Sulla pubblicità dei lavori:
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 2
INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE CONCERNENTI L'ATTUAZIONE DEGLI STATUTI DELLE REGIONI AD AUTONOMIA SPECIALE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL RUOLO DELLE COMMISSIONI PARITETICHE PREVISTE DAGLI STATUTI MEDESIMI
Audizione dell'Ispettore generale capo dell'Ispettorato generale per la finanza delle pubbliche amministrazioni della Ragioneria generale dello Stato, Salvatore Bilardo, e del Direttore generale del dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze, Fabrizia Lapecorella.
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 2
Lapecorella Fabrizia , direttore generale del dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze ... 2
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 16
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANPIERO D'ALIA
La seduta comincia alle 8.10.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione dell'Ispettore generale capo dell'Ispettorato generale per la finanza delle pubbliche amministrazioni della Ragioneria generale dello Stato, Salvatore Bilardo, e del Direttore generale del dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze, Fabrizia Lapecorella.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del Direttore generale del Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze, Fabrizia Lapecorella.
La professoressa Lapecorella è accompagnata dal dottor Paolo Puglisi, direttore della Direzione legislazione tributaria e federalismo del Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze.
Avverto che il dottor Bilardo, Ispettore generale capo dell'Ispettorato generale per la finanza delle pubbliche amministrazioni della Ragioneria generale dello Stato, è impossibilitato a partecipare alla seduta odierna a causa di concomitanti impegni istituzionali. La sua audizione avrà, pertanto, luogo in una prossima data, da concordare.
Ricordo, inoltre, che, come concordato in Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi, gli auditi dispongono per la loro relazione di un tempo massimo di quindici minuti. Ringrazio la professoressa Lapecorella per la disponibilità dimostrata e le do la parola.
FABRIZIA LAPECORELLA, direttore generale del dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze. Io vorrei iniziare illustrandovi la struttura della relazione che ho predisposto per questa Commissione, che sarà mia cura farvi avere nel più breve tempo possibile.
Per poter offrire il contributo del Dipartimento delle finanze all'indagine conoscitiva condotta da questa Commissione sulle problematiche concernenti l'attuazione degli Statuti delle regioni ad autonomia speciale, con particolare riferimento al ruolo delle Commissioni paritetiche previste dagli Statuti medesimi, abbiamo pensato di riferire su alcune specifiche problematiche.
La relazione affronta all'inizio il ruolo delle Commissioni paritetiche come strumento di collaborazione tra Stato e regioni e province autonome e dà conto di alcune criticità procedurali nell'operato delle Commissioni paritetiche. Si sofferma poi sulle recenti esperienze relative all'approvazione delle norme di attuazione in materia tributaria, che è la materia nella quale noi siamo competenti, e passa poi ad affrontare le modalità di finanziamento delle regioni a statuto speciale, ossia le compartecipazioni ai tributi erariali e ai tributi regionali e le norme in materia di federalismo fiscale. Infine, si conclude con alcune considerazioni in ordine all'esigenza Pag. 3di armonizzare gli Statuti delle autonomie speciali e con alcune riflessioni relative a nuovi spazi di intervento che potrebbero essere prefigurati per le Commissioni paritetiche.
I temi sono tanti, ovviamente. Io concentrerei la mia relazione di questa mattina sulla parte relativa alle norme di attuazione in materia tributaria, ma inizio comunque con una piccola rassegna del ruolo e delle problematiche relative alle Commissioni paritetiche.
La riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione ha rinsaldato la posizione particolare delle regioni a Statuto speciale e delle province autonome e l'ha fatto essenzialmente con due interventi: da un lato, con la modifica dell'articolo 116, nel quale è stato ribadito che questi enti dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi Statuti speciali adottati con legge costituzionale; dall'altro, con l'articolo 10 della stessa legge costituzionale n. 3 del 2001, nel quale è prevista una clausola di maggior favore, in base alla quale sino all'adeguamento dei rispettivi Statuti le disposizioni della medesima legge costituzionale n. 3 si applicano anche alle regioni a Statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano, per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite.
Il legislatore costituzionale, con quest'ultima norma del 2001, ha di fatto perseguito l'obiettivo di evitare che il rafforzamento del sistema delle autonomie delle regioni ordinarie attuato dalla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione potesse determinare un divario rispetto a quello delle regioni ad autonomia differenziata, che godono di forme particolari di autonomia.
È importante evidenziare che la legge n. 131 del 2003, nel dettare norme per l'adeguamento dell'ordinamento alla legge costituzionale n. 3 del 2001, ha valorizzato la differenziazione delle autonomie speciali rispetto a quelle ordinarie con le disposizioni dell'articolo 11, che hanno ribadito il particolare valore delle Commissioni paritetiche previste dagli Statuti delle regioni a Statuto speciale.
Infatti, oltre a confermarne le attività, ne ha espressamente esplicitato le funzioni, stabilendo che le stesse, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi dell'articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, possano proporre l'adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, finanziarie, umane e organizzative occorrenti all'esercizio delle ulteriori funzioni amministrative.
Questa norma ha un significato particolare, in quanto individua in termini ben precisi il compito affidato alle Commissioni paritetiche, sia pure limitatamente alle materie che sono indicate. Le Commissioni paritetiche rappresentano, dunque, lo strumento di collaborazione tra Stato e regioni e province autonome e costituiscono, quindi, l'organo finalizzato alla ricerca di una sintesi positiva tra posizioni e interessi potenzialmente diversi.
Le Commissioni paritetiche si presentano come una sede privilegiata nella quale avviene un laborioso confronto tra i rappresentanti dello Stato e quelli delle singole regioni ad autonomia differenziata per specifici temi, attorno ai quali ruotano interessi contrapposti che trovano adeguata composizione nelle norme di attuazione statutaria finalizzate a rendere operative quelle disposizioni dello Statuto di autonomia che non sono direttamente applicabili.
Le Commissioni paritetiche nominate con decreto del Ministro per gli affari regionali sono organismi composti da membri designati in misura e numero uguale dal Governo delle regioni e delle province autonome previsti dai singoli Statuti degli enti ad autonomia differenziata. Non vi sto a elencare ora gli articoli che le prevedono, ma li troverete nella relazione che ho predisposto.
Quello che manca, però, è un modello unitario del ruolo che le Commissioni paritetiche sono chiamate a svolgere e che Pag. 4pure, invece, sarebbe, a nostro avviso, auspicabile adottare. Le norme di riferimento, infatti, per la definizione del loro ruolo adottano le formule più varie.
Lo Statuto siciliano prescrive che la Commissione «determinerà» le norme per l'attuazione dello Statuto, lo Statuto sardo prevede che «proporrà» le norme in questione, lo Statuto friulano e quello del Trentino-Alto Adige stabiliscono, invece, che sia «sentita» la Commissione paritetica.
