottor Carli, vorrei chiederle due chiarimenti. Il primo: Dura, se non fosse stato ucciso a via Fracchia, avrebbe ereditato la guida delle BR a Genova?
LUIGI CARLI . Era destinato, perché un capo della futura colonna genovese non esisteva. Dura doveva diventare il capo della...
PRESIDENTE . Costituenda...
LUIGI CARLI . ...costituenda, esattamente, colonna delle Brigate Rosse. Dura era una persona sostanzialmente vista con un certo sospetto, perché era psichicamente debole. La vicenda dell'uccisione di Guido Rossa, da quell'indagine che io ho potuto svolgere, ex post però sulla base delle dichiarazioni di pentiti che riferivano di prima o di seconda mano, è che, quando si preparava l'azione contro Guido Rossa, dopo una lunghissima discussione, le Brigate rosse non volevano ucciderlo. Volevano «gambizzarlo», per usare questo termine, e attaccargli un cartello al collo con su scritto «Traditore della classe operaia». Invece, Riccardo Dura, contravvenendo agli ordini che aveva ricevuto e alle lunghissime discussioni che c'erano state nell'esecutivo e nella direzione strategica, lo ammazzò. Fu una cosa terribile e, sotto un certo profilo, il suo decesso in via Fracchia lo mise al riparo da delle sanzioni piuttosto pesanti che le Brigate rosse avevano già pronte per lui.
PRESIDENTE . Seconda cosa: lei ha detto che Fenzi fu utile non solo per l'individuazione di Lo Bianco, ma anche per l'arresto di Moretti: Furono arrestati insieme, Fenzi e Moretti.
LUIGI CARLI . A Milano, perché Fenzi... Allora, la storia di Fenzi è un po’ particolare. Fenzi, in effetti, ha partecipato a una sola delle azioni di fuoco.
PRESIDENTE . Da quanto abbiamo capito, non ha neanche sparato.
LUIGI CARLI . Ha sparato.
PRESIDENTE . Ha sparato?
LUIGI CARLI . Sì, sì, ha sparato, anzi il discorso è questo: fu obbligato a partecipare ad almeno un'azione di fuoco. Mi spiego: Fenzi, per passare da cosiddetto «irregolare» a clandestino delle Brigate rosse, un po’ per volontà sua (che era piuttosto scarsa), ma soprattutto per forte sollecitazione della di lui compagna Isabella Ravazzi (che, come tutte le donne, era molto più determinata nelle idee), accettò. A Fenzi fu detto che non poteva fare carriera Pag. 6 nelle Brigate rosse se non partecipando a un'azione di fuoco – e l'azione di fuoco, come sapete, comprendeva la gambizzazione, cioè l'invalidazione, o l'annientamento, secondo la terminologia delle Brigate rosse – e gli fu detto che doveva partecipare quantomeno a un'invalidazione.
Partecipò all'attentato contro Carlo Castellano, che era uno dei dirigenti dell'Italsider nonché esponente del Partito comunista, cosa che gli venne rinfacciata pesantemente. Se non vado errato, fu proprio Fenzi a sparare, e sparò così male che, invece di fare come in casi simili, in cui le persone erano ferite ma colpite soprattutto sotto un profilo simbolico, invece azzoppò Carlo Castellano, il quale porta tuttora le conseguenze di questo attentato.
PRESIDENTE . In relazione alla vicenda Moro, anche nel corso dei lavori della Commissione è spesso tornato il tema di un ruolo della colonna genovese. Già in corso di sequestro tale ruolo fu spesso evocato sulla stampa. Da ultimo, a margine dell'audizione presso la nostra Commissione di Umberto Giovine, ex parlamentare di Forza Italia, allora direttore di «Critica sociale», è stato richiamato un articolo proprio di «Critica sociale» del 4 maggio 1979 che sosteneva che, dopo la diffusione del comunicato numero 9 delle BR (maggio 1978), la colonna genovese – quindi, qui penso che facciano riferimento a Dura – avrebbe assunto la direzione del sequestro e avrebbe gestito l'uccisione di Moro. Per converso, va sottolineato che a oggi tale ruolo della colonna genovese non è stato dimostrato, anche se risulta che in corso di sequestro il comitato esecutivo delle BR si riunì, oltre che a Firenze, anche a Rapallo. Lei stesso ha dichiarato ai collaboratori della Commissione che un ruolo di Dura le appare poco verosimile, alla luce della sua «debolezza mentale» (parole sue), cioè quell'instabilità di cui ci ha parlato.
LUIGI CARLI . Sì, certo.
PRESIDENTE . Anche se lei si occupò di questi temi in un periodo successivo, può esprimere qualche riflessione? Secondo lei, può esserci stata una partecipazione della colonna genovese al sequestro Moro, in modo particolare, di Dura? E, visto che noi abbiamo anche qualche elemento che suggerisce un rapporto stretto tra Dura e Moretti, vorremmo sapere se questo le risulta oppure no.
LUIGI CARLI . Faccio un po’ di storia. Dura fu uno dei militanti più antichi delle Brigate rosse. Come ho detto, la colonna genovese non esisteva, tant'è vero che il sequestro Costa, per esempio, qualche anno prima, adesso non mi ricordo esattamente... Deve essere stato all'inizio del 1977. Il sequestro fu fatto per finanziare l'organizzazione. Quel sequestro venne fatto perché ci furono – come potremmo dire? – degli osservatori genovesi, ma non esisteva una colonna genovese, tant'è vero che sia il sequestro di Sossi, sia, soprattutto, l'omicidio del procuratore generale Coco non furono fatti dalla colonna genovese. Non era in condizione di farli. Non esisteva la colonna genovese. La colonna era in fieri, in formazione, con una presenza che doveva essere assicurata proprio da Dura, il quale doveva diventare il capo colonna La vera colonna genovese, nacque dopo i fatti di via Fracchia, tant'è vero che poi fu denominata 28 marzo, cioè dopo che Patrizio Peci condusse i Carabinieri nel covo di via Fracchia e venne accertata una presenza, tra l'altro, anche a Recco, dove c'era stato una sorta di buen retiro, ove ritemprare le forze. Tra l'altro, è incredibile ma le Brigate rosse d'estate andavano in vacanza e facevano anche le vacanze al mare. Quindi, furono scoperti due covi, che poi sostanzialmente erano vuoti, insomma, uno a Cogoleto e uno a Recco, però il luogo fondamentale era via Fracchia e con Patrizio Peci riuscirono ad arrivare lì.
Io ne parlai vagamente di questo fatto. All'epoca non mi occupavo delle Brigate rosse. Non ho difficoltà a dire – sono passati quarant'anni, quindi tutto è passato in prescrizione – che io non ero molto ben visto all'epoca dai vertici della Procura genovese e finii per occuparmi delle Brigate rosse semplicemente perché fui l'unico sostituto in servizio che non ebbe l'ardire di Pag. 7 rifiutare l'incarico propostogli. Quindi, io non so nulla di quanto fu fatto prima, se non per quanto riferitomi dai colleghi torinesi, in particolare dal collega Maurizio Laudi, oggi deceduto, che era giudice istruttore all'epoca, poi dal procuratore, che tutti conoscerete, Giancarlo Caselli, e poi da un sostituto procuratore generale, Pietro Miletto, che, purtroppo, è mancato anche lui. Questi mi raccontarono un po’ la storia e furono quelli che poi entrarono in possesso dei documenti di via Fracchia, che io non vidi mai, perché restarono esclusivamente in possesso del procuratore della Repubblica Antonino Squadrito e del procuratore aggiunto Luigi Francesco Meloni.
Essendo io considerato all'epoca uomo di trincea, dovevo occuparmi della ordinaria amministrazione quotidiana. Dei fatti ideologici se ne occupavano loro. Io mi limitai semplicemente a firmare degli atti di trasmissione, peraltro atti che in parte erano andati all'Ufficio istruzione ed erano stati poi oggetto di un'istruzione formale da parte di vari colleghi, in particolare dal dottor Gianfranco Bonetto, dal collega Petrillo... Chi c'era ancora? Poi mi verranno in mente altri nomi... Ad esempio, i nomi del collega Vincenzo Basoli e del defunto Alberto Zingale e di altro che adesso non ricordo.
Quindi, io posso dire ben poco. Posso parlare della «28 marzo», cioè la vera colonna genovese, che si costituì dopo i fatti di via Fracchia.
PRESIDENTE . Ha detto delle cose per noi molto interessanti, sulle quali torneremo tra poco, perché le ultime due domande riguardano proprio questo aspetto che lei adesso ha accennato, per chiederle alcuni ulteriori approfondimenti. Adesso pongo ancora alcuni quesiti di contesto e poi arriveremo esplicitamente a parlare di via Fracchia.
Nell'intervista che ho citato prima, lei valorizza molto il ruolo di Edoardo Arnaldi. In sostanza, lei sostiene che proprio il suicidio di Arnaldi, il 19 aprile 1980, ruppe il cordone di comunicazione tra i brigatisti incarcerati e i brigatisti a piede libero, favorendo il progressivo diffondersi del pentitismo.
Arnaldi, com'è noto, è uno di quegli avvocati di Soccorso Rosso che passarono da un appoggio ideologico al terrorismo a una vera e propria militanza nelle Brigate rosse. Insieme a Sergio Spazzali, Arnaldi fu coinvolto nelle inchieste dalle dichiarazioni di Peci, che rilevò che entrambi avevano svolto un ruolo di tramite con i brigatisti anche in vicende di sangue come l'assassinio dell'avvocato Fulvio Croce.
Lei ritiene che Arnaldi possa aver avuto, come Guiso e Spazzali, qualche ruolo anche nel corso delle trattative del periodo del sequestro Moro? Ha qualche elemento di interesse al riguardo?
LUIGI CARLI . Presidente, io non sono in grado di dirlo. Posso dire solo questo: l'avvocato Arnaldi era il trait-d'union, o, se vogliamo, il cordone ombelicale tra i brigatisti in carcere e i brigatisti all'esterno. Io lo conoscevo perché, in precedenza, avendo fatto il giudice civile, l'avevo visto fare qualche causa. Era una persona di non grande spessore professionale, però essenziale per le BR, come mi riferirono poi i vari pentiti che sentii sul punto (devo precisare che a Genova si pentirono quasi tutti i componenti della colonna, maschi e femmine, ossia un'ottantina di persone). Da quello che mi dissero, i compagni detenuti, quando Arnaldi non fu più il loro difensore nel carcere, si erano trovati completamente spiazzati e nell'impossibilità di sapere quali erano le direttive della direzione strategica e dell'esecutivo su come comportarsi.
L'avvocato Arnaldi, in conclusione, aveva nell'organigramma delle BR una posizione – per così dire – del tutto particolare. Era, infatti, un «irregolare», ma con le conoscenze e il ruolo sostanziale di un «clandestino» o «regolare» che dir si voglia.
PRESIDENTE . E non solo per le BR genovesi, ma sul territorio nazionale.
LUIGI CARLI . Sì. Soprattutto, questo vorrei sottolinearlo, Arnaldi era – mi lasci passare l'espressione, presidente – sostanzialmente un buon diavolo. Non era un grande avvocato, ma non era neanche una cattiva persona. Era, in sostanza, un buon Pag. 8 diavolo, soprattutto succube di quella vera e propria furia scatenata che era la moglie (oggi defunta anche lei), la quale era, invece, ideologicamente fortissimamente impegnata. Quando iniziammo a fare le indagini sulle Brigate rosse, genovesi e, grazie ai pentiti, cominciammo a incarcerare i vari componenti della locale colonna, fu attivissima nel promuovere manifestazioni di protesta e campagne di stampa ampiamente diffamatorie sull'operato, in particolare, della magistratura. Aveva vari agganci di tipo politico, che, se volete, vi dirò. Se non interessa, non lo dico.
GERO GRASSI . Dica, dica.
PRESIDENTE . Siccome io personalmente non so chi fosse la moglie dell'avvocato Arnaldi, se ci aiuta a capire...
LUIGI CARLI . Era una terribile donna, tra l'altro, ma proprio di quelle sfegatate. Non so, se avete presente il dipinto di Delacroix, con la rivoluzionaria francese che sventola la bandiera e agita il fucile... Era lei, ed era legatissima agli ambienti dei radicali genovesi e del Partito socialista genovese. Aveva un'entratura formidabile rispetto a questi, tant'è vero che era quella che promuoveva continuamente, e con successo, delle manifestazioni di piazza.
Quando iniziammo a fare le prime indagini sulle Brigate rosse, e veramente le feci io, ebbi una fortuna incredibile, perché riuscii a entrare in contatto con il mio primo pentito, che si chiamava Roberto Garigliano. Lo conoscevo per averlo processato in precedenza, perché aveva fatto un attentato alla Lufthansa. Apparteneva a quei gruppuscoli di aspiranti ad entrare nelle Brigate rosse, ma tenuti fuori di queste perché considerati non idonei alla lotta armata. Le BR genovesi, nonostante le sue insistenze, non avevano mai voluto che Garigliano entrasse a far parte dell'organizzazione, perché era stato incline all'uso della droga, in particolare dell'eroina.
Però, Garigliano era una persona estremamente intelligente e, quando poi si creò una sorta di feeling tra me e il soggetto, mi raccontò tutto e mi spiegò anche il ruolo che aveva avuto l'avvocato Arnaldi, la di lui moglie e il fatto che, per esempio, ne fu invece arruolato il figlio.
PRESIDENTE . Come si chiamava la moglie di Arnaldi?
LUIGI CARLI . Non me lo ricordo. Presidente, sono passati quarant'anni. Mi consenta, me la cavo già brillantemente, credo.
Il nome comunque si troverà, perché faceva... Basta andare a vedere i promotori delle manifestazioni di piazza in quell'epoca, del 1969, del 1970. Era lei che si muoveva sempre.
PRESIDENTE . Ed era legata sia al Partito socialista che al Partito radicale?
LUIGI CARLI . Aveva degli agganci in questo senso, però era una rivoluzionaria scatenata.
Ora, io conoscevo un po’ l'ambiente rivoluzionario genovese perché – devo fare una sorta di autobiografia – sono vissuto nei quartieri operai di Sampierdarena. Sono cresciuto là dentro e, in particolare, nella zona del Campasso. Quindi, conoscevo tutti. La mia fortuna è stata un po’ quella, perché poi con i brigatisti io sapevo parlare la loro lingua, che non era la lingua di qualche altro collega – non voglio fare nomi e cognomi – il quale li mitragliava di domande, ma loro non capivano che cosa dicesse.
A un certo punto, ragionando con queste persone, venne fuori proprio questa, che era una donna scatenatissima, e una delle disgrazie delle Brigate rosse è che il figlio di Arnaldi poi furono costretti a reclutarlo. Tra l'altro, le Brigate rosse erano ferocissime e direi fiscalissime rispetto al reclutamento dei brigatisti, tant'è vero che anche Fenzi sopportò una lunga anticamera prima di entrare nelle Brigate rosse. Furono costretti a far entrare il figlio di Arnaldi, il quale, una volta catturato, grazie a Roberto Garigliano, che era suo amico fraterno, mi dette un grosso aiuto, perché parlava a ruota libera, per cui bastava dargli la stura per sentirsi raccontare tutto quello che sapeva.
PRESIDENTE . Anche qualcosa di più.
LUIGI CARLI . Sì, anche qualcosa di più, insomma, ecco. Però non ricordo come si chiama...
PRESIDENTE . Troveremo il nome.
Sempre nella stessa intervista, lei ha richiamato, soprattutto sulla base delle confessioni di Carlo Bozzo, il tema della circolazione delle armi e, in particolare, il fatto – che ci ha molto colpito – che la colonna genovese era stata approvvigionata dalla colonna veneta, che disponeva di armi palestinesi. Da numerose informazioni dei Servizi risulta, peraltro, che armi destinate all'esportazione in Medio Oriente erano talora sottratte dal porto di Genova. Questo è quello che scrivono i Servizi, che non è detto che sia... La sottrazione dal porto di Genova può essere semplicemente un modo per spiegare perché ce le avevano.
Può darci una sua valutazione su questo tema della circolazione di armi provenienti dal Medio Oriente?
LUIGI CARLI . Guardi, io ho fatto indagini... Io avevo avuto la fortuna di entrare in contatto continuo con i componenti della brigata Porto, Angela Scozzafava e un paio di altri ragazzotti che c'erano lì. Questa non mi parlò mai di cose di questo genere.
