Sulla pubblicità dei lavori:
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3
Comunicazioni del Presidente:
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3
Variazione nella composizione della Commissione:
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SUI MINORI FUORI FAMIGLIA
Audizione di rappresentanti della Fondazione «L'Albero della Vita – Onlus» e di rappresentanti dell'Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP) – Reggio Emilia – Città delle persone.
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3
Sgobbi Lara , Responsabile Linea tutela minori, «L'Albero della Vita – Onlus» ... 3
Pavani Alessandra , Responsabile ricerca e advocacy, «L'Albero della Vita – Onlus» ... 7
Sgobbi Lara , Responsabile Linea tutela minori, «L'Albero della Vita – Onlus» ... 8
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 9
Menozzi Carlo , Dirigente dei Servizi socio-educativi dell'ASP «Reggio Emilia – Città delle persone» ... 9
Bondavalli Cristiano , Educatore di coordinamento dell'ASP «Reggio Emilia – Città delle persone» ... 13
Zampa Sandra , Presidente ... 13
Menozzi Carlo , Dirigente dei Servizi socio-educativi dell'ASP «Reggio Emilia – Città delle persone» ... 13
Zampa Sandra , Presidente ... 13
PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE MICHELA VITTORIA BRAMBILLA
La seduta comincia alle 14.05.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Comunicazioni del presidente.
PRESIDENTE. Avverto che il 15 febbraio prossimo la Vicepresidente Sandra Zampa è stata invitata a partecipare a un convegno che si svolgerà a Firenze, organizzato da CISMAI e DiRe insieme ad Artemisia, che tratterà l'argomento della legge sulla violenza sessuale a venti anni dalla sua approvazione. Chiedo, quindi, se sono tutti d'accordo che l'on. Zampa si rechi in missione a Firenze in rappresentanza della Commissione.
(La Commissione concorda).
Variazione nella composizione della Commissione.
PRESIDENTE. Comunico che il Presidente del Senato, in data 8 gennaio 2016, ha chiamato a far parte della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza il senatore Stefano Collina, in sostituzione della senatrice Maria Spilabotte, dimissionaria.
(La Commissione prende atto).
Audizione di rappresentanti della Fondazione «L'Albero della Vita – Onlus» e di rappresentanti dell'Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP) – Reggio Emilia – Città delle persone.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, l'audizione di rappresentanti della Fondazione «L'Albero della Vita – Onlus» e di rappresentanti dell'Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP) – Reggio Emilia – Città delle persone.
Comunico che sono presenti, in qualità di rappresentanti della Fondazione «L'Albero della Vita – Onlus», Lara Sgobbi, responsabile Linea tutela minori, e Alessandra Pavani, responsabile Ricerca e advocacy.
È, altresì, presente il dottor Carlo Menozzi, dirigente dei Servizi socio-educativi dell'ASP Reggio Emilia – Città delle persone, accompagnato dal dottor Cristiano Bondavalli, educatore di coordinamento della stessa ASP.
Darei ora la parola alla dottoressa Sgobbi. Vedete voi come gestire questo vostro intervento: purtroppo non abbiamo tanto tempo, ma magari lo spazio per una domanda di approfondimento potrà esserci. Poi passeremo agli altri auditi.
LARA SGOBBI, Responsabile Linea tutela minori, «L'Albero della Vita – Onlus». Vi ringrazio innanzitutto a nome della Pag. 4Fondazione «L'Albero della vita» dell'opportunità di ascolto. Spendo due parole su chi siamo.
Fondazione «L'Albero della vita» nasce nel 1998 e proprio come primo progetto apre una comunità alloggio per minori in età scolare, «La bussola», che tuttora continua a svolgere il suo operato nella provincia di Pavia.
Dal 2005 Fondazione «L'Albero della vita» opera anche in altre zone del mondo. Io mi occupo della Fondazione come responsabile della Linea tutela minori, con un passato di educatore in comunità e successivamente di coordinatore. Il nostro intervento oggi parte proprio dal nostro osservatorio privilegiato, che è quello di un'organizzazione che da diciott'anni, fra i vari temi di intervento, si occupa dei minori fuori famiglia, e quindi della loro protezione.
Ad oggi, come attività in questo specifico tema siamo presenti in Lombardia con due comunità educative, con due appartamenti di seconda accoglienza per mamma e bambino, due di terza accoglienza e un progetto affido. Abbiamo una comunità per adolescenti in Sardegna e un gruppo appartamento per minori stranieri non accompagnati in Sicilia.
Il nostro intervento sociale, soprattutto quello nella protezione dell'infanzia, è particolarmente legato alla formazione e alla cura costante degli operatori sociali coinvolti. Mi riferisco a educatori, coordinatori e psicologi. Si tratta di una chiara metodologia di intervento pedagogico che mira allo sviluppo delle capacità del bambino.
A fronte di tutto questo, il primo punto che oggi vorrei portare all'attenzione è proprio quello relativo alla verifica degli standard rispetto, per esempio, alle comunità di accoglienza. Se gli aspetti degli standard gestionali e organizzativi con le varie differenze regionali – mi riferisco al rapporto metri quadri, al rapporto educatore e bambini e ai titoli di studio – vengono verificati quanto meno in occasione delle autorizzazioni al funzionamento, tutta la parte relativa al monitoraggio della qualità, tutta la parte relativa a quali strumenti utilizza un’équipe che lavora con minori fuori famiglia, a come vengono redatti i progetti educativi individualizzati, a chi li verifica oltre alla comunità stessa, rischia di essere un po’ ridondante. Chi verifica che l'ambiente – parlo sempre a livello di qualità della comunità – sia idoneo a farci vivere un bambino ? Questo, secondo noi, è un punto di criticità.
