XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 13 di Martedì 2 dicembre 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Audizione del Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo, onorevole Dario Franceschini:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 
Franceschini Dario (PD) , Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Franceschini Dario (PD) , Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 

Audizione del senatore Sergio Flamigni:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Flamigni Sergio  ... 7 
Moroni Ilaria , direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni ... 8 
Flamigni Sergio  ... 10 
Moroni Ilaria , direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni ... 12 
Flamigni Sergio  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 
Moroni Ilaria , direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni ... 16 
Flamigni Sergio  ... 18 
Moroni Ilaria , direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni ... 18 
Flamigni Sergio  ... 19 
Moroni Ilaria , Direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni ... 20 
Flamigni Sergio  ... 23 
Moroni Ilaria , direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Palese Rocco (FI-PdL)  ... 28 
Flamigni Sergio  ... 28 
Piepoli Gaetano (PI)  ... 30 
Flamigni Sergio  ... 31 
Piepoli Gaetano (PI)  ... 31 
Flamigni Sergio  ... 31 
Piepoli Gaetano (PI)  ... 32 
Flamigni Sergio  ... 32 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 32 
Grassi Gero (PD)  ... 32 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 32 
Corsini Paolo  ... 32 
Flamigni Sergio  ... 33 
Corsini Paolo  ... 33 
Flamigni Sergio  ... 33 
Carra Marco (PD)  ... 34 
Flamigni Sergio  ... 34 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 36 

ALLEGATO 1: Relazione del senatore Sergio Flamigni ... 37 

ALLEGATO 2: Risposte del senatore Sergio Flamigni ai quesiti formulati per iscritto da componenti della Commissione successivamente all'audizione ... 73

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 13.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione del Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo, onorevole Dario Franceschini.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo, onorevole Dario Franceschini, che ringraziamo per la cortese disponibilità.
  Il Ministro è assistito dalla dottoressa Rossana Rummo, direttore generale biblioteche e archivi, e dal consigliere Daniele Ravenna, direttore generale per i rapporti con il Parlamento.
  L'audizione del Ministro si inserisce nell'ambito delle audizioni di rappresentanti del Governo che la Commissione sta svolgendo. Abbiamo già ascoltato lo scorso 29 ottobre il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, senatore Marco Minniti, autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, e lo scorso 19 novembre il Ministro dell'interno, onorevole Angelino Alfano. Domani è prevista l'audizione del Ministro della difesa, senatrice Roberta Pinotti, e in seguito procederemo anche alle audizioni del Ministro della giustizia, del Ministro degli affari esteri e del Ministro dell'economia e delle finanze o di un viceministro da lui designato.
  Tali audizioni hanno l'obiettivo di consentirci di acquisire elementi di informazione sulla documentazione concernente il caso Moro che non sia già stata acquisita dalle Commissioni parlamentari di inchiesta che in precedenti legislature si sono occupate della vicenda.
  In particolare, la Commissione è interessata a conoscere elementi di dettaglio sulla documentazione versata all'Archivio centrale dello Stato in attuazione della cosiddetta «direttiva Prodi», la lettera dell'8 aprile 2008 con la quale l'allora Presidente del Consiglio, Romano Prodi, comunicava al Ministro dell'interno Amato di ritenere «che, nel caso del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro, si possa comunque dar luogo alla declassifica degli atti classificati».
  Nel corso dell'audizione del 29 ottobre scorso, il Sottosegretario Minniti ha chiarito che tale «direttiva» aveva una duplice portata: per quanto riguardava gli organismi di intelligence essa ha comportato l'immediata declassifica di tutta la documentazione relativa al caso Moro, mentre per le altre amministrazioni rivolgeva un autorevole invito a procedere in tal senso.
  Occorre, pertanto, verificare se e in che misura tale invito sia stato effettivamente accolto, quali amministrazioni abbiano già completato il versamento della documentazione all'Archivio centrale dello Stato, quali invece stiano tuttora procedendo e di quale entità e natura siano i documenti versati.
  Il Ministro Alfano ci ha illustrato, nel corso della sua audizione dello scorso 19 novembre, lo stato di attuazione della «direttiva Prodi» riguardante il Ministero dell'interno, comunicando che il versamento all'Archivio centrale dello Stato è iniziato nel novembre del 2011 ed è ormai Pag. 4quasi concluso. Per le rimanenti amministrazioni interessate, acquisiremo notizie dai Ministri competenti nel corso delle rispettive audizioni.
  Ricordo, come ho già fatto lo scorso 19 novembre introducendo l'audizione del Ministro dell'interno, che questa Commissione, con una mia lettera del 30 ottobre scorso, ha chiesto al Presidente del Consiglio di estendere anche alla documentazione relativa al caso Moro il medesimo regime di generale ed immediata declassifica previsto dalla direttiva adottata dal Presidente Renzi lo scorso 22 aprile, eventualmente prevedendo forme di coordinamento dei relativi adempimenti attuativi. Un simile atto consentirebbe di favorire il più sollecito completamento delle operazioni di versamento all'Archivio centrale dello Stato.
  Credo che il Ministro Franceschini non avrebbe mai immaginato di venire a riferire nell'ambito dell'inchiesta su Moro, ma, come gli abbiamo spiegato, non abbiamo potuto togliergli questa incombenza, tenuto conto che l'Archivio di Stato costituisce un punto di riferimento essenziale per il nostro lavoro di ricerca documentale.
  Il Ministro ha preparato una relazione, della quale gli chiedo di fare una breve sintesi, poiché è molto lunga. Ci possiamo limitare all'inquadramento generale – poi acquisiremo la relazione e faremo i confronti – così possiamo liberarlo rapidamente e prepararci per l'audizione del senatore Flamigni, che sarà ben più lunga.
  Do la parola al Ministro Franceschini.

  DARIO FRANCESCHINI, Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo. Lascerò poi il testo di una relazione dettagliata sui diversi versamenti che ci sono stati e sulla situazione nel complesso. Adesso la riassumo brevemente, anche perché alcune parti sono di elencazione di versamenti presso l'Archivio centrale dello Stato.
  Come è stato ricordato anche in altre audizioni, nel 2008, in occasione del trentesimo anniversario del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro, il Ministero dell'interno aveva proposto di rendere accessibile agli studiosi e alla ricerca tutta la documentazione. Su quelle carte gravava non il segreto di Stato, ma una classifica di segretezza che ne consentiva l'accesso soltanto alla magistratura e alla Commissione stragi. Per questo, per metterla a disposizione di tutti i cittadini, si sono avviate le procedure che hanno portato alla nota «direttiva Prodi» dell'8 aprile 2008. Dal 23 febbraio 2011 si sono succeduti vari versamenti che hanno portato l'Archivio centrale dello Stato – di cui in questo caso parliamo – ad acquisire una serie di fondi archivistici, dove si trova attualmente la documentazione relativa al caso Moro.
  Nel testo troverete un elenco dei vari versamenti della Presidenza del Consiglio, del Ministero dell'interno, del Ministero della difesa, del Ministero degli affari esteri, di archivi di personalità della politica e dell'amministrazione.
  La «direttiva Prodi» si inseriva nel quadro del Codice dei beni culturali, il quale dispone che «gli organi giudiziari e amministrativi dello Stato versano all'Archivio centrale dello Stato e agli Archivi di Stato i documenti relativi agli affari esauriti da oltre trent'anni». Questa è la norma di carattere generale, all'interno della quale la «direttiva Prodi» ha previsto una deroga per la documentazione del Comando generale dell'Arma dei carabinieri, che sarebbe stato regolato da norme diverse, e ha previsto che anche gli archivi provenienti da Difesa, Esercito, Marina, Aeronautica, Comando generale dell'Arma dei carabinieri fossero soggetti all'obbligo di versamento degli atti agli Archivi di Stato.
  Il quadro al momento è questo e riguarda, in particolare, quello che potrebbe avvenire su una parte che non è oggetto di questa Commissione d'inchiesta, ma dell'applicazione della direttiva del Governo Renzi sugli archivi riguardo alle altre stragi.
  La nostra normativa oggi prevede che una serie di documenti siano versati all'Archivio centrale dello Stato e che una serie di documenti che fanno riferimento Pag. 5agli uffici periferici vengano versati presso gli Archivi di Stato delle diverse province, quindi c’è una competenza territoriale. È questa la distinzione che spiega perché altre carte che concernono il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro – che non sono quelle dell'elenco che ho omesso di leggere ma che troverete nel testo – sono state versate presso l'Archivio di Stato di Roma, che è cosa diversa dall'Archivio centrale dello Stato.
  Ai sensi dell'articolo 41, comma 2, del decreto legislativo n. 42 del 2004, è stata versata anticipatamente all'Archivio di Stato di Roma (quindi uno dei 101 Archivi di Stato) la documentazione che è stata prodotta dal 1972 al 1990 dalla Corte d'assise di Roma, nell'ambito della quale sono presenti tutti i procedimenti giudiziari relativi al sequestro Moro.
  Tale versamento è in continuità con quelli già effettuati dall'Unità in poi dai tribunali di Roma, quali organi periferici dell'amministrazione giudiziaria, presso l'Archivio di Stato di Roma, che è competente per territorio.
  Vi è l'impossibilità di trovare un luogo fisico in cui recepire queste carte. Come sapete, la situazione degli Archivi di Stato è molto complicata perché non ci sono spazi sufficienti per ricevere tutti i versamenti dovuti in base alla legge. Gli Archivi di Stato si pongono in controtendenza rispetto alle politiche della spending review per il fatto che abbiamo affitti per circa 20 milioni di euro. Stiamo cercando di gestire un piano che consenta di risparmiare in termini di affitti e di avere dal Demanio, in particolare dalla Difesa, immobili che consentano di dare un assetto definitivo al sistema degli Archivi di Stato, che è in espansione continua, quindi richiede spazi crescenti.
  In questo caso, le carte relative alla competenza dell'Archivio di Stato di Roma, quindi quelle che provengono da procedimenti giudiziari, sono dovute restare alla sede della Corte d'sssise, in via del Casale di San Basilio, ad eccezione delle lettere scritte da Aldo Moro durante il suo sequestro, per le quali si rendeva necessario un intervento di restauro. Tale intervento è stato effettuato nel 2011 dall'Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario. Le lettere, costituite da 51 fogli, sono state versate dopo il restauro all'Archivio di Stato di Roma e pubblicate in fac-simile in questa bella pubblicazione, che riporta le lettere – in fotocopia le avrete viste sicuramente – nel testo manoscritto. Ne consegniamo una copia alla Commissione.
  Per quanto riguarda l'altra documentazione, è stato fatto un accordo per il versamento anticipato che è stato sottoscritto il 9 maggio 2011 e si sta procedendo, sotto il coordinamento dell'Archivio di Stato di Roma, al lavoro di riordinamento e inventariazione delle carte relative ai diversi procedimenti per il sequestro Moro nella stessa sede della Corte d'assise di Roma. Il lavoro è stato finanziato dalla Direzione generale per gli archivi, nell'ambito di una convenzione tra quest'ultima, l'Archivio di Stato di Roma e il Centro di documentazione Archivio Flamigni, siglata il 30 novembre 2011, con un atto aggiuntivo del 17 dicembre 2013.
  Una volta effettuata la ricostruzione dell'organizzazione delle carte e l'elaborazione di un primo livello di descrizione, si avvierà una campagna di digitalizzazione che consenta la corretta fruizione dei documenti nel contesto archivistico in cui si sono formati.
  Ripeto, se non mi sono spiegato, che queste carte, per ragioni di spazio, pur essendo sotto la sovranità e la competenza dell'Archivio di Stato di Roma, sono tuttora presso la sede della Corte d'assise.
  Il 9 luglio 2013, infine, la Procura della Repubblica di Roma ha versato all'Archivio di Stato di Roma la documentazione recuperata nel 1990 a via Monte Nevoso, comprendente le riproduzioni originali del memoriale e altri scritti di Moro, per un totale complessivo di 421 fogli, a cui si aggiunge il materiale relativo all'indagine sulle carte sequestrate. Tale documentazione sarà oggetto di uno studio critico da parte di un gruppo di lavoro coordinato dall'Archivio di Stato di Roma, nonché di un intervento di analisi fisica, restauro e Pag. 6ricondizionamento sotto la supervisione di un comitato tecnico-scientifico che prevede il coinvolgimento del direttore generale per gli archivi e quello dell'Istituto centrale per la conservazione del patrimonio archivistico e librario.
  Facciamo presente che la Direzione generale per gli archivi ha realizzato, sempre in collaborazione con il Centro di documentazione Archivio Flamigni, un portale che si chiama «Rete degli archivi per non dimenticare», inaugurato il 9 maggio 2011 al Quirinale, alla presenza del Capo dello Stato, che rende disponibile on line a un ampio pubblico la documentazione relativa al terrorismo e alla criminalità organizzata – conservata non solo presso gli Archivi di Stato, ma anche presso altri soggetti pubblici e privati, associazioni, centri di documentazione, istituti culturali – per consentire trasparenza e anche approccio diretto ai documenti che consentono di scrivere la storia dell'Italia repubblicana.
  Infine, faccio presente che, in seguito alla direttiva del Presidente del Consiglio Renzi del 22 aprile 2014, la Direzione generale per gli archivi ha provveduto a istituire una commissione composta dal direttore generale per gli archivi, dal sovrintendente dell'Archivio centrale dello Stato, dal direttore dell'Archivio di Stato di Roma e da rappresentanti dell'Unione dei familiari delle vittime per stragi e dello stesso Centro Flamigni, che ha il compito di garantire la trasparenza e il monitoraggio delle informazioni relative al materiale documentario riguardante le stragi avvenute nell'ultimo trentennio versato dalle amministrazioni produttrici all'Archivio centrale dello Stato e agli Archivi di Stato.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il Ministro Franceschini, che ci consegna la lunga relazione che ci farà da bussola nel percorso del rinvenimento delle carte, anche di quelle ancora giacenti presso i ministeri.
  Colgo anche l'occasione per ringraziare la dottoressa Rummo e il consigliere Ravenna che hanno accompagnato il ministro.

  DARIO FRANCESCHINI, Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo. Le chiedo scusa, presidente. La vicenda delle carte relative al caso Moro dimostra un'importanza sottovalutata degli archivi. Il settore degli archivi in Italia è in grande sofferenza, come tutti i settori, in questa fase, per ragioni di bilancio, ma anche per ragioni di età media dei dirigenti degli archivi. Poiché mi pare che l'età media sia di 58-59 anni, senza turn over gran parte degli archivi non avranno più persone in grado di dirigerli nel giro di tre o quattro anni.
  C’è un problema anche di spazi che stiamo cercando di affrontare e risolvere, perché gli archivi sono un corpo vivo, che cresce continuamente, e noi rischiamo di non consentire l'accesso e di tenerli sparsi su più sedi perché non ci sono gli spazi fisici e le risorse adeguate.

  PRESIDENTE. Questo sarà un problema anche per noi, che anzi cogliamo l'occasione per chiedere al Ministro un intervento. Abbiamo avviato una pratica per poter avere, due giorni a settimana, un archivista che possa collaborare con la Commissione La pratica è stata avviata e se riusciremo a concluderla ci consentirà di poter operare.
  Ringraziamo il Ministro Franceschini.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 13.20, riprende alle 13.40.

Audizione del senatore Sergio Flamigni.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del senatore Sergio Flamigni, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire oggi in Commissione.
  Il senatore Flamigni, come è noto, è stato autorevole ed attivo componente Pag. 7della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, istituita nel corso dell'VIII legislatura. La Commissione, presieduta dapprima dall'onorevole Biasini, poi dal senatore Schietroma e infine dal senatore Valiante, è stata la prima ad occuparsi del caso Moro a livello parlamentare. Attraverso la sua attività e la cospicua documentazione da essa raccolta ha fornito un importante contributo alla ricostruzione e all'analisi del caso Moro.
  Il senatore Flamigni è inoltre presidente dell'associazione Centro di documentazione Archivio Flamigni, una ONLUS costituita nel 2005 con lo scopo di catalogare, inventariare e rendere disponibile la vasta documentazione acquisita e conservata dal senatore in oltre sessant'anni di lavoro politico, attività parlamentare e ricerca storica, in particolare con riferimento alle inchieste sul terrorismo, sul caso Moro e sulla P2.
  Infine, non c’è bisogno di ricordare che il senatore Flamigni è autore di numerosi saggi dedicati a Moro, alcuni dei quali possono ritenersi veri e propri classici e preziosi punti di riferimento per chi si accosta alla materia. In essi sono lucidamente analizzati molti dei profili del caso Moro che ancora oggi, ad oltre trentasei anni dalla strage di via Fani, rimangono oggetto di controversia: l'esatta dinamica dell'agguato; il luogo di effettiva detenzione dell'ostaggio; le anomalie del ritrovamento dei covi di via Gradoli e di via Monte Nevoso; il ruolo svolto da appartenenti alla loggia massonica P2 e dai servizi di intelligence nazionale e stranieri.
  Sono quindi, evidentemente, molteplici gli aspetti sui quali l'audizione del senatore Flamigni potrà fornirci utili spunti di riflessione, non solo con riferimento ai filoni di indagine che sono stati già approfonditi dalla precedente Commissione parlamentare d'inchiesta, di cui abbiamo ampia documentazione, ma anche e soprattutto con riferimento – ed è questo che ci aspettiamo dal senatore Flamigni – a ulteriori filoni ancora da esplorare. Dando per scontato il bagaglio di conoscenze e di acquisizioni che sono note, abbiamo l'opportunità di sentire dalla sua voce quali erano i filoni ulteriormente da indagare e quali erano le prospettive che le varie Commissioni o anche le inchieste della magistratura non hanno avuto modo di poter portare a termine.
  Il senatore Flamigni è assistito dalla dottoressa Ilaria Moroni, direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni. Se durante l'audizione il senatore riterrà di chiederci di passare in seduta segreta, sarà possibile farlo in ogni momento.
  Ringraziandolo ancora per la sua presenza, do la parola al senatore Flamigni.

  SERGIO FLAMIGNI. Presidente, la ringrazio, come ringrazio i senatori e i deputati presenti, per questa possibilità che mi è data di riprendere la parola sul caso Moro, che è stato l'oggetto di maggiore interesse del mio impegno parlamentare dal 16 marzo del 1978 e poi nel corso della VII legislatura, nel corso dell'VIII legislatura, in cui ho fatto parte della Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro, e nella IX legislatura, in cui ho fatto parte della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, e in quell'ambito mi sono occupato in maniera particolare del caso Moro. Ho continuato anche dopo a occuparmene, seguendo e aiutando la Commissione stragi, con il mio amico Gualtieri. Eravamo della stessa provincia, eravamo entrambi impegnati; quando è diventato presidente della Commissione stragi, l'oggetto principale delle nostre conversazioni era in modo particolare il caso Moro, mentre viaggiavamo tra Forlì, Cesena e Roma. Poi la collaborazione è continuata quando la presidenza della Commissione stragi è stata assunta da Pellegrino e via via ho continuato attraverso saggi. Ancora oggi sono molto curioso dell'attività che questa Commissione potrà svolgere.
  Oggi mi propongo di dare un contributo, per parlarvi di alcuni problemi che sono chiaramente aperti e che meritano un approfondimento. Purtroppo vengo qui un po’ handicappato, perché col passare Pag. 8degli anni agli ottantanovenni capitano degli inconvenienti e io sono stato colpito da una maculopatia che non mi permette più nemmeno di leggere i giornali, quindi me li debbo far leggere da mia moglie. Allora ho adottato un sistema di lavoro per cui ho un computer particolare, a fondo nero, con caratteri grandissimi, ma troppo ingombrante per venire qui con quello strumento davanti a voi. Ho scritto praticamente quasi tutto il testo che vi voglio trasmettere, quindi Ilaria Moroni mi aiuterà leggendolo; io non posso farlo, perché non ho più questa facoltà, così come vorrei, invece, per dare il contributo che voi meritate. Ma io credo che ce la faremo lo stesso e direi che possiamo cominciare.
  Ilaria introdurrà affrontando il primo problema, che è quello della documentazione mancante, che è mancata alla Commissione di cui ho fatto parte. Non potendo disporre di quella documentazione, il lavoro della Commissione è stato inadeguato. Vorrei che quei documenti che allora non furono messi a nostra disposizione voi aveste la fortuna di poterli incamerare, ritrovare, e allora il vostro lavoro diventerebbe certamente molto importante.

  ILARIA MORONI, direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni. Inizio la lettura della relazione predisposta dal senatore Flamigni: «La Commissione poté svolgere un lavoro limitato soprattutto perché autorità di governo interpellate non le prestarono la dovuta collaborazione e perché la norma stabilita dalla legge sulla non opponibilità del segreto di Stato all'inchiesta della Commissione non venne rispettata da autorità di governo o chi per loro.
  Circa la mancata o parziale collaborazione, posso fare l'esempio del presidente Andreotti. Egli renderà noto solo nel marzo 1988 che il Vaticano era riuscito a stabilire un contatto con le Brigate Rosse e che vi era la disponibilità della Santa Sede a pagare alle BR un ingente riscatto, ma, circa quel contatto, mantenuto segreto per un decennio, non fornisce ulteriori particolari. Gli preme solo dimostrare che i veri e concreti tentativi per salvare la vita di Moro vennero compiuti da Paolo VI, non da Craxi e i socialisti, i quali a suo giudizio si limitarono ad atti agitatori per smentire la sensazione di non essere sufficientemente solidali con Moro.
  Andreotti non spiegherà perché non accennò ai contatti Vaticano-BR quando, il 27 maggio 1980, venne ascoltato dalla Commissione parlamentare, la quale aveva, tra l'altro, l'obbligo di accertare “quali iniziative o atti siano stati posti in essere da pubbliche autorità, da esponenti politici e da privati cittadini per stabilire contatti diretti o indiretti con i rapitori o con i rappresentanti di movimenti terroristici o presunti tali durante il sequestro di Aldo Moro al fine di ottenerne la liberazione, quali eventuali risultati abbiano dato tali contatti, se ne siano state informate le autorità competenti e quale sia stato l'atteggiamento assunto al riguardo”.
  Né Andreotti motiverà l'analogo silenzio reticente e omissorio tenuto davanti alla Corte d'assise. È ovvio che il ventilato riscatto presupponeva un qualche diretto contatto con i rapitori. La giornalista Chiara Valentini chiederà ad Andreotti se il Papa fosse riuscito a stabilire un contatto con le BR. “Sì – le rispose Andreotti – ma non voglio entrare nei particolari”. Ma nella vicenda Moro sono proprio i particolari a rivelare l'intrecciarsi delle più singolari coincidenze. Come quella di Alessio Casimirri, uno dei partecipanti alla strage di via Fani, figlio di un alto funzionario del Vaticano, dirigente dell'ufficio stampa della Santa Sede all'epoca del sequestro. È stato quello il contatto tra la Santa Sede e le BR ?
  Di tutti i brigatisti che presero parte al sequestro e dei quali Morucci ha rivelato i nomi, il solo ad essersi sottratto all'arresto è proprio Casimirri, che, grazie all'aiuto dei servizi e del clero, è da anni latitante e protetto in Nicaragua.
  Circa il mancato rispetto della norma sulla non opponibilità del segreto di Stato all'inchiesta della Commissione o sull'imposizione di segreti di Stato in forma Pag. 9surrettizia debbo riferirmi al comportamento di Cossiga, che riuscì a occultare alla Commissione il nome e l'attività del consulente americano Steve Pieczenik. Nella relazione della Commissione sul caso Moro si legge che “il Ministro dell'interno si avvalse anche dell'opera di alcuni consulenti personali: il professor Franco Ferracuti, ordinario di medicina criminologica e psichiatria forense presso l'Università di Roma; il dottor Stefano Silvestri, esperto in problemi internazionali; il professor Vincenzo Cappelletti, direttore dell'Istituto dell'enciclopedia italiana; il professor Augusto Ermentini docente di antropologia criminale”. Il nome di Steve Pieczenik, principale consulente del Ministro dell'interno, non compare. Eppure era vice assistente del Segretario di Stato e capo del servizio antiterrorismo del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Il suo ufficio era stato istituito da Henry Kissinger.
  Cossiga, durante la sua audizione in Commissione il 23 maggio 1980, disse in modo lapidario: “Il Governo degli Stati Uniti ci ha garantito una qualificata collaborazione a livello di gestione della crisi”. Ma Cossiga non volle dire chi incarnò quella collaborazione e si preoccupò che fosse mantenuto il segreto sul nome del suo consulente speciale americano. Solo verso la fine dei suoi lavori, la Commissione apprese che Cossiga, durante il sequestro, era stato assistito da un consulente americano.
  Nel corso della seduta del 23 gennaio 1983, uno del gruppo dei consulenti di Cossiga, il dottor Stefano Silvestri, studioso di problemi strategici di politica internazionale, rivelò alla Commissione di avere più volte incontrato al Viminale un assistente del Sottosegretario di Stato americano che era stato inviato, su richiesta del Governo italiano, per una collaborazione. A domanda, Silvestri ne disse il nome “Steve Pieczhnick”, sbagliandolo, scrivendolo in un altro modo. In verità, Steve Pieczenik. La Commissione non poté prendere conoscenza dell'effettiva collaborazione esplicata da Pieczenik, perché i documenti da lui prodotti rimasero segreti per volontà di Cossiga e vennero inviati alla segreteria della Commissione soltanto quando, a seguito dello scioglimento anticipato del Parlamento, la Commissione si affrettava a concludere i propri lavori con l'approvazione della relazione finale. I documenti lasciati da Pieczenik saranno conservati dall'ufficio stralcio della Commissione e verranno pubblicati nel volume 122 degli atti della Commissione, edito soltanto nel 1997, diciannove anni dopo.
  Un altro modo per imporre il segreto di Stato, in barba alla norma sulla non opponibilità di fronte all'inchiesta della Commissione, è stato quello di fare scomparire materiali e documenti importanti per l'inchiesta. Scomparve un rullino fotografico con foto scattate immediatamente dopo la strage, prezioso per individuare i testimoni accorsi subito dopo la fuga dei terroristi che rapirono Moro. Scomparvero o vennero manipolate bobine dove erano state registrate intercettazioni telefoniche. Scomparvero i documenti, verbali, appunti e quant'altro delle riunioni del CIIS, del CESIS, dei comitati di crisi che si riunivano al Viminale.
  La Commissione poté acquisire soltanto gli appunti fino al 3 aprile del Sottosegretario Nicola Lettieri. È scritto nella relazione della Commissione: “Le disposizioni della legge sono state unanimemente interpretate nel senso che la Commissione di inchiesta, piuttosto che accertare elementi di reato cui deve provvedere invece l'autorità giudiziaria, dovesse esaminare a fondo il funzionamento degli organi dello Stato e alla fine individuare misure più efficaci per la lotta al terrorismo”. Per esaminare a fondo il funzionamento degli organi dello Stato occorreva acquisire, però, la documentazione di tali organi. In primo luogo, dovevamo acquisire la documentazione del CIIS. Come disse Andreotti davanti alla Commissione: “Il Consiglio dei Ministri il 16 marzo diede l'incarico al Comitato interministeriale per la sicurezza di seguire con continuità lo sviluppo della crisi”, mentre al Ministro dell'interno, coadiuvato da quello della difesa e da quello delle finanze per la Guardia di finanza, fu affidato il compito di coordinare collegialmente Pag. 10con i responsabili dei settori operativi tutte le indagini, facendo quotidianamente il punto.
  Il 23 maggio 1980, durante la sua audizione, Andreotti, rispondendo a domande dei commissari inerenti all'attività dei servizi segreti, fece riferimento ad appunti esistenti presso il CIIS. Quando il presidente della Commissione scrisse al Presidente del Consiglio Forlani per acquisire la documentazione del CIIS relativamente al periodo del sequestro dell'onorevole Moro, Forlani inviò il materiale risultante agli atti del CIIS: esso consisteva di comunicati ANSA o di altre agenzie, ritagli di giornale contenenti notizie anche di fantasia sulle riunioni del CIIS, ma nessun appunto o verbale o documento inerente all'effettiva attività di gestione della crisi. Dove sono finiti gli appunti della cui esistenza lo stesso Andreotti aveva parlato in Commissione ?
  Per quanto riguarda il CESIS, organo di coordinamento dei servizi facente capo ad Andreotti, la Commissione ha potuto acquisire soltanto il verbale della riunione del 17 marzo. Perché sono scomparsi i verbali delle successive riunioni ?
  A proposito dei comitati costituiti da Cossiga al Viminale, la prima Commissione Moro acquisì soltanto i verbali della riunione di insediamento del Comitato politico tecnico-operativo alle ore 11,15, e della seconda riunione tenuta alle ore 19,30 del 16 marzo. Si aggiungeranno poi gli appunti di Lettieri fino al 3 aprile.
  Che le riunioni di quel comitato di coordinamento fossero state tutte verbalizzate ne ebbi conferma dal consigliere Squillante, capo di gabinetto di Cossiga. Una ulteriore prova sarà data dal ritrovamento, nell'archivio della segreteria speciale dell'Ufficio di gabinetto del Ministero dell'interno, di due verbali delle riunioni tenute dal comitato in sede plenaria il 10 e il 14 aprile 1978, inviati nel 1996 dal Ministro dell'interno Napolitano alla Commissione stragi.
  Scomparve anche la documentazione raccolta nella sala situazione istituita al Viminale da Cossiga, che vi aveva nominato direttore il prefetto Guccione, affiliato alla P2; sala dove affluivano giorno per giorno notizie da tutta Italia dai vari corpi di polizia.
  Perché tanti documenti scomparsi ? Dove sono finiti ? Cosa di tanto indicibile si poteva ricavare da quei documenti ? Parlando di documenti, mi viene a mente quanto ho letto nella requisitoria della Procura generale su quanto ha risposto Gelli al regista Martinelli che gli aveva chiesto dell'originale del memoriale Moro. Ha detto il Venerabile: “La storia si scrive dopo cent'anni; ne sono passati una trentina. Abbia pazienza e aspetti il suo tempo”.
  Non ritengo sia possibile. Chi si occupa di storia contemporanea e i tanti che pensano che la storia siamo noi, noi che ancora oggi siamo qui a cercare la verità, si aspettano che questa Commissione possa indicare prossimamente la responsabilità della scomparsa dei documenti, la responsabilità di aver aggirato il Parlamento e la sua legge. È stato un Presidente del Consiglio o uno dei tanti piduisti dell'alta burocrazia statale o dei dirigenti dei servizi segreti ?
  Il fatto inquietante è la coincidenza che anche al vertice delle BR scomparvero materiali e carte del cosiddetto “processo del tribunale del popolo”. Dove sono finiti gli originali del memoriale e di altri scritti da Moro ? Le bobine degli interrogatori e le carte dattiloscritte con le domande e le risposte di Moro ? Perché le BR sono venute meno all'impegno di rendere noto tutto al popolo ?
  Vorrei sperare che la direttiva Renzi del 22 aprile scorso possa essere interpretata e applicata in questo modo».

  SERGIO FLAMIGNI. Ecco, a proposito della direttiva Renzi, questo è il primo problema, quello della documentazione, che è fondamentale soprattutto quando si lavora dopo trentasei anni dai fatti, quindi senza più avere testimoni che allora non poterono essere ascoltati. Oggi che quei testimoni non ci sono più, non possiamo che cercare nella documentazione gli elementi per dare una risposta a quegli interrogativi di cui ho parlato.Pag. 11
  Voglio sperare che le migliaia di documenti di cui anche l'onorevole Minniti ha parlato, quelli attinenti proprio al caso Moro – si tratta di migliaia e migliaia di documenti esistenti – vengano consegnati al più presto a questa Commissione. Spero che ogni studioso possa disporre di quei documenti e studiarli, e che sia data a tutti i ricercatori la possibilità di trovare la risposta agli interrogativi che ho indicato. Se non c’è questo sforzo collegiale non ne usciremo.
  Hanno lavorato svariate Commissioni. Il fatto che si costituisca dopo trentasei anni un'altra Commissione, dopo le varie che hanno lavorato, a prescindere dal lavoro della magistratura, rende evidente che questa volta dobbiamo cercare di disporre del materiale per dare una risposta definitiva.
  Ecco, in quelle migliaia di pagine non possono non esserci documenti che ci interessano. Con la direttiva Prodi noi abbiamo acquisito quasi tutti quei documenti, li abbiamo esaminati, ma c’è ben poca cosa. Non ci sono i documenti per poter rispondere a quegli interrogativi. Certo, la direttiva Prodi lasciava la facoltà di rispondere o meno, quindi si vede che c’è stata una selezione. Certo, l'Arma dei carabinieri non ha dato tutto quello che avrebbe potuto dare, e non solo l'Arma dei carabinieri. Penso, ad esempio, che per questa Commissione sarebbe importante andare a fondo sulla figura di Mario Moretti, sfinge, personaggio su cui si deve dire una parola una volta per tutte.
  Ritengo che nei documenti si potranno avere delle novità. Hanno fatto scomparire dal Viminale (o dall'ufficio del Comitato interministeriale della sicurezza) tutti quei documenti prodotti dai vari comitati istituiti dal Ministro Cossiga: il comitato tecnico-operativo che poi a un certo momento divide le sue riunioni in comitato informativo e comitato operativo, poi ci sono le riunioni plenarie, le discussioni, i verbali... Come ho detto, il giudice Squillante, che era capo di gabinetto di Cossiga, mi disse di aver provveduto perché in quelle riunioni fossero fatti appunti e soprattutto verbali, perché si rendeva conto dell'importanza del caso su cui si lavorava. Ha fatto il suo dovere, però qualcuno ha cercato di cancellare, di far scomparire quella documentazione. Ebbene, è scomparsa dal Viminale. Ma poiché a quelle riunioni partecipavano il comandante generale e il capo di stato maggiore dell'Arma dei carabinieri, il comandante generale e il capo di stato maggiore della Guardia di finanza, i capi dei servizi segreti, penso che... Poi, se guardiamo al verbale del 10 aprile, che Napolitano ha inviato, dopo averlo trovato per caso nell'archivio dell'ufficio di gabinetto, ci accorgiamo che ognuno dei partecipanti porta relazioni, appunti, allegati. Ci sarà pure una qualche copia in quegli organismi. O hanno organizzato un rastrellamento per non lasciare traccia ?
  Penso che, anche se avessero fatto il rastrellamento, qualcosa può essere sfuggito. Io ricordo quando la Commissione parlamentare d'inchiesta sul SIFAR si poneva il problema di scoprire l'elenco degli «enucleandi», di quelli che dovevano essere arrestati con il piano Solo. Il piano, è vero, l'avevano fatto scomparire, però a un certo momento nelle Marche, in un comando regionale dei Carabinieri, venne fuori uno spezzone, almeno per quanto riguardava quella regione. Poi si trovò anche in un ufficio dell'Arma dei carabinieri qui di Roma, ma distaccato, un elenco, uno spezzone che riguardava quel territorio. Allora c'era la conferma che effettivamente si volevano arrestare, perché quando in quegli elenchi vengono fuori nomi di parlamentari come Giancarlo Pajetta, Luigi Longo eccetera, era il Partito Comunista che era il bersaglio, in definitiva. Il fatto è che nelle Marche comparvero in quel momento elementi della sinistra democratica cristiana, oltre che dei socialisti, quindi si poteva avere un'immagine dell'elenco degli «enucleandi» ben diversa da quella di cui si veniva parlando.
  Guarderemo quei documenti. Bisogna che ce li diano tutti. Quelle migliaia di cui si è parlato ce li debbono dare tutti. Credo che possiamo andare avanti.

