Sulla pubblicità dei lavori:
Galan Giancarlo , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SULLE STRATEGIE PER CONTRASTARE LA DISPERSIONE SCOLASTICA
Audizione del dottor Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, della dottoressa Anna Maria Leuzzi, dirigente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e della dottoressa Anna Maria Ajello, presidente dell'INVALSI.
Galan Giancarlo , Presidente ... 3
Gavosto Andrea , Direttore della Fondazione Agnelli ... 3
Leuzzi Anna Maria , Dirigente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ... 6
Ajello Anna Maria , Presidente dell'INVALSI ... 9
Galan Giancarlo , Presidente ... 12
Zampa Sandra (PD) ... 12
Pes Caterina (PD) ... 13
Coscia Maria (PD) ... 13
Santerini Milena (PI) ... 14
Carocci Mara (PD) ... 15
Marzana Maria (M5S) ... 15
Galan Giancarlo , Presidente ... 15
Gavosto Andrea , Direttore della Fondazione Agnelli ... 15
Leuzzi Anna Maria , Dirigente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ... 17
Ajello Anna Maria , Presidente dell'INVALSI ... 18
Galan Giancarlo , Presidente ... 19
Allegato 1: Documentazione consegnata dal dottor Andrea Gavosto ... 20
Allegato 2: Documentazione consegnata dalla dottoressa Anna Maria Leuzzi ... 34
Allegato 3: Documentazione consegnata dalla dottoressa Anna Maria Ajello ... 65
Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GALAN
La seduta comincia alle 14.45.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione del dottor Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, della dottoressa Anna Maria Leuzzi, dirigente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e della dottoressa Anna Maria Ajello, presidente dell'INVALSI.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica, l'audizione del dottor Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, della dottoressa Anna Maria Leuzzi, dirigente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca e della dottoressa Anna Maria Ajello, presidente dell'INVALSI, che ringrazio per essere intervenuti.
Do ora la parola al dottor Andrea Gavosto per lo svolgimento della sua relazione.
ANDREA GAVOSTO, Direttore della Fondazione Agnelli. Grazie, presidente, è sempre un piacere, oltre che un onore, essere auditi dalla VII Commissione.
Ho depositato agli atti una documentazione sul tema della dispersione scolastica che, come Fondazione Agnelli, abbiamo esaminato in passato e che riteniamo della massima importanza. La memoria consegnata tocca due punti essenziali, di cui mi limiterò a fare una sintesi.
Il primo è un punto metodologico sulla definizione e la misurazione del fenomeno. So che, nei giorni scorsi, anche in questa Commissione, c’è stata una discussione sui temi della misurazione, che hanno portato a far circolare cifre, a nostro avviso, forse eccessive sull'entità del fenomeno. Tuttavia, il tema è importante perché, chiaramente, dalla definizione e dalla misurazione discendono anche le strategie.
Per esemplificare, abbiamo una definizione europea, di cui sicuramente siete a conoscenza, che è basata sugli early school leavers che, per il 2013, dà un dato di dispersione, per quel che riguarda l'Italia, pari al 17 per cento.
Questa è una definizione che si basa su due concetti. Il primo è che le persone osservate, fra i 18 e i 24 anni, non abbiano conseguito un titolo di studio superiore a quello di scuola media inferiore, ovvero la secondaria di primo grado. A questo proposito, si pone un tema delicato che riguarda le qualifiche professionali, rispetto al quale, se volete, poi entriamo nel dettaglio. A ogni modo, l'indicazione europea si riferisce a coloro che non hanno conseguito un titolo di studio superiore alla scuola secondaria di primo grado e che, inoltre, nelle quattro settimane precedenti l'intervista, non abbiano svolto attività di istruzione e di formazione.
Questo è il punto di riferimento nei confronti internazionali. Si tratta, però, di una misurazione che guarda al termine del Pag. 4processo di dispersione, nel senso che dà un consuntivo, individuando persone che, fino ai 24 anni, sono nella condizione del mancato raggiungimento di un certo titolo di studio. A quel punto, tuttavia, è chiaro che nei confronti di questi soggetti si può attuare una politica non più di prevenzione, ma di accompagnamento a un ritorno alla formazione e all'istruzione. Pertanto, le politiche che discendono da questa definizione e da questo tipo di misurazione sono, sostanzialmente, a consuntivo, per rimediare una situazione – in molti casi – già irreparabilmente pregiudicata.
Altre definizioni, presenti anche nei documenti europei, come quelle del cosiddetto drop-out o basate sui livelli di competenze, a cui accennerò, permettono, invece, di attuare politiche più indirizzate alla prevenzione. Questa è l'impostazione che utilizziamo nei nostri studi. Infatti, il tema dell'abbandono e della dispersione scolastica va affrontato in maniera molto precoce; se è possibile, fin dalla scuola media, che è il luogo dove già si annidano molte delle problematiche che possono portare a fenomeni di dispersione.
Nell'ambito della discussione metodologica su come definire e misurare questo tipo di fenomeno va considerato l'obiettivo, ovvero se si vuole fare una politica di correzione a posteriori o di prevenzione a priori.
Per esempio, nella definizione che dà recentemente il MIUR, che è molto vicina al concetto di drop-out, i numeri sono molto inferiori rispetto a quelli europei. Parliamo di tassi di abbandono annuali – in quel caso si misurano coloro che hanno rinunciato alla scuola nel corso dell'anno scolastico senza dichiararne la motivazione – dell'1,2 per cento per quel che riguarda le scuole secondarie superiori. Quindi, pur cumulandoli, arriveremmo a un tasso di dispersione non superiore all'8 per cento, con un gap notevole rispetto al 17 per cento della misurazione europea. Insomma, a seconda della definizione adottata – fondamentale per definire le politiche – varia notevolmente la risposta sul fenomeno.
Parte della nostra documentazione esamina i soggetti che sono più a rischio di abbandono scolastico. Si tratta, tipicamente, di soggetti maschi, spesso di origine straniera, con un background familiare fragile e, soprattutto, con una storia e un percorso educativo molto frastagliato, che parte dalle scuole medie. Questi sono i soggetti che hanno la più alta probabilità di non arrivare al completamento della scuola secondaria, ovvero al raggiungimento di un diploma.
Se questi sono i soggetti a rischio, la loro individuazione va fatta il più precocemente possibile. Da qui deriva il nostro auspicio che le misure antidispersione comincino dalla scuola media e non da quella superiore, dal momento che – ripeto – il fenomeno va accertato e fermato quanto prima.
Un altro tema importante – che affrontiamo nella nota che ho depositato – riguarda il fatto che le definizioni di dispersione e di abbandono sono basate sul conseguimento – o meno – di un certo titolo di studio. Ora, però, almeno da quando esistono i test di apprendimento, quindi dal 2000, sappiamo che, spesso, allo stesso titolo di studio possono corrispondere livelli di competenze molto diversi. Pertanto, a nostro avviso, si dovrebbe mirare a una definizione basata non tanto sul conseguimento – o meno – della qualifica o del diploma, bensì sul grado di competenze raggiunte a una determinata età. In questo senso, ci fa da battistrada l'impostazione dell'indagine OCSE-PISA.
Come sapete, infatti, il programma di indagine OCSE-PISA definisce dei livelli di competenza: al di sotto del livello 2 ritroviamo i ragazzi – nel caso di OCSE-PISA, in particolare, quindicenni – che non hanno acquisito delle competenze che gli permetteranno di essere cittadini e di lavorare in maniera normale. Purtroppo, sappiamo, anche dagli sconfortanti risultati di PISA 2012, che il livello di studenti italiani che non raggiunge il livello 2, e che quindi si trova in una situazione di assoluta insufficienza di competenze, supera il Pag. 530 per cento nelle regioni meridionali, toccando punte del 38 per cento nelle isole.
Quindi, quasi un terzo, o addirittura più di un terzo, dei nostri studenti non raggiunge una soglia di competenze ritenuta il minimo indispensabile per essere cittadini e per poter aspirare a un lavoro e a una vita normale. Forse, più che sul fatto che abbiano raggiunto o meno il titolo di studio, le politiche andrebbero concentrate proprio su questo fenomeno, che non è riconducibile all'abbandono in senso stretto, ma alla misurazione dell’achievement – per usare il termine inglese – ossia all'esito dell'apprendimento che è assolutamente inadeguato. Quella è, dunque, la fascia – che in molti casi corrisponde anche a quella dell'abbandono in senso stretto – su cui andrebbero concentrati gli interventi.
