TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 444 di Mercoledì 17 giugno 2015
MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE DI COMPETENZA IN MERITO AL PERSONALE DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE, AL FINE DI ASSICURARE I LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA
La Camera,
premesso che:
il comma 98 dell'articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311, ha disposto che per «gli enti del servizio sanitario nazionale, sono fissati criteri e limiti per le assunzioni per il triennio 2005-2007, previa attivazione delle procedure di mobilità e fatte salve le assunzioni del personale infermieristico del Servizio sanitario nazionale»;
il comma 173 dell'articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 ha disposto, alla lettera d), il rispetto degli obblighi di programmazione a livello regionale, al fine di garantire l'effettività del processo di razionalizzazione delle reti strutturali dell'offerta ospedaliera e della domanda ospedaliera, con particolare riguardo al riequilibrio dell'offerta di posti letto per acuti e per lungodegenza e riabilitazione, alla promozione del passaggio dal ricovero ordinario al ricovero diurno, nonché alla realizzazione degli interventi previsti dal piano nazionale della prevenzione e dal piano nazionale dell'aggiornamento del personale sanitario, coerentemente con il piano sanitario nazionale;
il comma 198 dell'articolo 1 della legge del 30 dicembre 2005, n. 266, prevede che «gli enti del servizio sanitario nazionale, fermo restando il conseguimento delle economie di cui all'articolo 1, commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure necessarie a garantire che le spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, non superino per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1 per cento»;
il comma 565 dell'articolo 1 della legge 30 dicembre 2006, n. 296, ha disposto alla lettera a) che gli enti del Servizio sanitario nazionale, fermo restando quanto previsto per gli anni 2005 e 2006 dall'articolo 1, commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e, per l'anno 2006, dall'articolo 1, comma 198, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure necessarie a garantire che le spese del personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'Irap, non superino per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1,4 per cento;
il comma 583 dell'articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, riduce i termini temporali del blocco del turnover;
il comma 584 dell'articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, estende al periodo 2016-2020 i vigenti parametri di contenimento della spesa per il personale degli enti ed aziende del Servizio sanitario nazionale;
il comma 72 dell'articolo 2 della legge 23 dicembre 2009, n. 191, prevede che «Gli enti destinatari delle disposizioni di cui al comma 71, nell'ambito degli indirizzi fissati dalle regioni, anche in connessione con i processi di riorganizzazione, ivi compresi quelli di razionalizzazione ed efficientamento della rete ospedaliera, per il conseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa previsti dal medesimo comma:
a) predispongono un programma annuale di revisione delle consistenze di personale dipendente a tempo indeterminato, determinato, che presta servizio con contratti di collaborazione coordinata e continuativa o con altre forme di lavoro flessibile o con convenzioni, finalizzato alla riduzione della spesa complessiva per il personale, con conseguente ridimensionamento dei pertinenti fondi della contrattazione integrativa per la cui costituzione fanno riferimento anche alle disposizioni indicate nell'articolo 1, commi 189, 191 e 194, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, e successive modificazioni;
b) fissano parametri standard per l'individuazione delle strutture semplici e complesse, nonché delle posizioni organizzative e di coordinamento, rispettivamente, delle aree della dirigenza e del personale del comparto del Servizio sanitario nazionale, nel rispetto comunque delle disponibilità dei fondi per il finanziamento della contrattazione integrativa così come rideterminati ai sensi del presente comma»;
l'articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 5 agosto 2010, n. 125, convertito, con modificazioni, dalla legge 1o ottobre 2010, n. 163, ha disposto, nelle regioni sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, il blocco automatico del turnover del personale dipendente e del personale convenzionato e il divieto di effettuare spese non obbligatorie, ai sensi dell'articolo 1, comma 174, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, nel caso in cui i competenti tavoli tecnici di verifica dell'attuazione dei piani accertino, entro il 31 ottobre 2010, il venire meno parziale delle condizioni che hanno determinato l'applicazione delle citate misure, nel limite del 10 per cento e in correlazione alla necessità di garantire l'erogazione dei livelli essenziali di assistenza;
l'ultimo capoverso del comma 2-bis dell'articolo 2 del citato decreto-legge n. 125 del 2010 prevede che la disapplicazione delle stesse norme sopra citate è disposta con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute e il Ministro per i rapporti con le regioni e per la coesione territoriale;
il punto 3 dell'allegato A dell'atto di rettifica dell'atto repertorio n. 98/CSR 2014 prevede una serie di standard minimi e massimi di strutture per singole discipline, un determinato numero di posti letto (3,7/1.000) nonché un tasso di ospedalizzazione (160/1.000 abitanti) legati ad un indice di occupazione del posto letto che deve attestarsi sui valori del 90 per cento) e sulla durata media di degenza, per ricoveri ordinari, che deve essere inferiore mediamente a sette giorni;
il punto 6.2 dell'allegato A dell'atto di rettifica dell'atto repertorio n. 98/CSR 2014 prevede che nei presidi ospedalieri il rapporto percentuale tra il numero di personale del ruolo amministrativo e il numero totale del personale non può superare il valore del 7 per cento;
il recente documento pubblicato dall'Agenas dal titolo «Andamento della spesa sanitaria nelle Regioni anni 2008-2013» indica come «La dinamica del livello di spesa mostra che dal 2010 si registra una contrazione della spesa a dimostrazione che la sanità è stata interessata da politiche di contenimento dei costi, e soprattutto dalla particolare attenzione alle situazioni di squilibrio, si rileva, infatti che la variazione media annua 2010-2013 risulta pari a - 0,28 per cento»;
recentemente il Ministro della salute ha presentato la proposta relativa ai nuovi livelli essenziali di assistenza (lea) dalla quale si evince una maggiore spesa rispetto alla situazione attuale; già attualmente numerose aziende sanitarie e ospedaliere, al fine di garantire gli attuali livelli essenziali di assistenza, sono costrette a ricorrere a convenzionamenti interni e/o a prestazioni lavorative che vengono tuttavia contabilizzate in bilancio sotto la voce di «acquisti di beni e servizi», eludendo di fatto le norme precedentemente riportate e attuando soluzioni spesso più onerose di eventuali contratti, quali, ad esempio, quelli a tempo determinato,
impegna il Governo:
ad istituire, in sede di Conferenza Stato-regioni, un tavolo di confronto al fine di individuare le modalità di rivisitazione, nel rispetto della programmazione come stabilito dalle normative vigenti, delle norme di gestione del personale degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale, facendo sì che i risultati del tavolo di lavoro sopra indicato siano presentati entro e non oltre il 30 aprile 2015, data di scadenza per la presentazione dei costi e dei fabbisogni standard (comma 601 dell'articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190);
al fine di assicurare il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza, ad assumere iniziative per una deroga al blocco del turnover del personale del Servizio sanitario nazionale, applicandola anche alle regioni sottoposte ai piani di rientro;
ad assumere le iniziative di competenza, anche di concerto con la Conferenza delle regioni e delle province autonome, al fine di semplificare ed attuare le procedure di mobilità interregionale del personale sanitario in relazione alle piante organiche e alla garanzia di assicurare i livelli essenziali delle prestazioni in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.
(1-00767)
«Grillo, Baroni, Di Vita, Silvia Giordano, Lorefice, Mantero, Cecconi, Dall'Osso, Tripiedi, Ciprini».
(25 marzo 2015)
La Camera,
premesso che:
le indagini conoscitive condotte dalle commissioni di Camera e Senato sulla sostenibilità del sistema sanitario hanno consegnato al Parlamento ed al Governo impegnative conclusioni: una su tutte attiene alla necessità di non diminuire il finanziamento al sistema sanitario, ma di reinvestire nel sistema i risparmi che si debbono realizzare attraverso un'oculata spending review;
un capitolo decisivo per l'efficienza del Servizio sanitario nazionale riguarda il personale. Come evidenzia la relazione approvata in data 10 giugno 2015 presso la 12a Commissione del Senato della Repubblica, «il personale costituisce oggi uno dei fattori di maggiore criticità del Servizio sanitario nazionale. Nel Servizio sanitario nazionale lavorano oltre 715 mila unità di personale, di cui 665 mila dipendenti a tempo indeterminato, 34 mila con rapporto di lavoro flessibile e 17 mila personale universitario. A questo si aggiunge il personale che opera nelle strutture private (accreditate e non) e, più in generale, nell'industria della salute, fra i quali i 222 mila occupati nella filiera del farmaco (produzione, indotto e distribuzione); la sanità è, quindi, un settore ad alta intensità di lavoro, in gran parte molto qualificato»;
la ragione delle criticità è principalmente da ricondurre ai tanti vincoli imposti, sia alla spesa sia alla dotazione di personale, in questi ultimi anni, in particolare nelle regioni sottoposte a piano di rientro: riduzione della spesa rispetto al livello del 2009; blocco totale o parziale del turnover, in particolare in caso di disavanzo sanitario; blocco delle procedure contrattuali; blocco della indennità di vacanza contrattuale (congelata al 2013); blocco dei trattamenti accessori della retribuzione; contenimento della spesa per il lavoro flessibile; riduzione delle risorse per la formazione specialistica dei medici;
un insieme di vincoli che, se hanno consentito una riduzione dal 2010 al 2012 di oltre 1 miliardo di euro (e ulteriori 700 milioni di risparmio sono già previsti per i prossimi anni), hanno anche prodotto una riduzione della capacità di risposta ai bisogni della popolazione (aumento delle liste di attesa e limitazioni dell'offerta, soprattutto nella componente socio-sanitaria), un aumento dell'età media dei dipendenti (il 36 per cento dei medici ha più di 55 anni e il 30 per cento degli infermieri ha più di 50 anni), un incremento dei carichi di lavoro e dei turni straordinari di lavoro del personale, nonché una serie di problematiche tra cui un malessere diffuso tra gli operatori ed una sempre più diffusa abitudine a ricorrere a varie forme di outsourcing elusive della normativa sul blocco;
l'esperienza insegna che, la prassi dell’outsourcing e del ricorso al lavoro flessibile, spesso necessaria (per garantire i servizi) e per lo più illusoria (quanto a contenimento della spesa), ha di fatto aumentato il precariato all'interno del sistema, anche in settori molto delicati dal punto di vista assistenziale (dal pronto soccorso alla rianimazione) e indebolito progressivamente la sanità pubblica, in ragione del crescente impiego di personale non strutturato, non appartenente al servizio, non destinatario di specifiche attività formative e non titolare di alcune importanti tutele (si pensi, ad esempio, alla tutela della maternità);
si aggiunga che, con la legge di stabilità per il 2015, ulteriori 2,6 miliardi di euro sono stati detratti dai trasferimenti a valere sul fondo sanitario nazionale, aggravando la già precaria condizione dei bilanci regionali, in particolare nelle regioni con piano di rientro;
peraltro, l'approvazione del recente Patto per la salute, l'approvazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 6 marzo 2015 per la stabilizzazione dei lavoratori precari del Servizio sanitario nazionale e la recente pubblicazione del decreto sugli standard organizzativi e strutturali degli ospedali rappresentano la strumentazione normativa che può consentire l'avvio al superamento delle criticità sopra indicate;
è d'obbligo tener conto dei vincoli generali di finanza pubblica che impegnano Parlamento e Governo a reperire le risorse per il rinnovo dei contratti che da anni sono congelati, ma alcune innovazioni possono rappresentare impegno prioritario per il Governo;
tra il personale sanitario un intervento specifico deve riguardare la dirigenza sanitaria, viste sia la peculiarità della funzione svolta a garanzia di un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, sia la peculiarità in materia di reclutamento con laurea magistrale e percorsi formativi soggetti alla normativa europea sulle specializzazioni mediche e sanitarie,
impegna il Governo:
a predisporre una revisione complessiva dei vincoli imposti per la gestione del personale del Servizio sanitario nazionale con provvedimenti volti a favorire il ricambio generazionale;
ad assumere iniziative per preservare la dotazione di personale attraverso assunzioni a tempo indeterminato nei servizi strategici come i servizi d'emergenza-urgenza, terapia intensiva e subintensiva, centri trapianti, assistenza domiciliare;
ad assumere iniziative per limitare il blocco del turnover e, più in generale, per evitare l'adozione di vincoli che producono effetti perversi, perché riducono il personale dipendente ma aumentano il ricorso a personale precario e/o a servizi esterni molto spesso più costosi a parità di attività;
a rimuovere, per quanto di competenza, gli ostacoli che di fatto, oggi, impediscono la mobilità a livello regionale;
a valutare la necessità di assumere iniziative di competenza per introdurre una distinta area negoziale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale ai fini della stipula dei relativi accordi nazionali di lavoro, in aggiunta a quelle già attualmente previste, visto che la dirigenza medica veterinaria e sanitaria costituisce oltre l'80 per cento di tutta la dirigenza pubblica contrattualizzata.
(1-00899)
«Miotto, Lenzi, Gelli, Grassi, Albini, Amato, Argentin, Carnevali, Capone, D'Incecco, Murer, Sbrollini, Luciano Agostini, Albanella, Antezza, Beni, Borghi, Carloni, Carrozza, Fabbri, Fanucci, Fontanelli, Fossati, Fragomeli, Giacobbe, Iacono, Incerti, Marchetti, Marchi, Montroni, Rampi, Mariano, Patriarca, Lodolini, Casellato, Cominelli, Valeria Valente, Mognato, Preziosi».