Invece, seppi da Fulvia Miglietta e da altri che, per esempio, le armi arrivarono da Al Fatah. Fecero un viaggio con lo yacht e arrivarono a Venezia, però poi non furono utilizzate, perché le armi fornite – si trattava di Sten, non so se avete presente, sono quei mitra con il caricatore laterale sporgente – che non andavano assolutamente bene per una guerriglia urbana. I genovesi erano particolarmente indottrinati, soprattutto sulle teorie della rivoluzione di Carlos Marighella, che era un italo-brasiliano, il quale diceva che «Le armi da usare sono queste, queste e queste». Infatti, non se ne fecero proprio niente.
Queste armi arrivarono. Poi mi risultò che arrivarono delle mitragliette dalla Bulgaria e arrivarono degli esplosivi dalla Francia, da Action directe. Arrivarono poi delle armi corte, che tra l'altro pare – però io non ho mai verificato nulla direttamente – che arrivassero dalla malavita napoletana, acquistate da un certo Senzani.
Questo è quello che io ricordo e, quindi, posso dirlo ancora.
GERO GRASSI . In che anno?
LUIGI CARLI . Guardi, deve essere... Io ho fatto le indagini... Doveva essere il 1967-70, insomma. Il 1967-70.
GERO GRASSI . Siamo prima di Stella Maris, però.
LUIGI CARLI . Avevano avuto dei contatti.
GERO GRASSI . Attenzione: 1967 o 1977?
LUIGI CARLI . 1977, pardon. Grazie. Scusatemi. Ogni tanto, nonostante la mia buona volontà...
GERO GRASSI . No, guardi, è importantissimo il 1977.
LUIGI CARLI . Ha perfettamente ragione. È il 1977, perché nel 1976 morì Coco e, quindi, non poteva essere.
GERO GRASSI . Appunto.
PRESIDENTE . Quindi, nel periodo 1977-80, c'erano flussi di armi, che lei non ha avuto modo di verificare. Lei però ha trovato riscontri dichiarativi da cui risultava che potevano provenire dalla malavita organizzata?
LUIGI CARLI . Dalla malavita organizzata, dalla Bulgaria, soprattutto le mitragliette Skorpion...
PRESIDENTE . E da Action directe.
LUIGI CARLI . E da Action directe, esplosivi. Lo so per certo perché me lo confermò Fulvia Miglietta, che era la vicecapo della colonna genovese e che teneva i contatti con i francesi.
Pag. 10PRESIDENTE . La provenienza campana veniva addebitata ai traffici di Senzani.
LUIGI CARLI . Senzani infatti – me lo disse poi anche direttamente Fenzi – non era ben visto dalle Brigate rosse, perché aveva una certa propensione ad appoggiarsi sulla malavita locale, cosa che le Brigate rosse rifiutavano, e che a Genova, e dappertutto in Liguria, portò a una sorta di emarginazione della cosiddetta brigata imperiese, perché si comportava allo stesso modo. Tant'è vero che, quando ci fu il recupero delle armi e del materiale della brigata, a Cervo vecchia, dove erano detenuti tutti i tesori delle Brigate rosse genovesi e liguri, in effetti si trovarono anche refurtiva comune e reperti di varia provenienza delittuosa.
GERO GRASSI . Ma lei può datare meglio?
LUIGI CARLI . Guardi, faccio presto: dal 1977 al 1980-81, cioè il periodo...
GERO GRASSI . È troppo ampio.
LUIGI CARLI . Ma lei mi costringe a fare dei miracoli di memoria!
PRESIDENTE . Questo ce lo può dire pure tornando a casa e magari pensandoci. Per noi è importante perché c'è ancora un giallo aperto su quando Senzani ha cominciato da irregolare e su quando è entrato nelle BR.
LUIGI CARLI . Siamo già dopo il 1980.
PRESIDENTE . Quindi, anche le armi sono in quel periodo.
LUIGI CARLI . Fenzi, che era suo cognato, mi ha detto questo. Io con Senzani non ho mai avuto a che fare. Mi ha parlato di questo suo cognato che era il capo, o doveva diventare il capo, della colonna napoletana, ma che era malvisto perché aveva rapporti con la malavita.
PRESIDENTE . Adesso le leggo una ricostruzione, basata anche sulle sue recenti dichiarazioni al dottor Donadio, su cui abbiamo bisogno di qualche approfondimento.
All'epoca dei fatti di via Fracchia (28 marzo 1980) il sostituto dottor Carli non era ancora titolare della delega in tema di BR. Lo divenne successivamente, subentrando ai colleghi Di Noto, che i nostri collaboratori hanno ascoltato il 15 marzo 2017, e Marchesiello. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva caldeggiato – perlomeno, a noi così risulta – presso il procuratore Squadrito la sostituzione di Marchesiello, criticando la conduzione dell'istruttoria preliminare relativa al suicidio dell'avvocato Arnaldi, dopo che quel pubblico ministero aveva escluso dalle indagini i Carabinieri. Com'è noto e come abbiamo ricordato, Arnaldi muore suicida il 19 aprile 1980, circa un mese dopo l'irruzione di via Fracchia, quando vanno a casa sua per arrestarlo i Carabinieri.
Lei poco fa ci ha ricordato che lei non ebbe in visione i manoscritti di Aldo Moro asseritamente rinvenuti nella base logistica delle Brigate rosse, né altra documentazione ivi rinvenuta.
LUIGI CARLI . No.
PRESIDENTE . Avuta lettura delle dichiarazioni verbalizzate dal dottor Di Noto in ordine al materiale sequestrato in via Fracchia, lei ha ribadito, smentendo radicalmente l'assunto di Di Noto, di non aver mai avuto a disposizione quel materiale, ma di aver lavorato esclusivamente sul fascicolo degli atti istruttori relativi alla dinamica dell'azione, che le è pervenuto perché lei era stato delegato dal procuratore Squadrito a formulare le conclusioni scritte del pubblico ministero.
LUIGI CARLI . Sì.
PRESIDENTE . Quindi, lei non ha mai visto alcun documento riferibile ad Aldo Moro?
LUIGI CARLI . No.
Pag. 11PRESIDENTE . Lei ha precisato che i reperti formati in occasione dell'operazione nell'abitazione genovese di Annamaria Ludmann non erano stati mai a sua disposizione. Conseguentemente, non aveva mai avuto notizia della modalità di trasmissione all'autorità giudiziaria degli atti sequestrati dai Carabinieri in via Fracchia.
LUIGI CARLI . Se ne occupava il procuratore della Repubblica.
PRESIDENTE . Il dottor Squadrito. Quindi, lei, conseguentemente, non fu mai informato né degli scavi nel giardino pertinenziale dell'appartamento occupato dalla Ludmann, che furono eseguiti dai Carabinieri dopo l'irruzione, e nemmeno del rinvenimento in quel covo di sacchi di plastica scura con la scritta «da interrare».
LUIGI CARLI . No.
PRESIDENTE . Queste cose gliele dico perché sono quelle che noi abbiamo ricavato dall'interrogatorio di una serie di suoi colleghi che si sono, a diverso titolo, occupati prima di lei di questa vicenda.
Adesso mi interessa che lei approfondisca questo: lei ha riferito, se ho capito bene anche poco fa, di aver avuto notizia dell'esistenza di carte di Moro in via Fracchia in occasioni di riunioni operative con magistrati del distretto di Torino, Laudi, Caselli, Maddalena, Miletto.
LUIGI CARLI . Sì.
PRESIDENTE . I magistrati inquirenti di Torino avevano trattato la fonte Peci in epoca anteriore all'irruzione e lei partecipava in quella sede in quanto pubblico ministero, in quel momento, che doveva fare le conclusioni, se ho capito bene?
LUIGI CARLI . Sì.
PRESIDENTE . A me interesserebbe se lei potesse approfondire questo aspetto.
LUIGI CARLI . Signor presidente, all'epoca, come lei ben sa, vigeva un altro rito penale. C'era l'istruttoria formale. Quindi, quando dopo qualche anno – credo che siamo sicuramente dopo il 1980 – il procuratore della Repubblica mi disse: «Guardi che lei deve fare le conclusioni per la vicenda di via Fracchia. Le faccia con particolare attenzione e prudenza, perché sono in corso varie strumentalizzazioni anche di carattere politico», io lessi tutti gli atti che avevo avuto, quelli che avevo in disponibilità. Ripeto, io all'epoca non mi interessavo ancora di BR.
GERO GRASSI . Mi scusi, per capire, se lei dice «quelli che avevo in disponibilità», significa che altri atti non glieli hanno dati.
LUIGI CARLI . No, io avevo solo gli atti dell'istruttoria formale.
Oggi, come lei sa meglio di me, il procuratore della Repubblica fa quello che vuole e ha tutto, perché l'istruttoria la fa solo lui. All'epoca c'era la figura del giudice istruttore che monopolizzava le indagini di forte momento. Quindi, quello che arrivò a me erano gli atti che mi aveva lasciato l'Ufficio istruzione. Fine del discorso.
Devo dire qualcos'altro?
PRESIDENTE . No, adesso vado avanti ancora con questa nostra ricostruzione.
Quindi, i colleghi torinesi che incontrava avevano in qualche modo dato un'importanza notevole al covo di via Fracchia?
LUIGI CARLI . Certamente.
PRESIDENTE . Quindi, né il procuratore titolare di Genova Squadrito, né il suo aggiunto Meloni avevano mai mostrato a lei siffatti manoscritti?
LUIGI CARLI . Mai visti.
PRESIDENTE . Tanto meno il suo collega Di Noto?
LUIGI CARLI . Mai visti.
PRESIDENTE . Peraltro, il dottor Meloni, escusso dal dottor Donadio, ha detto di non averli mai visti, però poi ha spiegato Pag. 12 che non poteva escludere l'esistenza del ritrovamento. Questo il dottor Meloni lo ha dichiarato recentemente, non allora: ha detto che non li ha visti, ma non può escludere che ci fossero stati.
LUIGI CARLI . Io sicuramente non li ho visti.
PRESIDENTE . Appresa l'esistenza delle carte di Aldo Moro nella base logistica di via Fracchia, dopo questi colloqui a Torino, lei avrà interloquito sicuramente con Squadrito e Meloni, incontrandoli: non le hanno mai detto niente?
LUIGI CARLI . Su Moro? Mai niente.
PRESIDENTE . Ma lei ha detto loro: «A Torino hanno detto...»?
LUIGI CARLI . Facciamo un discorso di carattere tecnico. Io non mi potevo occupare dei fatti torinesi e tantomeno dei romani, anzitutto perché c'erano le regole della competenza territoriale e noi genovesi non avevamo titolo per intervenire su quello. Tutt'al più poteva esserci una curiosità, come potremmo dire, storico-giuridica, ed è per quello che io ho teso le orecchie su certe cose, però chi dovrebbe sapere tutto e aveva continuamente dei contatti erano i torinesi con i romani. Se ricordo bene, doveva esserci Caselli. Sicuramente Maddalena dovrebbe sapere qualcosa. So che avevano contatti continui con il collega Sica, che all'epoca a Roma si occupava... e credo anche il collega Rosario Priore, che era un giudice istruttore.
PRESIDENTE . Ma quando parlavano di queste carte in via Fracchia, aveva la sensazione che fossero nella loro disponibilità, o sapevano solo che c'erano?
LUIGI CARLI . Guardi, da quanto ho capito, sapevano tutto. Poi, le dico, le mie impressioni erano le impressioni di uno che ascoltava: essendo uno dei pivelli della compagnia, stavo soprattutto ad ascoltare. Avevo dei maestri delle indagini e io ascoltavo. E soprattutto, dico la verità, ero estremamente impegnato con le attività dei genovesi, tant'è vero che poi i risultati, come sapete, hanno portato allo smantellamento totale. Quello mi interessava.
PRESIDENTE . Per noi questo è importante: lei apprende lì che esistevano delle carte di Moro in via Fracchia.
LUIGI CARLI . Sì.
PRESIDENTE . Lei torna e né Squadrito né Meloni... Lei avrà fatto loro una battuta: «Ma, insomma, queste carte ci sono o non ci sono?».
LUIGI CARLI . Signor presidente, io non godevo della fiducia del procuratore della Repubblica. Non mi diceva niente, insomma. Gli facevo relazioni tutti i giorni di quello che avevo fatto io, ma lui non mi diceva mai niente. Anzi, le dirò che avevo preso una certa soluzione istruttoria per Fenzi, che poi fu produttiva, e lui mi minacciò di sostituirmi con un altro collega, tanto per chiarire le cose come andavano, ecco.
PRESIDENTE . Quindi, queste carte, se ci fossero state, comunque sarebbero andate a finire o a Torino, o a Roma.
LUIGI CARLI . Certamente. Io penso a Torino, perché sicuramente sono i titolari ... Io sentii parlare di queste cose vagamente da Maria Giovanna Massa, che era la donna di Peci e che fece qualche accenno, che io però non approfondii, pure su questa cosa e su via Fracchia. Maria Giovanna Massa disse: «Sì, quell'uomo fece varie cose e portò al covo e trovarono materiale eccezionale». Forse Maria Giovanna Massa potrebbe dire qualcosa di più.
PRESIDENTE . Lei l'ha sentito da Maria Giovanna Massa, che ha detto: «C'erano cose importanti...», ma non ha approfondito perché, da quanto ho capito, Squadrito le ha detto, in sostanza: «Fai la parte finale e stai pure attento, perché è roba che scotta e non facciamo strumentalizzazioni». Ho capito bene?
Pag. 13LUIGI CARLI . Ha capito perfettamente, signor presidente. Io ero un ragazzotto all'epoca, quindi, figurarsi.
PRESIDENTE . Lei, quando il procuratore Squadrito le disse che c'era interesse da parte di molti, capì se faceva riferimento a partiti politici, intelligence...?
LUIGI CARLI . Fece riferimento a un interesse politico. Non mi disse di chi, né io chiesi. Le dirò, la cosa non aveva rilevanza per le indagini che stavo conducendo e, quindi, era fuori dai miei interessi giuridico-processuali immediati. D'altra parte, era evidente che gli allora vertici della Procura della Repubblica mi consideravano con un certo sospetto, forse anche per la mia provenienza sociale dai quartieri operai di Sampierdarena e per le mie precedenti frequentazioni.
PRESIDENTE . Ho capito.
Poi lei ci ha aiutato a capire un'altra cosa, riguardante i proiettili conficcati sulle pareti del ballatoio dell'appartamento della Ludmann. Da quanto ho capito leggendo le sue dichiarazioni, uno dei sottufficiali che parteciparono all'irruzione, il maresciallo Elio Di Sabatino, prima che i Carabinieri entrassero nell'appartamento, sparò.
LUIGI CARLI . No, non lui. Fu un collega del maresciallo Elio Di Sabatino, che, preso dall'agitazione del momento, rischiò di far saltare per aria l'operazione – così mi disse lui, dovreste sentire lui – perché gli partì una raffica che finì contro il muro. Poi entrarono dentro. A me risulta che entrò per primo il maresciallo Benà. Mi risulta che si prese un colpo di pistola in un occhio e, con le sue urla terrificanti, tutti cominciarono a sparare, finché vuotarono i caricatori. Questo a me risulta.
PRESIDENTE . In pratica, quei colpi sparati da fuori fecero pensare a quelli dentro che si entrava per ammazzarli e iniziò la sparatoria.
LUIGI CARLI . Le dirò, mi fu detto, con termini «carabiniereschi» facilmente comprensibili, che quello «se l'era fatta addosso» e sparò.
PRESIDENTE . Nel contesto della sua esposizione ha riferito di aver appreso dalla terrorista Miglietta (nome di battaglia Nora), tra i primi militanti genovesi delle BR, vicina a Dura, che Aldo Moro era stato ristretto in un sito prossimo al luogo ove venne abbandonato il suo cadavere. La Miglietta l'aveva saputo a Roma, partecipando a una riunione brigatista.
LUIGI CARLI . In realtà, questo discorso non fu solo della Miglietta. Me lo fecero diverse altre persone. In particolare, una cosa del genere mi fu confermata a Verona, quando parlai, mi pare, con Savasta e la Libera. Non vorrei dire una stupidaggine, perché qui vado proprio sul filo della memoria e faccio uno sforzo. Forse anche Morucci e Faranda. Cioè, che a un certo punto successe che il covo fu messo in una situazione di precarietà e di riconoscibilità perché «Sara», cioè la Balzerani, aveva dimenticato la doccia aperta. O è da un'altra parte?
PRESIDENTE . No, quello è il covo di via Gradoli.
