Sulla pubblicità dei lavori:
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PROIEZIONE DELL'ITALIA E DELL'EUROPA NEI NUOVI SCENARI GEOPOLITICI. PRIORITÀ STRATEGICHE E DI SICUREZZA
Audizione del Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo.
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3
Caracciolo Lucio , Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes ... 3
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 8
Cassano Franco (PD) ... 8
Monaco Francesco (PD) ... 9
Garavini Laura (PD) ... 9
Nicoletti Michele (PD) ... 9
Cimbro Eleonora (PD) ... 10
Farina Gianni (PD) ... 10
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 11
Caracciolo Lucio , Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes ... 11
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 14
ALLEGATO: Documentazione prodotta dal Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FABRIZIO CICCHITTO
La seduta comincia alle 12.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione del Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Lucio Caracciolo, Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla proiezione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi scenari geopolitici.
Avverto che il Direttore Caracciolo ha consegnato una documentazione della quale autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Ringrazio quindi della sua presenza il professor Caracciolo e lo invito a svolgere il suo intervento.
LUCIO CARACCIOLO, Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes. Grazie, presidente e buongiorno. Per dare un senso a questa mia introduzione partirei da quella che mi pare essere oggi la paradossale centralità dell'Italia nel contesto geopolitico euromediterraneo, cioè quella di trovarsi al punto di convergenza di tre crisi, fra loro evidentemente diverse ma che tutte impattano sul nostro territorio nazionale e ne toccano gli equilibri: la crisi dell'Euro, l'eurocrisi, che riguarda essenzialmente i Paesi dell'eurozona e dell'Unione europea; la cosiddetta, e insisto sul cosiddetta, «primavera araba»; una crisi che avevamo un po’ rimosso ma che dovremmo considerare oggi in modo più attento, specie per quello che accade alle sue spalle – penso in particolare all'Ucraina – cioè la crisi dei Balcani, che è stata sedata quindici anni fa in maniera precaria ma non è assolutamente risolta.
L'Italia è al centro geografico di queste tre crisi, quindi, se compariamo la collocazione geopolitica attuale del nostro Paese con quella che avevamo un quarto di secolo fa, cioè alla fine della guerra fredda, notiamo anzitutto il macrofenomeno più rilevante, cioè la destabilizzazione del nostro – chiamiamolo così – estero vicino, delle nostre frontiere mediterranee in particolare. Contemporaneamente, per via dell'eurocrisi, notiamo la diluzione del nostro rapporto con i partner europei.
Partirei da quest'ultimo punto, cioè dall'eurocrisi. Non voglio qui entrare nei termini strettamente economico-finanziari della questione, vorrei però notarne un paio di conseguenze geopolitiche. Innanzitutto, la natura di questa crisi va molto al di là, ormai, della questione fiscale; va al di là persino della questione economico-sociale. È sempre più una crisi culturale; è essenzialmente una crisi di sfiducia tra i partner, in particolare una sfiducia – detto grossolanamente – dei partner nordici, centrati sulla Germania, nei confronti dei cosiddetti «appartenenti al Club Med» o PIIGS o chiamateli come volete, cioè la parte meridionale dell'eurozona. Epicentro, Pag. 4evidentemente, di questo problema è la Grecia, ma noi siamo il Paese sistemico in questo contesto. Quindi è una crisi di sfiducia, una crisi di rapporti che va molto al di là della questione economico-finanziaria.
L'altro punto riguarda l'assenza di un centro europeo che abbia la legittimazione e i poteri tali da poter intervenire in modo strutturale sulla crisi. Evidentemente ci troviamo nella situazione paradossale per cui, come si è visto, nei momenti più acuti della crisi è stato il Presidente della Banca centrale europea (BCE), cioè di un istituto vocazionalmente e statutariamente apolitico, a prendere decisioni di fatto politiche, interpretando, con il consenso dei principali leader europei, il suo mandato in modo piuttosto largo, in maniera da intervenire tempestivamente ed efficacemente prima che la crisi molto acuta diventasse una crisi finale.
Allo stato dell'arte, ancora oggi ci troviamo a dover contare sul Presidente della BCE, Draghi, come il pompiere di ultima istanza in caso di riacutizzarsi della crisi. Questo è l'evidente portato della incompletezza della costruzione su cui abbiamo puntato molto e molto a lungo, cioè la costruzione di Maastricht. Il fatto che non abbia una struttura politica è anche il riflesso di quella crisi di sfiducia di cui parlavo prima: non ci si fida sufficientemente gli uni degli altri per poter davvero mettere a sistema anche politico-istituzionale questo nostro progetto monetario.
L'aspetto secondo me più grave riguarda la crisi culturale, quindi la crisi di legittimazione che ne deriva per le istituzioni politiche nazionali ed europee, di cui credo avremo presto contezza nelle elezioni europee del prossimo maggio – che noi insistiamo a chiamare «europee» quando in realtà si tratta di elezioni nazionali, nel senso che sono elezioni che avvengono su liste nazionali, su dibattiti nazionali, con effetti più nazionali che europei – ad eleggere un organismo di cui, e io credo non a caso, il mondo mediatico tende a disinteressarsi totalmente.
Questa è una prima ed evidentemente maggiore crisi. Poi c’è l'altro braccio della tenaglia, quello meridionale. Abbiamo sintetizzato con lo slogan «primavera araba» un fenomeno o meglio una serie di fenomeni molto complessi. Al termine di questa prima fase della cosiddetta «primavera» possiamo notare che in tutta quella fascia alla nostra frontiera meridionale sono crollati o sono stati messi in serio pericolo – mi riferisco evidentemente alla Siria di al-Assad – i regimi dittatoriali che noi stessi peraltro avevamo contribuito a sostenere o addirittura a inventare. Mi riferisco alle operazioni dei nostri servizi in Tunisia, quando si trattò di mettere da parte il vecchio Bourguiba per sostituirlo con Ben Ali; mi riferisco anche al nostro rapporto tormentato, ma alla fine piuttosto intrinseco, con Gheddafi e alle relazioni che avevamo stabilito con Mubarak in Egitto e con la famiglia Assad in Siria.