(12 giugno 2015)
La Camera,
premesso che:
nell'ambito di un ampio processo volto alla razionalizzazione e riorganizzazione della rete assistenziale, si è assistito all'adozione di misure relative alla gestione del personale degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale che hanno progressivamente comportato una contrazione nelle assunzioni del personale sanitario al fine di un ridimensionamento della spesa complessiva;
la legge 23 dicembre 2014, n. 190 (articolo 1, comma 583) prevede che gli attuali strumenti di contenimento della spesa per il personale degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale siano estesi al periodo 2016-2020;
il personale sanitario costituisce oggi uno dei fattori di maggiore criticità del Servizio sanitario nazionale e i vincoli imposti, tra cui il blocco totale e parziale del turnover, se, da un lato, hanno consentito una riduzione della spesa sanitaria, dall'altro, hanno determinato una contrazione dell'offerta sanitaria con riflessi anche sui livelli essenziali di assistenza (lea) e sull'uniforme garanzia dei medesimi sul territorio nazionale;
a seguito del verificarsi di situazioni di carenza di personale necessario per garantire i servizi sanitari essenziali, si è sempre più diffusa la pratica dell’outsourcing e del ricorso al lavoro flessibile, eludendo in tal modo la normativa in materia ed aumentando il precariato all'interno del sistema;
allo stato attuale, le stesse caratteristiche del Servizio sanitario nazionale consentono di gestire eventuali carenze o eccedenze di personale solo a livello regionale, poiché, se si rilevasse un'eccedenza di personale in una singola regione e contemporaneamente una carenza in un'altra, oggi non sarebbe possibile governare il flusso per riequilibrare la distribuzione di risorse umane a livello nazionale;
il Patto per la salute 2014-2016 prevede, oltre a misure volte a stabilizzare il personale precario e ridurre i vincoli del turnover, l'introduzione di standard di personale per livello di assistenza, anche attraverso la valorizzazione delle iniziative promosse a livello comunitario, al fine di determinare il fabbisogno dei professionisti sanitari a livello nazionale (articolo 22);
l'adozione di efficaci misure volte alla razionalizzazione e gestione del personale sanitario, idonee al assicurare l'erogazione dei livelli essenziali di assistenza e il contenimento della spesa pubblica, presuppone che venga accertato il fabbisogno di personale sanitario a livello nazionale e per livello di assistenza;
a fronte del verificarsi di situazioni di carenza di personale sanitario è quanto mai necessario trovare soluzioni adeguate, puntando all'utilizzo ottimale delle risorse umane, anche attraverso politiche che favoriscono la mobilità,
impegna il Governo:
ad adottare, in tempi rapidi, una metodologia, mediante accordo in sede di Conferenza Stato-regioni, che consenta di determinare il fabbisogno di personale sanitario a livello nazionale e regionale in modo univoco, in quanto determinato in base a uniformi e definiti parametri e criteri di valutazione, nonché a garantire un'attività di monitoraggio, a livello centrale, per la sopraddetta iniziativa;
a valutare, ferma restando la competenza regionale in materia, ogni iniziativa di competenza, anche di concerto con la Conferenza delle regioni e delle province autonome, affinché siano individuate misure volte a realizzare la mobilità interregionale del personale sanitario.
(1-00900)
«Calabrò, Binetti, Dorina Bianchi».
(12 giugno 2015)
La Camera,
premesso che:
con la legge n. 833 del 1978, il nostro Paese ha istituito il Servizio sanitario nazionale. A 37 anni dalla sua istituzione il Servizio sanitario nazionale continua, nonostante tutto, a rappresentare un pilastro fondamentale del sistema di welfare;
per poter continuare a garantire l'universalità e l'equità, la sanità pubblica ha però bisogno di un rafforzamento capace di garantire effettivamente a tutti il diritto alla salute e alle cure, l'equità di accesso ai servizi, l'universalità e il finanziamento pubblico;
in realtà, si sta sempre più andando verso un sistema sanitario a due binari: uno pubblico sempre meno efficiente e non adeguato, e destinato alle fasce sociali medie e basse, e un sistema misto pubblico-privato di sanità integrativa, finanziato con assicurazioni sanitarie private o di categoria, e con prestazioni spesso quali-quantitativamente migliori destinate ai cittadini con maggiori possibilità economiche. Le politiche del definanziamento al Servizio sanitario nazionale e dei ticket intraprese in questi anni stanno quindi rendendo competitive le prestazioni private e mettono in crisi i diritti alle prestazioni sanitarie di larghe fasce di popolazione;
a confermare la strada intrapresa, che, di fatto, conduce a soluzioni privatistiche di uscita dalla crisi, è la ricerca Censis-Rbm Salute, presentata proprio nei giorni scorsi a Roma, dalla quale emerge come il servizio sanitario pubblico è sempre più ingolfato per le lunghe liste d'attesa e per gli italiani diventa più conveniente ricorrere alle strutture private. La scelta del privato spesso diventa un obbligo per accorciare i tempi. Così si ha un miliardo di euro in più in un anno uscito dalle tasche degli italiani, per un totale di 33 miliardi nel 2014 (+2 per cento rispetto all'anno precedente). A tanto ammonta la spesa sanitaria «out of pocket», mentre la spesa sanitaria pubblica supera i 110 miliardi di euro;
il rapporto Censis, evidenzia come «pagare diventa per tutti, anche per le persone con redditi bassi, la condizione per accedere alla prestazione in tempi realistici». Oltre 9 milioni di italiani hanno effettuato visite specialistiche nell'ultimo anno nel privato a pagamento intero (2,7 milioni di questi sono persone a basso reddito);
le risorse per i servizi e il personale del Servizio sanitario nazionale si sono ridotte e si vanno sempre più riducendo, tanto da compromettere il diritto stesso alla salute e alle cure dei cittadini;
lo stesso Documento di economia e finanza 2015, presentato dal Governo e approvato dal Parlamento nell'aprile 2015 non prevede alcuna inversione di tendenza nella riduzione di risorse, ma anzi stima una crescita per i prossimi anni della spesa sanitaria inferiore a quella del prodotto interno lordo, con un progressivo calo dal 6,8 per cento del 2015 al 6,5 per cento dell'anno 2019, nel rapporto fra spesa sanitaria e prodotto interno lordo;
il Documento di economia e finanza prevede un taglio di 2,352 miliardi di euro al Fondo sanitario nazionale a decorrere dal 2015, con conseguente riduzione di pari importo del livello di finanziamento del Servizio sanitario nazionale. In realtà, il totale dei tagli è di 2,637 miliardi di euro, in quanto ai 2,352 miliardi di euro di minore stanziamento del fondo sanitario, stabilito dall'intesa Stato-regioni del 26 febbraio 2015, si sommano i 285 milioni di euro in meno per l'edilizia sanitaria, previsti anch'essi dall'intesa di febbraio 2015;
il Governo prosegue con la politica dei tagli al Servizio sanitario nazionale, senza ricordare che la spesa sanitaria pubblica italiana risulta inferiore a quella dei principali Paesi europei: poco meno di 2.500 dollari pro capite nel 2012, a fronte degli oltre 3.000 dollari spesi in Francia e Germania. Il servizio sanitario pubblico italiano rimane quindi tra i meno costosi al mondo. Nelle statistiche internazionali, l'Italia si presenta con una spesa più bassa della media Ocse e della media dell'Unione europea;
la stessa Corte dei conti, nella sua recente «Relazione sulla gestione finanziaria per l'esercizio 2013 degli enti territoriali», ha ricordato come «Ulteriori risparmi, ottenibili da incrementi di efficienza, se non reinvestiti prevalentemente nei settori dove più carente è l'offerta di servizi sanitari, come, ad esempio, nell'assistenza territoriale e domiciliare oppure nell'ammodernamento tecnologico e infrastrutturale, potrebbero rendere problematico il mantenimento dell'attuale assetto dei LEA, facendo emergere, nel medio periodo, deficit assistenziali, più marcati nelle Regioni meridionali, dove sono relativamente più frequenti tali carenze»;
in un'intervista al quotidianosanita.it dell'8 maggio 2015, il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, dichiarava, tra l'altro, che «la sanità, al di là dei risparmi di efficienza ottenibili, ha bisogno di più risorse soprattutto su tre fronti: innovazione, investimenti, ricerca e personale. (...) Implementeremo con azioni specifiche per dare finalmente fiato al personale del SSN che da anni ha il contratto e il turn over bloccati»;
è auspicabile che il Ministro della salute Lorenzin, coerentemente con le sopraddette dichiarazioni, intervenga per superare l'insostenibilità delle restrizioni imposte al personale del Servizio sanitario nazionale in questi anni;
i contratti per il personale dipendente del Servizio sanitario nazionale sono bloccati da 6 anni, con condizioni di lavoro peggiorate e sempre più gravose e con lavoratori privati di prospettive professionali ed economiche, e tutto questo con ricadute negative sempre più evidenti, a cominciare dalla capacità di garantire i livelli essenziali di assistenza;
non c’è bisogno di attendere la sentenza della Corte costituzionale in calendario a partire dal 23 giugno 2015, chiamata a decidere sulla legittimità del blocco degli stipendi degli impiegati statali, per capire che il blocco per i dipendenti della pubblica amministrazione, protrattosi per troppi anni, sia una misura intollerabile e ingiusta, e questo forse ancora di più laddove questo blocco colpisce un settore fondamentale quale quello della sanità pubblica;
dal 2009, con la crisi, al 2013 gli occupati nel Servizio sanitario nazionale sono diminuiti di oltre 23 mila unità. Rispetto al 2012 si è registrato un calo di oltre 3mila unità (-0,5 per cento);
il blocco del turnover per il personale impedisce il ricambio generazionale, con carichi di lavoro sempre più pesanti che si ripercuotono ovviamente sull'assistenza sanitaria, e, di più, nell'attività dei pronto soccorso, per definizione più stressante e comunque attiva 24 ore su 24;
come ricorda il documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, approvato dalle Commissioni parlamentari V (Bilancio) e XII (Affari sociali) della Camera dei deputati il 4 giugno 2014, le politiche di contenimento del costo del personale dovrebbero tener conto dell'usura del personale medesimo, anche in considerazione del fatto relativo all'aumento dell'età media dei medici del Servizio sanitario nazionale. Il blocco del turnover ha fatto sì che circa un terzo del totale abbia un'età tra i 51 e i 59 anni. Da qui la propensione a supplire alla carenza di personale anche attraverso esternalizzazioni dei servizi sanitari e non sanitari e utilizzo di personale in convenzione;
il medesimo documento conclusivo sottolinea come le «perduranti restrizioni all'ingresso di nuovi medici, potrebbe tradursi nel prossimo futuro in una riduzione dell'offerta sanitaria. In tale contesto sono state segnalate alcune criticità da parte dei giovani medici, che ritengono di trovarsi in una situazione di precarietà lavorativa e sotto tutela previdenziale, con un percorso formativo troppo lungo»;
una delle conseguenze di politiche che continuano da anni a puntare al blocco dei contratti e del turnover è quello di dequalificare il lavoro, visto sempre più come opportunità di risparmio e non come investimento e occasione di miglioramento della qualità dei servizi socio-sanitari erogati. È evidente così il rischio di un aumento dei fenomeni diffusi di demansionamento, dove organici carenti obbligano chi lavora a dover spesso svolgere il lavoro anche degli altri, e di incremento del ricorso al precariato;
devono essere programmate risorse aggiuntive per lo sviluppo della rete territoriale finalizzata principalmente alla prevenzione e alla deospedalizzazione e a garantire in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale l'appropriatezza delle prestazioni. Occorre investire oggi sul personale, sull'assistenza domiciliare e territoriale, nella consapevolezza che questi ambiti possono davvero consentire nel prossimo futuro importanti risparmi al Servizio sanitario nazionale, oltre che evidenti benefici alla collettività e un ritorno occupazionale indispensabile,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative volte a rivedere le politiche che limitano le assunzioni di personale del Servizio sanitario nazionale, anche per le regioni sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, con particolare riguardo a quelle che manifestino criticità nell'erogazione delle prestazioni proprio a causa del blocco del turnover, al fine di garantire la piena erogazione dei livelli essenziali di assistenza e consentire la riorganizzazione e riqualificazione del Servizio sanitario nazionale;
ad avviare le opportune iniziative volte ad avviare un condiviso e graduale percorso di stabilizzazione del personale precario degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale;
ad adoperarsi per una reale riqualificazione della spesa sanitaria, prevedendo che i risparmi conseguiti all'interno del Servizio sanitario nazionale siano reinvestiti all'interno del medesimo sistema sanitario, anche al fine di consentire una nuova politica occupazionale, quale premessa indispensabile per il potenziamento qualitativo e quantitativo dell'offerta sanitaria nel nostro Paese;
ad assumere le iniziative di competenza volte a favorire una migliore mobilità regionale e interregionale, concertata con il lavoratore, del personale sanitario;
a garantire che l'avviata razionalizzazione della rete ospedaliera sia contestualmente affiancata da un reale e convinto sviluppo dell'assistenza territoriale, affinché la riduzione/riconversione delle strutture ospedaliere avvenga in presenza di una contemporanea maggiore offerta a garanzia dei livelli di assistenza sociosanitaria distrettuale (centri aperti 24 ore su 24, assistenza domiciliare integrata, residenziale, semiresidenziale ed altro), anche a garanzia degli attuali livelli occupazionali;
ad individuare, fin dal prossimo disegno di legge di stabilità, le risorse necessarie per consentire una ripresa dei finanziamenti al Servizio sanitario nazionale e alle politiche sociali, entrambi al di sotto della media dell'Unione europea e dell'Ocse.
(1-00904)
«Nicchi, Airaudo, Placido, Scotto, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Marcon, Melilla, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piras, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaccagnini, Zaratti».