Nella seconda parte della memoria consegnata raccontiamo alcune esperienze in cui siamo coinvolti direttamente come Fondazione Agnelli, che mirano, appunto, a un'azione preventiva. Cito i diversi programmi, ma poi, se volete, possiamo entrare maggiormente nel dettaglio.
Il primo è il progetto «Arianna», che l'onorevole Umberto D'Ottavio conosce bene, anche perché ci ha aiutato in questo tipo di analisi, condotto dal comune di Torino. Tutti gli studenti delle scuole medie torinesi sono stati sottoposti a una batteria di test cognitivi e non cognitivi. Insieme al comune e alla provincia di Torino abbiamo, poi, legato gli esiti del test «Arianna» con gli andamenti scolastici nella scuola secondaria di secondo grado. Tra le informazioni utili e importanti del test «Arianna» emerge, chiaramente, che quel tipo di test permette di individuare con un notevole grado di precisione i soggetti più a rischio di abbandono, ovvero che hanno una probabilità più elevata, una volta superata la terza media – in entrata alle scuole superiori – di abbandonare gli studi. La percentuale di abbandono, in quel caso, è dell'8 per cento.
Uno strumento di questo genere, che si potrebbe adottare anche in altre aree, sarebbe estremamente prezioso per permettere di focalizzare le politiche, intervenendo direttamente sui soggetti più a rischio, evitando interventi a 360 gradi. Questo, infatti, è proprio quello che le istituzioni torinesi hanno cominciato a fare sulla base del programma «Arianna».
Un altro programma cui teniamo molto è quello che stiamo svolgendo con l'organizzazione Save the Children, in alcune situazioni difficili presenti in Calabria e in Campania (ultimamente è stato esteso anche alle città di Bari e di Napoli), che pone il tema del coinvolgimento delle famiglie.
Noi siamo i valutatori; Save the Children, invece, mette in campo forme di educazione alla cittadinanza e alle regole. Dai primi esiti delle nostre valutazioni sta emergendo che i ragazzi soggetti alle attività complementari – condotte da Save the Children – hanno dei comportamenti molto più regolari a scuola, per esempio riducono il numero di assenze scolastiche o il ritardo all'entrata, rispetto a un campione di confronto composto da ragazzi con caratteristiche identiche che, però, non sono stati sottoposti al ciclo proposto da Save the Children. Anche questo programma, che si chiama «Fuoriclasse», e che vede un forte coinvolgimento da parte delle famiglie, ci sembra, dunque, molto importante.
Mi limito a elencare altri due programmi. Il primo è mirato agli stranieri, in particolare ai ragazzi di prima generazione che entrano a scuola. Si chiama «Italiano per studiare» e comprende diverse attività pomeridiane. Infatti, nei nostri studi abbiamo scoperto che, spesso, la difficoltà per i giovani stranieri non nasce dal comprendere l'italiano parlato, che nel giro di sei mesi dall'arrivo, perlomeno a Torino, imparano in maniera fluente; la vera difficoltà è leggere, soprattutto i libri di testo scolastici. Abbiamo, quindi, realizzato un programma mirato, che si svolge nel pomeriggio e con gruppi molto piccoli, in cui insegniamo a «decrittare» i nostri libri di testo, i quali molto spesso non sono stati scritti pensando a una platea di ragazzi stranieri.Pag. 6
Ciò è importante, perché molto spesso questi ragazzi ritengono di sapere l'italiano, potendolo parlare in maniera efficace ma, nel momento in cui arrivano a scuola, sappiamo – come afferma assai correttamente il programma dell'indagine conoscitiva – che fra gli stranieri si annidano i maggiori rischi di abbandono e dispersione scolastica. Si crea infatti un fenomeno di scoraggiamento perché, appunto, nel leggere i libri di testo, questi ragazzi si rendono conto di non avere gli strumenti culturali per poter seguire la scuola. Quello descritto è un programma che attuiamo, ormai, da quattro anni e che coinvolge tutte le scuole medie della città di Torino.
Infine, vorrei fare una battuta sul coinvolgimento delle famiglie. Su questo, si pone il tema dell'immigrazione, ma anche dell'attività molto importante del mondo del volontariato e del terzo settore, di cui si sa molto poco. Insieme a «Intervita», che è un'associazione del terzo settore, e all'Associazione Bruno Trentin, abbiamo avviato una ricognizione in quattro città per realizzare un censimento delle attività svolte da organizzazioni no profit, volontariato, terzo settore e quant'altro, che accompagnano la scuola nel contrasto alla dispersione. L'attività è in corso, quindi non abbiamo ancora i risultati, ma permetterà di conoscere meglio le risposte al fenomeno.
ANNA MARIA LEUZZI, Dirigente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Ringrazio il presidente e i membri della Commissione. All'inizio del suo intervento il dottor Gavosto ha chiarito alcuni aspetti relativi ai dati a disposizione. Infatti, nell'esame di un problema, si deve partire avendo come riferimento dei dati certi e ufficiali, altrimenti si corre il rischio di essere portati fuori strada. In linea generale, questo è molto importante, perché la questione dei dati è alla base di qualsiasi programmazione.
Personalmente, mi occupo di programmazione di fondi europei, quindi vorrei spiegare quali strategie abbiamo seguito nella programmazione e nella realizzazione di iniziative che, in questi anni, hanno riguardato la scuola delle regioni dell'Obiettivo Convergenza.
È fondamentale cominciare dalla situazione di partenza, con dei dati e delle misurazioni che ci consentano di dare il giusto peso ai problemi e di orientarci per programmare iniziative mirate alla loro soluzione.
Insisto su questo aspetto, perché quando si programmano delle risorse finalizzate al raggiungimento di alcuni obiettivi è necessario fare un programma che possa rispondere ai fattori di criticità che ci troviamo davanti.
Nella programmazione 2007-2013, ma anche in quella futura, si parte da un'analisi di valutazione ex ante della situazione concreta, basata proprio sui dati.
Nel 2006, quando è stato elaborato il programma, disponevamo di alcuni dati non del tutto completi, cosa che non ci ha permesso di mirare adeguatamente gli interventi. Per questo è fondamentale – ripeto – lo sviluppo di banche dati corrette e di rilevazioni che ci consentano di lavorare al meglio.
All'epoca, avevamo due dati che sono stati due punti di riferimento importanti: il tasso di dispersione e di abbandono relativo agli early school leavers, ovvero ai ragazzi che non completano l'istruzione secondaria, e il dato, piuttosto allarmante, degli esiti delle prove internazionali OCSE-PISA, sugli apprendimenti in italiano e matematica.
Questi due dati, con quelli delle prove particolarmente drammatiche del 2003 e del 2006, hanno evidenziato il ritardo complessivo delle scuole delle regioni del Mezzogiorno, ma anche degli studenti collocati nell'ambito dell'istruzione tecnica e professionale. Bisogna tenere conto, poi, che questa differenza riguarda anche le regioni del centro-nord.
Questi due fattori ci hanno guidato nella programmazione delle iniziative. In pratica, facevamo un'analisi di tipo SWOT (Strengths, Weaknesses, Opportunities and Threats), ovvero quali sono i fattori di criticità e quali le proposte e le azioni messe in campo. Essendo partiti da questi Pag. 7due fattori e avendo come obiettivi quello di migliorare la qualità del servizio istruzione e di ridurre la dispersione scolastica, ma anche di migliorare le competenze – infatti, non c'era solo il fattore dell'abbandono, ma anche il fatto che i ragazzi che completano la scuola non hanno sufficienti competenze di base che gli permettano di avere uno zoccolo duro di istruzione che possa far loro affrontare una vita dinamica per il futuro –, avevamo il compito di mettere in campo delle azioni preventive della dispersione.
Ci siamo mossi nell'ambito del Fondo sociale europeo e del Fondo europeo di sviluppo regionale, che offrono la possibilità di intervenire su fattori di prevenzione della disoccupazione, più che sullo sviluppo dei sistemi. Abbiamo, allora, realizzato alcune azioni che hanno riguardato iniziative per migliorare le competenze di base degli studenti, quindi numerosi interventi proposti dalle scuole per approfondire le competenze di base – per capirci, quelle previste dalla Raccomandazione europea del 2006, ovvero lingua madre, lingua straniera, matematica, scienze, nuove tecnologie e competenze trasversali – nonché alcune azioni specifiche contro la dispersione scolastica, che dovevano andare a interessare gli studenti in maggiore difficoltà non solo per i livelli di apprendimento, ma anche perché erano più a rischio di abbandono del percorso formativo.
