XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 40 di Mercoledì 1 luglio 2015

INDICE

Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 

Audizione del dottor Vladimiro Satta:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Satta Vladimiro  ... 5 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 5 
Satta Vladimiro  ... 5 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Corsini Paolo  ... 13 
Satta Vladimiro  ... 13 
Corsini Paolo  ... 13 
Satta Vladimiro  ... 13 
Corsini Paolo  ... 14 
Satta Vladimiro  ... 14 
Corsini Paolo  ... 14 
Satta Vladimiro  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Satta Vladimiro  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 14 
Corsini Paolo  ... 14 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Lavagno Fabio (PD)  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Satta Vladimiro  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 16 
Satta Vladimiro  ... 16 
Grassi Gero (PD)  ... 16 
Satta Vladimiro  ... 16 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Satta Vladimiro  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Satta Vladimiro  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Satta Vladimiro  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Satta Vladimiro  ... 19 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 
Satta Vladimiro  ... 20 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 20 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 
Satta Vladimiro  ... 20 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Satta Vladimiro  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Satta Vladimiro  ... 21 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 21 
Satta Vladimiro  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 22 
Lavagno Fabio (PD)  ... 22 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 22 
Lavagno Fabio (PD)  ... 22 
Satta Vladimiro  ... 22 
Buemi Enrico  ... 22 
Satta Vladimiro  ... 23 
Grassi Gero (PD)  ... 23 
Satta Vladimiro  ... 23 
Buemi Enrico  ... 23 
Satta Vladimiro  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Buemi Enrico  ... 23 
Satta Vladimiro  ... 23 
Buemi Enrico  ... 23 
Satta Vladimiro  ... 23 
Lavagno Fabio (PD)  ... 23 
Satta Vladimiro  ... 23 
Lavagno Fabio (PD)  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Carra Marco (PD)  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Carra Marco (PD)  ... 24 
Satta Vladimiro  ... 24 
Carra Marco (PD)  ... 24 
Satta Vladimiro  ... 24 
Carra Marco (PD)  ... 24 
Lavagno Fabio (PD)  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Lavagno Fabio (PD)  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Satta Vladimiro  ... 25 
Carra Marco (PD)  ... 25 
Satta Vladimiro  ... 26 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 26

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.25.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che, in relazione alla richiesta audizione dell'ex Segretario di Stato Henry Kissinger, lo scorso 18 giugno un incaricato della Political section dell'ambasciata statunitense a Roma, il dottor Emanuele Ferrari, ha comunicato telefonicamente alla segreteria della Commissione che l'Ambasciata americana non intrattiene rapporti diretti con le Commissioni parlamentari, invitando pertanto ad inoltrare la richiesta in questione per il tramite del Ministero degli affari esteri. Con una nota al Ministro Gentiloni si è pertanto provveduto ad investire della questione il Ministero degli affari esteri.
  Nel corso dell'odierna riunione l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto di acquisire alcuni documenti presso il Comando generale dell'Arma dei carabinieri, presso gli uffici giudiziari di Roma e presso l'Archivio storico del Senato.
  Nella medesima riunione si è, altresì, convenuto di procedere a taluni accertamenti per identificare collaboratori del dottor Domenico Sica in grado di riferire sulle indagini svolte dal magistrato con riferimento al caso Moro.
  Sempre nella odierna riunione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha inoltre deciso di affidare al Servizio centrale antiterrorismo della Polizia di Stato il compito di svolgere alcune verifiche riguardanti una informativa dei servizi di informazione datata 26 marzo 1978.
  Comunico, infine, che:
   con nota pervenuta il 19 giugno, il generale Scriccia ha depositato una relazione riservata concernente l'ipotizzata attività di vigilanza del covo di via Gradoli da parte di due appartenenti all'Arma dei carabinieri;
   il sovrintendente Marratzu ha depositato, sempre il 19 giugno, documentazione riservata, acquisita presso gli uffici giudiziari di Roma;
   il 24 giugno il dottor Allegrini ha depositato: una relazione di libera consultazione concernente la documentazione sul caso Moro custodita dall'Archivio di Stato di Roma; una relazione di libera consultazione riguardante il noto fascicolo n. 11001/45 del Gabinetto del Ministero dell'interno; con nota di libera consultazione, gli archivi digitali consegnati dall'Archivio centrale dello Stato;
   il dirigente dell'Archivio di Stato di Roma, dottor Paolo Buonora, con nota di libera consultazione pervenuta il 19 giugno, ha fornito alcune informazioni sulla documentazione conservata presso lo stesso Archivio e il Tribunale di Roma (comprensiva delle carte rinvenute in via Monte Nevoso e di alcune lettere di Moro) e ha assicurato ampia disponibilità a collaborare con la Commissione;
   il Comando generale della Guardia di finanza, con nota di libera consultazione pervenuta il 26 giugno, ha trasmesso alcuni documenti richiesti dalla Commissione;
   il 25 giugno l'Archivio storico del Senato ha comunicato che il Comando generale della Guardia di finanza ha declassificato sei documenti relativi alla Pag. 4Commissione Mitrokhin; si tratta dei documenti 97, 107, 109, 129, 134 e 157 – tutti inclusi nel Doc. 7/1 – che diventano pertanto di libera consultazione.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione del dottor Vladimiro Satta.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Vladimiro Satta, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire oggi in Commissione. Il dottor Satta ha fatto parte del personale del Senato addetto alla Commissioni stragi. Egli, però, viene ascoltato oggi non in tale qualità, bensì come autore di importanti saggi sul sequestro e l'uccisione di Aldo Moro.
  La materia oggetto della nostra inchiesta parlamentare è stata esaminata in modo analitico e approfondito da parte del dottor Satta, che ha dedicato all'argomento due ampi e documentati volumi, Odissea nel caso Moro: viaggio controcorrente nella documentazione della Commissione stragi (2003) e Il caso Moro e i suoi falsi misteri (2006).
  Come appare fin da titoli dei due libri, il dottor Satta si pone in una posizione critica nei confronti di una vasta parte della pubblicistica sul caso Moro. Nell'introduzione al volume pubblicato nel 2003 scrive: «La ricostruzione ufficialmente emersa dai numerosi procedimenti giudiziari secondo la quale l'operazione fu ideata, eseguita e portata a termine dalle sole BR e i principali responsabili si identificano, dunque, con i terroristi poi arrestati e condannati non viene creduta quasi da nessuno. Si potrebbe pensare, insomma, che siamo ancora al punto in cui un'ipotesi vale l'altra, il che non è affatto vero. Sul caso Moro è stato fatto tanto buon lavoro, è stata raccolta tanta documentazione e su tali basi si può affermare che tra le tesi che hanno circolato in tutto questo tempo alcune sono provviste di riscontri troppo solidi per non essere vere, mentre altre fanno acqua da tutte le parti».
  Nella parte conclusiva del volume osserva che «il caso Moro presenta ancora risvolti non chiariti, ma nulla che si possa correttamente definire mistero o che sembri suscettibile di rivoluzionare il quadro messo insieme fino ad oggi».
  Nel capitolo conclusivo del volume pubblicato nel 2006 il dottor Satta rileva che «le ricostruzioni complottistiche del caso Moro progressivamente sono diventate parte integrante di una lettura della storia della Repubblica in chiave di dominio occulto ad opera di poteri antidemocratici e collusi con criminalità organizzate e gruppi terroristici» ed esprime il suo radicale dissenso da tale teoria, affermando con nettezza che «nel caso Moro, come negli altri, le BR fecero tutto da sole sia sul piano politico che militare».
  Invito, quindi, il dottor Satta a illustrare sinteticamente alla Commissione i risultati delle sue ricerche che l'hanno indotto a giungere a tale citata conclusione, con alcune specifiche che non chiama misteri, ma che cita. Nel volume Odissea nel caso Moro li definisce quattro problemi tuttora aperti: la moto Honda presente la mattina del 16 marzo in via Fani e l'eventuale ruolo ricoperto dalle due persone che erano a bordo di essa; le operazioni relative al furgone brigatista in via Bitossi e all'abbandono delle automobili in via Licinio Calvo; l'identità di chi ingaggiò Chichiarelli per fargli confezionare il falso comunicato relativo al Lago della Duchessa; il luogo esatto dell'incontro Piperno-Moretti avvenuto nell'estate del 1978 e l'identità dell'anfitrione che mise a loro disposizione un non meglio precisato appartamento borghese del quartiere Prati.
  A dodici anni di distanza quali elementi di novità sono emersi al riguardo ? Ritiene che vi siano ancora ulteriori punti da approfondire ?Pag. 5
  Tra i numerosi aspetti del caso Moro – questa è un'ultima aggiunta – sui quali sono state avanzate ipotesi di ricostruzione le chiedo di soffermarsi sui seguenti, che rientrano tra gli argomenti che anche lei ha più volte studiato all'interno della Commissione stragi: l'eventuale ruolo di Igor Markevitch e la possibilità che Moro sia stato tenuto sequestrato in un'abitazione della zona del Ghetto; l'eventuale ruolo dello studente russo Sergej Fëdorovic Sokolov, che seguiva le lezioni di Moro; il documento del 2 marzo del 1978 relativo alla ricerca di collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell'onorevole Moro che Antonino Arconte, secondo quanto da lui riferito, avrebbe portato a Beirut e consegnato il 13 marzo al tenente colonnello Ferraro; la possibile sottrazione di una parte della documentazione relativa a Moro trovata il 1o ottobre 1978 nel covo di via Monte Nevoso; l'eventuale ruolo svolto dagli appartenenti a una struttura segreta clandestina, nell'ambito delle strutture segrete, nota come Anello.
  Do la parola a Vladimiro Satta.

  VLADIMIRO SATTA. Grazie, signor presidente. Ringrazio la Commissione dell'invito, di cui sono onorato. Ringrazio il presidente anche di avere ricordato che io sono qui essenzialmente per esporre i risultati di mie ricerche storiografiche che ho intrapreso di mia iniziativa, che ho condotto in piena autonomia e che, quindi, doverosamente devo precisare impegnano solamente me e non il Senato, né come amministrazione, né come Istituzione.
  Io avrei preparato per la Commissione una relazione introduttiva...

  PRESIDENTE. Le chiedo di sintetizzarlo e di lasciarci poi il documento, così che anche i colleghi possano fare una serie di domande, altrimenti con l'Aula rischiamo di non fare in tempo.

