TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 424 di Lunedì 11 maggio 2015

 
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MOZIONI CONCERNENTI INTERVENTI A FAVORE DELLA SARDEGNA

   La Camera,
   premesso che:
    dai dati emersi dalla rilevazione Svimez 2014 continua a registrarsi, per la regione Sardegna, una tendenza fortemente negativa che si riassume con i seguenti dati: diminuzione del prodotto interno lordo rispetto all'anno 2013 pari al 4,4 per cento, perdendo complessivamente negli anni di crisi dal 2007 oltre il 13 per cento di prodotto, tasso di natalità inferiore di due punti percentuale rispetto al tasso di mortalità, ripresa delle emigrazioni con un saldo migratorio (-1,2 per cento), occupazione diminuita del 7,3 per cento nel biennio 2012-2013, tasso di disoccupazione ufficiale pari al 17,5 con tasso di disoccupazione giovanile (giovani con meno di 24 anni) pari al 54 per cento, un aumento della percentuale di laureati emigrati (21,6 per cento) e un tasso di dispersione scolastica pari al 25 per cento, percentuale di famiglie povere pari al 24,8 per cento, saldo fortemente negativo nell'immediato ma con una pesante tendenziale conferma per quel che concerne il numero di cessazioni di imprese, procedure fallimentari e aziende avviate alla liquidazione;
    i dati sopra indicati, comuni peraltro alle regioni del Centro-Sud dell'Italia, si inseriscono in una realtà già gravemente pregiudicata dalla mancata risoluzione di vertenze aperte da troppo tempo con lo Stato italiano;
    la situazione in cui versa la regione è sicuramente anche il frutto del mancato pieno utilizzo delle potenzialità dell'autonomia speciale, ma ancor più gravi sono le responsabilità in capo allo Stato italiano, sempre più patrigno, nella gestione e risoluzione di questioni centrali per l'economia isolana;
    in tale contesto rileva che, a fronte del riconoscimento statutario di quote di compartecipazione alle entrate erariali, spettanti alla regione Sardegna, persistono tuttora difformità di interpretazione in merito ad alcuni tributi erariali e residua un debito statale – di circa un miliardo di euro – da saldare nei confronti della regione sarda, ancora più insopportabile in un momento di forti tagli alla spesa pubblica e tenuto conto che la regione Sardegna attuerà il pareggio di bilancio contribuendo al debito dello Stato per oltre 570 milioni di euro – anni 2013-2014, con una previsione di aumento per il 2015 di 97 milioni di euro. Lo Stato, su questo punto, è inadempiente, come confermato anche dalla sentenza del 2012 della Corte costituzionale e sarebbe necessario trovare urgentemente una soluzione condivisa che detti criteri certi di suddivisione delle quote e determini un maggior rafforzamento del ruolo della regione per risolvere, anche per il futuro, la vertenza;
    in Sardegna oltre 35.000 ettari di territorio sono sotto vincolo di servitù militare. L'isola ospita, infatti, strutture ed infrastrutture al servizio delle Forze armate italiane e della Nato: i poligoni missilistici (Perdasdefogu) e per le esercitazioni aeree (Capo Frasca) e a fuoco (Capo Teulada), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi. La necessità di una riduzione della presenza militare nell'isola è ormai stata riconosciuta in tutte le sedi. Il consiglio regionale, con ordine del giorno n. 9 del 17 giugno 2014, ha impegnato la giunta regionale a chiedere, tra gli altri punti, un riequilibrio in termini di compensazione economica rispetto ai danni ambientali, sanitari ed economici subiti nel corso degli anni a causa del gravame militare nell'isola e la progressiva diminuzione delle aree soggette a vincoli militari e la dismissione dei poligoni. Tuttavia, anche su questo tema, il Governo appare arroccato sulle sue posizioni, ritenendo prevalenti i supremi interessi nazionali rispetto agli interessi del territorio. Anzi, con il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, si parificano per le «aree dove si svolgono esercitazioni militari» le concentrazioni di soglia di contaminazione alle «aree industriali», determinando, in tal modo, gravi pregiudizi al territorio limitrofo, prevalentemente residenziale, all'ambiente, all'agricoltura;
    sempre con riferimento alle servitù militari, un discorso a parte merita la vicenda del poligono sperimentale di addestramento interforze (Salto di Quirra), situato a nord di Cagliari che, con i suoi 120 chilometri quadrati di estensione, è la più importante base europea per la sperimentazione di nuovi missili, razzi e radio bersagli. Ebbene, nel gennaio del 2011, si apre un'inchiesta che porterà alla luce la terribile scoperta che il poligono è stato, per anni, utilizzato come una vera e propria discarica di materiale militare dove si è smaltito uranio impoverito e torio radioattivo. Quest'ultimo, a seguito delle indagini e dei prelievi effettuati è stato ritrovato in diversi alimenti umani e nelle ossa di alcuni pastori deceduti, che, per la loro attività, avevano accesso all'interno del poligono;
    sempre in merito alle servitù militari, il Ministro della difesa Roberta Pinotti ha imposto, unilateralmente, per altri 5 anni i vincoli su Santo Stefano. Il Presidente Pigliaru ha presentato ricorso contro l'imposizione della servitù militare su Guardia del Moro alla Maddalena e chiesto al Consiglio dei ministri un riesame del decreto impositivo della servitù, ma resta il dato di fatto: nonostante la regione Sardegna, attraverso il suo consiglio regionale e la sua popolazione, siano apertamente contro le servitù militari, nonostante il mancato rinnovo della servitù nei tempi consentiti e nonostante il contenzioso in atto con il comune di La Maddalena, il Governo è andato avanti unilateralmente, anteponendo ancora una volta i supremi interessi della «difesa nazionale» alle esigenze dei territori. La procedura della reimposizione sarebbe, dal punto di vista amministrativo, improponibile in quanto lesiva dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione introdotti dalla modifica del titolo V della Costituzione. Anche il tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con una pronuncia del 2012, ha stabilito che l'interesse alla difesa non è superiore all'interesse della comunità locale, definendo entrambi di massimo rilievo e di natura sensibile e ricordando che «le servitù hanno carattere temporaneo proprio perché legate all'esigenza di valutare e rivalutare le situazioni, tenendo conto dei cambiamenti che vive il territorio su cui sono calate»;
    quando lo Stato italiano avrebbe potuto rimediare almeno in parte di danni subiti da questo territorio, non ha invece adempiuto ai propri impegni in occasione del G8 della Maddalena, privando, dapprima, l'isola della possibilità di una vetrina a livello internazionale e trasferendo d'ufficio il vertice in altra regione e, successivamente, non dando corso agli impegni presi in ordine alla bonifica del territorio – impedendo conseguentemente la realizzazione dell'accordo del 2009 con imprese private (di recente, a causa di tale inadempimento la protezione civile è stata condannata a pagare alla società aggiudicatrice circa 36 milioni di euro). Attualmente, pertanto, le acque che dovevamo essere bonificate risultano ancora inquinate e le strutture costruite in stato di abbandono. In generale, il tema dell'ambiente è uno di quelli maggiormente colpiti dall'incuria statale, in quanto sono diversi i siti inquinati che dovrebbero essere oggetto di attenzione da parte del Governo italiano, in particolare quei siti industriali insediati dalle note aziende partecipate statali, che da Porto Torres al Sulcis, passando per la piana di Ottana nel centro Sardegna, hanno compromesso territori di incomparabile bellezza;
    la negazione da parte dello Stato italiano dell'articolo 14 dello statuto della regione Sardegna che prevede la restituzione al patrimonio regionale di tutte le aree demaniali (comprese quelle costiere) e militari nazionali, che non siano più giudicate strategiche ai fini di interesse pubblico, costituisce un ulteriore freno a possibili opportunità di sviluppo economico, soprattutto in ambito turistico ed ambientale, in vaste aree del territorio sardo;
    attenzione che, comunque, il Governo non sembra di avere in merito ad un altro aspetto. La Sardegna, infatti, potrebbe essere prescelta per lo stoccaggio di scorie nucleari radioattive. La notizia in merito alla destinazione di questi rifiuti, già assunta dal comitato interministeriale, è stata rimandata al 3 gennaio 2015, in quanto la società pubblica Sogin si è presa qualche altro giorno di tempo. A nulla sembrano essere servite le prese di posizione dei cittadini sardi che, già nel 2011, con un referendum consultivo avevano detto «no» al nucleare in Sardegna e del governo regionale che, a settembre 2014 con un ordine del giorno, votato all'unanimità, si è impegnato a portare all'attenzione del Governo l'impegno che: «La Sardegna non deve essere inclusa nella lista delle regioni candidate ad ospitare siti nucleari»;
    una nuova «servitù» sembra contraddistinguere la Sardegna: quella relativa al regime carcerario per i detenuti ai sensi dell'articolo 41-bis. A seguito, infatti, della recente revisione normativa, dove si statuisce «preferibilmente detenuti nelle aree insulari», sembra che l'isola sia stata trasformata nell'area per eccellenza di detenzione di mafiosi, ergastolani e terroristi. Non va dimenticato che, anche di recente, è stata ventilata la demenziale proposta di una possibile riapertura del carcere dell'Asinara. A questo si deve aggiungere la presenza sul territorio sardo di un numero di strutture carcerarie più elevato rispetto alle altre regioni italiane (2.700 posti detentivi per 1 milione e 600 mila abitanti) che determineranno il trasferimento dalla penisola, in contrasto con il principio della «territorializzazione» della pena sancita dall'ordinamento penitenziario, di un numero elevato di detenuti. Ancora una volta, gli interessi nazionali prevalgono sugli interessi del territorio e ancora una volta un nuovo peso si aggiunge a quelli già presenti sul territorio sardo;
    con riferimento, invece, alle calamità naturali che hanno colpito la regione nel novembre 2013, lo Stato deve rispettare i propri impegni anche su tale versante, tenuto conto che, ad oggi, si registrano ritardi nei tempi e nelle entità dei risarcimenti dovuti. Spiace, peraltro, constatare una diversità di trattamento rispetto ad altre regioni che purtroppo hanno dovuto affrontare la stessa problematica – ad esempio, in Emilia-Romagna lo Stato è intervenuto con il decreto-legge n. 74 del 2014, recante disposizioni urgenti per l'Emilia-Romagna. A fronte della catastrofe immane che ha colpito duramente il territorio sardo (19 morti, 2.700 sfollati e circa 700 milioni di danni) lo stesso presidente della regione ha pubblicamente ricordato che lo Stato non ha praticamente dato nulla alla causa sarda e che mancherebbero all'appello circa 474 milioni di euro. Anche di recente si è cercato con emendamenti a diversi provvedimenti all'esame del Parlamento di prevedere l'esclusione dal patto di stabilità di tutti gli stanziamenti per opere e interventi legati all'evento alluvionale, compresi anche i fondi avuti dai comuni in beneficenza, ma il Governo continua ad essere sordo;