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  ILARIA MORONI, direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni. Riprendo la lettura della relazione preparata dal senatore Flamigni: «L'ipotesi Guerzoni, di cui ha parlato il senatore Pellegrino, di un delitto in appalto alle BR da parte di forze internazionali alleate, anche se non ha potuto essere verificata, penso debba essere presa in considerazione, perché non è priva di elementi di sostegno.
  La Commissione dell'VIII legislatura dedica un capitolo alle avvisaglie del delitto; la seconda parte del capitolo si intitola “Gli avvertimenti ricevuti in America”. Nel luglio 1974, durante il suo intervento al Consiglio nazionale democristiano, Moro prospettò con grande prudenza l'eventualità di un nuovo rapporto con l'opposizione comunista. Era dal 1969 che Moro aveva inaugurato quella che venne cautamente definita “strategia dell'attenzione”. Egli diceva: “Bisogna avere un atteggiamento chiaro, serio e costruttivo nei confronti del Partito comunista, verificando con il maggiore impegno la validità delle sue proposte e delle sue critiche e riservando ad esso, nella dialettica democratica e nell'esperienza sociale ben più ampia e profonda che non l'azione di governo, una doverosa attenzione e conversazione” (da Il Popolo del 20 luglio 1974). Benché prudentissime, le parole di Moro accentuarono l'allarme negli ambienti del Dipartimento di Stato americano, mentre da Kissinger veniva invece la richiesta contraria, cioè di una più decisa intransigenza anticomunista.
  Dal 25 al 29 settembre era in programma la visita negli Stati Uniti del Presidente della Repubblica Leone e del Ministro degli esteri Aldo Moro. Due settimane prima, il New York Times pubblicò alcune rivelazioni del direttore della CIA William Colby, fatte in seduta segreta davanti alla sottocommissione Forze armate del Congresso, a proposito delle attività clandestine della CIA in Cile, a sostegno del colpo di Stato costato la vita al legittimo Presidente Allende. In quarantotto cartelle dattiloscritte Colby descrive con sorprendente sincerità l'attività clandestina in Cile, dal tentativo di comperare i deputati per impedire la ratifica delle elezioni di Allende da parte del Parlamento, al finanziamento di scioperi come quello dei camionisti che paralizzò il Cile per 26 giorni nell'autunno del 1972, colpendo severamente l'economia del Paese. La testimonianza mette in chiaro che l'attività dell'Agenzia è stata preventivamente vagliata e approvata da un comitato speciale allora presieduto da Kissinger. Il suo compito è appunto di vagliare e autorizzare le attività clandestine della CIA, nel corso di riunioni mensili tanto segrete che non vengono redatti i verbali.
  “Per Kissinger – è stato scritto, a torto o a ragione – il Cile era un test per vedere se un governo di sinistra democraticamente eletto poteva essere ribaltato mediante la creazione di un caos interno da parte di forze esterne”. Il 10 settembre il Washington Post riportò la seguente frase di Kissinger: “Non vedo perché dobbiamo starcene fermi a guardare un Paese diventare comunista per l'irresponsabilità del suo popolo”. Questo crescendo culminò il 16 settembre con una conferenza stampa del Presidente Gerald Ford. Su consiglio di Kissinger, il nuovo Presidente americano ammise ufficialmente che l'Amministrazione USA era intervenuta in Cile, tra il 1970 e il 1973, per favorire il golpe militare del generale Augusto Pinochet contro il legittimo Presidente democraticamente eletto, il socialista Salvador Allende: “Abbiamo fatto ciò che gli Stati Uniti fanno per difendere i loro interessi all'estero”. Un'ammissione tanto grave quanto significativa; riconosceva apertamente, fino a rivendicarla, l'attività eversiva della CIA per destabilizzare una nazione democratica.
  Il tema Cile e la tempistica, a pochi giorni dall'arrivo a Washington della delegazione italiana, non erano certo casuali. Fu un'operazione studiata a freddo. La prima bordata ci fu il 25 settembre, all'arrivo degli ospiti italiani. Un editoriale sul Washington Post così si esprimeva: “La visita giunge in un momento in cui, per la prima volta dopo il 1948, il ruolo del Partito comunista nella politica italiana è apertamente discusso tra gli altri partiti”. Gli Stati Uniti si attendono da Leone Pag. 13assicurazioni che non ci sarebbero stati né indebolimento delle tradizionali alleanze dell'Italia post-bellica né un rilancio del PCI all'interno. Ancora più diretto e inequivocabile è il tono e il contenuto di un secondo articolo pubblicato dal New York Times il 27 settembre, in cui si diceva che Kissinger, testimoniando a porte chiuse davanti al Congresso una settimana prima dell'arrivo di Leone e difendendo l'operato della CIA in Cile, aveva affermato, sostanzialmente, rivolto alla Commissione di indagine: “Voi ci rimproverate per il comportamento della CIA in Cile, ma siete sicuri che non ci rimproverereste ancora più duramente se noi non facessimo nulla per scongiurare l'ingresso dei comunisti al potere in Italia e in altri Paesi dell'Europa occidentale ?”. Il concetto era molto chiaro, ma chi aveva passato la notizia al New York Times aveva voluto essere chiaro fino in fondo. Il giornale fu così in grado di scrivere che Kissinger, da alcune settimane, era preoccupato e che non perdeva occasione per ripetere a ospiti stranieri che la prospettiva di un crollo dell'economia in alcuni Paesi dell'occidente europeo lo angustiava, anche perché avrebbe favorito, come primo caso in Italia, l'ingresso dei comunisti al potere. Era preoccupato al punto – avevano spiegato al Times alcuni funzionari del Dipartimento di Stato – che il tono duro usato dal Presidente Ford nei confronti dei Paesi produttori di petrolio in un recente discorso tenuto a Detroit era dovuto al timore che la crisi economica portasse, soprattutto in Italia, “alla liquidazione dell'attuale sistema politico”.
  Che Kissinger manifestasse i suoi timori a uomini di Stato amici lo confermava un'intervista rilasciata alcuni giorni prima al quotidiano israeliano Maariv dal Primo Ministro di Israele Yitzhak Rabin, appena rientrato a Tel Aviv dagli Stati Uniti. Partendo dal rincaro crescente del costo del petrolio, Rabin aveva affermato che diverse personalità americane gli avevano fatto presente il serio pericolo di un Governo comunista in Italia e in altre nazioni europee.
  Parlare di Governo comunista italiano nel 1974 era fuori dalla realtà ed era agitare uno spauracchio inesistente che mirava a giustificare il ricorso a misure segrete di tipo cileno da attuare in Italia per screditare la politica di Moro, che invece si proponeva di allargare la base sociale dello Stato repubblicano attraverso il confronto democratico.
  Il quotidiano romano di destra Il Tempo il 28 settembre scrisse: “Il New York Times rivela che il Segretario di Stato Kissinger avrebbe espresso la sua apprensione per una presa di potere comunista in Italia nell'incontro della settimana scorsa con i leader congressuali sulle attività della CIA. In tale riunione – precisa ancora il giornale – egli avrebbe difeso la necessità di un'azione segreta del controspionaggio americano, malgrado le critiche conseguenti alle sue attività in Cile, perché se l'Italia diventasse comunista si direbbe che gli Stati Uniti non hanno fatto abbastanza per salvarla”.
  Dopo l'arrivo della delegazione italiana a Washington, Kissinger, nel corso di un tesissimo colloquio, ribadì con durezza al Ministro degli esteri Moro l'assoluta contrarietà dell'Amministrazione americana a qualsiasi apertura democristiana al PCI, ventilando la revoca di ogni aiuto americano all'economia italiana nel caso la DC fosse venuta meno alla tradizionale chiusura anticomunista. Tra moniti e divieti, in sostanza, il Segretario di Stato americano minacciò per l'Italia uno sbocco di tipo cileno. Lo stesso Moro subì minacce dirette ed esplicite, al punto che lo stress nervoso l'indomani gli provocò un malore all'interno della chiesa newyorkese di Saint Patrick. La tensione arriva al punto che nell'ultimo colloquio ad alto livello, quello alla Casa Bianca tra Ford e Leone, presenti Kissinger e l'ambasciatore Sensi, il segretario generale della Farnesina Gaja e l'ambasciatore Ortona, Moro è assente. Il 29 sera, con quattro giorni di anticipo sul previsto, è di ritorno a Roma. L'improvviso cambiamento di programma – osservano con scetticismo i giornali – è stato giustificato da motivi di salute.Pag. 14
  Per una decina di giorni Moro rimane a casa ufficialmente malato. Secondo Corrado Guerzoni, collaboratore di Moro, il tempestoso colloquio tra Moro e Kissinger era avvenuto alla Blair House, cioè la casa degli ospiti del Presidente americano. Nel corso del pomeriggio – cito Guerzoni – vi fu una riunione alla quale intervenne il Segretario di Stato Kissinger e si verificò lo scontro, proprio perché egli affermò che l'Italia non sarebbe stata aiutata dagli americani a risolvere i propri problemi economici permanendo quella situazione politica e quell'equivoco circa il futuro della posizione italiana. Lo scontro fu talmente forte, aspro e minaccioso dal punto di vista politico che l'onorevole Moro anticipò il suo rientro, come è ben noto, a causa del malore che lo colpì nella chiesa di Saint Patrick a New York e anche perché aveva avuto informazione di questo infittirsi dell'atteggiamento polemico degli americani, rispetto al quale a suo giudizio il resto della delegazione italiana non mostrava chiara comprensione delle difficoltà enormi in cui l'Italia si trovava. Continua Guerzoni: “Moro mi chiamò appena rientrato e mi disse che per alcuni anni si sarebbe ritirato dalla vita politica, cosa che andava detta ai giornalisti. Risposi che mi pareva strano che si dovesse dare una notizia del genere quando in Italia si era alla vigilia, come poi avvenne, di una certa evoluzione politica all'interno della DC, che avrebbe portato alla nomina dell'onorevole Moro a Presidente del Consiglio. Egli comunque insistette nella sua intenzione di ritirarsi dalla politica e nell'esigenza di informarne i giornalisti”.
  Moro, inoltre, aveva confidato a sua moglie una delle ragioni del proprio turbamento. Disse Eleonora Moro davanti alla Commissione: “È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona. Adesso provo a ripeterla come la ricordo: ‘Onorevole – detto in altra lingua naturalmente – lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o lei smette di fare questa cosa o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere’. La frase era così. È una cosa che a me ha fatto molta impressione. Sono rimasta a meditarci a lungo da allora in poi”.
  Il 16 aprile 1983 Minoli intervista Kissinger per Mixer. La trasmissione si chiamava “Faccia a faccia con Henry Kissinger”. Minoli: “Ecco, in Italia si è parlato molto dei suoi contrasti con Moro. Cosa c'era di vero ?”. E Kissinger risponde: “Beh, questo è ridicolo. Moro e io avevamo fondamentalmente ottimi rapporti. Il suo interesse principale era in politica interna e non estera, quindi non avevamo molto da dirci. Ci sono voci in Italia secondo cui io l'avrei ammonito contro un'apertura a sinistra e il compromesso storico. Non è vero, perché quando io ho conosciuto Moro era nel 1974 e solo nel 1977 è stato...”. Preciso che Kissinger nell'intervista appare imbarazzato e sbaglia perché aveva conosciuto Moro non nel 1974, ma il 27 febbraio 1969, quando giunse a Roma accompagnando il Presidente Nixon, come lo stesso Kissinger ricorda nel suo libro Gli anni della Casa Bianca, alle pagine 93-95. Pochi giorni prima, il 21 febbraio, Moro, intervenendo alla Direzione nazionale della DC, aveva chiesto di avviare una strategia dell'attenzione nei confronti del PCI, iniziando un attento confronto con le posizioni del principale partito di opposizione. Quel fatto era stato evidenziato nelle annotazioni che Kissinger aveva preparato per il viaggio di Nixon in Europa, a Roma. Tra il 1969 e il 1974 Kissinger aveva avuto svariati incontri con Moro e tutti dedicati a problemi di politica estera».

  SERGIO FLAMIGNI. Si potrebbe aggiungere che quella intervista era stata fatta proprio per permettere a Kissinger di smentire le voci che circolavano. Ma circolavano a seguito di fatti precisi. Il suo imbarazzo lo porta a commettere un errore grossolano. Innanzitutto, lo porta a dire che Moro si occupava prevalentemente di politica interna, quando era stato Ministro degli esteri. Kissinger dice di Pag. 15averlo conosciuto nel 1974 e in quell'anno Moro era Ministro degli esteri. Del resto, lo ha conosciuto nel 1969 come Ministro degli esteri. Lo ha incontrato diverse volte anche in sede del Consiglio atlantico, dove Moro interveniva in quanto Ministro degli esteri. Ha partecipato a svariate riunioni. Eppure, insiste sul fatto...
  Dico questo perché nel libro Gli anni della Casa Bianca Kissinger descrive un Moro chiuso dentro la politica del giardino di casa. È sbagliato. Invece, se abbiamo un politico italiano che ha una visione internazionale dei problemi e che ha una sua politica europea che lega già il nostro Paese all'avvenire che ci può essere attraverso lo sviluppo dell'Europa moderna, è proprio Moro. È Moro che organizza la Conferenza di Helsinki, e anche in quell'occasione si trova in contrasto con Kissinger. C’è un contrasto di politica internazionale sulla visione che si deve dare all'Europa. Lo dice, fra l'altro, anche Moro scrivendo nella prigione, facendo la sintesi della posizione italiana rispetto al Medio Oriente e per quanto riguarda lo sviluppo dell'Italia nella politica europea. Ebbene, quella è una documentazione che smentisce Kissinger in pieno. Kissinger è abbastanza brutale. Guardate che il libro sugli anni della Casa Bianca è stampato dopo la morte di Moro. Quelle pagine Kissinger le ha scritte dopo l'uccisione di Moro e credo che questo dimostri un'acredine che, oltretutto, non aveva più ragione di essere.
  Purtroppo noi abbiamo registrato quel contrasto ben più profondo. Poi Kissinger cerca di smentirlo, come fa anche successivamente, molte volte con una certa ironia sul Moro intellettuale, bizantino eccetera. Credo però che questo contrasto abbia senz'altro giocato.
  C’è un episodio che bisogna richiamare. Quando nel 1973 capita la guerra del Kippur, Moro rifiuta l'utilizzo delle basi militari della NATO per aiutare Israele. Sostiene la tesi, diventata di tutto il Governo italiano, che quella guerra esorbita dall'area della NATO, quindi gli americani non possono utilizzare le basi che sono nel nostro territorio per svolgere un'azione che è sì di aiuto anche a un Paese nostro alleato come Israele, ma che deve tener conto che noi abbiamo una politica per il Medio Oriente di pacificazione, tendiamo alla soluzione di quel problema e non possiamo metterci contro i Paesi arabi. Pertanto, il nostro Governo ritiene di assumere quella posizione e Kissinger «se la lega al dito». Moro farà riferimento all'acredine che, a seguito di quel fatto, Kissinger crea. È una causa che probabilmente ha giocato. Certo, Kissinger non era uno freddo nello svolgere la sua politica. Era freddo, probabilmente, nell'esaminare le cose da fare, nel disegno strategico e nella tattica da applicare, ma una volta che aveva fatto le sue scelte era un passionale, anche per scelte sbagliate, come quella del Cile e altre.
  Non possiamo sottovalutare quando Il Tempo ha scritto che un piano specifico della CIA, sul tipo di quello che si è adottato in Cile, poteva essere adottato anche in Italia.
  È vero che poi, quando avviene il delitto Moro, non è più Kissinger al Dipartimento di Stato; è vero che è in carica l'amministrazione di Carter, democratica, però un sistema di sicurezza non si cambia dall'oggi al domani. A Roma continua a esserci il capo della CIA che era stato nominato da Kissinger. Nei punti strategici il sistema di sicurezza è sempre lo stesso, quindi chi può avere prestato una mano per commettere, per permettere... Io parto dalla ipotesi di Guerzoni, che dice che può essere stato concesso un appalto alle Brigate Rosse per commettere quel delitto. Ebbene, è da provare, però è certo che alcuni elementi ci sono, alcuni presupposti esistono. È inutile che chiudiamo gli occhi.
  È vero che gli Stati Uniti rappresentano una forza nostra alleata, però in un frangente di crisi come è stato quello, noi abbiamo il dovere di guardare e di andare fino in fondo con molta franchezza, fare politica considerando la realtà per quella che è. Anche nella politica dei nostri alleati di errori ne sono stati commessi. È certo che una politica volta anche all'isolamento dell'Italia...
  Non ci soffermiamo qui a parlare di quello che avviene a Portorico quando si Pag. 16riunisce lo stato maggiore atlantico e lasciano Moro fuori dalla porta, proprio nel momento in cui si discute sugli aiuti da dare all'Italia e si finisce col condizionare quegli aiuti. Siamo dopo le elezioni del 1976. È bene che guardiate che cosa avviene a Portorico. In quel momento Moro viene lasciato fuori, eppure è ancora Presidente del Consiglio italiano; ma lui e Rumor, che è Ministro degli esteri, vengono lasciati alla porta mentre si discute degli aiuti all'Italia. Se ne escono con un comunicato in cui danno l'incarico al tedesco Schmidt di esprimere la posizione che era quella della discriminazione: «Se voi mettete al governo i comunisti non vi daremo gli aiuti».
  Questa è sovranità condizionata, limitata, indiscutibilmente, dopo il suffragio popolare che aveva dato quei risultati e che non permetteva il grande gioco politico, perché i rapporti di forza erano quelli che erano e la politica di Moro era lungimirante. Dunque, il fatto di liberarsi di un personaggio che rappresentava quella politica era una tentazione non solo di Kissinger, anche di altri dirigenti di Stato nei Paesi europei, perché avevano timore di una diffusione della stessa formula di collaborazione in altri Paesi.

  PRESIDENTE. Proseguiamo, così abbiamo modo di affrontare tutti i capitoli e magari se occorre facciamo gli approfondimenti. Diversamente spaziamo in maniera troppo ampia e non riusciamo ad ascoltare tutta la sua relazione, perché il Senato riprende i lavori tra non moltissimo.

  ILARIA MORONI, direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni. Proseguo nella lettura della relazione del senatore Flamigni: «Alla fine del 1974, l'azione del terrorismo nero che aveva alimentato la strategia della tensione non aveva raggiunto i suoi scopi. Miceli disse al giudice Tamburino: “D'ora in avanti sentirete parlare solo degli altri, i rossi”. Come faceva Miceli a sapere che, dopo l'arresto dei capi BR Curcio e Franceschini, nel momento di massima crisi delle BR, sarebbero invece stati soprattutto i brigatisti rossi a far parlare di sé ?
  Il 18 febbraio 1975 Curcio evase dal carcere di Monferrato. Non si è mai saputo perché Curcio venne trasferito dal carcere alquanto protetto di Novara al carcere di Monferrato, piuttosto sguarnito e facile da assaltare. L'azione venne organizzata da Mara Cagol, che verrà uccisa il 6 giugno 1975. E questo avveniva dopo le minacce a Moro negli USA e dopo il ritorno di Moro alla Presidenza del Consiglio. Si ha l'impressione che alle BR sia concesso uno spazio libero, ma controllato. Dopo il forte spostamento a sinistra e la grossa avanzata del PCI nelle elezioni regionali amministrative del 15 e 16 giugno, Kissinger accoglie quel risultato con sdegno. La strategia della tensione ha prodotto risultati contrari a quelli sperati.
  L'oltranzismo atlantico reagisce e studia il Field Manual 30-31, supplemento B, tra i materiali sequestrati dalla polizia alla figlia di Gelli in arrivo all'aeroporto di Fiumicino e agli atti della Commissione P2. Un documento top secret dell’intelligence americana datato 18 marzo 1970 definiva il terrorismo “fattore interno stabilizzante” (“destabilizzare ai fini di stabilizzare”), teorizzava la necessità, attribuendole particolare importanza, della penetrazione nei movimenti eversivi e impartiva precise direttive per arrivare a controllare gli stessi infiltrati organizzati dagli apparati del Paese amico. Per raggiungere quell'obiettivo, i servizi d'informazione americani dovevano “cercare di identificare gli agenti infiltrati nel movimento sovversivo dai responsabili della sicurezza interna delle organizzazioni governative del Paese ospite, non perdendo di vista l'opportunità di stabilire un controllo segreto da parte dell'esercito degli Stati Uniti sulle attività di tali agenti”. Inoltre, dovevano “cercare di permettere l'infiltrazione di agenti affidabili nei livelli di comando dell'eversione, con particolare riguardo ai sistemi di informazione diretti contro organizzazioni governative del Paese ospite. Non bisogna dimenticare che le informazioni fornite dalle fonti aderenti al movimento sovversivo riguardo al personale Pag. 17delle organizzazioni governative possono essere di grande valore nel determinare la giusta condotta dei servizi di informazione dell'esercito e nel suggerire tempestive misure adeguate al perseguimento degli interessi degli Stati Uniti”.
  Era dunque esplicitamente teorizzato il proposito di strumentalizzare le forze eversive anche contro il Governo del Paese alleato. Il servizio segreto americano mirava essenzialmente a essere informato ai livelli di comando dell'organizzazione eversiva in modo da anticiparne le mosse oppure di condizionarle o addirittura di assecondarle qualora la loro azione coincidesse con l'interesse degli Stati Uniti. Una tecnica che coincide alla perfezione con lo svolgersi del delitto Moro.
  Nel luglio 1975 il Comando generale dell'Arma dei carabinieri decise di sciogliere il nucleo antiterrorismo creato a Torino dal generale Dalla Chiesa. Questa fu una decisione inspiegabile a fronte della notevole crescita del terrorismo. Durante la campagna elettorale era stato gambizzato dalle BR il democratico cristiano De Carolis. Il terrorismo tinto di rosso faceva comodo agli oltranzisti atlantici.
  Nell'estate del 1975 il capo dell'ufficio D del SID, generale Gianadelio Maletti, poi affiliato alla P2, aveva inviato al Viminale un rapporto, informando che le Brigate Rosse erano impegnate in un tentativo di riorganizzazione sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, costituito da persone insospettabili anche per censo e per cultura, che si apprestavano a tornare in azione con programmi più cruenti, che la nuova organizzazione partiva con il proposito esplicito di sparare e che erano in corso addestramenti per sparare alle gambe. Il rapporto del generale Maletti era stato redatto sulla base di informazioni fornite al SID dagli infiltrati nelle BR.
  Nel dicembre 1975 Moretti si reca a Roma e affitta l'appartamento di via Gradoli, che viene occupato da Franco Bonisoli e Carla Brioschi, brigatisti venuti da Milano, che iniziano un'inchiesta su Aldo Moro. Per dirla con il linguaggio dell'ipotesi Guerzoni, l'appalto dell'operazione Moro è già stato affidato alle BR.
  A gennaio 1976 Curcio verrà nuovamente arrestato e ferito. Gli arresti di Curcio e Franceschini e l'uccisione di Mara Cagol servirono a cambiare la direzione delle BR. Aveva detto Federico D'Amato, che era il rappresentante delle forze di sicurezza nella NATO: “Li conosciamo tutti, uno per uno”; ma non li fece arrestare. Curcio finì in galera perché bisognava garantire il cambio di direzione, collocare Moretti al vertice. In funzione dell'operazione Moro a Roma, Moretti guida la formazione della colonna romana delle BR.
  Nel 1976 e nel 1977 è un susseguirsi di attentati.
  È menzognero dire che Moro non aveva preoccupazioni. In effetti, Moro aveva espresso più volte forti preoccupazioni, fin dal rapimento di Guido De Martino (5 aprile-15 maggio 1977), figlio del segretario del Partito socialista Francesco De Martino. Già allora, l'agenzia giornalistica OP di Mino Pecorelli, vicina ai servizi segreti e alla loggia massonica segreta P2, aveva pubblicato la nota: “Allarme a Roma. Si teme il sequestro di un uomo politico”, datata 28 aprile 1977. La nota chiamava in causa il Ministro dell'interno: “Se Cossiga c’è, cerchi di non dormire”. Il fatto che Moro e la sua scorta fossero stati privi di una macchina blindata evidenziava una insufficienza di protezione che Andreotti tentò di minimizzare affermando: “Cossiga mi ha smentito nella maniera più netta che Moro avesse chiesto l'auto blindata”.
  Nel novembre 1977 le BR sparano e feriscono l'onorevole Publio Fiori, dirigente regionale della DC, e scrivono su un muro nella zona dell'attentato: “Oggi Fiori, domani Moro”. È la fase in cui le BR stanno preparando il sequestro di Moro. Dopo quella scritta, penso sia ingiustificabile che non si sia provveduto a fornire a Moro e alla sua scorta la macchina blindata, anche se Moro non l'avesse chiesta. Ricordo che il 16 marzo, mentre stavo per entrare alla Camera in piazza Montecitorio, l'onorevole Darida scendeva dalla macchina blindata del Ministero dell'interno. Di quella scritta si parlò a novembre Pag. 18del 1977 e la polizia scientifica venne inviata a fare i rilievi il 17 marzo 1978.
  Dopo Sossi, e soprattutto dopo Coco, si capiva che le BR miravano più in alto. Lo dichiaravano esplicitamente nel Quaderno n. 4 diffuso nell'autunno del 1977, in cui si faceva l'esaltazione del sequestro Schleyer da parte della RAF in Germania. “Colpire la DC nei suoi organi centrali”: miravano al vertice. Nei documenti BR si dice che il valore strategico dell'obiettivo è dato dal suo livello politico».

  SERGIO FLAMIGNI. Abbiamo un documento che voglio presentare al presidente, dove è riprodotta la fotografia della scritta «Oggi Fiori, domani Moro». È eloquente. Dopo la gambizzazione di Fiori è un allarme.
  Fra l'altro, debbo dire che alla questura di Roma cominciò un'altra fase e si capì che l'aggressione era verso il mondo politico, quindi bisognava in qualche maniera provvedere. Venne nominato capo della DIGOS Spinella, il quale poté fruire di una confidenza. Aveva praticamente uno dell'area contigua alle Brigate Rosse romane e seppe di una notizia molto seria che diceva: «Stai attento, perché si sta preparando l'irlandizzazione di Roma». Allora l'Irlanda era all'ordine del giorno per fatti di terrorismo ed era veramente rappresentativa di un pericolo serio. Ci fu una riunione straordinaria. Spinella stese un appunto indirizzato sia al questore sia al capo della polizia, che lo trasmise poi al Ministro. Cossiga si mise le mani nei capelli – ma non si presero provvedimenti – di fronte a Spinella che faceva presente in che condizioni si trovava l'ufficio della DIGOS, perché non erano più stati sostituiti coloro che erano andati in pensione, ed era ridotto al lumicino come personale. Il capo della Polizia gli promise che appena finito il corso dei sottufficiali alla scuola di Nettuno gli avrebbe dato 27 vicebrigadieri per poter rafforzare l'ufficio. Ebbene, finì la scuola, ma i 27 vice brigadieri non gli furono assegnati. Intervenne D'Amato, che era allora capo delle polizie speciali – la polizia di frontiera, la polizia stradale, la polizia postale – e prese egli stesso quelle risorse, anziché l'ufficio che era più preposto alla lotta contro il terrorismo. Per cui quando capita il caso Moro ci troviamo completamente disarmati. Dopo verrà sciolto l'antiterrorismo di Santillo, il servizio di sicurezza (nel momento dello scioglimento così si chiamava), l'unico organismo dove c'era personale che aveva esperienze concrete di lotta contro le Brigate Rosse e contro i NAP. Aveva sgominato l'organizzazione dei NAP a Roma, e non solo a Roma. Evidentemente quello scioglimento diede la botta finale. Il 16 marzo ci troviamo completamente disarmati. È stata questa una coincidenza, ancora una volta, o è stato dettato da un disegno ? Questa è una domanda.

  ILARIA MORONI, direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni. Procedo nella lettura della relazione del senatore Flamigni: «Nella requisitoria della Procura generale è contenuta una ricostruzione lucida della strage di via Fani. È documentata con chiarezza la fallacia di quanto raccontato da Morucci e da Moretti. È evidenziata la presenza, nel teatro delle operazioni, del colonnello Guglielmi, addestratore a Capo Marrargiu, anche di tecniche dell'imboscata. A oggi, quindi, è certo che i brigatisti hanno mentito sulla dinamica dell'agguato, che non è stato accertato il numero di coloro che davvero hanno sparato, che si è sparato dal lato destro per eliminare per primo il maresciallo Leonardi e che è innegabile la presenza della motocicletta Honda.
  Voglio segnalare alla Commissione qualche elemento che si aggiunge e arricchisce il teatro delle operazioni descritto nella requisitoria.
  Carlo D'Adamo, nel volume Chi ha ucciso l'agente Iozzino ? Lo Stato in via Fani, ha indagato sulle auto presenti in via Fani sul luogo dell'eccidio la mattina del 16 marzo, e non sono mancate le sorprese. Interessa qui segnalare quello che egli dice in riferimento, in modo particolare, a due auto. Una, la Austin Morris di colore blu targata Roma T50354, parcheggiata al posto del furgone del fioraio Spiriticchio che Pag. 19da un anno, tutte le mattine, parcheggiava in quell'angolo e che quella mattina non era potuto giungere sul posto perché trovò il furgone con tutte e quattro le gomme squarciate. Quell'auto, parcheggiata proprio in quel posto, contribuì alla riuscita dell'agguato dei brigatisti. Quell'auto risulta intestata alla società Poggio delle Rose, costituita con le modalità delle società dei servizi, che aveva sede in piazza della Libertà 10, dove aveva sede anche la Fidrev, società che gestiva l'organizzazione logistica e amministrativa del SISDE, e di cui ho avuto modo di scrivere nel libro Il covo di Stato. L'atto costitutivo della società fu stipulato a Roma il 24 febbraio 1971, numero di repertorio 101074, dal dottor Vittorio Squillaci, già funzionario del Viminale e poi notaio dei servizi.
  L'altra auto, una Mini Minor di colore verde con tetto nero, con targa Roma T32330 era intestata a Tullio Moscardi, che era un ex ufficiale dei nuotatori paracadutisti della X Mas e a Firenze era stato un reclutatore di sabotatori per il gruppo Vega, un'unità speciale di Stay-Behind. Tullio Moscardi abitava in quel periodo proprio in via Fani n. 109, ma la sua residenza, come il suo recapito, risultava in via del Corso n. 504, dov'era la sede legale della Edil GM Immobiliare, di cui era proprietario.
  Sempre in via Fani n. 109 vi era un ufficio della società Impresandex, di cui era proprietaria Lucia Pastore Stocchi, sorella di Fernando Pastore Stocchi, dirigente di Capo Marrargiu, dove si addestravano anche gli uomini di Gladio, e moglie di Bruno Barbaro, gestore di attività di copertura dei servizi.
  Pochi giorni dopo il 21 marzo si svolse l'operazione Smeraldo per liberare Moro dalla prigione, che si riteneva di aver individuato all'altezza del chilometro n. 47 della via Aurelia, operazione tenuta nascosta da Cossiga alla Commissione perché coinvolgeva reparti legati a Gladio. L'informazione sulla prigione di Moro nei pressi del chilometro n. 47 dell'Aurelia era stata fornita dal capo del SISMI, generale Santovito, e si dimostrò fasulla, come tante altre da lui fornite. Quell'operazione era la replica di un'esercitazione svoltasi la notte del 12 febbraio 1978 a Magliano Sabina-Monte Soratte indetta dal raggruppamento unità speciali Stay-Behind, cioè Gladio. Quella parte dell'esercitazione aveva lo stesso nome, Smeraldo. Ne furono comandanti operativi il maggiore Calcagnile (Smeraldo) e Vittorio Biasin (Rubino), gli stessi dell'operazione Smeraldo di Cossiga. Nell'esercitazione del 12 febbraio furono implicati nelle manovre il SIOS (Servizio informazioni operative e situazione) dei Carabinieri con sede a La Spezia, lo Stato maggiore di Roma, gli incursori della Marina (COMSUBIN), il gruppo Guglielmi e un elicottero abilitato al volo notturno e dotato di armamento per azioni a bassa quota. Di questa esercitazione i giornali Famiglia Cristiana e Liberazione e la trasmissione di Rai 3 Primo Piano hanno pubblicato alcuni documenti.
  Aggiungo, infine, un particolare di cui scrissi fin dalla prima edizione de La tela del ragno. In via Fani, compiuta la strage, il commando dei terroristi fu agevolato nella fuga da una sospetta coincidenza: una volante della Polizia che stazionava, come ogni mattina a quell'ora, in via Bitossi, angolo via Massimi, in attesa di scortare il giudice Walter Celentano nel consueto tragitto dalla sua abitazione verso il tribunale, ricevette l'ordine di accorrere immediatamente in via Fani. Ciò consentì ai brigatisti di giungere indisturbati in via Bitossi, dov'era parcheggiato un furgone Fiat 850, che, secondo Morucci, conteneva una cassa di legno in cui rinchiudere Moro».

  SERGIO FLAMIGNI. Su via Fani, grazie alla Procura generale di Roma, c’è stato un contributo. Il quadro complessivo delineato dalla Procura generale sembra chiudere una serie di problemi che erano aperti. Mi sembra piuttosto esaustivo.
  Ci sono, però, elementi particolari, come quello che ho citato, ossia la presenza di due automobili, in modo particolare di una, che appare collegata coi servizi segreti. Quella macchina non ha permesso a Ricci, l'autista di Moro, di manovrare adeguatamente e ha contribuito Pag. 20alla riuscita di quell'azione. Naturalmente è compito vostro, della Commissione, accertare. D'Adamo, che ha scritto il saggio citato prima, ha fatto una ricerca, ha trovato quei particolari e subito ce li ha segnalati. Io credo che si debba andare a fondo della materia, perché è importante. Confermerebbe che la presenza dei servizi in via Fani si aggiunge a quella del colonnello Guglielmi e, quindi, offrirebbe un altro contributo a maggiore chiarezza di tutta l'operazione. L'operazione di via Fani è il cuore. Se si dimostra che i servizi vi hanno avuto parte, è importante. Non parliamo di servizi deviati. Si tratta di servizi; Guglielmi era uomo dei servizi. È inutile che ci vengano a dire che amministrativamente è stato inquadrato dal 1o luglio, perché svolgeva già l'attività di addestratore in precedenza. Faceva parte dell'organizzazione di Gladio, del gruppo di Gladio.
  Come si spiegano, quindi, quelle presenze a via Fani ? Sono problemi molto grossi. Credo che la Commissione avrà non poco da lavorare attorno al riguardo.