  VLADIMIRO SATTA. Farò il possibile. Vi assicuro che è più breve di quella presentata in passato da Flamigni e all'incirca della stessa lunghezza di quella di Clementi e comunque contiene già alcune risposte ad alcuni dei quesiti che lei mi ha posto.
  Io parto dal concetto che l'eccidio di via Fani, il sequestro di Moro e la sua uccisione costituiscono l'apice di una lotta armata del comunismo portata avanti dalle Brigate Rosse in maniera continuativa dal 1970 al 1988, l'anno in cui questo ciclo si concluse con l'uccisione di un altro democristiano, il senatore Roberto Ruffilli.
  La vicenda Moro, a mio avviso, fu esclusivamente opera delle Brigate Rosse, la più forte e la più longeva tra le molteplici formazioni imbevute di ideologia rivoluzionaria che si diedero alla guerriglia negli anni Settanta. L'attacco contro il leader del partito di maggioranza relativa fu un'azione coerente con le mire e le capacità di un gruppo armato sviluppato.
  Dunque, il caso Moro non è un episodio isolabile nella storia delle Brigate Rosse, né anomalo, né una deviazione di percorso, come invece sembrano ritenere coloro i quali postulano che le Brigate Rosse in quella circostanza, per oscuri motivi, si siano fatte strumento di registi occulti, salvo cambiare nuovamente rotta e riprendere un cammino autonomo subito dopo, per motivi altrettanto oscuri.
  Le Brigate Rosse perseguirono una strategia nella quale l'uso della violenza aveva principalmente la funzione di propaganda armata. Il loro progetto prescindeva dai rapporti tra i partiti in Parlamento e si basava sulla convinzione che il potere si conquistasse per via rivoluzionaria e non elettorale.
  Le Brigate Rosse erano nate nel triangolo industriale, in particolare nel milanese, con il Collettivo politico metropolitano e le grandi fabbriche del triangolo industriale. Erano, quindi, in origine un fenomeno settentrionale, che però, a un certo punto, si espanse, in quanto le Brigate Rosse avvertirono i limiti di un'azione circoscritta a tematiche di fabbrica in un'area ristretta e decisero di puntare all'attacco contro il cuore dello Stato. Nella seconda metà del decennio, per questo motivo, si espansero geograficamente, insediandosi anche a Roma.Pag. 6
  Nel 1978 erano ormai organizzativamente e militarmente pronte per colpire i massimi livelli, vale a dire i vertici della DC. Presero in considerazione, come è noto, tutti i suoi esponenti e scelsero Moro avendo valutato che, dal punto di vista pratico, rapire lui sarebbe stato più semplice.
  Il sequestro di Moro non fu preceduto da avvisaglie tali da poterlo definire annunciato. Inoltre, va considerato che in quel momento le forze di polizia non disponevano di infiltrati nelle Brigate Rosse.
  L'attacco di via Fani fu preparato meticolosamente. Fu un'azione simile a quella attuata pochi mesi addietro in Germania dalla Rote Armee Fraktion ai danni dell'industriale Schleyer. Dal punto di vista militare il successo fu dovuto all'effetto sorpresa, all'inefficacia nella reazione dei, pur generosi, agenti di scorta e non all'apporto di super-killer esterni al gruppo terroristico, che non esistevano.
  Se guardiamo, infatti, non alla quantità di colpi sparati da un singolo tiratore, che è un dato insignificante, bensì alla precisione, si rileva che i proiettili andati a segno contro gli uomini della scorta di Moro furono 45 su 91, cioè meno della metà.
  Per giunta, se, basandosi sulle perizie disponibili, si osserva che 17 colpi, secondo le perizie degli anni Settanta e Novanta, furono sparati a brevissima distanza, è chiaro che chiunque avrebbe fatto centro da così vicino. Perciò i tentativi riusciti di attingere i bersagli da distanza che non fosse molto ravvicinata scendono a 28 su 74, poco più di un terzo, e sono livelli niente affatto da tiratore scelto, cioè livelli compatibili con quell'allenamento saltuario cui i brigatisti si sottoponevano. Mi è parso che anche nella seduta del 10 giugno scorso la DIGOS si sia espressa nel senso dell'inesistenza di un tiratore scelto.
  Venendo alla moto Honda, che era una delle domande del presidente e anche una delle questioni da me stesso indicate in passato, io ritenevo altamente probabile, sulla base della sentenza del 1983, che i due della Honda avessero partecipato attivamente, in quanto avevano sparato contro un passante, l'ingegner Alessandro Marini, pur non avendo colpito lui, bensì il parabrezza del suo motorino.
  Tuttavia, le recentissime ricerche storiografiche di Gianremo Armeni e di Nicola Lofoco, una serie di articoli di stampa e ulteriori incongruenze nella versione dei fatti raccontati dall'ingegnere, nonché le indagini svolte dal Procuratore Ciampoli, che ha riferito alla vostra Commissione di come le minacce di cui è stato oggetto l'ingegnere Marini avessero tutt'altra origine, mi sembra rimettano in discussione, se non altro, la tesi che i due della Honda abbiano avuto un ruolo attivo nell'agguato, sebbene non giungano, a mio avviso, a confutarla del tutto.
  Questo in quanto esiste sempre una testimonianza, quella del signor Intrevado, che ritiene di aver visto il caricatore di un mitra. Questi signori sarebbero stati, quindi, armati e, se fossero stati armati, si dovrebbero considerare partecipanti all'azione.
  Non credo affatto, invece, per ragioni che, se volete, illustreremo dopo, né al coinvolgimento di Antonio Fissore, né a quello di Camillo Guglielmi.
  Per quanto riguarda le comunicazioni telefoniche, che ovviamente si moltiplicarono in entrata e in uscita nella zona di via Fani, si verificò un progressivo sovraccarico, tale da provocare a un certo punto una vera e propria paralisi, ma non ci fu nei primi minuti alcun blackout e, quindi, non ci fu alcuna complicità tra le Brigate Rosse e il gestore della rete.
  Le Brigate Rosse, come scrissero nei loro comunicati, vedevano in Moro un protagonista di decenni di storia italiana, lungi dal ridurre il discorso al periodo 1976-1978. Non intendevano fermarsi a lui e, infatti, non lo fecero. L'agguato di via Fani, pertanto, non era legato all'inclusione del PCI nella maggioranza. Se il vero obiettivo degli assalitori fosse stato sopprimere Aldo Moro, magari per conto di mandanti stranieri e italiani, essi lo avrebbero fatto in via Fani, non dopo 54 giorni, rischiando che nel frattempo qualche cosa Pag. 7andasse storto, e meno che mai sarebbero stati loro a proporre uno scambio di prigionieri, che avrebbe comportato la salvezza di Moro in caso di accettazione da parte dello Stato.
  Tralascio magari le considerazioni sulla linea della trattativa, per brevità, visto che così mi viene richiesto di fare. Passerei ad alcune considerazioni sulle ricerche. Gli sforzi delle forze di polizia e dei servizi segreti furono massicci. Vennero impegnati mediamente 12.760 uomini al giorno, una mobilitazione senza eguali, anche se poi fu vana. Fu un'impostazione quantitativa perché non si disponeva di tracce qualificate su cui lavorare. Il problema dell'inefficienza delle strutture antiterroristiche, che tutti sollevano in relazione al caso Moro, in realtà preesisteva ed era serio già alla vigilia del 16 marzo del 1978.
  Il compito di scovare il nascondiglio era oggettivamente problematico e, per di più, il sequestro Moro cadde nel momento di peggiore impreparazione dei servizi segreti italiani, che, come si sa, nei primi mesi del 1978 attraversavano una crisi di transizione derivante dalla radicale riforma approvata nell'autunno del 1977, che riguardava l'intero comparto della sicurezza.
  In particolare, proprio il servizio preposto alla sicurezza democratica, il SISDE, era gravemente a corto di uomini e di mezzi. Carenze di questo tipo, vale a dire strutturali, non erano rimediabili dalla mattina alla sera, neppure convocando un personaggio di grandi capacità, quale Carlo Alberto Dalla Chiesa, come pure venne fatto.
  Ovviamente, poi i 12.760 uomini quotidianamente in azione non potevano essere tutti infallibili e non mancarono gli errori, sebbene nessuno determinante, né configurabile a stregua di sabotaggio delle indagini o di altre forme di dolo. Questo vale anche per coloro che nel 1981, cioè tre anni dopo, risultarono iscritti alla loggia massonica segreta e, pertanto, illegale di Gelli, la P2.
  Ben inteso, la P2 fu una grave piaga dell'Italia di allora, ma questo non autorizza ad addossare a Gelli e ai suoi la responsabilità di ogni sventura nazionale. La presenza della loggia P2 negli apparati pubblici è stata ingigantita da chi ha imperniato su di essa teorie cospirative. I piduisti sparsi nella macchina statale che si occupava del sequestro Moro erano pochi e non fecero gioco di squadra ai danni del sequestrato.
  Da un'organica mappatura degli assetti istituzionali alla vigilia del sequestro si vede che, a parte Santovito e Grassini, che erano stati nominati ai vertici di SISMI e SISDE, ma non in quanto piduisti, i sodali di Gelli erano assenti dalla grande maggioranza dei posti chiave. Infatti, non erano piduisti il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro della giustizia, il Sottosegretario all'interno, nonché coordinatore del comitato politico-tecnico-operativo, i segretari dei partiti, il capo della Polizia, il comandante generale dei Carabinieri, il segretario generale del CESIS, perlomeno fino al 5 maggio 1978, il Procuratore generale, il Procuratore capo della Repubblica, il magistrato titolare della prima fase delle indagini.
  Si rammenti pure che le Brigate Rosse in passato avevano sparato a un piduista, Massimo De Carolis, che dopo la morte di Moro progettarono un attentato contro Grassini, fortunatamente sventato, e che tra i piduisti lo stesso De Carolis e Cicchitto erano tra i personaggi semmai favorevoli alla trattativa.
  Tra il comportamento degli inquirenti piduisti e gli altri non si riscontra, quindi, alcuna significativa differenza. Tutti, purtroppo, brancolavano nel buio e in nessuna occasione i primi impedirono ai secondi di percorrere buone piste.
  Per quanto riguarda la magistratura, le note dolenti attengono, secondo me, soprattutto alle burocratiche deficienze organizzative. Il titolare Infelisi fu costretto a operare con risorse ordinarie, vale a dire senza adeguati rinforzi.
  Fu più pronta la risposta legislativa, con una serie di provvedimenti, sui quali, se volete, torneremo, che peraltro aprirono Pag. 8delle possibilità che poi diedero frutti in una fase successiva e, purtroppo, non entro i 55 giorni.
  In ogni caso, si capì presto che l'ostaggio ben difficilmente sarebbe stato liberato dagli apparati preposti, come, d'altra parte, in Italia avveniva per i sequestri di persona nella generalità dei casi. I brigatisti furono irremovibili nella pretesa di interloquire con la DC e il suo Governo e, perciò, frustrarono le speranze della signora Eleonora Moro e delle persone di cui ella si circondò.
  È proprio la coscienza della pratica impossibilità di salvare la vita di Moro, a meno di non arrendersi ai terroristi, che chiarisce il senso di frasi paradossali del tipo «abbiamo ucciso noi Aldo Moro», detta tante volte dall'ex Ministro dell'interno Cossiga e riecheggiate in un libro intervista dall'ex funzionario statunitense Pieczenik, frasi che verrebbero, invece, gravemente fraintese, qualora venissero interpretate alla stregua di confessioni stragiudiziali.
  Per quanto riguarda il luogo dove era imprigionato Aldo Moro, di cui mi si chiedeva anche a proposito della zona del Ghetto, questo luogo era via Montalcini e non altri. Depongono, infatti, in favore di via Montalcini tre serie di elementi.
  Il primo sono i segni del nascondiglio dell'ostaggio, che erano rimasti visibili. Il secondo sono le testimonianze dei vicini di casa, in particolare della signora Ciccotti. Il terzo sono le ammissioni da parte dei brigatisti stessi. Non esiste altro posto al mondo in relazione al quale sussista anche soltanto uno dei tre elementi che ho ricordato.
  Il covo di via Montalcini durante i 55 giorni non fu individuato né dagli apparati dello Stato, né da altri che fossero estranei alle Brigate Rosse. Considero assolutamente inverosimile una relazione di Giovanni Ladu, alias Oscar Puddu, sposata, invece, da Imposimato.
  Voglio osservare la fallacia di alcune contestazioni sull'ubicazione del nascondiglio di Moro portate con l'argomento che la prolungata restrizione in uno spazio angusto in cui un soggetto poteva muovere solamente un paio di passi o poco più avrebbe dovuto causare atrofia dei muscoli dell'ostaggio.
  In realtà, l'autopsia non ha evidenziato effetti del genere. Questa argomentazione, però, è viziata da un abbaglio, nel senso che i muscoli che l'autopsia definiva di normale aspetto non erano muscoli che richiedano allenamento. Erano i muscoli temporali. Il presidente Fioroni, essendo medico, saprà dire meglio di me come si trattasse dei muscoli del cranio che presiedono alla masticazione, i quali, ovviamente, non risentono dei limiti alla deambulazione, né della quantità di esercizio fisico praticato da un soggetto.
  È noto che Aldo Moro poté inviare una serie di lettere, nelle quali egli pose la delicata questione della trattativa prima ancora che l'avessero fatto le Brigate Rosse, progettando già il 29 marzo uno scambio di prigionieri.
  Io aderisco alla valutazione di Alfredo Carlo Moro secondo cui sarebbe una forzatura dire che Moro scrivesse le sue lettere sotto dettatura dei brigatisti, ma lo sarebbe altrettanto ritenere che questi si limitassero a trasmettere all'esterno tutto quello che Moro liberamente scriveva, senza interferire in alcun modo sul contenuto dei suoi scritti.
  È presumibile che le mancate consegne, dato che ci sono delle lettere non recapitate, anche numerose, siano dipese in misura scarsa da ciò che le relative lettere dicevano e, invece, in misura maggiore da contingenti problemi pratici, di cui oggi si è persa traccia.
  C’è un passo all'interno di una lettera di Moro rivolta al sacerdote Mennini che fa supporre che il canale di comunicazione tra i familiari dell'ostaggio e i rapitori abbia funzionato in maniera bidirezionale, mentre non si hanno indizi per sostenere che le Brigate Rosse avessero rivelato al prete l'ubicazione del carcere del popolo o addirittura che gli avessero consentito di accedervi, incuranti di qualunque regola di prudenza.
  Aggiungo che era noto già dagli anni Ottanta che Eleonora Moro si avvaleva anche di altri, e non solamente di don Pag. 9Mennini, per ritirare le lettere scritte dal marito e che il 5 maggio le Brigate Rosse avevano telefonato al sacerdote in sostituzione di un'altra persona, che al momento era irreperibile.
  È noto che le lettere di Moro sono state prontamente pubblicate dallo Stato ed è noto che, oltre alle lettere, Moro scrisse un memoriale, una sorta di memoria difensiva. A sequestro in corso le Brigate Rosse non divulgarono il memoriale, perché dall'interrogatorio dell'onorevole, come essi stessi scrissero, «non emergevano clamorose rivelazioni da fare, né segreti, né nulla che i proletari non avessero già conosciuto». Lo ammisero nel comunicato del 15 aprile. Il memoriale, dunque, non conteneva nulla di veramente compromettente per nessuno, per dirla con lo studioso Francesco Biscione.
  Un brano uscito fuori nel 1990, che talvolta è stato associato all'organizzazione antinvasione denominata Gladio, in realtà non si riferisce al ramo italiano della Stay Behind, bensì alla creazione di reparti speciali e alla stipulazione di alleanze antiguerriglia da parte di Paesi dell'Europa occidentale. Erano progetti messi in campo a metà anni Settanta, i cosiddetti progetti «Trevi», che preoccupavano molto le Brigate Rosse, come traspare dal comunicato n. 2 del 25 marzo 1978.
  L'imbarazzante scarto tra le aspettative che le Brigate Rosse nutrivano per l'interrogatorio di Moro e la realtà delle risposte fornite dall'ostaggio alle loro domande fu, quindi, il motivo per cui la pubblicazione fu sospesa durante il sequestro. Peraltro, i brigatisti non avevano abbandonato del tutto l'idea di una divulgazione almeno parziale e per questo avevano fotocopiato quelle carte e le avevano messe a disposizione di Nadia Mantovani, affinché le studiasse per vedere se se ne potesse ricavare qualche cosa di utile ai fini della loro propaganda.
  Tutto questo, però, fu interrotto dall'irruzione da parte dei Carabinieri nel covo di via Monte Nevoso il 1o ottobre 1978. Dopodiché, le carte uscirono dalla disponibilità delle Brigate Rosse. È noto che, tra l'altro, fu il Governo a pubblicare tempestivamente tutto quello che era possibile, persino contro il parere della magistratura, che riteneva che ciò potesse essere controproducente dal punto di vista delle indagini.
  È vero, peraltro, che, com’è noto, i Carabinieri che trovarono le pagine del memoriale giacenti a vista nel 1978 non si accorsero di un pannello all'interno di una parete che ne conteneva altre. Qui bisogna dare atto a Sergio Flamigni di essersi battuto prima del 1990 affinché l'ex covo fosse perquisito una seconda volta e bisogna dire che i pur valentissimi Carabinieri dei Nuclei speciali comandati da Dalla Chiesa, per una volta non furono all'altezza della loro fama.
  Il generale Bozzo, uno dei più stretti collaboratori di Dalla Chiesa, spiegò in Commissione stragi che la perquisizione del 1978 era stata piuttosto affrettata perché i reparti speciali sentivano la pressione dell'Arma territoriale, talvolta gelosa dei loro successi e della loro popolarità, e non per questioni politiche, che non ci furono.
  Si tenga conto che, come ha puntualizzato ripetutamente l'allora Ministro dell'interno Rognoni, nessuno all'epoca attribuiva alle carte di Moro l'importanza che taluni attribuirono ad essa a posteriori. Quello che premeva era catturare gli assassini di Moro, piuttosto.
  Non sappiamo con certezza se il suddetto originale esista o se sia stato bruciato nell'autunno del 1978, perché abbiamo indizi contrastanti, ma faccio presente che la differenza tra un originale e una copia, nel caso di un sequestro di persona, è formalistica. È presumibile che l'originale fosse stato all'epoca consegnato a uno dei membri più importanti delle Brigate Rosse o a un gregario a lui vicino.
  È per questo che il generale Dalla Chiesa nel 1980 in Commissione Moro si interrogava sulla fine fatta dall'incarto, perché diceva che, secondo lui, esso doveva essere nelle mani di Moretti o di qualche altro brigatista protagonista dell'operazione Moro. Egli non pensava a fantomatici burattinai esterni.Pag. 10
  Voglio anche aggiungere che il memoriale Moro è stato tirato in ballo anche per altre vicende, in particolare il processo per l'omicidio Pecorelli, di cui, com’è noto, Andreotti fu accusato di essere stato il mandante e di aver voluto così impedire a Pecorelli di pubblicare carte inedite e scottanti sul caso Moro. Il processo si è concluso, in realtà, con l'assoluzione di Andreotti e di Vitalone. Inoltre, nessun organo giudiziario, neppure la Corte d'appello, che per un certo tempo dichiarò Andreotti colpevole, affermò mai che si identificasse nel memoriale quel plico, il cosiddetto «salame», che il maresciallo Incandela dice di avere recuperato su indicazioni di Pecorelli e di aver consegnato al generale Dalla Chiesa in base a un accordo segreto tra quest'ultimo e Pecorelli, una storia su cui è lecito avere dubbi.
  Persino quei giudici di appello che credettero a Incandela non stabilirono se il cosiddetto salame contenesse carte scritte da Moro oppure carte attinenti al caso Moro, che sono due cose diverse.
  Sono, quindi, cruciali non tanto i discorsi sul memoriale, a mio avviso, bensì i comunicati emessi dalle Brigate Rosse e le reazioni all'esterno, in particolare i comunicati n. 6 del 15 aprile e n. 7 del 20 aprile, in cui dapprima si diede notizia della cosiddetta condanna del sequestrato e poi si pose un ricatto ultimativo allo Stato.
  La contemporaneità della scoperta del covo di via Gradoli con il falso comunicato del Lago della Duchessa ha indotto molti a ipotizzare che ci fosse un nesso. Dopo trentasette anni nessuna di queste ipotesi è riuscita ad affermarsi e la vera ragione di questo insuccesso, a mio avviso, è che il nesso non esiste.
  Per quanto riguarda l'origine del falso comunicato, io ricordai a suo tempo che l'idea originaria era stata di Claudio Vitalone, il quale pensava che con un falso comunicato si potessero indurre le Brigate Rosse a scoprirsi, a fare passi falsi, a trovare modalità nuove e diverse di consegna dei comunicati e seminare dubbi all'interno della loro organizzazione anche se poi, però, sembrava che questa indicazione non fosse stata recepita dai servizi segreti, adducendo l'argomento della pratica impossibilità. Sapendo che colui che confezionò materialmente il falso comunicato fu Chichiarelli e che l'idea era di Vitalone, mancava, tuttavia, un filo che collegasse i due.
  Devo dire che, proprio grazie alle mie ricerche, con una certa componente di fortuna, si è delineata una seconda pista, che oggi io ritengo più convincente, cioè che Chichiarelli, in realtà, fosse complice di un truffatore, il quale contemporaneamente aveva contattato il Vaticano ed era intento a far credere alla Santa Sede di essere ben introdotto nelle Brigate Rosse al fine di spillare quattrini. La previsione di un falso comunicato in questa chiave era un mezzo per ingannare la Santa Sede. Infatti, il Vaticano prese sul serio l'anonimo personaggio e gli fece sapere di aver raccolto il denaro. Quando, però, arrivò il momento di mantenere la promessa e di far liberare Moro, l'uomo si dileguò, probabilmente perché non gli fu dato alcun anticipo, al contrario di ciò che egli chiedeva.
  Sottolineo, quindi, che non è vero che il Vaticano sia giunto a un passo dalla liberazione di Moro. Era, invece, incappato in un imbroglione. Lo stesso Curioni, il sacerdote che si era occupato della faccenda per conto della Chiesa, negli ultimi giorni era diventato pessimista, essendosi reso conto dell'inaffidabilità della persona con cui aveva avuto a che fare.
  La realtà è che il rilascio di Moro non era una questione di soldi. Lo vediamo con il vero comunicato n. 7, in cui si ribadisce che la questione è politica, con i comunicati seguenti, con la telefonata di Moretti alla famiglia Moro del 30 aprile. I primi a confermarcelo sono i familiari del rapito, per esempio il figlio Giovanni nell'audizione in Commissione stragi. L'eventuale rilascio di Moro era una questione di equiparazione politica tra i terroristi, che ovviamente la volevano, e lo Stato che, altrettanto ovviamente, la rifiutava.
  Anche l'episodio del Lago della Duchessa, in realtà, alla fin fine, risulta marginale nell'economia della vicenda. Pag. 11L'unico cambiamento che produsse fu quello di indurre e stimolare i socialisti a pronunciarsi apertamente in favore di una trattativa, che peraltro non ebbe luogo.
  Per quanto riguarda, invece, il comunicato n. 7 autentico del 20 aprile, lì le Brigate Rosse per la prima volta formularono un esplicito ricatto: avrebbero rilasciato Moro solamente in cambio della liberazione di prigionieri comunisti, anche se per il momento non precisarono né quanti, né quali.
  La questione, dunque, era politica e l'individuazione delle controparti nella DC e nel suo Governo ne era la riprova. Il 20 aprile cominciò, quindi, una sorta di conto alla rovescia. È importante notare che, di fatto, questo si prolungò, passando da quarantott'ore, come diceva l’ultimatum iniziale, a quasi 20 giorni.
  Questa situazione cronologica evidenza due cose. La prima è che il tempo per un'eventuale trattativa non era infinito e che ci si doveva aspettare che, se si fosse tergiversato, presto o tardi le Brigate Rosse avrebbero considerato scaduto il tempo.
  La seconda è che le Brigate Rosse avrebbero preferito incassare una contropartita piuttosto che sopprimere l'ostaggio, ed è perciò che allungarono i tempi. Dal loro punto di vista uccidere Aldo Moro era una soluzione di ripiego. Il prezzo politico da loro richiesto per rilasciare l'ostaggio era praticamente la legittimazione della lotta armata, un prezzo alto, com'era inevitabile che fosse, data l'importanza del personaggio, ma troppo alto dal punto di vista dello Stato.
  Quindi, la volontà di fare qualche cosa c'era, ma cosa ? Era oggettivamente difficilissimo, per non dire impossibile, trovare un punto d'intesa accettabile sia per le istituzioni, sia per coloro che volevano distruggerle. Nonostante questo, lo Stato mise nella sua fermezza un minimo di flessibilità, tollerando l'eventuale pagamento di un riscatto da parte del Vaticano.
  Per quanto riguarda il Presidente della Repubblica Leone, egli personalmente sarebbe stato disposto a firmare la grazia per la detenuta Besuschio, ma non poté farlo, innanzitutto perché era un personaggio screditato, che di lì a poco fu anche costretto alle dimissioni e, in secondo luogo, perché gli stessi giuristi mobilitati dal Partito Socialista puntarono sul detenuto Buonoconto. Il Presidente della Repubblica all'epoca non era in condizione di contrapporre la sua individuale volontà a quella del Governo, dei partiti e dell'opinione pubblica. Infatti, neppure ci provò.
  I verbali della direzione democristiana del 9 maggio, che iniziò e si svolse all'insaputa dell'uccisione di Moro, avvenuta la mattina stessa, attestano che nemmeno il Presidente del Senato Fanfani tentò di cambiare in extremis la posizione del suo partito. Il segretario del Partito Comunista Berlinguer dichiarò alla Commissione Moro che a lui non sembrò mai che la DC fosse sul punto di capitolare e comunque escluse categoricamente che, in tal caso, i comunisti l'avrebbero seguita, se ciò fosse accaduto.
  Il 9 maggio, insomma, i fautori della trattativa erano in netta minoranza e in alto mare e i criminali, non disposti a farsi portare alle calende greche, decisero di non attendere più. Perciò, conformemente agli orientamenti che avevano maturato dopo l'insuccesso politico del rilascio di Sossi e che avevano riaffermato nel comunicato n. 8 del 24 aprile, scelsero, purtroppo, la prima strada, quella dell'omicidio. Gli unici dissidenti furono Faranda e Morucci.
  Rivedendo, quindi, la sequenza dei comportamenti brigatisti nei 55 giorni, io direi che avere tenuto in vita il sequestrato il 16 marzo, averlo sottoposto a un grottesco processo e averlo condannato, aver posto pesantissime condizioni per la sua eventuale liberazione, aver atteso quasi tre settimane per vedere se le controparti le accettavano e, dato che questo non era avvenuto, aver ucciso Moro il 9 maggio configurano un atteggiamento criminalmente coerente da parte delle Brigate Rosse, non una strana torsione, come a volte si sente affermare.Pag. 12
  La restituzione del cadavere in via Caetani fu una dimostrazione di forza e anche uno sfregio nei confronti di DC e PCI, i due maggiori partiti italiani. Il luogo scelto – via Caetani – non fu certo scelto a seguito di ricerche araldiche sul casato e sulle pregresse relazioni parentali della nobildonna che era stata coniugata fino al 1964 con il musicista Markevic. Il musicista, morto nel 1983, non c'entra nulla con il caso Moro.
  A questo proposito, vi segnalo che persino Giovanni Fasanella, autore insieme a Giuseppe Rocca di un volume che, invece, tira in ballo Markevic, vale a dire Il misterioso intermediario, uscito nel 2003, più tardi, il 21 novembre 2007, nel blog La storia nascosta pubblicò un pezzo che recava un titolo eloquente: Markevic, il mio errore, dove la parola «mio» si riferisce a Fasanella stesso, sia ben chiaro.
  L'amarezza per la perdita di Moro non può far dimenticare che, se durante i 55 giorni gli apparati statali non riuscirono a scoprire dove le Brigate Rosse tenevano l'ostaggio né a liberarlo, più tardi, però, i brigatisti sono stati arrestati – sono rei confessi – e sono stati condannati. La stragrande maggioranza di essi ha scontato o sta finendo di scontare la sua pena.
  In altre parole, la vicenda Moro fu una battaglia dolorosamente persa nell'ambito di una guerra tra istituzioni e terroristi, che, al contrario, le istituzioni vinsero. Nel corso di una lotta pluriennale contro il terrorismo alti e bassi sono fisiologici e non vanno scambiati per una temeraria strategia di stop and go.
  Del resto, anche nel caso del tedesco Schleyer, come in quello italiano, i sequestratori furono arrestati solamente dopo la morte dell'ostaggio. In Germania, però, ciò non ha alimentato polemiche lontanamente paragonabili a quelle di casa nostra. Viene da pensare allora che queste polemiche dipendano più dall'indole degli osservatori che dai fatti osservati.
  Avviandomi alla conclusione, desidero puntualizzare che questa panoramica iniziale, per ovvie ragioni di sintesi, rappresenta solo una piccolissima parte dei miei studi sulla vicenda Moro. Vi invito a tenere presente che le complessive mille pagine e più che ho scritto da una dozzina di anni a questa parte affrontano il tema in maniera più ampia, più approfondita e con puntuali riferimenti alle fonti.
  Le vostre domande mi daranno la possibilità di sviluppare il discorso con voi nelle direzioni che volete. Sarò naturalmente disponibile a vostri interrogativi, anche a posteriori. Troverete comunque risposta nei miei scritti, prima ancora che dalla mia viva voce e dalla mia memoria.
  Infine, a prescindere dall'impegno personalmente profuso sulla vicenda, ritengo importante affermare – rivolgendomi non solo a voi, ma anche ai cittadini che seguono i lavori della Commissione – che il patrimonio di conoscenze sulla vicenda Moro formatosi nel corso di trentasette anni è enorme. Non siamo affatto fermi al punto di partenza. Il caso Moro nelle sue linee essenziali è stato ricostruito più e meglio di tante altre vicende dei cosiddetti «anni di piombo», grazie ai grossi sforzi compiuti in varie sedi, tra cui proprio la sede parlamentare.
  Le lacune sono ben poche in confronto alla quantità degli elementi noti e ormai certi e, per di più, l'esperienza insegna che, allorché si è aggiunto qualcosa di nuovo al quadro iniziale, sono sempre e comunque venuti alla luce personaggi e risultanze coerenti con quel quadro.
  Quando il numero degli assalitori di via Fani è salito da sette a dieci, si è visto che i tre da aggiungere erano anch'essi brigatisti – Casimirri, Lojacono e Algranati – e non estranei. Quando è venuto fuori il quarto carceriere di Moro, si trattava di Maccari, non di un emissario dei servizi segreti o di potenze straniere o di chissà chi.
  Lo spazio per ulteriori ricerche, a mio avviso, oggi si trova all'interno di singoli aspetti della vicenda Moro. Mi riferisco soprattutto alla questione della moto Honda, a cui accennavamo prima, che ha una valenza duplice, sia giudiziaria sia storica. L'attenzione mostrata dalla vostra Commissione per la moto Honda è, dunque, assai opportuna. Se riuscirete a chiarire Pag. 13tale questione una volta per tutte, la Commissione potrà vantare un grosso merito.
  La mia relazione introduttiva sarebbe terminata qui, senonché domenica, preparandomi per l'audizione, mi sono accorto di una cosa che credo sia opportuno segnalarvi. Nel resoconto dell'audizione del professor Clementi di un paio di settimane fa si parla di un'assemblea svoltasi in Calabria nel 2004, durante la quale un tizio avrebbe fatto il nome della persona che dopo la morte di Moro mise a disposizione un appartamento per un incontro tra Moretti e Piperno. È una delle questioni che mi poneva il presidente. Il proprietario di questo appartamento sarebbe, secondo il resoconto, una persona dal cognome straniero di assonanza araba.
  Domenica mi è capitato di rileggere un'intervista del giornalista Sabelli Fioretti a Claudio Signorile, pubblicata nel 2001, in cui si fa il nome di una persona che durante il sequestro Moro avrebbe ospitato a casa sua incontri riservati tra Lanfranco Pace e Claudio Signorile. Si tratterebbe di Jimmy Hazan, definito da Sabelli Fioretti brasseur d'affari dell'IRI.
  Ripeto, a scanso di entusiasmi prematuri, che qui stiamo parlando di incontri Pace-Signorile, non Moretti-Piperno. Tuttavia, essendo pur sempre incontri riservati, essendo stato Pace vicino a Piperno, essendo Hazan un cognome che suona arabo o quasi, io affido questa segnalazione a voi, sperando che possa esservi utile.