LUIGI CARLI . Sto confondendo. Mi dissero due o tre cose, ma, le dico, sono flash, perché a me non interessava. Chiesi: «Perché fu ammazzato Moro?». Mi dissero: «Perché non ce la facevano più a gestirlo. L'attività investigativa era diventata pressante». Dissero che dal punto di vista politico – riferisco de relato – a un certo punto Moro – questo lo seppi soprattutto a Verona, quando partecipai alle indagini per Dozier – non serviva più; doveva essere usato come merce di scambio per il riconoscimento politico delle Brigate rosse, ma, non avendo ottenuto questo risultato, Moro – scusate l'espressione – «non serviva» più a loro. Allora, io osservai: «Ma c'era bisogno di ammazzare una persona? Poteva essere lasciato come Sossi». Risposero: «No, a un certo punto prevalse, dopo lunga discussione, la volontà di sopprimerlo, perché altrimenti si sarebbe indebolita Pag. 14 l'organizzazione anche dal punto di vista militare».
Tanto so, però, ripeto, de relato.
PRESIDENTE . Ho altre tre domande, poi darò la parola ai colleghi.
Sempre nelle informazioni rese ai collaboratori della Commissione in qualche modo mi sembra che trasparisse un interessamento anche dei servizi segreti militari sulla vicenda di via Fracchia.
LUIGI CARLI . Sì. So che giravano... Ripeto, non fui io a fare né l'istruttoria sommaria, né le indagini preliminari. Mi occupai, come ho detto, solo delle conclusioni. So che giravano abbastanza nelle cancellerie dei funzionari dei soggetti che erano del SISMI e del SISDE, però io ne seppi di più su questa faccenda qualche anno dopo, quando mi occupai del sequestro della nave Achille Lauro e riuscii poi a capire che quelle facce che avevo visto circolare qualche tempo prima negli uffici erano dei funzionari dei servizi segreti.
PRESIDENTE . Saranno stati interessati alle famose carte trovate lì, molto probabilmente.
LUIGI CARLI . Penso di sì. Io, ripeto, non lo so. So che circolavano lì. Siccome io sono un buon fisionomista, mi dissi: «Ma io questi qui li ho già visti». La vicenda del sequestro della nave Achille Lauro fu praticamente gestita anche a livello dei servizi segreti, soprattutto dopo la vicenda di Sigonella. La nave, come tutti sapete, partì da Genova, e tutti si domandarono che cosa ci stessero a fare i controlli e i Servizi su un transatlantico e con un gruppo che si era portato le armi dietro, insomma, ecco.
PRESIDENTE . Lei in qualche modo, parlando con dei terroristi pentiti, ha sentito parlare di finanziamenti che, oltre che provenire dalla Bulgaria, potevano provenire pure dal Mossad?
LUIGI CARLI . Da Israele, sì. Infatti, fu una cosa che mi sentii dire da diversi pentiti e non riuscii a capire per quale motivo. Dissi: «È strano che, a un certo punto, il Mossad, un servizio segreto con cui ebbi a che fare poi a pieno regime con la vicenda dell'Achille Lauro, si occupasse di cofinanziare le Brigate rosse. Ma come, sono il cane da guardia degli Stati Uniti nel Mediterraneo... Perché finanziare?».
Mi fu data la seguente spiegazione. Dissero che all'epoca, siccome Israele tendeva ad avere una posizione di privilegio nel Mediterraneo, indebolire, o aiutare a indebolire, la situazione interna dell'Italia avrebbe giovato, per ovvi motivi, ad accrescere il prestigio e l'autorevolezza di Israele.
PRESIDENTE . Questo lo seppe sempre da pentiti della colonna genovese?
LUIGI CARLI . No, anche nei discorsi generali. Io ebbi a che fare con parecchia gente anche di altre colonne. È un discorso che mi fu fatto e che poi credo mi fu spiegato forse più facilmente dai colleghi romani e anche dai veneziani.
PRESIDENTE . Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
PAOLO BOLOGNESI . Lei, dottor Carli, ha accennato che Dura doveva diventare il capo della colonna genovese; ma le varie persone della colonna lo sapevano che non era lucido fino in fondo?
LUIGI CARLI . Lui non aveva molto credito nell'organizzazione, a quanto mi dissero i pentiti, anche a causa dei problemi psichici che lo affliggevano. Almeno tutti quelli che ho sentito parlare, tra l'altro amici suoi, che sapevano tutto sulla vicenda dell'uccisione di Rossa, a ragion di più un certo Duglio, che era un pentito, che poi è quello che mi fece scoprire gli autori del commissario Esposito, ucciso su un autobus nella zona di Albaro di Genova... Duglio mi disse: «Sapevano tutti che questo è un matto. Perché lo tenessero nelle Brigate rosse ce lo siamo sempre domandato». Ora, Duglio era un irregolare, quindi non era un clandestino. Le sue conoscenze non Pag. 15 erano di vertice, però mi confermò... Infatti, fu Duglio che poi mi raccontò tutta la vicenda dell'uccisione di Rossa, perché poi c'erano tre tesi: un secondo cui volevano solo «gambizzarlo»; un'altra versione secondo la quale, quando spararono, siccome Rossa si agitava, allora delle pallottole andarono a colpirlo involontariamente; e la terza versione, che io ritengo la più attendibile, perché poi mi è stata confermata anche da un certo Gianluigi Cristiani, amico di Duglio e brigatista della prima ora della colonna genovese, la 28 marzo, quindi dopo. Mi disse: «Guardi, la realtà è che avevano deciso di “gambizzarlo”, di attaccargli il cartello al collo con su scritto “Traditore della classe operaia”, fotografarlo, “sputtanarlo”». Invece, Dura violò ordini precisi e, come mi confermarono Duglio, Cristiani e altri, a Dura andò bene perché l'organizzazione, di fronte a un errore politico clamoroso – e fu davvero un errore politico epocale – avrebbe attuato delle sanzioni, che sicuramente sarebbero state quelle dell'annientamento.
PAOLO BOLOGNESI . Nonostante questo, c'era la voce che doveva diventare capo della colonna?
LUIGI CARLI . All'inizio, perché non c'era niente a Genova. Non c'era nulla. C'era Dura, qualche aspirante, qualcuno che cercava di entrare nelle Brigate rosse, tipo Garigliano e Gianluigi Cristiani, che da tempo bussava alle porte delle BR, ma l'organizzazione dapprima non lo voleva, ancorché fosse un vero proletario, e poi fu destinato a fare solo l’«irregolare», perché era troppo giovane, e poi aveva un grosso difetto fisico, soffriva di epilessia, per cui in un'azione, se gli fosse capitato un attacco durante un annientamento... Una delle cose che dissero era che Cristiani aveva partecipato all'azione contro Rossa. Non è possibile, perché le Brigate rosse erano attentissime. Correre il rischio di far saltare per aria un'organizzazione e un'azione di quel tipo con uno che viene preso da un attacco epilettico... mi sembra che sia evidentemente impossibile.
Quindi, fino a dopo via Fracchia, quando si costituì la «28 marzo», che era la data del fatto, la colonna genovese vera e propria non esisteva. Simpatizzanti sì, prestanome sì, tipo la Ludmann, persone che bussavano alla porta delle Brigate rosse anche nell'ambito dell'Italsider, tipo Gianni Cocconi, sì, però non esisteva una colonna.
PAOLO BOLOGNESI . Quando lo abbiamo ascoltato, il professor Fenzi ha accennato all'ipotesi che Dura avesse partecipato all'operazione di via Fani, addirittura. Una cosa del genere lei l'ha mai sentita? Gliel'hanno mai accennato?
LUIGI CARLI . Mi sembra – posso dirlo con franchezza? – proprio una fantasia di Fenzi, il quale, tra l'altro, ripeto, era un valido ideologo, ma sotto il profilo operativo e militare era un po’ una schiappa, ecco; e ritenuto tale, tra l'altro, anche dai vertici della stessa organizzazione, che preferivano averlo arruolato più come ideologo che come «soldato».
PAOLO BOLOGNESI . Lei ha solo fatto le conclusioni per quello che riguarda via Fracchia; ma si è occupato comunque, per fare le conclusioni, di tutta la dinamica dell'operazione di via Fracchia?
LUIGI CARLI . Onorevole, noi a quell'epoca avevamo l'istruttoria formale. Il pubblico ministero faceva solo le conclusioni. Di quello se ne era occupato il giudice istruttore, bisognerebbe chiedere a lui. Io ho fatto le conclusioni sugli atti che l'Ufficio istruzione mi ha recapitato, basandomi su quello che letto, misurando le parole, cercando di essere il più obiettivo possibile, perché così mi era stato detto di fare, ma non ho visto altro.
Le dirò, sinceramente, che della vicenda di Moro, visto che mi avevano allontanato in modo piuttosto poco diplomatico, me ne sono poi sostanzialmente disinteressato, dicendo: «Vedetevela voi». Posso fare un'affermazione – ormai ho i miei anni e sono in pensione come magistrato –: le Brigate rosse a Genova le ho fatte fuori io, però non mi hanno mai riconosciuto alcun merito personale o professionale (nelle mie note personali, infatti, risulta per tabulas, a Pag. 16 detta degli allora responsabili della Procura di Genova, solo che, nella mia carriera, mi sono occupato di BR) e anche io ho detto: «Sentite, signori, attaccatevi al tramvai. Se le indagini devo farle io, vi faccio le indagini su quello e quell'altro. Quello che non mi date non mi interessa». Secondo me, di prestigio personale ne avevo acquisito abbastanza, sia presso le forze di polizia, sia nell'ambiente giudiziario genovese (e anche fuori), essendo stato io – come sapevano tutti – a smantellare le BR genovesi. Senza contare che solo grazie ai «miei» pentiti è stato possibile arrivare all'imprendibile colonna romana. Fu infatti soprattutto grazie a Cecconi e Scozzafava che venne individuato il covo di Ave Maria Petricola, scoperta che poi ha aperto la strada per l'individuazione della colonna romana. Se permette, era già abbastanza.
PAOLO BOLOGNESI . No, sa, io non sono qui per fare...
PRESIDENTE . I pubblici ministeri hanno fatto l'inizio. Poi trasmisero, dopo cinquanta giorni, al giudice istruttore. Poi il giudice istruttore li trasmise al pubblico ministero per le conclusioni. Quindi, il dottor Carli ha preso solo le carte che gli sono arrivate dal giudice istruttore, dove non c'era traccia né di manoscritti, né di dichiarazioni di scavi, né di altro. Sente parlare di manoscritti quando va a Torino, però, quando torna, è inutile che chieda in giro, visto che gli avevano già detto di fare attenzione perché era una pratica che scottava.
PAOLO BOLOGNESI . Ad esempio, sul fatto che i Carabinieri avessero sottratto praticamente tutto agli occhi dei magistrati per un certo numero di giorni, lei non ha...?
LUIGI CARLI . Onorevole, sono cose su cui potrebbero riferirvi molto meglio i torinesi. Sono loro i mandanti, sono loro i destinatari di queste cose. Sanno tutto loro. Quello che ho sentito io sono informazioni de relato quando i torinesi parlavano con i romani. In queste riunioni che noi facevamo in varie parti d'Italia, stavo ad ascoltare, ma io ovviamente facevo mente locale a quello che mi interessava. Sinceramente, come cittadino, ero particolarmente rattristato della fine di Moro, anche se le mie idee politiche erano opposte, perché all'epoca mi volevano ammazzare perché mi consideravano un berlingueriano. Comunque, a un certo punto, sinceramente, ho fatto un discorso non da struzzo, ma la mia competenza nelle indagini non si estendeva oltre la Liguria.
PRESIDENTE . Mi pare di poter dire, se non ho capito male – se vado oltre quello che lei ha detto, mi corregga – che all'inizio intervennero Di Noto e Meloni e il procuratore Squadrito, che sarà stato interessato. Poi, alla fine di tutto questo giro, arriva un'istruttoria fatta dal giudice istruttore che dice una serie di cose.
Dai colloqui avuti con i colleghi torinesi, il dottor Carli, in quanto estensore finale, apprende che via Fracchia ha un grande interesse, che c'erano carte di grande interesse anche per la vicenda Moro, che non aveva mai visto.
Questo rende ipotizzabile che, se quelle carte c'erano, i Carabinieri che sono intervenuti, con gli accordi dei magistrati competenti, evidentemente le hanno date ad altri che se ne occupavano, altri di Torino o di Roma. Questo mi pare di poter dire. Ho capito bene?
LUIGI CARLI . È quello che è vero.
GERO GRASSI . Le faccio prima due domande che non c'entrano direttamente con quello che abbiamo discusso. Lei ricorda chi era il magistrato della Procura di Genova che aveva un figlio terrorista?
LUIGI CARLI . Un figlio terrorista? Avevano parlato di un aspirante terrorista, che però non era entrato nelle Brigate rosse perché non ce l'avevano voluto, era il figlio del precedente procuratore della Repubblica, Grisolia. Grisolia (ma – ripeto – sono carte che poi ho avuto successivamente) era stato denunciato da un giornalista, che l'aveva visto telefonare da una cabina telefonica Pag. 17 dove avevano trovato poi per terra degli opuscoli delle Brigate rosse. Mi dissero però i vari brigatisti genovesi pentiti, in particolare Bozzo, che era il capo del logistico, che Grisolia non l'avevano voluto, perché era come il figlio di Arnaldi, non era affidabile.
GERO GRASSI . Un'altra domanda: seppur lei abitava in zona diversa rispetto all'ex Ministro Taviani, probabilmente si sarà incontrato con lui a Genova. Cosa ci può dire a proposito della figlia, aspirante terrorista?
LUIGI CARLI . Sulla figlia di Taviani non ho saputo nulla. Posso parlare di diversi aspiranti terroristi, ma dalla figlia di Taviani è la prima volta che ne sento parlare.
GERO GRASSI . Se vuole, poi le racconto i particolari.
LUIGI CARLI . Io so di vari aspiranti: il figlio di Arnaldi, il figlio di Grisolia, poi qualche altro esponente politico genovese, però le Brigate rosse all'epoca erano estremamente fiscali e, prima di far entrare uno... C'era un famoso giornalista che adesso si occupa al quotidiano «Il Secolo XIX» di cronaca sportiva: non lo fecero entrare nelle Brigate rosse perché era alto due metri. Semplicemente dissero: «Se facciamo un'azione con questo alto due metri, il giorno dopo sanno tutti chi è!». Cercavano delle figure il più possibile neutre, direi anonime.
GERO GRASSI . Lei quando è entrato, se è entrato, nel covo di via Fracchia?
LUIGI CARLI . Mai.
GERO GRASSI . Mai?
LUIGI CARLI . Mai!
GERO GRASSI . Quindi, la documentazione le è stata data dopo l'eccidio e dopo che sono entrati tutti, perché lei sa che là c'è un periodo...
LUIGI CARLI . Le faccio la storia, onorevole, se mi consente.
PRESIDENTE . L'ha detto, ora semmai completerà: arrivano i pubblici ministeri di turno, poi i Carabinieri con i pubblici ministeri di turno se la suonano e se la cantano secondo quello che avevano necessità di fare, poi avranno mandato tutto dopo cinquanta giorni al giudice istruttore; il dottor Carli arriva quando il giudice istruttore manda alla Procura la conclusione delle indagini per fare le richieste finali. Ho capito bene?
LUIGI CARLI . Certo, le requisitorie.
GERO GRASSI . Quindi, lei non è mai entrato nell'appartamento di via Fracchia.
LUIGI CARLI . I fatti si sono svolti così: quando successe via Fracchia, i Carabinieri arrivarono e, poiché a Genova non esisteva ancora un pool antiterrorismo, se ne occupò il collega Maffeo, che era un ragazzotto ed era il magistrato di turno.
Siccome il procuratore aggiunto non si fidava di questo Maffeo e aveva le sue ragioni, mandò il collega Michele Marchesiello – attualmente in pensione e in buona salute, a quanto mi risulta – il quale poi fece una cosa che al limite si dimostrò anche non stupida, cioè quando ci fu l'uccisione di Arnaldi mandò via i Carabinieri e non chiamò neppure la DIGOS, ma fece intervenire la Squadra mobile; tutto sommato, doveva essere una sorta di patente di obiettività degli accertamenti. Soltanto che ciò suscitò le ire di Dalla Chiesa e del Ministro dell'interno dell'epoca, che non so chi fosse.
PRESIDENTE . Rognoni.
LUIGI CARLI . E allora successe un bailamme infinito. Poi intervenne l'assoluzione in Corte d'assise di tutti i primi imputati per fatti associativi in relazione alle dichiarazioni accusatorie di un certo Berardi, poi suicidatosi, e poi alla morte di Guido Rossa, accusato dalle BR di essere una spia. Tutti furono assolti dalla Corte Pag. 18 d'assise genovese con una sentenza che Dalla Chiesa definì «l'ingiustizia che assolve» e ci fu la diaspora di tutti i magistrati che si erano occupati di Brigate rosse.
