Sulla pubblicità dei lavori:
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA RELAZIONE ALL'ASSEMBLEA SULLE FORME DI RACCORDO TRA LO STATO E LE AUTONOMIE TERRITORIALI E SULL'ATTUAZIONE DEGLI STATUTI SPECIALI
Audizione dei professori Nicola Lupo e Stelio Mangiameli.
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3
Lupo Nicola , professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Luiss «Guido Carli» di Roma ... 3
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 7
Mangiameli Stelio , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo ... 8
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 12
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANPIERO D'ALIA
La seduta comincia alle 8.20.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione dei professori Nicola Lupo e Stelio Mangiameli.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Nicola Lupo, professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Luiss «Guido Carli» di Roma, e di Stelio Mangiameli, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo.
Ringrazio il professor Lupo e il professor Mangiameli, che già hanno collaborato con noi nelle precedenti indagini conoscitive, per la loro disponibilità.
Do la parola al professor Nicola Lupo per lo svolgimento della relazione.
NICOLA LUPO, professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Luiss «Guido Carli» di Roma. Ringrazio molto il presidente D'Alia e la Commissione per questo invito, che ovviamente mi onora molto. È un piacere, oltre che una sfida, contribuire a temi di grande rilievo, quali quelli che questa Commissione sta oggi affrontando.
L'oggetto del mio intervento sarà essenzialmente incentrato, nell'ambito dei molti temi oggetto di quest'indagine conoscitiva, sulle questioni attuative dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ampiamente trattate nella relazione del Presidente D'Alia, rispetto alla quale – lo dico come filo conduttore di ciò che sto per dire – mi sento in profonda sintonia, sia per i profili generali sia per pressoché tutte le soluzioni concrete ivi delineate.
Proverò ad argomentare queste affermazioni, muovendo da due presupposti. Il primo presupposto riguarda il fatto che – credo si possa dire con schiettezza – la mancata attuazione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 ha rappresentato un'occasione clamorosamente sprecata dal Parlamento italiano, che in qualche modo è stato complice dell'esproprio delle sue funzioni.
In particolare, la mancata attuazione ha determinato l'esproprio di larga parte della funzione di coordinamento. In questo ragionamento, mi ispiro al pensiero mio maestro, Andrea Manzella, che tra le funzioni del Parlamento individua, come funzione essenziale, e sempre più rilevante nell'attuale sistema a più livelli, quella di coordinamento dei diversi livelli. A questa funzione, in particolare per quanto attiene al rapporto tra il livello statale e quello delle autonomie territoriali, il Parlamento ha sostanzialmente rinunciato. Una delle cause di questa rinuncia è stata, per l'appunto, la mancata attuazione dell'articolo 11, che ha ovviamente influito altresì sull'esproprio di una parte significativa della funzione legislativa, a vantaggio – ovviamente, con modalità e per segmenti diversi – del sistema delle Conferenze, del Governo, che di quel sistema è parte essenziale, e della Corte costituzionale, chiamata a porre rimedio ad un esercizio della funzione legislativa Pag. 4statale poco conforme al nuovo disegno costituzionale.
Il secondo presupposto dipende dal fatto che il momento attuale ripropone, con una certa forza, l'opportunità di dare attuazione a questa disposizione. In particolare, la reiezione della riforma del bicameralismo derivante dall'esito del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso e la recente sentenza n. 251 del 2016 della Corte costituzionale – che avete avuto modo di affrontare specificamente anche nelle precedenti audizioni – credo siano due elementi che spingano entrambi nella medesima direzione.
Proverò ad articolare un po’ meglio queste affermazioni. Trovo anzitutto curioso che la soluzione dell'articolo 11 della legge costituzionale del 2001 sia stata oggetto di critiche anche tra loro contraddittorie. In particolare, persino i medesimi autori hanno sostenuto, al tempo stesso, che, da un lato, si tratterebbe di una soluzione troppo debole e non in grado di assicurare un'effettiva partecipazione delle autonomie territoriali ai procedimenti legislativi, perché soltanto un Senato rappresentativo di queste autonomie sarebbe in grado di assicurare un'adeguata presenza, al centro, delle Regioni e degli enti locali; dall'altro, spesso i medesimi protagonisti della vita politica e istituzionale hanno sostenuto che questo meccanismo sarebbe in grado di generare effetti fin troppo rilevanti, appesantendo ulteriormente il procedimento legislativo o alterando significativamente gli equilibri della forma di governo.
A mio avviso, invece, la messa in opera tempestiva della Commissione bicamerale integrata avrebbe consentito di far emergere e di esaminare in piccolo, quasi come in un laboratorio, i problemi principali che l'istituzione di un Senato rappresentativo di autonomie territoriali avrebbe inevitabilmente portato con sé. L'emersione tardiva di questi problemi applicativi, che sarebbero sorti se il nuovo Senato fosse stato istituito, non ha sicuramente – uso volutamente un eufemismo – agevolato il percorso delle successive revisioni costituzionali e, in particolare, delle due soluzioni di riforma del bicameralismo paritario respinte con referendum costituzionale. Le difficoltà ci sono, in qualche misura, e sono inevitabili nel momento in cui si intende assicurare una presenza delle autonomie territoriali al centro; tuttavia, o si inizia ad affrontarle e a sperimentarle in concreto, anche con una certa capacità di innovazione istituzionale, oppure queste inevitabilmente emergono a priori nella lettura delle nuove disposizioni costituzionali e vengono viste come ostacoli rispetto al percorso attuativo prospettato.