Tre di questi dittatori, o Presidenti con un mandato un po’ particolare nel caso di Mubarak, sono stati liquidati e al loro posto non abbiamo nuovi regimi stabili, salvo forse – ma sottolineerei tre volte il «forse» – il caso egiziano, su cui dirò poi due parole.
La cosa essenziale è che noi adesso ci troviamo di fatto, alla nostra frontiera meridionale, con un tessuto territoriale privo di vere e proprie istituzioni formali. Il caso limite è quello della Libia, dove, in caso di necessità, per dirla con Kissinger, francamente non sapremmo quale numero di telefono comporre fra i vari capi brigata, milizia, mafia o quanti altri si contendono ciò che resta della Tripolitania e della Cirenaica. Se guardiamo, invece, la Libia profonda, il Fezzan, essa è già completamente disintegrata nel contesto saheliano.
In questa carta noterete marcati quelli che, a mio avviso, sono gli unici Stati effettivi della regione. Lo scopo di questa rappresentazione cartografica è mostrare la differenza fra le carte politiche che noi troviamo nei nostri atlanti e che studiamo a scuola e la effettiva cogenza geopolitica di questi Stati nel territorio che loro si attribuiscono. Facendo un esercizio mentale un po’ forzato, ma nemmeno troppo, noi potremmo andare da qui fino alla Pag. 5frontiera del Sudafrica senza trovare un vero e proprio Stato. Lo dico anche perché in questo Paese si è preso sul serio un passaporto della Repubblica Centrafricana, quindi sarebbe anche il caso di sapere di che cosa stiamo parlando.
In particolare, per il nostro Paese è evidente che la situazione libica è di estremo rilievo per le conseguenze dal punto di vista energetico, per le conseguenze dal punto di vista dei flussi migratori e anche, in generale, per il fatto che non abbiamo praticamente più punti di appoggio sicuri sulla sponda nordafricana.
Il caso tunisino è quello più promettente, anche perché lì i Fratelli Musulmani sono stati un po’ più scaltri di quelli egiziani e perché c’è effettivamente una vicinanza con l'Europa e con l'Italia molto più stretta e più consolidata. In quel Paese, effettivamente, i processi di re-istituzionalizzazione, cioè di passaggio da regimi basati su una specie di patronato dittatoriale a Stati che comincino ad assomigliare a democrazie, fanno più sperare, anche se pochi minuti fa abbiamo avuto notizia di una nuova sparatoria tra forze dell'ordine e islamisti, con vari morti.
Quello egiziano è un caso a parte, dove oggi abbiamo il ritorno al potere – ammesso che l'avesse mai veramente perso – dell'esercito, che in Egitto è lo Stato, anzi è qualcosa di più, è lo Stato e gran parte dell'economia.
Quello che i Fratelli Musulmani, pur vincendo ripetutamente alcune elezioni, non sono riusciti a stabilire (o non hanno voluto o saputo farlo) è un regime istituzionale in cui effettivamente le forze armate facessero le forze armate e non quello che fanno storicamente, da Nasser in avanti, cioè una surrogazione dei poteri politici. Non a caso tutti i Presidenti sono stati ufficiali o generali dell'esercito. L'ultimo che verrà eletto fra qualche mese, il generale al-Sisi, si è dimostrato un leader particolarmente abile e scaltro e ha sostanzialmente riportato in controllo le forze armate, con tutte le strutture di quello che in Egitto si chiama lo Stato profondo, perlomeno nelle aree strategiche del Paese, in particolare al Cairo.
Anche l'Egitto è uno Stato molto labile in alcune sue regioni. Il caso più grave, da un punto di vista strategico, è il Sinai, che da sempre – ma negli ultimi tempi in modo particolarmente accentuato – è territorio di scorrerie jihadiste e terroristiche che si intrecciano con i percorsi delle tribù beduine della zona a ridosso del confine di Gaza e di Israele.
Sulla sponda occidentale, credo che l'unico Stato che ha una sostanza sia oggi il Marocco. Anche il Marocco, come sappiamo, ha una sua labilità meridionale, che è il territorio del Sahara occidentale ex spagnolo, ma sostanzialmente il sovrano marocchino ha saputo in qualche modo anticipare possibili rivoluzioni o rivolte con operazioni di carattere costituzionale che hanno sedato la piazza e hanno dato sostanza a un potere legittimato, anche in maniera profonda, dalla religione, essendo lui un discendente di Maometto.
Risalendo, gli altri Stati che hanno una sostanza nella regione sono ovviamente Israele, la Turchia – con tutti i suoi enormi e sempre più gravi problemi, ma comunque è certamente uno Stato consolidato – e l'Iran. Tutto il resto della fascia sahariana-saheliana – lasciamo stare l'Africa profonda – e gran parte della stessa penisola arabica è sostanzialmente segnato da territori che sono stati resi Stati, ma in realtà sono dei patrimoni di famiglia, chiamiamoli così. Non a caso abbiamo uno Stato che si chiama Arabia Saudita intitolato alla famiglia regnante.
Devo dire che sono rimasto molto impressionato dal fatto che la capacità di influenza di questo Paese, evidentemente dovuta alle sue risorse economiche, è arrivata al punto che abbiamo celebrato, qualche mese fa, una mostra al Vittoriano dal titolo «L'Arabia Saudita Paese della cultura e del dialogo». Evidentemente ci sono dei fattori che prevalgono sulla verità storica.
L'aspetto per noi più interessante e più pericoloso è ovviamente questa crisi di cogenza istituzionale che moltiplica i rischi Pag. 6che derivano dalle guerre, con i relativi profughi, dal fatto che in queste fasce di territorio enormi si muovono gruppi che innalzano la bandiera del jihad, ma sono essenzialmente narcotrafficanti che gestiscono la droga, in particolare quella proveniente dall'America meridionale, via Guinea Bissau, che è uno Stato mafia per eccellenza, e poi attraversano tutta la fascia saheliana per giungere fino al nostro mercato.