  PRESIDENTE. Ringraziamo Vladimiro Satta.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PAOLO CORSINI. Innanzitutto io la ringrazio di questa esposizione. Lei sa, anche perché mi è capitato di presentare i suoi studi, qual è l'apprezzamento che io nutro nei confronti delle sue ricerche. Soprattutto condivido l'impianto interpretativo complessivo, perché ritengo, sulla base di criteri di valutazione che non sono di natura giudiziaria, ma di natura storico-politica e storiografica, che la famosa tesi di Franco De Felice, nel saggio che egli pubblicò e che è all'origine della teoria del doppio Stato, abbia sostanzialmente avuto declinazioni e utilizzazioni del tutto improprie.
  Alla luce di questo, io reputo che il quadro interpretativo generale che lei offre sia, per quel che mi concerne, condivisibile. Naturalmente, avendo seguito la maggior parte delle audizioni, osservo che sono emersi alcuni aspetti che meritano un approfondimento, anche se, a mio avviso, non sono tali da mutare l'interpretazione generale di sintesi che si dà del problema politico e storico del sequestro Moro.
  In modo particolare, io ho una domanda che mi sta a cuore. Alla luce dell'audizione che abbiamo tenuto nella Sala del Mappamondo, sono emersi alcuni riscontri, che io inizialmente ho sottovalutato, in ordine alla gestione dell'esercizio pubblico all'angolo di via Fani, presso il quale – se non sbaglio – avviene l'attacco che viene portato a Moro e alla sua scorta. Soprattutto emerge la figura di un personaggio estremamente ambiguo, che ha alle spalle una biografia che suscita molti interrogativi.
  Volevo chiederle se lei ha letto il resoconto di quell'audizione, o se per la parte pubblica l'ha seguita in diretta. Qual è il giudizio che si è fatto e qual è la valutazione che dà di questi dati nuovi che sono emersi, soprattutto in relazione a quel personaggio, che, se non mi sbaglio, si chiama... Come si chiama ?