(15 giugno 2015)
La Camera,
premesso che:
in data 10 giugno 2014 è stata approvata presso la 12a Commissione parlamentare (igiene e sanità) del Senato della Repubblica la relazione congiunta del Parlamento che fornisce gli esiti dei lavori e dell'indagine conoscitiva condotta dalle Commissioni competenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica sull'efficienza del Servizio sanitario nazionale;
la Commissione ha iniziato il suo percorso d'indagine nel 2013 e ha condotto numerose audizioni, nel corso delle quali sono emersi importanti profili tutti legati dal comune denominatore di cercare di trovare il bandolo di una matassa che aveva come minimi termini il servizio sanitario su base nazionale e le politiche finanziarie, evidenziando come si tratti di una coperta troppo corta che deve trovare una sua quadra;
la premessa è la considerazione di come si sia disgregato il sistema in maniera dirompente. In Italia sono presenti ventuno sistemi sanitari diversi. Le diseguaglianze si ravvisano a partire dalla disposizione di cui all'articolo 1, comma 34, della legge n. 662 del 1996, che iniziò a modificare i criteri di riparto di finanziamento: regioni con lo stesso numero di abitanti avevano all'epoca un dislivello di finanziamento di 900 miliardi di vecchie lire all'anno. Poi c’è tutto il resto, ossia la modifica del Titolo V della Costituzione e le disposizioni dettate dalla partecipazione dell'Italia all'Unione europea;
la legge finanziaria del 2000 ebbe inoltre l'arduo compito di eliminare il vincolo di destinazione del Fondo sanitario nazionale, che diventa bilancio autonomo delle regioni;
per le regioni con elevati disavanzi sanitari e per evitarne sostanzialmente il default, la legge n. 191 del 2009 (legge finanziaria per il 2010), come previsto dal Patto per la salute 2010-2012, stabilì nuove regole per i piani di rientro e per il commissariamento delle regioni. Oltre a ridurre al 5 per cento il livello di squilibrio economico (in precedenza fissato al 7 per cento), per la presentazione del piano di rientro regionale, ha infatti modificato la procedura per la predisposizione e l'approvazione del piano, nonché il procedimento di diffida della regione e della nomina di commissari ad acta;
pertanto, come noto, accertato il deficit la regione presenta, entro il 30 giugno, il piano, di durata non superiore al triennio, elaborato con l'Agenzia italiana del farmaco e Agenas. Dopo l'approvazione regionale, la valutazione è compiuta dal tavolo tecnico di monitoraggio, a cui partecipano rappresentanti dei Ministeri competenti, delle regioni e della Conferenza Stato-regioni. Decorsi i termini previsti, il Governo valuta il piano e lo approva. In caso di valutazione negativa lo stesso Governo nomina commissario ad acta per gli adempimenti necessari;
ciò comporta, oltre all'applicazione delle disposizioni già vigenti, l'automatica adozione di misure restrittive e sanzionatorie verso la regione, tra le quali la sospensione dei trasferimenti erariali a carattere non obbligatorio, la decadenza dei direttori generali, amministrativi e sanitari, e l'incremento delle aliquote. Le regioni, già sottoposte ai piani di rientro e già commissariate, possono, in alternativa alla prosecuzione del piano di rientro secondo programmi operativi coerenti con gli obiettivi della gestione commissariale, presentare un nuovo piano di rientro, che determina, con la sua approvazione, la cessazione del commissariamento (articolo 2, comma 88);
il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, dispose, inoltre, per le regioni sottoposte ai piani di rientro, ma non commissariate, la possibilità di proseguire, alla scadenza del 31 dicembre 2009, il piano di rientro per il triennio 2010-2012, al fine anche dell'attribuzione della quota di risorse finanziarie, già subordinata, a legislazione vigente, alla piena attuazione del piano;
sempre il decreto-legge n. 78 del 2010 dispose, per le regioni con piani di rientro e commissario ad acta, la ricognizione definitiva dei debiti accertati, la predisposizione di un piano che definisca modalità e tempi di pagamento dei debiti medesimi, il divieto di intraprendere o proseguire, fino al 31 dicembre 2010, azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni in oggetto;
la legge di stabilità 2011 (articolo 1, commi 50-52, della legge n. 220 del 2010) concesse, per l'esercizio 2010, che le regioni che non avevano attuato completamente il loro piano potessero provvedere al disavanzo sanitario con risorse proprie, purché le misure di copertura fossero adottate entro il 31 dicembre 2010;
sempre la legge di stabilità del 2011 previde il divieto di intraprendere o proseguire fino al 31 dicembre 2013 (articolo 1, comma 51, così modificato, dall'articolo 17, comma 4, lettera e), del decreto-legge n. 98 del 2011 e, successivamente, dall'articolo 6-bis, comma 2, lettere a) e b), del decreto-legge n. 158 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 189 del 2012), azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni sottoposte ai piani di rientro e commissariate alla data dell'entrata in vigore del decreto legge n. 78 del 2010. Previde inoltre, sempre dettata dalla difficoltà economica dei tempi, una deroga del 10 per cento del blocco automatico del turnover del personale sanitario dal 1o gennaio 2011;
il decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2010, all'articolo 15, comma 20, ha da ultimo disposto per un ulteriore triennio, dal 2013 al 2015, l'applicabilità delle disposizioni di cui all'articolo 11, comma 1, del decreto-legge n. 78 del 2010: le regioni in piano di rientro e non commissariate proseguono i programmi previsti nel piano di rientro, a condizione che abbiano garantito l'equilibrio economico nel settore sanitario, ma non abbiano raggiunto gli obiettivi strutturali previsti. In particolare, l'equilibrio economico è garantito se la regione non raggiunge o supera il 5 per cento di squilibrio economico ovvero meno del 5 per cento, per il quale gli automatismi fiscali o altre risorse di bilancio della regione non garantiscono la copertura integrale del disavanzo medesimo, (articolo 2, commi 77 e 88, della legge n. 191/2009 – legge finanziaria per il 2010);
la prosecuzione ed il completamento del piano di rientro sono dunque le condizioni per l'attribuzione di risorse aggiuntive e della quota premiale del finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Dal 2013, una quota premiale annua, pari allo 0,25 per cento delle risorse ordinarie previste per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale, è assegnata alle regioni che hanno adottato misure idonee per una corretta gestione dei bilanci sanitari (articolo 15, comma 23);
l'articolo 4-bis del decreto-legge n. 158 del 2012 (cosiddetto «decreto sanità») prevede per le regioni in piano di rientro la disapplicazione del 15 per cento del blocco del turnover per il 2012;
il decreto-legge n. 95 del 2012 (articolo 15, commi 21-25) interviene, tra l'altro, sul contenimento della spesa del personale sanitario. La disciplina modifica quanto previsto sul contenimento della spesa per il personale del Servizio sanitario nazionale dall'articolo 2, commi 71, 72 e 73, della legge n. 191 del 2009 (legge finanziaria per il 2010), per il triennio 2010-2012 e per gli anni 2013 e 2014;
in particolare, viene confermato, per il 2013 e per il 2014 ed esteso al 2015, il livello di spesa stabilito per il 2004, ridotto dell'1,4 per cento, al netto dei rinnovi contrattuali successivi al 2004. Per il conseguimento del sopraddetto obiettivo le regioni adottano interventi sulla rete ospedaliera e sulla spesa per il personale (fondi di contrattazione integrativa, organizzazione delle strutture semplici e complesse, dirigenza sanitaria e personale del comparto sanitario);
la regione è ritenuta adempiente al raggiungimento degli obiettivi previsti, a seguito dell'accertamento eseguito dal tavolo di verifica degli adempimenti (ai sensi dell'articolo 2, comma 73 della legge n. 191 del 2009). Per gli anni 2012, 2013 e 2014, la regione che non ha conseguito i risultati previsti è adempiente, ove abbia almeno assicurato l'equilibrio economico (ai sensi dell'articolo 2, comma 73, della legge n. 191 del 2009);
sempre per quanto disposto dal decreto-legge n. 95 del 2012, dal 2015, la regione giudicata adempiente deve conseguire l'obiettivo finale dell'1,4 per cento. Per le regioni sottoposte ai piani di rientro dai deficit sanitari o ai programmi operativi di prosecuzione di detti piani restano comunque fermi gli specifici obiettivi ivi previsti in materia di personale;
le misure di contenimento della spesa del personale della pubblica amministrazione (articolo 16 del decreto-legge n. 98 del 2011) si applicano anche al personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale (medici di medicina generale e pediatri di libera scelta);
in tutto questo, non si può tralasciare il tema attinente la definizione dei costi standard, anche alla luce dei principi fissati dal decreto legislativo n. 68 del 2011. Il Patto per la salute 2014- 2016 ha ribadito la regola per la quale il fabbisogno sanitario standard deve essere determinato in coerenza con i livelli essenziali di assistenza erogati in condizioni di efficienza ed appropriatezza, assumendo come base i valori di costo rilevati nelle regioni benchmark. Ma il significato di costo standard è ancora lontano da una definizione univoca e non è del tutto adeguato intenderlo come sinonimo di «spesa pro capite standard» perché se ne perde una parte importante del potenziale di razionalizzazione del processo di allocazione delle risorse. In definitiva, i costi standard non sono la panacea e sotto certi aspetti potrebbero degenerare e costituire uno strumento per eludere la possibilità del controllo reale e di andare a incidere da subito sulla spesa sanitaria;
è dunque ormai evidente come sia indispensabile un controllo adeguato sulla gestione delle risorse, che è la variabile su cui si può certamente essere determinanti per migliorare sia i servizi che la spesa relativa al personale;
il sistema è infatti carente di controlli. Non avendo più la possibilità di individuare strumenti di controllo sugli atti preventivi, bisognerebbe cercare di potenziare a livello centrale il più possibile, d'intesa con le regioni, la struttura locale per poter determinare un controllo e un monitoraggio, considerando che anche le regioni hanno l'interesse al monitoraggio, e non potrebbe essere altrimenti, perché il bilancio delle regioni per l'80 per cento è spesa sanitaria;
è infine chiaro a tutti che le regioni che sono andate in piano di rientro dalla rianimazione sono finite in terapia intensiva. Se vengono lasciate sole, non andranno a finire nei reparti, ma ritorneranno di nuovo immediatamente in rianimazione, perché è molto difficile tenere a redini l'enormità della spesa da gestire;
l'altro aspetto sicuramente da individuare è se, in particolare nel contesto delle regioni con un piano di rientro, la spesa si sia ridotta tagliando i servizi. Anche in tal caso è necessario improntare un adeguato sistema di controlli successivi per appurare che non ci sia stata un'aggressione degli sprechi sui beni e servizi. Non si ha, ad oggi, un sistema di monitoraggio che fornisca costantemente dati aggiornati, soprattutto in tutte quelle regioni dove fino a qualche tempo addietro la situazione contabile veniva tramandata non attraverso la veridicità e la certificazione dei bilanci, ma attraverso un'imprecisa tenuta dei dati. E questo perché gli sprechi e la cattiva gestione delle pur limitate risorse stanno creando la falsa e ingiusta convinzione che si possa risparmiare tagliando anche sul piano della qualità dell'assistenza;
ad esempio, è quanto emerge dai dati dello «Studio per l'individuazione di possibili interventi di contenimento della spesa sanitaria» elaborato dal centro studi SIC-sanità in cifre di FederFarma, dove si legge che «Le regioni volatilizzano 1,4 miliardi di euro l'anno tra sprechi e inefficienze»;
sulla base dell'analisi di 42 indicatori di performance differenziati in 5 sottogruppi, sono stati «esplorati» i sistemi sanità di 34 Stati europei e nel ranking europeo il Sistema sanitario nazionale italiano risulta al 21esimo posto per la «qualità» e al 26esimo posto per la «prevenzione e la qualità»,
impegna il Governo:
ad assumere ogni iniziativa di competenza, e nel rispetto delle prerogative attribuite alle regioni in materia sanitaria dalla normativa vigente, atta a porre in essere gli opportuni controlli per fornire un quadro aggiornato, riferito all'intero territorio nazionale, delle conseguenze derivanti dalle operazioni di contenimento della spesa sul piano del rispetto dei livelli essenziali di assistenza;
a procedere ad un monitoraggio degli effetti degli interventi di razionalizzazione e contenimento della spesa per rimuovere tutti gli ostacoli volti ad impedire un'adeguata gestione del personale degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale, anche mediante l'istituzione di opportuni tavoli di confronto con le categorie interessate al fine di superare, ove ce ne sia la possibilità, il blocco del turnover del personale e favorire l'adeguata allocazione delle professionalità presenti in campo medico ed infermieristico.
(1-00905) «Palese, Fucci».