Queste azioni hanno avuto un vantaggio assai importante, per cui pensiamo sia molto utile riproporle. Mi riferisco al fatto di aver svolto, in maniera continuativa, verso le scuole di queste regioni, in tutti gli anni scolastici, un'offerta aggiuntiva rispetto al curriculum, cercando di mantenere aperte le scuole nel pomeriggio, di dare un'offerta formativa addizionale ai ragazzi che avessero delle specifiche difficoltà e di coinvolgere, in particolare, i genitori, soprattutto nelle aree urbane, in cui il rapporto famiglia-scuola si presenta con delle criticità.
Non solo, abbiamo anche messo in campo alcune azioni per l'apprendimento linguistico in altre situazioni, anche in altri Paesi comunitari, e per l'alternanza scuola-lavoro, proprio per cercare di modificare i metodi di apprendimento all'interno delle istituzioni scolastiche.
Infine, abbiamo agito sia sull'istruzione degli adulti – infatti, per quanto riguarda l'istruzione, nei centri territoriali permanenti prendiamo in carico anche ragazzi che hanno abbandonato la scuola e che, dai 16 anni di età, possono già frequentare i corsi serali, dando loro una sorta di seconda opportunità – sia sulla formazione degli insegnanti.
So che avete i nostri dati, perché ci sono state anche altre audizioni sulla gestione di queste risorse. Comunque, abbiamo insistito molto su questo tipo di interventi, non trascurando l'aspetto relativo alla valutazione. Infatti, in questi anni, l'INVALSI ha sviluppato circa dieci progetti di valutazione, alcuni ancora in corso di elaborazione. Abbiamo avuto qualche risultato positivo riscontrabile sia sulla riduzione delle cifre della dispersione scolastica, sia riguardo al miglioramento degli apprendimenti di base, valutati nell'ambito delle prove internazionali OCSE-PISA. Si è, quindi, registrato un miglioramento considerevole nel 2009, con un trend positivo nel 2012, con alcune battute di arresto in queste ultime prove. Tuttavia, c’è stato – ripeto – un consistente miglioramento.
Vorrei ritornare ancora sui dati. Considerate che siamo partiti, con un dato di dispersione – sempre relativamente al benchmark europeo – del 30 per cento; vale a dire che il 30 per cento dei ragazzi abbandonava e non completava il secondo ciclo di istruzione. Oggi, nelle quattro regioni convergenza, abbiamo un tasso del 21 per cento, con un tasso medio italiano del 17 per cento.
Tenendo conto di questo trend, credo che la lettura di questi dati sia fondamentale per capire se stiamo andando verso un miglioramento, come sembrerebbe dai dati che abbiamo, ancorché la situazione si presenti ancora in maniera grave, soprattutto nel divario fra regioni del sud e del nord, che si è, però, assottigliato in questi anni. C’è ancora una distanza, ma non così Pag. 8drammatica come all'inizio. Si tratta, tuttavia, di una distanza da approfondire, poiché in alcune regioni è molto migliorato il tasso di dispersione, ma non i livelli di apprendimento.
Per esempio, in Molise abbiamo un tasso di dispersione molto basso – che avrebbe raggiunto il 10 per cento previsto a livello europeo –, ma un esito delle prove OCSE-PISA piuttosto allarmante. Ciò accade anche in Calabria. Ugualmente, c’è un alto tasso di dispersione in Valle d'Aosta e un trend di aumento della dispersione in alcune regioni del nord, là dove, evidentemente, stanno influendo le problematiche connesse agli alunni stranieri e alle difficoltà economiche. Inoltre, nelle regioni del sud non sono presenti molti alunni stranieri, che sono una quantità irrisoria rispetto a molte aree del centro-nord.
In ragione di ciò e anche del fatto che questa programmazione ha comunque presentato degli aspetti positivi, riconosciuti anche dall'OCSE, avremo un programma che riguarderà – sia pure in misura quantitativamente differenziata – le regioni del Mezzogiorno e quelle del centro-nord, con l'obiettivo di migliorare il tasso di dispersione, ma anche le competenze degli studenti, ottenendo anche un miglioramento qualitativo del servizio scolastico.
Vorrei aggiungere che abbiamo agito molto – su questo mi ritrovo con alcune considerazioni emerse nella precedente riunione della Commissione – anche sulle competenze digitali, innanzitutto fornendo alle scuole delle quattro regioni Convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) risorse consistenti per l'acquisto delle attrezzature tecnologiche. Abbiamo potuto fornire laboratori attrezzati e computer per gli studenti, come mostrano i dati della rilevazione che il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca svolge annualmente sull'Osservatorio delle tecnologie, i quali registrano l'aumento consistente del rapporto fra numero di allievi e numero di computer presenti a scuola.
Abbiamo agito molto su questo aspetto, perché uno dei fattori su cui riteniamo importante intervenire riguarda il metodo di apprendimento e la formazione degli insegnanti, su cui bisognerà molto insistere.
Vorrei aggiungere un'altra questione significativa. È vero che riscontriamo dati che fanno emergere ancora il divario fra regioni del sud e quelle del centro-nord. Tuttavia, sussiste un dato che è un campanello di allarme riguardante tutto il territorio nazionale: mi riferisco al dato di abbandono dei ragazzi al primo anno di istruzione secondaria di secondo grado o successivamente. Questo è omogeneo su tutto il territorio nazionale, cosa che fa emergere l'esigenza di interventi che riguardino l'orientamento degli studenti, che, probabilmente, nella scelta del ciclo secondario, o per mancanza di conoscenza o per influenze diverse, scelgono un corso di studi sbagliato.
Su questo aspetto bisognerà sicuramente lavorare, anche con delle iniziative di orientamento, su cui di recente il MIUR ha lanciato delle linee guida oggetto di un intervento, in questo anno scolastico, in tutte le scuole delle aree dell'Obiettivo Convergenza.
Vi ho portato moltissimi dati su cui si può riflettere. Altri dati servono, invece, per dimostrare che gli interventi che abbiamo realizzato hanno avuto un effetto. Si tratta di dati che potrò inviare alla Commissione: purtroppo, non ho fatto in tempo a portarli oggi.
A ogni modo, tutti i ragazzi che hanno seguito percorsi finanziati dai fondi strutturali e che – tutti gli anni – hanno avuto questa opportunità, in queste regioni sono stati seguiti uno per uno: abbiamo quindi potuto rilevare sia gli esiti nelle prove INVALSI – la dottoressa Ajello illustrerà il relativo lavoro che hanno svolto – sia quelli della consueta valutazione che viene effettuata, nelle classi, dagli insegnanti. Parallelamente all'iscrizione di questi ragazzi e al percorso che seguiamo con il sistema di monitoraggio, rileviamo anche i loro esiti nella valutazione del primo quadrimestre e a conclusione del ciclo.
Ciò ci ha permesso di verificare alcune cose piuttosto interessanti. In primo luogo, Pag. 9è significativo – ho anche i dati, ma non voglio trattenervi troppo a lungo – che sia stato registrato un miglioramento per i ragazzi che hanno seguito dei percorsi di approfondimento in italiano, matematica, scienze o nuove tecnologie, fra l'inizio dell'anno scolastico, la valutazione intermedia e quella conclusiva. Insomma, abbiamo un modo per poter dire che il successo scolastico è stato accompagnato da questi interventi aggiuntivi.
Inoltre, da questi dati emerge – abbiamo svolto questa analisi nell'ultimo comitato di sorveglianza del giugno scorso – che, stranamente, le azioni più efficaci sono quelle che hanno riguardato l'apprendimento delle nuove tecnologie, che hanno avuto un effetto anche sulla valutazione delle altre discipline, la lingua straniera e l'attività di alternanza scuola-lavoro, che si è sviluppata in molte scuole. A questo tipo di iniziative, che avevamo realizzato con il programma, è corrisposto, dunque, un miglioramento maggiore nelle altre discipline di base per cui avevamo fatto delle rilevazioni.
Ora, questo ci dà qualche indicazione su come lavorare per il futuro, ma soprattutto ci induce a insistere molto sullo sviluppo del sistema nazionale di valutazione e del sistema di misurazione degli apprendimenti, perché solo grazie a sistemi di rilevazione e di misurazione siamo in grado di utilizzare le risorse nella maniera più mirata possibile, misurando anche i risultati, elemento essenziale per chiunque programmi delle risorse finalizzate al conseguimento di alcuni obiettivi.
