Sulla pubblicità dei lavori:
Ferranti Donatella , Presidente ... 3
INDAGINE CONOSCITIVA IN MERITO ALL'ESAME DEL DISEGNO DI LEGGE DEL GOVERNO C. 2798 , RECANTE MODIFICHE AL CODICE PENALE E AL CODICE DI PROCEDURA PENALE PER IL RAFFORZAMENTO DELLE GARANZIE DIFENSIVE E LA DURATA RAGIONEVOLE DEI PROCESSI E PER UN MAGGIORE CONTRASTO DEL FENOMENO CORRUTTIVO, OLTRE CHE ALL'ORDINAMENTO PENITENZIARIO PER L'EFFETTIVITÀ RIEDUCATIVA DELLA PENA, E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 370 FERRANTI, C. 372 FERRANTI, C. 373 FERRANTI, C. 408 CAPARINI, C. 1194 COLLETTI, C. 1285 FRATOIANNI, C. 1604 DI LELLO, C.1957 ERMINI, C. 1966 GULLO, C. 1967 GULLO, C. 2165 FERRANTI, C. 2771 DORINA BIANCHI E C. 2777 FORMISANO
Audizione di Daniele Vicoli, professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna.
Ferranti Donatella , Presidente ... 3
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 3
Ferranti Donatella , Presidente ... 8
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 8
Ferranti Donatella , Presidente ... 8
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 8
Ferranti Donatella , Presidente ... 8
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 8
Ferranti Donatella , Presidente ... 10
Ferraresi Vittorio (M5S) ... 10
Zan Alessandro (PD) ... 10
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 10
Ferranti Donatella , Presidente ... 11
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 11
Ferranti Donatella , Presidente ... 11
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 11
Ferranti Donatella , Presidente ... 11
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 11
Ferranti Donatella , Presidente ... 12
Vicoli Daniele , Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna ... 12
Ferranti Donatella , Presidente ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATELLA FERRANTI
La seduta comincia alle 14.10.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
Audizione di Daniele Vicoli, professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in merito all'esame del disegno di legge del Governo C. 2798, recante modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all'ordinamento penitenziario per l'effettività rieducativa della pena, e delle abbinate proposte di legge C. 370 Ferranti, C. 372 Ferranti, C. 373 Ferranti, C. 408 Caparini, C. 1194 Colletti, C. 1285 Fratoianni, C. 1604 Di Lello, C.1957 Ermini, C. 1966 Gullo, C. 1967 Gullo, C. 2165 Ferranti, C. 2771 Dorina Bianchi e C. 2777 Formisano, di Daniele Vicoli, professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna.
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. La ringrazio, Presidente, anche per l'opportunità che mi è concessa; per me è la prima volta, spero di offrire un contributo utile ai lavori della Commissione.
Ho individuato come oggetto del mio intervento l'articolo 26 del disegno di legge, in tema di princìpi e criteri direttivi sulla cui base il Governo verrebbe chiamato a riformare la disciplina dell'ordinamento penitenziario.
In via preliminare, tuttavia, vorrei fare riferimento ad un tema collaterale all'articolo 26. Il disegno di legge è già molto articolato ma, a mio avviso, c’è una lacuna che andrebbe colmata e in relazione alla quale, pertanto, credo che una riflessione da parte della Commissione sarebbe opportuna. Nell'ambito della fase esecutiva si è soliti distinguere due aree, quella dell'esecuzione in senso stretto, che riguarda – semplifico – il titolo esecutivo, cioè il comando sanzionatorio espresso dalla sentenza, e quella della giurisdizione rieducativa, affidata alla magistratura di sorveglianza.
Se per quest'ultimo versante il disegno di legge manifesta particolare attenzione con la previsione di una delega, in relazione all'altro vi è il più completo silenzio normativo; eppure, si registrano alcuni temi «caldi», di grande attualità nonché di particolare impatto sistematico.
Negli ultimi tempi, gli istituti dell'esecuzione penale si sono rivelati inadeguati a recepire nuove istanze in chiave di legalità della pena. Le origini del problema sono alquanto complesse; manca – questa è la sostanza – un incidente di esecuzione che possa essere attivato nei casi in cui sia necessario rimodulare in melius la pena, per effetto di una sentenza della Corte costituzionale che abbia Pag. 4dichiarato l'illegittimità non della norma incriminatrice, ma di altra norma penale comunque idonea a incidere sul trattamento sanzionatorio.