(15 giugno 2015)
La Camera,
premesso che:
come evidenziato dalle conclusioni dell'indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale promossa dalle Commissioni affari sociali e bilancio, tesoro e programmazione della Camera dei deputati, la spesa per il personale del sistema sanitario ammonta a circa 36 miliardi di euro, una cifra pari a un terzo del finanziamento del Servizio sanitario nazionale, e dunque rappresenta uno dei principali capitoli di spesa sotto la lente d'ingrandimento per la razionalizzazione dei costi in sanità;
secondo il rapporto della Stem, la struttura tecnica di monitoraggio sulla sanità che opera presso il dipartimento degli affari regionali della Conferenza Stato-regioni, nel triennio 2010-2012 si è registrato un calo generalizzato, anche se non omogeneo, tra le regioni, soprattutto quelle in piano di rientro, sia del costo complessivo che della dotazione organica del personale del Servizio sanitario nazionale;
lo stesso rapporto mette in luce una marcata differenza del costo medio del personale, sia in generale sia per i singoli ruoli, tra le regioni e tra aziende sanitarie locali all'interno di una stessa regione. In alcune regioni, soprattutto in quelle in piano di rientro, è imputabile al blocco del turnover l'influenza sui costi medi elevati, gonfiati dal ricorso a prestazioni aggiuntive retribuite in base ad accordi integrativi aziendali;
parimenti è emerso che il costo medio della dirigenza di vertice dipende esclusivamente dalle scelte politiche delle regioni e non da variabili come il reddito medio, il finanziamento pro capite o la popolazione residente;
le politiche di contenimento del costo delle risorse umane non possono ignorare il progressivo invecchiamento e l'usura del personale medico. L'età media del personale è, infatti, cresciuta e oggi si attesta a 47,3 anni. I professionisti over 55 rappresentano il 27 per cento del personale, mentre un terzo dei medici (115 mila) ha tra i 51 e i 59 anni. Si è di fronte, dunque, a un difficile ricambio della dirigenza medica, con vere e proprie barriere all'accesso per i più giovani;
in questo quadro va rafforzato il sostegno alla formazione dei giovani medici, intensificando e consolidando gli sforzi meritoriamente compiuti dai Ministeri della salute, dell'istruzione, dell'università e della ricerca e dell'economia e delle finanze che hanno portato a 6.000 il numero dei contratti di formazione specialistica;
a ciò si aggiunga il delicato tema della garanzia dei contratti di formazione per i medici specializzandi nelle aree più marginali e disagiate del sistema, che diventa sempre più rilevante, in relazione alla riduzione del numero complessivo degli specialisti e al previsto picco dei pensionamenti. È il caso, ad esempio, della regione Sardegna e di tutte le altre regioni esposte al rischio della fuga dei futuri medici verso aree del Paese che offrono maggiori opportunità, con la conseguente possibilità di veder impoverire quantità e qualità del proprio personale medico;
oltre a tale rischio di dispersione su base territoriale, incombe un'ulteriore vera e propria desertificazione legata all'ambito di azione della scuola di specializzazione, con scuole chirurgiche, come cardiochirurgia, neurochirurgia, ortopedia, ginecologia e otorinolaringoiatra, a rischio abbandono per l'elevatissima alea medico-legale connessa all'esercizio di tali attività professionali;
il processo di aziendalizzazione in sanità è andato progressivamente in crisi, non tanto per un eccesso di privatizzazione, ma per le contraddizioni irrisolte del sistema pubblico soffocato da una enormità di norme di impronta burocratica e dalla tendenza dei decisori politici a intervenire con misure di regolazione formale non coerenti con i principi che hanno ispirato l'aziendalizzazione;
l'articolo 22 del Patto per la salute tra Stato e regioni, siglato ormai quasi un anno fa, affronta in maniera puntuale le principali problematiche che riguardano le risorse umane del sistema sanitario nazionale,
impegna il Governo:
a prevedere un'attenuazione dei vincoli per le assunzioni per quelle regioni che, pur avendo avviato concreti percorsi di rientro, manifestino pesanti criticità nell'erogazione delle prestazioni a causa del blocco del turnover, cosa che appare preferibile alle esternalizzazioni nelle attività sanitarie core ed evita il rischio del mancato trasferimento di know how tipico del personale in convenzione;
a promuovere, nell'ambito delle proprie competenze, una maggiore autonomia delle aziende sanitarie locali, attivando nei loro confronti una virtuosa logica premiale che consenta alle aziende che si sono distinte per best practice di far valere a cascata lo stesso meccanismo nelle strutture organizzative interne, al fine di migliorare l'equilibrio tra costi e produzione e la complessiva qualità delle prestazioni erogate al paziente;
a fornire elementi sull'attuale situazione delle dotazioni organiche del personale sanitario del Servizio sanitario nazionale, con specifico focus sulle dinamiche previste per il turnover della dirigenza medica di cui è imminente il picco dei pensionamenti e con speciale attenzione alle iniziative che si intendono intraprendere per garantire la disponibilità delle figure professionali meno presenti sul mercato nelle aree più marginali del Paese;
a predisporre un programma del turnover del personale sanitario specializzato in tutte le regioni italiane, con particolare riferimento a quelle sottoposte a più stringente contingentamento delle assunzioni per effetto dei vincoli normativi ed economici dei piani di rientro, con l'obiettivo di superare la precarietà delle posizioni con contratto a tempo determinato che rendono difficoltosa la piena formazione delle nuove risorse professionali e il trasferimento e il consolidamento delle conoscenze e della competenza, indispensabili per la garanzia della miglior qualità dell'assistenza sanitaria;
ad adottare efficaci misure in tema di formazione del personale sanitario, con particolare riferimento alle borse di studio ed ai contratti di formazione specialistica, da un lato, e alla distribuzione territoriale delle specialità mediche e chirurgiche, dall'altro, quale presupposto essenziale per il mantenimento dell'erogazione dei livelli essenziali di assistenza;
ad accelerare la piena applicazione del Patto per la salute e a presentare alle Camere in tempi rapidissimi il disegno di legge delega previsto dall'articolo 22 del Patto in cui promuovere i principi della valutazione del personale medico e della valorizzazione dell'aggiornamento e della formazione professionale continua, anche alla luce delle nuove competenze richieste dalla crescente digitalizzazione dei processi informativi-organizzativi (e-health), essenziale ai fini dell'efficientamento del sistema sanitario e dunque del mantenimento, a costi compatibili, dei livelli essenziali di assistenza.
(1-00907)
«Vargiu, Monchiero, Matarrese, Capua, Antimo Cesaro, Quintarelli, Bombassei, Vezzali, Oliaro, Rabino, Sottanelli, D'Agostino, Molea, Catania, Pinna, Galgano, Librandi, Dambruoso, Mazziotti Di Celso, Vitelli».
(15 giugno 2015)
La Camera,
premesso che:
il blocco delle assunzioni e di ogni altra forma di reclutamento, a fronte delle progressive uscite di personale per quiescenza, può incidere sia sull'offerta sanitaria e il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza, sia sull'effettivo conseguimento degli obiettivi di risparmio preventivati;
l'esigenza di assicurare i livelli essenziali di assistenza induce i soggetti gestori del servizio a porre in essere talune procedure «alternative» per sopperire alla mancanza di personale dedicato (quali il ricorso a prestazioni di lavoro straordinario o in regime di prestazioni aggiuntive o altre fattispecie, quali l'acquisto di prestazioni professionali da privati) che, tutte insieme, vanificano le conseguenze della misura rigorosa del blocco in termini di mancato risparmio, addirittura in taluni casi comportando maggiori costi;
a dicembre 2014 dopo l'approvazione della legge di stabilità, con cui si chiede un sacrificio da 4 miliardi di euro alle regioni tra il 2015 e il 2018, si profila una «regressione» del fondo sanitario 2015 ai livelli 2014 o quasi. Le regioni avevano annunciato la disponibilità a rinunciare a 1,5 miliardi di euro;
le conseguenze sul fondo sanitario sono che dai 112,4 miliardi di euro previsti per il 2015 nel Patto per la salute tra Governo e regioni, firmato solo ad agosto 2014, si scenderebbe a 111 miliardi di euro. Gli stanziamenti per il fondo sanitario possono essere oggetto di revisione, infatti, in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica (articolo 30 del Patto per la salute);
sul fronte del personale si profila la ripetizione degli stessi sacrifici ai quali medici ospedalieri e convenzionati subiscono dal 2010, con i contratti bloccati; inoltre, i sindacati hanno verificato come nelle maglie della stessa legge di stabilità vi sia una norma che mantiene fino al 2020 il blocco del turnover: la disposizione riprende quanto previsto dalla legge n. 191 del 2009 (articolo 1, comma 71), secondo cui le regioni adottano nel triennio 2010-2012, misure necessarie a garantire che le spese del personale non superino l'ammontare corrispondente del 2004 diminuito dell'1,4 per cento, inclusi i contratti a termine e i contratti di collaborazione coordinata e continuativa;
la prima manovra finanziaria del 2011 aveva prorogato a tutto il 2015 il sacrificio che ora interesserà gli anni dal 2013 al 2020 (comma 253); si prevede, di fatto, per i prossimi 6 anni una revisione al ribasso delle consistenze di personale, dipendente a tempo indeterminato e determinato, con contratti di collaborazione coordinata e continuativa o con altre forme di lavoro flessibile o con convenzioni;
il tutto si traduce in blocco del turnover «eterno» che condanna quantità e qualità dei servizi sanitari ad una progressiva asfissia, una pietra tombale su ogni annuncio di staffetta generazionale;
lo stesso Ministro della salute, dopo il drammatico caso del decesso di una neonata a Catania nel mese di febbraio 2015, dichiarava che: «Va tolto il blocco del turnover, almeno in certi casi. Io sto provando un po’ alla volta a farlo, ma il Ministero dell'economia e delle finanze ogni tanto riblocca tutto (...) Il punto è che la sanità non può essere paragonata ad altri comparti pubblici, perché ha a che fare con la salute delle persone»;
i rapporti della Ragioneria generale dello Stato e della Corte dei conti certificano che le spese della sanità hanno avuto lievi contrazioni, ma i numeri attestano che per raggiungere tali risultati si è operato sul blocco del turnover e degli incrementi retributivi che hanno agito pesantemente sul contenimento della spesa per il personale dipendente, mentre le spese relative ai farmaci ospedalieri registrano tassi di crescita sostenuti;
per arrivare a reperire le risorse necessarie al fine di invertire la contrazione del numero del personale ospedaliero, soprattutto nei settori più esposti, appare indifferibile l'attuazione in brevissimo tempo del principio del meccanismo dei costi standard;
i dati presentati da tutti gli organismi interessati dimostrano come siano in difficoltà anche le regioni virtuose, i cui conti in ambito sanitario sono sempre stati in ordine, razionalizzando i costi della spesa del personale e riuscendo a garantire livelli di assistenza di assoluta eccellenza, a tal punto che il blocco del turnover comporta un inesorabile peggioramento dei livelli assistenziali,
impegna il Governo:
ad assumere iniziative per prevedere controlli stringenti sulle assunzioni di personale per quelle regioni in cui è previsto un piano di rientro per quanto riguarda le spese sanitarie, tenuto conto che il costo del personale è la voce più rilevante nei bilanci;
ad assumere iniziative per la rimozione del blocco del turnover per quelle regioni i cui bilanci in materia sanitaria raggiungono obiettivi di sostenibilità e di efficienza, invece di penalizzarle con costanti tagli finalizzati al ripiano dei deficit dei bilanci di regioni che per gestioni poco oculate rischiano il dissesto finanziario;
a valutare la necessità di assumere iniziative per rafforzare l'autonomia regionale in merito alle assunzioni del personale, salvaguardando gli equilibri di bilancio ed assumendo iniziative per rivedere le norme che uniformano le sanità regionali, di fatto penalizzando le regioni virtuose.
(1-00908)
«Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Saltamartini, Simonetti».
(15 giugno 2015)
MOZIONI IN MATERIA DI INTERVENTI PER LA PREVENZIONE E IL CONTRASTO DELLA MINACCIA TERRORISTICA DI MATRICE JIHADISTA
La Camera,
premesso che:
i recenti episodi verificatisi in Europa e in diversi Paesi dello scacchiere mediorientale hanno evidenziato l'innalzamento della minaccia terroristica di matrice jihadista e gli interventi sia di prevenzione che di repressione messi in campo dal Governo italiano con il decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, si ispirano al principio secondo cui la lotta al terrorismo internazionale va realizzata in maniera unitaria senza far distinzione tra sicurezza interna ed esterna, come dimostrato proprio dal fenomeno dei cosiddetti foreign fighters;
in questo preoccupante contesto le scuole e gli educatori si confrontano ogni giorno con realtà sociali sempre più complesse che derivano spesso da un'esasperata ricerca di identità o percorsi di integrazione non riusciti. Gli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi, i due attacchi in Danimarca e la recente adesione di ragazzi occidentali – con un buon livello di istruzione – al cosiddetto «Stato islamico» sono solo alcuni esempi della difficile sfida educativa che gli studenti, da un lato, e gli insegnanti, dall'altro, devono affrontare. Gli educatori svolgono, pertanto, un ruolo fondamentale per l'individuazione del disagio e la prevenzione del rischio di radicalizzazione dei ragazzi e occorre creare una vera e propria rete sociale che, partendo proprio dalla scuola, coinvolga famiglie, associazionismo, istituzioni, e accompagni i bambini, sin dai primi anni di vita, nel loro percorso di sviluppo del pensiero critico e di rifiuto di ogni forma di estremismo;
nel 2010 l'Unione europea ha adottato una «strategia di sicurezza interna», tra i cui obiettivi è incluso quello della prevenzione del terrorismo e del contrasto alla radicalizzazione. La maggior parte dei Paesi dell'Unione europea ha promosso politiche nazionali di contro-radicalizzazione aventi ad oggetto:
a) misure general-preventive (quali dialogo interreligioso e programmi a favore dell'integrazione) dirette a sacche di popolazione particolarmente esposte al rischio di radicalizzazione;
b) misure mirate su specifici soggetti che manifestano segni di radicalizzazione, per il loro recupero e reinserimento;
c) programmi di de-radicalizzazione di soggetti già radicalizzati, inclusi i cosiddetti foreign fighters di ritorno;
la maggior parte di tali attività è incentrata sulla cooperazione della società civile che viene considerata parte fondamentale nell'opera di prevenzione della radicalizzazione e svolge una funzione complementare – benché non sostitutiva – alle misure repressive tradizionali;
un progetto di grande interesse è stato elaborato, in occasione della conferenza RAN sulla radicalizzazione e l'istruzione (Manchester, 3-4 marzo 2015), da oltre 90 educatori provenienti da tutti gli Stati membri dell'Unione europea ed è stato, poi, trasmesso ai Ministri dell'istruzione europei per il loro incontro a Parigi del 17 marzo 2015 sui medesimi temi. Tra i vari interventi esaminati in quella sede i più significativi riguardano: la formazione specializzata e il supporto psicologico degli educatori anche mediante l'impiego di linee telefoniche o siti dedicati; la definizione di una vera e propria strategia contro la radicalizzazione e l'estremismo da perseguire con il dialogo, la diffusione di materiale informativo e corsi sul corretto utilizzo dei siti web per contrastare la propaganda estremista; il contributo delle organizzazioni non governative che operano in territori di guerra per offrire testimonianze anche mediante il coinvolgimento di ragazzi provenienti da quelle aree geografiche in veste di ambasciatori della gioventù e «consiglieri anti-pregiudizi»; l'incremento delle iniziative di prevenzione del fenomeno, favorendo la cooperazione tra gli istituti scolastici e le best practice in essi sperimentate,
impegna il Governo
a valutare l'opportunità di introdurre nel nostro Paese una strategia nazionale di contro-radicalizzazione mediante la formazione di operatori qualificati e una campagna di prevenzione che coinvolga la società civile e le istituzioni a tutti i livelli.