Si pone, dunque, questo aspetto. È come se il monitoraggio della qualità stesse sempre in capo al privato sociale e, quindi, alle organizzazioni e alle associazioni, che sono poi le stesse che si occupano di avere in carico il minore. Questo, come dicevamo prima, rischia di generare notevoli differenze nell'interpretazione di ciò che è qualità.
Su questo punto segnalerei anche una diversa velocità di lavoro fra chi si trova incaricato di occuparsi della quotidianità del minore – in questo caso le comunità – e il pubblico, nella fattispecie il servizio sociale, che molto spesso, a seguito del decreto del tribunale dei minori, ha in capo la tutela del bambino. Noi abbiamo collaborazioni costanti e quotidiane, come potete immaginare, con i servizi sociali e abbiamo assistito, e tuttora assistiamo, al loro evidente sovraccarico di lavoro. Ci sono assistenti sociali con moltissimi casi da seguire e, quindi, con una possibilità di farlo bene evidentemente ridotta e spesso – devo dire – anche una conseguente demotivazione dovuta a questa situazione di carenza organizzativa.
Questo mi porta facilmente a dire che è come se esistessero due ritmi di velocità diversi nella tutela del bambino fuori famiglia, forse anche tre. Il primo è il tempo del bambino, della sua storia, dei suoi traumi e del suo sviluppo. Poi c’è il tempo della vita quotidiana, che viene scandita all'interno della comunità dagli impegni quotidiani, come la frequenza a scuola e le attività sportive. Poi c’è il tempo del sistema pubblico, del servizio sociale e dei tribunali.
Spesso è un'evidenza con la quale tutti i giorni ci incontriamo: i tempi non sono assolutamente allineati, come dicevo. Il Pag. 5bambino cresce, la comunità progetta interventi educativi e li monitora nel migliore dei modi possibili, ma il tribunale e a volte i servizi sociali sono difficilmente reperibili o tacciono per un tempo che da chi sta dalla parte del tempo del bambino è difficilmente comprensibile.
Pertanto, anche in queste circostanze sono ancora una volta il privato e le organizzazioni che si muovono e che cercano un allineamento dei tempi, a volte in collaborazione con i servizi sociali e a volte di propria iniziativa, per esempio scrivendo direttamente in tribunale, scavalcando un po’ di passaggi, ma sempre in nome dell'intervento di tutela ben fatto.
Sempre in ambito di strutture residenziali, citerei anche il tema della sostenibilità economica e, quindi, delle differenze dirette all'interno delle varie regioni. Anche quando queste rette si agiranno intorno ai 100 euro al giorno, comunque chi ha a che fare quotidianamente con i budget dei singoli servizi – io e i colleghi lo facciamo da anni – sa che queste cifre spesso non sono totalmente sufficienti per coprire la garanzia degli standard organizzativi e gestionali e degli standard di qualità, rispetto ai quali ogni organizzazione ha la propria diversa interpretazione.
Che cosa succede quando, per esempio, ci sono dei comuni o delle amministrazioni locali che non riescono ad essere puntuali nei pagamenti ? Spesso ci troviamo nelle condizioni di avere dei rapporti di pagamento con alcuni comuni ritardati di tre, sei e a volte nove mesi. Questo chiaramente porta le strutture comunitarie a un'esposizione notevole.
Sempre dal nostro osservatorio privilegiato accade che ce la fanno, e ce la fanno bene, quelle organizzazioni che sanno muoversi, per esempio, nella raccolta fondi. Questo, se, da un lato genera un movimento virtuoso di attivazione del privato sociale e di condivisione anche della tematica dei minori fuori famiglia con la cittadinanza – peraltro, noi riteniamo che sia anche un movimento interessante – dall'altro certo non può essere l'unica risposta. Non è pensabile che strutturalmente si stia in una condizione in cui le rette dei comuni, che, come dicevo prima, spesso non arrivano puntuali, non mettano gli operatori sociali nelle condizioni di soddisfare il rispetto di standard qualitativi e qualitativi.
Il rischio, come dicevo, è quello di trovarsi – come ruolo, io faccio anche selezione del personale – di fronte a operatori sociali motivati e preparati che cercano lavoro o che desiderano cambiarlo perché non percepiscono lo stipendio da mesi, in quanto la comunità nella quale lavoravano precedentemente non ce la fa più e, quindi, ha arretrati di stipendi di sei o dodici mesi, oppure perché sono contrattualizzati in un modo, ma poi sono pagati in tutt'altro modo. Questo ci fa veramente pensare che incontrare professionisti della relazione di aiuto che scelgono altre strade o che sono fortemente demotivati in una missione lavorativa di così grande importanza sia certamente una questione della quale preoccuparsi e occuparsi.
Faccio ora un passaggio rispetto alla tematica dell'affido. Sempre dal nostro osservatorio la nostra esperienza, che è attiva in Lombardia dal 2006, ci ha visti creare un modello di intervento sull'affido specializzato, che vede la presenza di un’équipe dedicata. Abbiamo tre educatori professionali, uno psicologo e un coordinatore e ci occupiamo di tutte le fasi che hanno a che fare con l'affido, ossia la promozione, la sensibilizzazione, la formazione delle famiglie, l'abbinamento, in collaborazione con i servizi sociali e su mandato dei servizi sociali, della famiglia affidataria con il bambino e, successivamente, il monitoraggio dell'intervento. Questo avviene con visite domiciliari e un supporto psicologico.