Anche la giurisprudenza costituzionale lo ha affermato in maniera piuttosto chiara, benché non sempre sia stato valorizzato questo aspetto. La Corte costituzionale, come sapete, ha in più occasioni lamentato la mancata attuazione dell'articolo 11 e lo ha fatto non riferendo specificamente questa lamentela solo e soltanto all'articolo 11, ma segnalando come, in realtà, fosse richiesto dalla legge costituzionale di riforma del Titolo V di adeguare i meccanismi di organizzazione e di funzionamento e del procedimento legislativo. Ciò, in particolare, dando attuazione al principio fondamentale di cui all'articolo 5 della Costituzione, che richiede l'adeguamento dei principi e, soprattutto, dei metodi della legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
Si tratta certamente di un'indicazione tutt'altro che semplice, perché l'articolo 5 della Costituzione individua un obiettivo tutt'altro che facile da realizzare, che non sembra che i regolamenti di Camera e Senato abbiano mai davvero avvertito come proprio. All'esatto contrario, se osserviamo, per esempio, quello che secondo me è il dato più macroscopico, ossia l'articolazione delle Commissioni permanenti di Camera e Senato, notiamo che questa non è stata in alcun modo adeguata alla riforma del Titolo V, contribuendo a far prevalere una certa interpretazione della distribuzione delle funzioni legislative come disegnata da quella riforma.
A questo punto, respinta la riforma costituzionale sul bicameralismo e venuta meno ogni prospettiva di istituire una Camera rappresentativa delle autonomie, la norma costituzionale in questione, a mio avviso, deve ricevere tempestiva attuazione.
In proposito, ho trovato un vecchio lavoro, del 2003, in cui citavo anche uno scritto del professor Mangiameli a supporto, Pag. 5 e in cui provavo a sostenere che quel «possono» dell'articolo 11, in realtà, deve essere interpretato come un «devono»: o meglio, a mio avviso, deve essere interpretato come un'abilitazione alla fonte «regolamento parlamentare» a intervenire su un campo, su cui possiamo discutere se, in assenza di quella abilitazione, la fonte «regolamento parlamentare» avrebbe pieno titolo per intervenire. Si tratta quindi di un «possono» abilitativo, non inteso a delineare una mera eventualità.
Il fatto stesso che il secondo comma dell'articolo 11 sia formulato come disposizione immediatamente applicabile, a mio avviso, vale a rafforzare questa tesi. Devo ricordare che si tratta di una prescrizione costituzionale, che in quanto tale deve essere osservata dal Parlamento, dal Governo e dagli altri soggetti dell'ordinamento, a maggior ragione visto che a questo punto non sembra sussistere neanche più l'alibi per non attuare una prescrizione costituzionale, che era rappresentato, appunto, dalla riforma costituzionale in itinere.
Questo discorso dell'attuazione doverosa si pone con riferimento alla disposizione dell'articolo 11 e altresì con riguardo a un'altra disposizione inattuata, anch'essa contenuta nell'ultimo articolo di una legge costituzionale, ossia all'articolo 5, comma 4, della legge costituzionale n. 1 del 2012, che richiede lo sviluppo della funzione di controllo parlamentare sulla finanza pubblica, in parallelo con l'introduzione del principio dell'equilibrio di bilancio, anche in questo caso affidando il compito ai regolamenti parlamentari.
Fintanto che si ragionava su una nuova riforma costituzionale, in cui – si ricorda – la funzione di controllo sarebbe stata distribuita in modo asimmetrico tra Camera e Senato, con il controllo politico affidata alla prima e la valutazione delle politiche pubbliche demandata al secondo, la mancata attuazione di tale disposizione costituzionale si poteva anche giustificare. Tuttavia, nel momento in cui questa prospettiva non c'è più, la mancata attuazione da parte dei regolamenti parlamentari, diventa, a mio avviso, molto problematica, anche perché ricordo che l'obbligo di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, affermato dall'articolo 54 della Costituzione, vale, a maggior ragione, con riferimento ai Presidenti delle Camere, ai parlamentari e ai componenti delle istituzioni. Queste sono prescrizioni costituzionali rispetto alle quali vi è – lo ripeto – un obbligo di fedeltà e di rispetto.