(1-00771)
«Dambruoso, Fiano, Cicchitto, Gigli, Mazziotti Di Celso».
(31 marzo 2015)
La Camera,
premesso che:
secondo quanto dichiarato il 3 giugno 2015 dal Vice Segretario di Stato statunitense Antony Blinken, la campagna aerea avviata dalla coalizione internazionale ad agosto 2014 ha portato, nei primi 9 mesi, alla morte di circa 10.000 miliziani dell'Isis in Iraq e Siria;
tuttavia, secondo fonti della Cia citate dalla Cnn, si stima che il «califfato» disponga oggi di un numero di combattenti compreso tra le 20.000 e le 32.000 unità;
la stessa Cia stimava la forza dell'Isis a settembre 2014 tra 20.000 e 31.500 miliziani, dei quali circa 15.000 foreign fighters, inclusi 2.000 occidentali, dimostrando di riuscire ad ampliare esponenzialmente le proprie forze che a giugno 2014 erano stimate tra 10.000 e 15.000 uomini;
il raffronto tra queste cifre dimostra come l'Isis sia stata in grado di reclutare un numero di miliziani superiore a quello delle perdite subite a causa degli attacchi aerei della coalizione e durante i combattimenti terrestri con le forze locali in Iraq e Siria;
ciò evidenzia come la soluzione al fenomeno dell'estremismo jihadista non possa essere esclusivamente di tipo militare;
appare, dunque, necessario l'avvio di un'azione di contro-propaganda volta a ridurre, nell'immediato, l'impatto dell'efficacissima campagna propagandistica condotta dai gruppi jihadisti, Isis in primis, al fine di creare consenso per la loro causa anche e soprattutto nei Paesi occidentali, incrementando così il flusso di arruolamenti volontari;
l'azione per contrastare tale propaganda non può essere efficacemente condotta esclusivamente con la censura dei siti web estremisti, come dimostrato dal fatto che le varie iniziative poste in essere in tal senso dai diversi Paesi occidentali non hanno sortito gli effetti sperati in termini di riduzione delle adesioni ai gruppi jihadisti;
la campagna propagandistica dei gruppi jihadisti in Occidente è rivolta soprattutto a immigrati, o figli di immigrati, di fede sunnita con permesso di soggiorno o cittadinanza dei Paesi in cui risiedono;
il successo di questa campagna riguarda, soprattutto, i giovani marginalizzati che sentono di non avere prospettive nei Paesi occidentali in cui vivono e tendono, dunque, a seguire dinamiche di radicalizzazione in opposizione a una società che percepiscono come ostile;
per comprendere tale fenomeno bisogna tener presente: l'apparente mancanza di contatti tra jihadisti autoctoni e affiliazioni qaediste tradizionali; l'utilizzo massiccio che gli homegrown jihadisti fanno del web, sfruttando le innumerevoli potenzialità offerte da internet in termini d'indottrinamento, addestramento, comunicazione e altro; la duplice via che i lone terrorists possono intraprendere, ovvero quella di pianificare attacchi in Italia o spostarsi all'estero per unirsi a un jihad e la presunta scarsa interazione esistente tra mancanza d'integrazione socio-economica e radicalizzazione di jihadisti autoctoni italiani;
per quanto riguarda le due principali conseguenze che la presenza del jihadismo autoctono in Italia ha comportato, si devono tener presente le difficoltà insite nel tentativo di monitorare e contrastare soggetti, spesso cittadini italiani, non vincolati ad alcuna struttura terroristica e le conseguenze negative che un eventuale attentato, posto in essere da un musulmano cresciuto in Italia, avrebbe su dibattiti nazionali delicati, quali quelli sull'immigrazione e sull'integrazione;
si può ritenere che i soggetti attivamente coinvolti in questa nuova scena jihadista autoctona siano una quarantina, forse una cinquantina. Allo stesso modo, si può stimare che il numero di coloro che in vario modo e con differenti livelli d'intensità simpatizzino con l'ideologia jihadista sia di qualche centinaio. Si tratta, in sostanza, di un piccolo insieme di persone dalle caratteristiche sociologiche (età, sesso, origine etnica, istruzione, condizione sociale) estremamente eterogenee, ma che condivide la fede jihadista;
la maggior parte dei soggetti «simpatizzanti» interagisce su internet con altri dello stesso credo in Italia (poca moschea, tanto internet) e molti dei network jihadisti autoctoni osservati in Europa negli ultimi dodici anni possedevano caratteristiche simili; molti di loro dimostravano scarsi legami con le grosse moschee e non avevano, perlomeno all'inizio delle loro attività, alcuna connessione con gruppi jihadisti strutturati;
è evidente che la nascente scena jihadista autoctona italiana abbia pochi contatti con le moschee e, osservando le attività su internet di quelli che paiono essere residenti italiani che frequentano «circoli virtuali» salafiti e che, in molti casi, adottano idee jihadiste, utilizzando un software specializzato, è stato possibile identificare centinaia di soggetti che dall'Italia regolarmente accedevano a forum, quali Shumukh, Ansar al-Mujahideen Arabic, al-Qimmah e Ansar al-Mujahideen English;
questa scena virtuale pro-jihad italiana è molto fluida e informale e opera come molte altre comunità on line, ma la maggior parte di «cyber-guerrieri» jihadisti è esattamente come gli altri cyber-guerrieri: estremisti virtuali, le cui esternazioni non passeranno mai dalla tastiera alla strada;
molti dei soggetti che fanno parte della comunità italiana di simpatizzanti del jihad a un certo punto ne usciranno del tutto, considerandola solo una fase della propria gioventù. Snobbati dalla ridotta e sospettosa scena jihadista tradizionale, i nuovi militanti devono ricorrere al web per trovare materiale che li guidi nel loro cammino e per interagire con altri soggetti dalle idee simili: due bisogni normali per quei soggetti che adottano qualsiasi ideologia radicale;
capire quali fattori portino un soggetto a radicalizzarsi è stata una fonte pressoché inesauribile di dibattito nella comunità dell'antiterrorismo mondiale, nel corso degli ultimi quindici anni, ma teorizzare che l'unica causa sia la mancanza di integrazione socio-economica non porta ad una comprensione del problema. Più rilevante è l'integrazione intesa nel senso di appartenenza a una determinata società, indipendentemente dalle proprie condizioni socio-economiche, dal momento che molti musulmani europei che si radicalizzano sono soggetti confusi dalla loro identità e che rintracciano un mondo di appartenenza in un'interpretazione fondamentalista dell'islam, invece che nella loro identità di cittadini europei;
l'Italia è un Paese favorevole all'integrazione. I recenti casi in Europa, per esempio in Svizzera, che aspirano a un giro di vite nei confronti dei fenomeni migratori, dimostrano le differenze che animano la società di tutto il continente. In molti Paesi stanno sbocciando casi d'integralismo autoctono, nati dalla paura e dall'avversione per le «diversità», che vanno interpretati come causa e, al tempo stesso, come reazione al jihadismo autoctono;
le barriere vengono spesso alzate a cautela dei singoli mercati nazionali del lavoro. Si sta diffondendo il timore che, imboccando la strada della Gran Bretagna, della Francia e dell'Olanda, le nazioni di prossima integrazione multietnica vengano costrette prima o poi a confrontarsi con i vizi e le debolezze delle società che sono già multirazziali. Vizi e debolezze che includono anche un più o meno elevato rischio di jihadismo autoctono;
risulta, pertanto, necessario l'avvio di un progetto di lungo periodo, a livello nazionale ed europeo, volto a favorire una maggiore comprensione della cultura occidentale da parte degli immigrati di prima, seconda e terza generazione attraverso il dialogo interculturale;
appare, altresì, fondamentale prevenire i fenomeni di discriminazione da parte di cittadini italiani e degli altri Paesi europei a danno di immigrati e cittadini di fede musulmana derivanti da un sentimento di reazione causato dalle attività dei gruppi jihadisti e dalla loro propaganda;
tali fenomeni di discriminazione, infatti, non farebbero altro che favorire la radicalizzazione degli immigrati, con il conseguente ampliamento del fenomeno dei foreign fighters;
l'articolo 270-bis del codice penale copre forme di terrorismo in cui la forma associativa costituisce un elemento fondamentale. Tuttavia, come nella maggior parte dei Paesi europei, quando il legislatore italiano scrisse la norma aveva in mente una forma di terrorismo tradizionale, che implica una struttura più o meno gerarchica o, perlomeno, un'associazione di persone dotata di una certa stabilità, ma, come si è visto, le dinamiche relative al terrorismo sono cambiate notevolmente in tutta Europa negli ultimi anni e molti sistemi giuridici europei hanno fatto fatica a tenere il passo;
un aggiornamento delle norme in materia è stato fatto dal Governo italiano, che ha approvato il decreto-legge comprendente nuove norme di modifica del codice penale, introducendo una pena da tre a sei anni di reclusione per chi va a combattere il jihad nei teatri di guerra o supporta i combattenti finanziando e facendo propaganda anche via web e prevedendo fino a 10 anni per i lone actors che si auto-addestrano all'uso delle armi;
il jihadismo non è solo una guerra ma è materia della legislazione e delle rappresentanze religiose non solo musulmane, nonché dei soggetti responsabili dell'educazione, dell'istruzione e dell'informazione nei singoli Paesi e nelle organizzazioni governative internazionali: Onu, Nato, Unione europea sono chiamate in causa alla stregua dei Governi nazionali nel definire una politica preventiva del fenomeno e l'Italia, essendo membro e alleato dell'Occidente, è tenuta a uscire dal limbo in cui si trova attualmente,
impegna il Governo
a elaborare e attuare un piano nazionale di contro-propaganda impiegando i canali già disponibili, come la scuola e i mass media, per contrastare in tempi brevi gli effetti dell'attività propagandistica condotta dall'Isis e da altri gruppi jihadisti, a valutare l'avvio di programmi di dialogo e avvicinamento interculturale rivolti ai giovani immigrati e italiani, anche tramite specifici programmi da condurre nelle scuole e nelle università, e a valutare iniziative di facilitazione all'inserimento sociale, sfruttando anche risorse già disponibili come il sistema del servizio civile nazionale.
(1-00906)
«Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Matarrelli, Mucci, Prodani, Rizzetto, Segoni, Turco».