  VLADIMIRO SATTA. Io non lo so, perché ho seguito solamente la parte in seduta pubblica.

  PAOLO CORSINI. Adesso il nome mi sfugge e non ho qui con me gli appunti scritti. Comunque, si tratta del titolare conduttore di quell'esercizio pubblico.

  VLADIMIRO SATTA. Si tratta del bar Olivetti ?

Pag. 14

  PAOLO CORSINI. Sì, si tratta del bar Olivetti.

  VLADIMIRO SATTA. Era un bar tavola calda.

  PAOLO CORSINI. C’è un personaggio che, peraltro, sembrerebbe avere una copertura per il fatto di essere in rapporti con la figlia del Presidente Gronchi.

  VLADIMIRO SATTA. Olivetti era il nome del bar tavola calda che si trovava all'angolo tra via Fani e via Stresa. Io apprendo adesso il nome del proprietario o conduttore del bar. Non conosco comunque questo nominativo.

  PRESIDENTE. È Olivetti.

  VLADIMIRO SATTA. Allora Olivetti è anche il nome del conduttore. Il titolare e il bar erano omonimi. Va bene.
  Comunque sia, mi spiace, ma non sono in grado di darvi indicazioni neppure su Olivetti, perché, a parte la famosa ditta di Ivrea, non saprei proprio.

  GERO GRASSI. Io rispetto tutte le opinioni e tutti i lavori, ma le faccio notare, senza entrare nel merito, altrimenti il presidente Fioroni mi toglie la parola, che, se io avessi il tempo, potrei controdedurre le sue opinioni parola per parola. Se non ho capito male, infatti, le sue sono opinioni. Non sono suffragate da fatti. Storicamente e politicamente lei elimina una serie di fattori intorno alla vicenda Moro che non sono corollari.
  Lei ha liquidato l'esperienza P2 – faccio degli esempi – dimenticando che 39 dei 40 inizialmente e poi tutti i 40 componenti del comitato di crisi erano piduisti. Tranne per il prefetto Napolitano, che fu poi sostituito dal prefetto Pelosi, erano tutti e 40 piduisti. La relazione della Commissione P2, presieduta da Tina Anselmi, dice che all'epoca c'erano carabinieri buoni che subivano la guerra dai carabinieri cattivi e magistrati buoni che subivano la guerra da magistrati cattivi. Quindi, l'influenza della P2 non è un fatto secondario.
  Vado sempre per grandi sintesi. Lei ha estromesso, credo anche per brevità, tutto il contesto internazionale della vicenda Moro, ossia Portorico, Washington, tutta la vicenda connessa ai giornali di Pecorelli e alle minacce che Moro ha ricevuto.
  Lei ha parlato di efficienza della polizia. Guardi, il procuratore generale della Repubblica di Roma, Pietro Pascalino, disse che la polizia all'epoca – è tutto registrato – fece operazioni di parata e non di ricerca. Lo disse lui, Pietro Pascalino.
  Lei ha addirittura contraddetto l'ordinanza di Ciampoli sulla presenza di Guglielmi in via Fani. Io non voglio fare un dibattito. Ho premesso che rispetto il suo lavoro e il suo studio. Ho anche letto quello che ha scritto. Ovviamente, io sono su una tesi contrapposta a quella del senatore Corsini, de minimis non curat praetor. Al senatore Corsini mi piacerebbe chiedere che abbiamo fatto a fare la Commissione Moro, se si sapeva tutto, ma ovviamente questo è...