Questo è evidentemente un problema che mi riporta alla nostra posizione nell'area, cioè quella di essere la punta più avanzata di un mercato informale europeo delle droghe gestito dalle criminalità organizzate straniere conniventi o concorrenti con le nostre. Alcune di queste criminalità straniere si sono dotate di un proprio Stato – penso al Montenegro, al Kosovo, alla Transnistria, che è un pezzo di mafia russa nella Moldova – oppure sono in qualche modo informalmente legate a settori di alcuni Paesi, alcuni dei quali anche membri dell'Unione europea.
Tutto questo è un elemento di pressione sulla nostra stabilità e sulla nostra sicurezza di cui dobbiamo tener conto.
Vengo alla terza delle tre aree di crisi, quella geograficamente più prossima a noi, ossia quella balcanica. Dopo le guerre di successione jugoslava degli anni Novanta, quando noi europei vantavamo che fosse scoccata l'ora dell'Europa – ma ancora una volta ci siamo dimostrati non all'altezza del compito che ci siamo voluti dare, in qualche modo anche prigionieri della nostra retorica – questa crisi è stata sedata soprattutto per iniziativa americana, ma alcune questioni che erano state aperte con la fine della Jugoslavia restano tali.
Abbiamo un territorio praticamente nullius, o meglio di vari gruppi, che è la Bosnia Erzegovina; abbiamo una Macedonia che per buona parte pencola verso l'insieme panalbanese, che ha oggi nel Kosovo, più che nell'Albania stessa, il suo epicentro, quindi la questione albanese resta largamente aperta e sul campo; abbiamo una Serbia che ancora non ha deciso bene che cosa vuole fare da grande, ma che deve rimarginare la ferita del Kosovo e tutti i problemi che si sono incancreniti a seguito delle guerre jugoslave, in particolare con la Croazia e con gli altri vicini; alle spalle abbiamo due Paesi dell'Unione europea, la Bulgaria e la Romania, che sono Paesi – per usare un eufemismo – «critici» dal punto di vista della sicurezza e del rapporto fra istituzioni e criminalità organizzata e che sono entrati significativamente nel mirino di alcune opinioni pubbliche europee.
Un paio di settimane fa arrivavo all'aeroporto di Heathrow a Londra e vedevo che, tra le varie file, ce n'era una dedicata a bulgari e romeni, cittadini dell'Unione europea che hanno ottenuto dal primo gennaio di quest'anno in Inghilterra il diritto di accesso a pari titolo degli altri cittadini dell'Unione, come dovrebbe essere normale ma come in Inghilterra, con i suoi opting out, normale non era, laddove lo stesso Primo Ministro britannico ha scatenato una polemica su questo tema, non credo per particolari convinzioni personali ma semplicemente per la constatazione che esiste oggi in Inghilterra un partito nazionalista inglese, lo UKIP (United Kingdom Independence Party) che fa del rischio di invasione e dell'uso del welfare britannico da parte di stranieri una sua bandiera.
È un tipo di posizione che ritroviamo, spesso anche in maniera molto più acuta, in giro per l'Europa e che ci segnala questa crisi di legittimazione e di senso che l'Europa sta vivendo in questa fase, che mi porta a un'ultima considerazione – per poi lasciare spazio alla discussione – che riguarda l'area retrostante la questione sia balcanica sia mediorientale-caucasica, ossia la questione dell'Ucraina (Ucraìna o Ucràina e già il modo di pronunciarne il nome indica una preferenza per una parte o per l'altra).
Credo che sia un caso interessante perché ci spiega uno dei problemi che come europei abbiamo vissuto in maniera più acuta negli ultimi vent'anni, da quando si è cominciato a fare sul serio con gli allargamenti e poi si è smesso, a un certo punto, in maniera piuttosto brusca. Mi Pag. 7riferisco al fatto che i Paesi, o almeno una parte dei Paesi che sono entrati nell'Unione europea a seguito del collasso degli imperi sovietico e jugoslavo (uno macro e uno micro) hanno puntato all'Unione europea essenzialmente contro i loro vicini, cioè per stabilire delle frontiere che li proteggessero rispetto alla competizione, all'intrusione, all'influenza, all'ostilità dei vicini. Abbiamo un caso più antico che riguarda la Slovenia e il suo rapporto molto difficile con la Croazia, che ancora non è stato del tutto risolto, anche per quanto riguarda i confini.
In generale, direi che nell'area c’è stata questa tendenza a immaginare: «io sono europeo non perché voglio partecipare in spirito comunitario di integrazione a un progetto comune, ma perché entrando in questo club mi sento più garantito ed elevo il mio rango rispetto a dei vicini verso i quali non provo una simpatia immediata». Il caso limite, dove si incrociano, insieme a queste pulsioni, anche alcune nostre ipocrisie, è come dicevo quello dell'Ucraina, che ci occupa molto in queste settimane e che io credo converrà tenere parecchio d'occhio nei prossimi mesi, perché è una questione macroscopica.
Si tratta, come sapete, del territorio di elezione dell'impero russo che nasce – nella versione accettata e diffusa non solamente nelle èlite russe ma nell'opinione pubblica russa – a Kiev più di un millennio fa. Insomma, per dirla in maniera banale, è il Piemonte della Russia che però, attualmente, in una configurazione che deriva dalla sua passata integrazione nello spazio sovietico, è diventato uno Stato indipendente ma al suo interno è diviso tra regioni, culture, lingue, mentalità piuttosto difficili da riportare a unità, in un contesto di profonda crisi economica e con degli oligarchi che sono sostanzialmente i veri padroni-padrini dei vari cosiddetti «leader» politici – tra cui lo stesso Presidente Yanukovich – che svolgono dei compiti largamente di facciata rispetto ai potenti di fatto sul territorio.
Questo Paese coltiva non da oggi una fortissima idea nazionale/nazionalista, di cui vediamo alcune espressioni estreme, anche recentemente, a piazza Maidan, con le bandiere di Svoboda e di altre formazioni fondamentalmente neonaziste, le quali, anche per la capacità organizzativa di questi gruppi e per la loro forza – tra virgolette ma anche senza – militare, rischiano di prendere il sopravvento sulla parte più moderata, aperta e dialogante dell'opposizione che è scesa in piazza contro il Presidente Yanukovich.