A questo quadro, si aggiunge la sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2016. Al di là di una serie di considerazioni critiche che si possono muovere, a mio avviso a pieno titolo, nei confronti di questa pronuncia, resta il fatto che il principio ivi affermato, a mio avviso assolutamente condivisibile, riguarda l'applicazione della regola di leale collaborazione anche ai procedimenti legislativi. Sussiste, però, un'ambiguità, perché la Corte costituzionale può intervenire a pieno titolo quando questi siano procedimenti legislativi delegati, sulla base di una legge di delega: per questi procedimenti è abbastanza facile mettere in opera lo stesso schema che si aziona con riferimento ai procedimenti amministrativi, prevedendo quindi l'intesa in sede di Conferenze, mentre è molto più complicato, anche se non impossibile, farlo per gli altri procedimenti legislativi, a partire dal procedimento legislativo ordinario.
Al riguardo, il parere del Consiglio di Stato sul seguito della sentenza n. 251 del 2016, che condivido nei suoi restanti contenuti, ha dato una lettura un po’ riduttiva, a mio avviso, delle modalità con cui inverare il principio di leale collaborazione nei procedimenti legislativi, perché non ha richiamato né l'articolo 5 della Costituzione, né l'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Invece in qualche misura gli strumenti che individuino per il Parlamento vincoli nei procedimenti legislativi esistono, sia pure appunto delineati con norme costituzionali di principio, come quelle di cui abbiamo accennato.
Affronterò ora rapidamente, perché non voglio rubare tempo anche all'intervento del professor Mangiameli, alcuni dei numerosi nodi che la disposizione solleva e che non derivano da suoi pretesi difetti, bensì dall'oggettiva difficoltà di prevedere Pag. 6forme di partecipazione delle autonomie territoriali in Parlamento.
In merito, credo che l'alternativa sia piuttosto drastica. O si pensa che tale partecipazione non sia necessaria, e sono in parecchi a sostenerlo, o perché hanno un approccio centralista, diffuso anche in alcuni organi dello Stato, oppure perché sono avvantaggiati dagli attuali equilibri. Oppure bisogna prevederla, ed affrontare perciò le difficoltà e le innovazioni che da tale partecipazione, in un modo o nell'altro, derivano.
Ho ascoltato l'audizione del Sottosegretario Bressa svolta di recente in questa Commissione e mi ha un po’ sorpreso la sua ipotesi, sia pure formulata come transitoria, in attesa dell'attuazione dell'articolo 11. Creare una conferenza che esprima i propri pareri, tra la prima e la seconda lettura dei due rami del Parlamento, quasi come una terza Camera o un Bundesrat, senza avere tuttavia le garanzie del Bundesrat, e che interviene, sia pure rivolgendosi solo al Governo, su testi già approvati da una Camera di rappresentanza parlamentare. Sinceramente mi pare una cosa poco giustificabile sul piano sistematico. Ciò anche perché c'è una norma costituzionale che va nella direzione opposta, ossia che abilita e impegna espressamente le Camere e il Governo ad andare nella direzione opposta. Intuisco che, dietro una posizione siffatta, invero piuttosto acrobatica, vi sia una logica di comprensibile difesa dell'attuale ruolo giocato dalle conferenze, e quindi dal Governo al loro interno.
Sugli aspetti puntuali, sono – come già accennavo – in profonda sintonia con la relazione del Presidente D'Alia, ma mi permetto qualche sottolineatura davvero flash.
La prima questione riguarda le fonti. Condivido la possibilità e forse l'opportunità di definire con legge il numero dei componenti della Commissione, e, per inciso, l'ipotesi di 30 parlamentari più 30 rappresentanti delle autonomie mi sembra assolutamente ragionevole. Però credo che l'intervento della legge debba esservi a completamento di quanto sarà stabilito dai regolamenti parlamentari, posto che la norma costituzionale individua i regolamenti parlamentari come la fonte primaria che deve e non può non disciplinare questo oggetto. Segnalo che nel frattempo, rispetto anche ai lavori del cosiddetto Comitato Mancino, è intervenuta, in materia di autodichia, una sentenza della Corte costituzionale che ritengo di notevole rilievo, cioè la sentenza n. 120 del 2014. Essa qualifica i regolamenti parlamentari come fonti dell'ordinamento generale, e costituisce quindi un ulteriore incoraggiamento a utilizzare tale fonte.
Sulla questione della composizione, i problemi ci sono e devono essere ben scandagliati. Ricorderete in proposito che alcune Commissioni miste, cioè composte da parlamentari e non parlamentari, già esistono. Mi pare siano, attualmente, tre le Commissioni istituite presso Ministeri con questo tipo di partecipazione: si tratta di residui di altra epoca storica, probabilmente. Segnalo, inoltre, che in questa legislatura esistono due Commissioni di studio, istituite dalla Presidente della Camera dei deputati e composte anch'esse da parlamentari e non parlamentari. Stiamo parlando di Commissioni prive, certo, di potere decisionale, le quali sono state istituite non da una norma costituzionale, ma con un atto della Presidente della Camera, e che si riuniscono nelle sedi della Camera. A maggior ragione, ritengo, quindi, che i problemi posti sulla questione della composizione integrata siano tutt'altro che irrisolvibili.