  PRESIDENTE. Il de minimis è il senatore Corsini ? Per chiarezza.

  GERO GRASSI. No, non sia mai ! Parlavo dell'evento. Che c'entra il senatore ? Non sia mai, assolutamente. Lungi da me pensare questo. Parlavo dell'aspetto minimale della vicenda.
  Lei ha detto – io mi auguro che lei questa cosa possa dimostrarla; io mi sforzerò di dimostrare il contrario – che le Brigate Rosse hanno fatto tutto da sole. Sì, è vero che ci sono stati altri episodi brigatisti, una serie di cose, la Stella Maris, ma il fatto che le Brigate Rosse fossero infiltrate lei non l'ha citato per niente. Che fossero infiltrate non lo dico io, l'hanno detto gli infiltrati e gli infiltratori e l'hanno detto i magistrati, senatore Corsini.

  PAOLO CORSINI. Ho letto anch'io i libri che parlano di Girotto.

Pag. 15

  GERO GRASSI. Non sto parlando di Girotto. Sto parlando dell'interrogatorio subito da Franceschini a proposito del sequestro Sossi. L'altro giorno ce l'ha detto il generale Bozzo a Genova.

  FABIO LAVAGNO. Ci ha detto tante cose il generale Bozzo a Genova !

  GERO GRASSI. Ce l'ha detto anche Bozzo a Genova.
  Io prendo con grande rispetto quello che lei ha detto, ma qui noi abbiamo necessità di prove. Io rispetto le opinioni, ne prendo atto, le utilizzerò per verificare, come un aiuto, ma noi abbiamo necessità di prove. Io mi fermo a quelle che sono opinioni.
  Nello stesso tempo – lei non lo sa, giustamente – la relazione sulla balistica e sulla dinamica di via Fani è stata presentata, ma noi dobbiamo ancora discutere su quella relazione. Quindi, bisogna andare cum grano salis nel far passare per accertate verità che sinora non lo sono.

  VLADIMIRO SATTA. Le mie non sono opinioni. La sintesi è stata fatta, ovviamente, senza citare gli estremi di volumi, di documenti e di atti giudiziari per ovvie ragioni di brevità, ma potrà trovare nei miei volumi, con le indicazioni pagina per pagina, tutti i riscontri sui quali io ho elaborato le mie convinzioni.
  Se c’è un aspetto che caratterizza il mio lavoro rispetto a quello di altri è che io elaboro le mie riflessioni sulla base dei documenti e di ciò che risulta e non al di fuori di essi o contro di essi.
  In particolare, c’è stato un mio lettore che si è preso la briga di fare quello che non avevo fatto neanche io ossia di contare quante fossero le fonti indicate all'interno del volume Odissea nel caso Moro. Sono 2.149. Le dico solamente questo.
  Vengo adesso alla prima questione che lei sollevava, ossia la presenza della P2 nel cosiddetto comitato tecnico-operativo. Dai volumi dei lavori della passata Commissione Moro abbiamo verbali di quelle riunioni che arrivano fino al 3 aprile. Da quelle riunioni risulta che parteciparono complessivamente 53 persone. C'era una grande varietà. In pochi partecipavano a tutte, solamente sei, e questo perché quel comitato tecnico-operativo, ahimè, lasciava a desiderare. Era stato costituito per essere uno strumento di raccordo, quel raccordo che era saltato con la riforma del 1977, ma la descrizione più valida e più vivida è quella fornita da Carlo Alberto Dalla Chiesa in audizione presso la Commissione Moro. Adesso non ho, purtroppo, il brano sottomano, ma parlò di un comitato ansioso e ansiogeno, di gente che andava lì e non sapeva bene che dire e non era realmente esperta di terrorismo. Tant’è che il 30 marzo ci fu una riunione nella quale questi malumori vennero fuori e il comitato cessò di essere un cuore pulsante, ove mai lo fosse stato, perché, purtroppo, non c'erano, in realtà, tracce e indicazioni utili da scambiarsi.
  Quanti erano i piduisti all'interno, non dico del comitato, ma in generale nella macchina statale, composta di 12.760 uomini mediamente, che si occupava di Aldo Moro ? Ebbene, io prendo come fonte Sergio Flamigni, uno dei più anti-piduisti che si conoscano – il libro è Convergenze parallele, alle pagine 10 e 11 – e conto l'elenco dei piduisti impiegati in questa vicenda. Flamigni ne conta 13, cui ne aggiunge poi 7 di ruolo minore nel SISMI e 3 nel SISDE. Per darvi un'idea dei 7 cui arriva, per un totale di 23, Flamigni, egli si riduce a tirare in ballo il tenente colonnello Sergio Di Donato, addetto alla gestione dei fondi, e il suo vice Mario Salacone. È evidente che queste persone sono, con tutto il rispetto individuale, di nessuna importanza ai fini della ricerca sulla vicenda Moro, a differenza del capo della Polizia o del comandante generale dei Carabinieri.
  Di queste persone, piduiste come ricordavo, alcune, in realtà, furono trovate negli elenchi nel 1981, ma si erano iscritte dopo il delitto Moro. È il caso, per esempio, del questore Elio Cioppa e di Franco Ferracuti. Ci sono persone che, invece, erano piduiste, ma non certamente messe lì dalla P2. Lo possiamo dire per Santovito, Pag. 16per Grassini, che erano i due più importanti piduisti in questa situazione, e, per esempio, per il generale Giudice.
  Il generale Santovito aveva un suo curriculum di tutto rispetto, tale che era dato anche dalla stampa comunemente come il sicuro candidato alla direzione del SISMI, e così andò.
  Il generale Grassini, come lei sa, fu una nomina di ripiego. Altri erano stati designati prima di lui, ma non accettarono. Tanto per fare un nome, c'era l'ammiraglio Martini. Alla fine si arrivò a Grassini, il quale, peraltro, aveva a sua volta un curriculum di rilievo, perché risultava essere stato un ufficiale particolarmente efficiente in Alto Adige, era un decorato della Resistenza e, quindi, sembrava anche dare affidabilità democratica piena. Alla fine fu accettata la sua nomina, come dicevo, anche le Brigate Rosse...

  GERO GRASSI. Era anche grande amico di Pazienza.

  VLADIMIRO SATTA. Non so se Grassini fosse amico di Pazienza, ma comunque a me sembra più significativo che egli avesse preso parte alla Resistenza e, ripeto, che Grassini fosse un ufficiale ritenuto valido. Oltretutto, come ho detto, non fu la prima scelta.
  Il prefetto Walter Pelosi fu nominato solamente il 5 maggio e non ebbe il tempo di fare nulla. Prima di lui c'era un galantuomo, il prefetto Napolitano. Su questo non ci sono dubbi.
  Sulle altre nomine, per esempio, il socialista Claudio Signorile, in un'intervista pubblicata nel 2001, ha rivelato che una di esse – la nomina di Raffaele Giudice a capo della Guardia di Finanza – era stata voluta dal suo partito, in accordo con il Partito Comunista. Oltretutto, la nomina di Giudice era avvenuta nel 1974, vale a dire quattro anni prima della vicenda Moro.
  Ferracuti, come dicevo, risulta iscritto alla P2 nel 1980 e viene fatto passare spesso per il propugnatore della sindrome di Stoccolma, una teoria secondo la quale non bisognava dare retta alle parole del sequestrato nelle lettere, perché questo era portato ad aderire alle posizioni dei sequestratori. In realtà, non è così. Fu un suo allievo, il criminologo Francesco Bruno, (personaggio oggi noto, ma che nel 1978 era un giovane sconosciuto) ad aver avuto quell'idea e ad averla suggerita a Ferracuti, che la fece sua. Francesco Bruno non era iscritto alla P2. Era iscritto al PCI.
  L'idea di non dare credito a ciò che scriveva Moro era un'idea essenzialmente dei comunisti e compare su l'Unità il 31 marzo. Dai verbali delle direzioni del PCI del 30 marzo risulta come Luciano Lama, con l'accordo di tutti i dirigenti del partito, disse che bisognava far capire subito alla gente che non bisognava dare retta alle lettere di Moro, qualunque cosa egli avesse scritto nelle lettere che aveva inviato il 29 marzo e addirittura in quelle future, qualunque cosa egli avesse scritto in seguito. Questa stessa posizione venne ripresa da l'Unità.
  Passando al discorso del contesto internazionale, Portorico, Washington, Stati Uniti, negli Stati Uniti c'era l'amministrazione Carter...

  GERO GRASSI. Non mi aspetto una risposta. L'ho citato per dire che io non entravo nel merito delle controdeduzioni. Tutto qui. Stia tranquillo. Altrimenti facciamo un dibattito tra di noi, che non serve, e tolgo tempo agli altri.

  VLADIMIRO SATTA. Non si preoccupi, onorevole Grassi, non l'ho presa come una questione personale, assolutamente. Ci mancherebbe. Sto cercando di rivolgermi alla Commissione e di fornire il massimo di informazione possibile in questa occasione. Per il resto, ripeto, rimando ai miei libri. Scusate, ma valgono più della mia memoria. La scrittura è stata inventata per questo, in fondo.
  Negli Stati Uniti c'era l'amministrazione del democratico Carter. Nella metà degli anni Settanta si era registrato un cambiamento all'interno dell'amministrazione americana. Dal tempo dell'amministrazione Nixon, che era interventista all'estero Pag. 17e aveva avuto, in alcuni casi, anche – diciamolo pure – la mano pesante, specialmente in America Latina, tutto questo era stato messo in discussione negli Stati Uniti. Ci furono per questo la Commissione Church e il rapporto Pike e già ancora sotto la presidenza di Ford, il quale era subentrato a Nixon, costretto a dimettersi per il Watergate, venne emanato l’Executive Order 11905 che impediva agli Stati Uniti di intromettersi con certi mezzi nelle faccende di altri Paesi.
  Questo fu addirittura un problema nel 1978, quando l'ambasciatore Gardner da Roma chiese agli Stati Uniti di cercare mandare rinforzi all'Italia e si trovarono quasi paralizzati da questo Executive Order e alla fine aggirarono l'ostacolo inviando Pieczenik.
  Dalla fine del 1976 c’è, quindi, un'amministrazione di tutt'altro segno, che è quella del democratico Carter, un predicatore battista, come veniva definito all'epoca. La situazione degli Stati Uniti era cambiata. Passando al vertice di Portorico – ammetto che in questo momento non ricordo se fosse a fine 1975 oppure a inizio 1976, e chiedo scusa di questo; verificherò...

  GERO GRASSI. È del 1976.

  VLADIMIRO SATTA. Benissimo. È comunque risalente. Si trattava del fatto che la situazione economica italiana, purtroppo, stava nettamente peggiorando e alcuni Paesi ai quali l'Italia chiedeva credito chiesero all'Italia determinate garanzie di indirizzo politico-economico. Ciò non impedì affatto poi di avere, per la prima volta nel 1976, il Governo della non sfiducia presieduto da Andreotti e nel 1978, per la prima volta, l'ingresso nella maggioranza del PCI.
  Voglio anche ricordare, comunque, che quello di cui stiamo parlando per il 16 marzo 1978 era un Governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, non la rivoluzione d'ottobre. Anche per questo non c'era una tensione o frizione tale da mettere in serio imbarazzo gli Stati Uniti.
  Per quanto riguarda la polizia, io ho parlato...

  GERO GRASSI. Non è così. Scusi, ma come fa lei a dire che non metteva in imbarazzo gli Stati Uniti, se gli Stati Uniti non avevano consentito al Presidente del Consiglio italiano di partecipare ai lavori del G7 a Portorico, dicendogli pubblicamente che lui sbagliava a far entrare i comunisti al Governo e che, se avesse continuato, gli avrebbero tagliato tutti i fondi ? Lei mi dice che così non è. Allora è chiaro che stiamo al di là delle opinioni. Io la rispetto, ma non condivido queste cose.