L'Ucraina è il caso limite di questa interpretazione dell'Europa non come una famiglia che cerca di vivere e di costruire insieme qualcosa, ma come un'entità che protegge dalla Russia, nel caso specifico, cioè dal «grande fratello» che viene avvertito, in particolare nell'Ucraina occidentale, come un potenziale nemico, come una potenza che vuole reintegrare l'Ucraina in uno spazio post-sovietico gestito da Mosca.
Ci sono anche molte ragioni a sostenere questa percezione, tra cui l'esplicito progetto di unione euroasiatica perseguito da Putin da qualche anno, che evidentemente ha nell'Ucraina il suo fulcro, il suo epicentro, per ragioni storiche ma anche demografiche. È chiaro che nel momento in cui si volesse ricostituire qualche forma di spazio imperiale allargato, che per i russi sarebbe comunque sempre una diminutio rispetto ai momenti alti del loro impero dell'Unione Sovietica, l'Ucraina è irrinunciabile.
Dall'altra parte, è interessante vedere come la nostra – parlo qui dell'Europa – politica verso l'Ucraina sia stata largamente gestita (caso ultimo quello di Vilnius) da alcuni Paesi della frontiera orientale dell'Unione europea, in particolare i baltici, i quali hanno un rapporto ancora più difficile forse di quello ucraino con la Russia e sono totalmente schierati con coloro che in Ucraina si collocano contro la Russia. Ciò crea qualche difficoltà ai mediatori europei, che in Ucraina non vengono percepiti come mediatori, ma come amici da gran parte della piazza Maidan, come si dice semplificando, e come nemici dal regime di Yanukovich. Quindi, i margini della baronessa Ashton sono francamente piuttosto limitati.Pag. 8
L'aspetto macro è talmente evidente che non mi ci soffermo, ma se vogliamo possiamo parlarne. Ci sono, però degli aspetti che riguardano ancora una volta la questione dei corridoi di traffico di merci non propriamente commendevoli, di cui l'Ucraina è appunto titolare, che via Balcani arrivano fino al nostro territorio; a parte il fatto che c’è una presenza demografica ucraina importante – non solamente di badanti – nel nostro territorio nazionale, con possibili conseguenze e riverberi di questa crisi anche all'interno del nostro Paese.
In conclusione, il mio proposito è quello di mettere in relazione questa pressione derivante dalle varie crisi che sono intorno alla nostra penisola, in una fase in cui – non devo certo dirlo io a voi – viviamo un'altrettanto grave crisi di legittimazione e di efficienza della politica nel nostro Paese. Una è nostra, le altre rischiamo di importarle e di connetterle.
In una fase in cui fossimo stati più solidi e con rapporti migliori con i nostri vicini e con i nostri principali partner, in fondo potevano essere considerate delle crisi esterne. Oggi queste sono parte di una crisi che coinvolge complessivamente il nostro Paese.
PRESIDENTE. Ringrazio Lucio Caracciolo per la sua relazione a trecentosessanta gradi. Aggiungo che, se vuole, in replica potrà approfondire, due temi che riguardano una nazione di cui ha parlato e un'altra di cui non ha parlato. Lei ha parlato della Tunisia, ma le chiederei di approfondire l'argomento, trattandosi di una realtà significativa nella panoramica del Mediterraneo, e non ha parlato invece, mi sembra, dell'Iraq.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
FRANCO CASSANO. In genere seguo quello che dice Lucio Caracciolo e lo ringrazio del quadro che ha disegnato, ma alcuni punti li avevo già intercettati leggendo sia la rivista che egli dirige sia i suoi interventi sui giornali.
Osservando il quadro nel suo complesso emerge un elemento che è affiorato adesso e non è un pensiero di lungo periodo: l'Unione Europea, ai suoi confini, fa fatica quando deve varcare la soglia delle tradizioni, cattolica e protestante.
I Fratelli Musulmani spesso vincono le elezioni e in genere l'atteggiamento di chi simpatizza – giustamente, poiché siamo europei – nei confronti dell'opposizione è di pensare che essi appartengano al passato. A mio avviso, la questione è molto più complicata. Mi è sembrato di cogliere un'analogia – non credo sia stata espressa volontariamente, ma potrebbe anche darsi il contrario – con le frontiere orientali, laddove la linea di divisione riguarda i Paesi che vengono in primo luogo dal cristianesimo orientale (Serbia e Russia).
Forse la mia è una domanda astratta, però può essere utile per una riflessione sui modi attraverso i quali l'Unione può provare a fondare la sua politica. Secondo Caracciolo qui c’è realmente un problema, quindi tutto questo significa anche la necessità di non guardare ciò che è fuori da sé come una forma imperfetta di sé che poi bisogna ricondurre al modello, con i problemi che ne derivano.
Devo dire che anch'io ho condiviso molto il giudizio negativo espresso a suo tempo – sebbene qui non sia stato richiamato esplicitamente – sull'intervento in Libia. Credo che sia stato un fattore di enorme destabilizzazione di tutta l'area, direi il punto archimedico di questa rottura che ha creato instabilità.
Vorrei porre molte domande, ma mi limiterò a una, che però considero complessa. Chi fa il lavoro di Caracciolo ha una grande dimestichezza con la configurazione di scenari. È possibile configurare lo scenario che si determinerebbe qualora l'Unione europea si sfaldasse ? Dove andremmo a finire ? La prima delle crisi, quella nord-sud, anche quella potrebbe essere ricondotta, entro certi limiti, al portato religioso. Alcuni la interpretano proprio in questo modo e in un numero della Rivista Limes veniva proposta questa interpretazione: l'Europa protestante e l'Europa cattolica. Al di là di questo, che Pag. 9cosa ci si deve aspettare di fronte all'accentuarsi della crisi ? Molti, di fronte a questa crisi, vedono l'attacco all'Unione europea come la soluzione.
Credo che occorrerebbe incominciare a configurare esattamente i problemi drammatici che si creerebbero se questa fosse la direzione intrapresa.