Ugualmente, l'Anagrafe degli studenti, che è stata un'ottima conquista della nostra amministrazione, dovrà essere completata nei prossimi mesi attraverso il raccordo con l'Anagrafe degli alunni della formazione professionale delle singole regioni, perché questo ci permette di avere a disposizione tutti i dati relativi ai ragazzi che escono, entrano, si allontanano, interrompono il percorso e lo riprendono, consentendoci di sapere in quali aree territoriali – o in quali scuole specifiche – è opportuno intervenire con azioni aggiuntive.
ANNA MARIA AJELLO, Presidente dell'INVALSI. Vi ringrazio dell'invito. Sono contenta, anche perché questa è la mia prima «uscita» istituzionale come presidente dell'INVALSI. Come sapete, la mia nomina è di circa due mesi fa, quindi prendo atto di ciò che l'INVALSI ha fatto rispetto alla dispersione scolastica, nel senso che, essendo appena arrivata, riferisco di quanto realizzato da una gestione precedente. Nello stesso tempo, occorre tenere conto che l'INVALSI non ha come mission lo studio della dispersione, ma fornisce soltanto dei dati che servono a focalizzare meglio il problema. Riferirò, dunque, su questi aspetti.
Essendo stata referente scientifico di una rete delle «scuole della seconda occasione» – peraltro, vi ho portato una copia dei due volumi sulle scuole di seconda occasione, che sono un prodotto di questa ricerca fatta con metodi qualitativi e quantitativi – l'altra dimensione che mi preme sottolineare è che, mediante lo studio di queste esperienze, è possibile individuare, dai due punti di vista della prevenzione e dell'intervento, un modo di trattare il problema della dispersione a prescindere dai numeri, guardando direttamente alle persone, sia a quelle che sono state sconfitte dalla scuola una prima volta, sia ai professionisti che si coinvolgono nel loro recupero.
Per quanto riguarda l'INVALSI, rispetto alla dispersione ha una funzione di servizio, cioè produce dati ed elaborazioni ulteriori, mirati a meglio focalizzare la questione. L'ufficio ministeriale della dottoressa Leuzzi e, in particolare, la ricercatrice Patrizia Falzetti che lavora da noi, hanno focalizzato alcune questioni relative alle regioni cosiddette PON, a partire proprio dai risultati che l'INVALSI aveva rispetto agli apprendimenti, vale a dire da situazioni che mostravano delle competenze al di sotto delle soglie ritenute accettabili.
L'INVALSI, inoltre, ha prodotto dei criteri per analizzare ulteriormente la questione della dispersione, mettendo a punto degli indicatori che si collegano alla scheda informativa raccolta nelle prove Pag. 10INVALSI, relativa alla famiglia, alle condizioni socio-economiche e ad alcune indicazioni rispetto alle scuole dove questi dati sono più allarmanti. Ciò ha fatto sì che si potessero identificare le istituzioni scolastiche più critiche in base ai risultati INVALSI. Nello stesso tempo, sulla base di un altro elenco individuato grazie all'Anagrafe degli alunni, sono state individuate le scuole in cui il fenomeno dell'abbandono è più importante. Poi, dalla sovrapposizione di questi due elenchi, sono state identificate le zone là dove intervenire con elementi suppletivi, grazie a investimenti che hanno accompagnato costantemente queste azioni.
Faccio riferimento a ciò che ha appena illustrato la dottoressa Leuzzi, riguardo al modo di lavorare in sinergia per sostenere, con interventi suppletivi dal punto di vista formativo, queste scuole in cui si registrano tassi più elevati di abbandoni e di dispersione.
In questo momento in cui l'INVALSI, in prossimità delle prove che vengono condotte a maggio, è sempre al centro di grande attenzione, mi preme sottolineare che questa funzione informativa è, in realtà, quella principale che l'INVALSI vorrebbe e dovrebbe avere, cioè produrre dati e misurazioni che consentano di fare valutazioni più complessive. Questo rappresenta una risorsa per il sistema scolastico, che può essere informato dagli elementi che risultano dalle valutazioni su competenze diverse, misurate – appunto – attraverso i test INVALSI.
Vorrei, poi, evidenziare l'aspetto delle «scuole di seconda occasione» che ci danno delle indicazioni precise che riguardano – più in generale – il sistema scolastico.
Le «scuole di seconda occasione» sono una rete di sei esperienze che si articolano tra Torino, Verona, Reggio Emilia, Trento, Roma e Napoli. Queste esperienze si possono, a loro volta, suddividere in tre esperienze che hanno focalizzato l'aspetto preventivo, quelle che riguardano Reggio Emilia, Verona e Trento, e tre esperienze che hanno realizzato, invece, un intervento per recuperare i dispersi.
Dal punto di vista preventivo, queste esperienze hanno focalizzato il problema nel suo emergere, cioè hanno individuato i ragazzi che avevano quelli che potremmo chiamare i «sintomi» di una dispersione (assenze ripetute, ripetenze o altri fenomeni di insuccesso scolastico), per cui già nel corso della frequenza nei vari anni della scuola media si è intervenuti con dei progetti come «Ponte» o «Icaro...ma non troppo», che riguardano sia Reggio Emilia che Verona, articolati per far svolgere a questi ragazzi degli stage nella formazione professionale in situazioni diverse – difatti si richiedono esperienze diverse – in modo da avere anche una funzione orientativa e fornire un'esperienza che non sia più quella della scuola ordinamentale, che normalmente costituisce un elemento di grossa frustrazione per questi ragazzi.
Recuperata la dimensione di interesse e della progettazione della propria esperienza futura, questi ragazzi vengono accompagnati al superamento della terza media, avendo anche stabilito un rapporto diverso con degli adulti che sono divenuti una sponda importante per loro.
Sull'altro versante dell'intervento, per il recupero dei ragazzi dispersi, c’è l'esperienza sia di Roma, di cui sono stata e sono referente scientifico, ovvero la «scuola della seconda occasione», diversamente finanziata dal comune e dalla provincia, sia di Napoli – con il famoso progetto «Chance, Maestri di strada», attualmente chiuso – sia di Torino, con il progetto «Provaci ancora, Sam !», iniziato sulla base di un allarme sociale, che scattò quando fu ritrovato un quattordicenne in overdose nei giardini reali, fatto che determinò un interesse a recuperare questi ragazzi che avrebbero dovuto stare a scuola, considerata l'età.
Queste esperienze nascono partendo dall'esterno della scuola. Questo è già un primo dato. Malgrado siano articolate in zone diverse del Paese, hanno molti elementi comuni che richiamo molto sinteticamente, per non occupare il vostro tempo.
In primo luogo, c’è la ricostruzione di una relazione educativa, il che significa Pag. 11che si mira a un interesse autentico dei ragazzi rispetto a quello che fanno, cioè si interrompe quel gioco perverso della scuola, per cui si fa finta e si mostra un interesse che non risponde a un autentico coinvolgimento dei ragazzi: si mira quindi a una relazione rispetto al contenuto dell'apprendimento. In ogni caso, gli insegnanti, i docenti e gli operatori conoscono direttamente i ragazzi, cioè sono interessati a capire che tipi sono e come agiscono come persone.
Un secondo elemento è il patto. Stranamente, quest'idea del patto iniziale per poter riavviare un processo formativo è qualcosa che accomuna tutte le esperienze, anche provenendo da elementi diversi. In questo patto sono coinvolti gli insegnanti, il ragazzo, la famiglia e gli operatori sociali, se ci sono. La configurazione del patto assume un aspetto addirittura rituale nel caso di Napoli, con la sede comunale che ne ospita la stipulazione. Come potete immaginare, ciò significa recuperare anche una dimensione di responsabilità e di agency – possiamo dire – dello studente che diventa impegnato e si coinvolge in un'impresa che appare collettiva, degli adulti, non solo degli insegnanti e della famiglia, cui lui prende parte.
Un altro elemento molto importante è quello che abbiamo chiamato «recupero del danno di motivazione». Quando si parla di «danno di motivazione», si allude a un fenomeno che caratterizza non solo questi ragazzi, ma anche molti di noi. Potremmo dire che ciascuno di noi ha un danno di motivazione nell'apprendimento di una disciplina, quando immaginiamo di non esservi portati, salvo poi scoprire che, se cambia l'insegnante o le condizioni in cui avviene l'apprendimento, recuperiamo quella voglia e quella disponibilità a imparare.