  VLADIMIRO SATTA. I fatti sono che i comunisti non entrarono al Governo. I fatti sono che, quando un Paese si presenta, purtroppo, con il cappello in mano, come stava facendo l'Italia in quel momento, è naturale che altri Paesi pongano delle condizioni e prima decidano tra di loro quale linea tenere nei confronti del Paese che si presenta a chiedere aiuti.
  Per quanto riguarda la faccenda dell'efficienza della polizia, io ho parlato di inefficienza della polizia. Lei ricorda, giustamente, che il Procuratore Pascalino parlò di operazioni di parata. Io aggiungo che il capo della Polizia Parlato ricordò che, però, non si poteva fare altro che basarsi sulla quantità, dal momento che non esistevano tracce qualitative valide. Non esistevano, per esempio, infiltrati. A questo arriverò più avanti.
  Quindi, queste operazioni che si definiscono di parata, se uno le vuole vedere spregiativamente, ma che andrebbero viste, secondo me, con una parola avalutativa, come operazioni quantitative, erano fatali, non avendosi delle tracce buone da sviluppare. Tant’è vero che la Commissione Moro accettò questo punto di vista e persino il presidente della Commissione stragi Pellegrino concluse che il massiccio spiegamento di forze era fisiologico e non doveva essere considerato patologico.
  La successiva osservazione mi pare fosse quella sul colonnello Guglielmi. Il colonnello Guglielmi non era in via Fani. Pag. 18Era in via Stresa. Non è la stessa cosa essere in via Stresa o essere in via Fani, a parte il fatto che neppure essere in via Fani è di per sé determinante, come abbiamo visto a proposito, per esempio, di alcuni soccorritori che si sono ritrovati incredibilmente persino messi sul banco degli imputati fino a poco tempo fa.
  Il colonnello Guglielmi era in via Stresa, come dicevo. All'origine delle sue peripezie giudiziarie ci fu una dichiarazione, come lei sa, di tale Pierluigi Ravasio, un ex militare che era stato un sottoposto di Guglielmi, il quale aveva dichiarato che Guglielmi si trovava in via Fani a dirigere tutto. Guglielmi ribatté che era andato, invece, dal colonnello D'Ambrosio in via Stresa, cosa che il colonnello D'Ambrosio ha confermato.

  GERO GRASSI. A pranzo.

  VLADIMIRO SATTA. Adesso veniamo alla faccenda del pranzo. L'oggetto del contendere, quindi, non è l'orario in cui Guglielmi si recò da D'Ambrosio, bensì se Guglielmi fosse stato inviato a pranzo o no. Il colonnello Guglielmi non era in via Fani. A differenza di me, il Procuratore Ciampoli, nell'audizione del 12 novembre scorso, ha affermato che Guglielmi era in via Fani; tuttavia, al tempo stesso, Ciampoli ha anche negato ripetutamente che Guglielmi abbia diretto l'assalto contro Moro e la sua scorta.
  Pierluigi Ravasio, l'accusatore di Guglielmi, si era rivolto a un parlamentare della Commissione stragi, l'onorevole Luigi Cipriani. Era una denuncia extragiudiziale, che l'onorevole Cipriani, molto correttamente, riassunse in una memoria, che presentò alla Commissione e all'autorità giudiziaria.
  In merito alle originarie dichiarazioni di Ravasio, vorrei evidenziare un particolare: Ravasio sosteneva che Guglielmi nel frattempo era morto. Quando Ravasio fu convocato dall'autorità giudiziaria seppe che Guglielmi non era morto e che dunque lo avrebbe smentito, e ritrattò.
  Questo significa che era qualcosa di totalmente infondato e che, ovviamente, Ravasio si rendeva ben conto della differenza che c’è tra fare delle dichiarazioni a cena, che possono sempre essere ritirate, o farle davanti all'autorità giudiziaria. Sono queste ultime che contano, è quella ritrattazione che conta.
  Per quanto riguarda poi la faccenda degli orari della presenza del colonnello Guglielmi, fermo restando che era in via Stresa e non in via Fani, io concordo con il senatore Gotor nel ritenere che sia stata un po’ lacunosa la conduzione dell'interrogatorio di Guglielmi da parte del magistrato De Ficchy.
  È vero, come dice De Ficchy, che la cosa più importante era accertarsi se Guglielmi fosse in quel momento a capo di un reparto del SISMI, e non lo era. È vero che era importante accertarsi se fosse in via Fani e non in via Stresa, mentre era in via Stresa. Tuttavia, la domanda su come egli intendesse passare quel paio d'ore o tre io, sinceramente, l'avrei fatta, per completezza e a scanso di futuri equivoci in seguito.
  Comunque il dissenso tra il colonnello D'Ambrosio e il colonnello Guglielmi rimane solamente sulla questione dell'invito a pranzo e devo dire che non capisco per quale ragione il Procuratore Ciampoli scriva che Guglielmi abbia mentito per la gola e D'Ambrosio invece abbia ragione, perché per il momento io vedo solamente la parola dell'uno contro quella dell'altro.
  Passiamo alla questione degli infiltrati nelle Brigate Rosse. Come lei sa, servizi segreti, forze di polizia e tutti i protagonisti del 1978 dissero che non ce n'erano. Si fa riferimento adesso a dichiarazioni di Franceschini relative a tale Francesco Marra. Stiamo parlando dell'epoca del sequestro Sossi del 1974. Al sequestro Sossi parteciparono, a seconda che si creda o non si creda che ci fosse anche questo Marra, 17 o 18 persone. È vero, ci sono tre brigatisti – altri due oltre a Franceschini – che dichiarano che Marra fosse infiltrato nelle Brigate Rosse, gli altri no. Ci sono altri poi che negano che Marra fosse infiltrato nelle Brigate Rosse, tra cui, per esempio, il generale Bozzo. Un altro è Taviani, che era ministro dell'interno all'epoca, Pag. 19che si informò, attraverso i suoi canali. Lo scrive nelle sue memorie, che si intitolano Politica a memoria d'uomo, pubblicate dal Mulino.
  Anche a detta di coloro che, invece, credono che Marra fosse infiltrato nelle Brigate Rosse – io sono scettico e sarei più per il no che per il sì – Marra, lo faccio notare, ne sarebbe uscito all'inizio del 1975. Il sequestro Moro avviene nel 1978, ma rilevo anche una stranezza, perché noi...

  GERO GRASSI. Marra ha perso la causa, lei lo sa ?

  VLADIMIRO SATTA. Ho portato la sentenza. Dopo, se vuole, possiamo rivedere alcuni passi della sentenza. Marra ha perso la causa nel senso che non è stato diffamato da Flamigni, ma i giudici non hanno affermato che fosse verità storica la presenza e la partecipazione di Marra al sequestro Sossi. Dopo vediamo in dettaglia la sentenza. Se vuole, le leggerò i brani salienti.
  Volevo tornare solamente al punto del momento in cui Marra sarebbe uscito dalle BR, perché la presunta – secondo me – infiltrazione di Marra viene a coincidere perfettamente, o quasi, con la reale infiltrazione di un altro, che è Girotto. Io trovo, francamente, inverosimile che nel 1974, subito dopo il sequestro Sossi, ci fossero nelle Brigate Rosse due infiltrati, uno buono e uno cattivo, Marra e Girotto, totalmente l'uno all'insaputa dell'altro.
  Per quanto riguarda poi la relazione DIGOS e la perizia balistica, certo, è una relazione di cui io, tra l'altro, ho una conoscenza parziale, perché ho potuto ascoltare solo le parti in seduta pubblica. Se quello che posso dire al riguardo è viziato da questa incompletezza, mi scuso in partenza con la Commissione e con gli interessati, ma non posso fare diversamente.
  Voglio far presente che i colpi messi a segno, andati a bersaglio, erano 45 su 91 e che, se togliamo quelli da brevissima distanza, essi scendono a 28 su 74. Questi conteggi non si basano sulla relazione illustrata a giugno 2015 dalla DIGOS, bensì sulle perizie balistiche precedenti, ossia quelle degli anni Settanta e quelle degli anni Novanta.
  Se anche volessimo accettare in toto la relazione DIGOS sulla questione della provenienza e della distanza degli spari che centrarono il povero Leonardi, caposcorta di Moro, la sostanza non cambia. Infatti, se stiamo alle perizie vecchie, il super-killer non esiste, così come, d'altra parte non esiste neppure se ci si attiene alla ricostruzione ad opera dei nuovi periti. Infatti, adottando la perizia del 2015, nove colpi che in passato si ritenevano fossero stati sparati contro il povero Leonardi da destra verso sinistra a brevissima distanza diventano colpi sparati invece da sinistra verso destra, ovvero da distanza non più brevissima. Allora, rifacendo i calcoli, se partendo da 28 su 74 noi aggiungiamo più 9 da una parte e più 9 dall'altra, i colpi andati a bersaglio da distanza non brevissima sono 37 su 83. Ancora una volta, siamo a percentuali basse.
  Per giunta, volendo accettare in tutto e per tutto la ricostruzione DIGOS del 2015, a quei 37 su 83 dobbiamo sottrarre anche un colpo di rimbalzo nonché un altro colpo che avrebbe raggiunto due persone, avendo attraversato il corpo di Ricci prima di entrare in quello di Leonardi. Pertanto, dovremmo scendere a 35 su 83 o su 81, a seconda di come la volete vedere. Nuovamente e per l'ennesima volta siamo al di fuori di percentuali che possono fare teorizzare la presenza di un cosiddetto super-killer.
  In generale, la presenza di esterni a un'operazione del genere è da ritenere altamente improbabile, non solo per le ragioni che vi ha detto il magistrato Ionta, ossia che ciò era fuori dalle caratteristiche operative delle Brigate Rosse ed era fuori dall'esperienza storica, ma anche per alcune considerazioni proprio sulla presenza di esterni in generale.
  Mi spiego. Per un gruppo terroristico contrarre un'alleanza è un'operazione a doppio taglio, che può avere dei benefici, ma ha anche dei costi, che vanno attentamente soppesati. In particolare, c’è il Pag. 20rischio naturalmente che i nuovi alleati tradiscano, il che è una possibilità, ma c’è anche l'altro rischio, assai più sottile, che ci sia qualche apparato, poliziesco, informativo, di servizi segreti, che, essendo sulle tracce degli altri, risalga casualmente anche ai loro freschi alleati.
  Per fare un esempio, se le Brigate Rosse nel 1972-73 avessero veramente ricevuto, come si dice, e come è possibile, un'offerta da parte del Mossad, questo avrebbe consentito ai servizi israeliani, attraverso di loro, di risalire ai loro giurati nemici, cioè gli arabi, perché le Brigate Rosse sarebbero entrate in relazione, fatalmente, prima o poi, con quella rete internazionale impiantata in Europa, a Parigi, da parte degli arabi, nella quale, infatti, più tardi, finirono con il ritrovarsi.
  I rischi di un'alleanza sarebbero aumentati ulteriormente, e molto, qualora l'ipotetico esterno fosse stato non solamente uno che semplicemente entra in contatto con le Brigate Rosse, ma addirittura un super-killer dotato di mitra in mezzo a dieci brigatisti rossi. La possibilità che questa persona, invece di sparare agli agenti di scorta di Moro, si venda a un qualsivoglia offerente e spari alle Brigate Rosse sarebbe stata concreta e letale per l'intera organizzazione brigatista.
  In generale, quindi, per le Brigate Rosse improvvisare un'alleanza contingente proprio per la vicenda di via Fani e solo per la vicenda di via Fani sarebbe stata un'operazione assolutamente imprevidente e io la escludo.

  PRESIDENTE. Tra quindici minuti chiudiamo e ci sono altri cinque colleghi che vogliono parlare.

  VLADIMIRO SATTA. Cercherò di essere più breve.

  PRESIDENTE. Il problema è nostro, metodologico. Si tratta di fare in modo di riuscire a trovare la forma per esprimerci tutti.