Anche qui dal nostro osservatorio privilegiato abbiamo dei numeri interessanti. Abbiamo abbinato 100 bambini ad altrettante famiglie affidatarie e abbiamo sensibilizzato più di 1.400 famiglie. In merito ci piace raccontarci che la nostra spinta come Fondazione «L'Albero della vita» per muoverci anche verso la tematica dell'affido nasce ancora da una domanda Pag. 6che ha al centro i bambini: com’è possibile che i bambini passino uno, due o tre anni in comunità ? Com’è possibile che non esista un'altra possibilità per loro ? Sappiamo bene che la normativa con la quale ci muoviamo dice tutt'altro. Se il rientro in famiglia non è possibile e presumibilmente non lo sarà per diverso tempo, e se parimenti non sussistono gli estremi per l'adozione, cos'altro ci può essere per quel bambino oltre alla comunità ?
Da queste riflessioni e dalla ferma convinzione che quello familiare è certamente il contesto migliore in cui un bambino possa crescere, nasce il nostro progetto, che, come dicevo prima, nel nostro osservatorio lombardo è stato anche in alcune situazioni preso a modello e ci ha portato a sperimentare una buona prassi, che oggi desidero condividere.
Si tratta di un lavoro congiunto fin dall'inizio, laddove è possibile, fra l'istituto delle comunità, il sistema delle comunità alloggio residenziali, e il sistema dell'affido, affinché questi due modi di pensare al minore fuori famiglia e, quindi, di operarne la tutela, possano essere il più possibile collaboranti fra loro.
Che cosa vuol dire questo ? Vuol dire che, per esempio, fin dal collocamento in comunità gli operatori della comunità e quelli del servizio sociale si interrogano rispetto a che cosa possa esserci dopo, e che, quindi, un progetto di collocamento in comunità vive veramente di quella temporaneità di cui dovrebbe vivere.
Accanto a questa buona prassi desidero condividere anche la necessità di rafforzare propriamente la cultura dell'affido. Si parla spesso di cultura dell'affido, del fatto che siamo ancora giovani e che ci sono altri Paesi europei che hanno delle esperienze diverse dalle nostre. Spendo due parole su che cosa potrebbe rafforzare questa cultura.
Intanto credo che ci siano molteplici livelli. C’è il livello certamente della sensibilizzazione delle famiglie affidatarie e, quindi, dell'avere un bacino maggiore, ma dal nostro osservatorio non è quella l'unica questione. Partirei, quindi, dai livelli più alti, per esempio da quello dei tribunali, che, nella nostra esperienza, decretano ancora con più facilità, come primo provvedimento, quello del collocamento in comunità piuttosto che l'idoneo collocamento, che lascia ai servizi sociali la possibilità di scegliere, anche dopo un tempo di comunità, che magari è stata scelta sulla spinta dell'urgenza come prima soluzione che si intravede possibile, di passare facilmente dal sistema della comunità a quello dell'affido, senza la necessità di emissione di un ulteriore decreto e, quindi, senza dover aspettare ancora altro tempo.
L'altro elemento è che spesso gli interventi di tutela arrivano quando la situazione è già fortemente pregiudicata. A volte, quindi, si ricorre a interventi di urgenza. Quando dico «di urgenza», dico che il servizio sociale chiama e dopo due ore arrivano la Polizia o i Carabinieri in accompagnamento col bambino, perché si deve ricorrere a un allontanamento coatto, con tutto quello che esso comporta.
Sempre in tema di cultura dell'affido, c’è anche il tema per cui, una volta che l'affido è stato avviato, rischia di diventare a sua volta non un provvedimento temporaneo di ventiquattro più ulteriori ventiquattro mesi, ma una misura sine die. Ci troviamo con minori fuori famiglia da una parte in comunità e dall'altra parte in affido, ma senza un pensiero rispetto alle famiglie d'origine.
Su questo aspetto noi ci troviamo quotidianamente a lavorare con i bambini, meno, per mandato e per mission, con le famiglie d'origine. Qui il tema è: avendo a che fare con i minori e con i bambini fuori famiglia, c’è certamente il focus sui bambini, ma c’è anche quello sulla famiglia. La domanda è come, con quali energie e con quali modalità si lavora effettivamente sulle possibilità di recupero della famiglia d'origine? Qui ci sembra che ci sia un lavoro di indagine valutativa sulle competenze genitoriali piuttosto che un intervento di cura genitoriale che miri alla creazione di strumenti di sostegno capaci di aiutare le famiglie a gestire le risorse che hanno a disposizione.
ALESSANDRA PAVANI, Responsabile ricerca e advocacy, «L'Albero della Vita – Onlus». Gentilissimi membri della Commissione parlamentare per l'infanzia, buongiorno. Grazie per l'invito e per l'attenzione mostrata fino ad ora. Desidero, nei pochi prossimi minuti, evidenziare in particolare alcuni elementi appena accennati dalla mia collega Lara Sgobbi e arricchirli brevemente di alcuni spunti, grazie a un lavoro di ricerca recentemente presentato qui alla Camera in collaborazione con la vostra Commissione. La ricerca è Io non mi arrendo. Bambini e famiglie in lotta contro la povertà: fragilità e potenziali, promossa da «L'Albero della vita» e realizzata con la Fondazione Zancan.
Innanzitutto premetto che l'intenzione non è di spostarci su un altro tema, ma semplicemente di andare a trarre alcuni elementi e di portarli poi sull'oggetto dell'indagine di oggi. Il tema, come ben sapete per la vostra eccellente conoscenza delle problematiche della povertà grazie all'indagine conoscitiva svolta, è che, dopo aver toccato livelli record negli scorsi anni, la povertà assoluta è un fenomeno ormai strutturale. Riguarda il 10 per cento della popolazione minorile e il 5,7 per cento delle famiglie italiane. Possiamo proprio definirlo un paradosso umano e sociale. Ipoteca la vita dei bambini, perché le privazioni che vivono a vari livelli – cure mediche, alimentazione e socializzazione – incidono sul loro sviluppo e mantengono attivo il circuito di trasferimento della povertà e della fragilità.