Chi viene dopo un danno di motivazione, che nei ragazzi dispersi, ovviamente, non riguarda una sola disciplina, ha come compito primario di recuperare la voglia di imparare e la sicurezza che si può imparare ancora. La scuola, quando fa un danno di motivazione, brucia proprio l'interesse e la sensazione di potercela fare e di poter imparare ancora.
Altro elemento è il fatto di impegnare questi ragazzi nel produrre cose visibili, osservabili anche da altri. Faccio l'esempio delle guide per i monumenti, che si realizzano anche nelle scuole ordinamentali. Questo rappresenta qualcosa di molto importante per lo studente in fase di crescita perché, da un lato, viene riconosciuto come identità e, dall'altro, ha un prodotto visibile, che può esibire agli altri e che gli dà il senso della competenza acquisita.
Accanto a questo, ci sono anche dei criteri espliciti di valutazione, che proprio mediante il riferimento al prodotto concreto e visibile si possono esplicitare e condividere e, in qualche modo, si può reclutare lo stesso studente a questa funzione di valutazione, che ne potenzia le capacità come individuo.
Ancora, vi è il coinvolgimento delle famiglie, di cui ho già detto attraverso la stipula del patto, anche cercando di capire e riconoscere il fatto che dietro un ragazzo disperso c’è, spesso, una famiglia altrettanto dispersa, che va agganciata e reclutata al ruolo, con genitori a volte molto fragili, per i quali si individua una funzione della scuola che non è quella abituale, ma che va svolta se vogliamo coinvolgere questi studenti in una loro ripresa.
Un altro aspetto molto importante è l'attività riflessiva costante che conducono gli insegnanti e gli altri operatori di queste scuole. Questo vuol dire che non si fronteggia una situazione di questo genere da soli, perché un individuo adulto, rispetto a dei ragazzi in queste condizioni, risulta disarmato. Se, invece, si condividono delle strategie e delle procedure, come spesso succede anche nella scuola ordinamentale, è possibile poter fronteggiare in maniera più adeguata il loro recupero. Da un lato, vi è un'esigenza professionale di studio e di accompagnamento riflessivo e, dall'altra, anche un'idea di interprofessionalità, nel senso che bisogna collaborare nel recupero di questi ragazzi, ma non basta soltanto la figura del docente, poiché c’è bisogno di agganciarsi ad altre figure che Pag. 12spesso operano nel territorio – il terzo settore, in questo caso, è un esempio – e che aiutano la scuola in questa funzione.
Infine, l'ultimo elemento che mi preme sottolineare riguarda i limiti di queste esperienze. Uno dei limiti fondamentali è il fatto che sono esperienze che vanno riprodotte di anno in anno, poiché vengono garantite dall'accesso ai fondi europei, quindi bisogna fare nuovi progetti. Pertanto, le persone accumulano un'esperienza molto importante e non comune, perché imparano a lavorare insieme come team, a produrre esiti positivi, a smussare gli angoli della collaborazione spesso difficile e a diventare adulti professionisti. Tuttavia, sono fortemente precarie, perché debbono la continuazione della loro attività a finanziamenti che vengono richiesti di volta in volta. Questo costituisce – ripeto – un grave limite, per il quale alcune di queste esperienze sono state persino chiuse.
Più in generale, le implicazioni di questo aspetto ricadono, innanzitutto, sulla costanza di queste azioni di recupero. Se si fanno sporadicamente non si raggiunge nessun obiettivo. Questo, però, è stato già detto dalla dottoressa Leuzzi.
In secondo luogo, bisogna avvalersi di contributi diversi. Non pensiamo, infatti, che i recuperi possano essere realizzati soltanto dai docenti di scuola. Se si vuole davvero fronteggiare la dispersione, nel recupero, non in fase preventiva, bisogna fare in modo di aggiungere altre risorse professionali, altrimenti i recuperi non avvengono, perché occorrono competenze non solo di tipo didattico, psicopedagogico o disciplinari, ma anche psicologiche, sociali e così via.
Vi è, poi, il problema della motivazione. Questo bisogno evolutivo dell'identità, ovvero il voler essere riconosciuti da altri, è un problema che riguarda non soltanto i ragazzi della scuola della seconda occasione, ma – più in generale – la scuola. Attualmente, il fenomeno del disimpegno dei ragazzi e del disinteresse per la scuola è un fenomeno che si allarga, rispetto a cui noi tutti, come adulti, siamo pronti a riconoscere la diversità antropologica, salvo, poi, non fare niente di più per cambiare il sistema.
Da ultimo, quindi, ci tengo a sottolineare che adesso ci stiamo occupando – o almeno, sentiamo dire con piacere che ci si occupa – di edilizia scolastica. Bisogna, però, fare un passo in più. Bisogna cambiare gli arredi. Se non togliamo di mezzo le cattedre e i banchi, non avremo ragazzi impegnati in qualche attività e, probabilmente, ripeteremo il cliché delle lezioni che sono all'origine del disinteresse per la scuola dei ragazzi, perché ascoltare, per ore, persone che parlano non ha mai garantito una motivazione a imparare.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
SANDRA ZAMPA. Vorrei porre solo una domanda telegrafica. Innanzitutto, vi ringrazio perché l'audizione è stata di grandissimo interesse. Per quanto mi riguarda, sarebbe molto interessante poter entrare più nel dettaglio delle esperienze che avete illustrato. Tra l'altro, esse danno per assodato una conoscenza di quanto sta avvenendo nella società e nelle famiglie, con l'idea di non lasciarle sole e di avere, anche rispetto ai familiari, un supporto. Infatti, un genitore non ce la fa a fronteggiare questa problematica da solo.
Mi interesserebbe conoscere un dato secco. Quanto è estesa un'esperienza come quella di cui oggi avete parlato ? Avete fatto riferimento alla rete che comprende alcune città: Reggio Emilia, Torino e così via. Tuttavia, anche rispetto al suo ultimo intervento, quante città o scuole sono coinvolte in sperimentazioni come queste alle quali ha fatto riferimento ?
È chiaro che uno dei grandi limiti è quello di dover ricominciare sempre daccapo. Come mi faceva notare il collega, ci vuole un'attivazione della scuola perché parta un progetto. Occorre, quindi, anche un impulso dal centro affinché queste sperimentazioni o attività partano o avviene tutto in autonomia ? Per esempio, il sud quanto è coinvolto in sperimentazioni come queste ?
CATERINA PES. Innanzitutto, vi ringrazio perché è stato molto interessante quello che ci avete raccontato dei vostri studi e del vostro lavoro, che è fondamentale, in quanto penso che l'intervento più importante che si deve attuare, oggi, sulla scuola italiana sia quello concernente la dispersione scolastica. Trovo estremamente interessanti le misure da intraprendere per intervenire sul rischio di dispersione scolastica che avete illustrato, soprattutto quelle che passano attraverso gli strumenti motivazionali e l'accrescimento delle competenze.
L'esperienza del test «Arianna» e quella di Save the Children mi sembrano importantissime. Ugualmente, mi sembra fondamentale la riflessione sul danno di motivazione, quindi la necessità di ricostruire una relazione educativa basata su tutte le condizioni che avete posto, tra cui anche i nuovi arredi. Condivido perfettamente il suo pensiero. Peraltro, nelle società anglosassoni, hanno realizzato queste iniziative da tempo, mentre noi siamo ancora fermi alla scuola gentiliana.
Vorrei fare una brevissima riflessione, per poi lasciare lo spazio agli altri colleghi. Rimane aperto il problema delle cause della dispersione. Anche da queste dobbiamo partire, nel senso che dietro la parola «dispersione» si nascondono fenomeni molteplici. Proprio perché il nostro Paese è peculiare nella sua dimensione sociale, economica e persino antropologica, rispetto alla reazione alle condizioni economiche differenti, credo che oggi dovremmo parlare di «dispersioni scolastiche».
Come si diceva, è vero che la dispersione che c’è in Valle d'Aosta o in Lombardia non è la stessa che troviamo in Sardegna o in Sicilia, o perlomeno non è caratterizzata dalle stesse cause. Pertanto, probabilmente, sono necessari interventi non solo sulle competenze, ma anche sulle condizioni sociali di partenza. Ci sono, infatti, delle realtà in cui non solo l'immigrazione, ma anche la povertà, il disagio e la marginalità sociale aumentano il tasso di dispersione.