Sicuramente più completa è la formula adottata dalla norma dello Statuto valdostano, che, essendo stata introdotta nell'anno 1993, risente dell'evoluzione delle teorie sulle fonti di produzione del diritto e dell'esperienza applicativa maturata nel frattempo e, proprio nell'intento di garantire chiarezza alla procedura, prescrive che «il Governo è delegato a emanare uno o più decreti legislativi» e che «gli schemi dei decreti legislativi sono elaborati da una Commissione paritetica».
Da questa eterogeneità di formulazioni sarebbero potute scaturire sostanziali diversità nel ruolo svolto dalle Commissioni stesse e dal Governo nell'adozione delle norme di attuazione dei differenti Statuti. In realtà, si è assistito, invece, a una sostanziale omologazione delle previsioni statutarie, avallata anche dalla Corte costituzionale, che non ha inteso valorizzare le differenze nella definizione del ruolo previsto dai diversi Statuti.
L'elemento che accomuna le norme statutarie appena citate è sicuramente l'attribuzione alle Commissioni paritetiche dello specifico compito di intervenire nella fase di predisposizione delle norme per l'attuazione. La Consulta, più precisamente, riguardo alla Commissione paritetica della regione siciliana ha evidenziato che l'organo statutario è titolare di una speciale funzione di partecipazione al procedimento legislativo, in quanto, secondo la formulazione dell'articolo 43 dello Statuto, esso «determinerà le norme» relative sia al passaggio alla regione degli uffici e del personale dello Stato, sia all'attuazione dello Statuto stesso. Detta Commissione rappresenta, dunque, un essenziale raccordo – questo è quello che dice la Consulta – tra la regione e il legislatore statale, funzionale al raggiungimento di tali specifici obiettivi.
La funzione svolta dalle Commissioni paritetiche può considerarsi, nella maggior parte dei casi, essenzialmente consultiva, ossia istruttoria o preparatoria, come del resto ha evidenziato la Corte costituzionale, che, chiamata a esaminare la norma dello Statuto trentino, ha precisato che «la Commissione paritetica è investita da un potere consultivo obbligatorio, ma non vincolante».
Sulla stessa linea sembra significativa la formula adottata nelle premesse dei vari decreti legislativi, dove appunto si legge regolarmente «sentita la Commissione paritetica».
Le norme di attuazione statutaria, che in un primo tempo venivano approvate con un decreto del Presidente della Repubblica, sono attualmente emanate dal Presidente della Repubblica nella forma del decreto legislativo su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, a seguito della deliberazione del Consiglio dei ministri.
Gli Statuti della regione Sardegna e della regione Valle d'Aosta prevedono che sullo schema di norme di attuazione già valutato favorevolmente dalla Commissione si esprima preventivamente anche il Consiglio regionale.
Quello che vale la pena di sottolineare qui è che questo tipo di produzione normativa fuoriesce dagli abituali modelli procedurali previsti per l’iter legislativo. Basti pensare all'assenza della delega preventiva del Parlamento, che rimane nei fatti completamente escluso dal processo decisionale.
Queste peculiarità che contraddistinguono le norme di attuazione, nonostante trovino il loro fondamento nelle disposizioni statutarie che sono state richiamate, sono state oggetto di accesi dibattiti in dottrina e solo con continui interventi della Corte costituzionale si è fatta chiarezza su alcuni importanti aspetti.
In particolare, le norme di attuazione statutaria non possono essere inquadrate Pag. 5nell'istituto della delega legislativa di cui all'articolo 76 della Costituzione, in quanto sono le norme statutarie di rango costituzionale che attribuiscono i poteri legislativi al Governo, il quale li esercita nel contesto di particolari procedure caratterizzate dalla partecipazione della regione e della provincia.
Il secondo aspetto specifico su cui è stata fatta chiarezza è che le norme di attuazione si basano sul potere attribuito loro in via permanente e stabile dalla norma costituzionale, la cui competenza ha carattere riservato e separato rispetto a quelle esercitabili dalle ordinarie leggi della Repubblica. Pertanto, esse prevalgono, nell'ambito della loro competenza, sulle stesse leggi ordinarie, con possibilità, quindi, di derogarvi, evidentemente in questi limiti.
In ultima analisi, si può affermare che i decreti legislativi sono contraddistinti da tratti di anomalia rispetto alle altre fonti normative nel nostro ordinamento e costituiscono un modello a sé di atto fonte, le cui disposizioni devono essere tenute presenti in sede di interpretazione delle norme statutarie.
Un altro aspetto importante sul quale si sono registrate interpretazioni non univoche da parte della dottrina e della giurisprudenza costituzionale attiene alla posizione che i decreti legislativi assumono all'interno del sistema delle fonti di produzione del diritto.
Invero, se, da un lato, c’è chi sostiene che i decreti legislativi sarebbero dotati di un rango intermedio tra legge ordinaria e Costituzione, dall'altro c’è chi privilegia la definizione di fonte atipica, una fonte cioè di rango primario equiordinata rispetto alla legge ordinaria, ma dotata di una sfera di competenza riservata.
Non sono mancati poi interventi – vi dicevo che la giurisprudenza non è univoca – con cui la Corte costituzionale ha sostenuto che le norme di attuazione sono dotate di forza prevalente su quella delle leggi ordinarie.
Il quadro della connotazione particolare che queste norme assumono nel nostro ordinamento si completa richiamando la circostanza che le stesse, al pari delle norme statutarie, possono essere utilizzate come parametro del giudizio di costituzionalità.
La Corte costituzionale ha chiarito che la speciale attribuzione di potestà legislativa esercitabile attraverso le norme di attuazione statutaria ha carattere stabile – non è limitata, cioè, solo alla prima attuazione – e non ha per oggetto l'emanazione di norme di mera esecuzione dello Statuto, ossia di disposizioni solo più dettagliate e, quindi, assimilabili ai regolamenti esecutivi.
Al contrario, questa potestà legislativa si estrinseca attraverso l'emanazione di disposizioni di carattere normativo per l'attuazione dello Statuto, cioè di norme sostanzialmente interpretative e integrative dello stesso, che peraltro non possono essere modificate che da fonti pariordinate, in quanto si determinerebbe altrimenti una menomazione dell'attribuzione delle autonomie speciali.
La Corte Costituzionale ha anche ribadito che, in caso di modifica di norme di attuazione, la lesione della competenza provinciale e l'interesse al ricorso non derivano tanto dal contenuto della norma modificatrice, quanto dal modo in cui la norma è stata approvata, in violazione del procedimento posto a garanzia del ruolo e delle funzioni spettanti alla Commissione paritetica.