Il problema ha avuto e ha grande risonanza, sia per ragioni statistiche sia per quelle legate ai possibili effetti in termini di deflazione carceraria, con riguardo alle condanne ormai irrevocabili per reati concernenti gli stupefacenti.
Oggi la materia ha trovato una sorta di assetto giurisprudenziale, o almeno sembrerebbe averlo trovato. Tuttavia, sul piano applicativo restano molteplici i nodi da sciogliere. Credo che un legislatore attento, facendo tesoro degli approdi giurisprudenziali, dovrebbe occuparsi anche di questa materia, guardando – ma qui entriamo già nel campo delle scelte di discrezionalità tecnica – agli articoli 670 e 673 del codice di procedura penale quali possibili sedi di innesti normativi. Naturalmente in quest'ambito non sarebbe affatto necessario il ricorso allo strumento della delega, in quanto basterebbero modifiche mirate e circoscritte.
Anche perché vi è un nesso con la riforma dell'ordinamento penitenziario, al centro della quale, con una scelta da condividere, viene posta la finalità di rafforzare il finalismo rieducativo della pena. Non va dimenticato, infatti, quale sia la valenza originaria di quel principio: vincolare innanzitutto il momento di commisurazione della pena, che è anteriore a quello dell'espiazione. Dunque, se una pena fin dall'origine non è conforme al paradigma legale, evidentemente è inidonea a soddisfare finalità rieducative.
Chiusa questa breve parentesi, vengo all'articolo 26 del disegno di legge. Per ragioni di tempo, ho ritenuto indispensabile selezionare alcuni dei princìpi e criteri direttivi, in particolare quelli di cui alle lettere a), b) e d) del comma 1.
In relazione alla lettera a), mi pare davvero infelice il riferimento alla semplificazione, soprattutto perché quel riferimento è accostato alla previsione di moduli basati sul contraddittorio eventuale e differito. Il messaggio che in questo modo rischia di essere veicolato è quello di un favor per procedure quasi amorfe, dai contorni vaghi e incerti.
Se, come si afferma nella relazione che accompagna il disegno di legge, l'obiettivo è quello di restituire coerenza e organicità alla normativa di ordinamento penitenziario, sul piano delle procedure credo che la parola chiave sia la razionalizzazione dell'attuale sistema. Si potrebbe a tal proposito obiettare che in realtà la semplificazione è di per sé un modo per razionalizzare. Tale assunto è in parte vero ma, se il discorso viene impostato in questi termini – che per la verità allo stato non emergono dalla direttiva così come formulata – allora cambia in modo radicale la prospettiva metodologica.
La ratio, infatti, non può essere quella di snellire e semplificare le forme: diventa quella di ricondurre ad unità i moduli procedimentali. Dico questo perché le procedure che caratterizzano l'ordinamento penitenziario nell'attuale scenario normativo compongono una sorta di galassia, all'interno della quale è addirittura arduo districarsi; persino fare un elenco delle diverse procedure è un'opera piuttosto faticosa e complessa.
L'impegno e la sfida del legislatore devono essere rivolti ad individuare pochi e ben definiti modelli procedimentali, intorno ai quali poi costruire un impianto solido e lineare che prenda il posto dell'attuale ginepraio.
Rispetto a questo disegno normativo l'attuale formulazione della direttiva è assolutamente inadeguata. È quindi necessario a mio avviso uno sforzo analitico, che permetta di «sciogliere» quella direttiva, cioè di svilupparla in una serie di parametri e vincoli più dettagliati per il legislatore delegato. Al riguardo, mi riservo, Presidente, di inviare alla Commissione un testo scritto con le relative indicazioni.
In ogni caso, è solo nell'ottica a cui ho fatto riferimento che ha senso parlare di una possibile gradazione del contraddittorio e quindi del tasso di dialetticità delle diverse procedure. Si tratta di un tema difficile, che rinvia ad un problema a Pag. 5monte: quello del rapporto tra la posta in gioco, cioè il tipo di decisione che il giudice è chiamato ad adottare, e le relative forme.
Utilizzando una banale metafora, si può dire che occorre individuare la bussola, cioè stabilire il criterio guida che deve orientare le scelte del legislatore. E, nelle dinamiche tra delega e successiva fase di attuazione, a farlo dovrebbe essere la prima, cioè dovrebbe essere la legge delega a dettare i criteri che poi il legislatore delegato sarà tenuto a seguire.