(15 giugno 2015)
INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA
BRUNETTA, RAVETTO e BIASOTTI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
nella serata dell'11 giugno 2015, diverse camionette della polizia nazionale francese si sono dispiegate al valico di ponte San Ludovico a Ventimiglia, fra Italia e Francia, quando, sul lato italiano, erano presenti una quarantina di profughi, in gran parte eritrei, ai quali la Croce rossa stava distribuendo acqua e generi di conforto; altri 150 migranti circa si trovavano nella zona della stazione ferroviaria della città di Ventimiglia;
in questi giorni, almeno un centinaio di profughi hanno continuato a manifestare e a dormire aggrappati agli scogli a pochi metri dalla frontiera con la Francia, ancora presidiata dalle autorità d'oltralpe che non consentono loro di varcare il confine. Molti di loro sono etiopi, eritrei, senegalesi, somali, sudanesi. Al grido di «indietro non torniamo», chiedono di poter raggiungere, attraverso la Francia, amici e parenti nei Paesi del Nord Europa. Un gruppo ha impugnato uno striscione su cui è scritto, in francese: «urgenza umanitaria, chiediamo una risposta politica dall'Europa»;
nella mattinata del 16 giugno 2015, carabinieri e polizia hanno iniziato a sgomberare i profughi che dormivano nelle aiuole a ponte San Ludovico nell'accampamento organizzato dagli stessi migranti;
a ribadire la linea del Governo francese – e con essa la tensione ormai evidente con il Governo italiano – è il Ministro dell'interno francese, Bernard Cazeneuve; «dall'inizio dell'anno in Francia abbiamo avuto circa 8.000 passaggi e abbiamo fatto riammettere in Italia circa 6.000 migranti. Non devono passare, è l'Italia che deve farsene carico. Le regole del regolamento di Dublino devono essere rispettate», ha detto il Ministro in un'intervista a radio Rmc e Bfm-tv. Il Ministro francese, quindi, ha replicato al Governo italiano affermando che in base al regolamento di Dublino la maggior parte dei richiedenti asilo devono risiedere nel Paese dell'Unione europea di ingresso. E ancora: «L'Italia deve accettare di creare dei centri per distinguere i migranti economici irregolari dai rifugiati», ha aggiunto il Ministro, sottolineando che la Francia «non ha bloccato le frontiere». «Ci troviamo di fronte a un fenomeno migratorio di una nuova portata. Chi sono questi migranti ? Ci sono molti migranti economici irregolari che vengono dall'Africa occidentale e non sono dunque oggetto di persecuzioni. Non possiamo accoglierli, dobbiamo riaccompagnarli alla frontiera»;
in un lungo articolo pubblicato sul quotidiano Le Monde il 15 giugno 2015, si apprende che la Francia «vuole creare dei campi Ue in Italia». Cazeneuve – scrive Le Monde – «tenta di convincere il suo omologo italiano sull'opportunità di creare in Italia (e in Grecia) dei campi gestiti dall'Unione europea per distinguere i migranti economici dai richiedenti asilo già dal loro arrivo. I primi verrebbero immediatamente espulsi verso i loro Paesi d'origine, gli altri ripartiti tra i Paesi d'Europa»;
secondo l'idea sostenuta dalla Francia – prosegue sempre Le Monde – «l'ufficio europeo per l'asilo e l'Alto commissariato per i rifugiati farebbero questa prima selezione e gli Stati studierebbero poi i dossier». Il giornale francese spiega, poi, che il blocco dei migranti tra Ventimiglia e Mentone è soprattutto dovuto alla situazione esplosiva a Parigi, dove nel giro di appena una settimana centinaia di africani sono stati evacuati per ben tre volte da altrettanti accampamenti di fortuna, dopo il primo sgombero del 2 giugno 2015 al Pont de la Chapelle, tra polemiche e denunce contro i metodi della polizia;
è evidente a parere degli interroganti come la Francia, ripristinando i controlli alle frontiere, qualora non ne abbia data preventiva comunicazione all'istituzione europea e al Governo italiano, stia di fatto violando il Trattato di Schengen, e ciò indipendentemente da ogni considerazione in merito all'applicazione puntuale o meno delle regole del sistema di asilo europeo e del regolamento di Dublino;
è necessario ribadire che nessuno Stato può ripristinare i controlli in maniera unilaterale senza averne data preventiva comunicazione alle istituzioni europee e allo Stato confinante (indicandone, tra l'altro, le motivazioni), né, in ogni caso, contestare una presunta violazione di un regolamento (in questo caso Dublino) rispondendo con la violazione di un altro accordo (Schengen);
nel frattempo, nell'incomprensibile silenzio dell'Alto rappresentante Federica Mogherini, che, pur non essendo diretta titolare di una delega alle politiche migratorie, è comunque responsabile degli affari esteri e della politica di sicurezza dell'Unione europea, il Presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi ha annunciato che «è pronto un piano B», nel caso in cui il Consiglio europeo non scelga la via della solidarietà nei confronti dell'Italia;
il Commissario dell'Unione europea responsabile per le politiche migratorie, Dimitris Avramopoulos, ha convocato per il 16 giugno 2015 una riunione tra i Ministri dell'interno di Italia, Francia e Germania, a margine di un Consiglio affari interni a Lussemburgo, per discutere della situazione alle frontiere a seguito dei controlli parzialmente reintrodotti in Francia, Austria e Svizzera alla frontiera con l'Italia. Lo ha annunciato la portavoce di Avramopoulos, Natasha Bertaud, sottolineando che tutti gli Stati devono rispettare le regole di Schengen, ma anche le regole sull'asilo che prevedono la registrazione dei migranti quando arrivano in un Paese dell'Unione europea;
la portavoce Natasha Bertaud ha, inoltre, affermato che la Commissione europea è a conoscenza delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei ministri italiano Matteo Renzi, ma che «non è al corrente di eventuali piani B»;
il caso di Ventimiglia è emblematico e gravissimo e dimostra chiaramente l'indisponibilità della Francia e degli altri Paesi europei ad accogliere i profughi che sbarcano in Italia; si è di fronte ad un vero e proprio esodo di intere popolazioni verso l'Europa e il nostro Paese, come è evidente da oramai troppo tempo, non può affrontare da solo l'emergenza. Il Consiglio europeo straordinario sull'allarme immigrazione non ha prodotto alcun risultato tangibile; le città italiane, ormai non solo al Sud, sono al collasso, con il rischio di scatenare situazioni imprevedibili: sono, pertanto, necessari una risposta strutturale e un forte posizionamento del Governo nei confronti dell'Unione europea –:
quale sia la posizione del Governo rispetto ai fatti riportati in premessa, quali le azioni intraprese per superare la situazione di tensione creatasi con la Francia, se il Ministro interrogato sia a conoscenza dell'avvio di un'indagine della Commissione europea per presunta violazione del Trattato di Schengen e quali siano le proposte che l'Esecutivo intende esprimere, in particolare all'interno del Consiglio europeo, in merito alle politiche dei richiedenti asilo, ai ricollocamenti degli stessi all'interno dei Paesi dell'Unione europea e alle misure per le espulsioni e i rimpatri. (3-01545)
(16 giugno 2015)
DURANTI, FERRARA, SCOTTO, FRATOIANNI, PALAZZOTTO, PANNARALE e SANNICANDRO. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
come noto, in data 5 giugno 2015 si è tenuto a Taranto, presso il palazzo di città, un incontro fra il sindaco, le organizzazioni sindacali ed i parlamentari jonici, per la definizione di un percorso comune volto a fronteggiare la vertenza dell'azienda Teleperformance, alla luce della scadenza dell'accordo sindacale del 2013;
l'azienda, che impiega oltre 2.000 persone e rappresenta la seconda realtà occupazionale dopo l’Ilva, in data 9 giugno 2015 ha convocato le organizzazioni sindacali ed ha aperto la procedura di trasferimento e societarizzazione, dopo aver tentato la via del demansionamento e della riduzione di un terzo del monte ore lavorativo;
all'indomani dell'incontro con i sindacati, Gabriele Piva, amministratore delegato di Teleperformance (2.400 addetti a Taranto, 300 a Roma e 400 a Parco San Leonardo-Fiumicino), rilancia le richieste della multinazionale. Che possono dividersi in tre punti: creazione di una nuova società solo per Parco San Leonardo, mentre Roma e Taranto restano con l'assetto attuale; apertura alla flessibilità e riduzione del tempo indeterminato; riduzione dell'orario di lavoro settimanale da 33 a 20 ore con turni di quattro ore anziché sei, oppure di otto, se necessario per le richieste del committente, ma divise in due tranche;
successivamente, i sindacati di categoria, con una conferenza stampa a Taranto, rispondono «disponibili a trattare con l'azienda ma nel solco del contratto nazionale – come da dichiarazioni di Andrea Lumino, segretario Slc Cgil Taranto -. Questo significa che non c’è spazio per i turni di 4 ore, né di tornare all'accordo del 2013 che ha ridotto lo stipendio dei lavoratori. Anzi, dobbiamo tornare alle condizioni pre 2013 (...)». In ogni caso, dicono i sindacati, «con Teleperformance non si apre alcuna trattativa se l'azienda non ritira ogni discorso sulla modifica della struttura societaria. Per noi è una pregiudiziale»;
la crisi di Teleperformance è intanto l'emblema delle più vaste difficoltà dei call center dove, denuncia Michele Azzola, segretario generale Slc Cgil, ci sono 20 mila posti a rischio. Per Azzola, «Governo e maggioranza non sono stati in grado di dare risposte, limitandosi a nascondersi dietro la convocazione di un tavolo di crisi specifico». Tavolo che «da mesi non viene più convocato e dal quale sindacati e aziende dei call center continuano a lanciare grida di aiuto». E intanto il Ministero dello sviluppo economico ha convocato un incontro per il call center People care di Livorno. In bilico in questo caso 350 lavoratori;
si ritiene inaccettabile il comportamento della dirigenza francese, sia dal punto di vista della gestione aziendale che per quanto riguarda le intenzioni poste in essere lesive dei diritti dei lavoratori, anche alla luce di quanto previsto dall'articolo 24-bis del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134;
le criticità che insistono sulla provincia jonica, sia dal punto di vista sociale che da quello occupazionale, non consentono il rischio della perdita di anche solo un altro posto di lavoro ed impongono una soluzione immediata e definitiva della vertenza in oggetto –:
se non ritenga urgente convocare un tavolo interministeriale nazionale che, di concerto con tutte le parti interessate, affronti in modo costruttivo e risolutivo la vertenza della società Teleperformance, con l'auspicio che il Governo si adoperi al più presto per ridefinire in maniera chiara la giungla normativa in cui è consentito muoversi alle aziende di call center e che riveda la disciplina del massimo ribasso nelle gare d'appalto. (3-01546)
(16 giugno 2015)
TARANTO, BENAMATI, ARLOTTI, BARGERO, BASSO, BINI, CANI, DONATI, FOLINO, GALPERTI, GINEFRA, IMPEGNO, LACQUANITI, MARTELLA, MONTRONI, PELUFFO, PORTAS, SCUVERA, SENALDI, TIDEI, VICO e CINZIA MARIA FONTANA. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
il Governo si appresta ad attuare una serie di azioni di sostegno all'innovazione del sistema industriale italiano finalizzate a rilanciare la produttività e colmare il gap tecnologico con i concorrenti europei;
a partire dal 25 e dal 30 giugno 2015, sarà possibile presentare sia le domande per il bando «Agenda digitale», volto a sostenere progetti in grado di esercitare un significativo impatto sullo sviluppo del sistema produttivo e dell'economia del Paese, attraverso la creazione di un mercato digitale unico, sia per il bando «Industria sostenibile», per progetti finalizzati a perseguire un obiettivo di crescita sostenibile e promuovere un'economia efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva; per gli interventi sono stati stanziati, a valere sul fondo per la crescita sostenibile, complessivamente 400 milioni di euro;
a partire dal 1o luglio 2015 e fino al 25 settembre 2015, partiranno le domande di agevolazione per lo sviluppo dell'artigianato digitale e della manifattura sostenibile; l'intervento per il quale sono stati stanziati oltre 9 milioni di euro è finalizzato a sostenere programmi innovativi, localizzati sull'intero territorio nazionale e realizzati da reti di imprese, per la diffusione, la condivisione e lo sviluppo produttivo delle tecnologie di fabbricazione digitale;
sembrerebbe imminente la pubblicazione del decreto attuativo sul credito d'imposta per le attività di ricerca e sviluppo introdotto dalla legge di stabilità per il 2015 a favore delle imprese che finanziano progetti di ricerca in università o enti pubblici di ricerca o che assumono ricercatori o profili altamente qualificati;
un sintetico rapporto denominato «Industria 4.0», stilato dalla società di consulenza Roland Berger strategy consultants gmbh, sta riportando l'attenzione dei Governi europei sul tema, per far comprendere opportunità e rischi connessi alla rivoluzione digitale in corso;
secondo lo studio, l'Europa dovrebbe porsi l'obiettivo di tornare a rappresentare il 20 per cento di valore aggiunto nel settore manifatturiero, rispetto al 15 per cento attuale, attraverso investimenti pari a circa 1.300 miliardi di euro nei prossimi 15 anni – in media 90 miliardi di euro all'anno – che potrebbero portare ad un aumento occupazionale di circa il 6 per cento nei prossimi dieci anni;
per rafforzare l'azione intrapresa dal Governo, anche secondo il modello prospettato da «Industria 4.0», è necessario un processo di digitalizzazione capace di coinvolgere l'intera filiera industriale –:
quali siano, al riguardo, le valutazioni del Ministro interrogato e quali iniziative intenda intraprendere al fine di rafforzare le forme di cooperazione tra pubblico e privato nell'ambito della definizione dei piani operativi dei fondi strutturali per il 2014-2020. (3-01547)
(16 giugno 2015)
SBERNA e GIGLI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
al fine di contribuire alle spese per il mantenimento dei figli per l'anno 2015, l'articolo 1, comma 130, della legge di stabilità per il 2015 (legge 24 dicembre 2014, n. 190) ha riconosciuto alle famiglie con un numero di figli minori pari o superiore a 4, in possesso di una situazione economica corrispondente a un valore isee non superiore a 8.500 euro annui, buoni per l'acquisto di beni e servizi;
le disposizioni attuative della misura di cui sopra e la definizione dell'ammontare complessivo del beneficio sono state demandate ad un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze;
tuttavia, non sono stati indicati i termini per l'attuazione della disposizione che, a tutt'oggi, risulta ancora inattuata, eludendo così le attese delle famiglie, maggiormente bisognose di aiuti per il mantenimento dei figli, che contavano sulla ricezione di quel contributo in tempi brevi;