    di recente poi, l'articolo 38 del decreto-legge n. 133 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164 del 2011, rubricato «Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali», ha tolto di fatto agli enti locali – non solo sardi – il potere di veto su ricerca di petrolio e trivellazioni, trasferendo la competenza delle valutazioni di impatto ambientale su attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale dalla regione allo Stato. In Sardegna, l'effetto della norma si avrà sulla zona di Arborea, interessata dal cosiddetto progetto Eleonora, rispetto al quale gran parte della popolazione è contraria. In un'area di eccezionale interesse naturalistico, a forte vocazione agricola, si vorrebbe autorizzare la trivellazione per la ricerca di giacimenti di gas naturale;
    in Sardegna, inoltre, la produzione di energia dall'uso idroelettrico è piuttosto diffusa e si concentra sui bacini dei fiumi principali, con modeste attività in alcune altre piccole centrali periferiche. La regione, con legge regionale n. 19 del 2006, è subentrata nella titolarità delle concessioni inerenti l'utilizzo dell'acqua, ma la procedura di subentro non è stata completata per gli invasi sfruttati dall’Enel per uso idroelettrico. Enel continua a gestire secondo i firmatari del presente atto di indirizzo impropriamente le centrali, confidando sull'applicazione del decreto legislativo n. 79 del 1999, che ha prorogato le concessioni fino al 2029. Le parti sembrerebbero vicine ad un accordo per la gestione comune delle acque per evitare un contenzioso dovuto, ancora una volta, ad una contraddizione – almeno lamentata da una delle parti – tra una legge statale e regionale. Occorre che lo Stato, anche su questo punto, riconosca i torti subiti fino ad oggi dalla regione;
    la regione per soddisfare esigenze non proprie sta diventando una grande piattaforma di produzione di energia attraverso la costruzione di impianti fotovoltaici, di impianti eolici, lo scavo di pozzi marini per la ricerca del gas naturale. Ferme restando le responsabilità regionali per la mancanza di un piano energetico, la questione del costo dell'energia resta un problema irrisolto e trascurato che compromette pesantemente lo sviluppo economico dell'isola. Sul punto spicca la questione del riconoscimento del regime di essenzialità per gli impianti di produzione sardi, in particolare per quello di Ottana: infatti, la regione è in attesa della proroga anche per il 2015 e del parere dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico. Il riconoscimento dell'essenzialità è fondamentale per permettere ai gestori delle centrali sarde di vedersi riconosciuti da Terna i costi di produzione dell'energia e garantire pertanto alle imprese sarde di poter fruire di prezzi dell'energia più bassi. Questo avviene in un contesto segnato dalla mancata metanizzazione e da costi per energia altissimi: occorre, infatti, ricordare, che la Sardegna è l'unica regione a non avere il metano (a seguito anche dell'uscita dal progetto Galsi, società sostenuta, oltre che dalla regione, anche da Enel ed Edison) e che l'energia ha il costo più elevato d'Italia – 15 per cento in più – Paese peraltro in cui l'energia ha già un costo maggiore rispetto al resto d'Europa);
    la mobilità è un diritto ancora non pienamente riconosciuto alla Sardegna. Il diritto alla mobilità, riconosciuto dall'articolo 16 della Costituzione, deve essere inteso come garanzia per ogni cittadino del trasporto indipendentemente dalla realtà geografica nella quale vive. La continuità territoriale deve eliminare gli svantaggi delle aree del Paese dovute a distanze o insularità. L'articolo 53 dello statuto sardo dispone che la regione sia rappresentata nell'elaborazione delle tariffe ferroviarie e nella regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti terrestri, marittimi ed aerei che possano direttamente interessarla. Fino ad oggi, invece, anche su questo punto si deve registrare un atteggiamento poco rispettoso delle competenze regionali, tanto che la Corte costituzionale, in materia di trasporto marittimo, ha riconosciuto recentemente fondato il ricorso proposto dalla regione volto al riconoscimento del diritto ad una partecipazione effettiva al procedimento in materia di trasporto marittimo. Nelle materie in cui si registra una sovrapposizione di competenze deve essere valorizzato il principio di leale collaborazione; in particolare, ad avviso della Corte costituzionale, le decisioni assunte in materia dallo Stato toccano interessi indifferenziati della regione ed interferiscono in misura rilevante con scelte rientranti nella competenza della regione; pertanto, la regione ha diritto a partecipare ai procedimenti in materia. Occorre, inoltre, vigilare, per evitare, come accaduto in passato, la creazione di pericolosi monopoli nei trasporti marittimi (si deve registrare il caso recente di una pericolosa scalata da parte del gruppo Moby all'interno della società Compagnia italiana di navigazione spa). Si deve, inoltre, ricordare che la regione Sardegna, a seguito dell'accordo stipulato con lo Stato nel 2006 si è accollata interamente le spese sul trasporto pubblico locale che in altre regioni sono finanziate attraverso compartecipazioni a tributi erariali. La provincia di Nuoro, insieme a quella di Matera, è l'unica provincia italiana non servita dalla linea principale a scartamento ordinario delle Ferrovie dello Stato, essendo coperta solo da un tratto a scartamento ridotto, gestito attualmente dall’Arst, società pubblica regionale, e non rientrando nel novero delle grandi opere infrastrutturali dello Stato;
    diversi sono inoltre i casi che hanno interessato la regione sul fronte del lavoro. Per quanto riguarda l'occupazione le responsabilità non sono certamente solo politiche, in quanto è evidente che la produzione industriale rientra in un contesto di mercato e di competitività nazionale, ma occorre ricordare l'assenza di una strategia nazionale industriale e il fatto che la chiusura di molti stabilimenti è la conseguenza degli alti costi di produzione che paga l'insularità (per tutti si cita il caso del sito industriale di Portovesme, uno dei più grandi poli di metallurgia non ferrosa, gestito fino a poco tempo fa da società private come Alcoa, leader mondiale nella produzione di alluminio, la quale ha comunicato la chiusura dello stabilimento sardo nel 2012);
    legato ai problemi dell'insularità e alla crisi occupazionale è la vicenda della compagnia aerea Meridiana (di cui fanno parte, oltre la compagnia aerea, anche Meridiana maintenance, società di manutenzione, Geasar spa, società di gestione dell'aeroporto di Olbia). Ad oggi nessuna soluzione sembra palesarsi all'orizzonte e circa 1.600 dipendenti rischiano il licenziamento. Anche in questo caso l'atteggiamento del Governo italiano è apparso poco incisivo: questo è più che mai evidente, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, nella risposta all'interrogazione n. 3-01155 che il Ministro Lupi ha dato l'11 novembre 2014 nell'aula di Montecitorio;
    anche per quanto riguarda il settore agricoltura non sono state tenute in debita considerazione le specificità sarde, comuni peraltro anche ad altre regioni. Agea, ente nazionale, incurante delle procedure stabilite e validate precedentemente, con un atteggiamento vessatorio verso le peculiarità dell'agricoltura italiana ha dato indicazioni operative ai suoi tecnici rilevatori per una riclassificazione che, ha comportato per la Sardegna e per le altre regioni interessate dalla «macchia mediterranea», la perdita di migliaia di ettari di superficie – 280.000 ettari circa di superficie coltivabile e finanziabile precedentemente riconosciuti – con la conseguenza che, per tantissime domande, presentate a valere sul programma di sviluppo rurale e sulla politica agricola comune, oggi sono riscontrabili gravi anomalie particellari e, di conseguenza, il rischio reale che centinaia o migliaia di operatori del settore debbano restituire somme già percepite. Si è richiesto già al Governo – con la risoluzione n. 7-00396 – un intervento presso l'organismo pagatore Agea affinché sospenda gli effetti del nuovo ciclo di refresh, evitando, in particolare, iscrizioni massive nella banca dati debitori di aziende che invece presentano titoli e requisiti per l'accesso ai premi comunitari;
    altro problema è quello relativo al dimensionamento scolastico che rappresenta forse più di ogni altro come le decisioni prese dall'alto poco si adattino a territori con caratteristiche morfologiche del tutto particolari come è la Sardegna. Anche se dalle aule dei tribunali continuano ad arrivare espressioni negative contro la legge che ha disposto le cancellazioni e gli accorpamenti degli istituti – il decreto-legge n. 98 del 2011 ha fissato l'obbligo di fusione degli istituti comprensivi delle scuole dell'infanzia, elementari e medie con meno di 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche – tale provvedimento comunque ha, di fatto, causato la cancellazione di oltre 1.700 scuole. Seppur reputato «costituzionalmente illegittimo» dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 147 del 2012, occorre in questa sede rilevare come la disposizione non solo contrasta con ogni criterio didattico-pedagogico, comportando la creazione di istituti scolastici abnormi, di difficile gestione e governabilità, ma ha effetti ancora più negativi in un territorio come quello sardo, costringendo a gravosi spostamenti intere famiglie e rappresentando un ulteriore deterrente alla prosecuzione del cammino scolastico degli studenti, in una regione, come in precedenza evidenziato, con il più alto tasso di dispersione scolastica;
    infine, a fronte degli oneri e delle servitù gravanti sul territorio sardo, lo Stato italiano continua a dismettere presidi importanti per il territorio (caserme, uffici dei giudici di pace, tribunali, uffici della motorizzazione civile, sedi della Banca d'Italia), proponendo accorpamenti che ancora una volta non tengono conto delle specificità del territorio isolano, costituito da aree con scarsa densità di popolazione e da collegamenti molto spesso difficili;
    le considerazioni sopra esposte evidenziano la persistente prevalenza dell'interesse nazionale rispetto a quello territoriale, segnando profondamente il modo di essere di una regione e, in taluni casi, rischia di compromettere definitivamente la sua vocazione naturale, turistica e culturale;
    sussiste una «specificità» Sardegna dettata anche da un riconoscimento costituzionalmente garantito in merito alla «specialità», che deve essere affrontata autonomamente ed inserita con urgenza nell'agenda dei lavori dal Governo, in modo tale da risolvere definitivamente problematiche che durano da troppo tempo, anche attraverso un ripensamento delle attuali competenze,