  PAOLO BOLOGNESI. Molto velocemente, nel momento in cui lei parla della solitudine delle Brigate Rosse in via Fani, le faccio una domanda molto secca: come facevano i brigatisti rossi a sapere che quel giorno Moro sarebbe passato in via Fani, quando la scorta faceva degli spostamenti e dei percorsi diversi ?
  Poi le pongo un'altra domanda che riguarda, invece, via Montalcini. Lei ha fatto velocemente tutto il discorso dell'autopsia, ma non ha risposto al fatto che abbiano trovato Moro leggermente abbronzato, la sabbia e tutte queste cose qui. Sono tutte cose che fanno pensare che quanto meno via Montalcini non fosse l'unica prigione, se non addirittura che Moro lì non ci sia mai stato.
  Ritorno un attimo su via Fani. C’è anche il sabotaggio del fioraio. Mi interessa perché questo potrebbe benissimo indicare che le Brigate Rosse sapevano da prima che Aldo Moro sarebbe passato di lì il giorno dopo e, di conseguenza, che avessero qualcuno che li aveva informati in maniera chiara di questo.
  Sul discorso balistico lascio perdere, perché tanto dobbiamo ancora incontrarci con gli esperti e vedremo cosa ci diranno.
  Debbo rilevare, presidente, che di persone che hanno scritto libri su Moro ce ne sono 200.000. Se le dobbiamo audire tutte, va a finire che noi abbiamo finito di lavorare e acquisiamo anche molti elementi dispersivi.

  PRESIDENTE. Se voi fate una piccola modifica al regolamento con cui mi consentite di decidere senza alcuna cortese interferenza, io vi garantisco che chiamo solo quelli che voglio io. Faccio, però, rilevare che la Commissione deve essere gestita in modo democratico. Questo per precisazione. Non riguarda il dottor Satta, ovviamente.

  VLADIMIRO SATTA. Cercherò di essere breve. Come facevano i brigatisti rossi a conoscere l'itinerario ? Era l'itinerario che Moro solitamente percorreva. Ci sono ben pochi itinerari per andare da via del Forte Trionfale, dove abitava, in centro e quello era l'itinerario più frequente.
  Per questo le Brigate Rosse puntarono soprattutto su tale itinerario. Puntarono Pag. 21su quello anche perché via Fani era un luogo, purtroppo, adatto a un'imboscata. Fissarono una mattina e, la notte precedente, andarono a tagliare le gomme del fioraio Spiriticchio, perché comprensibilmente non volevano avere tra i piedi un ambulante, che, oltre al suo carrettino, può avere la clientela, può avere delle macchine che si fermano intorno e via discorrendo.

  PAOLO BOLOGNESI. Erano sicuri, allora ?

  VLADIMIRO SATTA. No, non erano sicuri, però dovevano pur cominciare. Di sicuro non c’è nulla. Era altamente probabile.

  PRESIDENTE. Vi rimando a quell'informativa che ho detto prima di leggere: c’è un notevole fiorire di ipotesi di scelte precedenti e c’è anche una visura fatta al registro immobiliare ai primi di gennaio per individuare la proprietà di Spiriticchio. È indiscusso che qualcuno se ne stesse occupando già dai primi di gennaio. Questo è agli atti. Io sono molto meno documentato del dottor Satta o di voi, ma purtroppo è così.

  PAOLO BOLOGNESI. Grazie dell'informazione, ma l'informazione la passi anche al pubblicista, a quello che ha fatto i libri.

  PRESIDENTE. Faccio presente che è anche il responsabile dell'archivio storico del Senato.

  VLADIMIRO SATTA. Ringrazio dell'informazione supplementare e ne prendo atto. Il responsabile dell'archivio storico del Senato non sono io. Comunque, questa informazione non mi sembra che contrasti in nulla con quello che ho detto: per le Brigate Rosse poteva essere utile non avere Spiriticchio tra i piedi.
  La sua seconda domanda, relativa alla perizia, era quella sulla cosiddetta abbronzatura di Moro. L'abbronzatura di Moro non c’è...

  PAOLO BOLOGNESI. Ci sono anche la pulizia e il lavaggio.

  VLADIMIRO SATTA. Certamente. Per quanto riguarda la pulizia, chiunque può lavarsi con dei catini, con dell'acqua e con del sapone che gli viene fornito. Non è un particolare problema.
  Per quanto riguarda l'abbronzatura, faccio notare che nella perizia questo dato non c’è. È, invece, scritto, semmai, in un articolo de L'Espresso, intitolato Gli ultimi misteri di Moro, di Emilio Fabio Torsello, dell'8 maggio 2013.
  Attenzione, però: qui c’è un testimone che parla con L'Espresso, e che rimane anonimo. L'Espresso scrive: «E una testimonianza, come si vedrà, racconta che, quando venne ritrovato, i periti che esaminarono il cadavere videro che era “abbronzato”, tanto da restarne sorpresi. Una notazione che, però, nel verbale è assente».
  Quindi, un anonimo accusa i periti di aver omesso un'informazione rilevante. Nell'autopsia non c’è. Quando questo signore anonimo si farà avanti e proverà a dimostrare le sue accuse nei confronti di questi periti, che hanno dei nomi – Merli, Gerin e Marracino, – allora lo riprenderemo in considerazione.
  Per quanto riguarda la sabbia, ci sono, indicate dai periti coscienziosi e scrupolosi dell'epoca, sabbie di due tipi. C’è una sabbia di tipo marino e c’è una sabbia di tipo ghiaioso-fluviale, due sabbie, francamente, piuttosto diverse e piuttosto scompagnate. Già questo pone un problema ai periti.
  Cosa succede ? Per quanto riguarda la sabbia ghiaioso-fluviale, i periti hanno fatto nel 1978 la loro perizia – per così dire – al buio, senza sapere la storia dell'automobile in cui fu ritrovato Moro e di colui che ne era il proprietario. Questo signore, com’è noto, si chiamava Bartoli, ed era un asfaltista che lavorava nei cantieri dell'edilizia. I materiali ritrovati di tipo ghiaioso-fluviale sono compatibili con i residui che trasportava, vendeva e portava con quell'automobile che egli diceva di utilizzare per andare nei cantieri aperti Pag. 22qua e là per svolgere questo tipo di attività professionale.
  Per quanto riguarda, invece, la sabbia marina, ci viene detto dalle Brigate Rosse che fu uno stratagemma da loro adottato proprio per confondere le idee agli inquirenti. La sabbia marina a Roma è facile da andare a raccogliere, perché basta andare a Ostia o a Fregene. Basta poco.
  In effetti, devo dire che è uno stratagemma che ha funzionato, purtroppo, nel senso che, se ancora oggi, trentasette anni dopo, stiamo a farci queste domande e ad avere questi dubbi, effettivamente le idee ce le confonde eccome.
  La distribuzione della sabbia, peraltro, non coincideva con quella della sabbia ghiaioso-fluviale. Pertanto, i periti che si trovarono in questa situazione cercarono di fare il possibile per formulare un'ipotesi unificante su tutti gli elementi che avevano, senza sapere dello stratagemma brigatista, né di Filippo Bartoli asfaltista. Quindi, come ragionarono ? Sabbia marina, più bitume, più filamenti colorati: uguale, spiaggia inquinata. No, il problema è che il bitume e i filamenti di materiali plastici di edilizia vengono dai cantieri, mentre la sabbia marina viene da un prelievo. Questo, però, loro non lo potevano sapere.

  PRESIDENTE. Onorevole Lavagno, conto sulla sintesi.

  FABIO LAVAGNO. La sintesi sarà estrema, a questo punto, presidente. Salto tutta una parte che mi interessava...

  PRESIDENTE. Essendo responsabile dell'apertura di questi filoni, quindi, espia.

  FABIO LAVAGNO. Espio. Salto tutta una parte sulle BR che mi interessava. Magari le mando una nota scritta. Mi concentro su due personaggi, a questo punto. In realtà erano tre, ma su uno ha già ampiamente risposto.
  All'inizio della relazione mi pare che lei dicesse, incidentalmente, che escludeva la presenza di Guglielmi e di Fissore. Vorrei capire sulla base di quali elementi. Così come ci ha detto di Guglielmi, è giusto sapere qual è la sua opinione.
  Invece, sul ritrovamento in via Caetani vorrei sapere cosa pensa alle recenti – di qualche anno fa – dichiarazioni dell'ex artificiere Raso, che hanno destato un certo interesse.

  VLADIMIRO SATTA. Per quanto riguarda Fissore, rilevo che questo signore diventa oggetto di un'inchiesta a seguito di una lettera anonima che arriva nel 2010, scritta da un sedicenne moribondo, nella quale si narra di lui sulla motocicletta Honda. È una storia che somiglia tanto all'invenzione drammaturgica posta all'inizio del film Piazza Cinque Lune di Renzo Martinelli di pochi anni prima, una somiglianza che fa, francamente, pensare.
  Dopodiché, si sviluppano ricerche nei confronti di Fissore, che non risulta mai essere stato coinvolto con i servizi segreti, né con le Brigate Rosse. Il Procuratore Ciampoli fa ulteriori ricerche in questo senso.
  Dimenticavo di dire che, secondo l'intervista di Paolo Cucchiarelli all'ispettore Rossi pubblicata dall'ANSA il 23 marzo 2014, una «voce amica» avrebbe riferito a Rossi stesso che le due pistole possedute da Fissore, regolarmente denunciate, erano andate distrutte. Quest'ultima informazione, però, si è rivelata falsa.
  Ritengo siano state svolte opportune le ricerche del Procuratore Ciampoli in relazione ai voli tra Roma e il Piemonte, dove Fissore abitava.
  Se immaginiamo che Fissore sia partito il 16 marzo stesso con un aereo ultraleggero, non avendo preso un volo di linea, non essendo registrato, dovrebbe essere partito alle 5 del mattino dal Piemonte, essere atterrato su un campo di patate, perché in un aeroporto l'avrebbero registrato, essere corso in via Fani, essere salito sulla moto, aver eseguito l'azione criminosa, essere ritornato nuovamente sull'aereo ultraleggero e atterrato nuovamente in Piemonte.

  ENRICO BUEMI. Il percorso è Cuneo-Varese.

Pag. 23

  VLADIMIRO SATTA. Il percorso Cuneo-Varese è quello che viene fatto...

  GERO GRASSI. All'epoca non si registravano i nomi.

  VLADIMIRO SATTA. Il Procuratore Ciampoli dice di aver fatto queste ricerche. Io non so. Lo dica al Procuratore Ciampoli, perché dice di aver fatto ricerche in questo senso.

  ENRICO BUEMI. Il libretto di volo parla di Cuneo-Varese.

  VLADIMIRO SATTA. Vengo a questo. Il Cuneo-Varese è un volo che parte...

  PRESIDENTE. Lei sostiene che sia venuto in moto da Varese.

  ENRICO BUEMI. Ufficialmente non è venuto a Roma, poi bisogna vedere com’è.

  VLADIMIRO SATTA. Se mi permette, Cuneo-Varese è il percorso di un volo effettuato con un aereo ultraleggero, decollato intorno alle 13. Questo volo di andata e ritorno tra Cuneo e Varese nella giornata del 16 marzo 1978 Fissore l'avrebbe eseguito in compagnia di un istruttore, perché era un allievo.
  Calcolando le distanze in miglia – lo si fa su Internet – tra Cuneo e Varese da una parte e Cuneo e Roma dall'altra, si capisce quanto sia difficile che una persona alla guida di una moto a Roma alle 9 del mattino potesse poi trovarsi verso le 13 all'aeroporto di Cuneo.
  Quindi, se la sua opinione è che questo signor Fissore a Roma non ci è mai venuto, io la condivido pienamente.

  ENRICO BUEMI. La mia opinione potrebbe essere che il libretto di volo possa essere stato falsificato.