Sul tema delle competenze, sono abbastanza convinto che i regolamenti parlamentari siano chiamati a interpretare, con un ampio margine di discrezionalità, la sfera di competenza di questa Commissione integrata e la relazione argomenta molto bene la questione dell'assetto effettivo della legislazione statale e regionale. Tuttavia, l'interpretazione restrittiva secondo cui la competenza della Commissione integrata riguarderebbe solamente i progetti di legge di cui al terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione, oltre che del successivo articolo 119, non mi pare sostenibile. Ben venga, quindi, un'interpretazione ampia delle competenze, in linea con quelle della Commissione bicamerale, nella sua composizione attuale.
Il punto, a mio avviso, è quello di limitare in modo rigoroso l'effetto di rafforzamento del parere della Commissione. Direi Pag. 7che questo debba prodursi solo e soltanto quando si invochi il rispetto di queste disposizioni costituzionali. Su quest'aspetto, ritornerò tra un attimo a proposito delle modalità di deliberazione.
Vorrei fare un ultimo cenno, prima di arrivare alla questione delle modalità di deliberazione, sul richiamo all'articolo 119 della Costituzione, presente nell'articolo 11 e che, a mio avviso, suggerisce, se non impone, di superare e di inglobare, in qualche modo, l'esperienza tutt'altro che negativa della Commissione bicamerale per il federalismo fiscale.
Vi ricordo quello che ho già espresso nella precedente audizione e che credo, a maggior ragione, a questo punto sia sintomatico. Mi riferisco al fatto che la legge n. 42 del 2009, che ha previsto l'istituzione di quella Commissione bicamerale, aveva cercato in qualche modo di porre rimedio alla mancata attuazione dell'articolo 11, costituendo, per affiancare il lavoro della predetta Commissione, almeno in teoria – essendo l'iniziativa rimasta solo sulla carta, perché le complessità ci sono ed è inevitabile che ci siano – un apposito Comitato di rappresentanti di autonomie territoriali, nominati dalla componente rappresentativa di Regioni ed enti locali nell'ambito della Conferenza unificata e nella misura di sei rappresentanti regionali, due provinciali e quattro comunali. Anche questa Commissione bicamerale finirebbe per essere naturalmente assorbita, in conformità a questa prescrizione costituzionale, nella logica della Commissione bicamerale integrata.
Concludo accennando alle questioni legate alle modalità di deliberazione e ai loro effetti sul procedimento legislativo. In merito, concordo con la relazione e credo ci si possa addirittura spingere oltre. Capisco l'esigenza di semplificazione, che il Sottosegretario Bressa sottolineava, e mi spingerei ad avanzare un'ipotesi su cui si può, forse, ragionare. Quando la Commissione integrata è chiamata a esprimersi sulle materie di sua competenza – a parte, ovviamente, i pareri sullo scioglimento del Consiglio regionale e sulla rimozione del Presidente della Regione, che resterebbero di competenza della Commissione bicamerale nella sua composizione esclusivamente parlamentare – perché non lasciare libero il funzionamento della Commissione, almeno di regola? Non dobbiamo porci troppo il problema di come questa Commissione vota, perché voterebbe come votano, di norma, tutti gli organi parlamentari, se per effetto di questo voto non si produce l'effetto di vincolo, consistente nell'innalzamento della maggioranza richiesta nel procedimento legislativo presso le due Assemblee.
Prevederei, invece, perché l'effetto di vincolo possa prodursi, il ricorso a peculiari meccanismi di votazione, con la doppia maggioranza per entrambe le componenti e con la possibilità, per ciascuna componente, di articolarsi diversamente al suo interno e di ponderare diversamente il voto in talune ipotesi in cui si produce l'effetto di vincolo. Quindi, se la componente regionale e autonomistica vuole ponderare i propri voti, non c'è nulla in contrario, in questa limitata ipotesi. A questo punto, perché si produca l'effetto di vincolo, bisogna dire: seguiamo le procedure aggravate e chiediamo che ci sia la maggioranza da parte di entrambe le componenti.
Nell'attività ordinaria della Commissione, in sostanza, non cambierebbe quasi nulla rispetto al suo funzionamento attuale, salvo il fatto di renderla molto più forte, perché al suo interno parteciperebbero regolarmente ai lavori, in maniera ordinaria, anche i rappresentanti di Regioni ed enti locali.
Questo è l'unico suggerimento che mi permetto di esprimere a questo proposito. Se, inoltre, così facendo si finisce per porre qualche ulteriore vincolo per la posizione della questione di fiducia su maxiemendamenti, a me questo non sembrerebbe un gran male, perché limiterebbero quelle che la Corte costituzionale ha recentemente definito, nella sentenza n. 251 del 2014, una «problematica prassi». Vi ribadisco quindi la mia piena sintonia con quanto sostenuto nella relazione introduttiva e vi ringrazio per l'attenzione.
PRESIDENTE. Grazie a lei, professore Lupo. Do la parola al professor Stelio Mangiameli.