Il procuratore della Repubblica all'epoca interpellò vari colleghi, ma non riuscì ad incaricarne: uno perché era parente di uno degli indagati, gli altri non potevano perché avevano una fila di problemi di famiglia; e io, che ero l'ultimo sostituto di turno, siccome sono sempre stato abituato – come figlio di militare e, per giunta, di ascendenze tedesche – a ubbidire, ho accettato, seppure non con grande entusiasmo ed augurandomi che non mi ammazzassero, come accaduto a tanti colleghi «esposti». Questo è successo un bel po’ dopo l'irruzione in via Fracchia.
Per mia fortuna, in un'azione spontaneistica di rappresaglia per i fatti di via Fracchia, la DIGOS di Genova arrestò Roberto Garigliano che, mentre stava preparando un attentato dinamitardo contro la caserma dei Carabinieri di Castelletto a Genova, si infortunò. Quando lo interrogai, sapendo parlare la sua lingua, mi aprì la strada verso le imprendibili e sanguinarie BR genovesi. E dico ancora che, se non avessimo avuto l'apporto probatorio dei pentiti, staremmo ancora a indagare su chi fossero e cosa avessero fatto le Brigate rosse.
GERO GRASSI . Facciamo questa ricostruzione ipotetica: lei si incontra con i magistrati di Torino, sente sull'episodio di via Fracchia degli eventi che non conosce, non chiede spiegazioni (o, se le chiede, ci dica cosa le risposero), dopodiché torna a Genova, dice al procuratore della Repubblica di aver sentito delle cose che non ha capito (perché non ha avuto le carte e non le è stato detto...), e il procuratore Squadrito le dice, in sostanza: «Lei faccia il dovere suo, di questo non si preoccupi». È veritiera questa ricostruzione? Ovviamente, l'oggetto è via Fracchia.
LUIGI CARLI . Nella sostanza sì. E le dirò un'altra cosa (sono i flash nella memoria, perché sono passati quarant'anni!): i colleghi di Torino e di Roma che ne parlavano erano molto riservati.
GERO GRASSI . E secondo lei, perché erano riservati nei suoi confronti, visto che lei non era un passante?
LUIGI CARLI . No, guardi, in quelle riunioni c'erano diversi gruppi: c'erano gli investigatori di serie A, quelli di serie B e le new-entry; e io era una new entry.
GERO GRASSI . Sì, ma sembra più un intruso che una new entry!
LUIGI CARLI . No, perché io avevo già alle spalle una serie di successi investigativi e processuali, plurime e piene confessioni e decine di arresti. Erano cose che riguardavano gli omicidi e le «gambizzazioni» genovesi, e il sequestro genovese, però ero già arrivato con un certo prestigio di risultati.
Le dirò che io però non ho neanche insistito, perché il principio della competenza territoriale mi impediva di interessarmi di fatti processuali non di mia pertinenza.
PRESIDENTE . Per rispondere all'onorevole Grassi, si può dire che lei, di fondo, non si è preoccupato più di tanto che quelli di Torino parlassero delle carte di Moro di via Fracchia, perché nella sua testa lei aveva già fatto l'equazione: se i Carabinieri hanno trovato le carte, è normale che le abbiano date a Torino o a Roma per competenza.
LUIGI CARLI . A Torino.
PRESIDENTE . Capito qual è il discorso? A lui sembrava normale, io non lo so, magari altri non lo sanno, però, se lì queste carte c'erano, era normale che andassero a Torino, non è che le tenevano a Genova! Quindi non gli è sembrato che dicessero una cosa sconvolgente, c'erano delle carte e le hanno mandate a Torino.
GERO GRASSI . Sì, però, quando il dottor Carli ha posto intelligentemente un'obiezione non all'usciere della Procura, ma al procuratore, questi sostanzialmente gli ha detto: «Fatti i fatti tuoi».
Pag. 19PRESIDENTE . Che è un modo per dire: «Fatti i fatti tuoi, perché se ne occupano loro».
LUIGI CARLI . Certo, è proprio così. «Tanto sono rogne che si grattano loro», così mi ha detto.
GERO GRASSI . Quindi, anche per lei, a distanza di quasi quarant'anni, quella vicenda, come per noi e per quelli che stanno fuori, presenta delle zone attualmente ancora inesplorate?
LUIGI CARLI . Beh, sull'omicidio di via Fracchia ho dovuto fare le conclusioni, presumo che forse la Commissione le avrà anche avute. Io ho fatto le requisitorie del pubblico ministero sugli atti che mi sono stati recapitati dal giudice istruttore. Il resto sinceramente a me non interessava, perché oltretutto poteva anche...
GERO GRASSI . Chiedo scusa se la interrompo, però lei non può dire «a me non interessava», perché...
LUIGI CARLI . Giuridicamente non mi interessava, onorevole. Il problema è questo; per esempio, se avessi violato le regole di competenza, gli atti da me compiuti sarebbero stati invalidati e processualmente inutilizzabili.
GERO GRASSI . Sì, ma lei è di Genova, è vissuto nei quartieri popolari, ha conosciuto e parlava la stessa lingua dei brigatisti, ha detto che i torinesi erano i mandanti...
LUIGI CARLI . I mandanti della vicenda di via Fracchia, sì.
PRESIDENTE . I mandanti dell'operazione, per capirsi.
GERO GRASSI . Sì, certo, non delle uccisioni di via Fracchia. Ci mancherebbe...
LUIGI CARLI . Il provvedimento di sequestro e il provvedimento di perquisizione furono fatti dai torinesi.
PRESIDENTE . E i Carabinieri furono scelti dai torinesi.
GERO GRASSI . A Genova l'episodio di via Fracchia non fu un episodio normale, tant'è che la mattina del giorno in cui si verificò ci fu una telefonata a un giornalista, che fu il primo a saperlo. Via Fracchia fu circondata da giornalisti e Polizia, il questore dice che non lo fecero entrare, i poliziotti furono cacciati: cioè, non è che lei sta parlando della curva del Genoa contro la Sampdoria, sta parlando di una cosa...
LUIGI CARLI . Con tutto il rispetto della curva del Genoa, premesso che sono sampdoriano, a parte quello...
GERO GRASSI . Ma anch'io sono sampdoriano!
LUIGI CARLI . Se ne occupavano il procuratore della Repubblica Antonino Squadrito, il procuratore aggiunto Luigi Francesco Meloni, il collega Michele Marchesiello. Io all'epoca ero fuori da tutto, e, dunque, prima di ricevere l'incarico di formulare l'indicata requisitoria, erano fatti per me processualmente del tutto sconosciuti.
Le dirò una cosa che invece mi viene in mente adesso: siccome io avevo avuto un omicidio «normale», ordinario...
PRESIDENTE . Un omicidio non terroristico.
LUIGI CARLI . Uno che aveva ammazzato l'amante o viceversa, non mi ricordo. Andai, come fanno i pubblici ministeri, all'Istituto di medicina legale e vidi i cadaveri di quelli che avevano ucciso in via Fracchia e restai allibito. Io non sono un appassionato frequentatore di obitori però, dovendo guardare il cadavere di mia pertinenza, guardai anche quelli degli altri e l'unica cosa che mi fece una grossa impressione fu vedere questi cadaveri, che erano lì; tra l'altro sembrava di vedere quei film che ci sono adesso in televisione, NCIS, dove si vedono quelli con il telo sopra. Però io non avevo nessun titolo per occuparmene Pag. 20 all'epoca e non lo ebbi fin quando non intervenne il famoso attentato alla caserma dei Carabinieri di Castelletto, che segnò la mia investitura nelle inchieste sulle Brigate rosse.
Prima mi occupavo di ordinaria amministrazione giudiziaria, così quando il procuratore della Repubblica mi «invitò» a occuparmi di terrorismo, al mio «ni» (alquanto tremebondo, in verità) mi riempì l'ufficio di fascicoli, ma non di quello o quelli relativi a via Fracchia.
PRESIDENTE . Ha detto una cosa che mi ha aiutato a capire, perché non avevo ancora capito bene.
L'operazione di via Fracchia – ecco perché il dottor Carli non si meraviglia – nasce dalla Procura di Torino, che individua anche il nucleo che doveva intervenire con i Carabinieri, e hanno scelto evidentemente quelli più incisivi, come quelli di Dalla Chiesa. Per questo, se lì ci fossero mai state carte di Moro come ha sentito dire, era del tutto normale che le portassero a Torino, perché l'operazione era di Torino. Poi se era proprio normale o non normale, è tutta una cosa da vedere, però nella testa di Carli era evidente che, siccome i Carabinieri di Dalla Chiesa erano intervenuti e l'operazione l'aveva confezionata, dalla perquisizione in poi, la Procura di Torino, quelle carte andavano a Torino.
Dovremmo vedere se di queste carte esista un eventuale fascicolo alla Procura di Torino o di Roma; ci deve essere per forza, visto che ne parlavano.
GERO GRASSI . Sì, ma il problema di via Fracchia non consiste soltanto nelle carte, presidente. Io apprezzo la sua captatio benevolentiae, è spettacolare, ma il problema di via Fracchia non sono soltanto le carte, è l'intera operazione, che, a distanza di quasi quarant'anni, nasconde qualcosa. Sto tentando di interloquire con il dottor Carli per cercare di capire qualcosa in più.
È chiaro che lui ha risposto come ha risposto...
LUIGI CARLI . Sarei felicissimo...
PRESIDENTE . Ma il problema è se la Procura di Genova prima di essere chiamata sapesse che c'era questa operazione.
GERO GRASSI . Ma ci mancherebbe altro, lei sta dicendo tutta la verità, per carità!
LUIGI CARLI . E ci mancherebbe altro, tutta la vita a difesa degli altri...!
PRESIDENTE . Il dottor Carli sta dicendo una cosa importante, dal mio punto di vista, cioè un magistrato è stato chiamato alle 6.30-6.45, un altro si è presentato perché era quello competente e designato a stare lì. Il problema è che se dell'operazione la Procura di Genova fosse stata informata precedentemente, ci sarebbe stato lì il procuratore capo a entrare con i Carabinieri. Se è una operazione della Procura di Torino, i magistrati genovesi sono stati chiamati quando il fatto è successo e i brigatisti erano tutti morti.
Questa è la mia preoccupazione. Se la Procura di Genova è quella che fa l'operazione di via Fracchia, allora non si sveglia un sostituto di turno alle 6.30, perché sono tutti svegli e stanno lì insieme ai Carabinieri. Se i Carabinieri si svegliano alle 6.30 è perché l'ordine di perquisizione era firmato, l'ha firmato la Procura di Torino, quindi la Procura di Torino è la titolare a suo modo delle indagini. Questa è una cosa leggermente diversa dalle cose che ci siamo raccontati e che merita un oggettivo approfondimento, non perché sia ossessionato dalle carte, ma i mandati sono stati firmati dalla Procura di Torino, i Carabinieri sono andati lì sotto l'egida di Torino, altrimenti non si sveglia un procuratore di turno alle 6.30 per un'operazione di quella portata. Evidentemente la Procura di Genova l'ha saputo a operazione finita, quando le hanno telefonato, e se lì sono scomparse cose perché prese da altri, lo sapremo in un'altra vita, però il problema è che c'è stata una super vigilanza.
Questa onestamente è una cosa che non sapevo. Io ero convinto che l'operazione fosse della Procura di Genova, invece era della Procura di Torino, sono intervenuti i Pag. 21 Carabinieri individuati dalla Procura di Torino, le eventuali carte erano sotto la competenza della Procura di Torino, quindi, come dice giustamente il dottor Carli, dobbiamo andare a vedere a Torino che fine abbia fatto questa roba, perché se c'era un fascicolo «via Fracchia», o lo hanno ritrasmesso a Genova oppure qualcosa deve esistere.
LUIGI CARLI . Per essere precisi: Procura e Ufficio istruzione di Torino.
GERO GRASSI . E Carabinieri di Torino.
LUIGI CARLI . E Carabinieri di Torino.
PAOLO BOLOGNESI . Lì avranno la lista del materiale che hanno sequestrato.
LUIGI CARLI . Certo. Sono partiti loro, Peci gli ha fatto i riferimenti su dove andare, è arrivato il nucleo particolare di Dalla Chiesa, completo degli appoggi dei Carabinieri locali, perché così prevede lo statuto dell'Arma, però ha fatto tutto Torino. Il collega Maffeo era il magistrato di turno che si occupava degli incidenti stradali, dei morti sulla strada e fu chiamato lì. Poi fu spedito via perché era un ragazzino e ci andò il collega Michele Marchesiello, che era designato ad occuparsi del terrorismo. Siccome fece quella topica (ma secondo me non lo era), perché poi dopo via Fracchia ci fu l'arresto di Arnaldi. Arnaldi si chiuse nel gabinetto e si sparò un colpo di pistola e allora il collega fece intervenire la Questura invece della DIGOS, come avrebbe dovuto, o dei Carabinieri, che poi erano lì per eseguire l'arresto.
PRESIDENTE . Quindi, dottor Carli, per non tormentarla più, da una parte c'era quello che lei aveva sentito dire dai magistrati di Torino, dall'altra però, per ricapitolare, la compagna di Peci in tutt'altro luogo le fece un accenno a cose importanti che erano state rinvenute in via Fracchia.
LUIGI CARLI . Mi disse che a via Fracchia avevano trovato dei documenti molto importanti. Siccome questa Maria Giovanna Massa, che a me interessava perché era poi entrata a far parte della colonna genovese, era stata quasi strangolata da un'altra genovese, perché sospettata...
PRESIDENTE . Però questi brigatisti genovesi!
LUIGI CARLI . Erano dei sanguinari terrificanti. Maria Giovanna Massa, quando io la interrogai, sembrava un'impiccata, perché avevano tentato di strangolarla. Decise di parlare quando una genovese le saltò addosso e cercò di strangolarla con un collant. La Massa, che mi aveva sempre indirizzato parolacce, mi mandò a chiamare (era il carcere di Tortona e ricordo che c'era una nebbia feroce) e ci andai con il giudice istruttore, perché queste attività si facevano sempre insieme. Parlava – poveretta – come poteva parlare una semi-strangolata e mi raccontò tutte queste varie cose e si pentì. Disse: «Dicevano che ero pentita? Mi pento!», e ne raccontò di cose.
PRESIDENTE . La stavano per ammazzare perché dicevano che era pentita?
LUIGI CARLI . Sì, e lei non si era pentita per niente, tra l'altro, e non le dico le parolacce che mi aveva detto quando l'avevo interrogata la prima volta.
PRESIDENTE . Ringraziamo il dottor Carli.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta è sospesa, riprenderà alle 16.30.
(La seduta, sospesa alle 15.55, riprende alle 16.40)
Audizione di Domenico Di Petrillo.
PRESIDENTE . L'ordine del giorno reca l'audizione del colonnello Domenico Di Petrillo, che ringraziamo per la sua presenza oggi. Ha avuto un ruolo investigativo di grande rilievo, dal 1978 al 1989 ha comandato la Sezione speciale anticrimine di Roma, è stato inoltre comandante provinciale dei Carabinieri di Cagliari dal 1989 al Pag. 22 1992 e direttore del Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Roma.
L'attività investigativa del colonnello Di Petrillo sulle Brigate rosse è iniziata sostanzialmente dopo il sequestro Moro. Si è tuttavia ritenuto che l'audizione presentasse diversi motivi di interesse, soprattutto in relazione alla vicenda della colonna romana delle Brigate rosse e al suo smantellamento. Ricordo, a tale proposito, che permangono ancora elementi da approfondire sul ruolo della colonna romana nel sequestro Moro. La partecipazione al sequestro di alcuni militanti come Raimondo Etro e Germano Maccari è stata scoperta solo tardivamente e due membri importanti della colonna, Lojacono e Casimirri, sono tuttora latitanti. Permangono inoltre questioni aperte sull'apporto al sequestro dei brigatisti della colonna romana ancora non noti.
Qualora il colonnello Di Petrillo dovesse ritenerlo opportuno, possiamo passare in seduta segreta in qualunque momento; in ogni caso, la parte terminale dell'audizione sarà in forma segreta perché riguarderà attività di indagine in corso.
Le chiedo anzitutto di fornire alla Commissione un quadro sintetico della sua carriera nell'Arma dei Carabinieri, integrando la sommaria presentazione che ho fatto.