Come traspare dalla direttiva, il cuore del problema consiste nel fissare gli equilibri tra il paradigma a contraddittorio indefettibile e quello a contraddittorio solo eventuale, con conseguente ripartizione dei relativi ambiti di operatività.
Allo stato, non vi è dubbio che la delega consentirebbe una significativa estensione della procedura semplificata. Ciò nella misura in cui riferisce in termini generali quella procedura alle decisioni anche del tribunale di sorveglianza, quindi comprese quelle in tema di misure alternative ad eccezione dei casi di revoca delle stesse.
Ebbene, la procedura semplificata nell'universo dell'ordinamento penitenziario ha certamente diritto di cittadinanza, cioè è una procedura che deve trovare spazio applicativo. Il nodo è stabilire quali siano i relativi presupposti.
Importanti indicazioni al riguardo provengono dalla Corte costituzionale, che in due occasioni per la verità non recentissime, nel 2003 (ordinanza n. 352) e nel 2005 (ordinanza n. 291), ha dichiarato infondate le censure mosse all'articolo 69-bis dell'ordinamento penitenziario, il quale per la concessione della liberazione anticipata prevede una decisione assunta dal magistrato di sorveglianza secondo forme non partecipate, con un provvedimento che è poi suscettibile di reclamo davanti al tribunale.
Si tratta quindi di una procedura bifasica a contraddittorio differito ed eventuale (non è l'unica: forme contratte sono previste anche dall'articolo 667, comma 4 del codice di procedura penale): il magistrato di sorveglianza emette in camera di consiglio un provvedimento che può essere oggetto di un reclamo destinato ad essere deciso dal tribunale nelle forme degli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale.
Tra gli argomenti spesi dalla Corte, che ha ritenuto compatibile tale procedura con una serie di princìpi costituzionali, due in particolare vanno richiamati. Il primo è che il diritto di difesa è flessibile e a maggior ragione deve esserlo in relazione a quei procedimenti nei quali il giudice è chiamato ad esprimersi su una domanda presentata dalla stessa parte del cui diritto di difesa si discute in termini di effettiva tutela. Il secondo argomento è che la previsione di una procedura a contraddittorio differito si giustifica alla luce delle peculiarità che caratterizzano l'istituto della liberazione anticipata. Osserva a questo riguardo la Corte come tale istituto si differenzi sul piano strutturale dal complesso delle misure alternative alla detenzione, traducendosi in una mera riduzione quantitativa della pena, cui non si accompagna l'applicazione di alcun regime alternativo a quello carcerario. Si incide quindi sul quantum della pena ma non sulla qualità della stessa, perché non si ha la sostituzione di quello detentivo con un regime alternativo.
Ora, se dal primo assunto, quello in tema di effettività del diritto di difesa, potrebbero ricavarsi indici a supporto dell'opzione che farebbe dei soli casi di revoca delle misure alternative una sorta di enclave, necessariamente caratterizzata dal contraddittorio indefettibile, il secondo argomento speso dalla Corte, a mio avviso, pone un paletto pressoché insuperabile sulla strada della procedura semplificata per le decisioni in materia di concessione delle misure alternative.
Questo perché se, come dicevo, ad essere in discussione sono le modalità qualitative della pena, con l'indispensabile bagaglio di valutazioni che attengono alla persona del condannato, allora non può farsi a meno del tribunale di sorveglianza e della diversità di saperi che lo caratterizzano, né di un confronto dialettico che Pag. 6vada oltre quello al più meramente cartolare (la Consulta ha riconosciuto la facoltà del condannato di presentare memorie a sostegno della richiesta).
Gli indici che si possono ricavare dalla giurisprudenza costituzionale sembrerebbero quindi deporre per la messa al bando di procedure semplificate quando oggetto della decisione sia la concessione di misure alternative.
Posta questa premessa, sul piano tecnico bisogna individuare e delineare i diversi modelli, evitando – su questo aspetto è opportuno insistere – quelle discutibili asimmetrie che oggi segnano il contesto normativo. Faccio ricorso ad alcuni esempi per chiarire che cosa intenda per «discutibili asimmetrie».
Oggi abbiamo procedure non del tutto coincidenti quando in realtà la posta in gioco è sostanzialmente la stessa. Sono previste procedure che possiamo immaginare come dei cerchi concentrici ma sfalsati, perché la relativa disciplina ha un nucleo comune ma alle «estremità» presenta dei profili di specialità.