Va, inoltre, evidenziato che il semplice richiamo alle modalità di attuazione statutaria, sempre più spesso contenuto nelle leggi statali che trasferiscono funzioni alle regioni o che recano riforme che richiedono un coordinamento con le norme di attuazione statutarie, è sufficiente garanzia che la determinazione delle relative norme di attuazione venga effettuata nel rispetto dell'autonomia regionale della Commissione paritetica prevista dagli Statuti.
È bene evidenziare che il valore giuridico delle norme di attuazione non le sottrae certo al controllo di legittimità costituzionale, quando contraddicano il loro compito di armonizzare, nell'unità dell'ordinamento giuridico, i contenuti e i Pag. 6particolari obiettivi dell'autonomia speciale. Le norme di attuazione, infatti, oltre a non essere in contrasto, come è ovvio, con la Costituzione, non devono essere contra statutum, cioè non devono essere in contrasto con le disposizioni dello Statuto e con il fondamentale principio di autonomia regionale, quale risulta dalle disposizioni dello Statuto stesso.
La Corte Costituzionale ha costantemente affermato che le norme di attuazione degli Statuti regionali delle autonomie speciali possono avere anche un contenuto praeter legem, nel senso di integrare le norme statutarie anche aggiungendo ad esse qualcosa che le medesime non contenevano. Anche in tale ipotesi, però, occorre valutare se queste integrazioni concordino innanzitutto con le disposizioni statutarie e con il fondamentale principio di autonomia della regione e se la loro emanazione sia realmente giustificata dalla finalità dell'attuazione dello Statuto.
Anche di fronte a norme secundum legem è necessario sempre verificare che le stesse abbiano effettivamente tale carattere e non si pongano in contrasto con le disposizioni statutarie.
È evidente, dunque, che l'avere attribuito alle sole regioni speciali e alle province autonome di Trento e di Bolzano uno strumento normativo di questa portata, antesignano della strategia della concertazione che oggi rappresenta il punto di forza di ogni confronto interistituzionale, costituisce un importante tassello per differenziare ancora di più le regioni ad autonomia speciale rispetto alle regioni ordinarie. Questo assetto è avvalorato non solo dal fatto che la legge ordinaria non può intervenire negli ambiti di competenza riservati ai decreti legislativi, ma anche dalla circostanza che il confronto tra Stato e regioni propedeutico alla formazione dei decreti non può essere sostituito con accordi presi in altre sedi o in altri modi, ma deve necessariamente seguire il procedimento degli Statuti.
Veniamo ad alcune criticità procedurali. Il silenzio delle norme statutarie sul funzionamento delle Commissioni paritetiche, benché sia stato supplito da un sistema procedurale unitario e condiviso, ha fatto registrare alcune criticità sul piano pratico. La stessa Corte costituzionale è stata chiamata più volte a pronunciarsi, ora per chiarire singoli aspetti procedurali che, in mancanza di adeguata codificazione, hanno dato luogo a dubbi interpretativi, ora per ricondurre entro il giusto perimetro l'azione del Governo nei confronti della Commissione paritetica.
La Corte ha precisato, infatti, che la Commissione paritetica, per svolgere correttamente la funzione consultiva affidatale, deve essere posta in grado di esaminare ed esprimere il proprio avviso sugli schemi dei decreti legislativi. Il rispetto di questa esigenza impedisce, quindi, al Governo di adottare modificazioni o aggiunte suscettibili di alterare il contenuto sostanziale della disciplina su cui la Commissione abbia già avuto modo di manifestare il proprio parere, a meno che non si tratti di variazioni di carattere squisitamente formale.
Anche la mancanza di forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni paritetiche costituisce un vulnus per il ruolo svolto da questo organo e crea delle lacune che potrebbero essere agevolmente colmate.
Inoltre, il raggio d'azione delle Commissioni paritetiche potrebbe essere meglio indirizzato verso settori in cui gli Statuti non risultano ancora essere attuati. Su questo mi soffermerò nel seguito.
Un altro aspetto problematico riguarda la tempistica dei singoli passaggi procedurali, che viene scandita solo nell'articolo 108 dello Statuto del Trentino Alto Adige. Quest'ultimo campo, quello della tempistica dei passaggi procedurali, meriterebbe di essere esplorato, in quanto occorrerebbe regolamentare le varie casistiche che possono verificarsi nella pratica e che finiscono per intralciare il confronto tecnico-giuridico che deve svolgersi all'interno delle Commissioni paritetiche.
Si discute, infatti, se il Governo possa decidere di adottare il decreto legislativo in assenza di parere, o anche se non sia opportuno regolamentare la sequenza procedurale da seguire nel caso in cui il Pag. 7Governo decida di non prendere in esame le proposte dell'organo paritetico, o ancora se sia indispensabile per la Commissione paritetica attenersi ai giudizi degli uffici tecnici al fine di scongiurare l'adozione di norme oggettivamente inattuabili o non conformi allo Statuto a cui dovrebbero, invece, dare attuazione.
Queste ipotesi non sono casi di scuola, ma derivano dall'esperienza. Sono criticità procedurali che si sono in effetti manifestate.
Con tutto questo premesso in ordine al ruolo delle Commissioni paritetiche e allo strumento del decreto legislativo, vorrei adesso soffermarmi sulle esperienze più recenti in ordine all'approvazione di norme di attuazione in materia tributaria.
Una precisazione preliminare è dovuta in merito alla particolare procedura prevista dagli Statuti delle regioni ad autonomia differenziata riguardo alle disposizioni di carattere finanziario, che si sostanziano nella compartecipazione ai tributi erariali, che rappresentano la principale fonte di finanziamento delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano.
Per queste disposizioni gli Statuti prevedono una decostituzionalizzazione della disciplina, in quanto le norme statutarie in materia possono essere modificate attraverso una legge ordinaria dello Stato il cui contenuto sia stato oggetto di un accordo tra lo Stato e la singola regione o provincia autonoma.
Lo strumento dell'accordo si è affermato sempre più insistentemente in quest'ambito, tanto da caratterizzare in maniera significativa il rapporto tra le regioni e le province a Statuto speciale e lo Stato. Il ricorso al metodo dell'accordo viene, infatti, considerato ormai dalla giurisprudenza costituzionale come un passaggio imprescindibile per modificare l'ordinamento finanziario degli enti ad autonomia differenziata, ponendosi come una garanzia tra il bilanciamento di opposti interessi.
Vale la pena di rilevare come questa decostituzionalizzazione della materia finanziaria, con la conseguente modifica delle norme statutarie attraverso la legge ordinaria sia ormai divenuta quasi assimilabile alla procedura di approvazione delle norme di attuazione. Infatti, si deve evidenziare che gli accordi coinvolgono soltanto gli organi esecutivi dell'uno e dell'altro livello di governo e non i Consigli delle regioni interessate in Parlamento, il quale, peraltro, è chiamato ad approvare dei testi dal contenuto previamente concordato.