Pag. 8 STELIO MANGIAMELI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo. Grazie, Presidente, per l'invito e per questa collaborazione, che per me è molto importante, in quanto consente di mettere direttamente al centro della riflessione istituzionale le questioni di maggiore rilievo.
La Commissione ha svolto un'indagine conoscitiva sulle Regioni a statuto speciale e un'indagine conoscitiva sul «sistema delle conferenze»; sta ora svolgendo un'indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra Stato e autonomie territoriali, dopo il referendum del 4 dicembre scorso.
Vorrei fare due considerazioni preliminari. La prima riguarda il fatto che il risultato del referendum non porta indietro l'orologio della storia, riguardo le questioni che si pongono in questo momento rispetto ai temi del regionalismo.
Per la seconda questione preliminare, posso dire che il regionalismo, oggi, a me pare essere, all'interno del sistema repubblicano, l'asse attorno al quale bisognerebbe riordinare sia lo Stato che le Regioni, per chiudere quella stagione segnata profondamente dalla crisi economica e finanziaria, la quale ha stravolto una serie di significati istituzionali, di disposizioni istituzionali e di norme dell'ordinamento. Tali stravolgimenti sono stati giustificati anche dalla Corte costituzionale con riguardo alla situazione emergenziale, ma, in una situazione ottimale ordinaria, dovrebbero essere integralmente rivisti.
Ne cito uno per tutti: combinare il risultato del referendum e della questione della fine dell'emergenza della crisi economica con la vicenda delle Province. È chiaro che segnali nuovi su tale materia ci provengono anche dalla giurisprudenza costituzionale. Non solo dalla sentenza n. 251, più volte citata, la quale ha sicuramente un'importanza particolare, perché si riferisce a fonti del diritto quali i decreti legislativi; ma anche in altre sentenze del 2016, nelle quali troviamo un cambio di passo nella giurisprudenza costituzionale, sul tema, per esempio, della finanza pubblica e sulla copertura necessaria delle funzioni, attribuite in un determinato ambito istituzionale. Perciò direi che, considerando nell'insieme questi aspetti, l'indagine conoscitiva di oggi coglie nel segno.
Ho non solo apprezzato la relazione del Presidente D'Alia, ma la condivido quasi integralmente. Se mi è consentito, però, vorrei aggiungere qualche consiglio e qualche suggerimento sulla possibilità di realizzare concretamente gli obiettivi, con riferimento all'applicazione dell'articolo 11.
Il saggio che citava, molto gentilmente, il professor Lupo fu scritto 22 giorni dopo l'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 e, avendolo letto di recente, posso dire che tutti i problemi che affrontiamo oggi erano già stati evidenziati in quel momento.
Possiamo, quindi, disegnare un modello di Commissione bicamerale integrata fantasmagorico, ma ciò, secondo me, non ha alcuna utilità in questa situazione. Bisogna percorrere una strada molto stretta e arrivare al miglior risultato possibile hic et nunc, perché il problema di fondo è chiarire a noi stessi che cosa si può fare effettivamente e farlo nel più breve tempo possibile.
Innanzitutto, la necessità del coordinamento non nasce dal contenzioso costituzionale. Questa è un'affermazione che viene ripetuta continuamente e ne ho trovato anche qualche accenno nella relazione, ma il coordinamento è autonomo rispetto alle vicende del contenzioso e inerisce alla qualità delle funzioni pubbliche, compresa quella legislativa. Questo non vuol dire che il coordinamento non abbia o non possa avere riflessi sul contenzioso. In ogni caso, se consideriamo il contenzioso come il problema a cui vogliamo porre rimedio, stiamo attenti al fatto che questo è incentrato su cose diverse da quelle di cui si dovrebbe occupare la Commissione bicamerale integrata. Tale Commissione ha come oggetto specifico l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, in connessione con l'articolo 119, mentre il contenzioso è stato determinato dall'occupazione da parte dello Stato degli spazi legislativi regionali.
Ho richiamato subito i concetti cardine, che si ritrovano anche nella relazione: chiamata in sussidiarietà; materie trasversali; materie-funzione; prevalenza dello Stato; Pag. 9intreccio di competenze. Questi concetti fanno tutti riferimento all'esercizio da parte dello Stato delle competenze legislative su materie che non sono sue proprie, o che interferiscono pesantemente con le materie regionali, e non ai principi fondamentali delle leggi cornice.
Sul tema dell'articolo 117, terzo comma, non c'è stato nessun contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale. Il punto è: che cosa bisogna coordinare e qual è l'oggetto del coordinamento che siamo chiamati a valutare con l'integrazione della Commissione bicamerale? In questa sede, proprio perché il meglio è nemico del bene, dico che non possiamo, soprattutto in questa fase iniziale, pensare al coordinamento degli interessi dello Stato e delle Regioni. Infatti, se ogni volta che c'è un interesse delle autonomie territoriali, il procedimento si deve aggravare o deve avere anche il parere della Commissione bicamerale, anche se poi non viene aggravato il voto dinanzi alla Commissione competente, ci troviamo comunque di fronte a un aggravio del procedimento legislativo, che non è giustificato dall'articolo 11.