Per dirla in due parole, come avete affermato anche voi, ci sono delle realtà in cui l'apprendimento è il tempo della scuola, quindi più scuola produce maggiori competenze, ma ci sono anche delle realtà in cui per combattere la dispersione ci vuole meno scuola: questo è legato alle condizioni di cui parlavo prima.
MARIA COSCIA. Buongiorno, anch'io vi ringrazio per il vostro contributo. Vorrei chiedere se pensate che sia arrivato il momento, proprio per la ricchezza delle esperienze che ci descrivevate, di mettere in atto più azioni di sistema.
I progetti di cui parlava la professoressa Ajello sono importanti. Anche nella mia precedente esperienza abbiamo attivato molte iniziative per contrastare la dispersione scolastica. Tuttavia, c’è un problema di fondo, perché se incrociamo i dati sulla dispersione e quelli sulle competenze emerge che, oltre a un tema che riguarda i «più deboli», si pone una questione di carattere più generale.
Quando ci troviamo di fronte ad almeno un terzo dei nostri ragazzi che ha una problematica di competenze di base scarse, c’è un problema. Anche i dati che ci ha fornito nella sua audizione del 22 gennaio 2014 l'allora sottosegretario Rossi Doria confermano questo. Se vi sono regioni come l'Abruzzo, che nel 2004 è partita da un livello del 16 per cento e, oggi, è al 12,4 per cento, o come la Puglia, partita dal 30 per cento ed arrivata oggi al 19 per cento, credo sia più credibile la Puglia che l'Abruzzo. Probabilmente, quindi, bisognerebbe approfondire il dato, che non riguarda solo le «promozioni» e la riduzione delle bocciature.
C’è – ripeto – un problema di fondo circa l'incrocio dei dati. Da questi, peraltro, emerge anche un'altra questione che vorrei sottolineare. Ci sono regioni come il Friuli-Venezia Giulia che partiva da poco più del 13 per cento nel 2004 e rimane, grossomodo, a questo tasso. Ciò vuol dire che questo è uno zoccolo duro ?
Vi sono, insomma, dei problemi che le indagini hanno abbastanza approfondito. A quanto detto sulla tipologia di ragazzi Pag. 14più a rischio (maschi, stranieri, con famiglie con varie problematiche e con un percorso scolastico frastagliato), vorrei aggiungere che vediamo anche che uno dei dati più negativi riguarda gli istituti di istruzione e formazione professionale, dove, in teoria, il tema dell'alternanza dei saperi, e dei saper fare, dovrebbe essere più intrecciato, ma forse in pratica non è così.
Probabilmente, dobbiamo capire meglio come dotare l'insieme del corpo degli insegnanti di più competenze, che mi sembra un problema molto serio, anche per comprendere se nelle indicazioni nazionali occorre apportare qualche correttivo. C’è, infatti, un altro tema di fondo: l'insieme degli apprendimenti che proponiamo riguardano soprattutto la trasmissione di saperi e non l'acquisizione di competenze.
In sostanza, la mia domanda è se, raccogliendo le buone pratiche che abbiamo sperimentato e diffuso nel Paese, sia arrivato il momento di individuare indicazioni più radicali e più di sistema.
MILENA SANTERINI. Mi permetto di agganciarmi all'intervento della collega Coscia per dire che, se fossi la destinataria della domanda, risponderei di sì. Infatti, quello che stiamo provando a realizzare con questo lavoro di audizioni è esattamente il tentativo di prendere tutti gli elementi di complessità di questo fenomeno, cercando dei punti d'attacco per farne delle azioni di sistema, consapevoli della complessità.
Trovo, infatti, molto corretto il ricordare che la dispersione non è solo abbandoni, ma anche competenze. Questo ci rammenta che dobbiamo agire metodologicamente su due linee chiarissime: la prevenzione e il recupero, che sono due aspetti diversi. Uno parte dall'infanzia e riguarda il fatto che stiamo tutti sognando una scuola diversa, con arredi diversi, con insegnanti formati all'ascolto e alle didattiche attive, anche digitalizzate, con programmi che vanno incontro agli interessi dei ragazzi e che «mixano» bene le disposizioni di apprendimento con i contenuti. Parliamo di un approccio pedagogico e didattico che, ovviamente, ci vede tutti d'accordo. Se, quindi, discutiamo di prevenzione, evidentemente parliamo di qualità della scuola e dell'insegnamento.
Su questo, se dovessi trovare un punto d'attacco, sarebbe la formazione dei docenti, perché nulla faremo se non avremo dei docenti convinti che la didattica frontale lascia il tempo che trova, o meglio, è utile per i ragazzi che sono già avviati a imparare. Un punto d'attacco potrebbe, dunque, essere quello della formazione dei docenti.
Trovo, poi, altrettanto corrette le questioni che ci avete ricordato, in particolare due aspetti. Uno riguarda l'estemporaneità degli interventi che abbiamo svolto finora, unita alla genericità degli stessi. Non mi voglio ripetere: dare fondi alle scuole per attività di tipo generale, culturale, ricreativo e sportivo equivale a disperderli. Occorrono interventi di sistema, che vuol dire anche personalizzati e mirati – considerato che le risorse sono pochissime, anzi quasi nulle – a fasce specifiche, a regioni specifiche o addirittura a istituti specifici.
Sono assolutamente d'accordo sull'aggancio al territorio: la scuola non ce la fa da sola. Per quanto riguarda il discorso della prevenzione, dobbiamo rivoluzionare e riqualificare la scuola sotto tanti aspetti. In particolare, per quanto riguarda il recupero, ridare motivazione vuol dire rimettere in campo forze del territorio, famiglie e così via. Dovendo necessariamente scegliere, affiderei alla scuola un compito di prevenzione e di riqualificazione delle metodologie, mentre chiamerei a raccolta le forze del territorio per il recupero.
Queste sono ipotesi che metto a vostra disposizione per capire se sono corrette e se le condividete. Sulla base di questi punti, vorrei poi fare una domanda. Per quanto riguarda la valutazione degli interventi già fatti, in particolare dei PON (Programmi operativi nazionali), chiedo alla dottoressa Leuzzi, ma anche agli altri ospiti quali siano i punti chiave che abbiamo appreso e che devono essere trasferiti nei prossimi programmi 2014-2020.Pag. 15
Mi risulta che la valutazione sia ancora in corso e che il Comitato non abbia ancora finito di lavorare. Tuttavia, per quello che sappiamo circa la valutazione dei programmi, a oggi, quali sono gli elementi che sicuramente vorremmo trasferire – o meno – in eventuali interventi di lunga durata, possibilmente di sistema o programmi a tempo, se finanziati con fondi europei ? Quali sono quindi gli elementi da salvare o da escludere ?
MARA CAROCCI. Vorrei prima di tutto ringraziarvi perché è stato veramente interessante quello che abbiamo ascoltato. Cercherò di essere molto breve.
L'esperienza della cosiddetta scuola della seconda occasione, forse, andrebbe fatta conoscere a più scuole. Lo dico perché nella mia piccola esperienza – sono dirigente scolastico, per quattro anni ho svolto l'incarico in una scuola media – ho cercato di fare, da sola, quello che lei ha raccontato, rivolgendomi prima alla formazione professionale e, poi, quando non è stato più possibile, all'istruzione professionale, con ragazzini di 15-16 anni ormai dispersi e con notevolissime difficoltà, perché operavo solo con le risorse finanziarie e con i docenti della scuola. Personalmente, utilizzavo i fondi per le aree a rischio e a forte processo immigratorio. Tuttavia, credo che potrebbe essere programmato un utilizzo migliore di questi fondi, che ormai si sono ridotti molto e che vengono erogati con più di un anno di ritardo.
MARIA MARZANA. Ringrazio anch'io gli ospiti per gli interventi interessanti che abbiamo ascoltato. Faccio due osservazioni e due domande.
Innanzitutto, ci ritroviamo d'accordo nel constatare che questi interventi sono sporadici e non organizzati, per cui occorrerebbe un coordinamento, magari anche coinvolgendo il ministero. Questo vale anche dal punto di vista economico perché, se mettiamo insieme tutte le risorse che vengono stanziate, forse ci accorgiamo che abbiamo una quantità di fondi che ci possono consentire di attuare degli interventi.