DOMENICO DI PETRILLO . Ho iniziato la mia attività militare alla Scuola militare Nunziatella, dove ho fatto il liceo, quindi all'Accademia militare di Modena e alla Scuola ufficiali. Dopo due anni alla Scuola sottufficiali come comandante di plotone, sono stato inviato in Sardegna come comandante della tenenza di Isili, in provincia di Nuoro. Ho avuto in quel contesto la possibilità di esprimermi anche dal punto di vista investigativo, per cui i miei superiori, dopo un transito alla compagnia di Tempio Pausania, mi incaricarono del comando del Nucleo investigativo di Nuoro, che all'epoca era fortemente investito dall'anonima sequestri e dall'attività di una grande criminalità organizzata, sebbene locale. Alla fine della mia esperienza al Nucleo investigativo che si concluse nel 1977, il servizio di sicurezza della Polizia di Stato segnalò un progetto omicidiario nei miei confronti da parte di una cosca di criminalità comune, che però presentò successivamente degli addentellati in Barbagia Rossa. Ebbi un grosso attentato alla caserma, rifiutai al momento il trasferimento perché volevo concludere un'indagine, e poi questo trasferimento si concretizzò con il sequestro Moro.
Io ero già destinato alla Sezione anticrimine di Roma nel 1977. Quando arrivo alla Sezione anticrimine di Roma arriva anche Mario Mori, oggi generale. Io arrivo il 24 maggio 1978, Mori era arrivato poco prima, credo proprio il giorno dopo il sequestro Moro. Assumo quindi le attività inerenti al nucleo della sinistra eversiva. In effetti la Sezione era tutta incentrata su quel settore perché era quello più preminente.
La Sezione si era già formata nel 1975, allo scioglimento del Nucleo speciale di polizia giudiziaria del generale Dalla Chiesa, ma non era mai stata tenuta a regime dal punto di vista della dotazioni di uomini, perché il fenomeno a Roma era sottovalutato da tutti. Il sequestro Moro invece risveglia, quindi la Sezione viene portata a regime di uomini, che erano 33 in organico (3 ufficiali e 30 uomini).
Iniziamo quindi quell'avventura, con molta difficoltà perché la Sezione non aveva un archivio, non aveva una cultura, non aveva una storia. L'aveva il Nucleo speciale e quindi le sezioni del nord, perché la matrice operaista consentiva di concentrare in ambiti più ristretti la ricerca, mentre Roma era caratterizzata da numerosissimi collettivi di diverso tipo e, quindi, quando affrontiamo il problema ci troviamo veramente «nudi». I primi momenti vengono quindi dedicati ad una ricerca spasmodica per tentare di mettere insieme un po'di nominativi, per farci un quadro generale.
In quel periodo della mia carriera rimango alla Sezione anticrimine di Roma fino al settembre del 1989, quando per ragioni di periodo di comando, obbligatorie per l'avanzamento al grado superiore, vengo mandato al Comando provinciale del Gruppo di Cagliari, dove rimango per due anni e mezzo, invece dei tre previsti, perché partecipo Pag. 23 alla fondazione della DIA come capo centro di Roma. Il centro di Roma fu il primo a fondarsi, per dare il tempo agli altri schierarsi sul territorio, tant'è che, pur essendo a Roma, il centro venne indirizzato prevalentemente su «cosa nostra» palermitana e, quindi, dall'omicidio Salvo Lima fino agli attentati sul territorio è stata un'attività che abbiamo svolto in maniera molto intensa.
Ho lasciato la DIA agli inizi del 1995 per assumere la direzione della divisione contro il terrorismo del SISDE. Sono stato chiamato a quell'incarico dal direttore, un generale dell'Arma. Rimango alla divisione per circa un anno e mezzo, dopodiché accetto le offerte di una società di «cacciatori di teste», mi dimetto e vado a dirigere per dieci anni la sicurezza del gruppo ENI in tutto il mondo. Sono rimasto lì fino al 2006 e attualmente svolgo analoga attività per un'altra società di ingegneria petrolchimica.
Tornando al racconto, quindi, in quel periodo iniziale riusciamo a mettere in piedi delle operazioni: sulla strage di Patrica, cioè l'omicidio del procuratore Calvosa e della scorta; lo sviluppo di un'operazione conseguente a una rapina nel 1982 da parte di frange di ex Prima Linea, Comunisti organizzati per la liberazione proletaria, che fanno una rapina a Siena e poi hanno un conflitto a fuoco a Monteroni d'Arbia, dove ammazzano due giovani carabinieri ausiliari di vent'anni, giustiziandoli con un colpo in testa dopo averli feriti, quando erano ormai innocui, e ferendo gravemente un maresciallo comandante di stazione. Riusciamo poi a via Voghera a prenderli un po'tutti.
Un'altra operazione che facemmo in quel periodo, nel 1979, fu contro le Unità comuniste combattenti, una formazione armata che però nel 1979 era già sostanzialmente svanita, si era già auto-sciolta. Riusciamo a prendere il bandolo della matassa dopo piccole cosette fatte su Roma, ma niente che ci consentisse di entrare in un contesto, come volevamo, e nel 1979 impostiamo un'operazione che chiamai Olocausto, perché in quel periodo c'era il film omonimo e avevamo l'abitudine per tutte le operazioni, dal punto di vista interno, di dare un nome talvolta anche pittoresco. Impostiamo quindi l'operazione che in effetti è quella che forma l'anima del reparto, perché dura dieci anni ed è composta da nove sotto-operazioni che sono state scandite nel tempo, prevalentemente sulla colonna romana, seguendo gli sviluppi ideologici delle varie discussioni interne, oltre che le operazioni scandite. Questo modo di fare ci consentì anche di seguire le spaccature nel Partito guerriglia, nell'Unione dei comunisti combattenti e le Brigate rosse-Partito comunista combattente.
Si consolidò sempre di più un approccio da polizia di sicurezza, sebbene con gli strumenti della polizia giudiziaria. Ritengo che l'operazione sia stata portata avanti efficacemente, l'abbiamo imparata prendendo schiaffi e quindi imparando bene dagli errori; l'abbiamo imparata facendola e vedendo qual era il metodo migliore per smantellare l'organizzazione, non inseguendo i singoli episodi, ma cercando di individuare, attraverso gli episodi, l'organizzazione per smantellarla.
Riusciamo a farlo in più occasioni: l'Unione dei comunisti combattenti nel 1986-1987 riusciamo a cancellarla completamente; nel 1988, analogamente, le BR-PCC, con un'operazione importantissima a Roma, che poi ebbe un rivolo l'anno successivo, nel settembre 1989 a Parigi, dove, operando insieme ai Reinsegnements généraux della Prefettura, riusciamo ad affittare un appartamento a questi signori e quindi a contarli; alla fine vengono arrestati tutti insieme ai francesi.
Questo è stato lo sviluppo investigativo della Sezione, che con il passare del tempo e con gli eventi che uscivano si espresse in maniera molto positiva anche sull'eversione di destra e su quella del terrorismo internazionale, con punte molto importanti anche nell'anti-proliferazione, con operazioni che riguardarono, durante la guerra tra Iran e Iraq, le bombe cluster, cioè ordinativi di parti di bombe che gli iracheni avevano commissionato alle ferriere della Toscana e del Piemonte. Un'altra operazione che si chiamava Condor 2 riguardava la trasformazione di un missile balistico Pag. 24 meteo in un missile a motore mobile, quindi pericoloso da un punto di vista militare, e poi ancora un'altra operazione, Supercannone, iniziò quando stavo andando via, sempre nell'ambito della guerra tra Iran e Iraq, e viene portata a termine quando ho già lasciato la Sezione.
Questo è l’excursus della mia esperienza.
PRESIDENTE . Lei giunse a Roma, come ci ha appena detto, nel corso del 1978, successivamente al sequestro Moro. Può darci una valutazione della situazione che trovò, a cui ha appena accennato, e dell'adeguatezza dell'Arma nel contrasto al terrorismo e delle strategie utilizzate?
DOMENICO DI PETRILLO . Come ho detto prima, il Nucleo speciale del generale Dalla Chiesa si costituì nel 1974 e dopo un anno e due mesi (mi sembra nel settembre del 1975) si sciolse inopinatamente, perché il problema non era affatto finito, anzi probabilmente era appena iniziato o quantomeno si era appena delineata esattamente la situazione.
L'Arma ebbe un'intuizione, perché allo scioglimento del Nucleo corrispose un adeguamento territoriale: il Nucleo venne sciolto e vennero create delle Sezioni distribuite sul territorio nelle grandi città (Genova, Torino, Milano, Padova, Roma, Napoli), con delle sottosezioni a Firenze, a Bologna e, credo, a Verona (comunque è ricostruibile), che iniziarono questa attività.
Per i motivi cui ho accennato prima il problema terrorismo era più sentito al nord, quindi quei reparti vennero tenuti sostanzialmente a regime da un punto di vista di dotazioni di uomini e mezzi, mentre Roma subì un ritardo notevole: furono inizialmente otto quelli che vennero destinati dallo scioglimento del Nucleo. Agli uomini che partirono dal Nucleo, siccome avevano fatto molto bene, Dalla Chiesa chiese quale destinazione avrebbero gradito, e su Roma di quel numero ne vennero concentrati otto.
Alcuni poi lasciarono, però vennero reintegrati altri sette od otto uomini per arrivare a una quindicina. Impostarono nei primi tempi delle attività – mi raccontavano – sempre però con una grande difficoltà, perché questa attività sul territorio romano veniva giudicata sicuramente secondaria rispetto ad altri problemi di criminalità.
All'epoca c'era la banda Bergamelli-Berenguer e tutta quell'area, con i sequestri di persona, che dava una pressione più specifica. Comincia qualcosa nel 1977, quando ci sono i movimenti di piazza, però di fatto la Sezione viene costituita in maniera più aggressiva soltanto durante il sequestro Moro, convogliando sul reparto le risorse necessarie.
Questa situazione anzi andrà sempre migliorando perché, a differenza degli altri reparti, ci consentirono di scegliere gli uomini, quindi noi eravamo gli unici nella storia dell'Arma ad andare alla Scuola sottufficiali a scegliere le persone da far trasferire.
Avevamo costruito all'interno della Sezione di Roma tre fasce: una era costituita dagli anziani, quelli che avevano avuto esperienze specifiche; una fascia intermedia composta da quelli già maturi, con esperienze professionali; e una fascia più larga, che erano i giovanissimi che prendevamo alla Scuola sottufficiali, facendo un'interpellanza su base volontaria e poi un colloquio che ci serviva a valutarli.
Fu una scelta molto ben fatta, perché riuscimmo a mettere in piedi un gruppo di ragazzi veramente eccezionali. Credo che pochi reparti abbiano avuto in quegli anni la reputazione che ha avuto la Sezione di Roma, e anche l'organizzazione anticrimine, in giro per l'Europa, perché hanno lavorato facendo scuola.
Anche dal punto di vista delle dotazioni inizialmente avevamo poco o niente, ma siamo arrivati ad avere una rete trasmissioni su dodici ponti ripetitori su Roma, una dotazione di mezzi e di armi singolare e anche possibilità di movimento. Potevamo girare in mezza Europa quasi senza autorizzazione, cioè senza critica alla richiesta, con grande libertà. Questo si è conquistato nel tempo, probabilmente anche grazie all'efficienza che la Sezione ha dimostrato negli anni.
PRESIDENTE . Può darci un quadro delle indagini che compiste in relazione alla colonna romana e al covo di via Montalcini, specificando in particolare il ruolo dei principali pentiti e della singolare collaborazione che progressivamente fu offerta da Valerio Morucci?
DOMENICO DI PETRILLO . Ci troviamo all'inizio dell'operazione Olocausto, che nasce nel settembre-ottobre del 1979, in cui riusciamo ad afferrare il bandolo della colonna romana e, attraverso una serie di attività riusciamo a fotografare, il 3 marzo in via Galvani, il direttivo della colonna. Qualcuno riusciamo a localizzarlo: Francesco Piccioni lo localizziamo nel covo di via Silvani, Salvatore Ricciardi lo identifichiamo quando viene compiuta una rapina al Ministero dei trasporti dove lui lavorava come ferroviere, insomma riusciamo a inquadrare il direttivo di colonna, capiamo che è il direttivo di colonna e consolidiamo tutta una serie di... Abbiamo fotografato le riunioni del direttivo di colonna e poi al termine della riunione alcuni di questi, lasciata la riunione del direttivo, andavano a contattare le realtà di cui erano gestori o espressione.
Un ottimo successo strategico in quella circostanza fu il fatto che, pedinando questi del direttivo di colonna, un giorno in piazza Cola di Rienzo fotografiamo un incontro tra Bruno Seghetti, Salvatore Ricciardi e una ragazza, che viene accompagnata a casa la sera in pedinamento. La mattina viene ripresa e intanto identificata, si chiamava Alessandra De Luca Alessandra, e pedinandola riusciamo ad arrivare a Palazzo di Giustizia e quindi, entrando dentro, dietro questa ragazza, a scoprire che era la segretaria del pubblico ministero del processo Moro, il sostituto procuratore generale Guasco. Era figlia di un magistrato ormai deceduto ed era un contatto importante, perché poi i pentiti ci dissero che potevano contare anche su qualche copia di atti. La arresteremo poi nell'operazione del maggio 1980, il 10 maggio.
Il 10 maggio quindi parte un'operazione su tre covi. Quello principale è in via Silvani, un altro in via Pesci, dove però le cose vanno male perché mentre siamo in appostamento di notte c'è una sparatoria, scappano e viene attinto anche il furgone dove c'era un uomo in osservazione. L'operazione quindi fallisce, e lì in quella casa c'erano Renato Arreni, Renato, Natalia Ligas e Salvatore Ricciardi; Arreni e Ricciardi poi li arrestammo successivamente. L'operazione quindi parte e riusciamo a colpire il direttivo di colonna. Il covo di via Silvani si dimostrò un covo importantissimo, ci vollero quaranta giorni per fare il verbale di sequestro; lo ricordo per far capire quale fu l'ampiezza del materiale, di armi, munizioni, documentazione, materiale per la falsificazione che si trovò.
Il 1981 passò lavorando su tutte queste attività, cercando di identificare le persone che avevamo già fotografato quando, lasciata la colonna, Arreni da una parte e la Braghetti dall'altra si incontrano con loro.
Dimenticavo un altro aspetto: dopo il guaio che succede a via Pesci, un piccolo correttivo avviene qualche giorno dopo, il 27 maggio, quando un nostro uomo, quello addetto alle fotografie, passando per Corso Vittorio Emanuele individua la Braghetti, che non avevamo ancora identificato, perché spesso l'angolazione del parabrezza del furgone per le fotografie quando è troppo accentuata modifica la fedeltà della fotografia e non sempre è facile riuscire a cogliere tutti i particolari che possano portare a un'identificazione. Vede quindi quella che chiamavamo «la vecchia» su Corso Vittorio Emanuele, io mi «fiondo» con altri uomini e li sorprendiamo seduti al bar di piazza Sforza Cesarini. C'erano lei, Salvatore Ricciardi e un milanese che si era trasferito in quei giorni a Roma, Giannantonio Zanetti. Accertammo poi che Zanetti era ospitato da Giovanna Francesca Chantal Personè, che era legata a Radio Città Futura, con tutta quella storia. Identifichiamo la Braghetti e, come sempre avviene, andiamo a vedere se abbiamo il suo fascicolo; in questo troviamo un appunto del 1978, che riferiva di un accertamento che avevamo fatto a seguito di un'attivazione da parte del generale Dalla Chiesa (il 10 settembre 1978 era nato il secondo Nucleo e l'Arma aveva conferito all'interno del secondo Nucleo speciale tutta la sua Pag. 26 organizzazione anticrimine che ho descritto prima). Attraverso l'ufficio del generale ci viene data questa informazione. In quella circostanza fu Mori che mandò un sottufficiale a fare l'accertamento e il sottufficiale tornò da via Montalcini dicendo che in loco già c'era la polizia, l'UCIGOS, e che aveva raccolto delle confidenze da parte della gente secondo le quali addirittura era stato preannunciato che dopo qualche giorno ci sarebbe stata un'irruzione. Quindi ripiegammo, non facendone più nulla, anche perché in quel periodo c'erano centinaia di queste comunicazioni e quindi era impossibile seguirle, visto che avevamo un'attività forse anche più pungente da svolgere.
Andai sia in via Montalcini sia presso l'abitazione del fratello della Braghetti, in via Laurentina, interrogai il fratello e poi andai a via Montalcini, nell'ex appartamento della Braghetti, che però nel 1979 era stato acquistato da una famiglia che aveva fatto dei lavori, per cui non feci neanche il sopralluogo all'interno, perché ormai... Peraltro, non immaginavamo che quello potesse essere il luogo nel quale Moro era stato detenuto; lo avremmo saputo poi, quando Morucci e Faranda si pentono con l'autorità giudiziaria, con Imposimato. Morucci poi accompagnò me e un funzionario della DIGOS di Roma, il dottor Amedeo Federici: facemmo tutto il percorso da via Fani, attraverso tutte le strade e stradine, fino ad arrivare al cambio del furgone sotto il supermercato alla Circonvallazione Gianicolense e quindi a via Montalcini.