  ILARIA MORONI, Direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni. Vado avanti nella lettura della relazione del senatore Flamigni: «20 marzo 1978: riunione a Palazzo Chigi degli esperti della maggioranza parlamentare per mettere a punto le norme del decreto antiterrorismo. Sarà approvato l'indomani dal Consiglio dei ministri. Il 16 marzo avevamo notato gravi carenze sul piano operativo del Governo e degli apparati dello Stato. Appreso della strage, il Ministro dell'interno ordinò di bloccare la città, ma non esisteva alcun piano per bloccare la città. Dal Viminale il dottor Fariello, con fonogramma alle questure, ai distretti di polizia e ai commissariati, ordinò l'applicazione del Piano Zero, in vigore solo nella provincia di Sassari. Il Presidente del Consiglio fece appello al massimo coordinamento delle Forze di polizia, ma non esistevano norme guida per il coordinamento. Il Presidente del Consiglio propose al Consiglio dei ministri di mobilitare l'esercito.
  20 marzo: a Palazzo Chigi il rifiuto del coordinamento. Proposi di anticipare le norme già concordate dal Comitato ristretto per la riforma della polizia. Il repubblicano Mammì fu d'accordo. Ci fu la contrarietà di Vitalone, Cossiga e Mazzola. Contrario fu anche Reggiani del Partito Socialdemocratico. Secondo Cossiga, non si poteva fare perché i Carabinieri erano contrari. Pecchioli disse: “Date la direzione del coordinamento a un operatore gradito all'Arma dei carabinieri. Non c’è tempo da perdere”. Non se ne fece nulla. Si discusse molto delle nuove norme penali che avevano valore, se i brigatisti venivano catturati. Come venne risolto il problema del coordinamento ? Con le riunioni del CESIS presiedute da Andreotti e con i cosiddetti comitati di crisi costituiti al Viminale da Cossiga, il quale affidò in particolare al comitato politico-tecnico-operativo il compito del coordinamento delle Forze di polizia e di sicurezza, esigenza che, ad avviso della Commissione Moro, restò del tutto insoddisfatta. Afferma infatti la Commissione: “A giudizio della Commissione, la lezione che si può ricavare da come ha lavorato il Comitato è che così non si può e non si deve fare il coordinamento delle attività delle Forze di polizia: in effetti, il Comitato non ha coordinato niente e si è piuttosto rivelato come la sede nella quale si riversarono le frustrazioni derivanti dagli insuccessi”.
  Solo dopo l'uccisione di Moro si misero in atto forme di coordinamento a direzione unica. Prima l'incarico speciale al generale Dalla Chiesa, che istituiva i Nuclei speciali antiterrorismo. In venti giorni il blitz di via Monte Nevoso, l'arresto di mezzo comitato esecutivo e di una decina di brigatisti di stanza a Milano.
  Non è vero che le Forze di polizia fossero impreparate durante i cinquantacinque giorni. Quei 230 effettivi tra Carabinieri, Polizia, Guardia di finanza e ufficiali dei servizi erano tutti in servizio anche il 16 marzo e durante i cinquantacinque giorni. Mancavano, però, di aggregazione e coordinamento.
  Ancora prima di mobilitare l'esercito, come venne proposto dal Presidente del Pag. 21Consiglio, o di preoccuparsi delle misure da parata, occorreva selezionare i migliori ufficiali di polizia giudiziaria, i migliori esperti di indagini dei tre Corpi di polizia e i migliori ricercatori nel campo delle informazioni, dotarli di adeguati mezzi tecnici e di supporto e affidarli a un'unica guida per il coordinamento delle attività volte alla liberazione di Moro.
  Il 15 dicembre 1979 il Ministro dell'interno Rognoni decretò l'entrata in vigore della norma sul coordinamento concordata nel Comitato parlamentare per la riforma di polizia, che il PCI e il PRI avevano chiesto fin dal 20 marzo 1978.
  La Commissione parlamentare, scrivendo la sua relazione conclusiva, citerà l'esempio della liberazione del generale Dozier come risultato dell'effettivo coordinamento delle indagini assicurato dal decreto Rognoni.
  Quindi, all'interno delle Forze di polizia vi erano esperienze e capacità di lotta contro il terrorismo, come avevano dimostrato i primi successi contro le BR con gli arresti di Curcio e Franceschini da parte dell'organizzazione antiterrorismo creata dal generale Dalla Chiesa in Piemonte nel 1974, dopo il sequestro Sossi, organizzazione sciolta inspiegabilmente dal Comando generale dell'Arma nel luglio del 1975. Sempre nel 1974 era stato costituito l'Ispettorato antiterrorismo, che, sotto la direzione dell'ispettore generale Santillo, si organizzò in nuclei e squadre regionali. Quell'organizzazione ottenne successi sia contro il terrorismo nero sia contro quello rosso, riuscendo a sgominare l'organizzazione dei NAP.
  La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione del questore Santillo il 1o giugno 1974, sia stato, nel pieno boom del terrorismo, disciolto a gennaio del 1978 e perché non ne sia stata utilizzata l'esperienza organizzativa e il personale addetto. L'Ispettorato, rinominato Servizio di sicurezza, con la sua struttura agile e snella, venne sciolto proprio quando era divenuto oggetto di attacchi da parte delle BR.
  Durante i cinquantacinque giorni ebbi incontri con Lettieri e Mazzola, con il capo della Polizia Parlato, una volta anche con Cossiga, ed ebbi sempre la sensazione che brancolassero nel buio. Ne ebbi la certezza quando il commissario Belisario, che lavorava alla Criminalpol, venne incaricato da Cossiga di recarsi in Olanda per ben due volte a interpellare il paragnosta Croiset e farsi dire dov'era Moro. Parlato mi disse: “Siamo senza occhi e senza orecchie”. Lamentava che i servizi non gli fornivano notizie valide, per cui la Polizia e i Carabinieri giravano a vuoto.
  Seppi da Mazzola che nel Comitato di coordinamento erano insorti dissensi tra i rappresentanti dei servizi informativi e di quelli operativi, per cui si arrivò alla decisione di tenere riunioni separate e intercalate da riunioni plenarie comuni del gruppo operativo e del gruppo informativo. Altro diverbio è esistito all'interno del CESIS tra il suo segretario, prefetto Napoletano, e i capi dei servizi Santovito e Grassini; tale dissenso causò le dimissioni del prefetto Napoletano e la sua sostituzione con il prefetto Pelosi. Quando scoppiò lo scandalo della P2, tutti e tre erano negli elenchi di Gelli. Si capì la ragione vera della diatriba con il prefetto Napoletano: la lotta di potere della loggia P2 per avere il controllo totale dei servizi segreti. È un caso in cui emerge una responsabilità del Presidente del Consiglio Andreotti, che, ben conoscendo le qualità di Napoletano, da lui nominato segretario del CESIS, ne accolse le dimissioni senza il necessario chiarimento.
  Avevo occasione di incontrare anche operatori di polizia, funzionari, ufficiali, sottufficiali, agenti. Ricordo che il personale della polizia si impegnò con grande spirito di sacrificio nell'esecuzione dell'operazione a cui veniva comandato, sottoponendosi a massacranti turni di lavoro, rinunciando al riposo settimanale, accettando volontariamente di compiere turni di lavoro straordinario non retribuito come tale. Questo soprattutto fino al 10 aprile, da quando si registrò una sensibile diminuzione nelle operazioni di ricerca della prigione. Ho sentito ufficiali di polizia Pag. 22dire: “Questi Moro non lo vogliono trovare”. Erano quelli che, convinti che la prigione di Moro fosse a Roma o nelle immediate vicinanze, criticavano ogni spostamento fuori dalla provincia. Riferii al Sottosegretario Lettieri. Mi disse che il comitato mandava le Forze di polizia a seconda delle indicazioni dei servizi o a seguito di informazioni vagliate dai Corpi di polizia: “Il generale Santovito, direttore del SISMI, ad esempio, ci ha portato la notizia che Moro era prigioniero in un cascinale della provincia di Grosseto. È stata organizzata un'operazione con l'impiego di mille uomini, ma il risultato è stato nullo. Come nessun riscontro ha avuto la notizia fornitaci ai primi giorni del sequestro e sempre da fonte attendibile di Santovito che Moro era stato trasportato in Grecia con una nave”.
  Il contributo dato dal SISMI e dai servizi fu nullo. I cinquantacinque giorni furono giorni di sconfitta per tutte le forze dell'ordine. Non ci fu un solo giorno di gloria. In quei giorni venne arrestato un solo brigatista, Cristoforo Piancone, a Torino, perché, durante l'attentato all'agente di custodia Lorenzo Cotugno, questi, prima di cadere ucciso, riuscì a ferirlo con un colpo di pistola e, quindi, dovette essere ricoverato in ospedale.
  Durante i cinquantacinque giorni non solo mancò il coordinamento delle Forze di polizia, ma fu impotente anche la magistratura, che venne portata a rimorchio dal potere esecutivo. La relazione della prima Commissione Moro ha espresso un giudizio assai severo sull'azione della magistratura inquirente romana: “Lungi dal sentirsi completamente coinvolta, assumendone la direzione ed esercitando un ruolo propulsivo, la magistratura inquirente romana è sembrata quasi come estraniata dalle indagini e comunque portata a rimorchio”.
  Il principio costituzionale dell'indipendenza della magistratura durante il caso Moro non venne rispettato. Dopo il sequestro il procuratore capo della Repubblica De Matteo dichiarò alla televisione che, per adempiere con sollecitudine ai tanti compiti richiesti dalle indagini, avrebbero costituito un pool di magistrati, ma poi nulla fece di quanto annunciato. Il giudice di turno Infelisi venne lasciato solo in un ufficio privo di telefono, costretto a recarsi nel corridoio della Procura per telefonare da un apparecchio a gettoni. Questo lo disse egli stesso alla Commissione Moro.
  Di quell'audizione ricordo anche che Infelisi, sapendo della presenza a Roma, al Viminale, di funzionari della polizia tedesca, aveva chiesto di avere i risultati della loro collaborazione, ma ricevette un netto rifiuto. Sulla collaborazione straniera e sui suoi effettivi risultati la prima Commissione non ha potuto dire nulla. Nei primi giorni successivi alla strage di via Fani fu accertata la presenza di funzionari di servizi di sicurezza e di forze di polizia stranieri. Il 19 marzo, in una corrispondenza dal Viminale del TG1, si ribadiva che nessuna notizia, nessuna informazione veniva data ai mezzi di informazione, se non conferme dei collegamenti internazionali dei terroristi italiani e della presenza di tedeschi in via Fani. Contemporaneamente, i telegiornali informavano dell'arrivo di trenta uomini dell'antiterrorismo tedesco, notizia confermata dal Ministro degli interni della Germania il giorno successivo, in cui giunsero anche due esperti dell'antiterrorismo inglese. Nei giorni successivi alla strage anche il Mossad, il potente servizio segreto di Israele, aveva offerto la sua collaborazione, però la Commissione parlamentare non venne mai informata dell'effettiva collaborazione delle forze di sicurezza alleate. Ha scritto il giudice Rosario Priore: “Il Governo italiano venne quasi subito esautorato di ogni potere nella gestione del sequestro perché il caso era stato avocato a sé dalla rete Gladio della NATO, rete che in quel momento era gestita da un direttorio composto da Germania federale, Francia e Gran Bretagna. Non dimentichiamo che, proprio per le caratteristiche del personaggio Moro e per le conoscenze anche documentali di cui poteva disporre, una sua eventuale collaborazione con i carcerieri avrebbe potuto mettere a repentaglio segreti militari sensibili e lo stesso sistema difensivo atlantico. Sarebbe interessante Pag. 23ricostruire tutte le fasi del lavoro svolto da quel direttorio durante i 55 giorni del sequestro” (dal libro Intrigo internazionale, pagina 189).
  Questo è un compito che spetta a voi».

  SERGIO FLAMIGNI. Priore pone un grosso problema: il rapporto tra giustizia e segreto di Stato. In quel momento la magistratura è stata spogliata. Egli dice che tutte le indagini furono avocate dalla Gladio internazionale della NATO. Io non so quale sostanza ciò abbia concretamente. Noi non abbiamo potuto fare una perlustrazione, un'indagine su questa materia. È certo, però, che la presenza dei servizi di sicurezza e delle forze di polizia di altri Paesi, particolarmente dei tre Paesi del direttorio, erano presenti subito dopo nei giorni successivi alla strage di via Fani. Noi, però, non ne siamo stati investiti per nulla, né mi sembra che le Commissioni d'inchiesta siano mai state chiamate a fare una perlustrazione sul tema. Sarebbe interessante da parte vostra approfondire la questione.

  ILARIA MORONI, direttrice del Centro di documentazione Archivio Flamigni. Continuo nella lettura della relazione del senatore Flamigni: «Il senatore Pellegrino, nell'audizione davanti a questa Commissione, ha riferito della torsione che si evidenzia nella posizione delle BR rispetto a quella tenuta in precedenza. Dopo aver esaltato la collaborazione del prigioniero e proclamato che “tutto sarà reso noto al popolo”, improvvisamente nel comunicato n. 6 Moro è condannato a morte e si afferma che non c’è nulla da rivelare. Va rilevato che la torsione avviene dopo il 10 aprile, giornata cruciale per lo Stato, quando viene pubblicato lo scritto di Moro su Taviani, l'unico brano del memoriale in originale arrivato, ma poi scomparso.
  Che cosa avviene tra il 9 e il 15 aprile ? Era stato avviato un contatto, come alcuni indizi lasciano presumere ? Nella relazione allegata al verbale della riunione plenaria del gruppo operativo e del gruppo informativo presentata dal generale Raffaele Giudice, comandante della Guardia di finanza, ma scritta in precedenza, si può leggere: “Peraltro, poiché sembra che le BR abbiano definito meglio le loro pretese...” (allegato alla riunione del 10 aprile, uno dei due verbali inviati a Pellegrino dal Ministro dell'interno Napolitano). Altro indizio si ricava da un documento proveniente dal SISDE e versato, a seguito della direttiva Prodi, all'Archivio centrale dello Stato, dal quale si evince che il SISDE era a conoscenza il 9 aprile del brano scritto da Moro su Taviani.
  Dobbiamo considerare il contenuto del brano su Taviani. La ricerca di Miguel Gotor ci ha dato un grande aiuto, perché la scoperta da lui compiuta della differenza esistente tra il dattiloscritto del brano copiato da Gallinari e portato da Moretti alla riunione del comitato esecutivo a Firenze e l'originale finale che verrà pubblicato a Roma, fa emergere sedici righe aggiunte nel testo definitivo riferite agli importanti incarichi ministeriali ricoperti da Taviani. Tra essi vanno segnalati in particolare “per la loro importanza il Ministero della difesa e quello dell'interno, tenuti entrambi a lungo con tutti i complessi meccanismi, centri di potere e diramazioni segrete che essi comportano. A questo proposito si può ricordare che l'ammiraglio Henke, divenuto capo del SID” – lo era anche al tempo della strage di Piazza Fontana – “e poi capo di Stato maggiore della difesa, era un suo uomo che aveva a lungo collaborato con lui”. Aveva collaborato anche come suo capo di gabinetto, quando Taviani siglò gli accordi per Gladio. “L'importanza e la delicatezza dei molteplici uffici ricoperti può spiegare il peso che egli ha avuto nel partito e nella politica italiana fino a quando è sembrato uscire di scena. In entrambi i delicati posti ricoperti ha avuto contatti diretti e fiduciari con il mondo americano. Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca ?”.
  Queste erano le parole di Aldo Moro. È un'allusione continua a un concentrato di segreti di Stato. Le BR minacciano di giocare grosso. Dopo lo scritto a Taviani, divulgato dalle BR il 10 aprile, allegato al comunicato n. 5, nessuna lettera di Moro Pag. 24viene più recapitata fino al 20 aprile. Eppure avevano altre grosse carte da giocare. Infatti, Moro aveva scritto anche un brano su Andreotti. I brani del memoriale relativi a Taviani e Andreotti sono consequenziali. Moro li indica, infatti, come i due esponenti democristiani più legati agli americani, ma Taviani è ormai uscito dalla scena politica e non riveste più alcuna carica governativa o istituzionale. Andreotti, viceversa, è il Presidente del Consiglio in carica ed è l'uomo politico italiano più potente. Tuttavia, le BR divulgano lo scritto di Moro sul conto dell'inattuale Taviani, mentre omettono quello ben più importante e grave sul conto di Andreotti. Si tratta di un'incongruenza così macroscopica da prefigurare senza possibili dubbi i torbidi retroscena che sottendono il delitto Moro. Cosa è successo da indurre le BR a rinunciare a pubblicare anche il brano su Andreotti ? Lo scritto di Moro sul conto di Andreotti rimarrà segreto anche dopo l'irruzione degli uomini di Dalla Chiesa in via Monte Nevoso nell'ottobre 1978. Emergerà solo dodici anni più tardi, nel secondo rinvenimento del 1990, proprio in un momento di accesissimi contrasti politici di Andreotti con Craxi e Cossiga e di fibrillazione all'interno dei servizi segreti per le rivelazioni andreottiane a proposito della struttura segreta Gladio.
  Il brano che le BR occultano per proteggere Andreotti è uno dei passi più veementi e critici dell'intero memoriale, per di più ricco di precisi riferimenti. Moro critica aspramente l'incredibile spregiudicatezza di Andreotti nell'esercizio del potere e ne denuncia apertamente il pieno coinvolgimento nello scandalo Italcasse, proprio mentre è in corso l'inchiesta giudiziaria sullo scandalo. Ma lo scritto viene mantenuto segreto e la strategia del sequestro entra in una nuova fase. Torno a porre la domanda: cos’è successo tra il 9 e il 15 aprile per determinare la torsione segnalata da Pellegrino ?
  Anche dal documento di Pieczenik è possibile rilevare la torsione che a un certo momento intervenne nel rapimento di Aldo Moro, un prima e un dopo databili al tempo del comunicato n. 6 del 15 aprile e dopo la lettera con il brano su Taviani, ministro democristiano con un ruolo nella costruzione della rete italiana di Gladio. Il documento è lo schema di una strategia da contrapporre a quella delle BR ed è abbastanza semplice nella sua struttura: individuare la strategia e la tattica delle BR, deprivarla dei punti di forza e contrapporre una strategia uguale e contraria. La parte generale segue questo schema. Le BR sul piano strategico vogliono indebolire e paralizzare il Governo. Dividere la DC ? Basta contrapporre una strategia che dia prestigio al Governo, ne mantenga la funzionalità in tutti i settori, compatti la DC, la sua unità e il suo ruolo di forza di governo.
  La strategia delle BR prevedeva come punti di forza di usare la famiglia contro il Governo, di usare la stampa come cassa di risonanza e di valorizzare la figura di Moro. Quella di Pieczenik prevedeva la messa sotto controllo della famiglia e della stampa, con un pacchetto ben confezionato di notizie ogni giorno, nonché la svalutazione di Moro a figura non più essenziale della vita politica italiana. Quando dal disegno generale si passa a delineare la fase, il periodo concreto, in cui quella tattica deve essere concretizzata, la situazione viene esposta introducendo elementi di grande novità. Vi si afferma che il tempo ora gioca a favore del Governo, mentre prima giocava a favore delle Brigate Rosse.
  Che cosa ha modificato così profondamente i rapporti tra Governo e BR ? Questa modifica della situazione non era certo riconducibile a progressi nel campo delle indagini, considerato che lo stesso documento giudica limitata la possibilità di avere una soluzione di tipo militare per la liberazione di Moro. Quasi ironicamente, Pieczenik scrive che le BR, prima di annientarle, bisogna trovarle e che i servizi segreti e le infiltrazioni non sono efficaci. Un'opzione, questa, scarsamente ipotizzabile.
  Che cos'era intervenuto ? Che cosa aveva modificato la situazione e creato un prima favorevole alle BR e un dopo favorevole Pag. 25al Governo ? Al momento non ci è dato saperlo. I verbali delle riunioni del CIIS, dei comitati di crisi informativo e operativo e delle riunioni degli esperti non si trovano e non è possibile verificare quanto affermato da Pieczenik nelle sue interviste, cioè che a un certo momento la visione del rapimento Moro si modificò. Cambiò l'atteggiamento nei suoi confronti: non era più un rapito da liberare, ma uno strumento della strategia, che non aveva più per priorità la sua liberazione, ma quella di stabilizzare l'Italia, impedendo la vittoria delle BR e l'accesso dei comunisti al Governo. Se la realizzazione di tale strategia comportava la morte di Moro, ciò era considerato un elemento secondario. Per attuare quella strategia era necessario realizzare la prova generale della morte di Moro, come Piecznik scrisse nella sua intervista a Emmanuel Amara. Bisognava preparare l'opinione pubblica con una grande messa in scena, come quella del Lago della Duchessa, e, per altri aspetti, della scoperta del covo di via Gradoli. Secondo Pieczenik, quella strategia aveva come presupposto di abbandonare Moro e fare in modo che morisse con le sue rivelazioni. Per giunta, i Carabinieri e i servizi di sicurezza non lo trovavano o non volevano trovarlo.
  Il documento si compone di cinque fogli. Nei primi due fogli Pieczenik individua la strategia delle BR nel lungo, medio e breve periodo e la loro tattica nella gestione del rapimento Moro. Nelle sue memorie Pieczenik dice che le informazioni per comprendere le BR ed elaborare questa parte gli furono fornite da Cossiga, essendo partito dagli USA privo di informazioni. La documentazione della CIA e del Dipartimento di Stato era di scarso valore e sottovalutava il fenomeno. Individuata la strategia delle BR, il problema era individuare una controstrategia per sconfiggere le BR e la strategia di Pieczenik mostra un modo di pensare abbastanza semplice, binario, di contrapposizione a quella delle BR. Secondo lo schema di Pieczenik, la strategia delle BR si articola in tre obiettivi: sul lungo periodo rendere instabile il sistema politico italiano; nel breve periodo spaccare la DC, che, indebolita, sarebbe costretta ad associare al Governo i comunisti, scatenando la controffensiva della destra; contrapporre e impedire l'azione dei poteri dello Stato, contrapporre e paralizzare il legislativo, l'esecutivo e la magistratura, paralizzare il Governo, la legislazione e l'amministrazione della giustizia, in modo che agli organi dello Stato resti solo l'opzione della repressione e della violenza; nell'immediato, far emergere l'impotenza della DC e la debolezza del Governo.
  La tattica delle BR l'articola in sette punti.
  1) Le BR vogliono tenere prigioniero Moro per un periodo indefinito e valutare il positivo e il negativo. Un sequestro prolungato, indefinito, procura alle BR il vantaggio di mettere in difficoltà il Governo, permanentemente sotto ricatto; provoca ulteriori difficoltà al Governo per la frattura che un sequestro creerebbe nella DC sulla risposta da dare al terrorismo sul piano politico, legislativo e militare, su trattativa e fermezza; e nei rapporti con il PCI, per una sua presenza al Governo, situazione che si creerebbe con un sequestro prolungato. Questa tattica comporta almeno due svantaggi. L'eventuale morte di Moro sarebbe per le BR un fattore controproducente. Un sequestro prolungato porta a un'immagine delle BR impotenti e incapaci di ottenere un risultato e a una diminuzione di attenzione da parte dell'opinione pubblica.
  2) Il secondo elemento di vantaggio per le BR è la contrapposizione fra la famiglia e il Governo, che provoca una divisione tra le forze politiche, trattativisti e fronte della fermezza.
  3) Altro vantaggio delle BR è utilizzare la stampa per pubblicizzarsi ed esaltare il valore del sequestrato, la sua importanza, le sue proposte per mettere in difficoltà il Governo, sottolineandone l'impotenza, come dimostrerebbe l'incapacità a liberarlo, e nell'accrescere l'apprensione dell'opinione pubblica.Pag. 26
  4) È vantaggioso per le BR aumentare il numero delle azioni militari per premere sempre più sul Governo per indurlo a un eventuale scambio.
  5) Sarebbe non solo vantaggioso, ma l’optimum per le BR scambiare Moro con i brigatisti imprigionati. Con ciò otterrebbero di salvarsi la faccia politicamente e la vita fisicamente.
  6) Ipotesi molto diversa, uccidere Moro, a meno che non sia già morto – il documento probabilmente è redatto dopo la condanna a morte di Moro – e, nonostante Moro sia morto, continuare a sfruttarlo come ostaggio, come sequestrato. Questa strategia dell'uccisione avrebbe come vantaggio di mettere in difficoltà il Governo, considerato il grande prestigio di Moro, e come svantaggio il fatto che la morte di Moro non avrebbe nessun reale beneficio per le BR e farebbe loro perdere la possibilità di rendere instabile il Governo.
  7) Procedere a un’escalation, attuare altri rapimenti di persone importanti, come Berlinguer, Cossiga e Andreotti, al fine di determinare la paralisi del Governo e il caos nella vita civile.
  Lo schema di Pieczenik si basa sulla contrapposizione di strategie: ciò che è vantaggioso per le BR non lo è per il Governo e viceversa. Per Pieczenik le BR perseguono l'obiettivo dell'instabilità politica, a cui si contrappone la stabilità politica. Indebolire e discreditare il Governo – accrescere la forza e il prestigio del Governo; spaccare la DC – mantenere unita la DC; tenere sequestrato Moro per un lungo periodo – sequestro possibilmente breve.
  La vita del sequestrato è un vantaggio per le BR ? La morte del sequestrato è controproducente per le BR. La famiglia si contrappone al Governo e alla DC ? Neutralizzare la famiglia. La stampa si interessa delle BR e valorizza Moro ? Mettere sotto controllo la stampa. Aumentare le azioni militari ? Contrastarle.
  Uccidere Moro non arrecherebbe alcun vantaggio alle BR. Sarebbe una soluzione negativa, positiva per gli avversari delle BR. Impedire che il sequestro inneschi un’escalation di rapimenti di persone importanti.
  Una volta individuata la strategia e la tattica, illustra quale deve essere la strategia e la tattica del Governo. Obiettivo delle BR è dividerlo, diminuirne il consenso, metterne a nudo l'impotenza. La strategia del Governo deve essere quella di acquisire prestigio, non cedere al ricatto, tenere una linea di coerenza rispetto alle dichiarazioni fatte in precedenza, difendersi da attacchi armati delle BR, ottenere il rilascio di Moro, dimostrarsi funzionante, cioè attivo, in ogni campo, conservare il controllo dei rapporti con le BR, cioè impedire contatti con le BR ed eventuali trattative che non abbiano per protagonisti soggetti autorizzati dal Governo, impedire contatti e trattative di singoli partiti e organizzazione umanitarie, Vaticano soprattutto.
  La tattica del Governo deve tendere a:
  1) Isolare le BR, sottraendo loro tutti i punti di vantaggio e tutti i soggetti su cui puntano per creare destabilizzazione: la stampa e la radio, la famiglia, le divisioni interne alla DC.
  2) Ridurre l'interesse della stampa verso il caso Moro, fare in modo che la stampa non pubblicizzi le lettere delle BR o altre informazioni che provengono da loro, in modo tale che il Governo abbia sotto il proprio controllo quanto pubblicato dalla stampa relativamente al caso Moro.
  3) La famiglia Moro. Il senso mi sembra questo: adottare una tattica che offra alla famiglia la possibilità di cooperare, lasciarle prendere iniziative per la liberazione di Moro, ma avendone il controllo; offrire la possibilità di cooperare, ma, se rifiuta, isolarla, mettendo bene in chiaro che il Governo non è responsabile della salvezza di Moro, mancando di informazioni complete. In ogni caso, mettere sotto sorveglianza la famiglia con la scusa della sicurezza, ma per ottenere le informazioni di cui può venire in possesso.
  4) Mantenere l'unità della DC e dimostrare che Moro non è indispensabile nell'attività Pag. 27di Governo e nella direzione della DC. In modo unitario nominare un nuovo presidente della DC.
  5) La stampa deve sostenere che Moro non è responsabile di quello che dice e che ha subito il lavaggio del cervello. Ricercare dichiarazioni di amici e colleghi di Moro che affermino quanto egli avesse sostenuto l'attuale Governo.
  6) Abbassare l'intero livello della direzione della crisi, tenere le decisioni lontano da Andreotti e possibilmente da Cossiga, staccare il settore politico-decisionale da quello strategico-operativo.
  Il tutto serve ad aumentare le opzioni tattiche. Agire in puri termini di convenienza operativa, scartando valutazioni politiche ? Quello che si propone è di estromettere il Governo delle decisioni da prendere. Questo può essere coerente con la decisione di non intavolare trattative, neppure segrete, cosa che comportava la morte di Moro.
  I punti 7 e 8 delineano il quadro di una falsa trattativa con le BR condotta da un intermediario sofisticato ed esperto allo scopo di esplorare altre opzioni diverse dallo scambio e cercare di guadagnare tempo. Al centro del falso negoziato non deve essere posto lo scambio di prigionieri, ma la vita dei brigatisti chiusi in carcere in cambio di quella di Moro. Raggiunto lo scopo, essere pronti a sconfessare il mediatore e i risultati da lui raggiunti. Vale a dire: nessuna trattativa per liberare Moro. Ma a che cosa doveva servire il tempo guadagnato ? Nell'intervista ad Amara, Pieczenik dirà che quel tempo doveva servire a Cossiga per riprendere il controllo dei servizi segreti, calmare i militari, imporre la fermezza in una classe politica inquieta, ma quella trattativa, impostata in quel modo, poteva servire anche a creare le condizioni perché i terroristi si trovassero nella condizione di uccidere Moro o assaltare il carcere per liberare i prigionieri. Tenere Moro vivo equivaleva a mettere in pericolo la vita di tutti i brigatisti, quelli in carcere e quelli che fossero stati fatti prigionieri.
  9) Viene fatta una valutazione sui rapporti di forza tra BR e Governo, nella settimana in cui Pieczenik scrive lo schema. Il n. 9 è un punto che in parte contrasta con quanto detto sopra e in parte rende inutile Moro per il Governo e per le BR. È un ostaggio già svalutato. Egli non ha elementi per mettere in crisi o in difficoltà il Governo. Non ha segreti sulla sicurezza nazionale e può solo denunciare il malcostume di singole persone. Rispetto a prima, in cui il tempo giocava a favore dei brigatisti, ora gioca a favore del Governo. Perché questo cambiamento di strategia ? Prima vi era l'ostilità della famiglia (ma l'ostilità continuava; era divenuta ininfluente nella situazione ?) e il timore delle cose che Moro conosceva. Che cosa vuol dire ? Quel prima era riferito al periodo degli interrogatori di Moro, quando poteva fare rivelazioni ?
  Al termine, i brigatisti non fecero rivelazioni. Fu appurato che Moro non aveva segreti politici e militari importanti, ma è credibile per una personalità come Moro ? Il fatto certo è che qualcosa garantiva che i segreti di Moro, se ne aveva, non sarebbero stati rivelati. La famiglia non aveva più la possibilità di interferire nella situazione attivando soggetti che potevano mediare (il Vaticano, Payot) e i segreti di Moro non costituivano un pericolo.
  Si era determinato un cambio profondo di scenario, un prima e un dopo, un periodo prima favorevole alle BR e poi una situazione ribaltata, favorevole al Governo. Nella nuova fase, favorevole al Governo, si chiedeva che questo venisse estromesso dalle decisioni.
  10) Obiettivo delle BR era la contrapposizione tra i poteri dello Stato, quindi se ne propone la collaborazione.
  11) In caso di trattativa, impedire che i brigatisti trovino Paesi che li accolgano.
  12) Opzioni limitate, cioè opzioni che hanno scarse possibilità di riuscita, di successo, vale a dire la liberazione di Moro. Prima bisogna trovare la prigione e poi si può parlare di eliminare le BR e liberare l'ostaggio, lavoro possibile con un adeguato lavoro di intelligence che non è stato fatto o è stato fatto in modo non efficace.Pag. 28
  13) Un'altra opzione è non fare nulla e attendere quello che fanno le BR, che sono alla disperata ricerca di una soluzione, di una trattativa, come dimostrano il continuo invio di lettere – in verità, sono di Moro, non delle BR – e l'avere aperto esse stesse i canali dei contatti. Quindi, vi erano dei canali aperti. Peccato che noi non sappiamo quali erano e cosa vi transitava.
  14) Diffondere tra i prigionieri la voce di un possibile suicidio di massa dei brigatisti prigionieri per indurre i BR liberi ad assaltare il carcere.
  15) Rafforzare le misure di sicurezza attorno ai BR e membri del Governo.
  16) Attivare l'OLP per condannare l'azione delle BR e usare l'OLP come intermediario o fonte di notizie.
  In sostanza, il documento: false trattative, incapacità, non fare nulla. La strategia che Pieczenik delinea è tutta interna al sistema politico italiano. Le BR avevano rapito Moro come dirigente internazionale del SIM, come dirigente di una sua articolazione, quella italiana.

  PRESIDENTE. Se siamo concordi, il senatore Flamigni ci lascerà copia integrale della relazione, che potrà essere allegata al resoconto stenografico, per offrirci ora l'opportunità di fare alcune domande, se ce ne sono, e poi eventualmente riservarci di richiamarlo.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ROCCO PALESE. Il senatore Flamigni ha accennato, in uno degli intermezzi in cui ha preso la parola, alla figura di Mario Moretti. Gli chiedo se può esplicitare, visto che nel corso dell'audizione, tra tante questioni estremamente interessanti, forse non eravamo ancora arrivati a quel punto. Chiedo se può soffermarcisi un attimo.