L'articolo 51-bis dell'ordinamento penitenziario regola l'ipotesi in cui sopravvengano nuovi titoli esecutivi. Se è in corso una misura alternativa, il magistrato di sorveglianza può disporre che la misura cessi con ordinanza reclamabile davanti al tribunale. L'articolo 51-ter dell'ordinamento penitenziario prevede che, se il condannato ammesso ad una misura alternativa incorre in trasgressioni del regime al quale è sottoposto, il magistrato di sorveglianza con decreto motivato sospende la misura e trasmette gli atti al tribunale, che deve decidere entro trenta giorni perché altrimenti il provvedimento provvisorio adottato dal magistrato perde efficacia.
Nel primo caso, il momento di controllo davanti al tribunale è solo eventuale e rimesso all'iniziativa del soggetto interessato che deve proporre reclamo; nel secondo, invece, quel momento di controllo è obbligatorio e attivato d'ufficio dallo stesso magistrato che invia gli atti al tribunale. È vero che le due fattispecie non sono perfettamente coincidenti e presentano alcune differenze, ma non fino al punto da giustificare scelte così diverse, ove si consideri che la posta in gioco è sostanzialmente la medesima, cioè la persistente applicazione di una misura extracarceraria
Se si passa all'ambito della tutela dei diritti del detenuto, il quadro oggi è ancora più irragionevole. Di recente, è stato opportunamente introdotto l'articolo 35-bis dell'ordinamento penitenziario, che disciplina il reclamo giurisdizionale. Si tratta di un reclamo che riguarda la materia disciplinare nonché l'inosservanza di disposizioni della legge di ordinamento penitenziario e del relativo regolamento da cui sia derivato al detenuto un pregiudizio grave attuale all'esercizio dei diritti. Tale reclamo, però, convive con istituti che erano già contemplati dalla legge di ordinamento penitenziario.
Altra forma di reclamo è prevista dall'articolo 14-ter dell'ordinamento penitenziario, reclamo che può essere presentato avverso il provvedimento che disponga o proroghi il regime di sorveglianza particolare dell'articolo 14-bis dell'ordinamento penitenziario, nonché avverso il provvedimento che limiti il diritto del detenuto alla libertà e segretezza della corrispondenza ovvero quello di ricevere in carcere pubblicazioni a stampa (articolo 18-ter comma 6, dell'ordinamento penitenziario).
Una forma di reclamo è prevista anche dall'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario in ordine al provvedimento che disponga o proroghi il regime del cosiddetto «carcere duro». Abbiamo, quindi, tre diverse forme di reclamo.
È per certi versi paradossale che la procedura più garantita sia quella dell'articolo 35-bis dell'ordinamento penitenziario, riguardante la tutela di posizioni soggettive che possono essere di minore rilevanza rispetto a quelle attinte dai provvedimenti con i quali si limita il diritto del detenuto alla corrispondenza o si sospendono le regole del trattamento ordinario.
Anche da questo punto di vista lo sforzo dovrebbe essere quello di individuare una procedura standard, un modello del reclamo giurisdizionale, semmai con Pag. 7alcuni tratti di specialità a seconda dello specifico oggetto. In materia di reclamo ex articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, ad esempio, è quanto mai opportuno che un rappresentante dell'ufficio del pubblico ministero titolare delle indagini preliminari ovvero di quello presso il giudice che procede sia legittimato ad intervenire, perché possono emergere profili suscettibili di interferire o comunque avere rilevanza ai fini dell'attività di accertamento in corso.
Tuttavia, al di là di possibili differenze riguardanti aspetti peculiari, il nucleo e la struttura dell'istituto dovrebbero essere sostanzialmente i medesimi, perché comunque la materia è quella della tutela dei diritti dei detenuti.
Con riguardo alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 26 del disegno di legge, l'aggiustamento necessario è molto più circoscritto e semplice da attuare. Occorrerebbe menzionare, oltre ai presupposti, le modalità di accesso alle misure alternative, per cui le direttiva dovrebbe recitare «revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative». Questa piccola interpolazione avrebbe l'importante effetto di estendere la delega alla disciplina dell'ordine di esecuzione, regolato dall'articolo 656 del codice di procedura penale. Cerco di spiegare l'importanza di questa estensione tematica.