Ritornando all'operazione, non riuscivamo però a identificare le persone – un paio di giovani – che avevamo fotografato insieme a Renato Arreni nella strada parallela esterna a via dei Fori Imperiali, credo sia via Sant'Eufemia, e non riuscivamo neanche ad edificare l'altro incontro che era stato fatto dalla Braghetti alla stazione di Trastevere.
Allora mi rivolsi al Partito comunista, all'avvocato Tarsitano, perché mi aiutasse a identificare queste persone. Ritagliai la foto di uno di questi che stava in via dei Fori Imperiali e dopo qualche giorno mi dette un appuntamento, andai alla Pigna a incontrare Antonio Marini, un uomo del PCI, gli consegnai quel frammento di foto; dopo qualche giorno mi richiamò e mi diede il nome: Marcello Basili. Da lì riprendemmo tutta una serie di attività, che portarono ad una serie di operazioni nel 1982, nel 1983 e nel 1984, nel modo che dirò.
Contemporaneamente, in quel periodo ci fu un'operazione della Polizia contro il Partito guerriglia, con l'arresto di Stefano Petrella e di Ennio Rocco in via Condotti, mentre facevano un appostamento per il sequestro di Cesare Romiti. In seguito alle dichiarazioni di questi due la Polizia fece irruzione in tre covi, arrestando Senzani e, nell'appartamento di Senzani in via della Stazione di Tor Sapienza, anche Roberto Buzzatti. Non parlo degli altri, perché è un'operazione che fu fatta dalla Polizia. Entrerò dopo per altro tipo di indagini, che dirò. Buzzatti chiese di parlare con i Carabinieri perché disse che era stato sottoposto a coercizioni fisiche. Ci viene quindi consegnato e cominciamo ad avere con lui un dialogo; si apre completamente e, quando gli mostriamo quelle stesse foto di cui parlavo, conseguenti all'incontro di vertice della colonna romana, identifica Walter Di Cera come il capo della brigata Centocelle. Di Cera era militare a Cervignano del Friuli; io parto immediatamente, raggiungo Cervignano e lo arresto. Di Cera si pente immediatamente, durante il tragitto comincia a parlare, e dall'interazione delle dichiarazioni di Basili, di Buzzatti, di Tarquini – altra persona arrestata a seguito delle dichiarazioni di Basili – e di Di Cera acquisiamo un quadro conoscitivo veramente eccezionale, che ci consente di innescare da quel momento un'operazione sempre più mirata, strutturata, che ha portato a una serie di attività che sono maturate a partire da lì, con decine e decine di arresti e moltissimi covi scoperti.
PRESIDENTE . Bene. Andiamo avanti, perché dobbiamo rientrare sulla vicenda Moro.
DOMENICO DI PETRILLO . Sì, io non ho avuto un'esperienza diretta sulla vicenda Pag. 27 Moro. Ho trattato Alvaro Lojacono perché abbiamo coadiuvato l'istruttoria della dottoressa Carla Dal Ponte, quando venne arrestato in Svizzera. Era un cittadino svizzero e quindi la dottoressa Del Ponte venne con un capitano del Canton Ticino a fare un'istruttoria a Roma, ma in effetti la Sezione, e io in particolare, direttamente sull'indagine su Moro abbiamo sviluppato poco o niente.
PRESIDENTE . Un'ulteriore questione riguarda un tema a lungo dibattuto, quello delle fonti informative di cui poteva disporre l'Arma dei Carabinieri nel terrorismo brigatista, in particolare nel corso del sequestro Moro. Per la Commissione è importante fare ordine in questa questione, anche cercando di collocare temporalmente le varie fonti. Come sa, esistono infatti differenti valutazioni sulla disponibilità di fonti durante il sequestro Moro, mentre è accertata la loro esistenza in periodi antecedenti e successivi. Le fonti informative, cioè, esistono prima ed esistono dopo. Ci risulta complicato immaginare che durante il sequestro fossero spariti tutti.
Risulta in particolare che l'uso delle fonti fu fondamentale nello smantellamento della colonna romana delle Brigate rosse. Lei ha raccontato, nel volume Tutti gli uomini del generale di Fabiola Paterniti, che nel 1979 Pecchioli vi offrì la disponibilità di un militante comunista da infiltrare e che questa infiltrazione fu decisiva per il grande colpo alla colonna romana delle Brigate rosse del maggio 1980. Lei ha anche chiarito che non intende fare il nome della persona, anche perché i terroristi sono quasi tutti in libertà. Le chiedo se su questo punto si sente di aggiungere qualcosa, eventualmente in seduta segreta, e le chiedo inoltre di chiarirci, per quanto le è noto, come funzionava questo rapporto col Partito comunista e chi, all'interno dei nuclei investigativi, ne era a conoscenza.
Se vuole che proseguiamo in seduta segreta me lo dica.
DOMENICO DI PETRILLO . No, non c'è bisogno. È già stato detto pubblicamente, quindi non c'è bisogno. Verso la fine del 1979, quando stava ormai per finire anche quella...
PRESIDENTE . Quindi, quando erano già stati arrestati Faranda e Morucci.
DOMENICO DI PETRILLO . Sì. La Sezione di Roma venne interessata ad una attività investigativa che nasceva da una infiltrazione di un militante del PCI all'interno delle Brigate rosse. Era stato incaricato di questa gestione il capitano Umberto Bonaventura, che, nel periodo del secondo Nucleo speciale, pur essendo comandante della Sezione anticrimine di Milano – peraltro Bonaventura era il migliore di tutti noi, era lo storico, anche da un punto di vista della conoscenza del fenomeno – era molto spesso, quasi sempre, a Roma presso l'Ufficio centrale del personale, dove svolgevano le attività di analisi, e contemporaneamente gestiva la sua sezione.
Venne incaricato Bonaventura perché una delle clausole poste fu – mi dissero così – che non volevano un romano, per evitare che potesse essere riconosciuto.
A seguito delle dichiarazioni che Bonaventura riceveva bisognava poi andare a lavorare sul territorio, e chi doveva lavorare era la Sezione di Roma, perché stava a Roma. Quindi, io gestisco questo contatto diventando l’alter ego di Bonaventura. Ho con questo militante, insieme a Bonaventura, degli incontri, che si concretizzano in una ricerca di come riuscire ad essere sicuri di approcciare le Brigate rosse. Facemmo vari tentativi che non andarono a buon fine, fino a che arrivammo ad individuare Piccioni, Ricciardi e da lì iniziò l'attività di cui ho parlato prima. Però fu una ricerca, non fu una partenza con l'indicazione: «Andate lì». Fu una ricerca che durò mesi, con attività anche in Sardegna. Andammo vicino Oristano a seguire...
PRESIDENTE . E questo infiltrato era diventato regolare, irregolare...
DOMENICO DI PETRILLO . Venne «congelato» prima che potesse fare delle attività penalmente rilevanti. Era un infiltrato. Era Pag. 28 uno che era noto nell'ambiente, perché altrimenti non avrebbe avuto possibilità di essere accettato. Quando ci incontravamo si discuteva sulle varie possibilità e a queste possibilità corrispondevano dei servizi a terra, di pedinamento, di osservazione, che però molte volte non maturavano, perché evidentemente era vero che la persona magari era coinvolta in un'attività extraparlamentare, però non riuscivamo ad afferrare il clandestino, perché poi il clandestino dava una conferma finale.
Questo è stato. Quindi, non è stato un «andate lì e troverete quello»; è stata un'attività investigativa, di ricerca, e talvolta quando all'inizio non riuscivamo ad essere conclusivi questo si arrabbiava pure...
PRESIDENTE . In questa infiltrazione avvenuta dopo la fine della vicenda Moro non ha avuto mai traccia di notizie, di fonti o infiltrati durante il periodo del sequestro Moro?
DOMENICO DI PETRILLO . No, quando siamo arrivati abbiamo trovato un deserto, come dicevo prima, da un punto di vista conoscitivo. Quindi, se ci fosse stata una minima attività pregressa, qualificata, lo avremmo certamente saputo.
PRESIDENTE . Sempre su questo punto, Savasta dichiarò al giudice Mastelloni, il 14 dicembre 1990: «All'epoca della mia dissociazione, nei primi tempi, rispondendo al verbale di giudice istruttore di Roma, Priore, presso il Reparto operativo dei Carabinieri di Roma, gli ufficiali dell'Arma Mori e Di Petrillo mi riferivano che c'era stato tra noi un loro infiltrato che era stato molto vicino alla mia persona. Non me ne fecero il nome e mi dissero che non era stato arrestato. Ritenni che fosse un elemento di Roma».
Il generale Bozzo, sentito l'11 maggio del 1993 dai pubblici ministeri Ionta e Salvi, ha dichiarato: «Rammento ancora che nel 1979-80 il colonnello Mori e il tenente colonnello Di Petrillo gestirono un rapporto con un universitario che portò da ultimo all'arresto della Balzerani. Almeno questo mi venne detto».
Vale quello che lei ha detto fino a oggi?
DOMENICO DI PETRILLO . Bozzo ogni tanto dice certe cose che sinceramente sorprendono. Non so dov'era, forse io non c'ero.
L'arresto della Balzerani arriva dopo un'articolatissima attività investigativa, che io ho ricostruito e che riguarda parecchi settori: Fatone, un militante di un'area stranissima di Milano, che dice qualcosa, una serie... Insomma, tante cose portavano a una certa situazione locale. Seguendo queste attività, un giorno fotografiamo una donna. Così come avveniva sempre, non è che l'indagine è partita per la Balzerani.
Lavorando sull'ambiente, siamo arrivati un giorno a registrare un incontro...
PRESIDENTE . ...tra un noto e una donna.
DOMENICO DI PETRILLO . ...tra un noto e una donna. Poi, pedinando questa donna, siamo arrivati a Ostia, a via Diego Simonetti, e abbiamo localizzato la donna. Poi è storia. Quindi, abbiamo deciso di intervenire quel giorno.
PRESIDENTE . Quindi, non c'è nessuna relazione tra l'infiltrato e la Balzerani.
DOMENICO DI PETRILLO . Assolutamente no. L'arresto di Barbara Balzerani avviene molto dopo, nel 1985, quando già l'infiltrato è stato «congelato», compiendo una serie di attività che giustificassero il fatto che si dovesse «congelare», perché a lungo andare avrebbero potuto chiedergli attività...
PRESIDENTE . ...penalmente rilevanti.
DOMENICO DI PETRILLO . ...che non erano gestibili, a cui non eravamo disposti ad arrivare.
PRESIDENTE . Il generale Cornacchia, audito dalla nostra Commissione, si è dilungato a parlare di una fonte denominata «Nadia». Si sarebbe trattato di una giovane giornalista di «Controinformazione» che frequentava le assemblee della facoltà di Economia della Sapienza, seguiva la cronaca Pag. 29 giudiziaria e sposò un brigatista. Però, purtroppo, il generale Cornacchia, dopo averci detto questo, dopo averci detto il ruolo di Nadia sull'individuazione di Sokolov, ci ha detto di non ricordare più come si chiamava.
DOMENICO DI PETRILLO . Era tanto segreta che se l'è tenuta per sé, perché a noi non ce l'ha mai detta questa cosa! Tra l'altro, il Reparto operativo di Roma non ha mai concorso in nessuna attività da un punto di vista di intelligence, su questa cosa. Ci portò una volta una sorta di ragazzo, un certo Paolo Santini, che però era uno assolutamente...
PRESIDENTE . È la prossima domanda. Mi faccia arrivare alla prossima domanda così ci dice di Santini.
Questa Nadia non l'ha mai sentita nominare?
DOMENICO DI PETRILLO . Mai.
PRESIDENTE . Una vicenda molto nota, ma non del tutto chiarita, è quella di Paolo Santini, che fu fonte dell'Arma dei carabinieri, come emerse quando fu arrestato dalla Polizia. In proposito, il generale Cornacchia, nella sua audizione presso la Commissione il 5 ottobre 2016, ha evocato un rapporto di Santini con due studenti, di cui uno entrò in clandestinità, e ha dichiarato: «Santini, ovviamente, agì prima in modo particolare con il secondo, cioè quello con cui era più facile il lavoro. Col primo ci riuscì soltanto a distanza di tempo; poi, successivamente, effettivamente ebbe un rapporto più confidenziale e amichevole. Però, sempre questo signore qui che era un po’ più duro, lo studente che lasciò gli studi, o perché ebbe qualche sentore, qualche sintomo, o per qualche altra cosa, decise di mettere alla prova Santini. Avrebbero dovuto fare una rapina in un istituto di credito non individuato, non indicato, mentre dell'altra rapina mi diedero l'indicazione. C'era un'armeria allora in via Quattro Novembre, da piazza Venezia a via Nazionale, andando su sulla sinistra, che io conoscevo molto bene. Ovviamente, non era il caso neanche di parlarne. Riuscii, come ho accennato precedentemente, a convincere, tramite questi due ragazzi, che lui assumesse la gestione delle armi, dell'armeria. Lì, in quella circostanza, io ebbi modo di conoscere la provenienza delle armi, sia quelle italiane attraverso le rapine, sia quelle che venivano dal Libano, come ho detto prima».
Cosa le dice questa storia?
DOMENICO DI PETRILLO . Santini?
PRESIDENTE . Sì. Ci dica chiaramente una riflessione. Voi Santini non l'avete mai incrociato da nessuna parte?
DOMENICO DI PETRILLO . No, io ricordo che parlai pure con questo Santini, allontanandomene immediatamente per l'inconsistenza del valore antiterrorismo che poteva esprimere. Questa è una cosa che fecero loro...
PRESIDENTE . Cioè il Gruppo?
DOMENICO DI PETRILLO . Sì, il Nucleo investigativo. Però noi non ritenemmo, da subito, da sempre, che potesse avere una qualsiasi valenza. Cercavamo cose più serie, piuttosto che questa evanescenza così, che poi alla fine si è visto che non si è concluso nulla. Tutta questa cosa, Libano e quant'altro... Alla fine, niente!
PRESIDENTE . Lei si è occupato anche delle vicende dell'omicidio Pecorelli e di Tony Chichiarelli, sulle quali la Commissione sta conducendo accertamenti non semplici. In proposito, risulta da un'informativa al Comando generale dell'Arma del 20 ottobre 1988 che lei ha manifestato un certo scetticismo sul ruolo di Chichiarelli nella vicenda Moro. Ci può aiutare a capire, dandoci una sua valutazione su Chichiarelli e sulle indagini che faceste?
DOMENICO DI PETRILLO . Su questo punto la mia attività mia è stata molto sfocata, proprio perché io non ritenevo che... Io ho sempre pensato che dietro le Brigate rosse c'erano le Brigate rosse e ho sempre pensato anche che magari la vicenda Pag. 30 Moro potesse essere stata sfruttata da varie entità – istituzionali (partiti, lotte interne di partiti) o altre situazioni – come lotta politica o come strumento politico di lotta interna. Quindi, ho sempre avuto difficoltà a credere che al sequestro Moro potessero aver concorso entità diverse dalle Brigate rosse e, in questo contesto, anche Chichiarelli.
L'unico elemento che lasciò dubbiosi fu la famosa testina del volantino, a cui però non siamo mai riusciti a dare una giustificazione. Nonostante tantissimi pentiti si siano avvicendati in maniera intensa su questi argomenti, quel canale non ha mai avuto alcun tipo di conferma da parte di nessuno.
Io ho fatto le indagini sul sequestro Pecorelli nell'ambito della mia attività nella DIA, più che nell'attività istituzionale come antiterrorismo. In quel contesto, quello di Chichiarelli non è stato uno dei canali che abbiamo scandagliato. Era nell'ambito del progetto Andreotti-Pecorelli, ecco. Per cui io, sinceramente, non ho dato mai una valenza di collegamento tra i due fatti.
PRESIDENTE . Adesso dobbiamo passare in seduta segreta. Dispongo la disattivazione dell'impianto audiovisivo.
(I lavori proseguono in seduta segreta)* .
PRESIDENTE . Nell'ambito di accertamenti finalizzati a comparare le impronte digitali repertate sulla Renault 4 nella quale fu ritrovato il corpo di Aldo Moro è stato rinvenuto, tra la documentazione versata alla Commissione dal Comando provinciale dei Carabinieri di Roma, un cartellino fotosegnaletico intestato ad Alessio Casimirri (nel quale è indicato anche il nome di battaglia: Camillo), datato 4 maggio 1982, che specifica il motivo del fotosegnalamento in «arresto per banda armata» e identifica come ufficio responsabile il Reparto operativo dei Carabinieri di Roma.