Purtroppo, non mancano casi in cui queste norme vengono addirittura inserite in emendamenti alla legge di stabilità senza che siano frutto di accordi sottoscritti dai rappresentanti regionali e statali. Il rischio che, in ogni caso, si corre è quello di approvare norme sulle quali non si sia svolta una riflessione ponderata e di approvare norme che riconoscono immotivatamente margini maggiori di autonomia alle regioni speciali e che riservano ad alcune di esse trattamenti differenziati più favorevoli sia sul piano finanziario, sia sul piano giuridico, o, infine, di avallare disposizioni talmente rigide che finiscano per imbrigliare l'azione dello Stato.
A questo proposito è anche ovvio e giusto ricordare l'impatto delle diverse capacità negoziali delle diverse autonomie speciali. Infatti – tra le autonomie – quelle che si sono da sempre mostrate più forti nel rapporto negoziale con lo Stato sono le autonomie del Nord, la cui forza contrattuale e negoziale affonda le sue radici sia nel più evoluto sviluppo del territorio, sia nelle molteplici competenze ad esse attribuite.
Una volta raggiunto l'accordo, si prosegue con l'approvazione delle modifiche dei singoli Statuti, che è spesso il preludio per procedere poi alla predisposizione di norme di attuazione, giacché non sempre le norme statutarie riescono a definire nei dettagli il contenuto delle singole disposizioni di carattere finanziario.
In questo solco, già percorso da procedure pattizie, si innesta una fase ulteriore di confronto tra Stato e regioni dinanzi alle Commissioni paritetiche, chiamate a riempire di significato le disposizioni statutarie che necessitano di adeguate Pag. 8integrazioni per poter essere in concreto applicate. Vediamo quali sono le più importanti esperienze recenti nelle diverse regioni e province autonome, cominciando dalla regione Trentino Alto Adige e dalle province autonome di Trento e Bolzano.
L'accordo di Milano sottoscritto il 30 novembre 2009 tra il Governo e i Presidenti della regione Trentino Alto Adige e delle province di Trento e di Bolzano è stato il punto di partenza per il riconoscimento a queste autonomie speciali di sempre più estese competenze in materia tributaria. Per di più, le norme dello Statuto del Trentino Alto Adige che hanno disciplinato tali aspetti nel corso degli anni sono state oggetto di ulteriori modifiche, che hanno ampliato maggiormente la sfera di autonomia di questi enti territoriali.
In particolare, il comma 107 dell'articolo 2 della legge n. 191 del 2009 ha modificato l'articolo 80 dello Statuto del Trentino Alto Adige riconoscendo alle province la possibilità di istituire nuovi tributi locali ed ha introdotto il comma 1-bis dell'articolo 73 del medesimo Statuto con il quale è stato attribuito alle province, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità, il potere in ogni caso di modificare le aliquote e di prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni, purché nei limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale.
La portata di quest'ultima norma è particolarmente rilevante, in quanto permette alle province autonome un'ampia libertà di manovra, accordando loro addirittura la possibilità di introdurre modifiche anche diverse da quelle previste dalla legge dello Stato.
Il sapiente utilizzo della leva fiscale da parte delle province autonome, che, forti delle proprie dotazioni finanziarie, hanno adottato aliquote e tariffe particolarmente agevolate in materia, per esempio, di imposta provinciale di trascrizione (IPT) e di imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore esclusi i ciclomotori, cioè l'RC Auto, ha innescato pericolosi meccanismi di concorrenza fiscale, a detrimento di alcune province del territorio italiano che hanno, invece, registrato un minor gettito di consistente portata. Questa è una delle conseguenze importanti di quest'autonomia.
Occorre, inoltre, precisare che, allo stato, è rimasto senza seguito lo schema di norme di attuazione delle nuove norme statutarie il cui esame era iniziato con i rappresentanti delle province autonome di Trento e di Bolzano, coinvolti insieme agli uffici dell'amministrazione finanziaria sin dal 2010 in una discussione.
Il progressivo rafforzamento dell'autonomia finanziaria è stato conquistato poi con la legge di stabilità per il 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147), che ha dettato una serie di norme, che peraltro questa volta non sono scaturite da specifici accordi e che si caratterizzano per i particolari vantaggi accordati a queste autonomie.
La prima tessera di questo puzzle autonomista è stata fissata nel comma 518 dell'articolo 1 della legge n. 147 del 2013, che ha riscritto l'articolo 80 dello Statuto del Trentino Alto Adige, con cui viene attribuita alle province autonome di Trento e di Bolzano la facoltà di disciplinare con legge, oltre che i tributi locali istituiti dalle province – di cui abbiamo appena parlato – anche i tributi locali comunali di natura immobiliare istituiti con legge statale, anche in deroga alla medesima legge, definendone le modalità di riscossione. La modifica può consentire agli enti locali di modificare le aliquote e di introdurre esenzioni, detrazioni e deduzioni.
Nonostante l'apparente innocuità di questa modifica, la norma è stata interpretata dalle autonomie interessate in maniera molto ampia, tanto che si è addirittura arrivati alla sostituzione dell'imposta municipale propria (IMU) con due nuovi tributi, l'imposta municipale immobiliare (IMI), istituita con la legge provinciale di Bolzano del 23 aprile 2014, n. 3, e l'imposta immobiliare semplice (IMIS), istituita con legge provinciale di Trento n. 14 del 2014.Pag. 9
Relativamente a queste leggi provinciali il Ministro dell'economia e delle finanze si è espresso nel senso dell'opportunità dell'impugnativa di fronte alla Corte costituzionale per violazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera e) della Costituzione e dell'articolo 80 dello Statuto dell'autonomie. Purtroppo, però, entrambe le proposte di impugnativa fatte dal Ministero non sono state calendarizzate da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri e, pertanto, è intervenuta la decorrenza dei termini di impugnazione.
L'ulteriore pericolo che oggi si corre è quello dell'attivazione di un pericoloso effetto emulativo da parte delle altre autonomie, che spesso si traduce in maldestri tentativi per ottenere indebiti vantaggi e maggiori spazi di autonomia magari neanche legittimati dalle norme statutarie, a volte semplicemente ribattezzando tributi erariali esistenti e denominandoli tributi propri.
L'altra tessera del puzzle autonomista è rappresentata dal comma 515 dell'articolo 1 della legge n. 147 del 2013, che, a seguito delle integrazioni apportate dall'articolo 1, comma 213, della legge n. 190 del 2014, prescrive che entro il 30 giugno di quest'anno, mediante intese tra lo Stato e le province autonome di Trento e di Bolzano e con apposite norme di attuazione degli Statuti, devono essere definiti gli ambiti per il trasferimento e la delega delle funzioni statali e dei relativi oneri finanziari riferiti in particolare alle agenzie fiscali dello Stato. Questo è un altro tema estremamente delicato.