«L'Albero della vita» riconosce, in particolare, nella povertà, che sia materiale o educativa, una condizione esistenziale in cui si vive e si cresce, ma da cui è difficile trovare la forza per uscire e in cui è difficile attingere e far crescere le proprie aspirazioni e vedere le opportunità.
In uno scenario di welfare assistenziale che affronta la povertà con interventi prevalentemente monetari e non riesce a risolverla, «L'Albero della vita» decide nel 2014 di mettere in atto una strategia multidimensionale nel contrasto alla povertà con un progetto in due città, Milano e Palermo, Varcare la soglia – Empowerment e partecipazione per contrastare la povertà.
In questa strategia di contrasto «L'Albero della vita» attiva anche la ricerca menzionata poco fa, coinvolgendo 277 famiglie povere e fragili con figli minorenni in sette città italiane. Ebbene, queste famiglie hanno raccontato la loro difficoltà, che cosa li aiuta di più e come fanno a farcela. Si tratta di una ricerca animata dallo sforzo, da un lato, di individuare le esigenze delle famiglie povere con figli e, dall'altro, di riconoscere le risorse di cui ogni famiglia è portatrice per utilizzare questa maggiore conoscenza nel miglioramento delle risposte alle famiglie stesse.
Partendo proprio da qui, la ricerca ci offre spunti tramite la voce delle famiglie. Questo è il primo elemento importante e può aiutarci a riflettere proprio sul tema di oggi. Anzitutto la ricerca nasce dall'idea che non possiamo aiutare le famiglie senza di loro. Si basa, quindi, su un fondamento di fiducia nella persona, che spesso, però, ha bisogno di essere aiutata a conoscere le proprie risorse.
Dalla ricerca emerge che le famiglie povere e fragili che abbiamo incontrato hanno a disposizione risorse e strumenti, ma spesso non ne sono consapevoli. Le mamme e i papà incontrati nella ricerca, che hanno avuto nella loro esperienza di povertà l'opportunità di essere ascoltati e aiutati a guardare oltre la propria condizione, facendo un bilancio delle proprie competenze come punto da cui ripartire, testimoniano quanto sia stato prezioso questo aiuto per andare oltre la difficoltà e ricominciare ad avere fiducia nella propria capacità di affrontarla e risolverla.
Inoltre, è emerso che chi ha figli ha proprio voglia di lottare, è resiliente, sviluppa inaspettate capacità. Quindi, assecondare il potenziale dei genitori è un dono soprattutto ai figli, ma offre anche nuove finestre di lotta contro la povertà.
Eppure, in alcune tipologie di interventi, anche nel caso dei minori fuori famiglia, la cura e la promozione genitoriale sono un elemento ancora piuttosto debole. Le famiglie intervistate, pur ricevendo Pag. 8molti più aiuti sotto forma economica, hanno risposto, però, che ciò che le aiuta di più lo ricevono sotto forma di vari servizi. Grazie alla professionalità degli operatori, questi servizi sono più capaci di aiutare le famiglie.
In molti casi le famiglie dichiarano grave la mancanza di assistenza sociosanitaria e, quindi, di servizi di sostegno alla socializzazione e di neuropsichiatria infantile, importanti per rafforzare la loro capacità di relazione. Sono, quindi, gli strumenti di promozione delle famiglie e di attivazione delle loro risorse personali che ancora stentano a decollare, sia nel campo della povertà, sia riguardo ai minori fuori famiglia, proprio per quanto più riguarda la prevenzione, come accennava la mia collega.
Tutto il lavoro della Fondazione «L'Albero della vita» ruota intorno alla possibilità di accompagnare le persone a una consapevolezza che le rimetta in moto, famiglie e bambini. Nella ricerca – questo è un altro aspetto – il modo in cui le famiglie sono state incontrate, ossia la qualità del colloquio e della relazione gestita dal ricercatore nella fase di ascolto e l'utilizzo di alcuni strumenti relazionali, ha permesso di far emergere in loro consapevolezza su capacità e strumenti a propria disposizione.
Così è avvenuto nei nostri progetti di Milano e Palermo, ma possiamo traslare facilmente l'importanza di questo concetto appena esposto alla situazione quotidiana degli assistenti sociali, sia nel campo della povertà, sia in quello dei minori fuori famiglia. Il punto della qualità dell'accompagnamento è veramente centrale.
Le competenze dell'operatore per exducere, ossia far venir fuori, dalla persona che incontra, ciò che è già dentro di lei è una questione importantissima, ma, al tempo stesso, è un'area sensibile nelle nostre politiche di intervento.
Concludo dicendo che gli operatori devono essere messi nella condizione di poter dare il meglio nell'incontro con le famiglie e con i bambini. La formazione degli operatori per la valorizzazione delle risorse nelle politiche di contrasto della fragilità familiare e anche della povertà, ma anche della prevenzione, come nel tema dei minori fuori famiglia, è dunque un elemento importantissimo, che deve essere messo a sistema.
Ripasso la parola a Lara Sgobbi.
LARA SGOBBI, Responsabile Linea tutela minori, «L'Albero della Vita – Onlus». Vorrei semplicemente dire che l'orizzonte che ci piacerebbe vedere disegnato è veramente quello di uno spostamento culturale ed economico, ossia di risorse verso la prevenzione, verso la possibilità di prevenire l'allontanamento e verso il rafforzamento dell'istituto dell'affido.