Con ciò non intendo affermare che non ci siano interessi rilevanti per le Regioni e per le autonomie al di fuori del terzo comma dell'articolo 117. Vorrei fare un esempio concreto: le leggi di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera p), su funzioni fondamentali, organi di Governo e sistema elettorale di comuni, province e città metropolitane, sono rilevanti per le Regioni? Certo che lo sono, e lo sono anche per le autonomie; potrebbe quindi sembrare logico e naturale che, per queste materie, si vada dinanzi alla Commissione bicamerale per un parere, ma così non deve essere. Infatti si tratta di una materia di competenza esclusiva dello Stato, per la quale la salvaguardia degli interessi delle Regioni e delle autonomie locali deve essere raggiunta attraverso una via diversa, come quella che, nell'ordinamento tedesco, si chiama «berücksichtigung», in base alla quale ogni legislatore legifera prestando attenzione alla competenza degli altri soggetti. In base a tale meccanismo chi legifera negli ambiti di propria competenza, lo fa evitando di creare problemi e di invadere la competenza, o di menomare i poteri, degli altri soggetti.
Questo è il modo in cui bisogna agire e, da questo punto di vista, mi permetto suggerire: lasciate quante più cose intatte nel sistema attuale. Per esempio, la valutazione della conformità al Titolo V dei disegni di legge, fatta dalla prima Commissione affari costituzionali, deve essere lasciata così per il momento, quantomeno per far decollare questa esperienza.
Non si deve trattare di semplice interesse, bensì di materie di competenza concorrente e del profilo finanziario, su cui si innestano politiche pubbliche, le quali devono essere coordinate sul piano legislativo, aprendo la via anche al ruolo delle conferenze sul piano amministrativo. Si tratta quindi delle materie espressamente richiamate dall'articolo 117, terzo comma, quali la comunicazione, l'energia e i trasporti, cioè le più ampie materie e le più ampie politiche pubbliche che vi possono essere, come anche sanità, ambiente, e via dicendo.
Qual è la finalità di questo coordinamento e perché c'è bisogno del coordinamento? Con il coordinamento si rende possibile un coniugare le esigenze di flessibilità delle competenze – perché queste devono essere gestite con una certa flessibilità, che stiamo cercando dal 2003, a partire dalla sentenza n. 303 – con l'aspetto fondante dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, cioè l'elemento della legittimazione della rappresentanza. È fondamentale il fatto che la riforma del 2001 prevedeva già questo innesto in sede parlamentare, perché quella è la sede effettiva in cui è possibile realizzare il principio di flessibilità.
La chiamata in sussidiarietà che inventa la collaborazione a valle, attraverso il «sistema delle conferenze», è un éscamotage, che potevamo accettare nel 2003 ma non nel 2017. Preferirei, altrimenti, un sistema in cui lo Stato intervenga e non dia conto a nessuno, piuttosto che questo éscamotage.
Perché non va bene più la chiamata in sussidiarietà? In questo modo, si espropria il Parlamento nazionale e le assemblee legislative regionali e si dà la competenza agli esecutivi di gestire tutta una serie di questioni, Pag. 10 le quali richiedono un adeguamento legislativo ex post. Allora, questo è l'elemento che non convince nel sistema attualmente in vigore.
La formulazione della disposizione dell'articolo 11 pone immediatamente un problema di fonti, ma dico anche che lo pone e lo risolve. Come avevamo scritto e avevamo detto tutti a suo tempo, c'è una simmetria tra la circostanza per cui l'articolo 11 preveda come fonte abilitata a disciplinare questa integrazione i regolamenti parlamentari e il fatto che la Commissione trovi il suo fondamento in una disposizione della legge Scelba del 1953.
A me pare che la questione debba essere risolta alla radice, evitando il ricorso alla fonte legislativa e utilizzandola, semmai, in un secondo momento. Io punterei immediatamente alla modifica dei regolamenti per attuare l'essenza dell'integrazione e sposterei in avanti la modifica della norma legislativa che disciplina la Commissione bicamerale.
Si pone peraltro un problema ulteriore riguardo alle fonti: devono essere i regolamenti parlamentari a stabilire chi rappresenta la Regione e gli enti locali, oppure devono farlo fonti diverse? Se affrontiamo la questione in astratto, potremmo dire che il regolamento parlamentare dovrebbe definire tutti gli aspetti. Tuttavia, se facciamo una lettura sistematica, il regolamento parlamentare può definire la rappresentanza degli enti locali, ma nel definirla, ancora una volta, non è libero di farlo come meglio crede. La decisione sicuramente spetta allo Stato, ma facciamo attenzione al quadro costituzionale e, in modo particolare, all'articolo 123, ultimo comma, della Costituzione, che prevede che gli enti locali siano rappresentati nel sistema regionale dal Consiglio delle autonomie locali. Trovare un diverso tipo di rappresentanza, secondo me, significa creare un'asimmetria che non giova al sistema.