  SERGIO FLAMIGNI. Su Moretti c’è un brano che avevo preparato, perché è uno dei problemi di fondo. Io ho scritto un libro su di lui, La sfinge delle Brigate Rosse.
  Moretti è certamente un personaggio chiave, perché gode di una fortuna incredibile. Non viene arrestato quando vengono arrestati gli altri. L'operazione dell'infiltrato, frate Mitra, ossia Girotto, si prolunga nel tempo e permette al capitano Pignero dei Carabinieri di fotografare e di pedinare. Pignero fotografa Curcio e Franceschini, che saranno arrestati, ma alla pari fotografa anche Moretti. La documentazione, i risultati del pedinamento e i motivi per cui si riesce a concentrare l'attenzione sui primi due, che vengono arrestati, tradiscono in pieno il fatto che non si faccia nulla per arrestare il terzo, pur avendo tutti gli elementi per compiere l'operazione.
  Questo avviene per il caso di quell'arresto, ma poi un altro dei principali brigatisti, che, dopo l'arresto di Curcio e Franceschini, aveva tutti i meriti per diventare il dirigente delle Brigate Rosse, cioè Semeria – all'epoca era Mara Cagol che godeva di maggiore popolarità, ma dal punto di vista politico lui era abbastanza noto – viene arrestato. L'arresto avviene brutalmente, ad opera del capitano Delfino. Semeria viene ferito gravemente, in una maniera quasi uguale a quella in cui viene uccisa Mara Cagol, con un colpo di traverso, che trafigge i due polmoni. Se hai ancora un polmone, sopravvivi, ma, se tutti e due i polmoni vengono soffocati, muori. Semeria ha avuto la fortuna che non ha avuto la Cagol: con quel colpo solo un polmone è stato colpito, mentre l'altro è rimasto intatto. Allora è stato arrestato e portato in ospedale. Viene, però, eliminata la probabilità che lui potesse diventare il dirigente, il capo delle Brigate Rosse.
  Debbo dire, però, che Semeria ha avuto il tempo per denunciare in Mario Moretti uno dei servizi. Lo diceva apertamente: «Io ritengo che lui sia collegato ai servizi segreti». Lo diceva anche in relazione alle proprie esperienze. Parlava di un covo, di un appartamento che era a disposizione delle Brigate Rosse, che lui credeva fosse – almeno, Moretti glielo aveva garantito – un appartamento di cui ci si poteva fidare, una base positiva. Ebbene, essa venne Pag. 29consegnata e utilizzata da Semeria, ma, poco dopo, egli si accorse che, se non si fosse affrettato a scappare, sarebbe caduto in una trappola. È da lì che partono i suoi sospetti. Nonostante i sospetti, però, non riesce a salvarsi.
  Ci sono diversi episodi che dimostrano una fortuna particolare a favore di Moretti e disgrazie successive per quelli del gruppo storico, i quali, uno alla volta, vengono eliminati tutti. Chi si salva è Moretti.
  Moretti è anche quello che ha militato nell'Hyperion. È stato uno dei militanti del Superclan. Vorrei intrattenermi un minuto sull'argomento. Ho visto che Pellegrino ha sottolineato il carattere nazionale del fenomeno delle Brigate Rosse. È vero. Le Brigate Rosse pescano in Italia, vi mettono le radici e trovano anche il modo di svilupparsi nel territorio nazionale. Teniamo conto, però, che le radici sono tali che a un certo momento una parte non piccola, tutta quella che aveva militato nel Superclan – all'infuori di Moretti e Gallinari, che restano nelle Brigate Rosse – finisce a Parigi, in Francia, e assolverà a una diversa funzione. Nello scritto che vi consegnerò troverete le attività di spionaggio a cui si sono dedicati quelli che saranno in Francia, quelli dell'Hyperion.
  C’è, quindi, un fenomeno nazionale, ma c’è anche una possibilità di infiltrazione. Quando si parla di un'organizzazione di terrorismo, non si sfugge a un'attenzione dei servizi segreti di tutti i Paesi dell'area in cui quel terrorismo vive. Non si fa una frontiera per cui il fenomeno terroristico italiano si chiude dentro i nostri confini. Il terrorismo italiano diventa oggetto di informazione e di osservazione da parte degli altri terrorismi e anche degli altri servizi segreti. Non è un caso che nel 1973 le Brigate Rosse di Curcio, Franceschini e Cagol vengano avvicinate dal Mossad, da un rappresentante di Israele, e che ci sia una trattativa chiara. Ci sono delle offerte molto precise. «Noi siamo d'accordo con voi, vi aiutiamo a fare la rivoluzione», dicono quelli del Mossad e spiegano poi la ragione per cui sono così generosi e disponibili a fornire armi, danaro e campi di addestramento: è nel loro interesse che si faccia la rivoluzione in Italia perché si ha la destabilizzazione e, di conseguenza, gli Stati Uniti nel Mediterraneo avranno bisogno di Israele come base e l'attenzione degli Stati Uniti non potrà che concentrarsi ancora di più su Israele. Fanno capire alle BR che è un'offerta sincera, che ha motivazioni precise di politica internazionale. Quando le BR la esaminano, però, dicono che un domani li avrebbero messi tutti in galera e basta. Rifiutano, quindi, ma il loro rifiuto non impegna quella direzione che viene dopo, perché uno alla volta – anzi, più di uno alla volta – vengono eliminati i fondatori, la parte storica delle Brigate Rosse, mentre c’è, invece, la figura di Moretti che emerge.
  Ci sono due impostazioni, come inizialmente vi era stata la polemica fra due correnti, quella Curcio-Franceschini-Cagol e quella Simioni-Mulinaris. Gli uni puntavano sul dare la prevalenza al collegamento col movimento di massa, con la classe operaia; gli altri puntavano al militarismo, a dare la preferenza all'azione di penetrazione in tutte le organizzazioni dell'estrema sinistra. Occorre avere i propri che si mettano alla testa di queste organizzazioni per sviluppare un'azione militare forte, un'aggressione continua. Difatti, la spaccatura avviene dopo i fatti avvenuti ad Atene. L'attentato all'ambasciata americana ad Atene fallisce perché i due attentatori restano uccisi. Si tratta di un episodio di attentato organizzato da Simioni, che è il capo del Superclan. Simioni aveva tentato prima di coinvolgere in quell'operazione Mara Cagol, che si era rifiutata, perché ne aveva parlato prima con Curcio, che l'aveva dissuasa, anche se lei era favorevole a partecipare a un'azione contro l'ambasciata americana. Ebbene, al momento dell'attentato, per un difetto dell'ordigno esplosivo – il medesimo che si ripeterà quando sarà ucciso Feltrinelli nel traliccio di Segrate, come si scoprirà dopo quel delitto – i due attentatori, Maria Elena Angeloni e uno studente cipriota, saltarono per aria e furono uccisi.
  Ciò determinò una spaccatura, perché Franceschini e Curcio non erano disponibili Pag. 30a portare nella loro organizzazione azioni inconsulte di questa natura, che non producevano nulla di vantaggioso per le Brigate Rosse.
  Del resto, direi che la gestione del caso Sossi da parte di Franceschini e di Mara Cagol, primeggiando quella corrente, dimostra la differenza con la gestione del caso Moro, nella quale, invece, si parte già con un'impostazione sanguinaria. Direi che la differenza delle due posizioni è eloquente. Il modo in cui è maturata questa seconda posizione è la dimostrazione proprio che quella scissione non potesse non avvenire. La seconda posizione è favorita dai servizi segreti. D'Amato li avrebbe potuti arrestare tutti, aveva gli elenchi. Abbiamo anche noi in archivio alcuni documenti delle relazioni che D'Amato presenta al pool di Basilea, all'organizzazione internazionale dei servizi segreti. In quelle relazioni D'Amato dimostra di conoscere tutta l'organizzazione delle Brigate Rosse. Perché, invece, non li arresta ? Perché ci deve essere spazio per questi, probabilmente per essere strumentalizzati.
  Non a caso, io vi ho citato il Field Manual, che è un elemento di strategia sul piano concreto dell'utilizzazione degli infiltrati nelle organizzazioni terroristiche. È un piano di carattere strategico, che si usa a livello internazionale da parte del servizio segreto americano. In Italia ne troviamo l'applicazione pratica.
  Su Moretti ci sarebbe tanto altro da dire. Non voglio sfuggire a un aspetto che è molto importante. A un certo momento, Moretti entra nel traffico internazionale delle armi. Io ho una testimonianza. Riporto in modo preciso, virgolettato, quello che ho potuto registrare da Gidoni, lo skipper della nave Papago, la barca che va in Libano e carica le armi destinate non solo alle Brigate Rosse, ma anche all'IRA, all'ETA, alla RAF. Siamo nel campo del traffico internazionale. Quando si parte dal porto di Numana, in provincia di Ancona – è il porticciolo di cui si servono anche molti turisti – dopo una segnalazione al capo della DIGOS di Ancona («Se volete trovare Moretti, andate nella spiaggia di Numana oppure nel porticciolo dove c’è la nave Papago e lo potete arrestare»), questi predispone giubbotti antiproiettile per i suoi uomini, pronti anche al combattimento. Scendono e vedono gente. Vengono avvicinati, stanno per entrare in azione, ma sono bloccati da un ufficiale dei Carabinieri, che dice che quello è territorio riservato a loro. La Polizia si ritira, ma Moretti non viene arrestato neanche nei giorni successivi. Ebbe la fortuna di poter partire e di poter portare a casa per le Brigate Rosse e anche in Europa, per gli altri gruppi terroristici, un quantitativo di armi non indifferente. Il giudice Mastelloni ha incriminato come partecipanti a quel traffico anche uomini dei servizi segreti italiani. Il nostro Moretti, quindi, era un protetto dei servizi. Lì ne abbiamo la prova precisa: era un protetto. Il colonnello Giovannone verrà rinviato a giudizio in quel processo per essersi prestato. Quei Carabinieri ubbidivano a ordini provenienti dalla branca del servizio segreto che si occupava del traffico delle armi.
  Troveremo ancora Moretti. Una delle ragioni per cui ho fatto il mio discorso su Moretti, che concludo, è affinché voi acquisiate dai servizi segreti tutto ciò che lo riguarda. Ci sono anche intercettazioni telefoniche. Anche Morucci è coinvolto in parte nel traffico relativo al rifornimento di giubbotti antiproiettile. Difatti, nel covo di via Giulio Cesare c’è una ricevuta per aver acquistato una decina di giubbotti antiproiettile. Le intercettazioni telefoniche dimostrano un collegamento di Moretti con le armerie di Di Giacomo a Milano e con altre armerie di Roma, quali la Bonvicini. Siamo a quel livello.
  Questo avviene e non è un caso che ci sia quella generosità nei riguardi di Moretti dopo l'uccisione di Moro. Ho detto soltanto alcune cose di quelle che troverete scritte nel documento.

  GAETANO PIEPOLI. Senatore, ho ascoltato con molto interesse le sue analisi e anche le sue riflessioni, che peraltro Pag. 31completano quello che lei già da tempo aveva sedimentato nei suoi libri e nei suoi scritti.
  Una questione che mi interesserebbe capire, perché è uno degli aspetti meno rilevanti e anche meno appariscenti, è la seguente: qual è la consapevolezza dentro il gruppo dirigente del PCI, in quella fase, di quello che io non ho mai avuto difficoltà a chiamare un vero colpo di Stato esercitato e consumato nel nostro Paese ?

  SERGIO FLAMIGNI. Consideri che il PCI è l'unico partito che si attrezza nella battaglia contro il terrorismo ed è quello che concretamente collabora con gli organi dello Stato per colpire il terrorismo. Ha un suo ufficio apposito. Vi sono coinvolto anch'io. Debbo dire che ha capito per primo il grande pericolo che era rappresentato non solo dalle Brigate Rosse, ma anche da Prima Linea e dalle altre formazioni politiche e, prima, dal terrorismo nero. Durante il periodo della strategia della tensione il Partito comunista aveva promosso l'unità antifascista per fronteggiare il fenomeno. Lo stragismo è stato sconfitto per questo. Il PCI è riuscito a farlo chiamando le forze costituzionali a compiere il loro dovere.
  Quando ci sono state le varie stragi, non c’è stata la paura, non si sono piegate le ginocchia, ma, invece, si è reagito. Pensate alle grandi manifestazioni dopo la strage di Brescia, per esempio. Pensate alla strage dell'Italicus; nonostante si fosse in piena estate, ci sono stati dei sussulti che hanno determinato una crescita della coscienza nazionale.
  Questa visione del pericolo c'era anche quando si è adottata la formula del terrorismo rosso. È un piano preciso quello che dirotta, che cambia di spalla il fucile, per così dire, nel senso che si concentra tutto sulle Brigate Rosse e sul terrorismo rosso. Lo si fa di proposito, per averne vantaggi elettorali, perché bisogna creare una coscienza completamente diversa da quella della fase precedente.
  Purtroppo, in quel momento, il nostro partito non ha trovato sufficiente forza di mobilitazione. C’è stato un notevole ritardo anche a livello della stessa sinistra. Abbiamo avuto delle frange che hanno considerato l'organizzazione delle Brigate Rosse non capendone la gravità sul piano delle istituzioni, della democrazia, della difesa della democrazia, né il pericolo che era rappresentato.
  Io debbo dire che il Partito comunista, a un certo momento, si è dovuto trovare di fronte alla scelta precisa di correre in supporto e in difesa delle organizzazioni che combattevano in prima frontiera. Ho visto un'intervista del colonnello Bozzo, che era braccio destro di Dalla Chiesa per quanto riguarda l'organizzazione del Nord, il quale diceva: «Il Partito comunista è quello che ci ha aiutato. Se non ci fosse stato l'aiuto del Partito comunista, quella battaglia non l'avremmo vinta». Questo è significativo.
  È vero che anche questo avviene soprattutto dopo l'uccisione di Rossa.

  GAETANO PIEPOLI. Mi interessa capire, durante la fase del sequestro Moro, il livello di coscienza anche di notizie, di informazione e di corresponsabilità.

  SERGIO FLAMIGNI. È vero che, purtroppo, le situazioni maturano. Non possiamo dire che il Partito comunista fosse molto addentro alla questione e che potesse conoscere molto di più. Il fatto stesso che io mi dovessi rivolgere a Lettieri e a Mazzola e chiedere a loro è significativo. Quante volte ho incontrato il capo della Polizia e ho dovuto constatare la loro debolezza ? Veramente erano fuori dalla realtà. Annaspavano nel buio. Anche noi non potevamo supplire a quelle deficienze, perché è la democrazia che si è trovata in notevole difficoltà in quel momento, insieme a tutte le forze democratiche.
  Certo, noi siamo stati poi, come partito, quello che ha pagato di più dalla morte di Moro, e non è un caso. Del resto, era contro di noi quell'obiettivo. È chiaro. Lo scopo era far finire una politica di collaborazione tra la Democrazia Cristiana e il PCI. Dopo i fatti del Cile questo era d'obbligo per chi guardasse un po’ avanti, ma ricordo quanto fosse già difficile parlare Pag. 32di compromesso storico, nella prima fase soprattutto. Eppure dovevamo affrontare quel passaggio.

  GAETANO PIEPOLI. In una lettera Moro dice sostanzialmente, a proposito della posizione del PCI: «Va bene, Berlinguer mantenga la linea della fermezza, ma la lasci lì e abbia poi la pratica, la duttilità per il legame, il contatto, con la possibilità di una soluzione». Nel PCI la linea della fermezza è considerata l'unica linea di difesa dello Stato ?

  SERGIO FLAMIGNI. Sì. Debbo dire che nel comitato centrale, quando si discusse, ci furono solo Terracini e Lucio Lombardo Radice, due personaggi che contavano, che si schierarono contro la linea della fermezza. La grande maggioranza, però, fu per la linea della fermezza, perché tutta la componente “partigiana”, che aveva l'esperienza, dava per scontato che non si potesse fare diversamente.

  PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Grassi. Noi possiamo andare avanti fino alle 16.30.

  GERO GRASSI. Io non devo fare una domanda. Voglio fare, invece, una constatazione e una richiesta.
  Il senatore Flamigni ha parlato circa due ore e trenta minuti, argomentando in maniera precisa la vicenda Moro prima, durante e dopo, perché è stato protagonista dei trent'anni successivi. Rispetto ad audizioni già fatte il senatore Flamigni inserisce una serie di novità e di valutazioni opposte e completamente contraddittorie rispetto a quelle svolte da suoi colleghi, magistrati e altri, da noi ascoltati. Io ho la necessità di interloquire parecchio con il senatore Flamigni nel merito di alcuni problemi che lui ha posto. In un'audizione in cui il senatore parla per due ore e trenta – per me va benissimo – noi dobbiamo avere, però, la possibilità di discutere.
  La proposta qual è ? O ci aggiorniamo, oppure, se questa possibilità crea problemi al senatore, potremmo – con riferimento a chi è interessato – fargli pervenire per iscritto, tramite la dottoressa Moroni, delle domande alle quali ci risponderà per iscritto. Ovviamente, noi poi metteremo agli atti le risposte che ci farà pervenire. Io credo, però, che sarebbe una deminutio, almeno per quanto mi riguarda, se il senatore riducesse in tre minuti la risposta. Io vorrei parlare ancora di Moretti, nonché del ruolo che lei ha attribuito alle forze dell'ordine e a chi le presiedeva. Le vorrei chiedere di Matera, del 6 marzo 1978. Le vorrei chiedere di Gladio. Come si fa, però ? Lei è stato un fiume in piena.
  Presidente, dobbiamo avere la possibilità di scavare di più, anche perché vorrei ricordare – lo dico a vantaggio del senatore – che egli è la memoria storica di questi trent'anni.

  PRESIDENTE. Visto che non possiamo tenere il senatore qui segregato per giorni e giorni, prima di rispondere al collega Grassi, darei la parola al senatore Corsini, che credo abbia una domanda meno complessa, al momento. Poi esporrò la mia idea.

  PAOLO CORSINI. Innanzitutto mi associo ai colleghi nel ringraziamento al senatore Flamigni, perché credo che abbia fatto uno sforzo veramente considerevole oggi, peraltro recuperando molti dei dati su cui ha insistito in una serie di pubblicazioni che conosciamo.
  Nella ricostruzione di oggi mi pare che campeggino quattro personaggi, quattro dramatis personae, che sono Kissinger, Pieczenik, Moretti e Hyperion.
  Lei ha tematizzato quella che chiama la questione nazionale del terrorismo. Poi, del tutto coerentemente con l'impostazione che ha sempre dato a questi problemi, ha aperto lo sfondo delle infiltrazioni o comunque delle presenze che rimandano alla dimensione internazionale. Non c’è dubbio che la strategia politica di Aldo Moro sia assolutamente destabilizzante degli equilibri di Yalta. Quel processo di destabilizzazione viene guardato con sospetto e con preoccupazione sia sul versante americano – si può capire, Pag. 33quindi, il ruolo di Kissinger – sia sul versante dei Paesi dell'Est, in modo particolare dell'Unione Sovietica. Sotto questo profilo, se quella ipotesi di lavoro ha un qualche fondamento, e io credo che ce l'abbia, non c’è dubbio che valga la pena di guardare anche nell'altra direzione. Mi riferisco al fatto che l'Unione Sovietica guardi alla politica di Aldo Moro come a una politica di destabilizzazione, tant’è vero che i comunisti rispondono, proponendo prima e insistendo poi con il compromesso storico, perché, per restare comunisti in Occidente, il compromesso storico si tiene con questo progetto. Penso alla direzione di possibili infiltrazioni e di possibili ruoli di servizi segreti e di forze e presenze che rimandano al mondo sovietico.
  Sotto questo profilo, senatore, che cosa può dirci ? Quali sono i riscontri fattuali ? Io ho posto un'ipotesi interpretativa di tipo storico-politico. A lei, invece, chiedo dei possibili riscontri fattuali della veridicità o della verifica di quella ipotesi.

  SERGIO FLAMIGNI. Io non ne ho, per quanto riguarda l'Est europeo. Certo, la Germania orientale ospita elementi della RAF e posso asserire che la RAF abbia rapporti con le Brigate Rosse. Questo è un dato di fatto. Quando mi parlate dell'Unione Sovietica, dire che l'Unione Sovietica...

  PAOLO CORSINI. Per esempio, senatore, si è parlato molto della Cecoslovacchia.

  SERGIO FLAMIGNI. Si è parlato della Cecoslovacchia. Guardiamola in concreto. Sulla Cecoslovacchia si è attribuito a Curcio e Franceschini di essere andati ai campi di addestramento, ma poi si è scoperto che sono stati i nostri servizi segreti che hanno fornito quella informazione. C’è anche l'informazione di autentici nomi che corrispondono ad altre persone: quel Franceschini che si è trovato in Cecoslovacchia non è quello di cui parliamo noi, il capo delle Brigate Rosse, ma un commerciante.
  Io vi riferisco quello che ho di documentabile. Se vi parlo di Kissinger e di quelle dichiarazioni, ne sono sicuro, perché sono scritte. Sono più di una e sono parecchi i testimoni che attestano un suo atteggiamento minaccioso. Ho visto che anche un giornalista famoso come Gorresio de La Stampa, in occasione di quella visita della delegazione italiana, ebbe a parlare con Moro, il quale gli disse – prima di quel famoso incontro minaccioso – che si respirava un'aria molto pesante. Gorresio, rivolgendosi direttamente a Kissinger, lo trovò minaccioso quando si parlava dei comunisti. Gorresio lo interroga e gli chiede che ne pensa della possibilità di una collaborazione con i comunisti. Quando risponde, Kissinger dice che è tutta una manovra, che il compromesso storico non ha valore ed è soltanto un inganno; sarebbe una manovra dei comunisti per andare all'assalto del potere, non per voler collaborare. È una sua teoria, evidentemente.
  Io mi baso su quello che ho studiato, non mi posso inventare notizie per bilanciare. Immagino che ci sia senz'altro qualcosa, perché in una circostanza di quel genere senza dubbio il KGB si sarà messo in moto. Non poteva non farlo. Era d'obbligo, perché aveva il suo rappresentante militare presso l'ambasciata, il quale senza dubbio, almeno sul piano informativo, avrà svolto la sua azione.
  Debbo dire, invece, che uno dei transfughi del KGB che è passato a collaborare con il servizio segreto inglese, interrogato sul delitto Moro, ha dichiarato che quello era stato un colpo contro l'Unione Sovietica, che aveva colpito soprattutto quella corrente che era di simpatia e di collaborazione verso l'Italia. Moro era considerato moderno, avveduto, lungimirante, anche per i trattati commerciali. Il commercio tra Unione Sovietica e Italia, con Moro ministro degli esteri, è stato fortemente incrementato. Da parte della diplomazia sovietica c'era, quindi, un favore. Lo dice un transfuga del KGB, interrogato su questo punto. Ho in archivio la sua dichiarazione scritta, ma non ho elementi per andare oltre.Pag. 34
  So che la politica di Berlinguer dell'eurocomunismo era avversata seriamente da parte del Politburo dell'Unione Sovietica. Penso al giorno in cui venne pubblicato il comunicato dell'ambasciata americana, durante il Governo delle astensioni, che andò in crisi. Eravamo nel periodo in cui si cominciava a discutere per la formazione del nuovo Governo, che sarà partorito come Governo di solidarietà nazionale, con i comunisti nella maggioranza parlamentare. Ricorderete che ci fu un comunicato degli Stati Uniti, del Dipartimento di Stato, contrario. Quello stesso giorno sul Corriere della Sera io rimasi colpito nel leggere, da una parte, la corrispondenza da Washington che comunicava quelle notizie e, dall'altra parte, una corrispondenza da Mosca in cui si metteva in rilievo come il Politburo prendesse posizione netta contro la politica dell'eurocomunismo. È un dato di fatto che sul piano politico la politica di Berlinguer fosse avversata. Non c’è alcun dubbio. Siamo, però, nell'ambito della politica. Nell'ambito dello schieramento terroristico dobbiamo guardare ai fatti per come emergono e dobbiamo considerare quelli che ci sono.

  MARCO CARRA. Intervengo intanto per sottoscrivere i suggerimenti e le proposte che ha avanzato il collega Grassi.
  Vorrei poi ringraziare il senatore Flamigni per tutto quello che ci ha “regalato” nel corso del suo impegno politico-parlamentare su questa particolare vicenda, e non solo.
  Intervengo anche per dire che condivido l'analisi, suffragata da molti fatti, che il senatore Flamigni ha costruito nel corso di questi anni su tutta l'impalcatura di questa vicenda.
  Comunque una domanda sento il bisogno di farla. Anch'io, come Grassi, ribadisco che ne avrei molte altre. Mi piacerebbe sentire in pochi minuti l'opinione del senatore – peraltro, abbiamo già avuto modo di leggerla e di sentirla, ma mi piacerebbe ascoltarla in diretta – relativamente al covo o ai luoghi nei quali il presidente Moro è stato rinchiuso, visto che sul tema è stato scritto e detto molto.

  SERGIO FLAMIGNI. A proposito di questo, debbo dire riguardo a via Montalcini che io non sono convinto che sia stata la prigione di Moro, o la sola prigione di Moro, come affermano i brigatisti. Certamente sono convinto che non sia stata la sola prigione, se è stata la prigione. Abbiamo il parere di soli terroristi. Io sono convinto che sia stata la prigione per pochi giorni.
  Quali sono, quindi, le altre prigioni ? Bisogna considerare se la prigione di via Montalcini fosse precedente il 18 aprile o successiva. A me sembra che si debba dire che sia stata successiva al 18 aprile. Prima del 18 aprile qual era la prigione ? Se era via Montalcini, è stata spostata. È stato individuato il covo di via Gradoli ? Ma nel covo di via Gradoli vi erano reperti. Mi dispiace che tronchiamo la mia relazione dopo la lettura del capitolo 5, ma nella relazione ho dedicato un capitolo, il numero 12, ai reperti di via Gradoli. Avrei bisogno di chiedervi con chiarezza di fare luce su alcune cassette registrate.
  Avrei bisogno gli approfondire, per esempio, la partecipazione di Senzani, perché sono convinto che sia stato partecipe nella vicenda Moro.
  Avrei avuto bisogno di illustrare una serie di fatti che mi hanno impedito di arrivare a scoprire, o di indurre le forze di polizia ad arrivare a scoprire via Monte Nevoso ben prima del 1990. Io ho sollevato il problema ben prima. Ci sono interrogazioni parlamentari, dibattiti con i magistrati, scontri. La vicenda è molto lunga e ci sono responsabilità precise di coloro i quali hanno negato che si facesse un'altra perquisizione. Io avevo chiesto che si facesse un'altra perquisizione. Ci voleva l'abbattimento del muro di Berlino per arrivare ad abbattere un'intercapedine. Non è nemmeno un muricciolo, è proprio una lastra di compensato verniciata, dietro la quale c'erano i manoscritti di Moro. Me l'avevano detto i brigatisti e io ero stato molto attento alle indicazioni che mi avevano fornito. Anche quando diffido e sono convinto che la prigione di via Montalcini Pag. 35non sia stata l'unica prigione, lo dico perché dall'ambito del mondo brigatista emergeva questo.
  Qui c’è anche della negligenza dei magistrati. Lo voglio dire. Per esempio, per via Montalcini si è commesso un grave errore. Il magistrato che arriva prima è Imposimato. Ci sono inquilini che indicano che si è fatta una riunione. Indicano le persone che hanno partecipato a una riunione insieme a un rappresentante dell'UCIGOS. Avrebbero dovuto fare una perquisizione. Gli ufficiali di pubblica sicurezza si erano impegnati a intervenire e a fare un'irruzione in quel covo, ma non l'hanno fatta, perché non hanno agito nella maniera in cui si sarebbe dovuto agire. Quando arriva il magistrato Imposimato e scopre che vi è stata la riunione e gli inquilini gli dicono chi sono coloro che hanno partecipato alla riunione, egli non li interroga tutti, ma solo una parte. Guarda caso, non viene interrogata proprio la proprietaria di quel garage, attiguo a quello dei terroristi, in cui sarebbe stata vista la Renault rossa. Bisognava interrogarla in quel momento. Eravamo nel 1980, quando è stata arrestata la Braghetti, un momento in cui le cose si vedevano. Questa persona viene interpellata soltanto nel 1987 e, quindi, ha già la possibilità di dire che non ricorda. Bisognava interrogare subito tutti. Mi riferisco alla signora Ciccotti, quella che partiva la mattina per Velletri per andare a insegnare e che si trovava a fianco della Braghetti nel garage. Sarebbe stata la mattina del 9 maggio 1978. No, al magistrato dice che questo fatto è capitato da quattro giorni a una settimana prima. Questo cambia le cose. Allora vuol dire che non l'hanno ucciso lì. Era il momento in cui si trasferivano e andavano al Ghetto. Lì c'era probabilmente un'altra base, un'altra prigione.
  Tutto questo lavoro non si è voluto fare. Non c’è stata indagine. Voi potete vedere degli atti e da quelli trarrete senz'altro la conclusione che ho tratto io, ossia che ci sono stati errori che storicamente hanno portato un danno non indifferente.
  A mio avviso, il settore prigioni di Moro è in gran parte da chiarire. Occorre un'indagine specifica.
  Non ho avuto la possibilità di far leggere il brano relativo al Lago della Duchessa, un altro degli aspetti fondamentali che spetta a voi, perché chiarezza in merito non è mai stata fatta. Se non la fate voi, chi la può fare ? Ci vuole un'indagine specifica. Bisogna capire la situazione, da quando Vitalone dichiara che avrebbe fatto il comunicato falso. Io ho parlato con Vitalone, che mi ha detto tutto ciò che aveva raccontato a Cossiga: «Prenditi un po’ di neri, mescolali a un po’ di finti rossi, fai un comunicato falso. Non puoi lasciare il gioco tutto in mano a un solo giocatore. Davanti a una partita di scacchi muovi anche tu le tue pedine. Non farti dominare dal gioco, da uno che muove tutte le pedine. Se ti fai padroneggiare nel gioco, non avrai successo. Bisogna fare un comunicato falso, così si crea un depistaggio». Era un modo per creare confusione nel campo avversario. Probabilmente Vitalone faceva quella proposta in buona fede. Io sono convinto, anzi, dal modo in cui l'ho sentito parlare, che fosse persuaso che si dovesse fare una cosa del genere. Invece questo non avviene. Vitalone dice: «Quando vidi il giudice De Matteo salire sull'elicottero, capii che la mia idea me l'avevano distorta».
  Bisogna chiarire questo punto. Bisogna capire, dal momento in cui Vitalone ha l'idea al momento in cui Chichiarelli fa il comunicato falso, qual è l’iter. I momenti di passaggio bisogna ricostruirli tutti. Allora si vedrà la responsabilità.
  Ci sarà un uomo dei servizi, Musumeci. Panorama l'ha scritto apertamente questo nome, che ritorna nelle vicende terroristiche svariate volte. Condannato a Bologna, entra anche nella vicenda Moro. Bisogna, però documentarlo. Non basta la notizia giornalistica. Io mi sono meravigliato che sia stata smentita, ma come è stata smentita ? Il comando dirigenti del SISMI, quando venne fuori la notizia, smentì dicendo che Musumeci era entrato nel Servizio il 1o luglio del 1978 e che, quindi, quando c’è stato il caso del Lago della Pag. 36Duchessa, egli non poteva entrarci per niente. Invece, è come per Guglielmi. Perché il 1o luglio 1978 ? Perché la stessa legge di riforma del 1977 e il regolamento applicativo avevano stabilito che l'amministrazione del SISMI cominciasse dal 1o luglio 1978, ma tutto il pregresso, che era a nome del SID, rimaneva in piedi.
  Musumeci era in funzione alla centrale del SISMI dal febbraio del 1978. Aveva iniziato ad assumere l'ufficio sicurezza del SISMI. Il fatto che diano una smentita in quella maniera mi conferma che Musumeci vi ha avuto parte, perché quella è una smentita falsa. Anche le bugie, a volte, se ritorte, diventano delle prove. In questo caso, quella per me è una prova.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il senatore Flamigni. Acquisiamo la relazione ampia e vasta, la cui lettura in quest'audizione si è interrotta al capitolo 5, ma che ciascuno di noi potrà leggere per intero anche in allegato al resoconto stenografico. Poi gli chiederemo la cortesia, senza farlo tornare di nuovo in audizione, di risponderci per iscritto. I colleghi avranno modo di fare avere alla presidenza i quesiti che invieremo al senatore, il quale, con tutta tranquillità, potrà approfondire in maniera scritta, evitando un viaggio faticoso. Mi sembra il modo migliore.
  Ricordo ai colleghi della Commissione che sono qui presenti e a quelli che stanno fuori, che noi stiamo facendo un discorso di approfondimento. Il senatore Flamigni ha fatto una sintesi delle sue convinzioni nel corso dei decenni in cui si è occupato in vari ruoli e funzioni di queste vicende. Questa è, dunque, un'audizione importante per acquisire opinioni e fatti. Ci auguriamo che coloro che non condividono opinioni e fatti perché hanno già acquisito la verità, ci vorranno fornire un contributo di dettaglio sulle questioni che non condividono, oltre che all'esterno della Commissione, anche partecipando ai dibattiti della Commissione stessa.
  Grazie. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.30.

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ALLEGATO 1

RELAZIONE DEL SENATORE SERGIO FLAMIGNI

  Ringrazio per la possibilità di riprendere la parola in sede parlamentare sul caso Moro, che dal 16 marzo 1978 divenne il tema principale dei mio impegno parlamentare nell'ultima parte della VII, e durante l'VIII e la IX Legislatura.
  Nell'VIII Legislatura feci parte della Commissione d'inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Non ebbi incarichi direttivi nella Commissione, ma risultai il commissario più presente alle sue sedute.
  Nella IX Legislatura feci parte della Commissione sulla Loggia massonica P2 e in essa dedicai il mio impegno al caso Moro e alla parte che svolsero i piduisti nella vicenda.
  Nella esposizione della mia relazione mi avvalgo anche di citazioni e scritti dei miei libri.