in risposta all'interrogazione n. 5-05153 presentata anche dal primo firmatario del presente atto di sindacato ispettivo in Commissione XII, in data 26 marzo 2015, era stato assicurato il sostegno economico di cui si tratta nel più breve tempo possibile. Si trattava, infatti, solo di acquisire un numero congruo di dichiarazioni isee per poter simulare gli oneri connessi alla misura e l'importo del beneficio;
due mesi appaiono, agli interroganti, un tempo sufficiente per le suddette simulazioni necessarie ad addivenire all'emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri;
numerose sono le richieste in merito pervenute agli interroganti proprio perché si tratta di famiglie con isee non superiore a 8.500 euro e, quindi, maggiormente bisognose delle misure di sostegno previste –:
se e come ritenga opportuno intervenire affinché il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui in premessa sia al più presto adottato. (3-01548)
(16 giugno 2015)
GUIDESI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, INVERNIZZI, MARCOLIN, MOLTENI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
già con precedenti atti di sindacato ispettivo (n. 5-03845 del 22 ottobre 2014 e n. 4-04838 del 15 maggio 2014), tuttora privi di risposta, venivano denunciati i conflitti di interesse esistenti all'interno di talune cooperative, nonché l'assurda situazione in cui talune aziende italiane si ritrovano sostanzialmente ostaggio di facchini stranieri appartenenti a cooperative;
la recente inchiesta sul gas a Ischia è solo la punta dell'iceberg: dall'inchiesta sul passante dell'alta velocità di Firenze, passando per la vicenda del porto di Molfetta, fino allo scandalo che ha portato a quello che secondo gli interroganti è un «commissariamento» del Pd capitolino, negli ultimi anni le cooperative emiliane, orgoglio storico della sinistra, sono state al centro di svariate indagini della magistratura, facendo emergere un sistema corruttivo che influenza le più grandi opere italiane;
le predette vicende sono ricostruite dettagliatamente da un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 marzo 2015;
è indubbio che il malaffare, l'illegalità ed una dilagante corruzione caratterizzano il mondo delle cooperative, le quali, peraltro, limitano fortemente il principio della libera concorrenza tra operatori economici, utilizzando manodopera a basso costo e non tutelando i diritti di chi lavora;
ad esempio, in attività inerenti ai servizi di logistica, dal facchinaggio ai traslochi, è frequente l'emergere di cooperative fittizie o di fenomeni di caporalato; inoltre, le cooperative, godendo di sgravi fiscali ed aliquote contributive ridotte, elargiscono ai propri dipendenti o ai soci lavoratori paghe più basse in deroga ai contratti collettivi di categoria;
dilaga, inoltre, l'insorgere di cooperative che forniscono servizi di accoglienza e assistenza ai profughi, per la gestione dei campi nomadi o che operano nel settore dell'emergenza immigrati, in un quadro – secondo gli interroganti – di un vero e proprio business dell'immigrazione clandestina (basti pensare al caso di «mafia capitale» ed alle intercettazioni di Carminati e di Buzzi);
a parere degli interroganti, oggigiorno, le cooperative – ed il sistema di appalti e subappalti in cui le stesse operano – sono in palese contrasto con il principio costituzionale di cui all'articolo 45 della Costituzione –:
se il Governo non ritenga doveroso intervenire celermente, con ogni iniziativa di competenza, sulla vigente disciplina delle cooperative, al fine di rimediare alle distorsioni di mercato e a quella che agli interroganti appare la concorrenza sleale di fatto operata e garantire l'allineamento retributivo dei dipendenti delle cooperative ai dipendenti di aziende dello stesso settore. (3-01549)
(16 giugno 2015)
CHIMIENTI, COMINARDI, CIPRINI, DALL'OSSO, LOMBARDI e TRIPIEDI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
il 31 maggio 2010 viene emanato il decreto-legge n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica»;
per quanto concerne il pubblico impiego, il suddetto decreto-legge ha determinato il congelamento dei trattamenti economici per tre anni, con la finalità del contenimento delle spese, mediante l'articolo 9, comma 21, in base al quale le retribuzioni del personale interessato sono state escluse tanto dai meccanismi di adeguamento di cui all'articolo 24 della legge n. 448 del 1998, quanto dall'applicazione degli aumenti retributivi, i cosiddetti «scatti» e «classi di stipendio», collegati all'anzianità di ruolo, quanto, addirittura, dal riconoscimento dei benefici economici correlati alle progressioni di carriera, senza possibilità successiva di recupero;
la misura in oggetto, che avrebbe dovuto essere temporanea e dettata dall'emergenza finanziaria attraversata dal nostro Paese con la crisi dell'euro, è stata, però, puntualmente riconfermata di anno in anno dai Governi successivi: il Governo Monti e il Governo Letta hanno, infatti, provveduto al congelamento dei salari in applicazione dell'articolo 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, che ha previsto di prorogare di un anno, ovvero al 2014, le citate disposizioni restrittive;
il Governo, mediante il decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 2013, n. 122, ha disposto la proroga fino al 31 dicembre 2014 delle misure previste dall'articolo 9 del decreto-legge n. 78 del 2010;
il Governo Renzi, dopo aver dichiarato di non disporre dei 4 miliardi di euro necessari per sbloccare gli stipendi nel 2015, ha prorogato per tutto il 2015 il blocco economico della contrattazione nazionale e del contratto collettivo nazionale nel pubblico impiego;
conseguentemente all'effetto della legge n. 190 del 2014, la legge di stabilità per il 2015, viene estesa fino al 2018 l'efficacia della norma in base alla quale l'indennità di vacanza contrattuale rimanga quella in godimento al 31 dicembre 2013 e viene prorogato fino al 31 dicembre 2015 il blocco degli automatismi stipendiali relativo al solo personale non contrattualizzato, ferma restando l'esclusione dal blocco dei magistrati;
a tutt'oggi le buste paga dei 3,3 milioni di dipendenti pubblici restano, quindi, ferme al 2010, con una perdita pro capite che è stata quantificata, secondo i calcoli della Cgil, in una somma vicina ai 4 mila euro l'anno, pari al 14,6 percento del salario reale;
secondo l'Istat, invece, nel biennio 2011-2012 si è registrata una perdita del potere d'acquisto delle retribuzioni contrattuali del settore pubblico di oltre cinque punti percentuali, mentre per il 2013 le retribuzioni contrattuali hanno subito un'ulteriore riduzione in termini reali, salendo fino ad una media di oltre il 13 per cento negli anni successivi;
alla perdita pro capite legata al mancato rinnovo dei contratti del pubblico impiego va anche aggiunto l'aumento della pressione tributaria sulle famiglie, due fattori che hanno comportato l'attuale depressione economica e una maggiore caduta del potere di acquisto degli stessi stipendi;
nel novembre 2014, a seguito della proroga del blocco dei contratti e dei salari da parte del Governo Renzi, i sindacati del pubblico impiego hanno deciso di fare ricorso al tribunale di Roma, affinché sollevasse una questione di legittimità costituzionale sul congelamento degli stipendi; il giudizio è stato rinviato alla Corte costituzionale, che dovrà esprimersi il 23 giugno 2015;
la questione di illegittimità costituzionale dell'articolo 9, commi 1 e 17, del decreto-legge n. 78 del 2010, nonché dell'articolo 16, comma 1, del decreto-legge n. 98 del 2011, per contrasto con gli articoli 2, 3, 35, 36, 39 e 53 della Costituzione è stata sollevata dal tribunale di Roma, che ha espresso il seguente parere: «la sospensione della possibilità di negoziare anche solo in ordine ad incrementi retributivi, viene a determinare, indirettamente, un'anomala interruzione dell'efficacia delle disposizioni vigenti in materia (...) e, quindi, del valore dell'autonomia negoziale riservata alle parti nell'ambito della contrattazione collettiva, interruzione determinata a causa dell'esclusiva e affatto peculiare posizione dello Stato-datore di lavoro. (...); conseguentemente, l'inibizione prolungata della contrattazione in ordine all'adeguamento dei trattamenti retributivi può sollevare il legittimo dubbio di una conseguente violazione del principio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione»;
come riportato da Il Fatto Quotidiano in data 5 giugno 2015, nel caso in cui il ricorso venisse accolto dalla Corte costituzionale e il blocco dei contratti dei 3,3 milioni di dipendenti pubblici venisse dichiarato illegittimo, la memoria dell'Avvocatura dello Stato, depositata dall'avvocato Vincenzo Rago in data 4 giugno 2015, arriva a parlare di un «onere conseguente alla contrattazione di livello nazionale, per il periodo 2010-2015, relativo a tutto il personale pubblico, non inferiore a 35 miliardi di euro, con un effetto strutturale di circa 13 miliardi di euro, a decorrere dal 2016» –:
quali iniziative il Governo intenda intraprendere per sospendere e/o revocare, a partire dal secondo semestre 2015, il blocco economico della contrattazione nazionale e delle tornate contrattuali del contratto collettivo nazionale dei pubblici dipendenti interessati dal decreto-legge n. 78 del 2010 e successive proroghe e, al contempo, quali iniziative intenda intraprendere, di concerto con le organizzazioni sindacali del pubblico impiego, al fine di attuare il recupero dei trattamenti economici e degli aumenti retributivi dovuti per le tornate contrattuali e non goduti per effetto del blocco di cui in premessa. (3-01550)
(16 giugno 2015)
MONCHIERO e RABINO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
l'autostrada A33, che collega Asti a Cuneo, in tutto 93 chilometri, attualmente in parte aperta al traffico, in parte in costruzione e in parte ancora solo in progetto, è gestita dall’Autostrada Asti-Cuneo s.p.a., costituita il 1o marzo 2006 (partecipata al 60 per cento dalla società Autostrada ligure toscana spa, al 35 per cento dall'Anas spa e al 5 per cento da Itinera spa), in qualità di concessionaria del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ai sensi degli articoli 19, commi 2 e 2 bis, e 37-quinquies della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modifiche e integrazioni, e per effetto della convenzione di concessione, efficace a far data dall'11 febbraio 2008;
dei lotti ancora da completare, i più nevralgici sono quelli 2.5 e 2.6, soprattutto nel tratto che interessa il territorio di Castagnito-Alba e di Cherasco-Alba;
si è, quindi, creata una situazione assurda, con la Asti-Cuneo quasi completata ma interrotta nel bel mezzo, fra Alba e Cherasco, ove il traffico viene deviato sulla viabilità ordinaria del tutto inadeguata, con gravi penalizzazioni per i cittadini e le imprese della zona;
negli anni scorsi la società concessionaria, avanzando problemi nel reperimento dei fondi, aveva chiesto di rinviare l'esecuzione del lotto 2.5 e la costruzione della galleria sotto il fiume Tanaro e di utilizzare, come soluzione alternativa, temporanea e senza pedaggio, la tangenziale di Alba, consentendo, quindi, un primo efficace collegamento a scorrimento veloce e a doppia carreggiata senza soluzione di continuità tra Asti e Cuneo;
gli enti territoriali avevano accettato questa soluzione, pur provocando aggravi e problemi alla circolazione di collegamento con la città di Alba, a condizione che l'utilizzo della tangenziale fosse provvisorio e che contemporaneamente alla costruzione del lotto 2.6 venissero realizzate dalla società concessionaria alcune opere complementari indispensabili per non gravare in modo insopportabile sulla viabilità locale;
lo stallo, che si protrae da anni, è inaccettabile per il territorio albese, per i cittadini e per le imprese e gli amministratori locali da sempre chiedono chiarezza da parte della concessionaria, visto che la società Asti-Cuneo è tenuta a rispettare i patti sottoscritti dieci anni fa, quando si è impegnata a realizzare l'autostrada, compresi i lotti albesi;
da tempo la società concessionaria aveva, peraltro, rappresentato al Governo e agli enti locali la necessità di una revisione del piano economico-finanziario che consentisse di reperire le risorse necessarie per il completamento dell'opera, collegando tale operazione ad un accorpamento delle concessioni che il gruppo Gavio gestisce nel settore della viabilità stradale e, aderendo a tale richiesta, il Governo ad agosto 2014 ha presentato all'Unione europea prenotifica per il futuro accorpamento delle concessionarie di Gavio, dove erano previsti nuovi investimenti fino a 1,5 miliardi di euro, anche per completare la Asti-Cuneo;
in data 9 settembre 2014 gli interroganti hanno presentato l'interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3-01015 in cui si chiedeva al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti quali fossero i motivi del ritardo nell'avvio dei lavori, le difficoltà emergenti e i tempi previsti nella realizzazione dei lotti albesi, quale fosse il crono-programma definitivo per completamento del collegamento autostradale Asti-Cuneo, l'entità delle risorse disponibili necessarie sia per la realizzazione dei lotti autostradali sia per le opere complementari previste, nonché le iniziative intraprese dal Governo per ottenere il pieno rispetto degli obblighi contrattuali da parte della società Autostrada Asti-Cuneo s.p.a., dando così una risposta certa alle profonde preoccupazioni delle comunità interessate;
in quell'occasione il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti pro tempore, onorevole Maurizio Lupi, si assunse, in Aula, l'impegno ad intraprendere ogni utile iniziativa che favorisse il completamento dell'opera, esprimendo, in particolare, la disponibilità del Governo a riesaminare le condizioni derivanti da contratti di concessione datati e bisognosi di essere attualizzati;
in effetti, l'articolo 5 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (decreto «sblocca Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, consente ai concessionari di tratte autostradali nazionali di avviare una procedura di modifica del rapporto concessorio e di predisporre un nuovo piano economico-finanziario per la stipula di un atto aggiuntivo o di un'apposita convenzione unitaria, precisando che gli interventi ulteriori rispetto a quelli previsti nelle vigenti convenzioni devono essere affidati secondo le procedure di evidenza pubblica. La norma non fa esplicitamente riferimento alla possibilità di prolungare concessioni in essere oltre il termine di scadenza, ma si limita a precisare che le modifiche del rapporto concessorio avverranno nel rispetto dei principi dell'Unione europea al fine di assicurare: a) gli investimenti necessari per gli interventi di potenziamento, adeguamento strutturale, tecnologico ed ambientale delle infrastrutture autostradali nazionali, nel rispetto dei parametri di sicurezza più avanzati prescritti da disposizioni comunitarie; b) un servizio reso sulla base di tariffe e condizioni di accesso più favorevoli per gli utenti. In ogni caso il nuovo assetto della concessione deve assicurare l'equilibrio economico finanziario, senza ulteriori oneri a carico del bilancio dello Stato;