Quanto alle Regioni, secondo me la fonte abilitata a definire la rappresentanza delle Regioni è costituita dagli Statuti ordinari e dalle leggi statutarie delle Regioni a statuto speciale. Allo Stato, d'altra parte, che cosa spetta, in base all'articolo 11? Allo Stato spetta formare uno spazio di rappresentanza per le Regioni e a queste compete definire la fisionomia della propria rappresentanza, perché sono le Regioni a dover decidere come essere rappresentate nel sistema.
Da questo punto di vista, l'articolo 11 determina il livello di partecipazione delle Regioni e degli enti locali in un organo che sinora è stato espressione della rappresentanza dello Stato, perché la Commissione è un organo parlamentare, espressione del Parlamento nazionale.
In merito, si pongono due problemi: la consistenza della rappresentanza regionale e la qualità della medesima.
Ho letto con molta attenzione la proposta, di ridurre il numero dei componenti a 30, per avere un bilanciamento. Si tratta di un principio affermato sin dal primo momento, per cui la rappresentanza di Regioni ed enti locali deve essere paritetica rispetto alla rappresentanza di Camera e Senato all'interno della Commissione.
Tuttavia, a prescindere dal fatto che questo si potrà pensare in un momento successivo, mi avvantaggerei della rappresentanza di 40 componenti da integrare, perché sarebbe utile inserire un rappresentante dei Consigli delle autonomie locali di tutte le Regioni e un rappresentante di ciascuna Regione, che dovrebbe essere un rappresentante del Consiglio regionale; avremmo così un equilibrio affettivo, istituzionale e simmetrico con gli statuti e con le leggi statutarie. Ovviamente bisognerebbe chiedere un sacrificio alle province autonome di Trento e Bolzano perché, essendo i componenti 40 e non 42, per quanto riguarda la regione Trentino-Alto Adige, per una volta, le due Province autonome dovranno avere un unico rappresentante.
Si potrebbe decidere di passare a 30 o a 42 e questa è una decisione che potrà essere rivista dopo un primo periodo di prassi; però, se vogliamo una rapida realizzazione, questo è il tema da affrontare.
Per quanto riguarda la qualità della rappresentanza, è da molto tempo in atto un dibattito, nato quando si creò il Comitato Mancino, riguardo ai Presidenti, ai Consigli e via dicendo. Io trovo molto intelligente la soluzione individuata nella relazione del Presidente Pag. 11 D'Alia, per cui la rappresentanza avviene fra legislativi, di cui è espressione anche la Commissione bicamerale non integrata; quindi l'integrazione dovrebbe avvenire secondo quello che era anche il pensiero del senatore Mancino all'epoca. Egli dovette alla fine interrompere i lavori, proprio a causa del fatto che su questo punto non si riusciva a trovare una soluzione. È risolutiva la circostanza che la relazione del Presidente D'Alia offre: inserire nella Commissione, quali controparti, come nel caso del rappresentante del Governo, anche i Presidenti delle Giunte regionali.
Ci sono anche altre ragioni per cui effettuare questa scelta. Innanzitutto, in Italia non c'è la forma di Governo parlamentare tipica del sistema tedesco, nel quale si può affidare la rappresentanza del Bundesrat agli esecutivi; inoltre, abbiamo un sistema dei partiti che non è stabile ed è anzi abbastanza «fluido», quindi i Presidenti non esprimerebbero una rappresentanza adeguata.
Su un punto, molto rapidamente, vorrei cercare di dare un contributo particolare. La relazione si pone il problema delle modalità di funzionamento della Commissione integrata e prospetta la soluzione del voto per delegazione.
Tuttavia, noto che nella stessa relazione ci sono tante preoccupazioni e che questo tipo di voto è circondato da una serie di riserve particolari perché, se il voto è per delegazione, è inevitabile che, qualora le delegazioni si esprimessero in modo difforme, il parere non verrebbe dato.
Questa circostanza viene superata con una serie di meccanismi, indicati nella relazione, quali, ad esempio, la preparazione del parere, ma mi pongo un problema: siccome il parere deve essere dato da due gruppi legislativi, o più o meno legislativi, di pari entità, perché non si può lavorare per consenso, visto che questo è il modo migliore di lavorare? Il coordinamento non deve vedere un vincitore e un vinto e il prevalere di un'idea sull'altra, perché non è questo lo spirito della collaborazione. In Parlamento, il voto è divisivo, cioè ci si divide a favore o contro una proposta, ma, quando si deve esprimere un parere, che è un atto di giudizio e non un atto deliberativo, occorre esprimere il parere migliore possibile, in base alla circostanza politica data. Secondo me, ciò porta inevitabilmente a un ulteriore lavoro e, già nella relazione, ci sono tutti gli elementi su questo. Si potrebbe quindi anche superare il tema della votazione, indicando il discorso del lavoro per consenso della Commissione integrata.