impegna il Governo:

   nelle questioni sopra richiamate, ad attivarsi concretamente al fine di superare le criticità esistenti, tenendo nel debito conto gli interessi territoriali in base anche al principio della leale collaborazione tra enti e comunque nel pieno rispetto degli interessi di cui è portatrice la Regione autonoma della Sardegna;
   a prestare un'attenzione «particolare» in termini di assunzione di responsabilità e di riconoscimento delle specificità della realtà e delle problematiche della Sardegna, affinché possano essere superate ed orientate ad una valorizzazione delle vocazioni principali dell'isola stessa;
   ad inserire nell'agenda dei lavori del Governo la questione Sardegna, anche attraverso l'istituzione di uno specifico tavolo di lavoro congiunto Stato-regione per l'esame urgente delle vertenze ancora aperte e per definire, in particolare, tutte le iniziative utili a garantire la loro risoluzione in tempi certi.
(1-00697)
«Capelli, Piras, Vargiu, Dellai, Tabacci, Labriola, Di Gioia, Lo Monte, Fauttilli, Pinna».
(13 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati contenuti nel rapporto Svimez 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a Roma il 28 ottobre 2014, offrono una fotografia allarmante della perdurante e gravissima crisi economica, sociale e finanziaria che la regione Sardegna sta attraversando. Nel 2013 nell'isola si è registrato un calo del prodotto interno lordo pari al 4,4 per cento rispetto al 2012. Dallo studio emergono anche altri dati preoccupanti: tasso di disoccupazione ufficiale pari al 17,5 per cento, tasso di disoccupazione giovanile (giovani con meno di 24 anni) pari al 54,2 per cento, percentuale di famiglie residenti monoreddito pari al 53,1 per cento, percentuale di famiglie povere sul totale famiglie (povertà relativa) nel 2013 pari al 24,8 per cento. I numeri che riguardano l'isola si inseriscono in un quadro negativo generale registrato per tutto il Centro-Sud d'Italia. Se si considera il dato cumulato dei sei anni di crisi, dal 2008 al 2013, la riduzione del prodotto interno lordo, che per la Sardegna è del 13 per cento, risulta per quasi tutte le regioni meridionali – ad eccezione del solo Abruzzo (-7,3 per cento) – di entità assai forte;
    è doveroso sottolineare che la situazione di stallo in cui versa oggi la regione Sardegna scaturisce da una serie infinita di scelte opinabili da parte della politica regionale e nazionale nel corso degli ultimi decenni. Gli amministratori locali che si sono succeduti nel tempo non sono stati in grado o non hanno avuto la volontà di attuare una programmazione nel medio e nel lungo periodo e non hanno sfruttato le potenzialità dell'autonomia speciale. Grandi responsabilità restano in capo anche e soprattutto ai Governi nazionali che non hanno mai prestato la dovuta attenzione alle problematiche dell'isola, ritenendo in numerosissime occasioni non prioritaria la ricerca delle soluzioni delle criticità presenti nel territorio;
    innumerevoli sono le vertenze con lo Stato italiano aperte da tempo e mai risolte. Tra i numerosi fallimenti che è impossibile non imputare a una politica incapace negli anni di compiere scelte risolutive è d'obbligo citare, in primo luogo, la perdurante «vertenza entrate», fondata sul riconoscimento dell'articolo 8 dello statuto autonomo. La Regione autonoma della Sardegna vanta da tempo un credito con lo Stato italiano di centinaia di milioni di euro per il mancato trasferimento di una parte consistente di entrate tributarie, come confermato dalla Corte costituzionale nel 2012. Nonostante l'annuncio, il 1o aprile 2015, dell'arrivo nelle casse regionali di 300 milioni di euro dallo Stato, come acconto del credito della regione per gli anni dal 2010 al 2014, la questione rimane ancora non conclusa, risultando pertanto necessario arrivare nel più breve tempo possibile a una soluzione definitiva e condivisa;
    la Sardegna, a causa della sua insularità, dell'ampiezza e della particolare conformazione del territorio, vive da sempre una condizione di svantaggio rispetto alla penisola in termini di erogazione di servizi e di potenzialità di sviluppo economico, aggravata dalla totale inadeguatezza del sistema dei trasporti e della viabilità e da una forte carenza infrastrutturale che ostacolano la circolazione di merci e persone. Il problema dei difficili collegamenti, sia via mare che via aerea, da e per il continente rappresenta una delle più grandi criticità per la regione, tanto da poter affermare che la popolazione sarda subisce costantemente una limitazione del pieno godimento del diritto alla mobilità e dello strumento della continuità territoriale, intesa come capacità di garantire un servizio di trasporto che non penalizzi cittadini residenti in territori meno favoriti. In data 18 luglio 2012 è stata stipulata tra il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e la Compagnia italiana di navigazione spa una convenzione che disciplina gli obblighi e i diritti derivanti dall'esercizio di servizi di collegamento marittimo in regime di pubblico servizio con le isole maggiori e minori, redatta ai sensi dell'articolo 1, comma 998, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e dell'articolo 19-ter del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009. A distanza di due anni e mezzo dalla firma è evidente che tale convenzione non ha portato alcun vantaggio alla regione Sardegna, né in termini economici né in termini di servizi offerti al cittadino, risultando pertanto necessaria, in vista della scadenza del primo periodo regolatorio stabilita per il 31 dicembre 2015, una profonda rivisitazione della stessa con miglioramenti e aggiustamenti che siano di reale garanzia degli interessi dell'utenza. I difficili e costosi collegamenti da e per l'isola, inoltre, rappresentano un freno anche per lo sviluppo turistico della regione, settore di rilevanza fondamentale che andrebbe maggiormente sostenuto, valorizzando l'immenso patrimonio naturalistico e artistico che la Sardegna offre;
    se i collegamenti da e per la penisola sono problematici, i trasporti all'interno dell'isola appaiono a loro volta carenti e inadeguati. L'utilizzo dei trasporti su rotaia è costantemente disincentivato a causa delle pessime condizioni in cui versa la rete ferroviaria della regione e del limitato numero di treni che percorre l'isola quotidianamente. La rete principale della Sardegna si compone solamente di quattro linee ferroviarie. Dei 432 chilometri a scartamento ordinario soltanto 51 sono a doppio binario. Interi territori, che comprendono anche comuni molto popolosi, non sono serviti da treni. Talvolta, l'unico modo per raggiungere le stazioni più vicine rispetto al luogo di residenza è utilizzare i mezzi propri. I pendolari sardi, inoltre, sono quotidianamente costretti ad estenuanti attese nelle stazioni e impiegano tempi molto lunghi per percorrere brevi distanze, con tutti i disagi che ne conseguono. Non meno critica è la situazione che riguarda le pericolose strade statali per le quali si aspettano, da tempo, interventi di ammodernamento e di messa in sicurezza. Anche a tal proposito non si può non sottolineare l'assoluta disattenzione nei confronti della Sardegna da parte di uno Stato centrale, che preferisce stanziare miliardi di euro per infrastrutture inutili e dannose a scapito di opere che sono necessarie e urgenti e che richiedono senza dubbio l'utilizzo di minori risorse;
    in Sardegna è in atto o è stato annunciato l'avvio di numerosi processi di privatizzazione di società a capitale pubblico, prevalentemente regionali. Molte delle aziende coinvolte fanno parte del settore dei trasporti, sia marittimi sia aerei. Si possono ricordare, soltanto per citare degli esempi, la Sardegna regionale marittima spa (Saremar), società di gestione del pubblico servizio di linea tra la Sardegna, le isole minori e la Corsica, il cui azionariato è oggi detenuto al 100 per cento dalla regione, e la società della regione Sogeaal spa, che gestisce l'aeroporto «Riviera del Corallo» di Alghero-Fertilia. Tali privatizzazioni, conseguenza di discutibili scelte politiche nazionali e regionali compiute nel tempo ed oggi presentate come unica soluzione per il mantenimento in vita delle società, destano preoccupazioni per il rischio di un abbassamento dei livelli di qualità dei servizi offerti al cittadino e della perdita di posti di lavoro;
    una delle più gravi criticità della Sardegna è l'altissimo tasso di disoccupazione, il cui aumento non pare arrestarsi, arrivando alla fine del 2014 al 18,2 per cento. Risulta pertanto necessaria e non più procrastinabile l'adozione di iniziative urgenti volte concretamente al superamento della drammatica crisi occupazionale che investe il territorio. L'emergenza occupazionale si ricollega indissolubilmente alle numerosissime crisi industriali che stanno attraversando le aziende presenti nella regione. Sono molte le imprese che sono state costrette a dichiarare fallimento o che sono in procinto di farlo, la cui chiusura, oltre a provocare un ulteriore freno allo sviluppo economico dell'isola, sta determinando pesanti perdite di posti di lavoro nell'ordine di decine di migliaia. Tra le maggiori realtà imprenditoriali interessate dalle crisi aziendali è doveroso ricordare, oltre all’Alcoa e all'ex-Ila, la Keller elettromeccanica spa, produttrice di carrozze ferroviarie con stabilimento primario a Villacidro e stabilimento secondario in Sicilia, il cui fallimento è stato recentemente decretato dalla corte d'appello del tribunale di Cagliari, che ha rigettato il ricorso contro la sentenza di primo grado presentato dai lavoratori, dalle organizzazioni sindacali, dalla regione Sardegna e dalla regione Sicilia insieme con il Ministero dello sviluppo economico;
    di grandi dimensioni è la vertenza Meridiana, gruppo di primaria importanza in Italia nel settore del trasporto aereo, che sta vivendo da tempo una profonda crisi aziendale. Il 15 settembre 2014 la compagnia ha comunicato l'avvio della procedura di mobilità e licenziamento collettivo per 1.634 lavoratori in esubero, di cui una rilevante percentuale residente in Sardegna. Dopo l'apertura di un tavolo tecnico interministeriale e la scelta, quasi obbligata, da parte di circa 300 dipendenti dell'esodo «incentivato», soltanto per citare le tappe più significative della vicenda, in data 30 aprile 2015 è stato siglato presso la sede del Ministero dello sviluppo economico un accordo grazie al quale 1.340 lavoratori potranno beneficiare di un altro anno di cassa integrazione straordinaria, il cui pagamento sarà anticipato dalla compagnia dell'Aga Khan. Per i dipendenti del gruppo che rischiano il licenziamento questo passo rappresenta senza dubbio un segnale positivo, ma si tratta soltanto di una soluzione provvisoria, risultando pertanto necessari interventi più incisivi da parte dei Ministeri competenti per scongiurare definitivamente il rischio del licenziamento collettivo, che, se verrà messo in atto, porterà per la Sardegna un ulteriore peggioramento della situazione occupazionale già drammatica;
    scarsa è l'attenzione prestata, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, dai Governi nazionali che si sono susseguiti negli anni rispetto al tema dell'inquinamento ambientale nella regione Sardegna. In particolare, l'industrializzazione e i processi di destrutturazione produttiva di aree di inestimabile bellezza, come il Sulcis-Iglesiente, hanno compromesso gli equilibri naturali, provocando pesanti danni all'ecosistema naturale e alla salute fisica e psichica della popolazione. Un'area gravemente colpita è quella di Portovesme. Nel grande polo industriale specializzato nella metallurgia non ferrosa, unico in Italia per le sue produzioni di alluminio da bauxite, zinco, piombo e acido solforico, oro, argento e alluminio primario, hanno operato a lungo industrie quali EurAllumina spa, Otefal sail spa, Portovesme srl, Alcoa, Rockwool Italia spa, Carbosulcis spa. La presenza di tre discariche di rifiuti industriali nel comune di Carbonia, di cui una dell'azienda Ecodump (di Riverso srl), una della Portovesme srl ed una della Carbosulcis spa, ha avuto conseguenze devastanti per il territorio che non possono essere sottovalutate. La discarica Ecodump, nel 2012, è finita al centro di un'inchiesta per traffico illecito di rifiuti pericolosi, falso ideologico e attività di gestione di rifiuti non autorizzata. Nel 2012 è stata aperta un'indagine per traffico di rifiuti altamente pericolosi prodotti dagli impianti della Portovesme srl che sarebbero stati smaltiti illecitamente in cave del territorio cagliaritano, con un risparmio per la società di circa 3,6 milioni di euro;
    preoccupano le possibili conseguenze negative che potrebbero derivare per l'ambiente e per la salute dei cittadini dai presunti sversamenti di olio combustibile nei terreni sottostanti i serbatoi di alimentazione dei gruppi 1 e 2 della centrale termoelettrica della E.on di Fiume Santo, situata nella zona nord occidentale della Sardegna, i cui dirigenti si sono trovati recentemente al centro delle cronache giudiziarie. Secondo la procura della Repubblica di Sassari, che ha coordinato le attività di polizia giudiziaria per oltre un anno, i manager, per garantire un risparmio di spesa alla multinazionale tedesca, avrebbero omesso di segnalare alle autorità competenti i suddetti sversamenti e avrebbero consentito, in questo modo, la persistente contaminazione dei terreni e delle falde acquifere del sito interessato, provocando un danno ambientale in aree di interesse pubblico;
    i dati sul rischio idrogeologico in tutto il Paese sono allarmanti e da soli sarebbero sufficienti a determinare un'inversione di rotta delle scelte strategiche che riguardano il territorio. La prevenzione del rischio idrogeologico e la messa in sicurezza del territorio sembrano essere non prioritarie rispetto alla realizzazione di opere faraoniche che portano nuovo cemento e continuano a consumare il suolo. In particolare, per quanto riguarda la Sardegna, l'espansione urbanistica di Olbia è stata inarrestabile e solo nel decennio 1997-2007, secondo Il Sole 24 ore, sono sorti «dal nulla» ventitré quartieri e diciassette piani di risanamento, con evidente scarsa attenzione ai potenziali rischi che ne sarebbero derivati. La Sardegna, se si prendono in considerazione soltanto gli ultimi anni, ha dovuto fronteggiare più di un centinaio di situazioni di dissesto idrogeologico che hanno causato morti e feriti e costretto migliaia di cittadini sardi allo sfollamento. L'alluvione che ha colpito decine di comuni della regione il 18 novembre 2013 è soltanto l'evento naturale più noto. È necessario constatare, anche su questo tema, una forte contraddizione da parte dei Governi che si sono succeduti nel Paese, tra ciò che si annuncia e ciò che in realtà viene realizzato. Dopo le buone intenzioni manifestate «a caldo» e gli impegni assunti nell'immediato, oggi si devono purtroppo ancora registrare fortissimi ritardi nella consegna delle risorse necessarie per far fronte ai danni causati dalla calamità naturale e «l'emergenza Sardegna», seppur ancora molto sentita dai cittadini del territorio sardo, a Roma sembra che sia stata dimenticata. A distanza di quasi un anno, inoltre, dalle piogge alluvionali che hanno colpito pesantemente il nord Sardegna e prevalentemente i comuni di Sorso e Sennori il 18 giugno 2014, provocando danni ingenti – in particolare alle colture e alle infrastrutture – che ammontano a circa 36 milioni di euro, nessun intervento, a quanto risulta, è stato adottato dal Governo in merito;