Nelle dinamiche applicative delle misure alternative al carcere uno snodo fondamentale è rappresentato proprio dall'ordine di esecuzione. Nel caso di pene detentive brevi, l'ordine è contestualmente sospeso dal pubblico ministero e diventa quindi una sorta di metronomo, perché detta i tempi di accesso ai benefìci penitenziari.
Questa relazione funzionale tra ordine di esecuzione e accesso alle misure alternative si smarrisce nel testo attuale della direttiva, e ciò sembra confermare una certa refrattarietà del legislatore ad occuparsi dell'esecuzione in senso stretto, come dicevo nella premessa. Eppure le distonie e le ricadute negative – determinate da un difetto di coordinamento – sul piano della fruibilità delle misure alternative sono oggi sotto gli occhi degli interpreti e soprattutto degli operatori del diritto.
Secondo la disciplina dell'articolo 656, comma 5 del codice di procedura penale in vigore, il pubblico ministero sospende l'ordine – semplifico per ragioni di tempo – se la pena detentiva da scontare non supera i tre anni ovvero quattro nei casi di detenzione domiciliare di cui all'articolo 47-ter, comma 1 dell'ordinamento penitenziario.
Due gli inconvenienti di questa disciplina. Il primo: per le ipotesi di detenzione domiciliare concedibile fino a quattro anni è problematica la conoscenza da parte del pubblico ministero delle condizioni soggettive tali da integrare le fattispecie dell'articolo 47-ter, comma 1 dell'ordinamento penitenziario. Non mi soffermo sul punto ma si tratta di fattispecie peculiari, ritagliate sul particolare status in cui versa il condannato (ad esempio, donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente; persona ultrasessantenne anche solo parzialmente inabile). Il pubblico ministero spesso non è in grado di poter conoscere la particolare situazione soggettiva del condannato.
Secondo inconveniente: dopo la modifica intervenuta sul finire del 2013, l'affidamento in prova è concedibile senza necessità di un'osservazione inframuraria per le pene detentive fino a quattro anni. Il comma 3-bis dell'articolo 47 dell'ordinamento penitenziario, di recente introdotto nell'ambito delle misure volte a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, prevede che l'affidamento in prova possa essere concesso in relazione a pene detentive non superiori a quattro anni qualora nell'anno precedente – trascorso anche in libertà – alla presentazione della richiesta il soggetto abbia osservato un comportamento che permetta di formulare una prognosi favorevole.
Nel complesso, in relazione ai due profili evidenziati, l'irragionevolezza sistematica che caratterizza la disciplina è questa: soggetti che dalla libertà potrebbero Pag. 8essere ammessi ad una misura alternativa si vedono costretti a un passaggio carcerario per poi chiedere il beneficio dallo status detentivo, nonostante la pena sia considerata breve dal legislatore e quindi ab origine espiabile in regime di misura alternativa.
Tutto ciò si sarebbe potuto e si potrebbe tuttora evitare stabilendo che il pubblico ministero sospende l'ordine di esecuzione quando la pena detentiva da espiare, anche se sia residuo di maggior pena, non superi i quattro anni. Con questo non voglio dire che quattro sia il numero ideale.
PRESIDENTE. Perché da tre siamo passati a quattro...
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. Questa è stata una scelta molto coraggiosa, ma rispetto al merito della scelta le opinioni possono essere le più diverse e quindi non è mia intenzione individuare in quella soglia il limite ideale, perché questa è una valutazione che spetta al legislatore.
Dovrebbe però esserci coerenza perché, una volta individuata quella soglia, andrebbe proiettata all'indietro sulla disciplina dell'ordine di esecuzione, cosa che oggi non è perché c’è quello scarto significativo di un anno che rende più ampia la disciplina di accesso all'affidamento in prova rispetto a quella della sospensione dell'ordine di esecuzione.
Il soggetto condannato, ad esempio, a tre anni e sei mesi di reclusione si vede notificare un ordine immediatamente esecutivo, nonostante la disciplina dell'affidamento in prova preveda che per le pene detentive fino a quattro anni la misura sia concedibile senza necessità di osservazione intramuraria.
PRESIDENTE. È stata una scelta politica.