  1. La Commissione poté svolgere un lavoro limitato, soprattutto perché le autorità di governo interpellate non prestarono alla Commissione la dovuta collaborazione e perché la norma stabilita dalla legge sulla non opponibilità del segreto di Stato all'inchiesta della Commissione, non venne rispettata da autorità di governo o chi per loro.
  Circa la mancata o parziale collaborazione dei rappresentanti del governo posso fare l'esempio del Presidente Andreotti: Andreotti renderà noto solo nel marzo 1988 che il Vaticano era riuscito a stabilire un contatto con le Br, e che vi era la disponibilità della Santa Sede a pagare alle Br un ingente «riscatto», ma circa quel contatto, mantenuto segreto per un decennio, non fornisce ulteriori particolari: gli preme solo dimostrare che i veri e concreti tentativi per salvare la vita di Moro vennero compiuti da Paolo VI, non da Craxi e dai socialisti (i quali, a suo giudizio, si limitarono ad «atti agitatori» per smentire la sensazione di non essere sufficientemente solidali con Moro).
  Andreotti non spiegherà perché non accennò ai contatti Vaticano-Br quando il 27 maggio 1980 venne ascoltato dalla Commissione parlamentare, la quale aveva tra l'altro l'obbligo di accertare «quali iniziative od atti siano stati posti in essere da pubbliche autorità, da esponenti politici e da privati cittadini per stabilire contatti diretti o indiretti con i rapitori o con i rappresentanti di movimenti terroristici o presunti tali, durante il sequestro di Aldo Moro, al fine di ottenerne la liberazione. Quali eventuali risultati abbiano dato tali contatti, se ne siano state informate le autorità competenti e quale sia stato l'atteggiamento assunto al riguardo». Né Andreotti motiverà l'analogo silenzio reticente e omissorio tenuto davanti alla Corte d'assise.
  È ovvio che il ventilato riscatto presupponeva un qualche diretto contatto con i rapitori; la giornalista Chiara Valentini chiederà a Andreotti se il Papa fosse riuscito a stabilire un contatto con le Br: «Sì», le risponde Andreotti, «ma non voglio entrare nei particolari». Ma nella vicenda Moro sono proprio «i particolari» a rivelare l'intrecciarsi delle più singolari «coincidenze». Come quella di Alessio Casimirri, uno dei partecipanti alla strage di via Fani, figlio di un alto funzionario del Vaticano (dirigente dell'ufficio stampa della Santa Sede, all'epoca del sequestro): è stato quello «il contatto» tra la Santa Sede e le Br ? Di tutti i brigatisti che presero parte al sequestro, dei quali Morucci ha rivelato i nomi, il solo a essersi sottratto all'arresto è proprio Casimirri, che grazie all'aiuto dei servizi e del clero è sempre latitante e protetto in Nicaragua.Pag. 38
  Circa il mancato rispetto della norma sulla non opponibilità del segreto di Stato all'inchiesta della Commissione o sull'imposizione di segreti di Stato in forma surrettizia, debbo riferirmi al comportamento di Cossiga che riuscì ad occultare alla Commissione il nome e l'attività del consulente americano Steve Pieczenik.
  Nella relazione della prima Commissione sul caso Moro si legge che «il Ministro dell'interno si avvalse anche dell'opera di alcuni consulenti personali: il prof. Franco Ferracuti, ordinario di medicina criminologica e psichiatria forense presso l'Università di Roma; il dottor Stefano Silvestri, esperto in problemi internazionali; il professor Vincenzo Cappelletti, direttore dell'Istituto per l'enciclopedia Treccani; il professor Augusto Ermentini, docente di antropologia criminale».
  Il nome di Steve Pieczenik, principale consulente del ministro, non compare. Eppure era vice assistente del Segretario di Stato e capo del Servizio antiterrorismo del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti; il suo ufficio era stato istituito da Henry Kissinger.
  Cossiga durante la sua audizione in Commissione il 23 maggio 1980, disse in modo lapidario: «Il governo degli Stati Uniti ci ha garantito una qualificata collaborazione a livello di gestione della crisi», ma Cossiga non volle dire chi incarnò quella collaborazione e si preoccupò che fosse mantenuto il segreto sul nome del suo consulente speciale americano.
  Solo verso la fine dei suoi lavori la Commissione apprese che Cossiga durante il sequestro fu assistito da un consulente americano. Nel corso della seduta del 23 gennaio 1983, uno del gruppo dei consulenti di Cossiga, il dottor Stefano Silvestri, studioso di problemi strategici e di politica internazionale, rivelò alla Commissione di avere più volte incontrato al Viminale «un assistente del Sottosegretario di Stato americano che era stato inviato, su richiesta del Governo italiano, per una collaborazione». A domanda, Silvestri ne disse il nome: Steve Pieczhnick, in verità Steve Pieczenik.
  La Commissione non poté prendere conoscenza dell'effettiva collaborazione esplicata da Pieczenik perché i documenti da lui prodotti rimasero segreti per volontà di Cossiga e vennero inviati alla segreteria della Commissione soltanto quando, a seguito dello scioglimento anticipato del Parlamento, la Commissione si affrettava a concludere i propri lavori con l'approvazione della relazione finale.
  I documenti lasciati da Pieczenik saranno conservati dall'ufficio stralcio della Commissione e verranno pubblicati nel volume 122 degli atti della Commissione, edito soltanto nel 1997, diciannove anni dopo.
  Documentazione scomparsa.
  Un altro modo per imporre il segreto di Stato, in barba alla norma sulla non opponibilità di fronte all'inchiesta della Commissione, è stato quello di fare scomparire materiali e documenti importanti per l'inchiesta.
  Scomparve un rullino fotografico con foto scattate immediatamente dopo la strage e prezioso per individuare i testimoni accorsi subito dopo la fuga dei terroristi che rapirono Moro.
  Scomparvero o vennero manipolate bobine dove erano state registrate intercettazioni telefoniche.
  Scomparvero i documenti (verbali, appunti e quant'altro) delle riunioni del Comitato interministeriale Informazioni e Sicurezza, del Cesis, dei comitati di crisi che si riunivano al Viminale.
  La commissione poté acquisire soltanto gli appunti fino al 3 aprile del sottosegretario Nicola Lettieri.
  È scritto nella relazione della Commissione: «Le disposizioni della legge sono state unanimemente interpretate nel senso che la Commissione di inchiesta, piuttosto Pag. 39che accertare elementi di reato, cui deve provvedere invece l'autorità giudiziaria, dovesse esaminare a fondo il funzionamento degli organi dello Stato ed alla fine individuare misure più efficaci per la lotta al terrorismo.»
  Per esaminare a fondo il funzionamento degli organi dello Stato occorreva acquisire però la documentazione di tali organi.
  In primo luogo dovevamo acquisire la documentazione del CIIS, perché come disse Andreotti davanti alla Commissione: «Il Consiglio dei ministri, il 16 marzo, diede l'incarico al Comitato interministeriale per la Sicurezza di seguire con continuità lo sviluppo della crisi, mentre al Ministro dell'interno, coadiuvato da quello della difesa, da quello delle finanze per la Guardia di finanza, fu affidato il compito di coordinare, collegialmente con i responsabili dei settori operativi, tutte le indagini, facendo quotidianamente il punto.»
  Il 23 maggio 1980 Andreotti, durante la sua audizione, rispondendo a domande dei commissari inerenti all'attività dei servizi segreti, fece riferimento ad appunti esistenti presso il CIIS.
  Ma quando il presidente della Commissione scrisse al Presidente del Consiglio Forlani per acquisire la documentazione del CIIS relativamente al periodo del sequestro dell'onorevole Moro, Forlani inviò «il materiale risultante agli atti del CIIS» ed esso consisteva di comunicati Ansa o di altre agenzie, ritagli di giornale contenenti notizie anche di fantasia sulle riunioni del CIIS, ma nessun appunto o verbale o documento inerente alla effettiva attività di gestione della crisi. Dove sono finiti gli appunti della cui esistenza lo stesso Andreotti aveva parlato in Commissione ?
  Per quanto riguarda il Cesis, organo di coordinamento dei servizi facente capo ad Andreotti, la Commissione ha potuto acquisire soltanto il verbale della riunione del 17 marzo. Perché sono scomparsi i verbali delle successive riunioni ?
  A proposito dei comitati costituiti da Cossiga al Viminale, la prima Commissione Moro acquisì soltanto i verbali della riunione di insediamento del Comitato politico tecnico operativo alle ore 11,15 e della seconda riunione, tenuta alle ore 19,30 del 16 marzo. Si aggiungeranno poi gli appunti di Lettieri fino al 3 aprile. Che le riunioni di questo Comitato di coordinamento fossero state tutte verbalizzate ne ebbi conferma dal consigliere Squillante, capo di gabinetto di Cossiga. Una ulteriore prova sarà data dal ritrovamento, nell'archivio della segreteria speciale dell'ufficio di gabinetto del Ministro dell'interno, di due verbali delle riunioni tenute dal Comitato in sede plenaria il 10 e il 14 aprile 1978, inviati nel 1996 dal Ministro dell'interno Napolitano alla Commissione stragi.
  Scomparve anche la documentazione raccolta nella «Sala situazione», istituita al Viminale da Cossiga nominandone direttore il prefetto Guccione (affiliato alla P2), dove affluivano giorno per giorno notizie da tutta Italia dai vari corpi di polizia.
  Perché tanti documenti scomparsi ? Dove sono finiti ? Cosa di tanto indicibile si poteva ricavare da quei documenti ?
  Parlando di documenti mi viene a mente quanto ho letto nella requisitoria della Procura generale sulla risposta di Gelli al regista Martinelli che gli aveva chiesto dell'originale del memoriale di Moro. Ha detto il Venerabile: «La storia si scrive dopo 100 anni, ne sono passati una trentina, abbia pazienza e aspetti il suo tempo».
  Non ritengo sia possibile. Chi si occupa di storia contemporanea e i tanti che pensano che la storia siamo noi, noi che ancora oggi siamo qui a cercare la verità, si aspettano che questa Commissione possa indicare prossimamente la responsabilità della scomparsa dei documenti, la responsabilità di avere aggirato il Parlamento e la sua legge. È stato un presidente del Consiglio o uno dei tanti piduisti dell'alta burocrazia statale o dei dirigenti dei servizi segreti ?
  Il fatto inquietante è la coincidenza che anche al vertice delle Br scomparvero materiali e carte del cosiddetto processo del tribunale del popolo. Dove sono finiti gli Pag. 40originali del memoriale e di altri scritti di Moro ? Le bobine degli interrogatori e le carte dattiloscritte con le domande e le risposte di Moro ? Perché le Br sono venute meno all'impegno di rendere noto tutto al popolo ?
  Io spero che la direttiva Renzi del 22 aprile scorso possa essere interpretata e applicata in questo modo.

2. Gli avvertimenti ricevuti negli Stati Uniti.

  L'ipotesi Guerzoni, di cui ha parlato il senatore Pellegrino, di un delitto in appalto alle Br da parte di forze internazionali alleate, anche se non ha potuto essere verificata, penso debba essere presa in considerazione, perché non è priva di elementi di sostegno.
  La Commissione dell'VIII legislatura dedica un capitolo alle avvisaglie del delitto e la seconda parte del capitolo si intitola «Gli avvertimenti ricevuti in America».
  Nel luglio 1974, durante il suo intervento al Consiglio nazionale democristiano, Moro prospettò con grande prudenza l'eventualità di un nuovo rapporto con l'opposizione comunista. Era dal 1969 che Moro aveva inaugurato quella che venne cautamente definita «strategia dell'attenzione». Egli diceva: «Bisogna avere un atteggiamento chiaro, serio e costruttivo nei confronti del Partito comunista verificando con il maggior impegno la validità delle sue proposte e delle sue critiche e riservando ad esso, nella dialettica democratica e nell'esperienza sociale ben più ampia e profonda che non l'azione di governo, una doverosa attenzione e conversazione» (Il popolo, 20 luglio 1974).
  Benché prudentissime, le parole di Moro accentuarono l'allarme negli ambienti del Dipartimento di Stato americano, mentre da Kissinger veniva invece la richiesta contraria, cioè di una più decisa intransigenza anticomunista.
  Dal 25 al 29 settembre era in programma la visita negli Usa del Presidente della Repubblica Leone e del Ministro degli esteri Aldo Moro.
  Due settimane prima, il «New York Times» pubblicò alcune rivelazioni del direttore della Cia, William Colby, fatte in seduta segreta davanti alla sottocommissione Forze armate del Congresso, a proposito delle attività clandestine della Cia in Cile a sostegno del colpo di Stato costato la vita al legittimo presidente Allende. In 48 cartelle dattiloscritte, Colby descrive con sorprendente sincerità l'attività clandestina in Cile, dal tentativo di comperare i deputati per impedire la ratifica della elezione di Allende da parte del parlamento, al finanziamento di scioperi come quello dei camionisti che paralizzò il Cile per 26 giorni nell'autunno del 1972 colpendo severamente l'economia del Paese. E la testimonianza mette in chiaro che l'attività dell'agenzia è stata preventivamente vagliata e approvata da un comitato speciale allora presieduto da Kissinger. Il suo compito è appunto di «vagliare e autorizzare le attività clandestine della Cia nel corso di riunioni mensili tanto segrete che non vengono redatti verbali».
  «Per Kissinger – è stato scritto, a torto o a ragione – il Cile era un test per vedere se un governo di sinistra democraticamente eletto poteva essere ribaltato mediante la creazione di un caos interno da parte di forze esterne».
  Il 10 settembre il «Washington Post» riportò la seguente frase di Kissinger: «Non vedo perché dobbiamo starcene fermi a guardare un paese diventare comunista per l'irresponsabilità del suo popolo».
  Questo crescendo culminò il 16 settembre con una conferenza stampa del presidente Gerald Ford. Su consiglio di Kissinger, il nuovo presidente americano ammise ufficialmente che l'Amministrazione Usa era intervenuta in Cile, tra il 1970 e il 1973, per favorire il golpe militare del generale Augusto Pinochet contro il legittimo Pag. 41presidente democraticamente eletto, il socialista Salvador Allende: «Abbiamo fatto ciò che gli Stati Uniti fanno per difendere i loro interessi all'estero». Un'ammissione tanto grave quanto significativa: riconosceva apertamente, fino a rivendicarla, l'attività eversiva della Cia per destabilizzare una nazione democratica.
  Il tema Cile e la tempistica (a pochi giorni dall'arrivo a Washington della delegazione italiana) non erano certo casuali: «Fu un'operazione studiata a freddo».
  La prima bordata ci fu il 25 settembre, all'arrivo degli ospiti italiani. Un editoriale sul «Washington Post» così si esprimeva: «La visita giunge in un momento in cui, per la prima volta dopo il 1948, il ruolo del partito comunista nella politica italiana è apertamente discusso tra gli altri partiti». Gli Stati Uniti si attendevano da Leone assicurazioni che non sarebbe avvenuto né l'indebolimento delle tradizionali alleanze dell'Italia postbellica né un rilancio del Pci all'interno.
  Ancora più diretto e inequivocabile il tono, e il contenuto, di un secondo articolo pubblicato dal «New York Times» il 27 settembre, in cui si diceva che Kissinger, testimoniando a porte chiuse davanti al Congresso una settimana prima dell'arrivo di Leone e difendendo l'operato della Cia in Cile (oggetto appunto di indagine parlamentare), aveva affermato sostanzialmente, rivolto alla commissione d'indagine: «Voi ci rimproverate per il comportamento della Cia in Cile, ma siete sicuri che non ci rimproverereste ancora più duramente se noi non facessimo nulla per scongiurare l'ingresso dei comunisti al potere in Italia e in altri paesi dell'Europa occidentale ?».
  Il concetto era molto chiaro. Ma chi aveva passato la notizia al «New York Times» aveva voluto essere chiaro fino in fondo. E il giornale fu così in grado di scrivere che Kissinger da alcune settimane era preoccupato, e che non perdeva occasione per ripetere a ospiti stranieri che la prospettiva di un crollo dell'economia in alcuni paesi dell'Occidente europeo lo angustiava anche perché avrebbe favorito come primo caso in Italia «l'ingresso dei comunisti al potere». Era preoccupato al punto, avevano spiegato al «New York Times» alcuni funzionari del Dipartimento di Stato, che il tono duro usato dal presidente Gerald Ford nei confronti dei paesi produttori di petrolio in un recente discorso tenuto a Detroit era dovuto al timore che la crisi economica portasse, soprattutto in Italia, «alla liquidazione dell'attuale sistema politico». Che Kissinger manifestasse i suoi timori a uomini di Stato amici lo confermava una intervista rilasciata alcuni giorni prima al quotidiano israeliano «Maariv» dal primo ministro d'Israele Itzhak Rabin, appena rientrato a Tel-Aviv dagli Stati Uniti. Partendo dal rincaro crescente del costo del petrolio, Rabin aveva affermato che diverse personalità americane gli avevano fatto presente «il serio pericolo di un governo comunista in Italia e in altre nazioni europee».
  Parlare di governo comunista italiano nel 1974 era fuori dalla realtà e contribuiva ad agitare uno spauracchio inesistente che mirava a ottenere il ricorso a misure segrete di tipo cileno da attuare in Italia per screditare la politica di Moro, che invece si proponeva di allargare la base sociale dello Stato repubblicano attraverso il confronto democratico.
  Il quotidiano romano di destra «Il Tempo» il 28 settembre scrisse: «Il “New York Times” rileva che il segretario di Stato Kissinger avrebbe espresso la sua apprensione per una presa di potere comunista in Italia, nell'incontro della settimana scorsa con i leader congressuali sulle attività della Cia». In tale riunione, precisa ancora il giornale, egli avrebbe difeso la necessità di un'azione segreta del controspionaggio americano malgrado le critiche conseguenti alle sue attività in Cile, «perché se l'Italia diventasse comunista, si direbbe che gli Stati Uniti non hanno fatto abbastanza per salvarla».
  Dopo l'arrivo della delegazione italiana a Washington, Kissinger nel corso di un tesissimo colloquio ribadì con durezza al Ministro degli esteri Moro l'assoluta contrarietà dell'Amministrazione americana a qualsiasi apertura democristiana al Pci, Pag. 42ventilando la revoca di ogni aiuto americano all'economia italiana nel caso la Dc fosse venuta meno alla tradizionale chiusura anticomunista. E tra moniti e divieti, in sostanza il segretario di Stato americano minacciò per l'Italia uno sbocco di tipo cileno. Lo stesso Moro subì minacce dirette ed esplicite, al punto che lo stress nervoso l'indomani gli provocò un malore all'interno della chiesa newyorkese di Saint Patrick.
  La tensione arriva al punto che nell'ultimo colloquio ad alto livello, quello alla Casa Bianca tra Ford e Leone, presenti Kissinger e l'ambasciatore Sensi, il segretario generale della Farnesina Gaia e l'ambasciatore Ortona, Moro è assente. E il 29 sera, con quattro giorni di anticipo sul previsto, è di ritorno a Roma. L'improvviso cambiamento di programma – osservano con scetticismo i giornali – è stato giustificato da motivi di salute. Per una decina di giorni Moro rimane a casa, «ufficialmente malato».
  Secondo Corrado Guerzoni, collaboratore di Moro, il tempestoso colloquio tra Moro e Kissinger era avvenuto alla Blair House, cioè la casa degli ospiti del presidente americano: «Nel corso del pomeriggio vi fu una riunione alla quale intervenne il segretario di Stato Kissinger e si verificò lo scontro proprio perché egli affermò che l'Italia non sarebbe stata aiutata dagli americani a risolvere i propri problemi economici permanendo quella situazione politica e quell'equivoco circa il futuro della posizione italiana. Lo scontro fu talmente forte, aspro e minaccioso dal punto di vista politico, che l'onorevole Moro anticipò il suo rientro, come è ben noto, a causa del malore che lo colpì nella chiesa di Saint Patrick a New York, e anche perché aveva avuto informazione di questo infittirsi dell'atteggiamento polemico degli americani rispetto al quale, a suo giudizio, il resto della delegazione italiana non mostrava chiara comprensione delle difficoltà enormi in cui l'Italia si trovava». Continua Guerzoni: «Moro mi chiamò appena rientrato e mi disse che per alcuni anni si sarebbe ritirato dalla vita politica, cosa che andava detta ai giornalisti. Risposi che mi pareva strano che si dovesse dare una notizia del genere quando in Italia si era alla vigilia, come poi avvenne, di una certa evoluzione politica all'interno della Dc che avrebbe portato alla nomina dell'onorevole Moro a presidente del Consiglio. Egli comunque insistette nella sua intenzione di ritirarsi dalla politica e nell'esigenza di informarne i giornalisti»
  Moro aveva confidato a sua moglie una delle ragioni del proprio turbamento; disse Eleonora Moro davanti alla Commissione: «È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona. Adesso provo a ripeterla come la ricordo: «Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere». La frase era così. È una cosa che a me ha fatto molta impressione. Sono rimasta a meditarci a lungo, da allora in poi».
  Il 16 aprile 1983 Minoli intervista Kissinger per Mixer: «Faccia a faccia» con Henry Kissinger. Minoli: «Ecco, in Italia si è parlato molto dei suoi contrasti con Moro, cosa c'era di vero ?»
  Kissinger: «Beh, questo è ridicolo. Moro ed io avevamo fondamentalmente ottimi rapporti; il suo interesse principale era in politica interna e non estera, quindi non avevamo molto da dirci. Ci sono voci in Italia secondo cui io l'avrei ammonito contro un'apertura a sinistra e il compromesso storico. Non è vero, perché quando io ho conosciuto Moro era il 1974 e solo nel 1977 è stato...».
  Preciso che Kissinger nell'intervista appare imbarazzato e sbaglia perché aveva conosciuto Moro non nel 1974, ma il 27 febbraio 1969, quando giunse a Roma accompagnando il presidente Nixon, come lo stesso Kissinger ricorda nel suo libro «Gli anni della casa bianca» (pagine 93-95). Pochi giorni prima, il 21 febbraio, Moro, Pag. 43intervenendo alla direzione nazionale della Dc, aveva chiesto di avviare una «strategia dell'attenzione» nei confronti del Pci, iniziando un attento confronto con le posizioni del principale partito di opposizione. Questo fatto era stato evidenziato nelle annotazioni che Kissinger aveva preparato per il viaggio di Nixon in Europa, a Roma. Tra il 1969 e il 1974 Kissinger aveva avuto svariati incontri con Moro e tutti dedicati a problemi di politica estera.

3. La preparazione dell'operazione Moro.

  Alla fine del 1974 l'azione del terrorismo nero che aveva alimentato la strategia della tensione non aveva raggiunto i suoi scopi. Miceli disse al giudice Tamburino: «D'ora in avanti sentirete parlare solo degli altri, i rossi».
  Come faceva Miceli a sapere che, dopo l'arresto dei capi Br Curcio e Franceschini, nel momento di massima crisi delle Br, sarebbero invece stati soprattutto i brigatisti rossi a far parlare di sé ?
  Il 18 febbraio 1975 Curcio evase dal carcere di Monferrato. Non si è mai saputo perché Curcio venne trasferito dal carcere alquanto protetto di Novara al carcere di Monferrato, piuttosto sguarnito e facile da assaltare. L'azione venne organizzata da Mara Cagol, che verrà uccisa il 6 giugno 1975, durante il sequestro dell'industriale Vallarino Gancia.
  E questo avveniva dopo le minacce a Moro negli Usa e dopo il ritorno di Moro alla Presidenza del Consiglio.
  Si ha l'impressione che alle Br sia concesso uno spazio libero ma controllato.
  Dopo il forte spostamento a sinistra e la grossa avanzata del Pci nelle elezioni regionali e amministrative del 15 e 16 giugno 1975, Kissinger accoglie quel risultato con sdegno. La strategia della tensione ha prodotto risultati contrari a quelli sperati.
  L'oltranzismo atlantico reagisce e studia il Field Manual 30-31 «Supplemento B» (tra i materiali sequestrati dalla polizia alla figlia di Gelli in arrivo all'aeroporto di Fiumicino e agli atti della commissione P2), un documento «top secret» dell’intelligence americana datato 18 marzo 1970, che definiva il terrorismo «fattore interno stabilizzante» («destabilizzare ai fini di stabilizzare») e teorizzava la necessità della penetrazione nei movimenti eversivi impartendo precise direttive per arrivare a controllare gli stessi «infiltrati» organizzati dagli apparati del Paese amico.
  Per raggiungere questo obiettivo, i servizi di informazioni americani dovevano «cercare di identificare gli agenti infiltrati nel movimento sovversivo [dai] responsabili della sicurezza interna delle organizzazioni governative del Paese ospite, non perdendo di vista l'opportunità di stabilire un controllo segreto da parte dell'Esercito degli Stati Uniti sulle attività di tali agenti», e inoltre dovevano «cercare di permettere l'infiltrazione di agenti affidabili nei livelli di comando dell'eversione, con particolare riguardo ai sistemi di informazioni diretti contro organizzazioni governative del Paese ospite. Non bisogna dimenticare che le informazioni fornite dalle fonti aderenti al movimento sovversivo riguardo al personale delle organizzazioni governative possono essere di grande valore nel determinare la giusta condotta dei servizi di informazioni dell'Esercito e nel suggerire tempestive misure adeguate al perseguimento degli interessi degli Stati Uniti».
  Era dunque esplicitamente teorizzato il proposito di strumentalizzare le forze eversive anche contro il governo del Paese alleato; il servizio segreto americano mirava essenzialmente a essere informato ai livelli di comando dell'organizzazione eversiva, in modo da anticiparne le mosse oppure di condizionarle o addirittura di assecondarle qualora la loro azione coincidesse con l'interesse degli Stati Uniti; una tecnica che coincide alla perfezione con lo svolgersi del delitto Moro.Pag. 44
  La P2 adeguò la propria strategia come attestano i suoi documenti: il «piano di rinascita» e «il memorandum».
  Nel luglio 1975 il comando generale dell'Arma dei Carabinieri decise di sciogliere il nucleo antiterrorismo creato a Torino dal generale Dalla Chiesa.
  Questa fu una decisione inspiegabile a fronte della notevole crescita del terrorismo. Durante la campagna elettorale era stato sequestrato da parte dei Nuclei armati proletari il dottor Giuseppe Di Gennaro, della Direzione delle carceri, mentre le Br avevano gambizzato il Dc Massimo De Carolis. Il terrorismo tinto di rosso faceva comodo agli oltranzisti atlantici.
  Nell'estate del 1975 il capo dell'Ufficio D del Sid, generale Gianadelio Maletti (poi affiliato alla P2), aveva inviato al Viminale un rapporto informando che le Br erano impegnate in un tentativo di riorganizzazione «sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, costituito da persone insospettabili, anche per censo e per cultura», che si apprestavano a tornare in azione «con programmi più cruenti», che la «nuova organizzazione partiva con il proposito esplicito di sparare», e che erano in corso addestramenti «per sparare alle gambe». Il rapporto del generale Maletti era stato redatto sulla base delle informazioni fornite al Sid dagli infiltrati nelle Br.
  Nel dicembre 1975 Moretti si reca a Roma e affitta l'appartamento di via Gradoli, che viene occupato da Franco Bonisoli e Carla Brioschi, brigatisti venuti da Milano, che iniziano un'inchiesta su Aldo Moro. Per dirla con il linguaggio dell'ipotesi Guerzoni, l'appalto dell'operazione Moro era già stato affidato alle Br.
  A gennaio ’76 Curcio verrà nuovamente arrestato e ferito. Gli arresti di Curcio e Franceschini e l'uccisione della Cagol servirono a cambiare direzione alle Br.
  Aveva detto Federico D'Amato, che era il rappresentante delle forze di sicurezza nella Nato: «Li conosciamo tutti uno per uno questi delle Br»; ma non li fece arrestare. Curcio finì in galera perché bisognava garantire il cambio di direzione e collocare Moretti al vertice.
  In funzione dell'operazione Moro a Roma, Moretti guida la formazione della colonna romana delle Br: nel 1976 e 1977 è un susseguirsi di attentati.
  È menzognero dire che Moro non aveva preoccupazioni; in effetti, Moro aveva espresso più volte forti preoccupazioni, fin dal rapimento di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi Francesco (5 aprile-15 maggio 1977). E già allora l'agenzia giornalistica «Op» di Mino Pecorelli (vicina ai servizi segreti e alla loggia massonica segreta P2) aveva pubblicato la nota «Allarme a Roma: si teme il sequestro di un uomo politico». Datata 28 aprile 1977, la nota chiamava in causa il Ministro dell'interno («Se Cossiga c’è, cerchi di non dormire»).
  Il fatto che Moro e la sua scorta fossero privi di una macchina blindata evidenziava una insufficienza di protezione che Andreotti tentò di minimizzare affermando: «Cossiga [mi] ha smentito nella maniera più netta che Moro avesse chiesto l'auto blindata.»
  Nel novembre 1977 le Br sparano e feriscono l'onorevole Publio Fiori, dirigente regionale della DC, e scrivono sul muro della zona dell'attentato: «Oggi Fiori domani Moro». È la fase in cui Le Br stanno preparando il sequestro di Moro. Dopo quella scritta penso sia ingiustificabile che non si sia provveduto a fornire a Moro e alla sua scorta la macchina blindata, anche se Moro non ne avesse fatto richiesta. Ricordo che il 16 marzo, mentre stavo per entrare alla Camera in piazza Montecitorio, l'onorevole Darida scendeva dalla macchina blindata del Ministero dell'interno.
  Vi consegno un documento della polizia scientifica: «Oggi Fiori domani Moro» (Allegato n. 1, che verrà consegnato alla Commissione).
  Di quella scritta si parlò a novembre del 1977 e la polizia scientifica venne inviata a fare i rilievi il 17 marzo 1978.Pag. 45
  Dopo Sossi e soprattutto dopo Coco si capiva che le Br miravano più in alto con l'obbiettivo di uccidere.
  Lo dichiaravano esplicitamente nel Quaderno n. 4 diffuso nell'autunno del 1977, in cui si esaltava il sequestro Schleyer da parte della Raf in Germania. Scrivevano di colpire la Dc nei suoi organi centrali. Miravano al vertice.
  Nei documenti Br si dice che il valore strategico dell'obiettivo è dato dal suo livello politico.

4. La strage di via Fani.

  Nella requisitoria della Procura generale è contenuta una ricostruzione lucida della strage di via Fani. È documentata con chiarezza la fallacia di quanto raccontato da Morucci e da Moretti. È evidenziata la presenza nel teatro delle operazioni, del colonnello Guglielmi, addestratore a capo Marrargiu anche di tecniche dell'imboscata.
  A oggi quindi è certo che i brigatisti hanno mentito sulla dinamica dell'agguato, che non è stato accertato il numero di coloro che davvero hanno sparato, che si è sparato dal lato destro per eliminare per primo il maresciallo Leonardi, che è innegabile la presenza della moto Honda.
  Voglio segnalare alla Commissione qualche elemento che potrebbe aggiungersi e arricchire il teatro delle operazioni descritto nella requisitoria.
  Carlo D'Adamo (Cfr. «Chi ha ammazzato l'agente Iozzino. Lo Stato in via Fani», Allegato n. 2, che verrà consegnato alla Commissione) ha indagato sulle auto presenti in via Fani, sul luogo dell'eccidio, la mattina del 16 marzo e non gli sono mancate le sorprese. Interessa qui segnalare quello che egli dice in riferimento in modo particolare a due auto. Anzitutto la Austin Morris, di colore blu, targata Roma T 50350 parcheggiata al posto del furgone del fioraio Spiriticchio che da un anno tutte le mattine parcheggiava in quell'angolo e che quella mattina non era potuto giungere sul posto perché aveva trovato il furgone con tutte e quattro le gomme squarciate.
  Quell'auto parcheggiata proprio in quel posto contribuì alla riuscita dell'agguato dei brigatisti.
  Quell'auto risulta intestata alla società «Poggio delle Rose», società costituita con le modalità delle società dei servizi che aveva sede in piazza della Libertà 10 dove aveva sede anche la FIDREV, società che gestiva l'organizzazione logistica e amministrativa del SISDE e di cui ho avuto modo di scrivere nel libro «Il covo di Stato». L'atto costitutivo della società fu stipulato a Roma il 24 febbraio 1971 (n. di repertorio 101074) dal dottor Vittorio Squillaci, già funzionario del Viminale e poi notaio dei Servizi.
  L'altra auto, una Mini Minor di colore verde con tetto nero con targa Roma T 32330, era intestata a Tullio Moscardi, che era un ex ufficiale dei nuotatori/paracadutisti della Decima MAS ed a Firenze era stato un reclutatore di sabotatori per il gruppo Vega, una unità speciale di Stay Behind. Tullio Moscardi abitava in quel periodo proprio in via Fani n. 109 ma la sua residenza risultava, come il suo recapito, in via del Corso 504, dov'era la sede legale della Edilgiemme Immobiliare, di cui era proprietario.
  Sempre in via Fani 109 vi era un ufficio della società Impresandex di cui era proprietaria Licia Pastore Stocchi, sorella del dirigente di Capo Marrargiu, Fernando Pastore Stocchi dove si addestravano anche gli uomini di Gladio e moglie di Bruno Barbaro, gestore di attività di copertura dei servizi.
  Pochi giorni dopo il 21 marzo si svolse l'operazione «Smeraldo» per liberare Moro dalla prigione che si riteneva di avere individuata all'altezza del km. 47 della via Aurelia, operazione tenuta nascosta da Cossiga alla Commissione perché Pag. 46coinvolgeva reparti legati a Gladio. L'informazione sulla prigione di Moro nei pressi del km. 47 dell'Aurelia era stata fornita dal capo del Sismi generale Santovito e non approdò a nessun risultato, come tante altre da lui fornite.
  Quell'operazione era la replica di una esercitazione svoltasi la notte del 12 febbraio 1978 a Magliano Sabina, Monte Soratte indetta dal Raggruppamento Unità speciali Stay Behind cioè Gladio. Questa parte dell'esercitazione aveva lo stesso nome: Smeraldo. Ne furono comandanti operativi il maggiore Calcagnile (Smeraldo) e Vittorio Biasin (Rubino), gli stessi dell'operazione Smeraldo di Cossiga. Nell'esercitazione del 12 febbraio furono implicati nelle manovre il SIOS (Servizio Informazioni Operative e Situazione) dei Carabinieri con sede a La Spezia, lo Stato Maggiore di Roma, gli incursori della Marina (COMSUBIN), il «Gruppo Guglielmi» e un elicottero abilitato al volo notturno e dotato di armamento per azioni a bassa quota. Di questa esercitazione i giornali «Famiglia Cristiana» e «Liberazione» e la trasmissione di Rai tre «Primo Piano» hanno pubblicato alcuni documenti.
  Aggiungo infine un particolare di cui scrissi fin dalla prima edizione de «La tela del ragno»: in via Fani, compiuta la strage, il commando dei terroristi fu agevolato, nella fuga, da una sospetta coincidenza: una volante della polizia, che stazionava come ogni mattina, a quell'ora, in via Bitossi angolo via Massimi, in attesa di scortare il giudice Walter Celentano nel consueto tragitto dalla sua abitazione verso il tribunale, ricevette l'ordine di accorrere immediatamente in via Fani; questo consentì ai brigatisti di giungere indisturbati in via Bitossi, dove era parcheggiato un furgone Fiat 850 che, secondo Morucci, conteneva una cassa di legno dove rinchiudere Moro.