Allo scopo di delineare gli ambiti di applicazione di queste norme è stato avviato presso il Dipartimento per gli affari regionali della Presidenza del Consiglio dei ministri un tavolo tecnico di confronto tra le agenzie fiscali, il Ministero dell'economia e delle finanze e le province autonome di Trento e di Bolzano.
A me paiono del tutto evidenti i pericoli connessi alla concreta attuazione di questa norma, soprattutto in ordine al rischio di minare l'unitarietà nella gestione del sistema tributario, perché far passare alle regioni in autonomia le competenze delle agenzie fiscali preposte alla gestione del sistema tributario e all'implementazione dei tributi e, quindi, ad attività di riscossione e di accertamento fa correre il rischio di minare l'unitarietà. Questo è un tavolo ancora aperto. Vedremo come si concluderà.
Tralascio – le troverete nella relazione – le posizioni specifiche rappresentate dai rappresentanti dell'amministrazione finanziaria che hanno espresso le loro preoccupazioni rispetto all'attuazione di questa norma.
Infine, passiamo all'accordo del 15 ottobre 2014 tra il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell'economia e delle finanze e i Presidenti della regione Trentino Alto Adige e delle province di Trento e di Bolzano. A questo riguardo c’è solo la clausola al punto n. 17 che riguarda direttamente la materia tributaria, che è stata recepita nell'articolo 1, comma 407, lettera b), della legge n. 190 del 2014, la quale ha integrato l'articolo 73, comma 1-bis, dello Statuto prevedendo che «le province possono, con apposita legge e nel rispetto delle norme dell'Unione europea sugli aiuti di Stato, concedere incentivi, contributi, agevolazioni, sovvenzioni e benefìci di qualsiasi genere da utilizzare in compensazione con il modello F24». Il modello F24 è il modello unificato per il versamento dei tributi. «I fondi necessari per la regolazione contabile e le compensazioni sono posti a esclusivo carico delle rispettive province, che provvedono alla stipula di una convenzione con l'Agenzia delle entrate per poter disciplinare le modalità operative per la fruizione delle suddette agevolazioni».
Queste sono le questioni più importanti.
Passerei, a questo punto, all'esperienza della regione Friuli-Venezia Giulia, riguardo alla quale vorrei ricordare l'articolo 1, comma 4, del decreto legislativo n. 137 del 2007, dedicato alle modalità di attribuzione delle quote dei proventi erariali spettanti alle regioni. Questa norma stabilisce che tra le entrate regionali sono comprese, nella misura di sei decimi, le Pag. 10ritenute sui redditi da pensione riferiti ai soggetti passivi residenti nella medesima regione, ancorché riscosse fuori dal territorio regionale.
Quello che sorprende è che questa norma, peraltro emanata in attuazione dell'articolo 3, comma 7, del protocollo d'intesa stipulato tra il Governo e la regione Friuli-Venezia Giulia in data 6 ottobre 2006, attribuendo alla regione una quota delle entrate tributarie erariali maturate, vale a dire riscosse fuori dal territorio regionale, risulta incompatibile con l'articolo 49 dello Statuto, che stabilisce che spettano alla regione specifiche quote di entrate tributarie erariali riscosse nel territorio della regione stessa.
È peculiare che esista una norma di attuazione che sia in contraddizione con quanto previsto dallo Statuto.
Per quello che riguarda la regione Friuli-Venezia Giulia, si rileva che, a seguito della sottoscrizione, il 29 ottobre 2010, dell'accordo di Roma, i cui contenuti sono stati trasfusi nell'articolo 1, commi dal 151 al 159, della legge n. 220 del 2010, la regione ha visto notevolmente ampliata la propria autonomia tributaria, in quanto il nuovo articolo 51 dello Statuto stabilisce che «la regione può, con riferimento ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità, modificare le aliquote, in riduzione, oltre i limiti attualmente previsti e, in aumento, entro il livello massimo di imposizione stabilito dalla normativa statale, prevedere esenzioni dal pagamento e introdurre detrazioni d'imposta e deduzioni dalla base imponibile».
Nelle materie di propria competenza «la regione può istituire nuovi tributi locali e relativamente agli stessi consentire agli enti locali di modificarne le aliquote in riduzione ovvero in aumento oltre i limiti previsti, prevedere esenzioni dal pagamento, introdurre detrazioni d'imposta e deduzioni dalla base imponibile e prevedere, anche in deroga alla disciplina statale, modalità di riscossione».
L'accordo di Roma per il Friuli-Venezia Giulia è evidentemente il portato di quello precedente stipulato a Milano con il Trentino Alto Adige e con le province autonome di Trento e di Bolzano.
Io passerei, a questo punto, alla regione Sardegna, anche perché l'ultimo accordo che è stato sottoscritto tra il Ministro dell'economia e delle finanze e il Presidente della regione Friuli-Venezia Giulia, il 23 ottobre 2014, non contiene disposizioni di carattere tributario.
Anche l'esperienza della regione Sardegna è molto complessa. Un particolare interesse hanno le norme di attuazione dell'articolo 8 dello Statuto della regione autonoma della Sardegna, che è stato modificato dall'articolo 1, comma 834, della legge n. 296 del 2006, il quale ha ridefinito il regime delle entrate regionali, assicurando alla regione Sardegna un maggior gettito a far data dall'anno 2010.
La mancanza nelle norme statutarie di criteri analitici per l'esatta quantificazione delle compartecipazioni regionali da alcuni tributi erariali richiede necessariamente l'adozione di norme di attuazione, sicché dal dicembre del 2009 si sono svolti – siamo al 2015 – incontri tra i rappresentanti della regione Sardegna e quelli degli uffici dell'amministrazione statale coinvolti, il nostro Dipartimento, il Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, l'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia delle dogane, per la predisposizione di uno schema di decreto legislativo recante le norme di attuazione dell'articolo 8 dello Statuto.
L’iter per addivenire alla definizione di un testo condiviso non è stato affatto semplice, dal momento che la Commissione paritetica ha approvato uno schema che non era stato mai visionato dagli uffici dell'amministrazione finanziaria e che presentava alcune disposizioni di difficile applicazione, per la qual cosa il Consiglio dei ministri non ha dato poi ulteriore corso al procedimento.
È stato, quindi, indispensabile addivenire a una riformulazione di un testo condiviso, ragion per cui si è riattivata con la regione un'interlocuzione istituzionale a Pag. 11diversi livelli, sia all'interno del Ministero dell'economia e delle finanze, sia all'interno della Presidenza del Consiglio dei ministri. In questo caso la sede privilegiata di confronto è stata la sottocommissione tecnico-politica deputata all'esame di quella che è stata chiamata la «vertenza entrate», nell'ambito dei lavori del tavolo tecnico per l'autonomia finanziaria e lo sviluppo industriale e infrastrutturale della Sardegna, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 7 febbraio 2012.