In base all'articolo 11, il parere della Commissione è riferito alla seconda lettura, perché, delle tre letture legislative, sulla seconda si estrinseca il parere della Commissione. La formulazione dell'articolo 11, da questo punto di vista, è restrittiva, perché ipotizza il procedimento legislativo ordinario, con la Commissione in sede referente.
A mio avviso, occorrerà un'ulteriore integrazione, a cui faceva riferimento anche il professor Lupo, ad opera dei regolamenti parlamentari. Il parere deve essere dato su tutte le vicende della seconda lettura, quindi in Commissione, ma anche in Aula; se questa emenda il testo approvato dalla Commissione sui punti su cui era stato dato il parere, sia nel caso in cui la Commissione si era adeguata, sia nel caso in cui non si era adeguata al parere. Secondo me, deve essere ulteriormente implementato questo elemento fondamentale.
È intelligente la soluzione sia sulle Commissioni in sede redigente, sia sulle Commissioni in sede deliberante e sulla questione di fiducia. Lo dico perché, se la questione di fiducia viene posta sulla norma che ha formato oggetto di parere, questa dovrebbe essere votata a maggioranza assoluta. Nel caso in cui, tuttavia, il Governo faccia un maxiemendamento e cambi tutto nel giro di una notte – secondo una tecnica a mio giudizio riprovevole e non decorosa per un'assemblea parlamentare nazionale, infatti gli altri non capiscono, quando lo spiego, che c'è il «canguro» o c'è il maxiemendamento e c'è la questione di fiducia da tenere in considerazione – direi che questa è una responsabilità che si deve assumere il Governo rispetto alle assemblee legislative.
In ultimo, vorrei parlare dell'oggetto del parere. Anch'io ho sostenuto, sin dall'inizio, che con molta probabilità bisognava allargare il parametro dell'articolo 117, terzo comma. Oggi, non mi sentirei di darvi questo Pag. 12 consiglio e di ipotizzare un dibattito su questo. Atteniamoci all'articolo 117, terzo comma, altrimenti non ne veniamo fuori, perché si apre un ginepraio enorme dentro le assemblee legislative.
Tutt'al più, un elemento ulteriore potrebbe essere l'unificazione con la legge sulle procedure europee per quanto riguarda il controllo di sussidiarietà; ferma restando la libertà dei Consigli regionali di dare il loro parere, un contributo di sintesi, rispetto alla fase prenegoziale del procedimento legislativo europeo, potrebbe essere dato, infatti, anche dalla Commissione integrata.
Mi permetto di dare un ultimo consiglio sul rafforzamento della relazione per i profili relativi all'articolo 119 della Costituzione. Si tratta di un punto autonomo che deve essere ripreso necessariamente, non solo perché l'articolo 119 è citato espressamente nell'articolo 11 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, ma anche perché noi dovremmo riprendere il tema del federalismo fiscale, a cui alla fine abbiamo rinunciato, visto che a questo il tema delle competenze è strettamente legato: senza risorse non ci sono competenze e le competenze hanno necessità, per vivere, delle risorse.
C'è anche un altro motivo che riguarda il tema del coordinamento della finanza pubblica, che è un punto centrale nella prospettiva della Commissione integrata, perché si tratta di una materia di competenza concorrente, che è rimasta tale. Badate che, se fosse passata la riforma, l'unica vera grande modifica sul piano delle competenze sarebbe stata quella del coordinamento della finanza pubblica, perché per le altre competenze del terzo comma dell'articolo 117, la riforma di fatto, avrebbe mantenuto il riparto delle competenze, sotto mentite spoglie. Veniva dichiarato che queste erano esclusive dello Stato, ma in realtà c'era una concorrenza all'interno dell'articolo 117, secondo comma. L'unica materia che sarebbe diventata effettivamente di competenza esclusiva statale è il coordinamento della finanza pubblica, che, in maniera assoluta e in combinato disposto con le modifiche dell'articolo 119, avrebbe creato un centralismo finanziario, per cui le Regioni e gli enti locali sarebbero stati messi a busta paga ogni anno, con la legge di bilancio.
Adesso, questo problema non c'è, ma c'è un problema di coordinamento della finanza pubblica, anche nel rispetto dei vincoli di bilancio, poco fa richiamati. Il coordinamento della finanza pubblica, a mio avviso, richiederebbe una specificazione in sede regolamentare, perché sono d'accordo che la Commissione integrata debba darsi un suo regolamento, ma aggiungerei un'ulteriore disciplina nell'ambito del suo regolamento, per disciplinare le procedure inerenti all'esercizio di questa specifica competenza.
Va da sé che, se si dovesse realizzare l'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, anche la riforma delle competenze prenderebbe il volo, perché si saprebbe dove e come intervenire. Grazie.
PRESIDENTE. Grazie a lei, professor Mangiameli. Penso che gli interventi e le relazioni del professor Lupo e del professor Mangiameli siano stati più che chiari e, dal nostro punto di vista, molto utili per integrare la relazione e per svolgere, in Commissione, una discussione che ci consenta di formulare una proposta concreta, con un orizzonte temporale di realizzazione.
Ringrazio pertanto gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 9.10.