4. Durante i 55 giorni.

  Il 20 marzo 1978 partecipai, in rappresentanza del Pci assieme al senatore Pecchioli e al dottor Violante, alla riunione a Palazzo Chigi degli esperti della maggioranza parlamentare per mettere a punto le norme del decreto antiterrorismo. Fu approvato l'indomani dal Consiglio dei ministri.
  Il 16 marzo avevamo notato gravi carenze sul piano operativo del Governo e degli apparati dello Stato. Appreso della strage, il Ministro dell'interno ordinò di bloccare la città, ma non esisteva alcun piano per bloccare la città.
  Dal Viminale il dottor Fariello, con fonogramma alle Questure e distretti di polizia e commissariati, ordina l'applicazione del piano Zero, piano in vigore solo nella provincia di Sassari. Il Presidente del Consiglio fece appello al massimo coordinamento delle forze di polizia ma non esistevano norme guida per il coordinamento. Il Presidente del Consiglio propose al Consiglio dei ministri di mobilitare l'esercito.
  Il 20 marzo a Palazzo Chigi proposi di anticipare nel decreto le norme già concordate dal Comitato parlamentare ristretto per la riforma della polizia, formato dai rappresentanti di tutti i partiti: il repubblicano Mammì, presidente di quel comitato ristretto, fu d'accordo. Vitalone e Mazzola invece assunsero una posizione contraria a nome della Dc. Contrario anche Reggiani del Psdi. A nome del Governo diede parere contrario anche Cossiga secondo il quale non si poteva fare perché i Carabinieri erano contrari. Pecchioli disse: «Ma date la direzione del coordinamento a un operatore gradito all'Arma dei Carabinieri. Non c’è tempo da perdere !». Purtroppo non se ne fece nulla. Si discusse molto delle nuove norme penali che avevano valore se i brigatisti venivano catturati.
  Come venne risolto il problema del coordinamento ? Con le riunioni del Cesis presiedute da Andreotti e con i cosiddetti Comitati di crisi costituiti al Viminale da Cossiga il quale affidò in particolare al Comitato politico tecnico operativo il compito del coordinamento delle forze di polizia e di sicurezza, esigenza che ad avviso della Commissione Moro restò del tutto insoddisfatta.Pag. 47
  «A giudizio della Commissione, la lezione che si può ricavare da come ha lavorato il Comitato è che così non si può e non si deve fare il coordinamento dell'attività delle forze di polizia: in effetti il Comitato non ha coordinato niente, e si è piuttosto rivelato come la sede nella quale si riversarono le frustrazioni derivanti dagli insuccessi».
  Solo dopo l'uccisione di Moro si misero in atto forme di coordinamento a direzione unica. Prima l'incarico speciale al generale Dalla Chiesa che istituiva i nuclei speciali antiterrorismo. In 20 giorni il generale mise a segno il blitz di via Monte Nevoso con l'arresto di mezzo comitato esecutivo e di una decina di brigatisti di stanza a Milano.
  Non è vero che le forze di polizia fossero impreparate durante i 55 giorni. Quei 230 effettivi tra Carabinieri, Pubblica sicurezza, Guardia di finanza e ufficiali dei Servizi erano tutti in servizio anche il 16 marzo e durante i 55 giorni, ma mancavano di aggregazione e coordinamento. Ancora prima di mobilitare l'esercito come venne proposto dal Presidente del Consiglio o di preoccuparsi delle misure da parata occorreva selezionare i migliori ufficiali di polizia giudiziaria e i migliori esperti di indagini dei tre corpi di polizia, i migliori ricercatori nel campo delle informazioni, dotarli di adeguati mezzi tecnici e di supporto, affidarli ad una unica guida per il coordinamento dell'attività volta alla liberazione di Moro.
  Il 15 dicembre 1979 il Ministro dell'interno Rognoni decretò l'entrata in vigore delle norma sul coordinamento concordate nel Comitato parlamentare per la riforma di polizia e che il Pci e Pri avevano chiesto fin dal 20 marzo 1978. La Commissione parlamentare scrivendo la sua relazione conclusiva citerà l'esempio della liberazione del generale Dozier come risultato dell'effettivo coordinamento delle indagini assicurato dal decreto Rognoni.
  Quindi all'interno delle forze di polizia vi erano esperienze e capacità di lotta contro il terrorismo, come avevano dimostrato i primi successi contro le Br, con gli arresti di Curcio e Franceschini da parte dell'organizzazione antiterrorismo creata dal generale Dalla Chiesa in Piemonte nel 1974, dopo il sequestro Sossi, organizzazione sciolta inspiegabilmente dal Comando generale dell'Arma nel luglio 1975.
  Sempre nel 1974 era stato costituito l'Ispettorato antiterrorismo che sotto la direzione dell'ispettore generale Santillo si organizzò in nuclei e squadre regionali; questa organizzazione ottenne successi sia contro il terrorismo nero sia contro quello rosso, riuscendo a sgominare l'organizzazione dei Nap.
  La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione dell'Ispettore generale Santillo il 1o giugno 1974, sia stato, nel pieno «boom» del terrorismo, disciolto a gennaio del 1978, e perché non ne siano stati utilizzati l'esperienza organizzativa ed il personale addetto. L'Ispettorato, rinominato Servizio di sicurezza (Sds), con la sua struttura agile e snella venne sciolto proprio quando era divenuto oggetto di attacchi da parte delle Br.
  Durante i 55 giorni ebbi incontri con Lettieri e Mazzola, con il capo della Polizia Parlato, una volta anche con Cossiga e ebbi sempre la sensazione che brancolassero nel buio. Ne ebbi la certezza quando il commissario Belisario che lavorava alla Criminalpol venne incaricato da Cossiga di recarsi in Olanda per ben due volte ad interpellare il paragnosta Croiset e farsi dire dov'era Moro.
  Parlato mi disse: «Siamo senza occhi e senza orecchie» lamentando il fatto che i servizi non gli fornivano notizie valide, per cui la Polizia e i Carabinieri giravano a vuoto.
  Seppi da Mazzola che nel Comitato di coordinamento erano insorti dei dissensi tra i rappresentanti dei servizi informativi e quelli operativi per cui si arrivò alla decisione di tenere riunioni separate e intercalate da riunioni plenarie comuni del gruppo operativo e del gruppo informativo.
  Altro diverbio è esistito all'interno del Cesis tra il suo segretario prefetto Napoletano e i capi dei Servizi Santovito e Grassini, dissenso che causò le dimissioni Pag. 48del prefetto Napoletano e la sua sostituzione con il prefetto Pelosi. Quando scoppiò lo scandalo della P2 e tutti tre erano negli elenchi di Gelli si capì la ragione vera della diatriba con il prefetto Napoletano: la lotta di potere della loggia massonica per avere il controllo totale dei servizi segreti. È un caso in cui emerge una responsabilità del Presidente del Consiglio Andreotti che, ben conoscendo le qualità di Napoletano da lui nominato segretario del Cesis, ne accolse le dimissioni senza il necessario chiarimento.
  Avevo occasione di incontrare anche operatori di polizia: funzionari, ufficiali, sottufficiali, agenti di Pubblica sicurezza. Ricordo che il personale della polizia si impegnò con grande spirito di sacrificio nell'esecuzione delle operazioni a cui veniva comandato, sottoponendosi a massacranti turni di lavoro, rinunciando al riposo settimanale, accettando volontariamente di compiere turni di lavoro straordinario non retribuito come tale. Questo soprattutto fino al 10 aprile, da quando si registrò una sensibile diminuzione nelle operazioni di ricerca della prigione. Ho sentito ufficiali di polizia dire: «Questi, Moro non lo vogliono trovare». Erano quelli che, convinti che la prigione di Moro fosse a Roma o nelle immediate vicinanze, criticavano ogni spostamento fuori provincia. Riferii al sottosegretario Lettieri. Mi disse che il Comitato mandava le forze di polizia a seconda delle indicazioni dei servizi o a seguito di informazioni vagliate dai corpi di polizia. «Il generale Santovito, direttore del Sismi, ad esempio, ci ha portato la notizia che Moro era prigioniero in un cascinale della provincia di Grosseto. È stata organizzata una operazione con l'impiego di 1000 uomini ma il risultato è stato nullo. Come nessun riscontro ha avuto la notizia fornitaci ai primi giorni del sequestro e sempre da fonte attendibile di Santovito, che Moro è stato trasportato in Grecia con una nave».
  Il contributo dato dal Sismi e dai servizi fu nullo.
  I 55 giorni furono giorni di sconfitta per tutte le forze dell'ordine. Non ci fu un solo giorno di gloria: in 55 giorni venne arrestato un solo brigatista, Cristoforo Piancone, a Torino, perché durante l'attentato all'agente di custodia Lorenzo Cotugno questi prima di cadere ucciso riuscì a ferirlo con un colpo di pistola e quindi dovette essere ricoverato in ospedale.
  Durante i 55 giorni non solo mancò il coordinamento delle forze di polizia ma fu impotente anche la magistratura, che venne portata a rimorchio dal potere esecutivo.
  La relazione della prima Commissione Moro ha espresso un giudizio assai severo sull'azione della magistratura inquirente romana: «Lungi dal sentirsi completamente coinvolta, assumendone la direzione e esercitando un ruolo propulsivo, la magistratura inquirente romana è sembrata quasi come estraniata dalle indagini e comunque portata a rimorchio».
  Il principio costituzionale dell'indipendenza della magistratura durante il caso Moro non venne rispettato. Dopo il sequestro il procuratore capo della Repubblica De Matteo dichiarò alla Tv che per adempiere con sollecitudine ai tanti compiti richiesti dalle indagini avrebbe costituito un pool di magistrati, ma poi nulla fece di quanto annunciato e il giudice di turno, Infelisi, venne lasciato solo in un ufficio privo di telefono, costretto a recarsi nel corridoio della Procura per telefonare da un apparecchio a gettoni. Questo egli disse alla Commissione Moro. Di quell'audizione ricordo anche che Infelisi, sapendo della presenza a Roma, al Viminale, di funzionari della polizia tedesca aveva chiesto di avere i risultati della loro collaborazione, ma ricevette un netto rifiuto.
  Sulla collaborazione straniera e sui suoi effettivi risultati la prima Commissione non ha potuto dire nulla. Nei primi giorni successivi alla strage di via Fani fu accertata la presenza di funzionari dei servizi di sicurezza e forze di polizia alleati.Pag. 49
  Il 19 marzo in una corrispondenza dal Viminale del Tg1 si ribadiva che nessuna notizia, nessuna informazione, veniva data ai mezzi di informazione se non conferme dei collegamenti internazionali dei terroristi italiani e della presenza di tedeschi in via Fani.
  Contemporaneamente i telegiornali informavano dell'arrivo di 30 uomini dell'antiterrorismo tedesco, notizia confermata dal Ministro degli interni della Germania il giorno successivo, giorno in cui giunsero anche due esperti dell'antiterrorismo inglese.
  Nei giorni successivi alla strage anche il Mossad, il potente servizio segreto di Israele, aveva offerto la sua collaborazione.
  Però la Commissione parlamentare non venne mai informata della effettiva collaborazione delle forze di sicurezza alleate.
  Ha scritto il giudice Rosario Priore: «Il governo italiano venne quasi subito esautorato di ogni potere nella gestione del sequestro, perché il caso era stato avocato a sé dalla rete Gladio della Nato. Rete che in quel momento era gestita da un direttorio composto da Germania federale, Francia e Gran Bretagna. Non dimentichiamo che, proprio per le caratteristiche del personaggio Moro e per le conoscenze anche documentali di cui poteva disporre, una sua eventuale collaborazione con i carcerieri avrebbe potuto mettere a repentaglio segreti militari sensibili e lo stesso sistema difensivo atlantico. Sarebbe interessante ricostruire tutte le fasi del lavoro svolto da quel «direttorio» durante i 55 giorni del sequestro». (Cfr «Intrigo internazionale», pag.189. Allegato n. 3, che verrà consegnato alla Commissione).
  Ecco, questo è un compito che spetta a voi.

5. Br e Pieczenik.

  Il senatore Pellegrino nell'audizione davanti a questa Commissione ha riferito della torsione che si evidenzia nella posizione delle Br enunciata il 15 aprile rispetto a quella tenuta in precedenza. Dopo aver esaltato la collaborazione del prigioniero in precedenti comunicati e proclamato che «tutto sarà reso noto al popolo» improvvisamente nel comunicato n. 6, appunto il 15 aprile, Moro è condannato a morte, e si afferma che non c’è nulla da rivelare.
  Va rilevato che la torsione avviene dopo il 10 aprile, giornata cruciale per lo Stato, quando viene pubblicato lo scritto di Moro su Taviani, l'unico brano del memoriale in originale arrivato, ma poi scomparso.
  Che cosa avviene fra il 9 e il 15 aprile ? Era stato avviato un contatto come alcuni indizi lasciano presumere ? Nella relazione allegata al verbale della riunione plenaria del gruppo operativo e del gruppo informativo, presentata dal generale Raffaele Giudice, comandante della Guardia di finanza, ma scritta in precedenza, si può leggere: «Peraltro, poiché sembra che le B.R. abbiano definito meglio le loro pretese» (allegato al verbale della riunione del 10 aprile, uno dei due verbali inviati a Pellegrino dal Ministro dell'interno Napolitano). Altro indizio si ricava da un documento proveniente dal Sisde e versato, a seguito della direttiva Prodi, all'archivio centrale dello Stato, dal quale si evince che il Sisde era a conoscenza, il 9 aprile, del brano scritto da Moro su Taviani.
  Dobbiamo considerare il contenuto del brano su Taviani. Per questo la ricerca di Miguel Gotor ci ha dato un grande aiuto: perché la scoperta di Gotor della differenza esistente tra il dattiloscritto del brano copiato da Gallinari e portato da Moretti alla riunione del comitato esecutivo a Firenze, e l'originale finale che verrà pubblicato a Roma, fa emergere 16 righe aggiunte nel testo definitivo, riferite agli importanti incarichi ministeriali ricoperti da Taviani, in particolare «per la loro importanza il Ministero della difesa e quello dell'interno, tenuti entrambi a lungo con Pag. 50tutti i complessi meccanismi, centri di potere e diramazioni segrete che essi comportano. A questo proposito si può ricordare che l'ammiraglio Henke, divenuto capo del Sid» (e lo era anche al tempo della strage di piazza Fontana) «e poi capo di Stato Maggiore della Difesa, era un suo uomo che aveva a lungo collaborato con lui» (anche come suo capo di Gabinetto quando Taviani siglò gli accordi per Gladio). «L'importanza e la delicatezza dei molteplici uffici ricoperti può spiegare il peso che egli ha avuto nel partito e nella politica italiana, fino a quando è sembrato uscire di scena. In entrambi i delicati posti ricoperti ha avuto contatti diretti e fiduciari con il mondo americano. Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca ? Aldo Moro».
  È una allusione continua a un concentrato di segreti di Stato. Le Br minacciano di giocare grosso.
  Dopo lo scritto a Taviani divulgato dalle Br il 10 aprile, allegato al comunicato n. 5, nessuna lettera di Moro viene più recapitata fino al 20 aprile. Eppure avevano altre grosse carte da giocare. Infatti Moro aveva scritto anche un brano su Andreotti.
  I brani del memoriale relativi a Taviani e Andreotti sono consequenziali: Moro li indica infatti come i due esponenti democristiani più legati agli americani. Ma Taviani è ormai uscito dalla scena politica, e non riveste più alcuna carica governativa o istituzionale; Andreotti, viceversa, è il Presidente del Consiglio in carica ed è l'uomo politico italiano più potente. E tuttavia, le Br divulgano lo scritto di Moro sul conto dell'inattuale Taviani, mentre omettono quello ben più importante e grave sul conto di Andreotti.
  Si tratta di una incongruenza così macroscopica da prefigurare senza possibili dubbi i torbidi retroscena che sottendono il delitto Moro.
  Cosa è successo da indurre le Br a rinunciare a pubblicare anche il brano su Andreotti ?
  Lo scritto di Moro sul conto di Andreotti rimarrà segreto anche dopo l'irruzione degli uomini di Dalla Chiesa in via Monte Nevoso, nell'ottobre 1978; emergerà solo dodici anni più tardi, nel secondo rinvenimento del 1990, proprio in un momento di accesissimi contrasti politici di Andreotti con Craxi e Cossiga, e di fibrillazione all'interno dei servizi segreti per le rivelazioni andreottiane a proposito della struttura segreta Gladio.
  Il brano che le Br occultano per «proteggere» Andreotti è uno dei passi più veementi e critici dell'intero memoriale, per di più ricco di precisi riferimenti. Moro critica aspramente la «incredibile spregiudicatezza» di Andreotti nell'esercizio del potere, e ne denuncia apertamente il pieno coinvolgimento nello scandalo Italcasse, proprio mentre è in corso l'inchiesta giudiziaria sullo scandalo. Ma lo scritto viene mantenuto segreto e la strategia del sequestro entra in una nuova fase.
  Torno a porre la domanda: cosa è successo tra il 9 e il 15 aprile per determinare la torsione segnalata da Pellegrino ?
  Anche dal documento di Pieczenik è possibile rilevare la torsione che a un certo momento intervenne nel rapimento di Aldo Moro. Un prima e un dopo databile al tempo del comunicato n. 6 del 15 aprile e dopo la lettera con il pezzo su Taviani, ministro democristiano con un ruolo nella costruzione della rete italiana di Gladio.
  Il documento è lo schema di una strategia da contrapporre a quella delle Br ed è abbastanza semplice nella sua struttura.
  Individuare la strategia e la tattica delle Br, deprivarla dei punti di forza e contrapporre una strategia uguale e contraria.
  La parte generale segue questo schema: le Br sul piano strategico vogliono indebolire e paralizzare il governo ? Dividere la Dc ? Basta contrapporre una strategia che dia prestigio al governo, ne mantenga la funzionalità in tutti i settori, compatti la Dc, la sua unità e il suo ruolo di forza di governo.Pag. 51
  La strategia delle Br prevedeva come punti di forza di usare la famiglia contro il governo, di usare la stampa come cassa di risonanza e valorizzare la figura di Moro; quella di Pieczenik prevedeva la messa sotto controllo della famiglia e della stampa con «un pacchetto ben confezionato di notizie ogni giorno», nonché la svalutazione di Moro a figura non più essenziale della vita politica italiana.
  Quando dal disegno generale si passa a delineare la fase, il periodo concreto in cui la tattica deve essere concretizzata, la situazione viene esposta introducendo elementi di grande novità. Vi si afferma che il tempo ora gioca a favore del governo mentre prima giocava a favore delle Brigate rosse.
  Che cosa ha modificato così profondamente i rapporti fra governo e Br ? Questa modifica della situazione non parrebbe riconducibile a progressi nel campo delle indagini, considerato che lo stesso documento giudica limitata la possibilità di avere una soluzione di tipo militare per la liberazione di Moro e quasi ironicamente Pieczenik scrive che le Br prima di annientarle bisogna trovarle e i servizi segreti e le infiltrazioni non sono efficaci. Un'opzione questa scarsamente ipotizzabile.
  Che cosa era intervenuto ? Che cosa aveva modificato la situazione, creato un prima favorevole alle Br e un dopo favorevole al governo ? Al momento non ci è dato saperlo. I verbali delle riunioni del CIIS, dei comitati di crisi (informativo e operativo) e delle riunioni degli esperti non si trovano e non è possibile verificare quanto affermato da Pieczenik nelle sue interviste, cioè che ad un certo momento la visione del rapimento Moro si modificò, cambiò l'atteggiamento nei suoi confronti: non era più un rapito da liberare, ma uno strumento della strategia, che non aveva più per priorità la sua liberazione ma quella di stabilizzare l'Italia impedendo la vittoria delle Br e l'accesso dei comunisti al governo e se la realizzazione di questa strategia comportava la morte di Moro, ciò era considerato un elemento secondario.
  Per realizzare questa strategia era necessario realizzare la prova generale della morte di Moro, come Pieczenik scrisse nella sua intervista a Emanuel Amara: bisognava preparare l'opinione pubblica con una grande messa in scena come quella del Lago della Duchessa, amplificata dalla contemporanea scoperta del covo di via Gradoli.
  Secondo Pieczenik questa strategia aveva come presupposto di «abbandonare Moro e fare in modo che morisse con le sue rivelazioni. Per giunta, i Carabinieri e i servizi di sicurezza non lo trovavano o non volevano trovarlo».
  Il documento (Allegato n. 4, che verrà consegnato alla Commissione) si compone di cinque fogli. Nei primi due fogli Pieczenik individua la strategia delle Br nel lungo, medio e breve periodo e la loro tattica nella gestione del rapimento Moro. Nelle sua intervista dice che le informazioni per comprendere le Br e elaborare questa parte gli furono fornite da Cossiga, essendo partito dagli USA privo di informazioni, e che la documentazione della CIA e del Dipartimento di Stato era di scarso valore e sottovalutava il fenomeno.
  Individuata la strategia delle Br, il problema era individuare una contro strategia per sconfiggere le Br e la strategia di Pieczenik mostra un modo di pensare abbastanza semplice, binario, di contrapposizione a quella delle Br.
  Secondo lo schema di Pieczenik la strategia delle Br si articola in tre obiettivi:
   sul lungo periodo rendere instabile il sistema politico italiano;
   nel breve spaccare la Dc, che indebolita sarebbe costretta ad associare al governo i comunisti scatenando la controffensiva della destra;
   contrapporre e impedire l'azione dei poteri dello Stato, contrapporre e paralizzare il legislativo e l'esecutivo e la magistratura; paralizzare il governo, la legislazione e l'amministrazione della giustizia in modo che agli organi dello Stato resti solo l'opzione della repressione e della violenza;
   nell'immediato far emergere l'impotenza della Dc e la debolezza del governo.Pag. 52
  La tattica delle Br la articola in 7 punti.
   1) Le Br vogliono tener prigioniero Moro per un periodo indefinito e valutare il positivo e il negativo.
  Un sequestro prolungato, indefinito procura alle Br il vantaggio di mettere in difficoltà il governo permanentemente sotto ricatto; crea ulteriori difficoltà al governo per la frattura che un sequestro creerebbe nella Dc sulla risposta da dare al terrorismo sul piano politico, legislativo e militare, su trattativa e fermezza; nei rapporti col Pci per una sua presenza al governo, situazione che si creerebbe con un sequestro prolungato.
  Questa tattica comporta almeno due svantaggi: l'eventuale morte di Moro sarebbe per le Br un fattore controproducente e un sequestro prolungato porta ad una immagine delle Br impotenti e incapaci di ottenere un risultato e porta a una diminuzione di attenzione da parte dell'opinione pubblica.
   2) Il secondo elemento di vantaggio per le Br è la contrapposizione fra la famiglia e il governo che provoca una divisione fra le forze politiche: trattativisti e fronte della fermezza.
   3) Altro vantaggio delle Br è utilizzare la stampa per pubblicizzarsi e esaltare il valore del sequestrato, la sua importanza, le sue proposte, per mettere in difficoltà il governo sottolineandone l'impotenza come dimostrerebbe l'incapacità a liberarlo, e nell'accrescere l'apprensione dell'opinione pubblica.
   4) È vantaggioso per le Br aumentare il numero delle azioni militari per premere sempre più sul governo per indurlo ad un eventuale scambio.
   5) Sarebbe non solo vantaggioso ma l'optimum per le Br scambiare Moro con brigatisti imprigionati, con ciò otterrebbero di salvarsi la faccia politicamente e la vita fisicamente.
   6) Ipotesi molto diversa uccidere Moro, a meno che non sia già morto (il documento probabilmente è redatto dopo la condanna a morte di Moro) e nonostante Moro sia morto continuare a sfruttarlo come ostaggio, come sequestrato.
  Questa strategia dell'uccisione avrebbe come vantaggio di mettere in difficoltà il governo, considerato il grande prestigio di Moro, e come svantaggio il fatto che la morte di Moro non avrebbe nessun reale beneficio per le Br e farebbe perdere loro la possibilità di rendere instabile il governo.
   7) Procedere ad una escalation, attuare altri rapimenti di persone importanti come Berlinguer, Cossiga e Andreotti, al fine di determinare la paralisi del governo e il caos nella vita civile.
  Lo schema di Pieczenik si basa sulla contrapposizione di strategie: ciò che è vantaggioso per le Br non lo è per il governo e viceversa. Per Pieczenik le Br perseguono l'obiettivo dell'instabilità politica, a cui si contrappone la stabilità politica; indebolire e discreditare il governo, accrescere la forza e il prestigio del governo; spaccare la Dc, mantenere unita la Dc; tenere sequestrato Moro per un lungo periodo; sequestro possibilmente breve; la vita del sequestrato è un vantaggio per le Br, la morte del sequestrato è controproducente per le Br.
  La famiglia si contrappone al governo, alla Dc, neutralizzare la famiglia.
  La stampa si interessa delle Br e valorizza Moro; mettere sotto controllo la stampa.
  Aumentare le azioni militari; contrastarle.
  Uccidere Moro non arrecherebbe alcun vantaggio alle Br, sarebbe una soluzione negativa, positiva per gli avversari delle Br; impedire che il sequestro inneschi una escalation di rapimenti di persone importanti.
  Una volta individuata la strategia e la tattica, illustra quale deve essere la strategia e la tattica del governo.
  Obiettivo: diminuire il consenso alle Br, metterne a nudo l'impotenza.Pag. 53
  La strategia del governo deve essere quella di acquisire prestigio, non cedere al ricatto, tenere una linea di coerenza rispetto alle dichiarazioni fatte in precedenza; difendersi da attacchi armati delle Br.
  Ottenere il rilascio di Moro; dimostrarsi funzionante, cioè attivo in ogni campo; conservare il controllo dei rapporti con le Br, cioè impedire contatti con le Br e eventuali trattative che non abbiano per protagonisti soggetti autorizzati dal governo; impedire contatti e trattative di singoli partiti, organizzazioni umanitarie, Vaticano soprattutto.
  La tattica del governo deve tendere a:
   1) Isolare le Br sottraendo loro tutti i punti di vantaggio, tutti i soggetti su cui puntano per creare destabilizzazione: la stampa e radio, la famiglia; le divisioni tra i Dc.
   2) Ridurre l'interesse della stampa verso il caso Moro, fare in modo che la stampa non pubblicizzi le lettere delle Br o altre informazioni che provengono da esse; in modo tale che il governo abbia sotto il proprio controllo quanto pubblicato dalla stampa relativamente al caso Moro.
   3) La famiglia Moro; il senso mi sembra questo: adottare una tattica che offra alla famiglia la possibilità di cooperare, lasciarle prendere iniziative per la liberazione di Moro ma avendone il controllo; offrire la possibilità di cooperare ma se rifiuta isolarla, mettendo ben in chiaro che il governo non è responsabile della salvezza di Moro, mancando di informazioni complete; in ogni caso mettere sotto sorveglianza la famiglia con la scusa della sicurezza ma per ottenere le informazioni di cui può venire in possesso.
   4) Mantenere l'unità della Dc e dimostrare che Moro non è indispensabile nell'attività di governo e nella direzione della Dc; in modo unitario nominare un nuovo presidente della Dc.
   5) La stampa deve sostenere che Moro non è responsabile di quello che dice, ha subito il lavaggio del cervello, ricercare dichiarazioni di amici e colleghi di Moro che dicano quanto egli avesse sostenuto l'attuale governo.
   6) Abbassare l'intero livello della direzione della crisi: tenere le decisioni lontano da Andreotti e possibilmente da Cossiga, staccare il settore politico decisionale da quello strategico operativo. Il tutto serve ad aumentare le opzioni tattiche.
  Questa equivoca proposta di Pieczenik mi dice che egli vuole l'avallo alla sua strategia che è quella, poi adottata, di indurre le Br a uccidere Moro e per questo è opportuno «tenere le decisioni lontano da Andreotti e possibilmente da Cossiga». Poiché la strategia e la tattica di Pieczenik sono state quelle effettivamente messe in pratica, chiedo: è credibile che Andreotti e Cossiga, esponenti del settore politico decisionale italiano, siano rimasti estranei o si siano fatti estromettere ?
   I punti 7) e 8) delineano il quadro di una falsa trattativa con le Br condotta da un intermediario sofisticato ed esperto, allo scopo di esplorare altre opzioni diverse dallo scambio e cercare di guadagnare tempo. Al centro di questo falso negoziato non deve essere posto lo scambio di prigionieri, ma la vita dei brigatisti chiusi in carcere, in cambio di quella di Moro. Raggiunto lo scopo, essere pronti a sconfessare il mediatore e i risultati da lui raggiunti.
  Vale a dire nessuna trattativa per liberare Moro. Ma a che cosa doveva servire il tempo guadagnato ?
  Nell'intervista ad Amara, Pieczenik dirà che quel tempo doveva servire a Cossiga per riprendere il controllo dei servizi segreti, calmare i militari, imporre la fermezza in una classe politica inquieta, ma quella trattativa impostata in quel modo poteva servire anche a creare le condizioni perché i terroristi si trovassero nella condizione Pag. 54di uccidere Moro o assaltare il carcere per liberare i prigionieri. Tenere Moro vivo equivaleva a mettere in pericolo la vita di tutti i brigatisti, quelli in carcere e quelli che fossero stati fatti prigionieri.
   9) Viene fatta una valutazione sui rapporti di forza fra Br e governo nella settimana in cui Pieczenik scrive lo schema. Il n. 9 è un punto che in parte contrasta con quanto detto sopra e in parte rende inutile Moro per il governo e le Br: è un ostaggio già svalutato, egli non ha elementi per mettere in crisi o in difficoltà il governo; non ha segreti sulla sicurezza nazionale e può solo denunciare il malcostume di singole persone; rispetto a prima (ma quale prima ?) in cui il tempo giocava a favore dei brigatisti, ora gioca a favore del governo; perché di questo cambiamento di strategia, prima vi era l'ostilità della famiglia (ma l'ostilità continuava, l'ostilità era divenuta ininfluente sulla situazione ?) e il timore delle cose che Moro conosceva.
  Cosa vuol dire ? Quel prima era riferito al periodo degli interrogatori di Moro, quando Moro poteva fare rivelazioni; al termine i brigatisti non fecero rivelazioni; fu appurato che Moro non aveva segreti politici e militari importanti: ma è credibile per una personalità come Moro ? Il fatto certo è che qualcosa garantiva che i segreti di Moro, se segreti aveva, non sarebbero stati rivelati. La famiglia non aveva più la possibilità di interferire nella situazione attivando soggetti che potevano mediare, il Vaticano, Payot, etc, e i segreti di Moro non costituivano un pericolo. Si era determinato un cambio profondo di scenario, un prima e un dopo, un periodo prima favorevole alle Br e poi una situazione ribaltata favorevole al governo e nella nuova fase favorevole al governo, si chiedeva che questo venisse estromesso dalle decisioni.
   10) Obiettivo delle Br era la contrapposizione fra i poteri dello Stato quindi se ne propone la collaborazione.
   11) In caso di trattativa, impedire che i brigatisti trovino paesi che li accolgano.
   12) Opzioni limitate, cioè opzioni che hanno scarse possibilità di riuscita, di successo, vale a dire la liberazione di Moro; prima bisogna trovare la prigione e poi si può parlare di eliminare le Br e liberare l'ostaggio; lavoro possibile con un adeguato lavoro di intelligence che non è stato fatto o è stato fatto in modo non efficace.
   13) Un'altra opzione è non fare nulla e attendere quello che fanno le Br, che sono alla disperata ricerca di una soluzione, di una trattativa, come dimostrano il continuo invio di lettere (in verità sono di Moro, non delle Br) e per «aver aperto essi stessi i canali dei contatti». Quindi vi erano dei canali aperti, peccato che noi non sappiamo quali erano e che cosa vi transitava.
   14) Diffondere tra i prigionieri la voce di un possibile suicidio di massa dei brigatisti prigionieri per indurre i Br liberi ad assaltare il carcere.
   15) Rafforzare le misure di sicurezza attorno ai Br e membri del governo.
   16) Attivare l'OLP per condannare l'azione delle Br e usare l'OLP come intermediario o fonte di notizie.
  La strategia che Pieczenik delinea è tutta interna al sistema politico italiano. Le Br avevano rapito Moro come dirigente internazionale del SIM (stato imperialista delle multinazionali), come dirigente di una sua articolazione, quella italiana.