Da questo iter procedurale tortuoso è scaturito lo schema di decreto legislativo attuativo dell'articolo 8, che ha trovato unanime consenso soltanto il 15 marzo 2012. Nell'ottobre 2012 questo schema è stato approvato da parte della Commissione paritetica per la regione Sardegna, ma, in assenza del parere che il Consiglio regionale avrebbe dovuto emanare sull'articolato in questione ai sensi dell'articolo 56 dello Statuto, il Dipartimento per gli affari regionali non ha potuto compiere i passaggi istituzionali finalizzati alla sottoposizione del testo al Consiglio dei ministri per la definitiva approvazione. Pertanto, non essendosi perfezionato l’iter delle norme di attuazione, queste ultime devono essere nuovamente approvate dalla Commissione paritetica, rinnovata per effetto del mutamento della compagine governativa.
Queste sono le complicazioni. Ad oggi la situazione è la stessa, immutata, e l'aspetto paradossale è che la regione continua a imputare allo Stato le cause della persistente inattuazione dell'articolo 8 dello Statuto, lamentando la conseguente impossibilità di utilizzo delle nuove risorse. Invece, proprio a riprova della particolare attenzione che da sempre lo Stato mostra sulle problematiche della regione Sardegna, sono stati avviati ulteriori tavoli tecnico-politici tra rappresentanti regionali e statali istituiti presso la stessa Presidenza del consiglio dei ministri e il Dipartimento per gli affari regionali, finalizzati ad affrontare le questioni in sospeso.
Di recente, in data 24 febbraio 2015, è stato sottoscritto un accordo tra il Ministro dell'economia e delle finanze e il Presidente della regione Sardegna con il quale, oltre all'attribuzione di 300 milioni di euro a titolo di compartecipazioni spettanti per gli anni dal 2010 al 2014, è stato previsto che la regione si impegni a concordare il testo delle norme di attuazione in materia finanziaria da sottoporre alla Commissione paritetica entro il 30 giugno 2015. Speriamo che ciò accada.
Nel frattempo, la regione Sardegna ha continuato a esplorare nuove strade per raggiungere i risultati che intende conseguire. A dimostrazione anche della conflittualità che si è generata intorno al problema della mancata attuazione dell'articolo 8 dello Statuto, la regione Sardegna ha interpretato in via unilaterale l'articolo 8, comma 1, lettera d) dello Statuto con l'articolo 1, comma 1, della legge regionale n. 7 del 2014, stabilendo che «nelle entrate spettanti alla regione sono comprese anche le imposte di fabbricazione su tutti i prodotti che ne siano gravati generati nel territorio regionale, anche se riscosse nel restante territorio dello Stato».
Durante i lavori di predisposizione delle norme di attuazione, ossia durante i lavori tecnici, i rappresentanti dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli hanno evidenziato con molta chiarezza che la tesi sostenuta dalla regione era in aperto contrasto con la struttura del tributo, ossia con la struttura delle accise, le quali vengono pagate nel momento dell'immissione in consumo del prodotto.
La posizione espressa dall'Agenzia delle dogane trova conforto in una recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 31 del 12 marzo 2015, che ha finalmente dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma regionale in esame. La Corte è stata assai chiara nel precisare che «l'accisa è esigibile solo dall'atto dell'immissione in consumo», ragion per cui «la regione non può vantare alcun diritto di compartecipazione al gettito delle accise riscosse dallo Stato se riferibili a prodotti che, pur realizzati o importati all'origine Pag. 12nel territorio sardo, nondimeno sono stati successivamente immessi in consumo al di fuori di quel territorio. Di contro, concorrono certamente a tale riparto i prodotti fabbricati altrove, ma immessi in consumo in Sardegna».
Con questa sentenza, quindi, è stata risolta in maniera decisiva una questione dibattuta. Questo sicuramente sarà importante. Questa sentenza ha eliminato un punto di conflittualità nei lavori per la definizione dello schema delle norme di attuazione dell'articolo 8 dello Statuto sardo.
Meno problematica è stata, invece, l'adozione delle norme di modifica dell'articolo 10 dello Statuto, realizzata anche questa a seguito dei lavori di un tavolo tecnico istituito presso il Ministero dell'economia e delle finanze e realizzata con l'articolo 1, comma 514, della legge n. 147 del 2013, che, a decorrere dal 1o gennaio dello scorso anno, al fine di favorire lo sviluppo economico dell'isola, riconosce alla regione un più ampio spazio di manovra in ambito tributario, ovviamente nel pieno rispetto della normativa comunitaria.
La norma accorda alla regione la possibilità di intervenire con propria legge nella disciplina dei tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità attraverso l'introduzione di agevolazioni fiscali, esenzioni e detrazioni di imposta e deduzioni dalla base imponibile. Con questa norma la regione può anche intervenire sulle aliquote dei tributi erariali il cui gettito sia destinato alla regione stessa, modificandoli, in aumento, entro i valori massimi di imposizione stabiliti dalla normativa statale o, in diminuzione, fino ad azzerarle. La norma permette anche alla regione di concedere, purché i relativi oneri restino a carico del bilancio regionale, contributi da utilizzare in compensazione ai sensi della legislazione statale.
Questa norma è una grande conquista per la Sardegna, che in questo modo ha ottenuto le stesse prerogative statutarie concesse prima al Trentino Alto Adige e poi al Friuli-Venezia Giulia. Anche in questo caso il più recente accordo sottoscritto dal Ministro dell'economia e delle finanze e dal Presidente della regione Sardegna il 21 luglio 2014 non contiene disposizioni di carattere tributario.
Passiamo all'esperienza della regione Valle d'Aosta. Poi abbiamo la Sicilia e la relazione è finita.
Per adeguare l'ordinamento finanziario della regione Valle d'Aosta ai contenuti dell'accordo sottoscritto tra il Ministro per la semplificazione normativa e il Presidente della regione nel novembre 2010 è stato approvato il decreto legislativo del 3 febbraio 2011, n. 12, che reca «Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Valle d'Aosta recanti «Modifiche alla legge 26 novembre 1981, recante revisione dell'ordinamento finanziario della regione».
L'effetto è stato quello di una sostanziale rimodulazione delle entrate spettanti alla regione, che, in alcuni casi, è destinataria del 100 per cento del gettito dei tributi erariali, e di un riconoscimento alla regione della possibilità di istituire tributi locali con riguardo ai presupposti non altrimenti assoggettati a imposizione, nonché di determinare le variazioni delle aliquote e le agevolazioni che gli enti locali possono applicare ai tributi locali nell'esercizio dell'autonomia, così come prescrive l'articolo 9 del decreto legislativo n. 12 del 2011.