Ecco, generale, le mostro il cartellino, così può esaminarlo.
La circostanza è apparsa meritevole di approfondimento alla luce delle seguenti circostanze: non risulta che Casimirri sia mai stato arrestato; alla data del 4 maggio 1982 era già colpito da più mandati di cattura, a partire dal 16 febbraio 1982, e risultava iscritto in rubrica di frontiera; non risulta che Casimirri sia mai stato fotosegnalato (pertanto il cartellino non è mai stato trasmesso al casellario centrale di identità); restano del tutto ignote le modalità e la tempistica dell'espatrio di Casimirri (se si eccettua quanto dichiarato da Casimirri stesso e da Raimondo Etro); il cartellino presenta diverse singolarità formali, quali, in particolare, la presenza di una sola fotografia (di dubbia datazione),frontale, e la mancanza dei numeri relativi alle impronte.
Gli approfondimenti compiuti si sono indirizzate in diverse direzioni. Si è, in primo luogo, verificato che la fotosegnalazione non compare nell'elenco dei fotosegnalati di quel periodo presso la stessa stazione di fotosegnalazione. Non c'è nel registro della Sezione, mentre il 6 maggio c'è la segnalazione di Di Cera, che era stato arrestato qualche giorno prima. Peraltro, le impronte rilevate sul cartellino non risultano censite nel sistema AFIS (Automated Fingerprint Identification System).
Si è compiuto un approfondimento sul modulario utilizzato, che riporta l'intestazione «Direzione centrale della Polizia criminale». Il dato indurrebbe a collocare il cartellino in data successiva al decreto ministeriale 15 maggio 1981, che in attuazione della legge 1° aprile 1981, n. 121, istitutiva la relativa direzione. Risulta che nel 1982 erano in uso sia la dizione «Direzione centrale della Polizia criminale» sia la dizione «Direzione centrale di Pubblica sicurezza». Questa seconda dizione si trova, peraltro, in tutti i cartellini contermini di quella stazione di fotosegnalazione.
Poiché la fotografia utilizzata nel cartellino – che presenta Casimirri senza baffi in età non databile, ma sicuramente giovanile Pag. 31 – non è la più comune, si è ricercato un riscontro che la fotografia abbia circolato. Si è a tale proposito verificata la presenza della foto in un bollettino segnaletico, il Manifesto n. 11. Latitanti pericolosi in campo nazionale, datato 1° aprile 1985 (documento 298/1, pagina 799). In tale bollettino segnaletico, la fotografia di Casimirri è attribuita al 1982. Sono in corso accertamenti per verificare come sia nata questa datazione. Ulteriore copia della foto è stata reperita tra le carte del Reparto anticrimine di Roma (1987) e di quello di Ancona (1985). Ulteriori accertamenti hanno mirato ad appurare l'origine della foto segnaletica. In proposito, sono state reperite copia del cartellino della carta di identità di Casimirri (rilasciata il 3 agosto 1977) e copia, comprensiva di foto, di un «visto per l'identità personale e per l'autenticità della firma», datato 11 settembre 1972. Entrambi non presentano la foto del cartellino fotosegnaletico, ma una foto di Casimirri con baffi.
Sono state compiute, inoltre, ricerche nella documentazione della Stazione carabinieri di Roma San Pietro, che hanno evidenziato la presenza di copie delle foto del cartellino segnaletico nonché di un'agendina con numeri di telefono, apparentemente di proprietà di Casimirri.
Le ricerche esperite in relazione al foglio matricolare e alla patente di guida non hanno dato esito positivo.
Infine, ricerche condotte sull’«alias» Guido Di Giambattista usato da Casimirri in Nicaragua hanno evidenziato che a tale Guido Di Giambattista (nato a Roma il 9 luglio 1953) fu rilasciato in data 8 luglio 1978 un passaporto, successivamente rinnovato il 21 luglio 1982. Dello stesso passaporto fu denunciato lo smarrimento il 3 settembre 1983.
Gli accertamenti compiuti non consentono ancora di chiarire l'origine e la funzione del cartellino fotosegnaletico di Alessio Casimirri che è stato reperito. Permangono dunque numerosi dubbi rispetto all'evidente incongruenza di un cartellino fotosegnaletico di cui finora si ignorava l'esistenza, che sarebbe stato compilato in una data in cui si sarebbe dovuto procedere all'immediato arresto del soggetto (peraltro, sul cartellino c'è appunto scritto «arresto»).
È stato pertanto avviato un complessivo riesame della vicenda di Casimirri, già oggetto di diverse audizioni, non solo in relazione al tema della mancata estradizione dal Nicaragua e alla missione degli agenti del SISDE Fabbri e Parolisi nel 1993, ma anche al complesso della sua militanza brigatista nel periodo 1976-1982. Ricordo, a tale proposito, che nel corso del processo Moro quater fu posta, sulla base delle confessioni rese da Saverio Morabito, la questione di un rapporto tra il generale Delfino e Casimirri, il quale sarebbe stato utilizzato come «fonte» già nel corso del sequestro Moro. Ricordiamoci che Morabito dapprima non lo avevamo preso per buono riguardo alle sue dichiarazioni su Nirta, ma Nirta quella mattina era probabilmente a via Fani, magari per fare jogging... Abbiamo scoperto che c'era un bar connesso a traffici di armi con la criminalità organizzata: cosiddette armi giocattolo alle quali però in realtà bastava sostituire un pezzetto e diventavano armi vere. Quindi abbiamo il dover di segnalare questa cosa, detta da Morabito, secondo cui Delfino aveva notizie da Casimirri.
Casimirri, noto militante di Potere operaio vicino a Morucci e Savasta, entrò nelle BR nel 1976-1977. È stato accertato che Casimirri fu oggetto dei seguenti provvedimenti: denuncia per tentata violenza privata nei confronti di un militante di destra (21 marzo 1972); segnalazione per una rapina alla Standa (30 dicembre 1974), con richiesta di notizie da parte della Procura di Torino; inquisito per attacchi a sedi del MSI (10 gennaio 1975). Fu inoltre oggetto di perquisizione, senza esito, da parte dei Carabinieri (Compagnia Roma San Pietro) il 3 aprile 1978, nella casa alla Storta, nell'ambito delle indagini sul sequestro Moro (documentazione allegata a nota trasmessa dal tenente colonnello Gennaro Niglio al sostituto procuratore Ionta, 2 gennaio 1989). Casimirri era professore di educazione fisica incaricato annualmente dal Provveditorato a partire dal 1976-77. Nel 1982 furono emessi i seguenti mandati di cattura: Pag. 32 del Tribunale di Roma il 16 febbraio 1982, per partecipazione a banda armata; del Tribunale di Napoli il 4 marzo 1982, per associazione sovversiva e banda armata; del Tribunale di Roma il 16 luglio 1982, per insurrezione armata contro i poteri dello Stato; del Tribunale di Roma (Priore), che assorbe i precedenti, il 26 luglio 1982; del Tribunale di Napoli del 18 novembre 1982, per banda armata. La base per i mandati di arresto è costituita dalle dichiarazioni rese da Antonio Savasta (a partire dal 15 febbraio 1982), Emilia Libera (a partire dal 1° marzo 1982), Walter Di Cera (a partire dal 2 marzo 1982) e altri correi, che imputano a Casimirri la partecipazione agli omicidi Palma e Tartaglione e all'attacco alla sede della DC di piazza Nicosia. Il riconoscimento di una partecipazione di Casimirri al sequestro Moro (prima ammessa e poi, dopo il 2010, negata dall'interessato) è successivo e fu affermato soprattutto sulla base delle dichiarazioni di Morucci (dopo il 1987).
Sono stati acquisiti gli atti relativi alle prime ricerche compiute per reperire Casimirri. Si segnala, in particolare, un fonogramma del 18 marzo 1982 che riferisce che Casimirri e Algranati «si troverebbero presso imprecisato grosso centro subacqueo ubicato zona Stintino (Sassari)». La notizia, secondo quanto risulta, portò a numerose indagini, sia della Polizia sia dei Carabinieri, senza esito. Peraltro, diversi mesi dopo, un appunto del 29 dicembre 1982 segnalava che «secondo notizia confidenzialmente attendibile, il SISDE starebbe controllando un appartamento in via Giacinta Pezzana 10, dove si dovrebbe tenere una riunione di brigatisti, compresi Casimirri e Algranati».
Allo stato, gli elementi acquisiti farebbero propendere per una presenza di Casimirri in Italia almeno fino al 17 febbraio 1982. Infatti, in quella data il loro datore di lavoro, titolare di una società che forniva insegnanti di educazione fisica a istituti religiosi, lo vide e gli consegnò le sue spettanze economiche. In quella occasione Casimirri avrebbe manifestato l'intenzione di tornare in Sardegna presso il villaggio turistico in cui l'anno prima aveva lavorato come istruttore sommozzatore. Ciò, quindi, si ricollega al fonogramma del 18 marzo 1982, in seguito al quale le forze dell'ordine vanno a cercare Casimirri in Sardegna.
Le dichiarazioni – da verificare – di Raimondo Etro affermano che egli vide Casimirri e Algranati a Parigi nella primavera del 1982 e che, a quella data, Casimirri già si trovava da qualche tempo nella capitale francese. Nell'intervista rilasciata a Maurizio Valentini («L'Espresso», 23 aprile 1998) Casimirri afferma: «Sono arrivato in Nicaragua nel 1982, dopo un anno passato a Parigi. Avevo lasciato l'Italia a fine 1981». Tale cronologia è compatibile con quella che Casimirri ebbe a dichiarare a Mario Fabbri e Carlo Parolisi in occasione della loro nota missione in Nicaragua e con quanto dichiarato da Raimondo Etro, da ultimo in audizione presso la Commissione il 31 gennaio 2017, in relazione al suo soggiorno parigino, che avvenne tra il marzo e il settembre del 1982. Tuttavia, l'intervista contiene alcuni riferimenti (arresto di Emilia Libera) incompatibili con una partenza dall'Italia anteriore al febbraio 1982.
Conclusivamente, si osserva che gli elementi acquisiti non danno alcuna certezza sul periodo della fuga dall'Italia di Casimirri. L'unico elemento certo è che ancora a metà febbraio 1982 Casimirri vide il suo datore di lavoro. Da quella data le sue tracce si perdono fino al 1986, quando è segnalato in Nicaragua. Per il periodo 1982-1986 l'unico elemento certo sono le dichiarazioni dell'interessato e di Etro, mentre nelle informative di polizia Casimirri è sporadicamente segnalato come presente in Italia. Va però segnalato che, ove si dimostrasse che Casimirri utilizzò il passaporto di Guido Di Giambattista, la data di fuga dovrebbe collocarsi dopo il 21 luglio 1982 e prima del 3 settembre 1983.
La data di redazione del cartellino corrisponde a una fase in cui le ricerche di Casimirri furono particolarmente intense. È infatti il periodo in cui egli fu vanamente ricercato in Sardegna sulla base di notizie che gli organi di polizia dell'epoca ritenevano fondate.
Questo era la storia connessa al cartellino fotosegnaletico che abbiamo ora fatto Pag. 33 vedere al generale Di Petrillo. La nostra domanda è sostanzialmente questa: le chiediamo di aiutarci a compiere una valutazione in merito, alla luce delle sue conoscenze sulla colonna romana delle BR, sul modus operandi dell'Arma e sulle ricerche condotte in quel periodo su Alessio Casimirri. Occorre cercare di capire se quel cartellino per lei risulta anomalo, gravemente o parzialmente, o se può essere congruo. Inoltre, le chiedo se potevano avvenire fotosegnalazioni non fatte dalla vostra Sezione ma effettuate da qualunque componente territoriale dell'Arma, che avrebbe potuto arrestare Casimirri. Infine, perché questo cartellino l'abbiamo trovato noi, dopo oltre trent'anni.
DOMENICO DI PETRILLO . Questo cartellino mi sorprende, perché per me Casimirri Alessio era ed è latitante. Questo cartellino non l'abbiamo mai visto; io non l'ho mai visto. Mi sorprende perché «arresto» significa che doveva andare in carcere e mi sorprende soprattutto il fatto che vi sia citato come falso nome Camillo, che era il suo nome di battaglia all'interno dell'organizzazione: è una informazione che può derivare soltanto da una conoscenza successiva, non dalle attività pregresse, che lei ha citato, su Casimirri nell'ambito del movimento romano. Relativamente alla dislocazione del Reparto operativo devo aggiungere a quello che ho detto prima un'altra cosa: le Sezioni anticrimine erano reparti autonomi che dipendevano dalle divisioni territoriali (che all'epoca erano tre), dove esisteva una Sezione criminalità organizzata che era l'entità di coordinamento delle Sezioni anticrimine dislocate sul territorio di ciascuna divisione. Per ragioni di copertura, le Sezioni anticrimine (Sezioni speciali anticrimine era la denominazione esatta) erano dislocate all'interno dei Reparti operativi delle città interessate, assumendone solo fittiziamente la denominazione di «prima sezione». Voglio dire che la mia sezione era all'interno del Reparto operativo di Roma, assumeva la denominazione di «prima sezione» nella corrispondenza esterna, ma di fatto non dipendeva dal Reparto operativo; anzi, in più, per ragioni sempre di copertura e di sicurezza, gli atti di polizia giudiziaria che venivano compilati dalla Sezione uscivano a firma del Reparto operativo anziché nostra, per evitare di dover andare in udienza.
PRESIDENTE . Quindi il fatto che c'è scritto che l'ufficio segnalatore, cioè quello che ha fatto l'arresto, è il Reparto operativo dei Carabinieri di Roma, non significa che è stata la sua Sezione?
DOMENICO DI PETRILLO . No, assolutamente. A Roma all'epoca – ma credo ancora adesso – c'è soltanto un luogo dove l'arrestato viene fotosegnalato, ed è il Reparto operativo. Una stazione fa una cattura e prima di portare in carcere la persona, la porta lì, le fanno le fotografie, le prelevano le impronte, la guardano, compilano anche tutti i dati antropometrici eccetera. Certo, alcune di queste informazioni quelli del Reparto operativo non saranno in grado di scriverle, perché deve dirle chi ha portato lì la persona.
Quindi, la paternità di questo arresto non c'è.
PRESIDENTE . Voi avete solo fotosegnalato.
DOMENICO DI PETRILLO . Loro, però. Perché io questa cosa non l'ho mai vista.
PRESIDENTE . Su questo non ho dubbi. Ho detto «voi», ma...
DOMENICO DI PETRILLO . Quindi, non capisco neanche... Peraltro, mi viene da pensare che se fosse una trama il fatto di lasciare questa cosa lì sarebbe alquanto stupido, no? Se devo fare un traffico, l'ultima cosa che faccio è lasciare una traccia così palese, così evidente.
PRESIDENTE . La cosa che colpisce è che la fotografia è la stessa trovata presso la Compagnia San Pietro, solo che quella della Compagnia è di dimensioni maggiori.
DOMENICO DI PETRILLO . Di qualsiasi ricercato di costoro, soprattutto di quelli che erano latitanti, noi cercavamo di trovare Pag. 34 tutte le foto possibili e immaginabili per poterlo documentare. Normalmente nelle nostre sezioni c'erano dei grandi tabelloni che venivano distribuiti in maniera tale che il martellamento era costante. E questa foto io la ricordo come una delle foto di Casimirri che erano anche nei nostri tabelloni. Ora, non sono in grado adesso di ricordare quando questa foto è andata nel mio tabellone, però questa foto...
PRESIDENTE . Girava.
DOMENICO DI PETRILLO . E anche una in cui Casimirri aveva i baffi, probabilmente.
PAOLO BOLOGNESI . C'è scritto «arresto» sul cartellino. Quindi Casimirri è stato arrestato?
PRESIDENTE . Se c'è scritto «arresto», è stato arrestato. Peccato che nel registro dei fotosegnalamenti questo cartellino non ci sia. Non è stato registrato. Ma due giorni dopo – cioè, praticamente, alla riga successiva – c'è la registrazione del fotosegnalamento di Di Cera.
Questo risulta dal lavoro che abbiamo fatto.
DOMENICO DI PETRILLO . Presidente, scusi, devo dire un'altra cosa. È strana un'altra cosa, che è clamorosa: se uno è arrestato, sul cartellino non c'è questa foto. Questa è una foto d'archivio, presa da un documento d'identità.
PRESIDENTE . Proprio per questo abbiamo cercato tutti i documenti di identità. Purtroppo non risulta un documento d'identità con quella foto.
DOMENICO DI PETRILLO . Qui ci sarebbe dovuta stare, insieme alle notizie, una fotografia scattata allora.
PRESIDENTE . E anche una foto di profilo.