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. Per concludere su questo punto, il problema di partenza – e la direttiva già lo individua – è quello di stabilire i presupposti oggettivi e soggettivi di accesso alle misure alternative. Non bisogna, quindi, invertire l'ordine logico, muovendo dall'articolo 656 del codice di procedura penale per poi arrivare alle misure alternative. È necessario prima definire quale sia il regime di concedibilità delle misure; quindi bisognerebbe essere coerenti sul piano dei requisiti che regolano l'automatismo sospensivo disciplinato dall'articolo 656 del codice di procedura penale.
L'occasione, tra l'altro, sarebbe propizia anche per rivedere la disciplina delle eccezioni all'obbligo di sospensione È stata abrogata la lettera c) del comma 9 riguardante i recidivi cosiddetti reiterati e questa è stata una scelta assolutamente meritoria e salutare, anche per i riflessi positivi sul problema del sovraffollamento carcerario.
La fattispecie derogatoria della lettera a), invece, presenta tuttora qualche profilo di possibile incoerenza: non tanto perché contiene un richiamo all'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario, quanto perché a quel richiamo affianca delle specifiche figure delittuose, sulla cui effettiva gravità astratta si potrebbe discutere.
PRESIDENTE. Come ad esempio lo stalking...
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. Lo stalking, ma soprattutto il furto in abitazione o con strappo. Anche perché si tratta di reati per i quali l'ordine è sempre immediatamente esecutivo, nonostante il regime di accesso alle misure alternative non preveda requisiti più rigorosi, come invece accade per i delitti dell'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario.
Per quanto il catalogo di reati previsto da questa disposizione risulti molto eterogeneo e pertanto si possa ritenere non del tutto ragionevole, nell'ottica qui considerata, c’è comunque un comune denominatore, Pag. 9che è quello di dettare presupposti più rigorosi per l'accesso alle misure alternative: scelta che può giustificare una deroga all'obbligo di sospendere l'ordine di esecuzione.
Affronterei ora rapidamente la direttiva della lettera d) del comma 1. La lettera d) riguarda la previsione delle attività di giustizia riparativa e delle relative procedure. Sarebbe opportuno aggiungere il richiamo alla mediazione, quindi non solo alle attività di giustizia riparativa ma anche a quelle di mediazione; nonché il richiamo alla vittima quale soggetto destinatario delle forme di giustizia riparativa.
Il testo quindi diventerebbe: «attività di mediazione e di giustizia riparativa a favore della vittima». Quest'ultima specificazione in particolare avrebbe il pregio di vincolare il ricorso alla giustizia riparativa e ai relativi congegni a quei reati che si caratterizzino per la dimensione individualistica dell'offesa che è insita nel reato, profilo che invece nella versione attuale tende a smarrirsi.
Al di là di questi possibili ritocchi, la direttiva è nel complesso ben strutturata, soprattutto perché contiene un espresso riferimento al «percorso di recupero sociale», nonché per l'aggancio all’«esecuzione delle misure alternative». In particolare, così formulata, la direttiva ha il merito di escludere la rilevanza dei congegni propri della giustizia riparativa sul piano della concedibilità dei benefìci penitenziari, per saldare invece quella rilevanza al cammino rieducativo del condannato e quindi al giudizio sull'avvenuto reinserimento sociale dello stesso.
In questo modo, si evitano fraintendimenti circa il fondamento concettuale del ricorso a pratiche riparative e di mediazione. Infatti, la tensione a riparare il danno che deriva dal reato e più in generale ad intraprendere strade riconciliative deve necessariamente iscriversi in un programma che miri al recupero sociale del condannato. La cornice entro la quale devono trovare sviluppo le relative procedure è quella rieducativa in senso stretto.
In questa ottica, la direttiva è ben formulata nell'agganciare la giustizia riparativa all'esecuzione delle misure alternative, perché, come dicevo, così esclude che la disponibilità del condannato a intraprendere questo tipo di percorso possa valorizzarsi alla stregua di un requisito di ammissione ad una misura alternativa.
La concedibilità delle misure alternative dipende da valutazioni relative alla persona, dalla prognosi favorevole in termini di astensione dalla commissione di ulteriori reati. Una volta che la misura alternativa è stata disposta, allora possono trovare spazio forme di giustizia riparativa e più in generale di riconciliazione, perché servono a connotare quel percorso il cui esito auspicato sono la rieducazione e il reinserimento sociale del condannato anche sul piano dei rapporti personali con la vittima del reato, vale a dire in un'ottica di ricomposizione della frattura che l'episodio criminoso ha determinato.