in applicazione della normativa prevista dal decreto «sblocca Italia», risulterebbe che il gruppo Gavio (tra i principali gestori delle autostrade italiane), che controlla la società di progetto Asti-Cuneo, abbia proposto al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti una proroga per il completamento dell'autostrada Asti-Cuneo in cambio di maggiori investimenti e minori aumenti tariffari;
nei giorni scorsi si è diffusa la notizia che il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti si sarebbe espresso negativamente nei confronti del concessionario e il presidente dell'Unione industriali della provincia di Cuneo, Franco Biraghi, ha inviato una lettera provocatoria al Ministro interrogato, ai parlamentari e ai sindaci della Granda, chiedendo di revocare al gruppo Gavio la concessione autostradale per inadempienza della società e per gravi ritardi nel completamento dei lavori, nonché, a parziale compensazione dei danni e disagi subiti dal territorio, di consentire la libera circolazione nel tratto finora realizzato senza far pagare il pedaggio fino al totale completamento dell'opera;
nella lettera, lo stesso presidente dava risonanza a voci incontrollate relative ad un imminente disimpegno del gruppo Gavio che starebbe trattando con i vertici dell'Anas la risoluzione del contratto di concessione –:
quali atti siano stati compiuti dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dalla società concessionaria negli ultimi mesi in attuazione del citato articolo 5 del decreto-legge n. 133 del 2014 e se corrispondano al vero le illazioni giornalistiche relative all'espressione di eventuali pareri negativi da parte di autorità nazionali ed europee interessate e ad un conseguente disimpegno del gruppo Gavio. (3-01551)
(16 giugno 2015)
BARBANTI, ARTINI, BALDASSARRE, BECHIS, MATARRELLI, MUCCI, PRODANI, RIZZETTO, SEGONI e TURCO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
il presidente di Unindustria Calabria, Natale Mazzuca, in merito all'interruzione, che si protrae ormai da mesi, della circolazione su un lungo tratto dell'autostrada A3, ha sottolineato come «le voci che si rincorrono, rispetto alla reale situazione circa i tempi e le effettive possibilità di ripristino del viadotto Italia (...) stanno assumendo aspetti grotteschi ed a volte persino comici, se non riguardassero un problema tanto grande e strategico per tutto il territorio da far prefigurare conseguenze drammatiche e diffuse»;
la vicenda del crollo del viadotto è una questione di rilevanza nazionale per tutto quello che ne deriva in termini economici, di livello dei servizi alle imprese ed ai cittadini, del grave rischio di provocare un ulteriore arretramento del territorio con aumento della disoccupazione;
è urgente un confronto operativo efficace tra il Governo, le istituzioni locali e gli enti interessati per individuare una strategia che comporti la realizzazione del nuovo viadotto Italia a garanzia della sicurezza necessaria e la creazione di percorsi alternativi capaci di consentire la gestione efficace della fase di transizione, da contenere e programmare negli indispensabili tempi tecnici;
è necessario intervenire al più presto, dal momento che la stagione estiva è iniziata e si è di fronte ad uno scoraggiamento dei turisti che sono disorientati e scoraggiati nel considerare la Calabria come meta delle loro vacanze;
visto l'esiguo numero delle prenotazioni alberghiere, molte strutture stanno valutando la possibilità di non aprire per questa stagione, con rischi reali di sopravvivenza e di crollo dell'occupazione, e il notevole rallentamento del trasporto merci ed i costi aggiuntivi da sopportare stanno creando grossissime difficoltà alle attività imprenditoriali che vedono vanificare e svanire ogni speranza di rilancio e sviluppo;
è fondamentale studiare alternative possibili in ognuno dei settori individuati, allargando la platea dei partner e fornendo ai cittadini una chiara percezione di ritorno di attenzione verso questa parte di territorio tenuta spesso fuori dagli interessi manifesti del Paese;
l'Anas aveva preannunciato che entro il 25 maggio 2015 avrebbe proceduto al deposito del progetto relativo al rinforzo del pilone di sostegno del viadotto Italia dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, assicurando un aggiornamento del progetto ed una sua integrazione nei termini indicati dai consulenti della procura della Repubblica di Castrovillari, che ha autorizzato la società alla rimozione delle macerie del crollo;
l'avvio di tali attività è stato purtroppo condizionato all'esecuzione di un'ulteriore serie di indagini laser-scanner, stabilite dai consulenti della procura e programmate dagli stessi nei giorni 25 e 26 maggio 2015;
l'Anas ha anche avviato tutte le indagini interne per valutare la quantificazione di eventuali danni subiti e le responsabilità dei soggetti coinvolti nel crollo e la giunta regionale della Calabria, riunitasi sotto la presidenza di Mario Oliverio, ha chiesto alla Presidenza del Consiglio dei ministri, su iniziativa anche dell'assessore ai trasporti, Nino De Gaetano, lo stato di emergenza a causa del crollo del viadotto Italia, che ha comportato la chiusura dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria nel tratto compreso tra Laino Borgo e Mormanno, e allo stesso tempo l'istituzione di una commissione ministeriale ispettiva al fine di verificare le cause dell'evento e quantificarne gli enormi danni alle attività economiche calabresi;
dopo l'incontro del Governo con il presidente della regione Calabria Mario Oliverio e con una delegazione di sindaci e amministratori calabresi e lucani per affrontare il problema della viabilità dopo il crollo al viadotto Italia sulla A3, a cui hanno partecipato anche il presidente e amministratore delegato dell'Anas, Gianni Armani, e il prefetto di Cosenza, Gianfranco Tomao, sono state evidenziate le gravi difficoltà del territorio per la mancanza di collegamento e la ricaduta del traffico pesante sui centri e le strade minori, oltre alla preoccupazione per gli effetti sul turismo;
il Governo ha promesso un impegno ad accelerare il finanziamento per la sicurezza della viabilità secondaria, oltre che a verificare la fattibilità del trasporto via mare delle merci destinate a bypassare la regione, dai porti di Salerno e Napoli per i porti di Gioia Tauro e Messina, il potenziamento del traffico ferroviario e, ove possibile, aereo, oltre che a riconsiderare il progetto della strada statale n. 19 come viabilità alternativa, da realizzare e mantenere comunque attiva in modo permanente;
dal 2 marzo 2015, tuttavia, data della tragica vicenda che ha prodotto la perdita di una vita umana, la regione vive una grave condizione nei collegamenti con il resto del Paese con una viabilità alternativa assolutamente inadeguata, dal momento che si tratta di un territorio montano con un'orografia difficile ed esposta ad una condizione di dissesto idrogeologico;
la soluzione del convogliare il traffico nella strada statale n. 18 e l'attuale viabilità alternativa non sono nelle condizioni di sostenere il volume di traffico che non trova possibilità di scorrimento sull'autostrada;
il Governo, rispetto alle misure di compensazione territoriale già sottoscritte dall'Anas con l'Ente Parco e i quattro comuni interessati dai lavori (Morano Calabro, Laino Borgo, Laino Castello e Rotonda), si è impegnato, inoltre, a reperire nell'accordo di programma con l'Anas le risorse necessarie per finanziare i progetti delle opere previste nell'accordo medesimo, oltre che, a seguito di precise richieste della regione Basilicata e del comune di Rotonda, anche la strada provinciale n. 4 nella provincia di Potenza, che attraversa Rotonda, sarà oggetto di attenzione da parte di Anas e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti –:
se il Governo intenda adempiere agli impegni preannunciati, fissando una data certa per il ripristino della viabilità ordinaria dell'autostrada A3 oggetto della premessa. (3-01552)
(16 giugno 2015)
RAMPELLI, GIORGIA MELONI, CIRIELLI, LA RUSSA, MAIETTA, NASTRI, TAGLIALATELA e TOTARO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
nel mese di febbraio 2015 il Ministero delle infrastrutture ha presentato alla Commissione europea un piano organico di interventi infrastrutturali composto da settantuno progetti, per un costo totale di sei miliardi di euro, e la richiesta di contributo comunitario per quasi due miliardi e mezzo di euro da spendere entro il 2020;
dei progetti presentati, che riguardano per quasi la metà investimenti nella rete ferroviaria e in percentuali minori i settori marittimo, stradale e aereo, solo una minima parte è destinata ad opere localizzate nel Sud Italia;
proprio nel Meridione, invece, pesano in modo più significativo il ritardo infrastrutturale e le sue conseguenze in termini di mancanza di competitività e di sviluppo dei territori;
nel Mezzogiorno soprattutto le strade e autostrade soffrono pesanti ritardi nella realizzazione e mancano di interventi di manutenzione e ammodernamento, penalizzando sia gli utenti sia il commercio, ancora costretto a muoversi su gomma a causa del fatto che nel Sud si trova meno di un terzo delle linee ferroviarie italiane;
sotto il versante del trasporto aereo, invece, basta citare le difficoltà in cui versano sia l'aeroporto di Crotone in seguito alla sentenza di fallimento della sua società di gestione, da anni in attesa di un organico piano di rilancio e che allo stato sembra essere stato escluso dal contratto di programma dei servizi Enav per il triennio 2016-2018, sia l'aeroporto di Foggia ancora in attesa che siano realizzate le necessarie opere di allungamento della pista;
in Salento, area di importante valenza turistica, continuano ad essere bloccati i lavori per l'ampliamento della strada statale n. 275, che collega Maglie a Santa Maria di Leuca;
in Sicilia è appena entrato in vigore il nuovo orario ferroviario che prevede la soppressione di tutti gli intercity diurni tra Palermo/Siracusa e Roma e l’intercity notte tra Palermo/Siracusa e Milano, costringendo i siciliani che vorranno raggiungere il continente a viaggiare solo di notte e solo da Palermo e da Siracusa verso Roma, mentre per tutte le altre destinazioni dovranno prima raggiungere Messina con un treno regionale e da lì salire a piedi sul traghetto che li porterà in Calabria;
i collegamenti di Trenitalia oltre lo Stretto erano stati già in precedenza fortemente ridotti al numero di appena a dieci corse – tra andata e ritorno – al giorno, a causa della carenza di fondi, e anche il nuovo taglio dei colleganti deciso da Trenitalia farebbe seguito alla mancata erogazione dei fondi statali;
pesano sul ritardo infrastrutturale del Sud anche le difficoltà nella spesa dei fondi europei, rispetto ai quali si attende proprio in questi mesi l'accordo in sede europea sulla riprogrammazione delle opere proposta dall'Italia alla Commissione europea –:
quali urgenti iniziative intenda assumere al fine di colmare il divario infrastrutturale tra le regioni settentrionali e quelle meridionali d'Italia, con particolare riferimento sia allo stanziamento di risorse adeguate sia al migliore utilizzo dei fondi europei. (3-01553)
(16 giugno 2015)
DORINA BIANCHI, GAROFALO e PISO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
il blocco dell'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria tra gli svincoli di Laino Borgo e Mormanno a causa del crollo, nel marzo 2015, di un viadotto sta provocando un gravissimo disagio, sia alla popolazione residente – che, in mancanza di alternative, deve ricorrere per il trasporto privato all'infrastruttura autostradale anche per brevi tratte – sia alle attività turistiche e commerciali;
il cedimento di un pilone sulla A19 Palermo-Catania, il 10 aprile 2015, che ha tagliato in due la Sicilia per un periodo quantificato in un minimo di 18 mesi, ha prodotto e sta producendo danni gravissimi, dal momento che addirittura il 60 per cento del prodotto interno lordo della Sicilia passa attraverso l'autostrada A19 e che i percorsi alternativi a quello autostradale si sono ridotti – praticamente – da tre ad uno;
si ricorda anche la gravissima situazione, in termini di sicurezza degli utenti e di condizioni della struttura, in cui versa la strada statale n. 106 ionica da Reggio di Calabria a Taranto;
quelli citati sono appena tre esempi – forse i più macroscopici, ma certamente non gli unici – della situazione grave in cui versa il sistema viario dell'Italia meridionale;
quello che è un ritardo si sta trasformando in una condizione generale dai caratteri emergenziali, dovuta al rallentamento ormai storico di investimenti ma anche ai segni dell'usura mostrati dall'attuale rete viaria;
al di là dei casi specifici, il vero problema è che le tre emergenze citate dimostrano la fragilità complessiva e l'insostenibilità di un sistema viario nel quale un episodio puntuale di tipo franoso o di cedimento strutturale anche di una breve tratta stradale può mettere in ginocchio intere aree geografiche, bloccare i flussi turistici, rendere più difficoltoso e costoso l'approvvigionamento dei beni d'uso, limitare fortemente la mobilità delle persone;
la politica comunitaria di coesione 2014-2020 assegna alle regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) 22,2 miliardi di euro. Il 29 ottobre 2014 la Commissione europea ha adottato l'accordo di partenariato con l'Italia, con decisione di esecuzione C(2014) 8021 final. Da queste decisioni è scaturita l'impostazione strategica per i fondi strutturali, che è articolata su 11 obiettivi tematici, tra i quali è ricompreso quello di eliminare le strozzature nelle principali infrastrutture di rete –:
se il Ministro interrogato ravvisi gli estremi di una vera e propria emergenza viaria dell'Italia meridionale e quali misure stia apprestando per farvi fronte, sia in termini di risposta immediata alle tre emergenze segnalate, sia in termini prospettici, anche in riferimento a quelle che sono per l'anno 2015 e per gli anni successivi le dotazioni finanziarie complessive riservate – tra fondi europei, risorse del fondo di sviluppo e coesione e risorse derivanti da leggi specifiche – all'infrastrutturazione delle regioni meridionali, con particolare riferimento alla rete viaria, e quali ulteriori modalità intenda adottare per accelerare l'utilizzo delle risorse disponibili. (3-01554)
(16 giugno 2015)