  VLADIMIRO SATTA. Io non ho ragioni per pensare che il libretto sia stato falsificato, francamente. Fino a prova contraria il libretto è vero.
  Aggiungo anche una cosa. Per guidare una motocicletta, perché questo avrebbe fatto Fissore, ossia, avrebbe guidato una moto Honda senza neanche sparare o, al massimo, sparando al parabrezza dell'ingegner Marini, c'era bisogno di chiamare uno dal Piemonte, per poi farlo fuggire in maniera rocambolesca verso Cuneo e poi a Varese ?
  Viene, paradossalmente, da dire che l'agguato di via Fani sarebbe stata la parte più tranquilla della rocambolesca giornata di Fissore, se questo fosse vero. Si tratta però di un assoluto paradosso, un'assurdità. Non possiamo arrivare a questo.
  Inoltre, mi preme segnalare che nell'intervista fatta da Cuchiarelli a Rossi nel 2014, Cucchiarelli, pur essendo un esperto della vicenda Moro, si dimentica di questo precedente del film, ma in compenso fa un'altra domanda importante e valida: se l'inchiesta è finita nel 2012, perché Rossi rivela queste cose solamente nel 2014 ? Rossi risponde: «Per il rispetto che si deve ai morti». Allora, io mi domando: i morti diventano degni di rispetto solamente nel 2014 ? Nel 2013 e 2012 non lo erano ?

  FABIO LAVAGNO. Scusi, su Raso mi risponde per iscritto ?

  VLADIMIRO SATTA. Scusi, avevo dimenticato Raso. Ha ragione, lo farò.(*)

  FABIO LAVAGNO. Mi può inviare la risposta per iscritto.

  PRESIDENTE. Magari le manda un appunto, così chiudiamo almeno con Carra, perché alla Camera dei deputati c’è un'informativa urgente del Governo sugli sviluppi della situazione del debito della Grecia.

(*) La risposta del dottor Vladimiro Satta al quesito del deputato Fabio Lavagno è pervenuta il 7 settembre 2015 ed è stata acquisita agli atti della Commissione.

Pag. 24

  MARCO CARRA. Giustamente il presidente ci richiama sempre sia alla sintesi sia alla necessità di porre delle domande secche, perché è così che, io credo, si gestisce una Commissione di questa natura.
  Tuttavia, io non ho particolari domande da porgere. Ci tengo, però, che restino a verbale alcune mie considerazioni, che in buona parte si sovrappongono a quelle di Gero Grassi. Non credo che possano passare come l'acqua sul pavimento alcune cose dette dal nostro audito.
  A me pare che dopo quest'audizione, dopo quella di Clementi e, per taluni aspetti, anche dopo alcuni frammenti che ci ha riportato la polizia scientifica qualche tempo fa, si concretizzi – è stato citato Sergio Flamigni; il suo ultimo sforzo letterario è Patto di omertà – la rappresentazione di quel patto, ossia teorie negazioniste e considerazioni per cui sapevamo già tutto.
  Da questo punto di vista, evidentemente, il nostro presidente, che è stato il primo firmatario della proposta di legge per l'istituzione della Commissione, e noi tutti, che l'abbiamo sottoscritta e in buona parte votata, eravamo e siamo probabilmente degli allucinati che continuano a vedere chissà quali...

  PRESIDENTE. Onorevole Carra, per tranquillizzarla, le dico che io non mi sento preoccupato di questo. Sono preoccupato di quando faremo la relazione finale perché dovranno scrivere un'altra decina di libri.

  MARCO CARRA. Mi pare che comunque ci sia un pregiudizio di fondo nelle considerazioni che sono state qui riportate dal dottor Satta. Non c’è dubbio che si faccia riferimento a della documentazione. La documentazione è quella che, per molti aspetti – non lo dico a caso, perché lei è stato documentarista; ha lavorato per il Senato, se non erro...

  VLADIMIRO SATTA. Lavoro tuttora per il Servizio studi.

  MARCO CARRA. Perfetto. Per molti aspetti, quindi – ripeto, non a caso – la documentazione in suo possesso era, lo ribadisco, in possesso anche di altri storici e studiosi. Si tratta proprio di un approccio che, come diceva Gero Grassi, è negazionista, perché qui si mette in discussione addirittura il ruolo della P2. La P2 è stata trattata come se fosse l'associazione della mia parrocchia.
  Si mette in discussione il contesto internazionale e lo stesso disegno politico di cui Moro, insieme ad altri, era portatore. D'altronde, dice il professor Satta che era un monocolore democristiano, per cui i comunisti... Ha negato un pezzo della storia nazionale. Non si parla del ruolo di Moretti, non si parla del fatto che la pubblicazione...
  Il contesto internazionale viene recuperato nel memoriale. A me pare che qui, in qualche modo, ci sia stata, lo ribadisco, come ci ricorda bene Flamigni, la rappresentazione del memoriale Morucci: le Brigate Rosse fanno tutto da sole, sono un percorso criminale coerente. Questo nessuno l'ha mai messo in discussione. Semmai, si tratta di individuare, e questa Commissione ce la sta mettendo tutta, possibili legami e collegamenti.
  Da ultimo, mi sia consentito, c’è il ruolo della Santa Sede. Che debba essere un comunista come me a difendere il ruolo della Santa Sede... Il ruolo della Santa Sede è stato importante. Ha cercato effettivamente, come ci è stato riportato anche da don Mennini, di portare avanti un negoziato, una trattativa, chiamatela come volete. Mi pare, se la memoria non m'inganna, e in questo caso potrebbe ingannarmi, che lei stesso, nel suo libro, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, faccia un riferimento a monsignor Fabbri, al fantomatico signor X, alle fotografie che questo signor X, brigatista, avrebbe consegnato.

  VLADIMIRO SATTA. Sedicente brigatista.

  MARCO CARRA. Lei stesso, in un qualche modo, secondo me, certifica nel suo volume che l'approccio non è stato da dilettanti allo sbaraglio.Pag. 25
  Io credo che la Commissione abbia un senso e che debba continuare il lavoro prezioso che sta facendo. Ripeto, mi pare che ci sia una rappresentazione qui di un disegno altro, che è in contrasto con il lavoro che questa Commissione sta svolgendo. Questo non è un problema, può anche non essere tale.
  Mi limito solamente a precisare un'altra cosa che il dottor Satta ha detto. Posto che c’è da ragionare e che quelle sono teorie che ci sono state specificate qui, ma che non sono state assunte dalla Commissione, su quello che è accaduto in via Fani – mi riferisco al fatto che si sia sparato da destra e da sinistra; quello che ci è stato riportato è agli atti, ma sarà poi la Commissione a fare il lavoro che le spetterà – la polizia scientifica non ci dice che non ci fossero tiratori scelti. La polizia scientifica ci ha detto che sicuramente il tiratore scelto, rispetto ai luoghi comuni, non era quello che ha sparato il maggior numero di proiettili, perché delle svariate decine molti hanno cercato di colpire piccioni. I tiratori scelti erano quelli che hanno ammazzato i due uomini della scorta sull'auto di Moro, perché sono riusciti ad ammazzare i due uomini della scorta senza sfiorare il Presidente Moro. Questo significa essere dei cecchini preparati: avere sangue freddo e preparazione.
  Questo per dire che molte delle tesi che lei qui ci ha riportato... Mi sia consentito e chiedo scusa anche per i toni, per questo simil-sfogo, ma mi pare, francamente, che alcune inesattezze andassero corrette.

  FABIO LAVAGNO. Posso intervenire prima della risposta, in termini politici, rispetto a quanto detto dall'onorevole Carra ? Io credo che non esista per partecipare ai lavori di questa Commissione un dogma o un credo rispetto al fatto che si debba credere a teorie cospirazioniste di un tipo piuttosto che a teoria come quelle che sono state riportate nella relazione di oggi. Io questo tema lo pongo a lei, presidente, come natura e oggetto politico. Rispetto, ovviamente, la posizione dell'onorevole Carra, ma credo che per il buon andamento della Commissione, la Commissione debba lavorare anche nel rispetto delle opinioni dei commissari.

  PRESIDENTE. Questo mi sembra evidente.

  FABIO LAVAGNO. Risulta pleonastico, ma l'intervento dell'onorevole Carra meritava questo punto politico.

  PRESIDENTE. L'onorevole Carra e qualche altro collega, difformemente da un'altra parte significativa della Commissione, esprimono un'opinione diversa. Io faccio una sintesi, che è quella di non avere alcun pregiudizio nel sentire né l'una, né l'altra parte. Andiamo avanti da questo. L'onorevole Carra prende un po’ di camomilla la prossima volta e ascolta quelli che noi audiremo. L'onorevole Grassi l'ha già fatto, dimostrando oggi molta più tranquillità rispetto ad altre volte.
  Prego, dottor Satta.

  VLADIMIRO SATTA. Cercherò di essere telegrafico. «Patto di omertà», scrive Flamigni, con riferimento al memoriale di Morucci. Morucci e Faranda cominciano a uscire dal mutismo nel 1984. Il memoriale è del 1985. La ricostruzione del sequestro Moro si è già consolidata nel 1983. È nel 1983 che noi abbiamo la sentenza giudiziaria ed è nel 1983 che abbiamo la relazione di maggioranza dei vostri predecessori della prima Commissione Moro.
  Dunque la ricostruzione della vicenda Moro contestata da Flamigni è nata prima del presunto patto di omertà. Se ci riferiamo poi alla legislazione e alle sue applicazioni, vediamo, in primo luogo, che i terroristi non hanno avuto favoritismi, in secondo luogo che non c’è stata quell'amnistia che Pecorelli aveva preconizzato, in terzo luogo che le principali normative in favore di chi collabora con la giustizia sono anteriori all'atteggiamento collaborativo di Morucci e di Faranda, perché la legge sui pentiti è del 1982 e contiene già i suoi prodromi, nel decreto-legge...

  MARCO CARRA. Morucci e Faranda non sono pentiti.

Pag. 26

  VLADIMIRO SATTA. Appunto, non sono pentiti e, quindi, non essendo pentiti, non devono fornire contributi all'autorità giudiziaria. Semmai quel discorso riguarda i dissociati, non i pentiti. Invece, coloro che danno una certa versione all'autorità giudiziaria e ne ricevono in cambio benefici, per i quali astrattamente si può ipotizzare anche qualche forma di baratto, sono appunto i pentiti, per i quali, ripeto, la legge è del 1982 e i prodromi si trovano già nel decreto-legge n. 625 del 15 dicembre 1979, divenuto legge nel febbraio 1980.
  Se poi qualcuno vuole andare a vedere anche la genesi della legge sui dissociati, io mi permetto di fornire un paio di consigli di lettura: Monica Galfré, La guerra è finita, Laterza 2014, e Cento Bull e Cooke, Ending Terrorism in Italy, uscito in Gran Bretagna, che ripercorre la storia e mostra come questa non sia affatto opera di un solo partito, la Democrazia Cristiana. Perché mai poi solamente la Democrazia Cristiana ? Fu approvata dal Parlamento con un'ampia maggioranza.
  Negazionismo ? Io mi domando chi sia il negazionista. Nel 1983 noi abbiamo una sentenza giudiziaria, che poi è stata confermata nei successivi gradi di giudizio, che dà una versione secondo cui le Brigate Rosse hanno agito in piena autonomia. Questa è sostanzialmente la tesi anche della maggioranza della Commissione Moro.
  Su questa tesi, io sono sostanzialmente d'accordo. Sono altri quelli che la negano. Semmai, i negazionisti sono loro. Se la parola «negazionista» ha un senso, significa criticare per principio delle verità ufficiali.
  Per quanto riguarda la Santa Sede, sono stato io stesso che ho avuto la fortuna di contattare per primo monsignor Fabbri e di raccogliere la sua testimonianza. Io sono estremamente convinto che la Santa Sede abbia fatto in buona fede quello che poteva. Ha fatto il possibile. Purtroppo, era incappata in un imbroglione. Le attese del Vaticano andarono deluse perché l'imbroglione si è dileguato.

  PRESIDENTE. Bene. Sul filo del rasoio noi ringraziamo il dottor Satta per questa vivace audizione e ci aggiorniamo alla settimana prossima, martedì alle 14.15 e mercoledì alle 20.30 o alle 21, con precedente Ufficio di presidenza.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.