    in Sardegna, soprattutto nelle stagioni calde, si verifica un numero impressionante di incendi. Il 30 per cento del territorio italiano è costituito da boschi, habitat di moltissime specie naturali e vegetali. Il ricco patrimonio forestale del Paese non è adeguatamente tutelato e ogni anno migliaia di ettari di bosco (circa il 12 per cento negli ultimi 30 anni) vengono distrutti da incendi dolosi e colposi. La Sardegna è la prima regione in Italia per numero di morti a causa di roghi: 73 dal 1945 ad oggi. Molto spesso la scarsa disponibilità di mezzi, soprattutto d'aria, rende più complessi e meno tempestivi gli interventi per sedare gli incendi. Nel luglio 2014 in poche ore nell'area collinare di Sibiri e delle campagne che si trovano nel triangolo tra Guspini, Gonnosfanadiga e Arbus sono andate in fumo migliaia di ettari fra boschi di sugherete, macchia mediterranea, pascoli e uliveti. Nonostante la palese necessità di incrementare nei numeri la flotta aerea antincendio dello Stato anziché ridurla, come si è fatto in particolare negli ultimi due anni, anche per il 2015 non risultano iniziative che prevedano un aumento della disponibilità di mezzi aerei per far fronte agli incendi boschivi. Nel 2014, nei mesi di luglio e agosto, sono stati messi a disposizione un massimo di 15 Canadair del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e due Erickson S-64 del Corpo forestale dello Stato. Il 12 agosto 2013 l'allora Presidente del Consiglio dei ministri, Enrico Letta, ha annunciato la vendita di tre dei dieci aerei di Stato, un Airbus A-319 e due Falcon 900, per un valore complessivo di mercato stimato in circa 50 milioni di euro da destinare al potenziamento della flotta antincendio, ma non risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo che le suddette risorse siano state trasferite e nessuna notizia si ha ad oggi a proposito della vendita dei mezzi di Stato;
    il decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 («Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive»), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, ha tolto alle regioni il potere di veto su ricerca di petrolio e trivellazione. La competenza delle valutazioni di impatto ambientale su attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale è passata allo Stato. Anche la Sardegna potrebbe essere colpita dagli effetti di tale norma, in particolare per quanto riguarda la realizzazione del cosiddetto «progetto Eleonora» della Saras spa, cui si sta opponendo fortemente la popolazione locale. Se fossero autorizzate le trivellazioni per la ricerca di giacimenti di gas naturale si andrebbe, infatti, a deturpare un territorio, quello di Arborea, di immenso valore naturalistico, posto a circa 200 metri di distanza dalle aree umide di importanza internazionale tutelate dalla Convenzione di Ramsar, dove vige un vincolo paesaggistico e di conservazione integrale, con costi altissimi per la salute dei cittadini, per l'ambiente e per l'economia della zona;
    altra questione di grande rilievo per l'isola è quella relativa al costo dell'energia, problema che non si è mai affrontato con la dovuta attenzione e che ancora oggi non trova soluzioni da parte del Governo. La criticità, già notevole in tutto il territorio italiano, è ancora più accentuata nella regione. I costi per l'energia, già in generale in Italia maggiori rispetto al resto d'Europa, in Sardegna sono i più alti del Paese, nonostante il surplus di produzione regionale. È doveroso constatare, anche a questo proposito, la mancanza di interventi veramente efficaci finalizzati alla riduzione del costo delle bollette dell'energia elettrica da parte di un Governo che ha attuato finora, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, soltanto politiche in materia che si sono rivelate fallimentari;
    in Sardegna più di 35.000 ettari di territorio sono sotto vincolo di servitù militare. L'isola ospita oltre il 60 per cento delle basi militari italiane, strutture e infrastrutture al servizio delle Forze armate italiane o della Nato, un pesante fardello che la regione si porta dietro da decenni. Nonostante la pesante opposizione di cittadini e comitati spontanei che chiedono a gran voce la dismissione dei poligoni e la bonifica dei territori inquinati per i problemi economici e sociosanitari derivanti dalla massiccia presenza militare sull'isola, anche in questo caso la politica, nel corso degli anni, si è mostrata sorda di fronte alle richieste della popolazione. Nel comune di Perdasdefogu, a nord di Cagliari, ha sede il poligono sperimentale e di addestramento interforze del Salto di Quirra che si estende per 120 chilometri quadrati. Un'inchiesta aperta nel 2011 ha rivelato che il poligono è stato utilizzato per lungo tempo come discarica di materiale militare in cui sono stati smaltiti uranio impoverito e torio radioattivo. Quest'ultimo è stato ritrovato, in seguito alle analisi effettuate, in numerosi alimenti destinati all'uomo e nelle ossa di alcuni pastori che prima di ammalarsi e di morire erano transitati nelle aree del poligono. Il poligono permanente per esercitazioni terra-aria-mare di Teulada, il secondo poligono in Italia per estensione, occupa una superficie di 7.200 ettari di terreno e preclude alla navigazione e alla pesca uno specchio d'acqua di circa 450 chilometri quadrati. Il poligono di Capo Frasca si estende per 1.400 ettari a terra lungo la costa occidentale dell'isola e comprende una fascia di 3 miglia a mare interdetta alla navigazione. Oltre a numerose sedi di comandi militari di Esercito, Aeronautica e Marina, in Sardegna è presente anche un aeroporto militare, quello di Decimomannu. Nell'ottobre 2014 il Ministro della difesa ha firmato il decreto di reimposizione della servitù militare su Guardia del Moro a La Maddalena. L'interrogazione a risposta in Commissione n. 5-04728, a prima firma Emanuela Corda, presentata l'11 febbraio 2015, con cui si chiedevano al Ministro della difesa le motivazioni della reimposizione della servitù di Guardia del Moro, ha ricevuto dal ministro interrogato una risposta del tutto insoddisfacente. Il Ministro, anziché dare spiegazioni agli interroganti, ha dichiarato che fornirà maggiori informazioni di dettaglio in seguito all'esito della relativa determinazione da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri richiesta dalla regione Sardegna. Anche il tribunale amministrativo regionale della Sardegna si è espresso in merito, stabilendo, con una pronuncia del 2012, che l'interesse alla difesa non è superiore all'interesse della comunità locale, definendo entrambi di massimo rilievo e di natura sensibile e affermando che «le servitù hanno carattere temporaneo proprio perché legate all'esigenza di valutare e rivalutare le situazioni, tenendo conto dei cambiamenti che vive il territorio su cui sono calate»;
    in Sardegna sembrerebbe previsto a breve il trasferimento di 92 detenuti sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario nella casa circondariale di Sassari-Bancali. La notizia ha destato non poche preoccupazioni tra i cittadini dell'isola, in particolare per i rischi di infiltrazioni e di investimenti della criminalità organizzata che potrebbero derivare da tale trasferimento. Sarebbe pertanto necessario e urgente intervenire per potenziare le forze dell'ordine nel territorio, in modo da garantire maggiore sicurezza alla popolazione, nonché per il riconoscimento dell'autonomia della corte d'appello di Sassari, oggi sede distaccata della corte d'appello di Cagliari, e per la relativa istituzione degli uffici della direzione distrettuale antimafia nella città nel nord dell'isola;
    l'isola de La Maddalena, territorio che può vantare una rara bellezza naturalistica, era stato indicato nel 2009 come luogo ideale per ospitare il vertice dei «grandi della terra», evento che avrebbe portato alla Sardegna grande visibilità a livello nazionale e internazionale, turismo, posti di lavoro e avrebbe dato una grossa mano all'economia regionale. Nonostante ingenti somme di denaro pubblico già spese per avviare opere e per la bonifica del mare, la Presidenza del Consiglio dei ministri ha stabilito di trasferire la sede del G8 a L'Aquila, dove si è poi tenuto. In tal modo i lavori eseguiti, a tempo di record, fino a quel momento sono stati pressoché inutili. Oggi, a distanza di sei anni dal G8, lo Stato italiano non ha ancora dato corso agli impegni assunti per quanto riguarda le bonifiche. Le acque che dovevano essere bonificate risultano ancora inquinate e le strutture costruite versano in uno stato di abbandono. Per il G8 de La Maddalena, secondo i dati ufficiali, sono stati spesi circa 327 milioni di euro, anche se gli investimenti parrebbero superare il mezzo miliardo di euro. Il milionario progetto privato che consisteva in un polo di lusso per la vela, gestito dalla Mita resort dall'ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, di fatto non è mai partito e, a causa delle mancate bonifiche, lo Stato italiano è stato di recente condannato a risarcire l'impresa appaltatrice con 36 milioni di euro;
    la regione sembrerebbe destinata a diventare sede del deposito nazionale di scorie nucleari radioattive, nonostante il netto pronunciamento in occasione del referendum consultivo regionale, svoltosi il 15 e il 16 maggio 2011, da parte della popolazione sarda contro l'installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti (848.634 «sì», corrispondenti al 97,13 per cento dei votanti). Il dissenso unanime dei cittadini, dei comitati e delle istituzioni locali e regionali nei confronti dell'individuazione dell'isola come sede del deposito di scorie radioattive scaturisce da precisi motivi, primo fra tutti il reale rischio di compromissione dell'ambiente in un territorio già fortemente penalizzato a causa degli oneri eccessivi delle servitù militari, come sopra esposto. A causa dell'insularità della regione, inoltre, è utile non sottovalutare le implicazioni catastrofiche che potrebbe determinare il trasporto dei materiali radioattivi via mare in caso di incidente, come denunciato anche dall'Enea;
    preoccupano i rischi di inquinamento ambientale che potrebbero essere provocati dall'espansione verso il centro abitato dell'aeroporto di Cagliari-Elmas, così come previsto dal master plan. Il piano di sviluppo aeroportuale prevede, con un investimento totale di 93,9 milioni di euro, un ampliamento del sedime verso nord-est per la realizzazione di un piazzale aeromobili di aviazione generale e aree di sosta, la razionalizzazione e rilocazione dei servizi aeroportuali e delle installazioni militari presenti nelle aree a sud est del sedime per la loro trasformazione in piazzali per aeromobili di aviazione commerciale per passeggeri e merci, la ristrutturazione delle installazioni presenti a ovest del sedime aeroportuale per la creazione di una base tecnica manutentiva e per l'insediamento di un parco logistico e l'ampliamento del lato nord-est dell'aerostazione passeggeri. Il 13 giugno 2014 il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo hanno firmato il decreto ministeriale n. 162 che stabilisce la compatibilità ambientale del progetto, cui si stanno opponendo con forza – in particolare per la parte relativa all'ampliamento verso la città – gli abitanti di Elmas;
    anche per quanto riguarda l'agricoltura, un settore produttivo di notevole importanza per l'economia della regione, non sono state considerate nel modo più opportuno le potenzialità del territorio. La nuova classificazione dell'uso del suolo, che ha trasformato in boschi quelli che venivano considerati pascoli a macchia mediterranea, ha provocato notevoli problemi per le aziende agricole sarde che rischiano oggi di perdere milioni di contributi comunitari a causa dell'inserimento nella «lista nera» da parte dell'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura). Il cambiamento di uso, da agricolo a non agricolo, interessa decine di migliaia di ettari di superficie coltivabile e finanziabile. Secondo le stime, inoltre, le 12 mila aziende sarde perderanno a causa del refresh circa 12 milioni di euro per ciascuna annualità;
    secondo il dossier pubblicato nel 2014 dalla rivista Tuttoscuola sulla dispersione scolastica la regione italiana che nel quinquennio 2009/2014 ha in assoluto perso più studenti della scuola secondaria superiore è stata la Sardegna: 6.903 allievi pari al 36,2 per cento. In un territorio dove i numeri sull'abbandono prematuro degli studi sono impressionanti sono a maggior ragione necessari interventi volti al contrasto di questo fenomeno e che siano finalizzati al superamento degli ostacoli che contribuiscono ad acuire il problema. Per effetto del comma 4 dell'articolo 19 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (”Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, sono state soppresse più di 1.700 scuole e sono stati creati istituti scolastici enormi e difficili da gestire. Ciò ha provocato, tra le altre cose, non pochi disagi per le famiglie, costrette a dover affrontare lunghi e difficoltosi spostamenti quotidiani in un territorio, come già sottolineato, con caratteristiche morfologiche particolari e che pecca di un carente sistema di trasporti. La norma suddetta è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza 4 giugno 2012, n. 147, ma risulta che molte sedi scolastiche non siano state ripristinate;
    è opportuno segnalare, infine, la continua dismissione di presidi importanti per la regione, come uffici dei giudici di pace, tribunali, uffici della motorizzazione civile, sedi della Banca d'Italia, e il relativo accorpamento che, anche in questo caso, non fanno altro che aumentare i disagi per la popolazione sarda,