Il rischio, altrimenti, è quello di piegare gli istituti della giustizia riparativa all'obiettivo di rafforzare il contenuto afflittivo della misura alternativa, cioè di caricarla di finalità in un certo senso punitive del condannato, al quale si impone l'impegno a riparare il danno come se si trattasse di una sorta di scambio il cui premio consiste nel beneficiare della misura alternativa.
In queste dinamiche, verrebbe meno anche quel carattere di spontaneità che la scelta di intraprendere un percorso di riconciliazione con la vittima dovrebbe avere. Si smarrirebbe così il filo rosso delle procedure riconciliative, che si caratterizzano per la componente relazionale tra il condannato e la vittima, ai cui bisogni è necessario guardare anche nella fase esecutiva ma nell'ottica che ho cercato di descrivere. Altrimenti, la vittima rischia di diventare uno strumento piegato al raggiungimento di determinati obiettivi in termini di rafforzamento delle istanze punitive.
Mi scuso se non sono stato molto organico e lineare nell'esposizione, ma ho cercato di contenere il più possibile i tempi dell'intervento. Grazie.
PRESIDENTE. La ringraziamo, è stato un intervento molto costruttivo. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
VITTORIO FERRARESI. Grazie, professore, è stato abbastanza esplicativo, quindi molto chiaro sui tre punti. Vorrei chiederle, visto che altri auditi hanno fatto una precisazione, se, oltre alle problematiche tecniche nell'articolo 26, comma 1, lettera a), non crede che in questa fase ci sia un contraddittorio ridotto e quindi nell'effettività del procedimento ci sia una limitazione del contraddittorio, per cui non sarebbe opportuno procedere a un'ulteriore limitazione ? Andando proprio nell'effettività della situazione e fuori dalle modifiche tecniche al testo che sicuramente ci dovrebbero essere, lei non ritiene che ridurre ulteriormente il contraddittorio in questa materia delicata, vista anche la situazione in cui vivono i magistrati di sorveglianza e tutto l'ambito dell'ordinamento penitenziario, possa essere ulteriormente pregiudizievole ?
ALESSANDRO ZAN. Ringrazio il professor Vicoli per l'approfondimento non banale e articolato di questa proposta di delega. Non so se il professore abbia avuto modo di approfondire i contenuti della lettera h), del comma 1, dell'articolo 26, dato che in questa Commissione è stata incardinata poco tempo fa una proposta di legge che è, il precipitato della modifica in materia di affettività in carcere alla legge 26 luglio 1975, n. 354.
Lei non ritiene che questa lettera, pur introducendo un principio all'affettività in carcere, debba essere forse più approfondita e più pregnante per fornire linee guida più precise ? Nel dibattito e nell’iter parlamentare non vorremmo creare discussioni, doppioni e sovrapponimenti tra una proposta di legge che abbiamo presentato e la delega data al Governo in questa materia.
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. Per quanto riguarda il contraddittorio, quella di ridurre oltre il limite della ragionevolezza il ricorso al contraddittorio nella forma più garantita è un'insidia che emerge dalla direttiva di cui alla lettera a) del comma 1 dell'articolo 26.
Al tempo stesso, però, è impensabile ritenere che tutte le decisioni che la magistratura di sorveglianza è chiamata a prendere debbano essere adottate secondo la procedura tipica degli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale. Ci sono effettivamente temi rispetto ai quali la procedura semplificata può ritenersi idonea e adeguata a soddisfare le esigenze di un accertamento che sia completo, esaustivo e calibrato su quelle che sono le questioni da affrontare.
Il problema è quello di individuare in modo ragionevole e congruo gli equilibri tra l'area della procedura a contraddittorio indefettibile e l'area della procedura a contraddittorio solo eventuale. Su questi temi è già intervenuto – ho letto il resoconto – il professor Giostra, del quale richiamo alcune considerazioni nella misura in cui ha posto l'attenzione sulla necessità di modulare le procedure a seconda della materia su cui il giudice è chiamato a decidere.
Da questo punto di vista, ciò che si poteva fare mi sembra che sia stato fatto in occasione del varo di quelle misure adottate per fronteggiare il problema del sovraffollamento carcerario, con l'individuazione di alcuni settori da trattare secondo la procedura semplificata. Andare oltre quei limiti mi sembrerebbe effettivamente problematico sul piano della tutela del contraddittorio, che verrebbe eccessivamente indebolito.