Un elemento di criticità è sorto dopo l'emanazione di queste norme di attuazione in materia proprio di quantificazione delle accise di spettanza regionale, che, in base alla norma statutaria, devono essere calcolate sulla base del «percetto». Con questo termine riscontrabile nell'ordinamento finanziario di autonomie speciali quali la Sardegna, il Trentino Alto Adige e le province autonome di Trento e di Bolzano, si è inteso considerare il gettito tributario versato o riscosso nella regione a prescindere dall'afferenza al territorio.
Anche in questo caso l'Agenzia delle dogane ha fatto il punto che il gettito delle accise deve essere determinato con riferimento a quello che deriva dai prodotti Pag. 13immessi in consumo e non a quello che viene riscosso. La base di calcolo utilizzata ai fini della quantificazione del gettito conduce, quindi, a quantificazioni diverse rispetto a quelle che erano state adottate fino a quel momento, con il risultato che si è registrata una consistente riduzione delle entrate tributarie di spettanza regionale, alla quale, dopo lunghi dibattiti, si è posto rimedio con l'articolo 1, comma 525, della legge n. 190 del 2014, il quale stabilisce che, a decorrere dal 2015, ossia da quest'anno, viene corrisposto alla regione un trasferimento d'importo pari a 70 milioni di euro annui a compensazione della perdita di gettito subita.
Fondamentalmente, c’è stato un grosso equivoco nella quantificazione, al quale poi si è dovuto porre rimedio stanziando delle risorse in compensazione.
A differenza delle altre autonomie, la regione Valle d'Aosta non ha sottoscritto nel 2014 alcun accordo con lo Stato in materia di finanza pubblica.
Veniamo alla regione siciliana. Lo Statuto della regione siciliana, approvato nel 1946, è potenzialmente il più evoluto degli Statuti, anche se purtroppo non ha avuto lo sviluppo che pure ci si poteva attendere. L'articolo 36, comma 1, dello Statuto infatti, nel disporre che «al fabbisogno finanziario della regione si provvede con i redditi patrimoniali della regione a mezzo dei tributi deliberati dalla medesima», lascia trasparire un'originaria concezione dell'ordinamento finanziario ispirata a una netta separazione tra la finanza statale e la finanza regionale, in cui coesistono un'area di materia imponibile riservata allo Stato e un'area riservata alle scelte autonome della regione.
In realtà, il disegno tratteggiato nello Statuto è rimasto incompiuto, anzi, le norme di attuazione, approvate con il decreto del Presidente della Repubblica n. 1074 del 1965, hanno delineato un assetto ben diverso, traducendo la previsione statutaria in un sistema di finanziamento sostanzialmente basato sulla devoluzione alla regione del gettito di tributi erariali riscossi nel suo territorio.
In buona sostanza, come ha messo in evidenza la Corte costituzionale, è evidente come a un'ipotetica potestà tributaria liberamente esercitabile in ogni area, ad eccezione di quelle riservate allo Stato, si sia sostituita una potestà residuale esercitabile al margine – per così dire – della potestà tributaria dello Stato, mentre la fonte principale di finanziamento della regione è diventato il gettito regionalmente riscosso dei tributi istituiti e regolati dalle leggi dello Stato.
Paradossalmente, lo Statuto siciliano è l'unico che non ha registrato particolari evoluzioni, con la conseguenza che le problematiche che scaturiscono da un testo rimasto pressoché immutato nel tempo sono rimaste irrisolte e che il rapporto con lo Stato è diventato conflittuale. Solo negli ultimi anni è ripresa una fattiva collaborazione con i rappresentanti della regione.
I punti di maggiore attrito sono stati discussi negli anni passati in vari tavoli istituiti presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e riguardano, in particolare, una migliore definizione dell'autonomia finanziaria spettante alla regione siciliana. Al riguardo si deve tener conto del fatto che, nonostante l'ampio portato dell'articolo 36 dello Statuto, nelle relative norme di attuazione sono ben individuati i tributi erariali il cui gettito spetta alla regione e quelli riservati allo Stato.
Sulla base di queste disposizioni è stata da sempre riconosciuta alla regione, ai sensi del combinato disposto dell'articolo 36, comma 1, dello Statuto e dell'articolo 2, comma 1, delle norme di attuazione, la compartecipazione al gettito di tutte le imposte erariali riscosse nel suo territorio, ad eccezione dei tributi espressamente riservati all'Erario dalle norme statutarie e dalle norme di attuazione.
L'applicazione di questo criterio, ossia del criterio del riscosso, ai fini del rispetto del criterio territoriale delle entrate, prevede che il gettito sia riferito al territorio in cui avviene effettivamente il versamento delle imposte. La regione sostiene, invece, che l'articolo 36 le attribuisce una compartecipazione non già al Pag. 14gettito di tutte le imposte erariali riscosse, bensì al gettito delle imposte maturate nel suo territorio, ancorché versate al di fuori di esso per ragioni di carattere amministrativo.
Questo è il caso, per esempio, delle ritenute dei dipendenti pubblici. Le ritenute dei dipendenti pubblici possono essere versate a Latina, perché la centralizzazione del servizio e della predisposizione delle buste che fanno le Tesorerie è svolta a Latina e, quindi, le ritenute fatte sui pensionati siciliani vengono versate lì. In quel caso, l'applicazione del criterio del riscosso non assegnerebbe alla regione quel gettito. Invece, l'applicazione del criterio del maturato lo riassegnerebbe. Ancorché le ritenute vengano versate a Latina, se vengono effettuate a fronte di pensioni erogate a residenti siciliani, andrebbero alla regione siciliana.
La posizione dell'amministrazione finanziaria è sempre stata quella di riconoscere alla Sicilia tutte le entrate erariali riscosse nel territorio regionale, come del resto suggerivano le sentenze numero 81 e 71 del 1973 della Corte costituzionale. La Corte, nonostante il diverso avviso assunto poi in alcune decisioni successive, in particolare nel 1999 e nel 2004, ha confermato l'originale orientamento con la sentenza n. 116 del 2010, tornando ad affermare che, ai fini del riparto del gettito dei tributi erariali tra Stato e regione siciliana, sono rilevanti le fattispecie tributarie che si verificano con riferimento a tutte le entrate tributarie erariali riscosse nel suo territorio, dirette, indirette e comunque denominate, come stabilisce l'articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 1074 del 1965, e non quelle in cui il presupposto di imposta si sia realizzato nel territorio stesso, come potrebbe indurre a pensare il successivo articolo 4, il quale dispone che spettano alla regione le entrate relative alle fattispecie tributarie maturate nell'ambito regionale che affluiscono, per esigenze amministrative, a uffici finanziari situati fuori del territorio nazionale.