Aggiungo due velocissime note. Una è sull'importanza di dotarsi di sistemi nazionali di raccolta dati, anche in termini numerici. I dati ministeriali risalgono al 2012. Parlo di un «censimento» dei minori fuori famiglia, ma anche di un elenco aggiornato sulle comunità alloggio, oppure, e qui esprimo un fantadesiderio, di avere a disposizione un database che raccolga le famiglie affidatarie disponibili, tutto nell'ottica di mettere in rete le risorse disponibili.
Noi ci troviamo a volte a dover far fronte ad affidi fuori dalla regione e, quindi, fuori dai nostri schemi di intervento quotidiani. Ci troviamo magari a ricorrere ai social network, ossia a mettere degli appelli sui social network, su pagine ovviamente private, con tutti i canoni del rispetto della privacy. La domanda rispetto a come potrebbe essere fatto questo lavoro di reperimento di famiglie affidatarie in una maniera più istituzionale, che metta in rete le risorse che già ci sono, è certamente una domanda che oggi poniamo.
L'ultimo accenno riguarda il tema dei minori stranieri non accompagnati, un tema sul quale ho letto che già nelle precedenti audizioni vi siete detti molto. Il nostro osservatorio è quello della gestione, tuttora in atto, di un gruppo appartamento per minori stranieri non accompagnati a Palermo e di essere, negli ultimi due anni, scesi in campo insieme ad altre organizzazioni sul territorio di Milano, che ha Pag. 9visto negli ultimi due o tre anni un ampliamento di questo fenomeno veramente impegnativo.
Sui pianerottoli del pronto intervento sostano ogni giorno dai 30 ai 40 minori che non hanno un posto in comunità. Questa è una realtà alla quale, per esempio, il territorio di Milano deve fare fronte.
Chi lavora con i minori stranieri non accompagnati sa che i bisogni di questi ragazzi spesso differiscono da quelli dei ragazzi italiani. I minori stranieri non accompagnati arrivano con un mandato particolare, spesso dato dalle loro famiglie. Il loro impegno è teso nella maggior parte dei casi alla ricerca di un lavoro e, quindi, dell'indipendenza economica e sociale. Innanzitutto certamente occorre accogliere questi ragazzi, tutelare i loro diritti, ascoltarli e orientarli e a volte ridimensionare le loro aspettative. Quando un ragazzino di quindici anni ti chiede di lavorare, tu gli devi spiegare, per esempio, che deve assolvere all'obbligo scolastico prima di pensare all'attività lavorativa.
Accanto alla necessità fondamentale di garantire i loro diritti in quanto minori, crediamo che sia fondamentale accogliere la specificità del fenomeno e, quindi, dirsi che i bisogni e le risposte di tutela per i ragazzi che arrivano da un percorso migratorio possono essere diversi da quelli degli adolescenti che, invece, non hanno questo tipo di percorso alle spalle.
In questo momento mi piace lasciarvi con questa immagine. Nelle nostre comunità accogliamo 40 bambini e ragazzi e 5 mamme. In queste stesse strutture ne abbiamo accolti 304 – ieri facevo il mio personale censimento – e 25 mamme. Abbiamo realizzato più di 100 affidi e le famiglie sensibilizzate sono 1.400, come dicevo prima.
Di alcuni di loro ho potuto seguire direttamente la storia da educatore e poi da coordinatore. Di moltissimi ricordo i nomi, il colore degli occhi, le preferenze sul cibo e sui giochi. Dico questo solo per ricordarci costantemente che dietro alla categoria dei minori fuori famiglia ci sono le singole individualità, ci sono le singole storie dei singoli bambini, nella loro unicità e nella loro sacralità, e ci sono soprattutto le rispettive famiglie.
Ringraziamo veramente per questa opportunità di confronto su una tematica assai cara a «L'Albero della vita», che da sempre ha come mission quella di promuovere azioni efficaci finalizzate ad assicurare benessere, proteggere e promuovere i diritti e favorire lo sviluppo dei bambini, delle loro famiglie e delle comunità di appartenenza.
Grazie molte.
PRESIDENTE. Grazie a voi. Non so se ci sarà lo spazio per delle domande, perché l'Aula riprende i suoi lavori alle 15. Vi anticipo, però, che il momento in cui presenteremo quest'indagine conoscitiva con i suoi risultati potrebbe essere l'occasione per ospitare anche un vostro intervento a quello che sarà evidentemente un evento pubblico, o qualcosa del genere. Mi riservo di coinvolgervi ancora su questo fronte. Grazie infinite.
Passiamo alla seconda parte della nostra audizione di oggi. Abbiamo con noi il dottor Carlo Menozzi, dirigente dei Servizi socio-educativi dell'ASP «Reggio Emilia – Città delle persone», accompagnato dal dottor Cristiano Bondavalli, educatore di coordinamento della stessa ASP.
Dottor Menozzi, non abbiamo tanto tempo, ma ha visto che il tema della nostra audizione rientra nell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia. So che voi avete un po’ di cose da raccontarci su questo tema. Non vi rubo tempo e vi do subito la parola. Magari la collega onorevole Zampa potrà interagire direttamente con voi, conoscendo meglio la realtà di Reggio Emilia.
PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE SANDRA ZAMPA
CARLO MENOZZI, Dirigente dei Servizi socio-educativi dell'ASP «Reggio Emilia – Città delle persone». Grazie, presidente. Grazie, onorevoli parlamentari. Sarò brevissimo perché avete cose più importanti e urgenti da fare.Pag. 10
Parto dalla denominazione che è stata data a quest'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia. Avrei da sottolineare due di questi termini. Il primo, «minori», come dico sempre in ogni circostanza, è un termine che andrebbe abolito, anche se nella giurisprudenza è assolutamente diffuso, perché è un termine comparativo e, quindi, implica che, se c’è un minore, c’è anche un superiore. Nel caso specifico, peraltro, tutte le normative che voi stessi cercate di mettere in atto sono normative che dimostrano un bisogno superiore, non certamente inferiore, di queste persone di essere accudite e tutelate. Quindi, li chiamerò quantomeno «minorenni».
È vero che geograficamente sono fuori famiglia, ma interiormente non lo sono affatto, anzi, permangono nella famiglia e la famiglia, se mi è consentito dirlo, se la portano dentro. Che poi sia la famiglia reale, la famiglia desiderata, la famiglia che ha ferito, la famiglia che ha abusato o la famiglia che si è sempre sognato di avere, non si può mai disgiungere un bambino dalla realtà in cui è nato e nella quale è stato, bene o male, cresciuto nei primi anni di vita.
Questo vuol dire che qualunque legge deve comunque tener conto che qualsiasi azione, come la normativa sull'affido e l'adozione già prevede – e con la legge 149 del 2001 l'idea è stata rinforzata – degli interventi sulle famiglie, anzi, con le famiglie d'origine.
Qui si pone un problema, cui accenno soltanto. La fragilizzazione, le violenze domestiche, tutte queste drammaticità che noi incontriamo nella fatica del vivere sono talmente grandi che – va detto – dobbiamo riscontrare un'impreparazione dei servizi. Essi non vanno tanto aumentati quantitativamente, secondo me. Non c’è solo il problema di ridurre il rapporto a 10 o 300 famiglie per assistente sociale, perché intervenire – ripeto – con le famiglie implica una sensibilità, una capacità e una professionalità che vanno rigenerate. Occorre anche rivedere lo schema con il quale si sono catalogate, etichettate e classificate le varie povertà e i vari disagi fino ad oggi.
Spesso capita nell'esperienza di tutti i giorni, per noi che gestiamo comunità, ma anche per i colleghi dei servizi, di fare tutti i propri ragionamenti, stilare tutte le proprie casistiche, pensare che ad un determinato bisogno vada fornita una determinata risposta e poi accorgersi che non è così e che ciascuno è sempre, a suo modo, un'eccezione.
Noi abbiamo adesso quattro o cinque comunità. In queste comunità vivono ragazzi che hanno subìto maltrattamenti o abusi e che da un punto di vista formale, semantico o lessicale possono anche essere definiti uguali (possono esserci due papà che hanno abusato sessualmente della figlia o casi di maltrattamento fisico), ma le modalità di reagire a quell'evento sono assolutamente diverse.
In relazione al contesto in cui si sono create le possibilità di recuperare delle risorse, come si diceva prima, che a volte i genitori sono bravissimi a nascondere – sono nascostissime, ragion per cui andare trovarle non è facile – la prima necessità, secondo me, è questa: reimparare a lavorare con le famiglie, certo, garantendo una tutela e una fase (chiamiamola così) di decondizionamento e di allontanamento almeno dalla violenza fisica o dalla deprivazione materiale dei ragazzi. Tuttavia, non se ne può fare a meno e anche i ragazzi devono essere aiutati a fare i conti con la loro famiglia, altrimenti i conti ce li fanno loro stessi, a prescindere dal progetto che si fa e dall'idea che si vorrebbe attuare.
Certo, non è facile lavorare con degli adulti. Ai ragazzi minorenni soprattutto, a un certo punto, per il loro bene, si può fare una cosa che magari per loro è male, ossia prenderli e portarli via di casa, anche se non sempre lo capiscono. Anche qui occorrerebbe riflettere a volte sui tempi di comprensione di ciò che è fatto per il loro bene, come si dice. Comunque, il primo punto è questo: lavorare con le famiglie e garantire ai bambini fuori famiglia, ma che hanno la famiglia dentro, ciò che forse è mancato loro anche in Pag. 11famiglia e che manca anche a molti bambini che fuori famiglia non sono. Manca loro la famigliarità.
Nella mia ormai trentennale esperienza, in cui ho conosciuto centinaia e centinaia di ragazzi portati fuori famiglia, mi sono reso conto che ci sono anche molti ragazzi in famiglia che non hanno affatto il diritto alla famigliarità, cioè a quella serie di relazioni e di legami affettivi per cui la vita di uno si travasa nella vita di un altro, tanto che le due vite non si fondono, ma si intrecciano e diventano interdipendenti, in cui si matura un senso di affettività, di calore e di appartenenza. Queste sono le cose che fanno crescere, che danno valore, che danno stima, non solo un assolvimento di diritti.
La legge del 2011 – scusate l'inciso – prevede una cosa straordinaria, ossia ha fatto un'aggiunta. Dice che i minori – scusate se uso il termine «minori», ma è la legge che lo dice – hanno diritto alle relazioni affettive di cui hanno bisogno. È un testo incredibile. Normare il diritto a una relazione affettiva è straordinario, perché poi lo si deve coniugare. Se uno deve andare a scuola, si decide qual è la scuola e lo si iscrive, ma stabilire come l'adulto deve, nelle varie forme, sia di famiglie affidatarie, sia di comunità, sia di quello che volete, garantire delle relazioni affettive è altro.