Come ho cercato di argomentare nel corso dell'intervento, il problema fondamentale è quello di stabilire un nesso tra la posta in gioco, cioè tra l'interesse che è sotteso alla decisione, e le relative forme; di conseguenza, in materia di misure alternative, la procedura deve garantire nella massima misura il contraddittorio, perché si tratta di un tema che va a toccare la qualità della pena e Pag. 11quindi non consente modelli caratterizzati da un contraddittorio solo eventuale e differito.
Venendo all'altra questione, è un tema molto delicato quello riguardante il riconoscimento del diritto all'affettività. Faccio nuovamente riferimento a quanto il professor Giostra ha riferito alla Commissione, anche alla luce di un'indagine di diritto comparato, con accenni ad altri sistemi nei quali quel diritto viene riconosciuto.
Mi sembra però un tema rispetto al quale la delega faccia fatica a indicare dei vincoli più dettagliati per il legislatore delegato. Si tratta, infatti, di un'area tematica caratterizzata da valutazioni talmente discrezionali che il momento attuativo, quindi di redazione del testo normativo delegato, diventa centrale: la delega, a mio avviso, non si presta a individuare vincoli particolarmente stringenti, perché la materia è intrisa di preponderanti scelte a carattere politico. Diverso invece è il discorso, per esemplificare il concetto, per quanto riguarda le procedure. Poiché quest'ultima è una materia molto tecnica, la delega può (ed è opportuno che lo faccia) dettare dei princìpi e criteri direttivi maggiormente selettivi, in modo da indicare la strada al legislatore delegato. Nell'ambito rappresentato dal diritto all'affettività, invece, mi sembra opportuno che la delega resti entro i confini dell'affermazione di principio, per affidare al legislatore delegato il compito di tradurre quell'affermazione di principio in disposizioni di dettaglio.
PRESIDENTE. Tra l'altro, sul punto c’è una proposta di legge specifica che le consegno. Abbiamo un articolato già incardinato e forse questo principio della delega sarà superato se la proposta di legge verrà esaminata dall'Assemblea, dove giustamente ci sono delle scelte più di dettaglio. Se non ci sono altre domande, noi la ringraziamo e aspettiamo il testo che lei ha detto che avrebbe mandato. Il suo intervento ovviamente verrà trascritto e le verrà inviato anche per eventuali correzioni, ma se lei ritiene opportuno integrare...
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. Sì, perché c’è un'iniziativa che riguarda la raccolta di proposte volte a modificare le direttive della legge delega. In particolare, so che si terrà anche un convegno qui a Roma, il prossimo 7 maggio, organizzato sempre dal professor Giostra che su questi temi è uno dei principali studiosi. L'occasione a maggior ragione sarà propizia per far avere alla Commissione un testo che potrà essere utile per i lavori successivi.
PRESIDENTE Quindi se ho capito bene il testo sarà anche frutto di questi lavori.
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. No, perché le proposte di modifica sono preliminari alla discussione nell'ambito di questo convegno e servono a stimolare le varie relazioni che avranno luogo nell'ambito dei lavori del convegno, quindi confido di farlo prima.
PRESIDENTE. Sì, è importante in quanto noi prevediamo entro la fine di aprile di concludere l'indagine conoscitiva perché, come ha visto, il disegno governativo è molto ampio e tocca vari aspetti del processo. Il provvedimento è calendarizzato in Assemblea per il mese di giugno, quindi per noi è molto importante – anche ai fini dell'elaborazione di proposte emendative – poter avere questi suggerimenti. Ci siamo accorti che anche in altri aspetti della delega vanno rafforzati i princìpi e messi dei paletti più adeguati. Per noi sarà quindi un lavoro molto utile, perché in materia abbiamo avuto la collaborazione del professor Giostra e la sua.
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. Per due direttive ho già indicato le possibili modifiche; ma soprattutto Pag. 12è opportuno rendere più analitica la lettera a), del comma 1 dell'articolo 26 che riguarda la direttiva più delicata.
PRESIDENTE. Quindi non ci lascia il contributo che ha adesso ?
DANIELE VICOLI, Professore di diritto processuale penale nell'Università degli studi di Bologna. Si tratta di un testo articolato ma per uso «interno», quindi mi riservo di inviarlo.
PRESIDENTE. Nel ringraziare il professor Daniele Vicoli, dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15.