6. Hyperion e Moretti.

  Chi considera le Br un fenomeno nazionale, endogeno come diceva Cossiga, non deve trascurare alcune sue peculiari caratteristiche e vicende che hanno permesso alle Br di compiere il delitto Moro, delitto di grande valenza internazionale.
  Fin dalla fase di formazione nelle Br erano presenti due tendenze: una sosteneva che bisognava partire dai movimenti, dalle lotte per costruire l'organizzazione, l'altra Pag. 55al contrario sosteneva che bisognava costruire l'organizzazione per usare e guidare i movimenti. Questa seconda posizione accentuava l'aspetto clandestino, segreto dell'organizzazione ed era la posizione di Simioni; la prima invece era sostenuta da Franceschini, Curcio e la Cagol. Mentre sosteneva la segretezza della nascente organizzazione guerrigliera, Simioni intratteneva rapporti con professionisti della provocazione quali Cavallo e Dotti e a quest'ultimo, nella primavera 1970, fece consegnare dalla Cagol le schede biografiche degli aderenti all'organizzazione segreta «guerrigliera». Dotti era il braccio destro di Edgardo Sogno, che in quel momento stava creando i comitati di Resistenza democratica per impedire in ogni modo ai comunisti di accedere al governo del paese. Edgardo Sogno, nel 1971 aveva depositato presso il notaio milanese Alessandro Guasti «un giuramento, sottoscritto – verbalmente – da 20 ufficiali dell'Esercito» che li impegnava a uccidere gli esponenti politici dei partiti democratici che si fossero macchiati di «collaborazionismo» con il Pci.
  Nel settembre 1970, dopo l'attentato di Atene, organizzato da Simioni, costato la vita ai due attentatori, Maria Elena Angeloni e uno studente cipriota, Curcio e Franceschini, considerato che la nascente organizzazione rischiava di essere coinvolta in operazioni di cui non sapevano nulla, decisero di separarsi e di procedere per proprio conto. Simioni diede vita ad un gruppo che doveva essere superclandestino, supersegreto e fu poi denominato «Superclan», al quale aderirono fra gli altri Troiano, Berio, Mulinaris, Gallinari e anche Moretti. Moretti e Gallinari rientrarono poi nelle Br. Il gruppo era segreto ma non per il SID, che lo nomina in un suo rapporto, e ne era a conoscenza anche il capo della squadra politica di Milano, Allegra. Nonostante fosse noto fin dalla costituzione delle Br, nella seconda metà degli anni Settanta non ci furono indagini su Simioni.
  Nel 1974, quando furono organizzati i nuclei antiterrorismo di Santillo e Dalla Chiesa, quest'ultimo, con l'infiltrazione di frate Mitra (Girotto), arrestò Curcio e Franceschini, ma non Moretti che delle Brigate Rosse divenne il capo. Egli diede un orientamento all'organizzazione che per verticismo, segretezza e indirizzo in senso militarista somigliava molto all'organizzazione teorizzata da Simioni. Questi teorizzava e induceva i suoi gregari a praticare la superclandestinità, come infiltrarsi in tutte le formazioni dell'estrema sinistra e operare per prenderne la guida. A un certo punto, a seguito di inchieste giudiziarie, Simioni e altri del Superclan (Mulinaris, Salvoni, Berio, Troiano e altri) si trasferirono in Francia dove costituirono l'Associazione Agorà e poi Hyperion, che gestiva una scuola di lingue di cui divenne presidente Françoise Marie Tuscher, nipote dell'Abbé Pierre, eroe della Resistenza francese e protettore della scuola e dei suoi promotori e professori. È da notare la facilità con cui i servizi di sicurezza francesi rilasciano il nulla osta per l'apertura di una scuola dove si raggruppano latitanti perseguiti dalla giustizia italiana. Una scuola che attraverso l'Abbé Pierre poteva accedere ai più alti piani del Parlamento, della burocrazia e del governo francese.
  All'inizio del 1978 l'Hyperion aprì due sedi a Roma e una a Milano; Simioni, Mulinari e Berio erano spesso in Italia.
  Scopo di quelle sedi era quello di organizzare viaggi di istruzione a Parigi, ma gli operatori culturali e turistici che entrarono in contatto con i professori dell'Hyperion ne lamentarono la scarsa professionalità, l'incompetenza. Altra attività che gestirono fu quella di raccogliere abbonamenti per le riviste: Ordine Pubblico, Nuova Polizia, Riforma dello Stato, di scarsa redditività ma utili per mostrare un tesserino di autorizzazione che equivocamente permetteva loro di farsi passare per poliziotti.
  Quando ci fu l'eccidio di via Fani e il rapimento di Moro, fra i ricercati venne inserita anche la foto del latitante Innocente Salvoni, assieme a quelle dei Br Moretti, Gallinari, Azzolini, Bonisoli, Micaletto e di altri latitanti; Salvoni era uno del Superclan Pag. 56e uno dei fondatori dell'Hyperion di cui era presidente Françoise Tuscher; nella foto di Salvoni due testimoni hanno riconosciuto uno di quelli che sparavano in via Fani. A quel punto, il potente prelato francese Abbé Pierre (zio di Françoise Tuscher, moglie di Salvoni) si recò in visita a piazza del Gesù, nella sede della Dc, dopodiché il colonnello Antonio Cornacchia (affiliato alla P2) provvide a dichiarare «infondate» le due testimonianze a carico di Innocente Salvoni.
  A tale proposito sottolineo la necessità, come ha fatto il senatore Pellegrino, che la Commissione guardi dentro alle carte del procedimento Moro sexies, che è stato archiviato. Ricordo che quel processo era stato aperto dal giudice De Crescenzo per il caso Salvoni e il caso Puccinelli - La Bruna - via Gradoli. Puccinelli era un informatore del capitano La Bruna del SID e dopo il sequestro di Moro aveva telefonato più volte da Francoforte a La Bruna dicendogli di mandare i Carabinieri o la Polizia in via Gradoli dove stavano quelli che avevano rapito Moro, in un edificio dove era collocata un'antenna che serviva ai rapitori per comunicare con i loro compagni del Nord, mediante un ponte radio collocato nella valle del Salto. La Bruna (P2), all'epoca sospeso dal servizio a seguito di una condanna penale, si sarebbe recato dal generale Grassini (P2), capo del Sisde, che però non l'avrebbe ricevuto, così come altri ufficiali e funzionari non l'avrebbero ascoltato. Il sostituto procuratore De Crescenzo voleva vederci chiaro sia sul caso Salvoni sia sulla vicenda che portava a via Gradoli. Però De Crescenzo venne promosso e quindi trasferito e l'inchiesta passò a Ionta, ma poi non abbiamo saputo più nulla. Come ha riferito Pellegrino, Ionta si è poi occupato della moto Honda presente in via Fani e della mancata estradizione di Casimirri dal Nicaragua. A proposito dell'estradizione di Casimirri osservo che aveva ragione Giovanni Moro nel criticare il nostro Governo che ha deciso la cancellazione di tutti i debiti del Nicaragua senza porre sul tavolo l'estradizione di Casimirri.
  Ma torniamo all'Hyperion.
  Appena concluso il sequestro Moro le sedi dell'Hyperion di Milano e Roma furono chiuse. Con il procedere delle indagini sul terrorismo in Francia si andò consolidando una rete che permetteva agli imputati di banda armata di espatriare e di proteggerne la latitanza in Francia. A Parigi si costituirà addirittura una colonna delle Br e a Parigi verranno decisi l'esecuzione di delitti come quello del senatore Ruffilli.
  Nel 1979 il giudice Pietro Calogero aprì un'indagine sull'Hyperion nel contesto di una pista investigativa che univa l'area dell'Autonomia, Toni Negri, gruppi eversivi della sinistra francese e le Brigate rosse. Fu il Sisde a far fallire quell'indagine. Calogero in un'intervista ha raccontato quell'indagine e gli ostacoli che incontrò e che gli impedirono di portarla in porto. Saputo che Mulinaris faceva parte dell'Hyperion inviò il commissario De Sena a investigare e grazie alla collaborazione della polizia francese, furono fatte delle intercettazioni telefoniche e si apprese che Hyperion aveva una seconda sede in una villa a Rouen, in Normandia. Tentarono di fare intercettazioni telefoniche e ambientali ma non vi riuscirono perché la villa era protetta da un triplice anello concentrico di sensori molto sofisticati; si trattava di una struttura superprotetta che indicava la presenza di un servizio segreto internazionale.
  De Sena e gli inquirenti francesi avevano pure scoperto che Hyperion aveva sedi anche a Bruxelles e a Londra. De Sena si recò in questa città per indagare. Rivoltosi a Scotland Yard, quando rientrò si vide l'appartamento messo a soqquadro: un chiaro avvertimento dell'ufficio di polizia londinese che non intendeva collaborare; Calogero fece rientrare il suo collaboratore.
  Mentre erano in corso le indagini, il 24 aprile 1979, un dirigente del Sisde italiano fece pubblicare dal Corriere della Sera, all'epoca in mano alla P2, un articolo dal titolo «Secondo i servizi segreti era a Parigi il quartier generale delle Br» in cui si facevano i nomi di Mulinaris e di Berio. In seguito a questa divulgazione di notizie la polizia francese cessò la collaborazione con la polizia italiana e l'indagine si arenò.Pag. 57
  Quella notizia fu trasmessa dalla radio e l'ex brigatista Galati che si trovava in macchina con Moretti ha raccontato del turbamento che colse Moretti nell'apprenderla. Moretti era incredulo e temeva la compromissione dei rapporti internazionali delle Br. Le testimonianze di Galati e poi di altri brigatisti ci informano dei rapporti con Hyperion tenuti in esclusiva da Moretti mentre l'organizzazione ne era all'oscuro.
  Nel 1982 in seguito alle dichiarazioni di Galati e Savasta sui rapporti fra Moretti e l'Hyperion, i magistrati di Roma, Padova e Venezia indagarono su un traffico di armi fra Libano, Cipro e Veneto e scoprirono che le Br si rifornivano di armi attraverso una struttura di Parigi, l'Hyperion, in contatto con movimenti di liberazione del Medio Oriente e organizzazioni terroriste europee nonché in contatto con i servizi italiani e in grado di fornire protezione ai latitanti.
  Contro queste accuse mosse dai magistrati italiani fu organizzata una campagna di sostegno con i professori di Hyperion a cui parteciparono importanti intellettuali francesi e a cui non furono estranei i servizi francesi e di altri paesi.
  Per Calogero, al quale fu impedito di indagare, Hyperion era la struttura superprotetta di un servizio di informazione a carattere internazionale il cui scopo era controllare il terrorismo e impedire l'accesso al governo dei comunisti.
  A proposito di Moretti latitante, ricordo che Dalla Chiesa disse davanti alla Commissione: «Moretti va e viene da Parigi e non riusciamo a prenderlo». L'attività dei superclandestini in Francia e l'attività delle Br morettiane si incrocia molte volte. È solo casualità ? È un caso che Hyperion apra sedi in Italia proprio alla vigilia del sequestro Moro ? È un caso che quelle basi vengano chiuso poco dopo la uccisione di Moro ? È un caso che Superclan divenga parte di una struttura spionistica internazionale mentre in Italia Moretti, che di quel gruppo ha fatto parte e ne ha tradotto in pratica gli orientamenti, organizza il rapimento di Moro ?
  Mi hanno raccontato i due giudici istruttori Imposimato e Priore che, mentre erano a Parigi per una rogatoria, un giudice francese disse loro che i servizi segreti francesi sapevano a febbraio del 1978 che in Italia si stava preparando «il sequestro di un importante uomo politico». Il giudice francese confidò il nome dell'ufficiale del servizio di sicurezza dal quale aveva saputo la notizia. I giudici italiani riuscirono a convocare quell'ufficiale presso l'ambasciata italiana ed egli confermò tutto quanto avevano appreso dal magistrato francese. Gli chiesero di firmare un verbale, ma egli rispose che per il regolamento vigente del suo Servizio gli era inibito di firmare un verbale che interessava una autorità straniera.
  Che i servizi segreti francesi sapessero a febbraio quanto stava per succedere in Italia Rosario Priore lo ha dichiarato anche alla Commissione stragi durante l'audizione insieme ai magistrati Marini e Ionta.
  Gli interrogativi che Hyperion solleva sono tanti e credo che la Commissione dovrebbe cercare di approfondirli ulteriormente.
  La mancanza di un serio impegno a indagare a livello internazionale ha reso monco il lavoro delle nostre Commissioni di inchiesta. È stato così per il caso Moro e lo è stato anche per la Commissione P2, anche se risultati positivi sono stati raggiunti a livello nazionale.
  Su Moretti occorre aggiungere che ha goduto di notevoli protezioni. È sfuggito più volte ad arresti, mentre altri suoi compagni venivano acciuffati. Quando vennero arrestati Curcio e Franceschini è rimasto inspiegabile perché non sia stato arrestato anche Moretti: sotto la guida del capitano Pignero, su indicazione dell'infiltrato Frate Mitra tutti e tre erano stati pedinati, fotografati, inseguiti. Franceschi ha scritto i suoi dubbi e interrogativi, ma li ha scritti lo stesso infiltrato, Frate Mitra (Girotto) nel libro delle sue memorie, affermando sostanzialmente: «Insomma vi avevo creato le condizioni per arrestarli tutti e invece vi siete accontentati di arrestarne solo due». E di Moretti dubitavano Semeria e Curcio. Questi dopo il secondo arresto, ritrovandosi Pag. 58in carcere assieme a Franceschini gli dirà: «Mario è una spia !», raccontandogli di essere stato arrestato il giorno dopo che Moretti, infrangendo una regola di compartimentazione, aveva voluto essere ospitato nell'abitazione di Curcio, luogo fino allora ignoto a tutti i compagni. Il giorno dopo vi è stata l'irruzione dei carabinieri e l'arresto di Curcio.
  Il 16 marzo, dopo l'eccidio in via Fani e il sequestro di Moro, nell'edizione straordinaria del TG2 alle 10,40 circa, in collegamento da Torino il corrispondente Carcano commentò il processo a 15 brigatisti tra cui Curcio e Franceschini, l'evaso Gallinari e il latitante Moretti. Proprio su quest'ultimo il giornalista riferì che a Torino e Milano circolava la voce che fosse collegato con i servizi segreti stranieri.
  Il 20 marzo 1978 giunse a «Il Messaggero» un messaggio anonimo trasmesso alla Procura in cui si affermava: «Tutta l'operazione di via Fani è stata finanziata da Mario Moretti».
  Nel 1973 le Br erano state contattate dagli israeliani e la proposta era stata chiara: noi abbiamo interesse che voi facciate la rivoluzione in Italia e siamo disposti a fornirvi danaro, armi e campi di addestramento. Più l'Italia verrà destabilizzata più gli Stati Uniti dovranno appoggiare Israele nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Le Br di Cagol Curcio e Franceschini rifiutarono. Ma grava forte il sospetto che dopo il cambio di direzione Moretti abbia invece accettato le proposte israeliane. Moretti è inserito in un gioco internazionale e ogni contatto internazionale è segretamente e gelosamente tenuto da lui. Solo durante il caso Moro, essendo troppo impegnato tra Roma e Firenze, ha ceduto ad Azzolini il compito di incontrare a Milano i rappresentanti della Raf.
  Moretti era protetto e controllato. Lo dimostra quanto avviene a via Gradoli. Infatti al no 89 di via Gradoli, nell'edificio che fronteggiava – dalla parte opposta della strada – il civico 96 con il covo-base delle Br morettiane, prima e durante il sequestro Moro abitava il sottufficiale dei carabinieri Arcangelo Montani. Un sottufficiale dell'Arma, Montani, che aveva due particolarità. La prima: era un agente del Sismi. La seconda: era di Porto San Giorgio e dunque compaesano e coetaneo di Mario Moretti. C’è chi li vide parlottare insieme. Nel mio archivio ho la trascrizione di un documento firmato dall'ammiraglio Martini, vice capo del Sismi, che interviene il 31 marzo 1978, a difesa di Montani coinvolto in una controversia condominiale in via Gradoli (Allegato n. 5, che verrà consegnato alla Commissione).
  In via Gradoli 96 ben 24 appartamenti erano di proprietà di società immobiliari controllate dal Sisde: Monte Valle Verde srl, Gradoli spa, Caseroma srl. Nel piano della palazzina dove è collocato l'interno 11 occupato da Moretti vi sono altri tre appartamenti di proprietà della Monte Valle Verde, controllata dal Sisde; all'interno 9 abita Lucia Mokbel (sorella del noto Mokbel più volte salito alle cronache criminali di Roma), confidente del commissario di pubblica sicurezza Elio Cioppa (P2). Nel 1975-78, quando vi hanno abitato le Br, quelle abitazioni erano moderne, costruite da poco.
  Per acquisire notizie sulla figura e l'attività di Mario Moretti vi prego di acquisire i fascicoli a lui intestati negli archivi dell'Arma dei Carabinieri a partire dal Comando generale e giù «per li rami» delle sezioni anticrimine di Roma, Firenze, Milano, Genova, Torino, Venezia e degli archivi dei comandi provinciali e delle compagnie dell'Arma territoriale delle stesse città. Acquisire anche i fascicoli intestati a Moretti della Polizia di Stato a cominciare dalla Direzione generale di pubblica sicurezza e a seguire quelli delle Questure delle città sopracitate. Altrettanto per i fascicoli intestati a Moretti dalla Guardia di finanza: al Comando generale e ai comandi provinciali delle medesime città sopracitate.
  Tramite l'Hyperion a Parigi Moretti entra nel giro del traffico internazionale delle armi e in questo campo Moretti gode ancora una volta della protezione del Sismi.

Pag. 59

7. Traffico delle armi – Moretti.

  A proposito di viaggi per armi organizzati in accordo con la centrale di Parigi, nell'agosto del 1979 Moretti si reca in Libano, a bordo dell'imbarcazione «Papago» («missione Francis») salpata dal porticciolo marchigiano di Numana (Ancona) e guidata dal brigatista-skipper Massimo Gidoni. Sulle coste libanesi, emissari di una fazione estremista dell'Olp consegnano al capo brigatista una partita di armi destinate alle Br, all'Eta, all'Ira e alla Raf.
  Anni dopo Massimo Gidoni racconterà due significativi episodi legati a quel traffico di armi. Il primo riguarda il palestinese Abu Iyad, a detta di Moretti la persona con cui erano stati presi accordi a Parigi, che avevano incontrato insieme a Cipro e dal quale avevano avuto le istruzioni per il ritiro delle armi, a quattro chilometri dalle coste libanesi; quando Abu Iyad venne assassinato e i giornali ne pubblicarono la foto, Gidoni non riconobbe nell'istantanea l'interlocutore palestinese incontrato a Cipro (l'uomo della foto non aveva le sembianze di un palestinese, ma piuttosto di un mitteleuropeo).
  Il secondo episodio fa emergere un retroscena gravissimo. Gidoni riferiva di un colloquio (avvenuto dopo il suo secondo arresto) con il dirigente della Digos di Ancona, il quale raccontò a Gidoni che nell'agosto 1979 aveva ricevuto una telefonata anonima alla Questura di Ancona: «Se volete prendere Moretti, si trova sulla spiaggia o su una barca nel porto di Numana». Così il funzionario della Digos aveva mobilitato una squadra della P.S. e predisposto nottetempo i servizi di polizia. Giunti davanti al porto di Numana, i poliziotti avevano intravisto, nell'oscurità, la presenza di persone e subito si erano predisposti per un eventuale conflitto a fuoco; ma si erano avveduti della presenza dei carabinieri: un ufficiale dell'Arma aveva ingiunto loro di smobilitare in quanto quella era una situazione sotto il controllo dei carabinieri; così gli uomini della Digos erano rientrati in Questura, ma Moretti non venne arrestato né quella notte né nei giorni successivi. Quando alcuni brigatisti pentiti avevano riferito di quel viaggio, il dirigente della Digos di Ancona si era reso conto che chi aveva telefonato in questura nell'agosto 1979 era bene informato, poiché effettivamente Moretti si trovava nella barca «Papago» di Gidoni rimasta per diversi giorni nel porto di Numana prima di salpare per Cipro e recarsi in Medio Oriente per imbarcare le armi. Raccontando questi fatti a Gidoni, il dirigente della Digos di Ancona aveva espresso il sospetto che i carabinieri quella notte fossero all'entrata del porto di Numana per proteggere anziché per arrestare il capo delle Br. La spiegazione si trova nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, che ha rinviato a giudizio il colonnello Giovannone, capo centro Sismi per il Medio Oriente, e altri ufficiali del Sismi per favoreggiamento di quel traffico d'armi.
  Vi consiglio di sentire Gidoni e soprattutto di acquisire tutta la documentazione in possesso dei servizi riguardante Mario Moretti da cui emergeranno anche i rapporti di Moretti con i mercanti di armi del Medio Oriente e con le armerie De Giacomo di Milano e Bonvicini di Roma.

8. L'anfitrione, il cieco di Siena e Manucci Benincasa.

  Chi erano l'anfitrione, l'irregolare, il padrone di casa e chi batteva a macchina i comunicati delle Br nella sede del comitato esecutivo a Firenze durante il rapimento Moro ? Questi interrogativi sono rimasti senza risposta; Morucci non ha voluto fare i nomi e ha invitato i commissari della Commissione stragi a rivolgerli a Moretti, il quale non ha dato risposte e continua a non dare risposte.Pag. 60
  Forse un aiuto a scioglierli può venire dalla verifica dei contratti di locazione degli appartamenti affittati a Firenze dalle Br nel 1978, con l'acquisizione da parte di questa Commissione della documentazione relativa all'appartamento di via Pisano in zona Sollicciano, documentazione che è allegata alla sentenza n. 7/85 del registro sentenze e 13/87 del registro generale della Corte d'assise di primo grado di Firenze nel processo contro Agusto Armando, Aluisini Luisa, e altri come ci ha segnalato l'avvocato Biscotti.
  Siamo partiti da quanto scritto da Gallinari nelle sue memorie (pag. 160 del libro «Un contadino nella metropoli»), abbiamo esaminato le confessioni del brigatista pentito Giovanni Ciucci e le dichiarazioni del dottor Chelazzi, magistrato fiorentino che indagò sulle Br, nella sua audizione alla Commissione stragi.
  Dal libro di memorie di Gallinari si apprende che nel 1977 a Firenze vi era un appartamento situato vicino al carcere di Sollicciano a disposizione dei brigatisti del Fronte della controrivoluzione, appartamento messo a disposizione da Giovanni Senzani che fungeva da copertura.
  Il brigatista Giovanni Ciucci, catturato nell'operazione che liberò Dozier, dopo essersi pentito dichiarò ai giudici che all'inizio della sua militanza nel comitato toscano, essendo ferroviere incensurato, gli furono fatti affittare due appartamenti uno nel maggio ’78 in via Unione Sovietica per ospitare i due regolari Moretti e Balzarani e uno verso fine ’78, in via Pisano nei pressi del carcere di Sollicciano.
  L'affitto di questo appartamento ha suscitato interrogativi e perplessità nel dottor Chelazzi, che di fronte alla Commissione stragi si chiese perché affittare quel terzo appartamento considerato che le Br già disponevano dell'appartamento di via Barbieri (quello che si ritiene sia stato il luogo di ritrovo del Comitato esecutivo) e quello di via Unione Sovietica (vi si rifugiarono Moretti e la Balzerani venuti via da Roma dopo l'uccisione di Moro) che lo abbandonarono in tutta fretta quando Dalla Chiesa scoprì via Montenevoso. Perché ai primi di settembre le Br fecero affittare un terzo appartamento a Ciucci, in via Pisana ?
  All'interrogativo del dottor Chelazzi si può rispondere che, forse, non si trattava propriamente di un nuovo contratto d'affitto, ma, considerato che il 27 luglio era entrato in vigore la legge 392, quella sull'equo canone, le parti possono aver rinnovato il contratto precedentemente intestato a Giovanni Senzani. Se così fosse troverebbe risposta il chi era l'anfitrione di cui parla Morucci e potrebbero essere date risposte anche agli altri interrogativi ancora aperti.
  Per sciogliere questi dubbi è necessario che la Commissione acquisisca la documentazione relativa all'appartamento di via Pisana allegata al processo di cui sopra ho richiamato gli estremi.
  Secondo le memorie di Gallinari, Senzani, nel 1977, aveva affittato un appartamento vicino al carcere di Sollicciano ed era in collegamento con il Fronte della controrivoluzione che si occupava anche delle carceri e, probabilmente, non a caso aveva la sua sede a Firenze, città dove Senzani insegnava criminologia dividendosi fra le Università di Firenze e Siena. Non a caso poi sarà Senzani a costruire nelle Br il «Fronte delle carceri». Com’è noto Senzani è stato condannato all'ergastolo per l'assassinio di Roberto Peci ed è stato condannato anche per il rapimento D'Urso e altri reati, ma non è stato processato per il delitto Moro. Durante quei 55 giorni egli sarebbe stato negli Stati Uniti d'America. Ma su quel viaggio non risulta che la magistratura abbia fatto approfondimenti. Morucci nella sua audizione davanti alla Commissione stragi indirizzò l'attenzione dei commissari verso il padrone di casa, l'anfitrione, l'irregolare che a Firenze batteva a macchina i comunicati. È evidente che Morucci voleva indirizzare l'attenzione su quel personaggio. A Firenze Senzani era intestatario di un appartamento ed era a capo del Comitato rivoluzionario Pag. 61toscano e forse di più. Il problema è rimasto aperto. La Commissione stragi informò la Procura della Repubblica di Roma ma dello sviluppo delle indagini sul viaggio di Senzani negli USA non si è saputo nulla.
  Senzani era persona con molte conoscenza nel mondo scientifico, era consulente del Ministero di grazia e giustizia, entrava nelle carceri a piacimento ed era nelle Br qualcosa di più di un consulente, come dimostra il fatto di avere organizzato e diretto, assieme a Mario Moretti, il sequestro del magistrato Giovanni D'Urso direttore di uno degli uffici della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena. E chi può avere dato indicazioni per compiere i tanti attentati contro i magistrati del Ministero di grazia e giustizia e in particolare della Direzione generale delle carceri ? Valerio Traversi, che aveva compiuto un'inchiesta nel carcere di Firenze, ferito a colpi di pistola il 13 febbraio 1977; Riccardo Palma, direttore dell'ufficio per l'edilizia carceraria, ucciso a raffiche di mitra il 14 febbraio 1978; Girolamo Tartaglione, direttore degli affari generali del ministero, ucciso il 10 ottobre 1978; Girolamo Minervini, nominato dal Consiglio dei ministri direttore generale degli istituti di prevenzione e pena, assunto l'incarico il 17 marzo 1980, il 18 marzo viene ucciso dalle Br. Questi e altri attentati sono rivendicati dalle Br.
  Senzani aveva conoscenze nei servizi, anzi viveva a fianco dei servizi, considerato che con un uomo dei servizi, Luciano Bellucci, divise per diverso tempo l'appartamento di via della Vite, nel centro di Roma. Le confessioni di Buzzatti fanno sorgere il ragionevole sospetto che egli abbia incontrato ad Ascoli Piceno il generale Musumeci. In proposito ricordo che anche il senatore Pellegrino considera il rapporto tra Musumeci e Senzani un elemento a favore della tesi del «delitto in appalto». E rapporti con Musumeci e i servizi traspaiono anche nella vicenda del rapimento dell'assessore regionale della Campania Ciro Cirillo, per la cui liberazione Senzani incassò un riscatto di 1.400 milioni di lire.
  Senzani era uomo anche di relazioni e di soggiorni internazionali negli USA nel 1979, in Inghilterra nel 1980, soggiorno di cui poco si conosce, e in Francia dove, dopo l'arresto di Moretti, subentrò nei rapporti prima coltivati dal capo delle Br.
  Vi è il ragionevole dubbio che egli possa aver avuto un ruolo importante nel rapimento di Aldo Moro e solo indagini serie e acquisizioni di documenti della magistratura e dei servizi possono sciogliere questi dubbi.
  Infine se, come ci dice Gallinari nel suo libro, Senzani faceva parte delle Br ancora prima del sequestro Moro e divideva il suo impegno professionale tra le università di Firenze e Siena, si potrebbe ipotizzare una soluzione del caso sconcertante del cieco di Siena, cioè la storia del signor Giuseppe Marchi, non vedente, che la sera del 15 marzo 1978 rientrando a casa accompagnato dal suo cane, urta un'auto ferma proprio davanti al portone di casa sua, nel centro storico. Prima di entrare scioglie il cane e mentre aspetta che torni ascolta alcune persone parlare nell'auto, non riesce a captare tutto, ma a un certo punto una voce esclama: «Hanno rapito Moro e le guardie del corpo». E lo dice con forte accento straniero. Poi sente sbattere la portiera e l'auto allontanarsi. Per un toscano senese anche la parlata di un romagnolo può certamente risultare di accento straniero. Dopo cena Marchi va in una vicina trattoria e racconta al proprietario e a un gruppo di avventori quanto ha udito dagli sconosciuti che accolgono il suo racconto con una certa incredulità. Marchi racconta questa storia in Questura a Siena anche il giorno successivo, 16 marzo. Per i riscontri vengono convocati in Questura il proprietario della trattoria e i testimoni della sera prima.
  Nella riunione del Comitato tecnico operativo delle 19,30 il capo della Polizia citerà la storia del cieco di Siena.Pag. 62
  Marchi abitava nel centro storico dove le auto potevano avere accesso solo mediante un permesso speciale, ma forse nessuno ha mai controllato se anche Senzani era munito di tale permesso, dal momento che teneva lezioni all'Università, nel centro storico.
  Anche per Giovanni Senzani vi chiedo di acquisire i fascicoli a lui intestati negli archivi dell'Arma dei Carabinieri, a partire dal Comando generale e a seguire nelle sezioni anticrimine di Roma, Firenze, Genova, Bologna, Ancona e degli archivi dei comandi provinciali e delle compagnie dell'Arma territoriale delle stesse città e delle città di Forlì, Siena e Pisa. Analoga richiesta è da rivolgere per gli archivi della Polizia di Stato a cominciare dalla Direzione generale della pubblica sicurezza, per seguire nelle Questure delle città sopra citate. Altrettanto va detto per la Guardia di finanza: Comando generale e Comandi provinciali delle medesime città.
  Il colonnello Federigo Mannucci Benincasa, capocentro del Sismi a Firenze, aveva un'importante fonte informativa nelle Br fin dalla fine del 1977, fonte attiva durante il periodo del sequestro Moro, quando a Firenze si riuniva il Comitato esecutivo brigatista in una sede messa a disposizione del Comitato rivoluzionario toscano. Non si sa quale fu il contributo informativo della fonte durante i 55 giorni del sequestro. Di certo c’è la coincidenza che, non appena le carte di Moro da Firenze approdarono a Milano, nel covo di via Monte Nevoso, il 1o ottobre 1978, il generale Dalla Chiesa ordinò il ritardato blitz. Il successivo dicembre vennero arrestati quattro membri del Comitato regionale toscano. La fonte del colonnello Mannucci Benincasa cesserà la sua attività nel 1982, dopo l'arresto di Giovanni Senzani e l'arresto (con pentimento) di Giovanni Ciucci del Comitato rivoluzionario toscano.
  Il generale Dalla Chiesa, esperto di tecniche di infiltrazione e conoscitore dei documenti brigatisti, durante la prigionia di Moro partecipò alle riunioni del Comitato tecnico-operativo al Viminale in modo piuttosto defilato. Ma dopo il delitto Moro, non appena gli venne attribuito l'incarico di dirigere un suo reparto speciale, nel breve volgere di poche settimane riuscì ad arrestare due dei capi del Comitato esecutivo Br (Azzolini e Bonisoli) e altri brigatisti, a scoprire il covo milanese di via Monte Nevoso, e a recuperare importanti documenti provenienti dalla prigione di Moro.
  Vi ho detto questo per chiedervi di acquisire dal servizio segreto militare tutta la documentazione di quella segreteria telefonica e delle attività svolte da Mannucci Benincasa in direzione delle Br.
  Altrettanto utile sarebbe per la Commissione acquisire le carte del Sisde circa l'attività svolta da Volker Weingraber, che arrivò in Italia tra la fine del 1977 e l'inizio del 1978 (poco prima del sequestro Moro) sotto la falsa identità di «Michael Goldman». Weingraber era in contatto con un funzionario del Sisde, e si stabilì a Milano (la città dove poi, durante il sequestro Moro, avvennero i contatti fra le Br e la Rote armee fraktion). Ritenuto negli ambienti dell'ultrasinistra tedesca «un compagno fidato», aveva avuto l'incarico di infiltrarsi nelle Br e nei gruppi dell'ultrasinistra italiana.

9. Il comunicato falso del lago della Duchessa.

  Il primo che aveva ventilato l'idea di diramare un falso comunicato delle Br era stato il sostituto procuratore della Repubblica Claudio Vitalone. Il magistrato aveva suggerito al ministro dell'Interno Cossiga una specie di «depistaggio pilotato» per arrecare ai brigatisti disturbo, sconcerto e magari problemi interni. Vitalone, nell'estate del 1986, mi raccontò così la sua proposta (gli avevo chiesto di poter registrare): «E allora io avevo detto, avevo detto a Cossiga, dico: chiamate i Servizi facendo tutto un regolare rapporto incartato all'autorità giudiziaria, inventate qualche cosa che li Pag. 63costringa a cambiare il progetto, cioè tu se sei davanti alla scacchiera un pezzo lo devi muovere come che sia, se tu lasci all'avversario di muovere i pezzi, in entrambi i versanti del gioco, hai già perduto in partenza. Che poteva essere ? Fate un messaggio finto in cui ci mettete in mezzo a brigatisti ipotizzabili qualche elemento della mala e qualche elemento della destra. Facciamo confusione perché questi diranno: chi è che sta giocando intorno ? Le Br dovranno dire: chi è che sta cercando di sfruttare l'operazione ? E noi mandiamo un finto fesso di capo della Scientifica in televisione che dice: «Abbiamo analizzato il messaggio, è scritto con la stessa macchina da scrivere con la quale è scritto il primo messaggio». E gli invalidiamo il gioco, gli diciamo che quello strumento non è riconoscibile come loro pensano, o per lo meno che noi abbiamo una polizia tanto fessa che non è in grado di riconoscerlo. Cossiga mi disse: «Hai ragione, hai ragione. Questo dovremo fare». Quando uscì il comunicato del Lago della Duchessa io trasalii perché mi parve proprio l'applicazione tardiva del mio suggerimento; però era realizzato male, perché mancava il preventivo rapporto all'autorità giudiziaria».
  La Commissione Moro, nella sua relazione conclusiva, scriverà in proposito: «Occorre ricordare che l'idea di diffondere comunicati da parte dei servizi di sicurezza per controllare le reazioni dei terroristi fu avanzata dal dottor Vitalone, sostituto addetto alla Procura generale della Repubblica, e discussa con polizia e carabinieri. Lo ha riferito il dottor Infelisi, aggiungendo che egli appoggiò la proposta ritenendola brillante, purché legata a preventive garanzie. Si concluse, comunque, di non farne niente».
   Al Viminale, lo stratagemma del falso comunicato avrebbe dovuto essere discusso, sul piano operativo, all'interno del «Comitato I» («Informazione»), uno dei tre comitati istituiti dal ministro Cossiga per la gestione della crisi. Era il comitato nevralgico, poiché vi affluivano quelle informazioni degli apparati di sicurezza che determinavano e orientavano l'indirizzo delle indagini delle forze di polizia, ed era il comitato interamente dominato dalla confraternita piduista. Non a caso, dell'operato del «Comitato I» durante il sequestro Moro non rimarrà alcuna traccia negli archivi del Viminale: né un verbale, né un appunto, né un memorandum, né si saprà mai quale documentazione vi fosse negli archivi dei servizi segreti in merito a quel falso comunicato del Lago della Duchessa.
  La spregiudicata proposta del magistrato Vitalone venne presa in esame a livello istituzionale e venne ufficialmente scartata perché – secondo quanto riferirà Infelisi – i servizi segreti italiani «non erano all'altezza» di attuarla. In realtà, la manovra del falso comunicato brigatista venne attuata: i massoni piduisti che controllavano i Servizi strutturati nel «doppio livello» (quello ufficiale istituzionale, e quello clandestino e illegale) con il falso comunicato Br no 7 attuarono un'operazione di guerra psicologica finalizzata a stringere i tempi per l'uccisione del presidente della Dc. A riprova che nella gestione della crisi, ai massimi livelli, operava una direzione occulta che si sovrapponeva alla direzione ufficiale e istituzionale.
  Il comportamento della polizia, che in tutta fretta dichiarò autentico un comunicato palesemente falso (come aveva consigliato Vitalone), e quello del ministro Cossiga (il quale dirà: «Feci fare immediatamente tre analisi, da tre esperti della polizia, carabinieri, ed un esperto del tribunale di Roma. Tutti e tre mi dissero, come risultò dalle gigantografie che mi portarono, che la macchina da scrivere era la stessa» (mentre non lo era affatto), sembrano confermare che il falsario Chichiarelli – autore materiale del falso comunicato – agì per conto dei Servizi. Infatti il colonnello del Sismi Pietro Musumeci (affiliato alla P2), come scrisse «Panorama», «era stato l'animatore di tutta la cosiddetta “vicenda Gradoli”: vana ricerca del corpo di Moro nel Lago della Duchessa» (Corrado Incerti, «I servizi della Loggia», in «Panorama», 28 settembre 1981). Il Sismi smentirà quanto scritto da «Panorama», sostenendo che il colonnello Pag. 64Musumeci passò al Servizio solo il 1o luglio 1978. Un'argomentazione insostenibile: anche il colonnello Guglielmi, per esempio – presente in via Fani il 16 marzo 1978, al momento della strage – entrò ufficialmente in forza al Sismi a partire dal 1o luglio 1978. Nei fatti, in seguito alla nuova legge sui servizi di sicurezza, la dipendenza amministrativa decorreva dal 1o luglio 1978, ma il passaggio del colonnello Musumeci al Sismi era stato stabilito già nel febbraio 1978.
  Nel 2006, Steve Pieczenik spiegherà al giornalista francese Emmanuel Amara la strategia applicata durante il sequestro Moro e racconterà per la prima volta l'operazione del Lago della Duchessa: «Abbiamo discusso con Cossiga e alcuni esponenti dei servizi segreti italiani di cui ci fidavamo, tra i quali un uomo, oggi deceduto, di nome Ferracuti. Bisognava preparare l'opinione pubblica italiana e europea a un eventuale decesso di Moro. Per questo è stata allestita un'operazione psicologica. Questa operazione consisteva nella diffusione di un falso comunicato nel quale era annunciata la morte di Moro e il luogo dove poteva essere ritrovato il suo corpo. È tutto quello che so, perché non ho partecipato alla realizzazione di questa operazione, che abbiamo deciso nel Comitato di crisi».
  Nel carcere brigatista, Moro definì l'imponente sceneggiata del Lago della Duchessa la «macabra grande edizione della mia esecuzione». Il 20 aprile 1978 le Br diffusero il loro Comunicato n. 7: negarono l'autenticità del falso comunicato n. 7 sul Lago della Duchessa, che definirono «una provocazione del potere», e denunciarono la «interferenza» nella gestione del sequestro.
  Debbo rilevare che di fronte a un fatto tanto grave come l'operazione del comunicato falso del Lago della Duchessa e la contemporanea scoperta del covo di via Gradoli non sia mai stata condotta una indagine seria per accertare la rete di rapporti che partendo dall'originaria idea di Vitalone arriva al comitato di crisi al Viminale e al collegamento con l'azione del falsario Antonio Chichiarelli. A voi spetta condurre l'indagine necessaria per chiarire questo nodo cruciale del caso Moro.
  Il falso comunicato del Lago della Duchessa e la contemporanea «scoperta» del covo Br di via Gradoli 96 ottennero il risultato di accelerare i tempi dell'uccisione di Moro.