Ci sono dei termini che, secondo me, vanno un po’ meglio declinati e condivisi. Debbono produrre una qualche cultura. Quindi, ho pensato a suo tempo di scrivere quali dovessero essere i colori della famigliarità, perché le comunità, comunque esse si chiamino sul territorio nazionale – ognuno le chiama come vuole – debbono essere di carattere famigliare. Sapete, però, che «famigliare» è quella parola che, quando la diciamo, tutti ci capiamo. Ci capiamo meno quando ci mettiamo a dirci che cosa significa, perché ognuno poi la spiega a modo suo, ovviamente.
La famigliarità è fatta di tanti colori, ma ha delle regole. Prevede delle cose di cui non si può essere privati. Per questo motivo credo che dopo la famiglia e la famigliarità si debba parlare della formazione, per tutti, per gli operatori, per le famiglie affidatarie, per i genitori, ma non intesa come formazione tecnica o aggiornamento professionale. La formazione è proprio quell'attività di confronto, di dialogo e di capacità di ascolto che aiuta a dare una forma diversa alla propria capacità interiore di accoglienza, al proprio modo di vivere e di vedere il mondo. Questa è la formazione. La formazione è quella che determina la nostra visione del mondo, è quella che un filosofo inglese chiamava «dare forma ai confini del cuore e alle comunità del cuore». Questa è la formazione, di cui tutti abbiamo bisogno.
Poiché entriamo in dinamiche sempre fortemente relazionali e affettive, bisogna che facciamo la formazione su questi temi di profondità esistenziale molto complessa e delicata. È una formazione che va fatta in punta di piedi, che ci coinvolge e che a volte può sconvolgerci, ma che non può essere una formazione che persiste sulla performance di tipo tecnico o strutturale. Qui siamo di fronte a dei bisogni di vita che sanguinano, a vite spezzate, o che rischiano di non aver più voglia di andare avanti. Noi invece siamo qui per dire che, nonostante tutto, vale la pena di vivere.
Non è facile, quando si mastica l'amarezza delle persone che stanno di fronte, quando si prendono le urla sulla faccia per il dolore provato assolutamente in maniera immotivata e quando, al contempo, si deve iniziare a procedere, perché se no non si vive, a ricondurre tutti a un cammino di riconciliazione, di accettazione riconciliata. A volte ci vuole una vita, non bastano certamente due anni. A volte non basta neanche una vita. Il tentativo, però, va fatto, perché chi subisce il dolore sta male, ma anche chi lo fa rimane prigioniero del dolore che ha causato e prodotto. A volte poi si mescolano le cose, tanto che noi abbiamo visto molti ragazzi abusati sentirsi in colpa di aver subito l'abuso o per aver determinato questo abuso.
Da ultimo – mi scuso perché sono mi sono già dilungato troppo – tutto questo (la formazione, la famigliarità, il richiamo della famiglia) ci porta alla priorità di Pag. 12ridurre la frammentazione. Noi facciamo tante norme, che vanno bene – bisogna però che rimangano centrate sul senso ultimo che debbono riscoprire – ma soprattutto mettiamo in campo molte professionalità e, per usare termini moderni, oggi sperimentiamo un modo di pensiero e di conoscenza parcellare, compartimentato, monodisciplinare e quantificatore. C’è un'esasperata iperspecializzazione dei saperi che impedisce di vedere il globale così come l'essenziale, un diffuso e contagioso paradigma conoscitivo di disgiunzione, come lo chiama Morin.
È necessario che questa frammentazione dei saperi, ma anche delle persone che noi facciamo agire intorno e per l'interesse del ragazzo, si armonizzino e si confrontino. Non è possibile che un ragazzo che già si trova in uno stato di fragilità e di sofferenza si trovi, per essere aiutato, a fin di bene – siamo sempre lì: lo si fa a fin di bene, nessuno lo fa a fin di male; anche il peggiore dei mali vien fatto sempre a fin di bene – venti o trenta interlocutori, di cui ognuno magari è deputato a rispondere del proprio agire da una parte o dall'altra. Penso ai rapporti tra magistratura, servizi sociali, servizi sanitari, famiglia d'origine, famiglia affidataria, comunità, scuola. Pensate a quante persone vogliono tutte insieme il bene di questo ragazzo. Il problema è che lui è uno, mentre noi siamo tantissimi e rischiamo di lacerare l'unicità della persona.
Credo che vada fatto un grande lavoro di riduzione della frammentazione, anzi di armonizzazione, anche attraverso precisi modelli decisionali, perché spesso nella vita anche quotidiana di un ragazzo non si sa esattamente rispondere alla domanda: chi è che decide su questa cosa che mi riguarda ? Sono questioni semplici, come l'iscrizione a una squadra di calcio, la rappresentanza attiva/passiva nella scuola, se fare o non fare la prima comunione, se si può andare in gita o no stando via due giorni.
Salta fuori che sarebbe meglio che decidesse la mamma, ma poi il papà, che non ha perso la potestà genitoriale, non la pensa così e allora interviene il giudice tutelare. Dove si trova il giudice tutelare pronto a fornire una risposta ? Allora ci pensa l'assistente sociale, che ha ricevuto l'affidamento dal tribunale, ma come fa il tribunale ad affidare un bambino a un assistente sociale o a un servizio sociale, quando si sa benissimo che, anche in termini di legge, l'affidatario è colui che vive con il bambino ? I tribunali diano ai servizi sociali la vigilanza, non l'affidamento, e l'affidamento venga dato alle persone in carne e ossa che prendono a vivere con sé il ragazzo, dando loro con chiarezza i doveri e i poteri dell'affidatario, che nella legge sono molto deboli.