L'idea che dà è che qualcuno abbia interrotto il lavoro, se è vero, anche perché la cosa che qui colpisce è che il 4 maggio 1982 nell'elenco dei fotosegnalati ci sono Alesi, Di Palma, Modestino; il 5 maggio Fois, poi un altro nome incomprensibile; il 6 maggio ci sono Cevoli, Zagaria, Di Cera Walter; il 7 maggio Francola.
DOMENICO DI PETRILLO . Francola Annunziata l'ho arrestata io. Di Cera Walter il 2 maggio l'ho arrestato io...
PRESIDENTE . Il 2 marzo.
DOMENICO DI PETRILLO . Sì, a Cervignano, però lui si pente subito. Quando lo portiamo in caserma, l'ultima cosa a cui penso è di farlo fotosegnalare. Intanto mi doveva dire le cose... Quindi io non sono in grado di dire quando, arrestato Di Cera, dissi di andare giù e farlo anche fotosegnalare.
PRESIDENTE . No, generale, io lo dicevo per la coincidenza, perché sicuramente chi scrive «Camillo» è a conoscenza delle dichiarazioni che hanno fatto Emilia Libera e gli altri. Solo da loro si è saputo che Casimirri aveva come nome di battaglia Camillo, e siccome questi parlavano da marzo, se su un cartellino fatto a maggio 1982 c'è scritto «Camillo» vuol dire che possono averlo scritto solo nei due mesi precedenti.
DOMENICO DI PETRILLO . Però questa foto...
PRESIDENTE . La cosa strana è che noi siamo andati a cercare tutto, ma questa è come se fosse una fototessera, però non è del tesserino universitario né della carta d'identità né del passaporto.
DOMENICO DI PETRILLO . La patente?
PRESIDENTE . Non è stato possibile reperirla.
DOMENICO DI PETRILLO . Normalmente erano questi i luoghi in cui andavamo a cercare queste cose. Normalmente non è che portassimo via l'immagine: la si Pag. 35 fotografava. Però ora, a parte le impronte, se si acchiappasse...
PRESIDENTE . Bisognerebbe catturare Casimirri e prendergli le impronte.
Il dottor Donadio ci suggerisce di chiederle, mediante rogatoria, alle autorità del Nicaragua. Ma dubito che Casimirri acconsenta.
DOMENICO DI PETRILLO . In teoria non dovrebbe rifiutarsi di dare le impronte, perché in effetti non gli succederebbe nulla.
PRESIDENTE . Non so se ricordo male, ma Casimirri, negli incontri con Parolisi e Fabbri, dice che non vuole parlare del suo viaggio, poi parla di quella persona dell'ambasciata italiana che lui ritiene collegata al SISMI e dichiara che con quelli del SISMI non vuole parlare. Alla domanda sul perché non ci vuole parlare, risponde che lo avevano trattato male.
Insomma, Casimirri è andato in Nicaragua con l'aiuto di qualcuno
DOMENICO DI PETRILLO . Insomma, non credo che in Nicaragua, a Managua, ci siano tanti italiani, quindi probabilmente è facile trovare se c'è qualche italiano.
Il fatto che non ci sia la foto è una situazione anomala, sinceramente.
PRESIDENTE . Comunque è singolare che il 4 maggio risulti... L'idea più semplice, vedendo questo cartellino e non pensando che i Carabinieri si mettano a giocare, è che questo cartellino sia stato compilato, siano state prese le impronte, e poi qualcuno abbia portato via Casimirri al momento di fare la foto; e chi era lì, per non rimanere col cerino in mano, abbia incollato una delle foto, magari, che avevano in giro.
DOMENICO DI PETRILLO . Adesso non posso essere certo circa la data, però se qualcuno ha scritto qui «Camillo», il cartellino deve essere successivo al 1981, almeno.
PRESIDENTE . Sì, non c'è dubbio. È datato 4 maggio 1982.
DOMENICO DI PETRILLO . A parte la data...
PRESIDENTE . Per poter scrivere «Camillo»... Ne parleremo anche con Di Cera per vedere se si ricorderà.
La cosa singolare è che nel fascicolo dei Carabinieri c'è addirittura l'agendina di Casimirri, su cui nessuno ha fatto mai domande.
DOMENICO DI PETRILLO . Ecco, noi questo non lo sapevamo, perché – ripeto – quando nacque la Sezione non avevamo archivi. Il punto principale di prelevamento delle notizie era il Nucleo informativo del Gruppo di Roma, che stava a San Lorenzo in Lucina. Però, probabilmente, chissà quanti altri fascicoli di questi abbiamo... Magari, molte volte, nell'attività così convulsa non si pensava di mandare un'interpellanza a tutte le stazioni di Roma per chiedere: «Avete un fascicolo...»?
PRESIDENTE . No, la cosa che mi domando non è relativa a voi, ma è che... La Compagnia San Pietro sta vicino a San Pietro, Casimirri era figlio di una famiglia legata al Vaticano, negli atti sequestrati a Casimirri nel 1978 addirittura c'è un foglio scritto a penna da uno che si firma Nino: «Siete spariti, dateci i soldi perché dobbiamo pagare». Casimirri era sparito ad aprile del 1978, dopo la perquisizione. Magari non nel 1978, ma nel 1981-82 dalla Compagnia San Pietro avrebbero potuto mandarvi qualcosa.
La cosa singolare è che al cartellino, pur visto da tanta gente, anche da nostri consulenti, non è stato dato nessun peso; perché passa inosservato, evidentemente, oppure perché non hanno capito. Questo è un altro problema, perché questa roba era nelle carte trasmesse alla Commissione fin dal 2015; noi abbiamo dato deleghe specifiche su Casimirri, c'è chi ha guardato questo materiale e non se ne è accorto; quindi questa cosa merita da parte mia un ulteriore approfondimento. Io ho dato deleghe specifiche su Casimirri a nostri consulenti e collaboratori, hanno visto questa documentazione e non hanno detto niente. Pag. 36 Se poi dal contesto dalle domande fatte da qualche consulente in altra sede apparisse che il cartellino gli era noto, ciò a me non piacerebbe. Non dico altro, perché, se lo riterrò utile, scriverò a chi deve verificare queste cose. È solo un sospetto e spero di sbagliarmi.
PAOLO BOLOGNESI . Vorrei fare qualche domanda.
PRESIDENTE . Su questo punto o su altro? Perché se è su altro torniamo in seduta pubblica.
PAOLO BOLOGNESI . Rimaniamo in seduta segreta.
Vorrei sapere se lei conosceva Luciano Dal Bello o aveva notizie su di lui.
DOMENICO DI PETRILLO . È un nome che mi dice qualcosa, però non riesco a focalizzare.
PAOLO BOLOGNESI . Molto probabilmente ha dei collegamenti con Chichiarelli.
DOMENICO DI PETRILLO . Probabilmente è uno di quei nomi che giravano in quella situazione. Della questione Chichiarelli si è occupato massicciamente il Reparto operativo. Noi non eravamo lì e penso che in quel contesto... Però noi non abbiamo mai svolto un'attività investigativa sulla rapina alla Brink's Securmark.
PAOLO BOLOGNESI . La sua Sezione non ha mai avuto a che fare con questo Dal Bello?
DOMENICO DI PETRILLO . No, però il nome l'ho sentito, in quel contesto. Luciano Dal Bello era uno... Ora la memoria è si è avviata e qualcosa poi uscirà, però subito, non ricordo nulla di significativo. Sono passati quasi quarant'anni! Però – ripeto – è più un'attività di altri che mia, altrimenti l'avrei assorbita; perché deve sapere che tutte le operazioni riguardanti la sinistra eversiva compiute dalla Sezione sono state concepite, organizzate, dirette, eseguite e refertate da me. Il 95 per cento delle attività... Forse qualcosa può essere... Io, insomma, ho svolto attività di base, non soltanto da un punto di vista di gestione complessiva ma anche sul terreno, in quanto avevo un approccio anche di partecipazione fisica all'operazione insieme ai miei uomini, come mio modo di fare. Quindi, mi sarebbe rimasta certamente una memoria più nitida sul problema.
PAOLO BOLOGNESI . La mia prossima domanda può essere posta anche non in seduta segreta.
PRESIDENTE . Proseguiamo in seduta pubblica. Dispongo la riattivazione dell'impianto audiovisivo.
(I lavori riprendono in seduta pubblica).
PAOLO BOLOGNESI . Vorrei chiederle se può ripetere la questione di via Montalcini. Lei ha raccontato come ci siete arrivati. Me lo può ripetere? Soprattutto vorrei che venisse focalizzato come avete definito che lì ci fosse la prigione di Moro.
DOMENICO DI PETRILLO . Noi purtroppo l'abbiamo saputo soltanto quando Morucci ha parlato. Ripeto quello che successe. Noi avevamo fotografato la Braghetti, senza poterla identificare. Secondo quanto normalmente facevamo come prassi, a ciascun brigatista, noto o non noto, noi davamo un nome fittizio, in maniera tale che, nelle carte che rimanevano in giro, non si svelasse una identificazione che doveva rimanere più che segreta. Addirittura, siccome certe operazioni assumevano dimensioni numeriche veramente esagerate, ero uso – non c'erano i computer ancora – mettere un cartellone in cui questi nomi convenzionali venivano messi sull'asse delle ordinate e sull'asse delle ascisse mettevo le date per poter individuare i collegamenti e le varie riunioni. La vediamo e la fotografiamo per la prima volta il 3 marzo 1980 in via Galvani, quando, pedinando, credo, Piccioni, registriamo un incontro importante, così sembrava dall'atteggiamento che avevano. Si incontrano vicino alla sede dei pompieri di via Galvani-via Marmorata, Pag. 37 vanno a piedi fino al mattatoio, entrano in uno dei ristorantini sulla sinistra prima di arrivare al Mattatoio. Gestivo io stesso il pedinamento quel giorno. Lascio gli uomini dislocati a controllo delle varie direzioni, seguo io personalmente il gruppetto, entro poco dopo dentro il ristorante, non li vedo e con la coda dell'occhio mi accorgo che c'è una scala che porta a un piano superiore. Noto che uno di loro si è fermato e mi guarda. Io mi giro e riesco, e quello mi segue. Si rischia di mandare all'aria tutta l'operazione. Io faccio finta di cercare qualcosa, di aspettare qualcuno; passa un autobus, salgo sull'autobus e me ne vado, e scendo molto più in là. Ritorno a piedi, mi ricongiungo agli uomini, tenendomi ben lontano. Quella è la prima volta che noi vediamo «la vecchia».
PRESIDENTE . Questo era il soprannome?
DOMENICO DI PETRILLO . «La vecchia» perché da un punto di vista fotografico sembrava una vecchietta. Come dicevo, per l'angolazione del furgone, la foto non le faceva neanche giustizia.
Questo avveniva il 3 marzo. L'intervento lo compiamo il 10 maggio. Intanto lei non la vediamo più, perché quel giorno la pediniamo, si incontra alla stazione di Trastevere con quell'altro gruppetto di uomini tra cui Di Cera, e poi non la vediamo più, perché ci mettiamo a seguire gli altri. Quando il 10 maggio decidiamo di intervenire, ci sfuggono alcuni, come ho detto, al covo di via Pesci 11, perché si accorgono di qualcosa e sparano al furgone con gli uomini dentro. Quindi si fa l'operazione ma quella parte è monca: c'erano Arreni, Ricciardi (uno di quegli altri fotografati) e la Ligas, che avevamo pedinato un paio di volte e che, dopo, andrà nel partito guerriglia). Si disperdono.
Il 27 maggio stavamo nella caserma Podgora, a Trastevere, e stavamo facendo il verbale di sequestro, stavamo analizzando tutti i vari reperti, sia per questioni di catalogazione ma anche per questioni investigative. Quel giorno uno dei ragazzi che veniva dagli uffici verso la sede della caserma la incontra in corso Vittorio Emanuele, entra in un bar, col telefono ci chiama; noi confluiamo, intanto. La pedina e vede entrare questo gruppetto di tre persone nel bar che sta all'angolo tra corso Vittorio Emanuele e piazza Cesarini Sforza. Siedono ai tavolini esterni, riparati da una siepe che delimitava l'area che il bar si era riservato per mettere dei tavoli esterni. Raggiungo il posto con un po’ di uomini e faccio irruzione. Vengono arrestati. Ciascuno di loro era armato con due pistole, un'automatica e un revolver; ipotizzammo che stessero aspettando qualcuno, perché normalmente avevano due armi quando stavano per compiere un'azione, in quanto la pistola a tamburo è quella che si usa per colpire l'obiettivo, perché è più difficile che si inceppi, mentre la pistola automatica, per il volume di fuoco che può sviluppare, è quella più idonea allo sganciamento.
In quella circostanza, «la vecchia» trova un nome: Anna Laura Braghetti. Come ogni volta facevamo, appena usciva un nome subito si cercava di trovare qualcosa per inquadrarlo, magari c'era qualche elenco da sviluppare, e troviamo un appunto fatto due anni prima a seguito di una segnalazione dell'ufficio del generale Dalla Chiesa, che era a Ponte Salario, perché in quel periodo, quando si ha il secondo Nucleo, Dalla Chiesa è già direttore dei servizi di sicurezza per gli istituti di prevenzione e pena, creato per contrastare le evasioni dalle carceri, e insieme a quello ha l'incarico anche del secondo Nucleo speciale.
Non ricevetti io quell'appunto, non ricordo se lo ricevette Mori o un altro, e mandammo un sottufficiale a fare un accertamento.
PRESIDENTE . Questo nel 1979...?
DOMENICO DI PETRILLO . 1979, 1980... non ricordo, però questo è stato ricostruito anche negli atti giudiziari, quindi la data è molto precisa e ricostruibile. Io non la ricordo, però è ricostruibile.
Mandarono un sottufficiale che non so se sia ancora vivo, il maresciallo Spada; era uno dei sottufficiali più anziani. Tornò e disse che c'era già l'UCIGOS in zona. Ci Pag. 38 mettemmo a ridere un po’ tutti perché questi avevano detto, come raccontavo prima, che di lì a qualche giorno avrebbero fatto un'irruzione.
PRESIDENTE . La perquisizione avvertendo i condomini.
DOMENICO DI PETRILLO . E noi quindi non ce ne interessammo, perché – ripeto – eravamo subissati...
PRESIDENTE . Fare le cose in due non ha senso.
Comunque, in quel periodo la Braghetti ancora era lì.
DOMENICO DI PETRILLO . Sì, probabilmente... O c'era o, secondo me, ragionevolmente aveva ancora la disponibilità formale della casa ma, secondo me, dopo l'uccisione di Moro, quando hanno portato via Moro da lì, il covo è stato dismesso. Ragionevolmente, sarebbe stupido...
PRESIDENTE . Comunque, se per caso fossero entrati – tutte queste coincidenze: non bussano a via Gradoli, non entrano a via Montalcini – avremmo risparmiato tutti qualche tempo.
PAOLO BOLOGNESI . Lei non ha mai sospettato che ci fosse un covo vicino a via Fani?
DOMENICO DI PETRILLO . Ma perché?
PRESIDENTE . Di Petrillo stava a Cagliari allora.
PAOLO BOLOGNESI . È arrivato a Roma subito dopo la vicenda Moro.
DOMENICO DI PETRILLO . Io sono arrivato dopo il ritrovamento del corpo di Moro.
PAOLO BOLOGNESI . Dopo il ritrovamento?
DOMENICO DI PETRILLO . Moro viene trovato il 9 maggio, io arrivo alla Sezione il 24 maggio.
PAOLO BOLOGNESI . Perché doveva fare le indagini su Moro, no?
DOMENICO DI PETRILLO . Direttamente no, perché per noi, come prassi... Per noi era importante l'organizzazione che aveva compiuto il sequestro e l'uccisione di Moro, per evitare che ne facesse altri. Ecco, l'approccio era questo. Mentre in un'indagine criminale c'è un movente che muove certe cose, lì è una funzione pubblica che è... Quindi è importante l'organizzazione. In un'organizzazione criminale lei ha la possibilità, attraverso il movente, di focalizzarsi su una sfera di cose. Lì da dove comincia? Deve per forza andare in un'area politica dove cercare di trovare la parte malata, la parte anomala.
Quindi, l'approccio non può che essere diverso.
PRESIDENTE . Ringraziamo il colonnello Di Petrillo. La Commissione sarà convocata per lunedì prossimo per l'audizione di Bassam Abu Sharif.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 18.10.
* Su conforme avviso dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella seduta del 22 febbraio 2018 la Commissione ha convenuto di desecretare la seguente parte segreta del resoconto stenografico della seduta del 19 giugno 2017 e ha disposto che il resoconto stesso venisse ripubblicato includendovi la parte desecretata.