10. Due delitti legati al caso Moro: Pecorelli e Dalla Chiesa.

  Tra gli appunti manoscritti rinvenuti nello studio di Pecorelli, ve n'era uno particolarmente significativo: «Le carte segrete in mano a Dalla Chiesa».
  Subito dopo il rinvenimento del materiale Br in seguito al blitz del generale Dalla Chiesa nella base di via Monte Nevoso, a Milano, nell'ottobre 1978, Pecorelli aveva scritto: «I magistrati sono arrivati buoni ultimi a prendere visione di tutto ciò, e quali politici ne sono al corrente avendo avuto la possibilità di operare qualche prudenziale censura ?». Nello stesso numero di «Op» veniva pubblicata una «lettera» intitolata «Caso Moro: il ministro non sapeva ?»: «[...] Il ministro di polizia sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero; dalle parti del ghetto... (ebraico). Dice: il corpo era ancora caldo... perché un generale dei carabinieri era andato a riferirglielo nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto nulla ? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso ? Fatto sta, si dice che la risposta, il giorno dopo quando la sentenziò fu lapidaria: “Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere parte un colpo e uccide Moro oppure i terroristi lo ammazzano poi chi se la prende la responsabilità ?”. Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato perché se la cosa si fosse saputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba ! [...] Purtroppo il nome del generale CC è noto: Pag. 65Amen». Per quel generale dei Carabinieri, la «lettera» prevedeva una tragica fine. Allusivo e sibillino, il linguaggio cifrato di Pecorelli era tuttavia decifrabile: il generale «Amen» è Dalla Chiesa e il testo racconta di un'inerzia colpevole mentre si poteva ancora tentare di salvare Moro, ma qualcuno ha preferito un Moro martire per mano delle Br.
  La «tragica fine» in effetti colpirà Dalla Chiesa, ma colpirà prima Pecorelli. E se dopo l'omicidio Pecorelli vengono trafugate carte, dopo l'uccisione di Dalla Chiesa verrà sottratta per alcuni giorni la chiave della sua cassaforte. Secondo Tommaso Buscetta, pentito di mafia, Pecorelli stava appurando «cose politiche» collegate al sequestro Moro, segreti che erano a conoscenza anche del generale Dalla Chiesa, per cui i due delitti sono «cose che si intrecciano tra di loro».
  Ai delitti Pecorelli e Dalla Chiesa sono seguite oscure operazioni di depistaggio. Il delitto Pecorelli viene subito rivendicato, con una telefonata all'Ansa, da «un nuovo gruppo anarchico». Il giorno dopo giunge una telefonata anonima al Procuratore capo della Repubblica in cui si comunica che il mandante del delitto è Lucio Gelli, residente all'Hotel Excelsior. A effettuare la telefonata si scoprirà essere stato Benincasa, ufficiale del Sismi. Poi emerge una «scheda» che attribuisce il delitto alle Br. A Palermo, dopo l'uccisione di Dalla Chiesa, entra in scena un superteste, tale Scipioni, che verrà poi smascherato dai giudici.
  Ma prima della loro misteriosa uccisione, cosa aveva accomunato due personaggi tanto diversi e lontani come Mino Pecorelli e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ? I due hanno rapporti ancora prima del blitz in via Monte Nevoso ed entrambi mostrano un primario interesse alle carte di Moro prigioniero, entrambi non hanno simpatie per il Presidente del Consiglio Andreotti.
  Nel gennaio 1979, Pecorelli scrive l'articolo «Vergogna buffoni», dove riprende, sempre in modo allusivo, la questione dei timori per le conseguenze di un conflitto a fuoco tra i Carabinieri e i brigatisti che detengono Moro; una paura che questa volta attribuisce a Moro (anziché a Cossiga, e a chi stava più in alto di lui, come scritto in precedenza). Pecorelli preannuncia ulteriori scoop: Aldo Moro, che pensava di essere liberato dalle Brigate Rosse, e che temeva di rimanere ferito in un conflitto a fuoco tra i «carabinieri» e i suoi carcerieri, come ha pubblicato «Panorama» in un articolo non firmato, notizia che avrebbe attinto dai documenti sequestrati nel covo del brigatista ( ?) Alunni, notizia che viceversa nel memoriale diffuso dal Ministero degli Interni non risulta.
  Ma torneremo a parlare di questo argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all'operazione, del prete contattato dalle Brigate rosse, della intempestiva lettera di Paolo VI, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse, degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali, degli articoli redazionali, cervellotici, scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe intuito che i carabinieri potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo di Steve R. Pieczenik, vice segretario di Stato del governo Usa, il quale, dopo avere partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare.
  Il «superinformato» direttore di «Op» mantiene la promessa e pochi giorni prima di essere zittito per sempre dà inizio al riesame del caso Moro, cominciando dalla vicenda del comunicato relativo al lago della Duchessa: «Un depistaggio ? Perché allora tanta decisione nella smentita successiva ? Uno stratagemma del Viminale ? A quale scopo, se brancolava nel buio ? In effetti quella mattina del 18 aprile il concentramento delle forze al lago della Duchessa fu ridicolo dal punto Pag. 66di vista strategico. [...] La strategia delle due parti in causa (Viminale e comando dei terroristi) è ancora da scoprire...» Sulla questione del falso comunicato n. 7, Pecorelli si era già espresso durante i giorni del sequestro Moro, a partire da un editoriale pubblicato su «Op» il 25 aprile 1978: «I nostri servizi segreti, il trust dei cervelli del ministero degli interni, non avrebbero mai avuto la fantasia e il coraggio di tentare il bluff della Duchessa. Ciò significa che all'interno delle Br esistono due fazioni che perseguono strategie (e forse fini) diversi». E in uno scritto successivo, sotto il titolo «Le allucinanti avventure degli investigatori»: «Si assiste sgomenti (per lo meno gli addetti ai lavori) ad iniziative dilettantistiche che, se non stessimo vivendo un momento drammatico, sarebbero tutte da scrivere in un libro umoristico. Ricevuta la fotocopia del volantino delle “Brigate Rosse” con il quale “i terroristi” comunicavano la località dove sarebbe stato abbandonato il corpo di Aldo Moro, gli inquirenti (e qui per carità di patria non ricordiamo i nomi) si precipitano agli elicotteri messi a disposizione della polizia e dei carabinieri per raggiungere nel più breve tempo possibile la zona del lago della Duchessa». Dunque l'informatissimo Pecorelli aveva già scritto di «Brigate Rosse» e «terroristi» tra virgolette, ironizzando sarcastico sulla «troppo frettolosa spedizione partita da Roma».
  Ancora su «Op» del gennaio 1979, Pecorelli dedica alla vicenda Moro altri due ironici e allusivi articoli. Nel primo, intitolato «La presunta esecuzione e la troppo inequivocabile scoperta del covo», scrive tra l'altro: «Passiamo all'altro evento: la scoperta del “covo” di via Gradoli. Anche qui abbiamo a che fare con l'acqua. Strane coincidenze, singolari assonanze della storia. All'acqua gelata del lago della Duchessa fa riscontro l'acqua corrente e dilagante della doccia di via Gradoli a Roma». E nel secondo, intitolato «Curcio si defila e i laghi sono vuoti»: «Renato Curcio aggiunge il panico della beffa e dell'indecifrabilità assoluta, quando si lascia sfuggire che forse questo comunicato relativo alla Duchessa è inattendibile».
  Carmine Pecorelli viene ucciso la sera del 20 marzo 1979. Tracce e indizi collegheranno il delitto Pecorelli alla banda della Magliana e al falso comunicato del lago della Duchessa. I proiettili utilizzati per uccidere Pecorelli provenivano dal ristretto lotto di cartucce che verrà rinvenuto fra le armi nascoste nei sotterranei del Ministero della sanità, armi attribuite alla banda della Magliana. Inoltre, la scheda intestata a «Pecorelli Mino (da eliminare)» verrà rinvenuta nel misterioso borsello fatto pervenire il 14 aprile 1979 al tenente colonnello Antonio Cornacchia, incaricato delle indagini sul caso Moro e sul delitto Pecorelli. Si è visto come dietro «l'operazione borsello» vi fosse il falsario Tony Chichiarelli, legato alla banda della Magliana e come lo stesso Chichiarelli fosse stato il «dattilografo» del comunicato relativo al lago della Duchessa; nella «scheda» erano indicati l'indirizzo privato di Pecorelli, la targa e il tipo di auto che possedeva, l'indirizzo della sede di «Op», zona ritenuta «ottimale» per colpirlo, «preferibilmente dopo le 19»: tutte modalità che erano state osservate nell'esecuzione dell'omicidio.
  Ma quella «scheda» conteneva anche una notizia riservata: «Martedì 6 marzo 1979 causa intrattenimento prolungato presso alto ufficiale dei carabinieri zona Piazza delle Cinque Lune, l'operazione è stata rinviata». Era noto a pochi come Pecorelli si fosse incontrato in quella data, a piazza delle Cinque Lune, con il colonnello Varisco, col quale aveva un rapporto amichevole e confidenziale. Di lì a qualche mese, anche Varisco verrà assassinato.
  Stessa mano – quella di Chichiarelli – per due depistaggi: il lago della Duchessa e il «borsello smarrito». Il giudice Francesco Monastero ha scritto: «L'ignoto, ma lucido manovratore del Chichiarelli vuole trasmettere un messaggio chiaro: il movente dell'omicidio Pecorelli va ricercato nel contesto del delitto Moro e, con più precisione, nell'ambito dei falsi comunicati Br».Pag. 67
  Ecco: i falsi comunicati Br: quello n. 7 della Duchessa e quello n. 10 o n. 1 in codice firmato Cellula romana Sud delle Br, battuti con la medesima testina rotante e considerati veritieri dal generale Santovito, dai servizi e anche da autorità di governo.
  Ritengo che la Commissione debba acquisire tutta la documentazione dei servizi, dei Carabinieri e della Polizia sulla produzione di questi comunicati falsi. Come ritengo che debba essere acquisita la documentazione dei servizi segreti riguardante Carmine Pecorelli e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
  Nel corso dei lavori della Commissione dell'VIII legislatura chiesi al presidente di inoltrare alla Procura della Repubblica la richiesta di acquisire copia della documentazione sequestrata a casa e nell'ufficio di Pecorelli subito dopo al suo omicidio. Voglio attirare la vostra attenzione sulla risposta del Procuratore capo Achille Gallucci: un documento che dice il falso e che consegno (Allegato n. 6, che verrà consegnato alla Commissione). Afferma che nelle carte di Pecorelli non c'era nulla che avesse connessione con il caso Moro, di cui si interessava la nostra Commissione. Grave quella risposta deviante, perché all'epoca le indagini sul delitto Pecorelli stavano seguendo piste false. Nella IX legislatura feci parte della Commissione sulla loggia massonica P2 e Tina Anselmi provvide a sequestrare le carte di Pecorelli depositate in Procura, dove vennero trovate con i sigilli manomessi e una parte di carte trafugate. Le carte sequestrate dalla Commissione le potete esaminare negli atti della Commissione d'inchiesta sulla loggia massonica P2 al volume VII nei quattro tomi XV, XVI, XVII, XVIII.

11. Via Monte Nevoso.

  Il 30 agosto 1978, un decreto-legge del Presidente del Consiglio Andreotti conferisce, a partire dal 10 settembre, poteri speciali antiterrorismo al generale Dalla Chiesa, il quale dovrà attuare «forme organiche di coordinamento e di cooperazione tra le forze di polizia e gli agenti dei servizi informativi (...). Dell'attività suddetta e degli speciali compiti operativi svolti dal Generale di Divisione Carlo Alberto Dalla Chiesa riferisce direttamente al Ministro dell'Interno». Un simile disposto finale sembra accordare nominalmente al generale Dalla Chiesa perfino il potere di sottrarsi al rapporto con la magistratura. Il giudice milanese Gerardo D'Ambrosio, che nel corso dell'inchiesta sulla strage di piazza Fontana aveva acquisito una concreta esperienza circa le deviazioni dei servizi, si rende subito interprete delle perplessità della magistratura nel corso di un convegno alla presenza del ministro Rognoni.
  Formalmente, l'attività di Dalla Chiesa si sottrae al controllo della magistratura poiché il generale non ha titolo di ufficiale di polizia giudiziaria, come non lo hanno gli agenti dei servizi informativi da lui coordinati; lo hanno invece gli appartenenti alle forze di polizia che passano alle dipendenze del generale per formare i nuclei speciali antiterrorismo, ma che sono tuttavia vincolati a una rigorosa dipendenza gerarchica e a una stretta collaborazione militare con il loro comandante.
  Una domanda mi accompagna da tempo: perché Andreotti ha conferito al generale Dalla Chiesa quei poteri speciali, mentre non lo ha fatto subito dopo il rapimento di Moro ? Perché durante i 55 giorni abbiamo visto operazioni di facciata e solo adesso sembra si voglia agire con determinazione ?
  Poiché è la prima volta che ufficiali dei servizi vengono sottoposti al coordinamento e alla direzione di un alto ufficiale dei Carabinieri (l'Arma dei Carabinieri è forza di polizia della Nato), è ancora in gioco la questione del segreto di Stato ?
  Fin dai primissimi giorni di agosto, il generale Dalla Chiesa agisce nella piena consapevolezza dei «poteri speciali» che stanno per essergli attribuiti. La decisione Pag. 68viene concordata tra Andreotti (Presidente del Consiglio), Rognoni (Ministro dell'interno) e Ruffini (Ministro della difesa), e viene resa pubblica il 9 agosto, a Merano, dove Andreotti trascorre le ferie. Il 27 luglio, Nadia Mantovani e Vincenzo Guagliardo sono fuggiti dal soggiorno obbligato, suscitando scalpore nell'opinione pubblica e polemiche tra il Ministro dell'interno e i giudici che li hanno scarcerati dopo il processo di Torino. Nell'ambiente dell'Arma e in quello militare più in genere, i «poteri speciali» accordati a Dalla Chiesa vengono paragonati a quelli di un «supervisore dei servizi segreti contro il terrorismo».
  Grazie al decreto, dal 10 settembre passano sotto il diretto comando del generale Dalla Chiesa la sezione divisionale di Milano dell'Arma destinata alla lotta alla criminalità e diretta dal tenente colonnello Niccolò Bozzo, nonché la sezione speciale anticrimine comandata dal capitano Roberto Arlati. Bozzo e i suoi gregari fin dalla fine di luglio hanno individuato il covo di Via Monte Nevoso e altri covi a Milano, e sono alle prese con le indagini sui brigatisti e sui covi milanesi. Bozzo ha informato Dalla Chiesa della possibilità di procedere con successo ad arresti dei brigatisti sotto controllo. Dalla Chiesa che sta per assumere i suoi poteri speciali, gli dice di aspettare, di continuare a pedinare e fotografare. Intanto vengono posti sotto il suo comando anche nuclei della Polizia e della Guardia di finanza, sì che quando questi nuclei speciali completano i ranghi, il generale Dalla Chiesa può disporre di una forza complessiva di 230 effettivi tra ufficiali e sottufficiali. I nuclei entrano subito in azione. Il 12 settembre il generale Giovannitti, comandante della divisione Pastrengo, illustra a Dalla Chiesa, ormai nel pieno esercizio dei suoi poteri, i risultati delle indagini: tutto sembra ormai pronto per l'intervento – «il lavoro investigativo era completo, le ricerche e le verifiche necessarie al perfezionamento dei particolari più importanti erano state portate a termine; ogni dettaglio e ogni aspetto sembravano chiariti». Ma l'ordine esecutivo non viene impartito; per Dalla Chiesa, si deve continuare a pedinare, fotografare, investigare.
  Al momento, tutti i frequentatori dei covi Br erano stati fotografati e identificati, ma è tipico di Dalla Chiesa l'espediente di «ritardare» i riconoscimenti per eludere l'obbligo di arresti che lui ritiene «prematuri» – proprio per questo, nei rapporti all'autorità giudiziaria i riconoscimenti saranno tutti post-datati: Azzolini, il primo a essere stato identificato, nei rapporti resta il «giovane sospetto», o «il vecchietto», fino al giorno in cui Dalla Chiesa decide di tirare la rete e di effettuare il blitz (solo Calogero Diana verrà lasciato libero, e continuerà a essere «il professore» fino alla successiva retata, cinque mesi dopo). Della tecnica del «ritardato riconoscimento», di lasciare sempre un ramo verde, Dalla Chiesa avrà modo di compiacersi dichiarando alla Commissione parlamentare: «Il Peci neanche nel momento in cui è stato notato era per noi «Peci»: soltanto quando, su mia insistenza, la fotografia fatta sulla strada venne mandata a San Benedetto del Tronto presso i nostri vecchi sottoufficiali in servizio e in congedo che lo avevano conosciuto prima, ne avemmo la certezza o quasi (ed è bene mettere il «quasi», altrimenti avremmo avuto l'ordine della magistratura di arrestarlo); così feci con Curcio nel 1974 quando per tre volte dissi «sembra» perché mi serviva sapere con chi sarebbe andato ed avrebbe trainato con sé [...] Forse questa sarà spregiudicatezza, saranno azioni che non si fanno, ma se io confessassi per esempio che a Corleone da capitano non arrestai subito il capomafia Navarra pur di sapere tutto quello che dovevo sapere, non vi dovete meravigliare se non lo andai a dire ai miei superiori per non coinvolgerli in una responsabilità piuttosto grave. Ora che il reato è prescritto ne posso parlare. Così è successo quando dovevo arrestare Curcio».
  Ma posto che tutti i brigatisti dei covi individuati sono stati «quasi identificati» dopo settimane di pedinamenti, indagini, fotografie, perché il generale Dalla Chiesa non ordina la retata e rimane in attesa ? La risposta arriva da Mino Pecorelli, il quale Pag. 69scrive su «Op», sotto il significativo titolo «Dalla Chiesa, meglio la gallina domani», e con il solito linguaggio allusivo, che se la gallina è già arrivata nel «covo», forse bisogna aspettare ancora «le uova d'oro».
  Secondo la versione ufficiale, il 24 settembre viene fotografata e riconosciuta Nadia Mantovani, unitamente a Azzolini e a Biancamelia Sivieri (la quale in via Pallanza sta ospitando il latitante Antonio Savino, evaso dal carcere di Forlì), e sarebbe dunque la presenza della Mantovani a far scattare l'ordine di intervento, a indurre Dalla Chiesa a «tirare la rete». Ma Nadia Mantovani era in via Monte Nevoso da tempo: c'era arrivata a fine luglio, appena fuggita dal soggiorno obbligato; nella seconda settimana di agosto era andata in montagna con i «compagni» ed era tornata a Milano da una ventina di giorni (Mantovani sospettava di essere pedinata, poiché uscendo di casa le era capitato di notare troppe volte la stessa persona e aveva manifestato a Bonisoli l'intenzione di andarsene; ma gli altri non avevano dato peso ai suoi sospetti, poiché tutto sembrava essere tranquillo).
  Non è dunque Nadia Mantovani «il tesoro» che Dalla Chiesa insegue e attende di poter catturare: sono i documenti relativi alla prigionia di Aldo Moro, che negli ultimi giorni di settembre vengono portati dai brigatisti nella base di via Monte Nevoso. «Li ho portati io, tutti in una volta e pochi giorni prima dell'arresto», confermerà Bonisoli in Corte d'assise. Dunque, se il blitz fosse scattato prima del 1o ottobre, come chiedeva con insistenza il generale Morelli, avrebbe portato alla cattura dei brigatisti, ma avrebbe mancato il materiale del «processo Moro»; e Dalla Chiesa ordina l'intervento nel covo solo dopo e subito dopo l'arrivo in via Monte Nevoso del materiale di Moro: dunque, il generale ne era puntualmente informato.
  È quindi evidente che l'organizzazione di Dalla Chiesa disponeva di infiltrati. Il generale Dalla Chiesa ha sempre ritenuto l'infiltrazione nei gruppi eversivi una strategia vincente dell'antiterrorismo; ne parlò lui stesso alla nostra Commissione.
  Il generale Romeo, capo dell'Ufficio D del Sismi, ne ha parlato davanti alla Commissione stragi dicendo che le Br sono state infiltrate fin dalla nascita.
  Agli atti della Commissione Moro vi è inoltre un documento, sequestrato a Firenze al giornalista Marcello Coppetti: si tratta del resoconto, quasi stenografico, di un colloquio (avvenuto a Villa Wanda, i primi di dicembre 1978) tra Coppetti, Licio Gelli e un ufficiale del Servizio informazioni dell'Aeronautica per la Toscana, Umberto Nobili; secondo l'appunto, il maestro venerabile informa che «il caso Moro non è finito. Dalla Chiesa aveva un infiltrato, un carabiniere giovanissimo, nelle Brigate rosse. Così sapeva che le Br che avevano sequestrato Moro avevano anche materiale compromettente di Moro. Dalla Chiesa andò da Andreotti e gli disse che il materiale poteva essere recuperato se gli veniva data carta bianca. Siccome Andreotti temeva le carte di Moro (le valigie scomparse ?), nominò Dalla Chiesa. Costui recuperò ciò che doveva. Così il memoriale Moro è incompleto. Anche quello della magistratura, perché è segreto di Stato».
  Purtroppo è vero che non tutte le carte afferenti agli scritti di Moro rinvenute in via Monte Nevoso il 1o ottobre 1978 furono consegnate alla magistratura. È stato scritto anche nel libro di Arlati e Magosso che il capitano Bonaventura si fece consegnare le carte per fotocopiarle, ma quando ritornarono erano diminuite di volume. Ma anche da un esame degli scritti consegnati appaiono dei salti logici. La conferma si avrà nel 1990 quando nello stesso appartamento verranno scoperti i fogli fotocopiati dei manoscritti di Moro.
  Dovrei scrivere e raccontare una lunga storia che dimostra che quei fogli di fotocopia dei manoscritti di Moro, nascosti da Azzolini in via Monte Nevoso, non si sono voluti trovare. È mancata la volontà anche da parte dei magistrati.
  Io vi chiedo di acquisire tutta la documentazione che è negli archivi dei servizi, dell'Arma dei Carabinieri e della Polizia a proposito di tutte le operazioni svolte in Pag. 70via Monte Nevoso dai nuclei speciali di Dalla Chiesa, ma anche dall'Arma territoriale. Occorre naturalmente verificare anche se mancano documenti quando la legge stabilisce di conservarli e segnalarne la eventuale mancanza.
  Faccio un po’ di cronologia. Nel gennaio 1986 vado in visita al carcere di massima sicurezza di Novara e incontro Moretti. Il direttore del carcere che mi accompagna ci lascia soli: ho tante domande da fargli. Beppe Ferrara che sta girando il film sul caso Moro con Gian Maria Volontè mi ha pregato di chiedergli come era la prigione, se Moro portava gli occhiali quando scriveva, se disponeva di un tavolo e di quali dimensioni, e così via. Una serie di domande che Beppe mi aveva scritto, ma Moretti non ha voluto rispondere ad alcuna domanda perché su tutto quanto riguarda gli aspetti organizzativi della prigione non poteva rispondere e poi non intendeva collaborare ad un'opera che, secondo lui avrebbe santificato la figura di Moro, mentre Moro non era un santo perché era il capo dei democristiani. Cercai di insistere, ma lui fu fermo: «No, è inutile. Non rispondo». Non ci fu nulla da fare. Allora passai a domande di contenuto politico a cominciare dagli interrogatori di Moro, ma anche su questo fu restio, poi mi disse che non si era trattato di interrogatori, ma di conversazioni tra lui e Moro, conversazioni che grosso modo corrispondevano a quanto era stato pubblicato da «Repubblica» e da «L'Espresso», «meno una parte che è stata imboscata dai servizi segreti», testuale. Mi sembrò che mi avesse detto di più di quel che mi aspettavo.
  Ai primi di novembre 1986 incontrai Azzolini nel carcere di Rebibbia. Tra altre cose mi disse di avere portato da Firenze a Milano una cartella contenente i manoscritti di Moro e di averli visionati e deposti in un nascondiglio nell'appartamento di via Monte Nevoso.
  Il 4 novembre presentai un'interrogazione ai Ministri di grazia e giustizia e dell'interno, con la quale chiedevo una nuova perquisizione nell'appartamento di via Monte Nevoso.
  Il 7 novembre 1986 mi recai a Milano da Pomarici, il magistrato competente per le vicende dell'appartamento delle Br di via Monte Nevoso. Mi lesse il telex che aveva già inviato a Rognoni, che gli aveva chiesto il suo parere per quanto riguardava la mia richiesta di effettuare una nuova perquisizione. Il parere di Pomarici era nettamente contrario perché la precedente perquisizione era stata eseguita alla perfezione. A me disse: «Accettare la sua richiesta sarebbe una grave offesa per i Carabinieri di Dalla Chiesa che sono i più bravi professionisti». Gli parlai di precisi e nuovi elementi contenuti nell'interrogazione. Seguì una vivace discussione, Pomarici rimase irremovibile nella sua posizione: non intendeva offendere gli uomini dei nuclei speciali di dalla Chiesa che avevano effettuato la perquisizione in via Monte Nevoso. Gli dissi che di tutti gli uomini che si erano dovuti occupare delle vicende del caso Moro nessuno era infallibile.
  Andai in via Monte Nevoso e vidi che nell'appartamento sotto sequestro i sigilli erano stati rotti. L'amministratrice del condominio mi disse che i Carabinieri e la magistratura erano stati informati.
  9 maggio 1988: nella prima edizione del libro «La tela del ragno» feci l'elenco degli interrogativi a cui si doveva dare risposta dieci anni dopo il delitto Moro e riproposi la necessità di una nuova perquisizione nell'appartamento di via Monte Nevoso.
  Luglio 1988: «L'Espresso» (giornalista Giustolisi) organizzò un confronto a Milano tra me e i magistrati Pomarici e Spataro. Pomarici continuò a opporre il suo netto rifiuto, sostenuto in toto anche da Spataro. Di fronte alla caparbietà di Pomarici pensavo che Spataro mi avrebbe aiutato. Azzolini non mi aveva parlato in termini Pag. 71vaghi, mi aveva detto dov'era il nascondiglio. Speravo che in Spataro insorgesse un dubbio, invece rimasi deluso: egli disse addirittura che le Br nei loro covi non hanno mai costruito nascondigli.
  5 agosto 1988: «L'Espresso» pubblica il resoconto del confronto col titolo «Covo di spie».
  Sempre nel 1988 venni convocato dalla magistratura romana: Priore e Ionta mi chiesero di fare per loro una memoria sintetizzando i problemi più importanti sollevati nel libro «La tela del ragno». Tra i problemi aperti riproposi l'esigenza della perquisizione a via Monte Nevoso; speravo in un loro interessamento, ma anche la Procura romana si disinteressò.
  Insistetti con articoli e discorsi.
  8 ottobre 1990: il capo mastro muratore Gennaro, incaricato di eseguire lavori di ristrutturazione nell'appartamento di via Monte Nevoso (dissequestrato da tempo e venduto a un nuovo proprietario), al primo giorno del suo lavoro scopre il nascondiglio. Viene chiamata la Polizia, arriva Pomarici. «Sotto la finestra, dietro una intercapedine di cartongesso», proprio come Azzolini mi aveva detto quattro anni prima ed io avevo negli anni insistentemente ripetuto al magistrato, da quel nascondiglio vengono estratti un Kalashnikov russo e munizioni, banconote fuori corso per oltre 50 milioni di lire del sequestro Costa. Ed ecco la cartella contenente la fotocopia dei manoscritti di Moro.
  Si accendono i fari delle Tv e le prime pagine dei giornali riaprono il caso Moro.
  Non una parola di autocritica da parte di Pomarici e né di Spataro !
  Ci voleva la caduta del muro di Berlino prima di poter rimuovere la piccola intercapedine che teneva nascosti i manoscritti di Moro !

12. Reperti.

  A proposito delle registrazioni degli interrogatori di Moro gli ex membri del comitato esecutivo delle Br Azzolini e Bonisoli, quando si trovavano in carcere mi scrissero due lettere nel febbraio 1986 dicendomi, tra l'altro, che le registrazioni degli interrogatori di Moro avvenivano con un normale registratore a nastri dell'epoca.
  Il primo lavoro dei carcerieri di Moro fu quello di trascrivere le audiocassette contenenti gli interrogatori che Moretti conduceva su Moro. Ma questo lavoro di trascrizione si rivelò faticoso e cessò, dopo due o tre audiocassette. Moretti continuò a registrare le sue «conversazioni» con Moro, ma gli presentò domande scritte alle quali Moro rispose per iscritto e nacque così «il memoriale».
  Morucci nella sua audizione alla Commissione stragi ha affermato che le audiocassette usate nel tentativo di registrare l'interrogatorio di Moro – tentativo di breve durata, reso impossibile dal divario culturale, concettuale e lessicale dei personaggi – furono distrutte sovraincidendole. Sappiamo per certo che Moretti quelle cassette le portò via dal covo dove erano state registrate.
  Coincidenza: tra i reperti sequestrati in via Gradoli, il reperto 410 elenca 18 musicassette (Allegato n. 7, che verrà consegnato alla Commissione) su cui furono fatti accertamenti tecnici eseguiti dalla polizia scientifica, riportati nel volume 31 della Commissione Moro (pagine 652 - 663). Alla pagina 663, al n. 13, si può leggere: «Nastro a cassetta (...) nella prima parte sono incisi alcuni canti rivoluzionari come pure parte della seconda parte; sempre nella seconda parte una voce maschile parla con compagni, per pochi giri, per discutere di alcuni articoli» (Allegato n. 8, che verrà consegnato alla Commissione).
  Suscita curiosità questa dizione: «Voce maschile parla con compagni, per pochi giri, per discutere di alcuni articoli». Potrebbe trattarsi di un frammento di nastro Pag. 72registrato nel carcere di Moro sfuggito alla cancellazione ? Ho ricercato quelle cassette, sono riuscito a sapere che si trovano depositate a piazzale Clodio presso il Tribunale di Roma, tra i corpi di reato del processo Moro. Per poterle visionare occorre un'autorizzazione speciale e solo l'autorità giudiziaria può decidere in merito a reperti conservati come corpi di reato. Una volta ottenuta l'autorizzazione occorre osservare l'avvertenza di non procedere a qualsiasi uso delle cassette se non dopo essere ricorsi all'ausilio dell'Istituto centrale dei beni sonori e audiovisivi del Ministero dei beni culturali (via Caetani 32) o della polizia scientifica della Criminalpol o del RACIS (Raggruppamento Carabinieri indagini scientifiche), che possiedono le tecnologie per la salvaguardia e il recupero da pericoli di smagnetizzazione e deterioramento, sicuramente esistente a causa dei 36 anni trascorsi. Le tecnologie moderne consentono, nel caso di sovraincisioni, di separare la sovraincisione della musica dall'audio delle voci registrate in origine.
  Inoltre la musicassetta n. 17 è incisa in lingua inglese e nella descrizione del reperto manca qualsiasi indicazione di che trattasi.
  Nello stesso verbale di elencazione dei reperti sequestrati a via Gradoli vi sono altri reperti che possono essere connessi con l'operazione Moro: Moretti usò l'appartamento di via Gradoli in funzione del sequestro e quindi la verifica di quei reperti che possono avere connessione con gli interrogatori di Moro è d'obbligo.
  Dagli ex brigatisti occupanti l'appartamento di via Monte Nevoso seppi dell'esistenza di un elenco di domande corrispondenti agli argomenti trattati da Moro nel memoriale, elenco, però, non registrato tra i reperti sequestrati in via Monte Nevoso. Me ne parlarono Azzolini e la Mantovani. Comunque dalla lettura del «Memoriale» si evince che i brigatisti presentarono a Moro domande scritte a cui egli rispose per iscritto. Tra i reperti di via Gradoli troviamo al n. 781 un foglio a quadretti con la scritta «Fritz», che era il nome in codice dei Br per designare Moro. Da verificare di chi è il manoscritto. Da considerare che il memoriale Moro fu scritto su fogli a quadretti. Anche i reperti 774, 775, 776 sono indicati come manoscritti su fogli a quadretti. Il reperto n. 774 è indicato come un blocco note di 12 pagine a quadretti manoscritte delle stesse dimensioni del memoriale Moro. (Allegati n. 9 e n. 10, che verranno consegnati alla Commissione).
  Inoltre vi sono repertati anche dei giornali e alcuni di questi con articoli ritagliati. Sappiamo che Moretti aggiornava Moro con stralci di singoli articoli di giornale, quindi consultare quei giornali ci permette di conoscere quali informazioni ebbe Moro: si tratta dei reperti 460, 461, 462, 463, 464, 465.
  Infine appaiono degni di attenzione il reperto n. 390 (istruzioni per preparazione impianto acustico), i reperti n. 391, 393 (istruzioni per videoregistratori), i reperti 401, 403 (mangianastri).
  A nome di Giovanni Ricci, figlio di Domenico Ricci, caduto in via Fani, a nome anche del suo legale avvocato Biscotti, a nome dei familiari delle vittime di via Fani, a nome dell'Associazione culturale Centro Documentazione Archivio Flamigni vi chiedo di esercitare il vostro potere per ottenere le acquisizioni dei reperti citati.

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