FRANCESCO MONACO. Vorrei sollevare due questioni. La prima, ricollegandomi all'audizione che abbiamo svolto la settimana scorsa con una rappresentanza della comunità ucraina in Italia, verte sulla questione ucraina.
Gli amici della comunità ucraina in Italia ci davano una rappresentazione che ci è parsa un po’ semplificata, e si comprende, essendo loro rappresentanti del dissenso. Da una parte, si diceva, c’è il popolo, dall'altra gli oligarchi, su cui mi piacerebbe avere qualche specificazione. L'impressione è che le cose siano decisamente più complesse, sia perché nei passaggi elettorali le cose vanno diversamente sia perché, dalle notizie che abbiamo, c’è anche un cospicuo intervento e contributo delle forze nazionaliste ed estremiste alla mobilitazione democratica in opposizione al Governo. Vorrei avere una rappresentazione più persuasiva di questo dualismo. Si suppone che anche questi oligarchi siano in qualche modo portatori di consenso. Dunque, questa idea degli oligarchi a fronte del popolo tout court, plausibile sulle labbra dei rappresentanti dell'opposizione, ci è sembrata tuttavia poco convincente.
La seconda domanda è di ordine più generale. Se non ricordo male, la nostra indagine conoscitiva reca una titolazione che evoca le priorità strategiche, in particolare relativamente alla difesa. Chiedo, allora, di arricchire la conclusione, una volta che ci è stato fornito lo scenario delle crisi. Al netto delle velleità italiane, quindi nella consapevolezza dei nostri oggettivi limiti, al netto della crisi di legittimazione politica che ci riguarda come Paese, al netto della retorica, compresa la retorica europeista, ci dia qualche spunto e qualche elemento su quali siano ragionevolmente e realisticamente le priorità che il nostro Paese, con la sua politica estera, può assegnare a se stesso. Mi interessa questa risposta a conclusione della definizione degli scenari.
LAURA GARAVINI. Direttore, nel ringraziarla della sua presentazione, anch'io vorrei ripartire dai quesiti posti dai colleghi Cassano e Monaco.
La sua illustrazione poneva l'Italia nel cuore di diverse crisi globali, alle quali il presidente Cicchitto aggiungeva anche la nostra crisi nazionale. Tuttavia, le crisi, di carattere sia geopolitico globale sia interno, possono essere anche un'occasione di grande rilancio, laddove l'Italia riesca, ponendosi come origine di spunti politici di intervento, a riposizionarsi e a riacquistare quel ruolo di centralità che negli ultimi anni ha perduto nella stessa Europa.
Partendo da questo presupposto, quali azioni politiche ritiene che l'Italia potrebbe giocare per riuscire a trasformare queste situazioni di profonda crisi in occasioni di rilancio del nostro profilo politico, anche a livello internazionale ? In questo senso, credo che il Governo abbia già dato prova di sé, nella misura in cui è riuscito a porre nell'agenda di governo dell'Europa alcune questioni di rilevanza strategica: da un lato, la battaglia alla disoccupazione giovanile, dall'altro le politiche migratorie, anche alla luce delle grandi ondate migratorie derivanti dalla crisi in particolare dei Paesi del Nordafrica. Credo che questi siano aspetti qualificanti del nostro Paese nell'ultimo anno di governo.
Qual è la sua valutazione e quali altri suggerimenti ci può dare, anche alla luce del ruolo che l'Italia può giocare nella Presidenza che si appresta a ricoprire, in particolare in vista della tornata di politiche europee che ci apprestiamo ad affrontare ?
MICHELE NICOLETTI. Ringrazio il direttore Caracciolo della bella presentazione che ci ha offerto.
Il mio intervento si può sintetizzare in un interrogativo: l'Italia è Stato ponte o Pag. 10Stato cuscinetto ? Le cartine che lei ci ha presentato sono inquietanti. Ormai tutti gli indicatori danno il confine sui Pirenei e sulle Alpi per quanto riguarda sviluppo economico, crescita demografica, tassi di corruzione, eccetera eccetera. Se si paragona questa cartina a quella che mostra l'industrializzazione di inizio Ottocento, si scopre che non è molto diversa, in fondo. Sostanzialmente ci chiediamo che cosa abbiamo fatto in questi secoli rispetto alla modernizzazione degli altri Paesi europei. La differenza, però, è che allora il quadro non aveva la pressione sull'Europa proveniente dal continente africano e dall'Asia che invece abbiamo oggi.
Quindi, il nostro impegno è di far spostare il confine, in senso positivo, dalle Alpi al Mediterraneo. Gli indicatori che lei ha a disposizione ci dicono che questa è una sfida che possiamo vincere o dobbiamo rassegnarci al destino di uno Stato cuscinetto ?
ELEONORA CIMBRO. Innanzitutto la ringrazio per l'esposizione. Sicuramente la sua capacità di analisi e di sintesi, che si coglie anche attraverso la lettura dei suoi interventi su Limes, come i miei colleghi hanno già detto, rappresenta uno spunto molto interessante per noi che lavoriamo in questa Commissione. Di questo la ringrazio.
Vorrei richiamare il ruolo che gli Stati Uniti hanno in questa fase. Ricordo di aver letto su un numero di Limes (credo del 2011) un'analisi molto interessante sulla politica di disimpegno degli Stati Uniti rispetto allo scenario del nord Africa e mediorientale. Vorrei sapere, a distanza di due o tre anni, che cosa pensa della politica di Obama e come potrebbe in qualche modo intervenire rispetto alle evoluzioni che ci sono state nei Paesi del nord Africa.
Inoltre, vorrei conoscere la sua opinione – il tema è di attualità – rispetto alla posizione assunta dal Presidente del Consiglio, Letta, nei confronti della Russia. Abbiamo letto sui giornali alcune polemiche rispetto alla scelta del nostro Governo.
GIANNI FARINA. Vorrei scusarmi per essere arrivato in ritardo questa mattina ed esprimere un rincrescimento per non essere stato presente al «Forum Italia-Svizzera», a Berna. Purtroppo siamo stati bloccati qui, ma credo che quella Conferenza sia stata di assoluta e straordinaria novità e importanza. Se c’è un Paese che oggi è al centro dell'Europa, per i sistemi di comunicazione, finanziari e così via, questo è indubbiamente la Svizzera. Lei, dottor Caracciolo, lo ha sempre affermato.