Dato che parliamo di prevenzione, perché, visto che da anni vengono sperimentate delle buone pratiche, queste non si adottano nella didattica quotidiana ?
Si è parlato, infatti, di buone pratiche come quelle dell'integrazione delle nuove tecnologie nella didattica oppure della lingua, anche se bisogna puntare ancora di più su insegnanti opportunamente formati. Per esempio, si sono formati nuovi insegnanti rispetto all'insegnamento delle lingue, ma, poi, si sono lasciati a casa quelli che hanno svolto un percorso ad hoc.
Inoltre, abbiamo visto quanto l'alternanza scuola-lavoro sia utile per attrarre gli studenti verso la scuola, ma, spesso, il coinvolgimento da parte della scuola nei confronti del territorio non è sufficiente. Quindi, bisognerebbe mettere l'associazionismo, le imprese e tutto il tessuto produttivo nelle condizioni di potersi raccordare con le istituzioni scolastiche.
Infine, visto che siamo tutti consapevoli che bisogna cambiare la metodologia e la didattica per poter veramente incidere su questo fenomeno, a livello strutturale e preventivo, vi chiedo come si concilia la valutazione degli apprendimenti con questo aspetto.
Bisognerebbe, forse, parlare di valutazione dei processi educativi, piuttosto che dei singoli risultati, visto che è provato che il metodo didattico migliore non è più quello della lezione frontale o della trasmissione delle conoscenze, ma quello della cooperazione, della condivisione e della costruzione delle conoscenze. Pertanto, penso che la valutazione non abbia fatto dei passi in avanti rispetto all'evoluzione avvenuta dal punto di vista didattico.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai nostri ospiti per la replica.
ANDREA GAVOSTO, Direttore della Fondazione Agnelli. Ovviamente, non risponderò a tutte le domande, anche perché alcune riguardano più direttamente le mie colleghe. Tuttavia, ci terrei a riprendere il tema sollevato, anche in maniera un po’ provocatoria, dall'onorevole Pes e, poi, ripreso dagli onorevoli Coscia e Santerini.Pag. 16
Non credo, però, di essere del tutto d'accordo con lei, nel senso che, per quello che sappiamo, esistono diversi tipi di abbandono e di dispersione, con differenze a livello locale e territoriale, ma ormai riusciamo a individuare un pattern comune. Prima accennavo al fatto che, nell'ambito dei nostri studi, abbiamo cercato di definire dei profili particolarmente a rischio di dispersione o, in senso ancora più lato, di insuccesso scolastico. Da quel punto di vista, c’è, quindi, un terreno comune.
Per esempio, come è stato detto – non ne ho parlato nel mio intervento – un tema comune riguarda l'architettura di sistema.
Una delle cose che sappiamo è che – come ricordava l'onorevole Coscia – il problema dell'abbandono e della dispersione è particolarmente forte nell'istruzione e nella formazione professionale a carattere regionale. Questo è sostanzialmente vero su tutto il territorio ed è un punto che richiede un intervento di sistema. Infatti, oggi esiste una graduatoria degli indirizzi, ovvero una canalizzazione, anche perché manca un'efficace opera di orientamento nella scuola media.
Avevamo, peraltro, scritto un rapporto proprio sull'incapacità di dare un orientamento continuativo nell'arco del ciclo, in modo da indirizzare effettivamente gli studenti secondo le loro predisposizioni, questione che rimane uno dei grandi problemi della scuola media. Oggi, in troppi casi, l'orientamento è la sanzione finale del fatto che, uno studente bravo va al liceo, uno studente medio va al tecnico e uno studente con esiti modesti va al professionale. Sto banalizzando, ma è così. Il primo problema è, dunque, l'orientamento alle scuole medie, che è un intervento di sistema.
Nell'istruzione professionale, abbiamo dei tassi di abbandono – misurati sia secondo gli early school leavers, sia secondo i drop-out del MIUR – molto più alti della media. Inoltre, abbiamo avuto conferma nell'ultimo rilevamento OCSE-PISA di divari di apprendimento che, fra istruzione e formazione professionale e liceo sono enormi, ovvero quasi 100 punti sulla scala OCSE. In sostanza, è la stessa differenza che ci può essere tra un Paese come la Finlandia e un Paese come il Messico.
Ripensare l'istruzione e la formazione professionale è, quindi, il grande tema, perché continuiamo a canalizzare i ragazzi più fragili – quelli del profilo di rischio – verso l'istruzione e la formazione professionale, dove trovano dei compagni che sono egualmente «difficili» da un punto di vista scolastico, con carenza di motivazione. Sappiamo benissimo che, a quell'età, si impara dai docenti, ma moltissimo anche dai propri compagni di scuola, per cui, se l'ambiente e i pari non sostengono lo sforzo di apprendimento, è evidente il rischio che aumenti moltissimo il tasso di abbandono.
Inoltre, sappiamo che il desiderio di molti insegnanti è di non rimanere nell'istruzione professionale, quindi il livello di turn over è tale per cui i ragazzi si trovano, in combinazione, compagni che non li sollecitano a un maggiore impegno e insegnanti che ruotano con eccessiva frequenza. Allora, è facile capire che l'esito, in troppi casi, non può essere che quello dell'abbandono. Anche questo è, dunque, un intervento di sistema.
Riprendendo alcune cose che sono state dette, l'altro intervento di sistema è la maggior capacità di analisi e di focalizzazione.
La dottoressa Leuzzi citava l'Anagrafe degli studenti, che è effettivamente uno strumento potente, sulla carta, perché segue la storia degli studenti. Purtroppo, però, oggi, l'Anagrafe degli studenti riguarda solo quelli del sistema dell'istruzione: non c’è un collegamento con le Anagrafi regionali della formazione. Questo è uno dei grandi problemi in questa ridda di misurazioni del «vero» tasso di dispersione in Italia perché, non potendo seguire lo studente nei vari passaggi, perdiamo chi esce dal sistema di istruzione ed entra nella formazione professionale.
Occorre tenere conto che, attualmente, le Anagrafi della formazione professionale regionale sono attive in nove regioni; in una, che io e l'onorevole Umberto D'Ottavio Pag. 17conosciamo bene, cioè il Piemonte, è sospesa da tre mesi; in tre regioni sono state annunciate, ma non sono operative, e delle altre non abbiamo notizie, cioè non esistono.
Un altro intervento di sistema è, allora, conoscere. Infatti, fino a quando non siamo in grado di seguire tutte le uscite – chi dopo le medie prosegue e chi non lo fa; chi ha un percorso regolare e chi non lo ha; chi passa dall'istruzione professionale alla formazione professionale, che è un passaggio tipico, e poi rischia di abbandonare; chi perde un anno; chi viene rimandato – perdiamo informazioni preziosissime per identificare il fenomeno e per intervenire.
Un ultimo intervento di sistema è la valutazione delle politiche. Noi lo stiamo facendo con Save the Children. La condizione per poter erigere – a livello di sistema – una qualunque politica è quella di valutarne l'efficacia. Il nostro ruolo, nell'esperimento di Save the Childeren, è confrontare studenti che hanno ricevuto un certo tipo di interventi e studenti che non lo hanno ricevuto, per vedere se si percepisce una differenza nei loro comportamenti successivi agli interventi.
Ecco, questo tipo di informazioni permette, effettivamente, di prendere le buone pratiche ed erigerle a livello di sistema.
ANNA MARIA LEUZZI, Dirigente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Cercherò di essere veloce. Le domande che avete posto, spesso, ce le siamo fatte anche noi. Infatti, ci si interroga sempre.
Non vorrei aver creato un equivoco. Le azioni realizzate con il Programma operativo nazionale (PON) non sono state episodiche, ma continuative, in tutti gli anni, per tutte le scuole che rappresentavano il nostro target di arrivo. Circa 3.400 scuole, per sette anni, hanno ricevuto delle risorse per realizzare i tipi di intervento che vi ho descritto, dal recupero delle competenze di base ad azioni mirate contro la dispersione scolastica e così via.
Non sono scesa nel particolare dei metodi, ma è chiaro che abbiamo dato delle linee guida e abbiamo cercato di promuovere dei metodi innovativi, non tradizionali, anche fornendo le attrezzature per poterlo fare. In qualche caso, siamo intervenuti anche sulla ristrutturazione degli edifici. Pertanto, si è trattato di un intervento complesso e continuativo. Sono d'accordo che, quando si tratta di sperimentare, l'episodicità va bene. Poi, se ne vale la pena, l'esperimento si porta avanti. Tuttavia – ripeto – occorre continuità negli interventi.