impegna il Governo:

   ad inserire con urgenza nell'agenda dei lavori dell'Esecutivo l'adozione di iniziative volte al superamento di tutte le criticità evidenziate, valorizzando il principio costituzionale di leale collaborazione tra Stato, regioni ed enti locali nelle materie in cui si registra una sovrapposizione di competenze e rimuovendo ostacoli procedurali, al fine di affrontare concretamente annose problematiche che affliggono il territorio ed arrivare alla soluzione della «questione Sardegna»;
   ad esaminare proficuamente la «questione Sardegna», anche attraverso l'istituzione di un tavolo tecnico di lavoro con la Regione autonoma della Sardegna e con il coinvolgimento degli enti locali al fine di analizzare tutte le problematiche sopra esposte e giungere, in tempi certi, a soluzioni condivise e concrete delle numerose vertenze aperte, tenendo nel debito conto gli interessi territoriali e promuovendo e potenziando le vocazioni principali dell'isola, facendo di queste una forza da sfruttare nel modo più opportuno per avviare rapidamente una ripresa dell'economia della regione;
   a provvedere con urgenza alla consegna delle somme di cui la Regione autonoma della Sardegna è creditrice con lo Stato per il mancato trasferimento di una parte consistente di entrate tributarie, come confermato anche dalla Corte costituzionale nel 2012, al fine di arrivare in tempi rapidi alla conclusione della cosiddetta «vertenza entrate»;
   ad adottare iniziative, anche normative, al fine di garantire un degno sistema di trasporti per la Sardegna, già in una condizione di svantaggio per l'insularità e per la particolare conformazione del territorio, aggravata da un'inadeguatezza dei collegamenti da e per il continente e all'interno dell'isola, affinché sia tutelato il diritto alla mobilità per i cittadini sardi e non sia compromessa la continuità territoriale;
   ad adottare con urgenza iniziative per la messa in sicurezza delle strade statali della regione, attualmente insicure e pericolose, e per la realizzazione o per il completamento di opere infrastrutturali utili per la popolazione, sottraendo risorse a progetti dannosi per l'ambiente e per il territorio e di dubbia necessità oggettiva;
   ad attivarsi per cercare insieme con la Regione autonoma della Sardegna soluzioni comuni, per quanto di competenza e nel rispetto delle disposizioni normative vigenti, per il salvataggio di aziende pubbliche regionali che rischiano la chiusura e per la salvaguardia dei posti di lavoro, anche considerando l'eventualità di non procedere alle operazioni di privatizzazione previste per alcune di queste;
   a promuovere e ad adottare iniziative urgenti e concrete per il necessario superamento della crisi occupazionale in atto in Sardegna, la quale ha ormai raggiunto caratteri allarmanti;
   a prevedere misure urgenti, di concerto con la Regione autonoma della Sardegna, per la salvaguardia dei posti di lavoro dei dipendenti della Sardegna regionale marittima spa (Saremar), società di gestione del pubblico servizio di linea tra la Sardegna, le isole minori e la Corsica;
   ad adottare iniziative urgenti e maggiormente incisive rispetto alle azioni finora intraprese affinché si arrivi ad una rapida conclusione della vertenza Meridiana al fine di scongiurare definitivamente il rischio del licenziamento collettivo per centinaia di dipendenti del gruppo;
   ad adottare tutte le iniziative che riterrà opportune per la prevenzione del rischio idrogeologico nel medio e nel lungo termine, per la messa in sicurezza del territorio, per la prevenzione e per il contrasto degli incendi boschivi, anche con l'incremento della flotta aerea antincendio dello Stato, per preservare il territorio della Sardegna dai rischi derivanti dall'inquinamento ambientale, troppo spesso provocato dalla «mano umana», tutelando con ogni mezzo a disposizione l'inestimabile patrimonio naturalistico della regione e salvaguardando la salute dei cittadini;
   a colmare con urgenza i ritardi nella consegna delle risorse annunciate per far fronte ai pesanti danni provocati dall'alluvione del 18 novembre 2013 e ad adottare ogni iniziativa che riterrà opportuna a favore dei cittadini e, in particolare, degli imprenditori colpiti dal nubifragio della Romagna del 18 giugno 2014;
   a non concedere alcuna autorizzazione per trivellazioni per la ricerca di giacimenti di gas naturale nel territorio sardo, visti gli altissimi costi, già ampiamente calcolati, per la salute dei cittadini, per l'ambiente e per l'economia che potrebbero derivare dalla realizzazione di tali progetti, come il «progetto Eleonora» nella zona di Arborea, considerato il passaggio allo Stato delle competenze per le valutazioni di impatto ambientale su attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, come previsto dal decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133;
   ad adottare con urgenza iniziative a tutela dei lavoratori del polo industriale del Sulcis-Iglesiente e a promuovere immediati interventi di bonifica delle aree industriali dismesse con conseguente riqualificazione del territorio;
   ad adottare iniziative affinché si proceda urgentemente ad una verifica della reale entità dei danni ambientali nell'area della centrale di Fiume Santo e affinché siano accelerate, per quanto di competenza, le procedure di bonifica del sito suddetto e si individuino gli strumenti di intervento per mettere in sicurezza il territorio;
   ad adottare ogni iniziativa che riterrà opportuna al fine di tutelare con ogni mezzo a disposizione la salute dei cittadini della Sardegna, considerato che, in modo particolare nelle aree industriali e in quelle che necessitano di bonifica, il tasso di mortalità registrato, soprattutto per malattie causate dall'inquinamento ambientale, è elevatissimo;
   ad adottare iniziative, incisive e concrete, finalizzate alla riduzione del costo dell'energia che in Sardegna oggi è molto elevato;
   ad adottare iniziative volte alla riduzione della massiccia presenza militare sull'isola e alla bonifica dei territori inquinati;
   ad adottare iniziative finalizzate al riconoscimento della corte d'appello di Sassari come sede autonoma e alla relativa istituzione degli uffici della direzione distrettuale antimafia nella città nel nord dell'isola;
   a dare corso agli impegni assunti dallo Stato italiano per quanto riguarda la bonifica del territorio de La Maddalena, anche al fine del potenziamento dello sviluppo turistico dell'area;
   a rispettare la volontà espressa dai cittadini sardi che in occasione del referendum consultivo del 2011 in materia di nucleare si sono largamente dichiarati contrari all'installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti;
   ad intervenire affinché non sia realizzata la parte del progetto di ampliamento dell'aeroporto «Mario Mameli» di Cagliari verso il centro abitato, valutando con particolare attenzione le conseguenze negative per la città di Elmas e per le zone limitrofe che potrebbero derivare da tale espansione;
   ad intervenire presso l'Agea affinché si sospendano gli effetti della nuova classificazione dell'uso del suolo per la tutela di moltissime aziende agricole che rischiano di perdere a causa del cambiamento di uso, da agricolo a non agricolo, milioni di euro di contributi comunitari su cui contavano per il mantenimento e per lo sviluppo delle proprie attività;
   ad adottare iniziative volte al contrasto del fenomeno della dispersione scolastica, che in Sardegna ha raggiunto livelli allarmanti anche a causa della chiusura di molte sedi scolastiche.
(1-00850)
«Nicola Bianchi, Corda, Vallascas, Sibilia».
(8 maggio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo quanto risulta da un recente documento elaborato dall'Istat, le prospettive dell'economia italiana per il 2015-2017 indicano un aumento del prodotto interno lordo nel 2015 (+0,7 per cento), cui seguirà una crescita dell'1,2 per cento e dell'1,3 per cento nel biennio successivo, i cui effetti determineranno la conclusione della fase recessiva del triennio precedente;
    al riguardo, i firmatari del presente atto di indirizzo evidenziano che, a fronte di tali indicatori, obiettivamente modesti, che rimangono al di sotto della media europea, permangono evidenti e gravissime componenti macroeconomiche negative, che rallentano fortemente il consolidamento della ripresa della domanda interna e dei consumi nel Paese, i cui timidi segnali di miglioramento rischiano di essere vanificati rapidamente, se dovesse ulteriormente aumentare prossimamente l'iva, come previsto dalla clausola di salvaguardia, a seguito della sentenza della Corte costituzionale sul blocco delle rivalutazioni delle pensioni;
    all'interno del sopra esposto scenario, pertanto, permane fragile il quadro complessivo dell'economia italiana, i cui fattori di debolezza si evidenziano, in particolare, nelle regioni del Mezzogiorno, la cui vastità degli effetti negativi che la crisi economica e finanziaria ha prodotto nel tessuto economico e sociale ha ulteriormente aumentato i divari con le altre aree del Centro-Nord;
    in tale ambito la regione Sardegna, anche a causa della sua insularità che la rende meno concorrenziale rispetto alle altre regioni e per storiche irrisolte questioni, come la continuità territoriale, evidenzia una costante caduta verticale dell'attività economica e produttiva, come dimostrano i principali osservatori nazionali e le analisi della Banca d'Italia, che rilevano come, sia nel 2014 che nel 2015, si siano registrati ulteriori segnali di riduzione della produzione industriale, associati a una diminuzione della domanda di lavoro e alla riduzione del credito alle famiglie e alle imprese della Sardegna;
    le note debolezze strutturali dell'economia regionale isolana, relative al sistema dei trasporti e dei collegamenti stradali, ferroviari e marittimi, le difficoltà legate al diritto alla mobilità, i cui effetti si ripercuotono negativamente sui servizi, sullo spostamento delle persone e delle merci, sul commercio e sui sistemi della logistica e, soprattutto, sull'economia turistica, ribadiscono la necessità di rafforzare le politiche d'intervento in favore dell'area regionale sarda, su cui l'azione del Governo Renzi è stata finora assente e inadeguata, in particolare con riferimento all'insufficienza delle risorse destinate;
    le evidenti politiche di dismissione messe in atto dall'Esecutivo in carica nei riguardi del sistema industriale, artigianale e del terziario della regione Sardegna, come dimostrano il numero delle imprese del Sulcis (pari a 1.250) che hanno cessato l'attività negli ultimi due anni e quelle inattive (oltre 1.110 nel 2014 soggette a procedure concorsuali o in liquidazione), hanno conseguito effetti particolarmente gravi anche nel mercato del lavoro, come dimostrano i dati del primo trimestre del 2015 rilevati dalla Confederazione dell'artigianato e della piccola media impresa sarda;
    la Confederazione nazionale dell'artigianato Sardegna ha infatti evidenziato che, nel primo trimestre del 2015, i lavoratori in uscita risultano pari a 4.820, a fronte di 4.170 assunzioni, con un saldo negativo di – 650 posti di lavoro, aggiungendo, inoltre, come lo scenario economico della Sardegna si caratterizzi negativamente dal numero di persone inattive, pari a 446 mila persone, dal tasso di disoccupazione medio al 18,2 per cento (con quello giovanile che raggiunge oltre il 50 per cento), da 25 mila lavoratori in cassa integrazione guadagni e mobilità in deroga, da oltre 2 mila aziende in crisi e circa 350 mila soggetti che vivono sotto la soglia di povertà, a cui si aggiungono oltre 25 mila imprese artigiane che hanno cessato l'attività nel 2014;
    ulteriori profili di criticità associati a quelli in precedenza esposti si rinvengono anche nell'elevata carenza di scolarizzazione: la percentuale dei giovani che nel 2013 ha abbandonato prematuramente gli studi in Sardegna è pari al 24,7 per cento e rappresenta la più alta in Italia, dopo la Sicilia (25,8 per cento), a fronte della media nazionale pari al 17 per cento, e ciò conferma, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, una situazione complessiva sociale ed economica di estrema difficoltà per l'interessata isola;
    a tal fine, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, occorrono politiche d'intervento in netta controtendenza con le misure finora previste dal Governo Renzi, in grado di favorire il processo di crescita e sviluppo per la Sardegna, la cui economia rimane strettamente ancorata alle dinamiche nazionali e del Mezzogiorno;
    al riguardo, risultano urgenti e necessarie misure finalizzate a rafforzare i principi di coesione territoriale, sociale ed economica su cui si fonda il Trattato dell'Unione europea, che individuano nella riduzione delle disparità regionali le condizioni per la crescita e lo sviluppo dell'Unione europea, promuovendo iniziative imprenditoriali pubbliche e private, in favore della regione Sardegna, completando l'infrastrutturazione primaria del territorio sardo e avviando più rapidamente quella secondaria;
    a fronte dei predetti interventi, occorre affiancare ulteriori misure di sostegno attraverso adeguati investimenti, sia per la modernizzazione della viabilità interna, che per il miglioramento della continuità territoriale, costituzionalmente garantita, quale componente fondamentale per la ripresa economica dell'isola, in considerazione degli effetti che riveste sui servizi di trasporto delle persone e delle merci, nonché sui flussi turistici;
    a tal fine, nell'ambito dei sistemi di trasporto marittimo e delle misure d'intervento previste dalla Commissione europea, in merito alla revisione della rete Ten-T, che definisce le scelte strategiche infrastrutturali per i nuovi corridoi trasportistici multimodali, occorre rafforzare le misure d'intervento in favore delle «autostrade del mare»; il ricorso maggiore all'intermodalità, indicato dal piano della logistica come obiettivo chiave dell'economia italiana, consentirà di favorire la regione Sardegna, all'interno della piattaforma logistica del Mediterraneo;
    risultano, altresì, necessari interventi per il completamento delle infrastrutture digitali, rispetto alle quali il Mezzogiorno e la Sardegna sono fortemente in ritardo, in grado di determinare la crescita nel settore della ricerca e dell'innovazione per una nuova linfa imprenditoriale radicata sul territorio, creando nella regione una rete di piccole e medie imprese capaci di produrre indotto;
    nell'ambito delle misure prospettate, occorre, altresì attivare ulteriori iniziative rispetto a quelle già esistenti, attraverso l'estensione in via sperimentale delle zone franche, in grado di garantire agevolazioni fiscali e contributive in favore delle micro e piccole imprese che sono ubicate nei territori dei comuni della regione Sardegna, interessati maggiormente dai livelli di crisi produttiva e occupazionale, al fine di stimolare i consumi e la ripresa della domanda che, secondo l'ufficio studi di Confcommercio (sugli ultimi dati disponibili), segnano un prodotto interno lordo a meno 4,8 per cento rispetto al nazionale;
    a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, necessitano, tra l'altro, adeguati interventi volti alla risoluzione delle difficoltà dei servizi di trasporto ferroviario ed aereo (anche a causa della crisi delle compagnie di volo Meridiana e Alitalia), spesso oggetto di reiterate interruzioni, le cui ricadute negative sui flussi di traffico passeggeri e merci, sulla competitività delle aree, sull'occupazione e sui flussi turistici, in nome di un progetto di complessiva razionalizzazione dei servizi e della rete finalizzato unicamente alla contrazione dei costi, rischiano di accrescere i ritardi rilevanti rispetto alle altre aree del Paese e del Mediterraneo;
    nell'ambito degli accordi di partenariato per il commercio e gli investimenti fra Unione europea e Stati Uniti d'America, volti a sostenere entrambe le economie continentali, la regione Sardegna può svolgere un ruolo fondamentale all'interno dei negoziati, attraverso l'articolo 52 dello statuto speciale (che prevede il coinvolgimento nell'elaborazione dei progetti dei trattati di commercio che il Governo intenda stipulare con Stati esteri nell'ambito degli scambi di specifico interesse della Sardegna), per i meccanismi arbitrali Investor State dispute settlement indicati dal trattato medesimo;
    risulta, pertanto, indifferibile la realizzazione di un piano d'intervento, in favore della regione Sardegna, attraverso i sopra esposti indirizzi strategici da perseguire con convinzione e con i necessari investimenti finalizzati alla creazione di un nuovo modello di sviluppo legato ad una visione non solo nazionale, all'interno di una prospettiva di sviluppo internazionale dell'isola,

impegna il Governo:

   ad assumere le iniziative indicate in premessa, con particolare riferimento alle politiche d'intervento legate al miglioramento dei sistemi infrastrutturali di collegamento e dell'estensione delle zone franche per le aree del territorio ad elevata disoccupazione, al fine di rilanciare lo sviluppo e la crescita della regione Sardegna, i cui livelli di debolezza economici e sociali permangono ancora su livelli elevati;
   ad intervenire in sede comunitaria, sia favorendo iniziative finalizzate ad incrementare il ricorso all'intermodalità attraverso il sistema delle autostrade del mare, tramite lo strumento dell’ecobonus, in grado di migliorare il sistema dell'autotrasporto della Sardegna, che nell'ambito dei negoziati in corso del Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), affinché la medesima regione possa svolgere un ruolo primario nell'elaborazione del trattato;
   a prevedere, infine, la realizzazione di un piano d'intervento straordinario in favore della regione Sardegna, attraverso l'istituzione di una cabina di regia rappresentata dalle istituzioni locali e dalle imprese sarde, in grado di realizzare gli indirizzi d'intervento indicati in premessa.
(1-00851) «Nizzi, Palese».
(8 maggio 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN SEDE EUROPEA E INTERNAZIONALE PER LA PROTEZIONE DEI PERSEGUITATI PER MOTIVI RELIGIOSI