Vorrei esprimere alcune preoccupazioni e qualche dato reale. In tutte le crisi avvenute in questi ultimi anni – penso alle rivoluzioni arabe, alla questione libica eccetera – mi sembra che l'Europa sia stata totalmente assente e divisa, ed è l'esatto contrario del ruolo che invece essa dovrebbe avere nel Mediterraneo e nella competizione globale.
La seconda considerazione riguarda il fatto che ascolto, in questo momento, molte critiche verso l'Europa. Oltretutto, ci prepariamo ad elezioni europee abbastanza delicate e io spero che non succeda un cataclisma. Il pericolo reale è che ci troveremo un Parlamento europeo in cui quasi la metà dei componenti saranno antieuropei, disgregatori, oltre che critici verso la politica del passato. Questo sarà un guaio terribile e non so cosa l'Italia e le forze più europeiste e responsabili potranno fare, ma questo è un altro discorso.
Molti pensano che l'Europa sia fallita anche per il suo allargamento eccessivo. Io, invece, penso il contrario, ossia che l'allargamento a est sia stato il prezzo che i popoli europei hanno pagato alla democrazia. Il crollo dell'impero sovietico, la riconquista dei processi democratici in tutto l'Est europeo è stato un miracolo consentito da tanti fattori, tra i quali lo stesso evolvere dell'Unione europea. Quel prezzo, secondo me, lo dovevamo pagare; l'abbiamo pagato ed è stato giusto.
La mia ultima considerazione riguarda l'Ucraina. A me sembra che il modo in cui l'Europa affronta il processo ucraino, anche in questi drammatici momenti, sia in parte arretrato e sbagliato. Mi sembra che in molte parti dell'Europa si pensi ancora Pag. 11all'Ucraina e a quei Paesi nelle forme e nell'accecamento di un anticomunismo che non esiste più. Mi riferisco alla mentalità e al costume di molta politica europea. Sono convinto che una politica di cooperazione, coesistenza e progresso in Europa non si possa fare contro e senza la Russia, e questo riguarda anche l'Ucraina.
La storia non può essere cancellata. Ci sono interessi forti; abbiamo interesse che la Russia divenga sempre più parte di una visione unitaria dell'Europa, nel senso più vasto possibile, e in ogni modo di cooperazione e di sviluppo. Quei problemi, dunque, vanno affrontati così, ma io sono convinto e ho la percezione che la politica estera europea non si muova in questo senso. Non parlo della Ashton: non posso assolutamente esprimere l'opinione che ho di lei in questa sede. Quello che dico è che manca una politica e quella che c’è è arretrata rispetto all'evoluzione che è venuta avanti in Europa in questi anni.
PRESIDENTE. Prima di dare la parola a Lucio Caracciolo per la replica, vorrei fare una riflessione marginale. Abbiamo parlato e sentito parlare di una realtà incandescente, però ci siamo concessi un'ora circa di un clima assolutamente raro rispetto ai lavori parlamentari, un clima sofisticato e garbato. È un regalo che ci ha fatto Caracciolo e che, in parte, abbiamo fatto a noi stessi.
Cedo la parola a Lucio Caracciolo perché risponda ai diversi interrogativi, assai significativi, che gli sono stati rivolti.
LUCIO CARACCIOLO, Direttore della Rivista italiana di geopolitica Limes. Comincio rispondendo alle due questioni poste dal presidente riguardo a Tunisia e Iraq. In Tunisia effettivamente esistono – credo più che altrove in nord Africa – delle condizioni favorevoli alla ristabilizzazione del Paese.
Non dobbiamo dimenticare, però, che anche in Tunisia sono presenti forze del radicalismo islamico piuttosto attive, che non conoscono frontiere di Stato. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che alcuni aspetti del regime di Ben Ali, il quale se ne sta nella penisola arabica, sono rimasti sul terreno: uno di questi aspetti non secondari riguarda la gestione dei traffici degli esseri umani attraverso il Mediterraneo che è ancora largamente in mano a strutture che appartengono al «clan Trabelsi».
Per quanto riguarda l'Iraq, quando parliamo di guerra di Siria dovremmo più correttamente parlare di guerra di Siria e Iraq. Non esiste più, e anche prima c'era poco, la frontiera sirio-irachena, nel senso che la rivolta degli arabi sunniti dell'Anbar, cioè della parte occidentale dell'Iraq, che erano stati a suo tempo assoldati dagli americani per gestire la crisi irachena, si è congiunta con quella interna alla Siria attraverso i soliti legami tribali che non conoscono frontiere.
Credo, quindi, che noi possiamo e dobbiamo considerare un arco di crisi che investe tutta l'area occidentale dell'Iraq e la stessa Baghdad, dove abbiamo un regime considerato, a torto o a ragione, filo-iraniano, che quindi combatte le sue tribù sunnite che invece sono più legate all'opposizione.
Non parliamo poi del Libano, ma quando parliamo di Siria dobbiamo parlare, in realtà, di una regione nella quale si svolge – non ho avuto il tempo di parlarne – lo scontro strategico, veramente formidabile e maggiore, tra l'Iran e l'Arabia Saudita, che poi è il vecchio scontro tra arabi e persiani, tra sunniti e sciiti, ma in una forma nuova.
Il professor Cassano faceva riferimento alle linee di faglia geo-religiose, chiamiamole così, che sicuramente contano, e direi che contano forse, in alcune percezioni, addirittura più di alcuni leader politici. Ci sono alcuni pregiudizi nei confronti dell'ortodossia, oppure da parte ortodossa nei confronti dei cattolici e così via, che sono abbastanza decisivi nel processo decisionale in alcuni Paesi.