Sulle cause della dispersione, bisognerebbe avere molto tempo, perché ormai abbiamo tantissime analisi a livello internazionale e nazionale. Indubbiamente, sappiamo che influisce il livello di istruzione degli adulti; lo stato di povertà o di benessere e vari altri fattori, come la non variabilità delle scuole, che è uno dei fattori di cui l'indagine OCSE-PISA sottolinea l'importanza; la flessibilità dell'intervento formativo e la maggiore autonomia nell'organizzazione didattica, che può promuovere molto il miglioramento del servizio.
Sono previsti degli interventi per il futuro, non solo come programma per l'istruzione, ma anche come programma per l'inclusione sociale e con il cosiddetto Fondo povertà. Con questi due ultimi due fondi stiamo concordando degli interventi con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in favore dei ragazzi con maggiori difficoltà dal punto di vista economico. Ci sarà, quindi, nei prossimi anni, la possibilità di fornire, per esempio, mense alle scuole con maggiori difficoltà, sempre facendo quella scelta che i dati, oggi, ci consentono di effettuare, cioè di individuare le scuole che registrano il maggior tasso di dispersione e la maggiore difficoltà nei livelli di apprendimento. Ribadisco il concetto: più dati certi abbiamo, più possiamo svolgere quel lavoro di cui alcuni di voi parlavano, cioè mirare gli interventi in maniera precisa.
Inoltre, in questa audizione abbiamo parlato di risorse rimediali, non di bilancio. Vi ho parlato del Fondo sociale, del Pag. 18Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo di coesione che hanno questo scopo, cioè di consentire un intervento rimediale rispetto a un problema. Poi, le esperienze valide dovrebbero passare a sistema. È pur vero, però, che in questi anni non abbiamo avuto molte risorse di bilancio per poter realizzare questa operazione.
Faccio l'esempio della formazione degli insegnanti, che abbiamo sostenuto con queste risorse. Siamo intervenuti sulle competenze di base degli insegnanti con cinque progetti nazionali molto consistenti, anche da un punto di vista della partecipazione degli insegnanti, ma non c'erano risorse sufficienti in bilancio. Quindi, dobbiamo considerare che, per passare a sistema, dobbiamo trovare la fonte finanziaria ordinaria che lo consenta.
Alcune questioni vi sono già note, come il fatto di stimolare l'autonomia scolastica. Ovviamente, poter svolgere queste iniziative significa avere almeno un minimo di risorse, perché se si vuole aggiungere l'italiano per gli stranieri o l'inglese per i ragazzi italiani occorrono fondi. Lo stesso ragionamento vale per l'alternanza scuola-lavoro, che comporta movimenti e tutoraggio, per cui, anche volendo realizzare tutto in economia, come molte scuole fanno, occorrono comunque delle risorse finanziarie.
Ho parlato poco della valutazione, ma abbiamo dei progetti di valutazione che l'INVALSI sta portando avanti, oltre a quelli cui faceva cenno la professoressa Ajello, e che stanno per concludersi. Tuttavia, i progetti di valutazione sono lunghi, richiedono tempo, soprattutto se utilizziamo dei metodi nuovi. Abbiamo già pubblicato dei rapporti intermedi sui progetti su cui abbiamo fatto la valutazione, che si trovano sul sito del ministero, quindi sono visibili, ma stiamo completando i progetti che si concluderanno verso aprile o, al massimo, giugno 2015. Allora avremo, pertanto, le valutazioni complessive mirate su alcune aree.
Attualmente, stiamo acquisendo anche due valutatori indipendenti. Dico due, perché una delle esperienze cui si faceva cenno, quella della seconda opportunità, è oggetto di un intervento anche del PON in 200 scuole delle aree dell'Obiettivo Convergenza. Sono, in sostanza, progetti di rete, in collaborazione con il volontariato e con le associazioni. È un esperimento molto interessante – non entro nei particolari perché abbiamo poco tempo – che trovate descritto nel documento che ho depositato agli atti, e che stiamo seguendo di tutto punto, per cui abbiamo esperito una gara, proprio per acquisire un valutatore completamente indipendente che ci possa dire se, effettivamente, l'esperienza è tale da poter essere diffusa o deve essere modificata.
Nel contempo, abbiamo anche avviato l'acquisizione di un valutatore indipendente per tutto il programma che, nel giro di 12 mesi, dovrebbe darci una valutazione complessiva, mettendo in evidenza le azioni più efficaci. Ora, non è che non sappiamo quali siano. Naturalmente, lavorando sul campo, anche al di là dei dati, abbiamo la sensazione concreta di cosa funziona e cosa no, anche perché incontriamo tante scuole e tanti insegnanti. Facciamo un lavoro a stretto contatto anche con gli uffici scolastici regionali.
Posso dire che, di sicuro, quello che ha molto ben funzionato è stato tutto ciò che ha riguardato l'offerta formativa concernente le competenze di base degli studenti e alcune azioni di mobilità, molto utili e con una buona ricaduta all'interno, soprattutto per quegli studenti che non avevano la possibilità economica di poter avere un'esperienza di mobilità o di studio in un altro Paese o in un'altra regione.
Queste sono le azioni più efficaci, su cui si dovrebbe insistere, come pure alcune iniziative specifiche contro la dispersione, sulle quali avremo la valutazione che ci dirà come, se e in quale misura proseguire.
ANNA MARIA AJELLO, Presidente dell'INVALSI. Visto che molte cose sono state già anticipate, mi limito a dire che sono d'accordo con questa impostazione (prevenzione, recupero e azioni di sistema). In Pag. 19particolare, vorrei che ragionassimo sulla questione della formazione dei docenti, perché siamo tutti d'accordo, anche gli stessi docenti, sul cambiamento della didattica che auspichiamo, ma, poi, quando si fanno le ricerche e si vede cosa fanno in classe, c’è uno iato fortissimo fra ciò che si dichiara, a parole, e ciò che si realizza nei fatti.
Il problema non è che sono in malafede, ma occorre cambiare la mentalità rispetto al come si impara, avendo un'esperienza pregressa di sedimentazione. Lauren Resnick che è una famosa psicologa dell'educazione, dice che noi cattolici – identifica così gli italiani, come ho detto in un convegno – abbiamo lo script dell'imparare come la messa, con uno che parla e gli altri che ascoltano; invece i protestanti – secondo lei – sono più portati all'apprendere in gruppi.
Ora, al di là dell'esempio, in tutti noi che abbiamo imparato in un certo modo – noi siamo i frutti migliori della scuola, visto che siamo qui – c’è l'idea che si impara così, anche perché abbiamo avuto un bravo insegnante che quando parlava ci affascinava. Tuttavia, questo finisce per essere un ostacolo al creare delle situazioni in cui si impara attraverso proposte didattiche o altro.
Allora, come si fa a formare gli insegnanti a quest'altro modo ? Non è solo con l'università. Anzi, ho dei forti dubbi che l'università, in generale, sia capace di fornire questa diversa formazione, perché lì abbiamo gli stessi problemi, per altri versi. Vi sono, però, moltissime situazioni di esperimento e di lavoro cosiddetto «di base», in cui gli insegnanti fanno delle cose interessanti. Ecco, è molto utile fare indagini di questo tipo, perché in Italia c’è una situazione a macchia di leopardo, ma diffusissima, di situazioni positive e negative al sud come al nord, per cui occorre sostenere i gruppi che si muovono, piuttosto che fare grandi programmi di formazione che rischiano di costituire una grande voce di spesa, senza avere molto successo.
Poi, non c’è dubbio che vi sia una responsabilità della scuola, perché ormai, anche sul piano della ricerca, si parla non solo di drop-out, ma di studenti marginalizzati, per alludere al fatto che c’è un effetto concomitante della scuola: da un lato, c’è qualcuno che va e dall'altro qualcuno che spinge fuori. Forse questo dovrebbe far riflettere sulla duplice funzione che dobbiamo ricoprire.
PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per l'interessante contributo che hanno apportato all'indagine conoscitiva. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal dottor Andrea Gavosto (vedi allegato 1), dalla dottoressa Anna Maria Leuzzi (vedi allegato 2) e dalla dottoressa Anna Maria Ajello (vedi allegato 3).
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 16.15.
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