C’è un breve cenno, per esempio, al fatto che l'affidatario, comunità o famiglia che sia, può avere contatti e rapporti con le autorità sanitarie. Declinatemi voi che cosa significa questo. Per autorità sanitarie intendo, per esempio, il ministro della sanità o il dottore ? Io, che ho ragazzi in comunità magari per troppo tempo, posso effettivamente andare all'ospedale e assistere il ragazzo quando è ricoverato perché i genitori non ci sono o sono lontani, oppure in carcere ? Devo sempre sperare che il medico di turno mi dia il permesso di farlo. Oppure mi chiede: «Ma lei chi è ?».
Lo stesso accade quando accompagno il ragazzo al pronto soccorso, oppure se devo portarlo dal dentista. Capita spesso di andare dal dentista. Per l'anestesia occorre la firma del tutore.
Va bene che ci mettiamo in tanti a proteggere questa persona, ma poi a volte rischiamo di esagerare. Io credo che ci sia chi deve vigilare sulla qualità e sui doveri dell'affido, ma anche chi debba essere messo in condizioni di ovviare agli ordinari bisogni che un bambino ha nella vita. La sua vita non può essere ulteriormente complicata proprio nella sua quotidianità, l'unico spazio educativo e pedagogico che abbiamo per ridare senso alla sua esistenza, proprio restituendo valore, dignità e sensatezza al vivere di tutti i giorni.
Grazie. Vorrei solo lasciare la parola per un secondo a Cristiano Bondavalli, il mio collega, per ricordarvi una cosa. C’è Pag. 13un problema, ossia che i minorenni, o minori che siano, hanno un difetto: diventano maggiorenni.
CRISTIANO BONDAVALLI, Educatore di coordinamento dell'ASP «Reggio Emilia – Città delle persone». Questo è un problema che a volte diventa non di poco conto. Volevo aggiungere solo questo elemento, questo nodo critico, dopo aver condiviso anche gran parte dell'intervento che ci ha preceduto. Nel contesto socioeconomico attuale, ancor più che in passato, questo diventa un problema quando non ci sono alternative possibili alla comunità e, quindi, i ragazzi sono diventati maggiorenni.
La prosecuzione del progetto educativo a volte diventa un nodo critico perché le risorse, ovviamente, diminuiscono drasticamente, perché l'obbligo della tutela finisce a volte con la maggiore età e, quindi, occorre creare le condizioni perché questi minori, che possono aver vissuto a lungo in comunità, possano costruirsi una vita indipendente. Anche soltanto il reperimento del lavoro o di un'abitazione autonoma diventa molto difficile nelle condizioni sociali di oggi.
Si corre così il rischio di mettere a repentaglio tutto quello che è stato costruito nel progetto educativo precedente, nonché di vedere anche ingenti risorse che sono state investite su progetti educativi che avevano portato all'allontanamento dei ragazzi in comunità dover a volte naufragare; oppure li si vede ritornare alle famiglie, che magari non sono state seguite e sostenute e che non sono pronte a riaccogliere i minori che erano stati da loro allontanati.
Volevo solo esporre brevemente questo nodo critico.
PRESIDENTE. È stato veramente un piacere ascoltarvi. Esprimo davvero il mio apprezzamento perché in così poco tempo siete riusciti a trasmetterci, pur senza inondarci di dati, un forte senso di che cosa significhi occuparsi di questi temi e anche di quali siano le poste in gioco. Davvero molte grazie.
Grazie anche alle amiche de «L'Albero della vita», con le quali, peraltro, mi sono trovata in diverse circostanze a collaborare.
Non potremo fare domande perché dobbiamo essere in Aula alle 15. Il vostro intervento verrà, però, trascritto e sarà poi a disposizione anche di quanti non hanno potuto essere qui. Eventualmente faremo approfondimenti, magari anche per iscritto. Voi sapete che il vostro intervento rientra nel quadro complessivo di un'indagine conoscitiva. In realtà, vorremmo trarne elementi sufficienti a farci un'idea se in Italia le cose funzionino o meno e per eventualmente suggerire interventi correttivi.
Serve, però, anche a togliere di mezzo il fantasma, spesso presente, di argomenti che si sentono usati anche nei media contro l'affido e, in generale, contro l'uscita dei minori dalla famiglia. Voi avete detto benissimo: ci sono dei momenti in cui è indispensabile fare questo, il che non significa voler interrompere relazioni; al contrario, una buona azione è quella che lavora già per riconciliare e per recuperare anche genitorialità, laddove essa non sia irrimediabilmente compromessa. In questo senso credo che ci siano delle situazioni in cui oggettivamente si è andati molto oltre il limite possibile della riconciliazione.
CARLO MENOZZI, Dirigente dei Servizi socio-educativi dell'ASP «Reggio Emilia – Città delle persone». Certo, non sarà una riconciliazione a due, ma a uno, con se stessi.
PRESIDENTE. Sì, non c’è dubbio.
Mi devo concedere solo una battuta sulla questione dei minori. Scrivendo spesso, anch'io ho continuamente la sensazione di scrivere una parola in cui non mi ritrovo. Bisognerebbe sostituirla definitivamente con «minorenni», secondo me. È vero che «persone di minore età» è l'espressione più corretta, ma in un testo letto o scritto, in un tweet o in una nota Pag. 14per la stampa non si riesce a scrivere «persone di minore età», non c’è niente da fare.
È solo per dirle che siamo ben consapevoli di questo. In questo momento c’è gente che ti ride in faccia quando dici «minori» riferendoti ai minori stranieri non accompagnati, perché magari li incroci, e spesso sono dei ragazzi grandi e robusti che hanno una grande «adultità» addosso. Neanche a sessant'anni noi abbiamo visto tutto quello che hanno visto loro.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 14.55.