Per quanto riguarda la questione dell'euro, non c’è dubbio che il mondo cosiddetto «protestante» si intitoli una moralità superiore, in una visione direi quasi spiritualista della moneta, che non è semplicemente una unità di conto ma, nel Pag. 12modo in cui la si gestisce, esprime lo spirito della nazione. Da Schumpeter in avanti ne abbiamo lette parecchie di cose su questo tema.
Ancora una volta, quindi, la questione è culturale. Per dirla in parole povere, il problema del debito greco non è il debito, ma è il fatto che sono greci; il problema dell'affidabilità o meno dell'Italia non deriva solamente dal fatto che il debito, malgrado tutto, continua a crescere, ma dal fatto che esso è affidato a persone, istituzioni o, addirittura, a un popolo che, visto dalla cultura che più che protestante definirei nordica, appare poco affidabile.
Mi è capitato, qualche tempo fa, di incontrare un Ministro dell'economia di un Paese del nord, a suo tempo occupato dai nazisti, il quale mi ha detto «voi avreste bisogno di un gauleiter», frase che lascia intendere il tipo di approccio e di simpatia di cui godiamo.
Vi è un'altra percezione non secondaria che nulla ha a che fare con la religione: l'Italia è percepita, a torto o a ragione – io direi con qualche ragione – come un Paese ricco, quindi un Paese che, pur essendo ricco, reclama l'aiuto esterno e vorrebbe che altri risolvessero problemi che potrebbe risolvere con le risorse di cui dispone.
Queste percezioni possono essere sbagliate, possono avere un fondo di verità, ma dobbiamo confrontarci con esse, non possiamo far finta che non esistano, altrimenti parliamo d'altro.
La questione dell'Ucraina è estremamente complessa e non si può ridurre evidentemente alla contrapposizione popolo-oligarchi, perché ci sono oligarchi che sostengono l'opposizione, oligarchi che sostengono Yanukovich, e ci sono popoli ucraini che in caso di guerra civile – facciamo tutti gli scongiuri del caso – un minuto dopo si iscriverebbero alla Federazione Russa, come per esempio la penisola della Crimea, sostanzialmente popolata da russi e russofoni e avendo la flotta russa una base strategica formidabile, dal suo punto di vista, a Sebastopoli.
Vi sono inoltre le complicazioni interne anche al resto del Paese, non solo dal punto di vista delle culture ma anche del rapporto città-campagna, un aspetto che dovremmo considerare sempre in queste crisi. I processi di aggregazione urbana hanno creato dei centri di potere informale, molto spesso inconoscibili o poco indagati, che sono appunto le grandi metropoli, dentro i quali persino singoli individui dotati di propri réseau informatici possono svolgere un ruolo politico importante.
L'onorevole Garavini parlava di crisi come occasione di rilancio. Esiste, come sappiamo, una letteratura – se vogliamo anche una retorica – sul fatto che la crisi è anche un'opportunità. Segnalerei, però, il fatto che in genere il progresso parte dalla stabilità più che dalle crisi. Quando si è in crisi culturale riemergono i lati peggiori; la gente non si mette a discutere su Voltaire, ma semmai riscopre Mein Kampf oppure la letteratura anarcoide. La crisi attuale, quindi, una crisi cioè di carattere culturale, a mio avviso è una crisi foriera, almeno nel breve periodo, più di rischi che di opportunità. Naturalmente noi dobbiamo cercare di cogliere le opportunità.
La questione posta dall'onorevole Nicoletti riguarda la possibilità di diventare uno Stato cuscinetto. Vorrei far notare che il nostro Paese è diviso in due. Spesso abbiamo parlato di Europa carolingia come di un paradigma, dimenticando – forse inconsciamente – che l'Europa carolingia divideva l'Italia. In ogni caso, da un punto di vista geo-economico, fino a Verona siamo parte dell'insieme tedesco e da Verona in giù lo siamo molto meno. È evidente, quindi, che una crisi dell'euro creerebbe delle tensioni anche di carattere geopolitico interno, oltre che internazionale. Non siamo un Paese ponte e nella parte conclusiva, dopo aver risposto ancora a qualche domanda, dirò perché.
Il disimpegno americano è evidente. L'America ha altre priorità – innanzitutto i posti di lavoro, le riforme sociali interne e così via – e certamente vuole occuparsi il meno possibile di quest'area. Questo non vuol dire che poi, quando ci impegniamo in operazioni per le quali non siamo Pag. 13attrezzati, non dobbiamo chiamare il «grande fratello» in soccorso (come è toccato per esempio ai francesi e poi, indirettamente, anche a noi nel caso libico) e il «grande fratello» arriva con un ghigno di gioia maligna, come a dire: «non siete capaci di fare nulla, dobbiamo sempre intervenire». Ma non arriverà sempre la cavalleria del generale americano.
Il Presidente Letta va a Sochi, a distinguere, ancora una volta, la posizione italiana da quella di altri Paesi europei. Credo che sia giusto; credo che, dal punto di vista istituzionale e politico, come è stato detto, noi non possiamo immaginare una qualsiasi forma di stabilità e di progresso in Europa se non anche attraverso un'intesa e una cooperazione tra le grandi potenze esterne, prime fra tutte Stati Uniti e Russia.
Il problema, su cui bisognerebbe fare un'altra conferenza, è che la guerra fredda non è mai finita. Noi abbiamo sempre dato una rappresentazione ideologica della guerra fredda come se fosse una questione fra comunismo e liberaldemocrazia, ma in realtà al fondo c’è una questione geopolitica; cioè il fatto che la superpotenza americana vuole evitare – comprensibilmente, dal suo punto di vista – che in questo continente vi sia qualche potenza un po’ troppo potente. Se poi questa potenza dovesse avere un'estensione euroasiatica, evidentemente sarebbe una minaccia. Vediamo, dunque, come l'America, sia pure con un certo restraint, negli ultimi tempi abbia favorito chiunque desse fastidio alla Russia e, naturalmente, viceversa.