In buona sostanza, la Corte costituzionale ha ribadito che il criterio generale di riparto basato sul luogo di realizzazione del presupposto quale manifestazione della capacità fiscale del soggetto passivo di imposta non trova alcun appiglio testuale nell'articolo 2 delle norme di attuazione, che fa esclusivo riferimento al luogo in cui viene riscosso il tributo. Questa è la sentenza n. 116 del 2010.
La questione non è di poco rilievo, perché l'adozione del criterio del maturato consentirebbe alla regione di recuperare, come abbiamo appena detto, le risorse relative ai versamenti del sostituto d'imposta per i dipendenti pubblici e i pensionati, nonché i versamenti delle grosse società con sede legale al di fuori del territorio regionale.
Per risolvere definitivamente la questione, anziché provocare i continui interventi della Corte costituzionale, sarebbe necessario introdurre, come è avvenuto sia per la regione Sardegna, sia per la regione Trentino Alto Adige e per le province autonome di Trento e di Bolzano, una modifica statutaria, predisponendo una norma con la quale si identifichi in maniera certa il criterio generale del gettito maturato, espressione della capacità fiscale che si manifesta nel territorio della regione, in luogo del criterio del riscosso. La strada maestra a noi sembra questa.
Un'altra norma che ha atteso per anni attuazione, ma che è stata un successo alla fine, è stata l'articolo 37 dello Statuto, che, come ha affermato la Consulta con la stessa sentenza del 2010 che abbiamo appena citato, rappresenta l'unica eccezione al criterio generale del riscosso.
La norma non è di agevole applicazione, in quanto prevede che «per le imprese industriali e commerciali che hanno la sede centrale fuori dal territorio della Sicilia, ma che in Sicilia abbiano stabilimenti o impianti, la quota parte del gettito delle imposte sul reddito imputabile a questi stabilimenti compete alla regione siciliana».
All'articolo 37 dello Statuto è stata data inizialmente attuazione con l'articolo 1 del decreto legislativo n. 241 del 2005, che stabilisce, al comma 1, che sono trasferite Pag. 15alla regione le quote di competenza fiscale dello Stato e prevede il simmetrico trasferimento alla regione di competenze previste dallo Statuto fino a quel momento esercitate dallo Stato.
Il successivo comma 2 rinvia per la definizione delle modalità applicative a un decreto dirigenziale del Ministero dell'economia e delle finanze, d'intesa con l'Assessorato regionale per il bilancio e le finanze della regione siciliana.
L'emanazione di questo decreto presentava molte difficoltà, in quanto il decreto legislativo n. 241 del 2005 non stabilisce alcun criterio sulla base del quale attribuire la quota di gettito dell'imposta sul reddito delle società (IRES) alla regione siciliana. Successivamente, con l'articolo 11 del decreto-legge n. 35 del 2013, è stato attribuito alla regione siciliana il gettito delle imposte sui redditi prodotti dalle imprese industriali e commerciali aventi sede legale fuori dal territorio regionale, in misura corrispondente alla quota riferibile agli impianti e agli stabilimenti ubicati all'interno dello stesso.
Per l'anno 2013 l'assegnazione è stata effettuata, come previsto dalla legge, in un importo di euro 49 milioni, con attribuzione diretta alla regione da parte della struttura di gestione dell'Agenzia delle entrate, mentre, a decorrere dall'anno 2014, la norma del decreto-legge n. 35 del 2013 rinviava a un decreto dirigenziale del Ministero dell'economia e delle finanze da emanare d'intesa con l'Assessorato regionale.
Con il decreto ministeriale del 19 dicembre 2013 è stata condivisa una metodologia di calcolo utile per determinare la quota delle imposte sul reddito relative agli insediamenti delle imprese presenti sul territorio siciliano spettanti alla regione. È utile ricordare che l'articolo 4 del decreto, nel riprendere le disposizioni del comma 5 dell'articolo 11 del decreto-legge n. 35 del 2013, prevede che dal 1o gennaio 2016 l'efficacia delle disposizioni del decreto dirigenziale è subordinata al completamento delle procedure di ridefinizione dei rapporti finanziari tra lo Stato e la regione siciliana e al simmetrico trasferimento alle regioni di funzioni ancora svolte dallo Stato nel territorio.
C'era, quindi, un’impasse terribile, rispetto alla quale questo è stato un progresso importante. È importante anche che ci sia questa prospettiva, ossia che l'efficacia delle disposizioni del decreto sia condizionata alla ridefinizione dei rapporti finanziari.
Un ultimo punto sul quale di nuovo ci sono state delle divergenze di vedute tra lo Stato e la regione siciliana riguarda, come al solito, il gettito derivate dalle accise, che non è compartecipato dalla regione siciliana, perché riservato all'Erario, in base al comma 2 dell'articolo 36 dello Statuto – l'abbiamo letto prima – il quale dispone espressamente che sono riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto.
La regione, con disegno di legge costituzionale n. 702/A del 2011, ha proposto la modifica all'articolo 36 dello Statuto per ottenere il gettito delle accise sui prodotti energetici e i loro derivati e prodotti analoghi e sui gas petroliferi raffinati messi in consumo sul territorio regionale, nonché il 20 per cento del gettito dell'imposta di produzione sugli stessi prodotti raffinati sul territorio regionale, ma messi in consumo in quello di altre regioni.
Sulla proposta oggetto del disegno di legge costituzionale gli uffici dell'amministrazione finanziaria hanno espresso molte perplessità, sulla base della stessa considerazione che abbiamo già visto sulle altre norme di attuazione, ossia che l'attribuzione del gettito delle accise, per la natura del tributo, è basata sui criteri dell'immissione in consumo.
Sembra comunque che, per quello che riguarda questo profilo dibattuto tra l'amministrazione e la regione, la sentenza della Corte costituzionale n. 31 del marzo 2015 appena richiamata dovrebbe risolvere anche questa questione.
Con questo io mi fermerei. La relazione che deposito agli atti della Commissione contiene anche una parte descrittiva di tutte le modalità di finanziamento delle Pag. 16regioni a Statuto speciale e, quindi, delle compartecipazioni dei tributi erariali e dei tributi regionali, nonché un riferimento alle norme del federalismo fiscale.
Vi ringrazio.
PRESIDENTE. Siamo noi che ringraziamo lei per la relazione molto interessante, su cui, ovviamente, avremo modo di fare ulteriori approfondimenti. Ringraziamo lei e il dottor Puglisi per la cortesia, per la partecipazione e per la disponibilità. Ovviamente, visto che ci avete dato questa disponibilità, ne approfitteremo in futuro per l'approfondimento di ulteriori questioni di merito che nel corso di questa indagine conoscitiva dovessero emergere.
Ringrazio i colleghi e chiuderei qui la seduta di oggi sul punto. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 9.10.