Un punto fondamentale, altrimenti non ci capiamo, è che dobbiamo smetterla di parlare di politica estera europea, perché non esiste. Il fatto di avere un Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la baronessa Ashton, non implica che la stessa possa parlare a nome di Merkel, Hollande, Enrico Letta o chi altro. Ella può mettere la sua faccia nel momento in cui i leader europei si sono messi d'accordo; è un po’ la funzione che hanno le Nazioni Unite, se vogliamo. Ma non si può immaginare che esista una politica europea; esistono delle strumentalizzazioni, qualche volta, dello strumento europeo a fini nazionali. Quello che citavo prima dei Paesi baltici rispetto all'Ucraina è un caso, direi, quasi di scuola. Non c’è, a mia conoscenza, nessuna crisi degli ultimi 20-25 anni in cui non ci sia stata una profonda divisione tra tutti i Paesi europei, quale più, quale meno.
Cosa si può fare ? Innanzitutto, credo che dobbiamo essere consapevoli che la prima cosa da fare – immagino voi lo sappiate meglio di me – è ridare legittimazione ed efficienza a questo Stato. Dobbiamo smetterla con l'idea che ci sarà qualcuno che ci verrà a salvare o con l'idea che l'Europa si occuperà di noi perché inevitabilmente non può non farlo. Non parlo solo della politica, parlo anche della tecnocrazia. Ciò che mi spaventa di più non è solo il clima politico, ma il problema che non riusciamo ad attuare le nostre leggi perché lo strumento tecnocratico le boicotta o non funziona. Questo è un aspetto non secondario, perché continuare a parlare di riforme quando poi queste riforme non trovano attuazione significa, nella migliore delle ipotesi, prendersi in giro. C’è questo aspetto, direi di sostanza, di rimettere in piedi uno strumento efficace.
Uno dei fattori di cui, a mio avviso, si parla troppo poco, e che invece è fondamentale nel contesto dell'essere al centro di quelle crisi di cui parlavo, è la riconquista del territorio che noi abbiamo devoluto alle mafie. Noi diamo per scontato, cioè, che alcune parti del territorio nazionale siano sostanzialmente astatuali e che siano di fatto appaltate a organizzazioni criminali. Se questo non è tollerabile anzitutto per noi cittadini, è inoltre un fattore fondamentale di delegittimazione rispetto al resto del mondo. Tutti i Paesi, infatti, quale più quale meno, anche quelli che fanno finta di non averne, hanno criminalità organizzate che operano al loro interno, alcune delle quali purtroppo – penso in particolare alla ’ndrangheta – di marca nostrana, ma nessuno accetta come un fatto assodato, tranquillo, per esempio, che alcune intere regioni o alcune parti delle nostre maggiori città debbano Pag. 14essere considerate terre nullius o meglio terre mafiose, come se fosse semplicemente un dato di natura.
Questa, dunque, è una prima necessità. Ci sono alcune cose, poi, che bisognerebbe evitare di fare, per esempio impiegare le nostre forze armate contro i nostri interessi. È quello che abbiamo fatto quasi costantemente, con una regolarità invidiabile, dalle guerre balcaniche al caso libico: siamo sempre regolarmente intervenuti contro i nostri interessi consolidati.
Ricordo che un generale di un certo prestigio ebbe a dire, alla fine della guerra fredda, «a questo punto ci conviene sciogliere le forze armate perché potremo utilizzarle solo contro di noi». Prima, infatti, esisteva un interesse strategico comune, l'interesse atlantico, che era consolidato, quindi si sapeva di far parte di una compagnia che aveva lo stesso scopo, cioè impedire che l'Unione Sovietica e il comunismo penetrassero da questa parte del mondo. Adesso che invece ci sono numerose questioni molto controverse all'interno dello stesso mondo atlantico ed europeo, ci capita di andare a bombardare magari delle nostre industrie o a destabilizzare delle aree vicine per il gusto di poter dire che abbiamo partecipato a una missione. Bisognerebbe, io credo, immaginare lo strumento militare per quello che è, cioè servente alla politica e non surrogante la politica.
Quanto ho detto è ciò che non si dovrebbe fare. Per quello che riguarda il fare, a parte la ristabilizzazione di uno Stato credibile, credo che la concentrazione dovrebbe essere nella cooperazione innanzitutto internazionale per bloccare e interdire questi flussi di carattere geopolitico criminale che minacciano il nostro territorio e che hanno vari caratteri e provengono da varie aree.
In secondo luogo, si dovrebbero creare delle connessioni a livello politico e di società civile con i poteri informali che esistono sul territorio, cioè non continuare a parlare con degli pseudo-leader che non contano nulla. Per fare un esempio, è inutile parlare con il Governo libico; per fare qualcosa in Libia occorre parlare con chi controlla Misurata o un altro pezzo di territorio e così via.
Più in generale, ci sono organizzazioni nuove, giovani, anche da un punto di vista culturale più apprezzabili, in particolare in Egitto e in altri Paesi, che cercano contatti con il nostro Paese perché sanno che noi non abbiamo ambizioni neocoloniali, a differenza per esempio dei francesi. Però, che cosa offriamo noi a questa gente ? Poco.
Concludo con un problema di carattere culturale. Noi abbiamo avuto per molti decenni, nel secolo scorso, delle buone scuole di arabistica; abbiamo avuto missioni archeologiche che svolgevano di fatto funzioni geopolitiche e di intelligence di un certo rilievo; abbiamo avuto centri universitari di un qualche irradiamento. Tutto questo si è abbastanza disperso, anche se esistono ancora delle eccellenze. Credo che un compito delle istituzioni dovrebbe essere quello di rimettere a sistema questi piccoli gioielli culturali che ancora abbiamo e, naturalmente, cercare di ricostituire quelli che mancano, per ridare anche al nostro Paese una maggiore conoscenza di queste aree.
I nostri leader politici, infatti, spesso devono decidere dalla mattina alla sera su temi importanti senza avere la possibilità di contare su un background di informazioni sufficiente per scegliere.
PRESIDENTE. Ringrazio Lucio Caracciolo e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 13.05.
Pag. 15ALLEGATO
Pag. 16
Pag. 17
Pag. 18
Pag. 19
Pag. 20
Pag. 21
Pag. 22
Pag. 23
Pag. 24
Pag. 25
Pag. 26
Pag. 27
Pag. 28
Pag. 29
Pag. 30