   La Camera,
   premesso che:
    in ampie aree del mondo, dall'area mediorientale – Iraq, Siria, Libia, Palestina – a quella del Nord e del Centro dell'Africa – Libia, Nigeria, Somalia – si sono intensificate le persecuzioni nei confronti dei cristiani. Le continue violazioni della libertà religiosa, ispirate dall'odio ultrafondamentalista causano morte, sofferenze, l'esilio, perdita delle persone care e dei propri beni;
    i cristiani al mondo che in questo momento subiscono persecuzioni sono stimati in non meno di 100 milioni e le uccisioni, secondo le valutazioni più prudenti, sono almeno 7.000 all'anno (ma per qualcuno si dovrebbe aggiungere uno zero);
    le violazioni della libertà religiosa non riguardano solo i cristiani: la follia omicida dell'Isis, per esempio, colpisce con eguale crudeltà gli yazidi, i musulmani sciiti e anche i musulmani sunniti che non accettano le prevaricazioni dei terroristi. Sono rase al suolo non soltanto le chiese, ma anche i templi, le moschee e i minareti. I cristiani, tuttavia, vantano il triste primato di essere circa l'80 per cento del totale dei perseguitati per ragioni religiose;
    il terribile destino riservato ai ventuno coopti decapitati nei giorni scorsi sulle coste libiche, espiando la «colpa» di essere cristiani, a poche centinaia di miglia dalla Sicilia, ha esplicitato nel modo più turpe che si tratta di una tragedia molto prossima a noi;
    il rischio è che la moltiplicazione delle notizie di uccisioni, di massacri, di distruzioni provochi non un incremento della capacità di reagire da parte dell'Occidente, dell'Europa e dell'Italia, ma un incremento dell'assuefazione, come se fossero eventi inevitabili, qualcosa che comunque deve succedere;
    la risposta a un'aggressione ingiusta deve essere intelligente e adeguata al contesto. È, dunque, necessario che un eventuale intervento sia multilaterale, non di sole potenze «occidentali», coinvolgendo possibilmente anche Paesi musulmani;
    l'intervento militare, doveroso da realizzare, sarà efficace soltanto se coerente con l'atteggiamento culturale. È fondamentale pertanto respingere l'idea che tutto l'Islam è il male assoluto, quasi fosse una guerra finale fra l'Occidente e un miliardo e mezzo di musulmani. L'unico modo di disinnescare l'ultrafondamentalismo islamico e il terrorismo è trovare dei musulmani che ci aiutino a farlo: fuori e dentro i confini nazionali;
    quel che è certo è che non può proseguire una indifferenza di fatto, che concorre ad aumentare i lutti, le violenze e le distruzioni,

impegna il Governo:

   a rendersi promotore nelle sedi europee e internazionali di ogni iniziativa necessaria ad assicurare la concreta protezione dei perseguitati per motivi religiosi, in coerenza con le numerose deliberazioni adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con gli indirizzi già approvati dal Parlamento italiano;
   ad assumere, in particolare, l'iniziativa in sede europea e internazionale della costituzione di una compagine, aperta ai principali attori regionali, che reagisca alle violenze più efferate e tuteli popolazioni e comunità oggetto di massacri e di persecuzioni solo per ragioni di fede religiosa;
   ad aggiornare periodicamente la Camera dei deputati sullo stato dei lavori e sui risultati ottenuti.
(1-00760)
«Dambruoso, Pagano, Capezzone, Catania, Fauttilli, Bernardo, Binetti, Bueno, Centemero, Antimo Cesaro, Chiarelli, D'Agostino, Fabrizio Di Stefano, Ermini, Galati, Galgano, Riccardo Gallo, Gigli, Laffranco, Latronico, Maietta, Marazziti, Marotta, Matarrese, Molea, Palese, Piepoli, Piso, Rabino, Romele, Santerini, Tancredi, Vargiu».
(12 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la libertà religiosa è la madre di tutte le libertà, in quanto investe la libertà di coscienza, di pensiero e di professione pubblica della fede di ciascuno. Come tale fa parte dei diritti fondamentali ed inalienabili dell'uomo, espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Tale diritto, pertanto, include la libertà di cambiare religione o credo e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti;
    la libertà religiosa rappresenta senz'altro lo sfondo dove ricercare un'efficace politica sociale attenta alle differenze, dove incoraggiare scelte segnate da una tolleranza genuina che non camuffi le diversità e da un'azione che sostenga l'integrazione, il dialogo plurale per il bene comune, la tutela dei diritti umani e la partecipazione democratica;
    la storia dimostra che non solo la libertà religiosa è il pilastro portante di tutte le libertà, ma che l'intolleranza religiosa porta inevitabilmente alla violazione di diritti umani fondamentali e, molto spesso, a conflitti cruenti e devastanti;
    purtroppo, come documentano troppi eventi, il diritto alla libertà religiosa è ancora oggi messo in discussione: gli atti di violenza commessi in nome della religione continuano, infatti, a dominare la scena internazionale, generando intolleranza spesso alimentata e strumentalizzata per motivi politici ed economici, che sempre più di frequente producono azioni collettive aberranti a danno delle minoranze;
    in molti Paesi, vi sono ancora discriminazioni di ordine giuridico o costituzionale oppure vere e proprie ostilità religiose, spesso legate a tensioni etniche o tribali. In diversi casi, vi è un gruppo religioso che opprime o, addirittura, cerca di eliminarne un altro, o c’è uno Stato autoritario che tenta di limitare le attività di un particolare gruppo religioso;
    in questo contesto, la grave mancanza di libertà religiosa di cui soffrono i cristiani in molti Paesi provoca ancora vittime innocenti, perpetrando una vera e propria persecuzione, che rappresenta un'offensiva condotta con violenza sistematica e indiscriminata contro la presenza cristiana in vaste aree del mondo. Si tratta di una tragedia umanitaria di proporzioni drammatiche che si consuma ogni giorno: casi di cristiani perseguitati solo a causa della loro fede, trucidati in nome del fanatismo e radicalismo religioso;
    il termine «cristianofobia» è quello che descrive più compiutamente questo fenomeno di portata universale e come tale è stato adottato dall'Onu sin dal 2003 e dal Parlamento europeo nel 2007. Con questa espressione si vuole qualificare la peculiarità di una persecuzione che si manifesta in odio cruento in Paesi dove il cristianesimo è minoranza, ma trova fertile terreno anche in Occidente da parte di chi vuole negare la pertinenza pubblica della fede cristiana;
    il Novecento è stato il secolo dell'eccidio dei cristiani: in cento anni ci sono stati più «martiri» che nei duemila anni precedenti. Sono circa cento milioni i cristiani perseguitati in tutto il mondo: nel 2014 si stimano 4.344 vittime e 1.062 chiese attaccate. In media ogni mese 322 cristiani vengono uccisi nel mondo a causa della loro fede, 214 tra chiese ed edifici di proprietà dei cristiani sono distrutti e danneggiati e 722 sono gli atti di violenza perpetrati nei loro confronti. Le statistiche sono di opendoorsusa.org, un'organizzazione no profit evangelica che assiste cristiani perseguitati di tutte le confessioni in più di sessanta Paesi;
    nel 2014 e nel primo trimestre 2015 i cristiani si confermano, dunque, come il gruppo religioso maggiormente perseguitato: dalla Nigeria all'Africa subsahariana, dalla Siria all'Iraq, al Pakistan, è lunga la scia di sangue che li vede sempre più sotto attacco con arresti, deportazioni, torture, stupri e decapitazioni;
    tra i crimini recenti più efferati, si ricorda la barbara uccisione dei 21 cristiani copti, rapiti a Sirte, in Libia, dai miliziani affiliati allo Stato islamico;
    il 10 aprile 2015, in Pakistan un adolescente di 14 anni di religione cristiana è stato arso vivo da alcuni giovani musulmani ed ora lotta tra la vita e la morte, in ospedale a Lahore, con gravi ustioni su tutto il corpo;
    le limitazioni alla libertà religiosa conoscono un triste primato in Darfur, teatro di violenti stupri di massa, ma ancora più agghiaccianti sono i massacri compiuti in Nigeria dai fondamentalisti islamici di Boko Haram; lo stesso gruppo terroristico si è reso protagonista di uno degli episodi più raccapriccianti: il rapimento, nella notte del 14 aprile 2014, di 275 ragazze cristiane, studentesse della scuola secondaria del villaggio di Chibok. Alcune decine di loro riuscirono a scappare, ma in grandissima misura (più di 200) mancano ancora all'appello, molto probabilmente gettate nelle fosse comuni;
    non sono da meno i tormenti inflitti ai cristiani in Medio Oriente: in Iraq, dall'estate del 2014, sono centinaia di migliaia quelli costretti a fuggire dalle loro case sotto l'incalzare dell'avanzata dei jihadisti dell'Isis;
    vi sono poi Paesi come il Kenya, in cui i cristiani rappresentano la maggioranza della popolazione, ma che, a causa delle tensioni religiose, connesse ad una situazione politica complessa, sono vittime di atti di persecuzione. Risale, infatti, a giovedì santo l'episodio di violenza jihadista degli estremisti somali Al Shabaab contro un campus universitario, che ha provocato la morte di almeno 147 persone;
    nel mese di marzo 2015, davanti agli attentati mossi dinnanzi a due chiese in Pakistan, che hanno provocato 15 morti e 80 feriti, Papa Francesco ha parlato di una «persecuzione contro i cristiani che il mondo cerca di nascondere»;
    e ancora recentemente, in occasione della messa per gli armeni, il Papa ha avuto modo di ricordare che «oggi stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall'indifferenza generale e collettiva», «una terza guerra mondiale a pezzi», in cui «sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica» vengono perseguitati;
    non si può rimanere indifferenti davanti a tutto questo, soprattutto in un momento storico in cui il fronte dell'intolleranza sta toccando così tante nazioni nei diversi continenti e, soprattutto, nelle occasioni più incredibili. Basti pensare che solo qualche giorno fa, su un barcone di immigrati diretto verso il nostro Paese, durante la traversata del Canale di Sicilia, è scoppiata una rissa per motivi religiosi, in cui i musulmani avrebbero sopraffatto i cristiani scaraventandoli fuori bordo e provocando la morte di alcuni di loro;
    in questo clima, ciò che più colpisce è il silenzio delle istituzioni, nonché la mancanza di un'iniziativa forte e decisa a carico della diplomazia internazionale;
    l'integrazione europea, per essere autentica, deve fondarsi sul rispetto delle identità dei popoli dell'Europa, che vedono tra le sorgenti della propria civiltà il Cristianesimo, che è all'origine dell'idea di persona e della sua centralità;
    lo stesso principio di laicità dello Stato, che rappresenta una delle conquiste più importanti delle democrazie liberali e pluraliste, non implica indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato stesso per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale;
    la libertà religiosa assume, quindi, un ruolo fondamentale anche a garanzia del principio supremo di laicità dello Stato, sul quale si struttura il concetto di democrazia;
    di fronte a ciò che sta accadendo, anche a tutela dei principi che fondano le democrazie che la compongono, l'Europa, in particolare, ha il dovere di rivendicare con orgoglio i propri valori e la propria identità, senza rinunciare ad affermare le sue radici giudaico-cristiane, con piena consapevolezza delle origini culturali delle proprie idee e istituzioni democratiche,

impegna il Governo:

   a promuovere ogni azione, a livello internazionale e nei rapporti bilaterali, volta a riconoscere la persecuzione nei confronti dei cristiani come priorità assoluta, affinché sia condannata e contrastata con ogni mezzo;
   a porre in essere ogni iniziativa affinché i Governi dei Paesi alleati e dei Paesi che sostiene con gli strumenti della cooperazione internazionale forniscano adeguata protezione ai cristiani e garantiscano il loro diritto ad esercitare e a professare la loro fede in sicurezza e libertà;
   ad adottare ogni iniziativa utile a garantire la tutela delle minoranze cristiane anche attraverso azioni dirette, da realizzare in collaborazione con le rappresentanze diplomatiche italiane e consolari;
   a far valere, nelle relazioni diplomatiche ed economiche, bilaterali o multilaterali, la necessità di un effettivo impegno degli Stati per la tolleranza e la libertà religiosa, in particolare dei cristiani e delle altre minoranze perseguitate, laddove risulti minacciata o compressa per legge o per prassi, direttamente dalle autorità di Governo o attraverso un tacito assenso che implichi l'impunità dei violenti;
   ad adoperarsi affinché analogo principio sia fatto valere a livello di Unione europea e di qualsiasi altro organismo internazionale per l'assegnazione di aiuti agli Stati;
   a promuovere nelle competenti sedi internazionali, di concerto con i partner dell'Unione europea, iniziative atte a rafforzare il rispetto del principio di libertà religiosa, la tutela delle minoranze religiose, la lotta contro la cristianofobia e il monitoraggio delle violazioni, dando concreta attuazione agli strumenti internazionali esistenti.
(1-00827)
«Carfagna, Brunetta, Centemero, Prestigiacomo, Palmieri, Gelmini, Garnero Santanchè, Giammanco, Ravetto, Milanato, Sandra Savino, Distaso, Polidori, Vella, Elvira Savino, Altieri, Marotta, Bianconi, Bergamini, Biancofiore, Castiello, Abrignani, Nizzi, Calabria, Occhiuto».
(22 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    «la difesa della libertà religiosa è la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani in un Paese». Così disse Giovanni Paolo II nell'ottobre del 2003 ai partecipanti all'Assemblea parlamentare dell'Osce. Se in un Paese la libertà religiosa non è rispettata, difficilmente lo saranno gli altri diritti umani;
    in quella, come in molte altre occasioni, Wojtyla sottolineò «la dimensione internazionale del diritto alla libertà di religione e la sua importanza per la sicurezza e la stabilità della comunità delle nazioni», incoraggiandone la difesa e la promozione da parte dei singoli Stati e di altri organismi internazionali;
    oggi circa il 74 per cento della popolazione mondiale – quasi 5,3 miliardi di persone – vive in Paesi in cui la libertà religiosa è soggetta a più o meno gravi violazioni e limitazioni, che si traducono spesso in vere e proprie persecuzioni religiose. Sono 116 i Paesi nel mondo in cui si registrano violazioni della libertà religiosa;
    recenti studi dimostrano che circa i tre quarti dei casi di persecuzioni religiose nel mondo riguardano i cristiani. Sono almeno 500 milioni i cristiani che vivono in Paesi in cui subiscono persecuzione, mentre altri 208 milioni vivono in Paesi in cui sono discriminati a causa del proprio credo;
    anche il numero di cristiani uccisi ogni anno in ragione della propria fede è tristemente elevato. Le stime variano da 100 mila a poche migliaia. Non è, tuttavia, rilevante sapere se vi è un cristiano ucciso in odio alla fede ogni cinque minuti, oppure ogni giorno. È comunque troppo;
    tra i colpevoli di discriminazioni e persecuzioni ai danni di gruppi religiosi vi sono numerosi Governi. «La libertà religiosa è qualcosa che non tutti i Paesi hanno – ha ricordato Papa Francesco rientrando dal suo viaggio in Terra Santa –. Alcuni esercitano un controllo, altri prendono misure che finiscono in una vera persecuzione. Ci sono martiri oggi, martiri cristiani, cattolici e non cattolici. In alcuni posti non puoi portare un crocifisso, avere una Bibbia, o insegnare il catechismo ai bambini. E io credo che in questo tempo ci siano più martiri che nei primi tempi della Chiesa»;
    in Cina il controllo dello Stato sulle attività religiose è andato tristemente aumentando negli ultimi anni, così come il numero degli arresti di cristiani, buddisti e musulmani e la distruzione di edifici religiosi. Recentemente nella provincia di Zhejang oltre sessanta chiese sono state demolite o danneggiate. La Costituzione riconosce sulla carta la libertà di religione, ma autorizza le sole attività religiose «normali», senza tuttavia fornirne alcuna definizione. Chiunque partecipi a riunioni o manifestazioni religiose non «autorizzate» è arrestato e può subire torture e abusi. Stessa sorte è toccata ai numerosi cattolici che, per fedeltà al Papa, hanno rifiutato di aderire all'Associazione patriottica cattolica cinese;
    lo stretto controllo governativo limita in modo rilevante la libertà religiosa anche in altri Paesi asiatici, quali Laos, Vietnam, Malesia, Kazakhistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam;
    uno dei Paesi in cui la libertà religiosa è meno tutelata è senza dubbio il Pakistan. Qui lo strumento d'elezione per la discriminazione e la persecuzione delle minoranze religiose è la cosiddetta legge antiblasfemia – corrispondente ad alcuni articoli del codice penale pachistano – che punisce con la pena di morte chi insulta il profeta Maometto e con il carcere a vita chi profana il Corano. In Pakistan sono detenute 36 delle 43 persone arrestate con l'accusa di blasfemia in tutto il mondo. 17 di queste sono state condannate alla pena capitale, mentre le altre stanno scontando una pena detentiva a vita. Senza contare le migliaia di omicidi extra-giudiziali compiuti a causa di tale norma. Ne sono un tragico esempio i due coniugi cristiani gettati vivi in una fornace il 4 novembre del 2014, a seguito di un'accusa di blasfemia;
    anche se tra gli accusati non mancano appartenenti alla maggioranza musulmana, i dati dimostrano come la legge – che non prevede l'onere della prova per chi accusa e si presta dunque facilmente a un uso improprio – è soprattutto utilizzata per colpire le minoranze religiose. Nel 2013 su 32 casi registrati, 12 hanno riguardato imputati cristiani: si tratta del 40 per cento delle denunce, in un Paese in cui la minoranza cristiana rappresenta appena il 2 per cento della popolazione;
    un'altra piaga che colpisce le minoranze religiose del Pakistan è il rapimento e la conversione forzata all'Islam di adolescenti e bambine. Secondo i dati ufficiali, ogni anno circa 750 giovani cristiane e 250 indù sarebbero rapite e obbligate a convertirsi per contrarre matrimonio islamico. Ma, dal momento che la percentuale dei crimini riportati è minima, si ritiene che i casi siano almeno il doppio;
    nei mesi scorsi il caso di Meriam Yahya Ibrahim Ishaq, la donna sudanese condannata a morte per apostasia, ha portato all'attenzione internazionale il dramma in atto nei Paesi in cui è vietato convertirsi dall'Islam ad altra religione. In 21 Paesi il reato di apostasia è regolato dal codice penale e alcuni di questi, tra cui Iran, Sudan, Arabia Saudita, Egitto, Somalia, Afghanistan, Qatar, Yemen, Pakistan e Mauritania, contemplano la pena di morte per questo tipo di reato;
    gravi sono le violazioni alla libertà religiosa nei Paesi in cui la legge islamica è fonte di diritto, sia che questa venga applicata a tutti i cittadini – come ad esempio in Sudan – sia che sia fatta distinzione tra musulmani e non musulmani. In 17 dei 49 Paesi a maggioranza islamica, l'Islam è riconosciuto come religione di Stato. Un primato sancito dalla Costituzione che implica molteplici conseguenze: dall'esclusione delle minoranze dalla pratica religiosa – è questo il caso dell'Arabia Saudita – fino a forme di tolleranza vincolate a rigidi controlli delle attività religiose;
    in Medio Oriente, in seguito alla cosiddetta primavera araba, si è assistito ad un aumento della pressione di gruppi fondamentalisti ed una crescente ostilità nei confronti della minoranza cristiana. In Egitto nel solo 2013 sono stati distrutti o danneggiati oltre 200 tra chiese, edifici religiosi e attività gestite da cristiani;
    in alcune aree di diversi Paesi del mondo arabo – tra cui Egitto, Iraq e Siria – gli estremisti pretendono dai cristiani il pagamento della jizya, la tassa imposta ai non musulmani durante l'impero ottomano;
    la radicalizzazione dei gruppi fondamentalisti ha contribuito ad alimentare il massiccio esodo di cristiani dal Medio Oriente. Se appena un secolo fa essi rappresentavano circa il 20 per cento della popolazione mediorientale, oggi raggiungono a stento il 4 per cento. Tra i fattori che spingono i cristiani ad abbandonare il proprio Paese vi è la concezione, tradizionalmente diffusa nelle società islamiche, che i non musulmani siano cittadini di seconda classe. Tale concezione non di rado porta a gravi discriminazioni in ambito scolastico e lavorativo e perfino a disparità nell'applicazione della giustizia;
    uno dei Paesi simbolo delle difficoltà cristiane nell'area è senza dubbio l'Iraq, che negli ultimi 25 anni ha visto diminuire la propria comunità cristiana da un milione e mezzo di fedeli a poco più di 300 mila. La conquista di vaste aree del Paese da parte dello Stato islamico rischia oggi di porre fine alla millenaria presenza cristiana. Più di 120 mila cristiani sono fuggiti nel Kurdistan iracheno ed ora versano in drammatiche condizioni, stipati nelle scuole, negli edifici abbandonati e condividendo in più famiglie uno stesso appartamento;
    anche in molte aree dell'Africa la pressione dei gruppi fondamentalisti islamici è andata fortemente aumentando, con gravi conseguenze per la popolazione locale e in particolar modo per i non musulmani. Caso emblematico è quello della Nigeria, dove dal 2009 ad oggi si sono intensificati gli attacchi della setta islamica Boko Haram. Nel Nord a maggioranza islamica i fondamentalisti hanno distrutto o danneggiato centinaia di chiese e ucciso migliaia di persone, oltre 2 mila soltanto negli ultimi 12 mesi. Da una ricerca condotta nell'ottobre del 2012 è risultato che su 1.201 cristiani uccisi in odio alla fede durante l'anno, ben 791 avevano trovato la morte in Nigeria. Dal 2001 all'ottobre 2013 nel Paese sono stati uccisi 32 mila cristiani, di cui 12 mila tra il 2011 e l'ottobre 2013. Il Governo è stato più volte accusato di non aver saputo reagire in maniera adeguata, anche a causa della dilagante corruzione che caratterizza l'apparato statale;
    molti dei Paesi citati sono firmatari della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la quale esige dai Paesi firmatari il rispetto di diritti civili e politici, incluso quello alla libertà religiosa;
    la Dichiarazione universale dei diritti umani, all'articolo 18, stabilisce che: Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti,

impegna il Governo:

   a promuovere l'istituzione di una giornata europea dei martiri cristiani per ricordare i tanti cristiani del nostro tempo uccisi in odio alla fede;
   a rendere il rispetto della libertà religiosa uno dei requisiti necessari alla concessione di aiuti a Paesi terzi e all'instaurazione con questi di relazioni di carattere economico;
   ad organizzare con regolarità incontri tra rappresentanti del Governo ed esponenti delle minoranze religiose di diversi Paesi per acquisire informazioni dirette e poter realizzare interventi più efficaci;
   ad inserire il tema del rispetto della libertà religiosa nell'agenda di incontri tra il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale ed i loro omologhi di altri Paesi, specie se in questi Paesi tale diritto non è pienamente garantito;
   ad assumere iniziative affinché parte degli aiuti destinati ad altri Paesi siano devoluti a progetti per la promozione delle minoranze religiose, con particolare attenzione all'educazione (esempio: borse di studio per appartenenti alle minoranze religiose);
   ad esercitare una chiara e dichiarata forma di pressione diplomatica ed economica verso quei Paesi che non garantiscono o non tutelano il diritto alla libertà religiosa, in particolare dei cristiani e di altre minoranze perseguitate, dove essa risulti minacciata o compressa, per legge o per prassi, sia direttamente dalle autorità di Governo sia attraverso un tacito assenso e che vedano l'impunità degli autori di violenze, arrivando, laddove necessario, all'interruzione delle relazioni diplomatiche e commerciali;
   a stabilire come principio imprescindibile alla negoziazione e conclusione di qualsiasi accordo internazionale la garanzia della controparte che al proprio interno sia assicurata la libertà di professare qualunque religione e la libertà di cambiare religione o credo;
   a farsi promotore, nelle sedi comunitarie ed internazionali, della sospensione di ogni accordo multilaterale verso i Paesi nei quali è applicata, anche parzialmente o su porzioni di territorio, la legge islamica, fino alla reale rimozione da parte di questi Paesi di ogni impedimento alla libera professione religiosa e alla cessazione di episodi di violenza contro comunità o singoli non islamici presenti sul territorio.
(1-00692)
«Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Marguerettaz, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».
(22 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    in data 2 luglio 2014 la Camera dei deputati ha approvato a grandissima maggioranza una mozione unitaria che aveva come oggetto la tutela della libertà religiosa: la mozione impegnava il Governo su vari fronti, che hanno ancora piena attualità, anche perché nel tempo sono andati moltiplicandosi gli episodi di intolleranza, con grave pregiudizio non solo per la libertà, ma anche per la vita delle persone;
    la mozione approvata il 2 luglio 2014 sollecitava il Governo a denunciare ogni forma di persecuzione nei confronti delle minoranze religiose, in particolare quelle cristiane che vivono in alcuni contesti in cui sono maggiormente vulnerabili; a promuovere misure di prevenzione dell'intolleranza, in particolare nei confronti delle diverse esperienze religione; a sostenere iniziative che promuovano il dialogo interreligioso; a rafforzare le politiche per la cooperazione internazionale, specialmente nei Paesi in cui le minoranze religiose, in particolare quelle cristiane, sono pesantemente discriminate; ad adottare le opportune iniziative, anche in sede Onu, in, materia di libertà religiosa, per monitorare gli episodi di persecuzione religiosa, impegnando i diversi Stati ad intervenire tempestivamente nella prevenzione dell'intolleranza e del fanatismo religioso; ad assumere iniziative presso il Governo del Pakistan per rafforzare il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e, in particolare, del diritto di libertà religiosa; infine, ad assumere iniziative a sostegno delle minoranze religiose con particolare attenzione all'educazione;
    all'Onu l'11 marzo 2015 Heiner Bielefeldt, relatore speciale sulla libertà di religione o di credo durante la 28.ma sessione del Consiglio dei diritti umani a Ginevra, ha affermato: «Esistono violenze commesse in nome della religione e questo può portare a massicce violazioni dei diritti umani, compresa la libertà di religione o di credo». Il rapporto è in realtà un atto di accusa contro gli Stati che, implicitamente o esplicitamente, appoggiano violenze commesse in nome della religione, le tollerano sul loro territorio o ne hanno istituzionalizzato, anche, il funzionamento. L'analisi delle cause di questo tipo di violenza è l'essenza del rapporto. Si parla, infatti, di gruppi armati terroristici barbari o della strumentalizzazione della religione per fini di potere o politici; altre volte si tratta di politiche di esclusione etnica o religiosa, oppure della mancanza di uno Stato di diritto che garantisca pace e stabilità ed eviti l'emergere di forme di radicalizzazione religiosa. Altre cause, però, risiedono nella mancanza di istruzione, della quale approfitta l'irrazionalità della violenza religiosa, o nei media stessi che si trasformano in vettori di violenza. Infine, le autorità religiose e politiche che non condannano le barbarie commesse in nome della religione, complici nel promuovere e far crescere tali atti violenza;
    le persecuzioni contro i cristiani sono cresciute in modo esponenziale nell'attuale situazione in Iraq e in altri Paesi del Medio Oriente dove il sedicente «califfato» islamico marchia con una «N» come nazareni le case dei cristiani, costretti a fuggire in massa. La lettera «N» da marchio d'infamia è diventata simbolo di una battaglia di libertà religiosa. Un marchio della vergogna non per chi lo subisce ma per gli jihadisti che lo impongono, come è avvenuto sulle case dei cristiani a Mosul: «N» come nazareno, cioè cristiano;
    fino al 1990, anno della prima guerra del Golfo, i cristiani in Iraq erano circa 600.000, il 3,2 per cento della popolazione, stimata in 18 milioni. Con gli anni dell'embargo (1990-2003) inizia il calo: sono circa 554.000 nel 2003, così ripartiti: 370.000 caldei; 100.000 siriaci cattolici e ortodossi; 50.000 assiri; 20.000 armeni; 10.000 protestanti; 4.000 latini. Nel 2003, con l'occupazione dell'Iraq e l'inizio degli attentati contro chiese e clero, si accelerano l'esodo verso nord e l'emigrazione all'estero. Nel 2010 i cristiani sono stimati attorno ai 400.000. Con l'occupazione di Mosul e di parte della piana di Ninive, la presenza cristiana è a rischio estinzione. Oggi i cristiani sono stimati attorno ai 250.000, meno dell'1 per cento della popolazione;
    «La difesa della libertà religiosa è la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani in un Paese». Così disse Giovanni Paolo II nell'ottobre del 2003 ai partecipanti all'Assemblea parlamentare dell'Osce (Organization for security and co-operation in Europe). «Se in un Paese la libertà religiosa non è rispettata, difficilmente lo saranno gli altri diritti umani». In quella, come in molte altre occasioni, Papa Wojtyla sottolineò «la dimensione internazionale del diritto alla libertà di religione e la sua importanza per la sicurezza e la stabilità della comunità delle nazioni», incoraggiandone la difesa e la promozione da parte dei singoli Stati e di altri organismi internazionali;
    oggi circa il 74 per cento della popolazione mondiale – quasi 5,3 miliardi di persone – vive in Paesi in cui la libertà religiosa è soggetta a gravi violazioni e limitazioni, che si traducono spesso in vere e proprie persecuzioni religiose. Recenti studi dimostrano che almeno i tre quarti dei casi di persecuzioni religiose nel mondo riguardano i cristiani. Sono almeno 500 milioni i cristiani che vivono in Paesi in cui subiscono persecuzione, mentre altri 208 milioni vivono in Paesi in cui sono discriminati a causa del proprio credo;
    anche il numero di cristiani uccisi ogni anno in ragione della propria fede è tristemente elevato. Le stime variano da 100 mila a poche migliaia. Non è, tuttavia, rilevante sapere se vi è un cristiano ucciso in odio alla fede ogni cinque minuti, oppure ogni giorno. Anche un solo cristiano che sia reso martire per la propria fede è comunque troppo, soprattutto in una civiltà che si definisce pluralista e che fa della tutela dei diritti umani la vera cifra della modernità;
    tra i colpevoli di discriminazioni e persecuzioni ai danni di gruppi religiosi vi sono numerosi Governi. «La libertà religiosa è qualcosa che non tutti i Paesi hanno – ha ricordato Papa Francesco rientrando dal suo viaggio in Terra santa – Oggi ci sono martiri cristiani, cattolici e non cattolici. In alcuni posti non puoi portare un crocifisso, avere una Bibbia, o insegnare il catechismo ai bambini. E io credo che in questo tempo ci siano più martiri che nei primi tempi della Chiesa»; in Corea del Nord la libertà religiosa è completamente negata. Il Governo controlla le attività religiose e chiunque partecipi ad attività religiose non autorizzate è arrestato e soggetto a torture o perfino esecuzioni. Migliaia di nordcoreani sono internati nei campi di lavoro per motivi religiosi – almeno 15 mila su un totale di 150 mila prigionieri – e se rifiutano di rinunciare alla loro fede, subiscono abusi perfino peggiori di quelli cui sono soggetti gli altri detenuti. Molto simile la situazione dell'Eritrea, nota non a caso come la «Corea del Nord d'Africa», dove si contano dai 2 mila ai 3 mila prigionieri arrestati a causa del loro credo religioso. Prigionieri che subiscono atroci torture e sono costretti a vivere in condizioni disumane;
    in Cina il controllo dello Stato sulle attività religiose è andato tristemente aumentando negli ultimi anni, così come il numero degli arresti di cristiani, buddisti e musulmani e la distruzione di edifici religiosi. Recentemente nella provincia di Zhejang oltre sessanta chiese sono state demolite o danneggiate. La Costituzione riconosce sulla carta la libertà di religione, ma autorizza le sole attività religiose «normali», senza tuttavia fornirne alcuna definizione. Chiunque partecipi a riunioni o manifestazioni religiose non «autorizzate» è arrestato e può subire torture e abusi. Stessa sorte è toccata ai numerosi cattolici che, per fedeltà al Papa, hanno rifiutato di aderire all'Associazione patriottica cattolica cinese;
    lo stretto controllo governativo limita in modo rilevante la libertà religiosa anche in altri Paesi asiatici, quali Laos, Vietnam, Malesia, Kazakhistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam;
    uno dei Paesi in cui la libertà religiosa è meno tutelata è senza dubbio il Pakistan. Qui lo strumento d'elezione per la discriminazione e la persecuzione delle minoranze religiose è la cosiddetta legge anti-blasfemia, corrispondente ad alcuni articoli del codice penale pachistano che punisce con la pena di morte chi insulta il profeta Maometto e con il carcere a vita chi profana il Corano. In Pakistan sono detenute 36 delle 43 persone arrestate con l'accusa di blasfemia in tutto il mondo. 17 di queste sono state condannate alla pena capitale, mentre le altre stanno scontando una pena detentiva a vita. Senza contare le migliaia di omicidi extra-giudiziali compiuti a causa di tale norma;
    anche se tra gli accusati non mancano appartenenti alla maggioranza musulmana, i dati dimostrano come la legge – che non prevede l'onere della prova per chi accusa e si presta, dunque, facilmente ad un uso improprio – è soprattutto utilizzata per colpire le minoranze religiose. Nel 2013, su 32 casi registrati, 12 hanno riguardato imputati cristiani: si tratta del 40 per cento delle denunce, in un Paese in cui la minoranza cristiana rappresenta appena il 2 per cento della popolazione;
    un'altra piaga che colpisce le minoranze religiose del Pakistan è il rapimento e la conversione forzata all'Islam di adolescenti e bambine. Secondo i dati ufficiali, ogni anno circa 750 giovani cristiane e 250 indù sarebbero rapite e obbligate a convertirsi per contrarre matrimonio islamico. Ma, dal momento che la percentuale dei crimini riportati è minima, si ritiene che i casi siano almeno il doppio;
    in questi giorni il caso di Meriam Yahya Ibrahim Ishaq, la donna sudanese condannata a morte per apostasia, ha portato all'attenzione internazionale il dramma in atto nei Paesi in cui è vietato convertirsi dall'Islam ad altra religione. In 21 Paesi il reato di apostasia è regolato dal codice penale e alcuni di questi, tra cui Iran, Sudan, Arabia Saudita, Egitto, Somalia, Afghanistan, Qatar, Yemen, Pakistan e Mauritania, contemplano la pena di morte per questo tipo di reato;
    gravi sono le violazioni alla libertà religiosa nei Paesi in cui la legge islamica è fonte di diritto, sia che questa venga applicata a tutti i cittadini – come, ad esempio, in Sudan – sia che sia fatta distinzione tra musulmani e non musulmani. In 17 dei 49 Paesi a maggioranza islamica, l'Islam è riconosciuto come religione di Stato. Un primato sancito dalla Costituzione che implica molteplici conseguenze: dall'esclusione delle minoranze dalla pratica religiosa – è questo il caso dell'Arabia Saudita – fino a forme di tolleranza vincolate a rigidi controlli delle attività religiose; in Medio Oriente, in seguito alla cosiddetta primavera araba, si è assistito ad un aumento della pressione di gruppi fondamentalisti e ad una crescente ostilità nei confronti della minoranza cristiana. In Egitto nel solo 2013 sono stati distrutti o danneggiati oltre 200 tra chiese, edifici religiosi e attività gestite da cristiani; in alcune aree di diversi Paesi del mondo arabo – tra cui Egitto, Iraq e Siria – gli estremisti pretendono dai cristiani il pagamento della jizya, la tassa imposta ai non musulmani durante l'impero ottomano;
    la radicalizzazione dei gruppi fondamentalisti ha contribuito ad alimentare il massiccio esodo di cristiani dal Medio Oriente. Se appena un secolo fa essi rappresentavano circa il 20 per cento della popolazione mediorientale, oggi raggiungono a stento il 4 per cento. Tra i fattori che spingono i cristiani ad abbandonare il proprio Paese vi è la concezione, tradizionalmente diffusa nelle società islamiche, che i non musulmani siano cittadini di seconda classe. Tale concezione non di rado porta a gravi discriminazioni in ambito scolastico e lavorativo e perfino a disparità nell'applicazione della giustizia;
    uno dei Paesi simbolo delle difficoltà cristiane nell'area è senza dubbio l'Iraq, che negli ultimi 25 anni ha visto diminuire la propria comunità cristiana da un milione e mezzo di fedeli a poco più di 300 mila; anche in molte aree dell'Africa la pressione dei gruppi fondamentalisti islamici è andata fortemente aumentando, con gravi conseguenze per la popolazione locale e in particolar modo per i non musulmani. Caso emblematico è quello della Nigeria, dove dal 2009 ad oggi si sono intensificati gli attacchi della setta islamica Boko Haram. Nel Nord a maggioranza islamica i fondamentalisti hanno distrutto o danneggiato centinaia di chiese e ucciso migliaia di persone, oltre 2 mila soltanto negli ultimi 12 mesi. Da una ricerca condotta nell'ottobre del 2012 è risultato che su 1.201 cristiani uccisi in odio alla fede durante l'anno, ben 791 avevano trovato la morte in Nigeria. Il Governo è stato più volte accusato di non aver saputo reagire in maniera adeguata, anche a causa della dilagante corruzione che caratterizza l'apparato statale; nonostante i cristiani subiscano le maggiori persecuzioni in Paesi di religione islamica, non si può dimenticare che nei Paesi islamici ci sono anche molti moderati che desiderano dialogare con la popolazione cristiana per dare vita ad iniziative politiche e sociali condivise; il dialogo con loro è fondamentale per costruire modelli nuovi di convivenza e di pace, a vantaggio di tutti, in Italia e nei diversi Paesi; molti dei Paesi citati sono firmatari della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la quale esige dai Paesi firmatari il rispetto di diritti civili e politici, incluso quello alla libertà religiosa;
    la Dichiarazione universale dei diritti umani, all'articolo 18, stabilisce che: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti»,

impegna il Governo:

   a promuovere l'istituzione di una giornata europea per ricordare i martiri uccisi in odio alla fede e alla religione, non solo i martiri cristiani ma i martiri appartenenti a tutte le fedi e religioni;
   a valutare il rispetto della libertà religiosa come una delle condizioni fondamentali per la concessione di aiuti a Paesi terzi, considerando la libertà religiosa uno dei principali diritti umani;
   ad organizzare con regolarità incontri con i rappresentanti delle minoranze religiose presenti in Italia per acquisire informazioni dirette sulle loro condizioni e poter, quindi, realizzare interventi umanitari più efficaci;
   ad inserire il tema del rispetto della libertà religiosa nell'agenda degli incontri internazionali tra i membri del Governo italiano e i Governi di altri Paesi, specie se in questi Paesi tale diritto non è pienamente garantito;
   ad assicurare protezione ai perseguitati per motivi religiosi, in coerenza con le deliberazioni adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite;
   ad assumere iniziative affinché parte degli aiuti destinati ad altri Paesi siano devoluti a progetti per la promozione delle minoranze religiose, con particolare attenzione all'educazione, ad esempio con l'offerta di borse di studio per appartenenti alle minoranze religiose;
   a richiedere che nei Paesi partner una quota dei posti nel pubblico impiego sia riservata alle minoranze religiose e che venga introdotto, nei diversi livelli dell'istruzione, lo studio storico ed introduttivo delle religioni cui appartengono le minoranze religiose;
   ad assumere, in particolare, l'iniziativa in sede europea e internazionale della costituzione di una compagine, aperta ai principali attori regionali, che reagisca alle violenze più efferate e tuteli popolazioni e comunità oggetto di massacri e di persecuzioni solo per ragioni di fede religiosa;
   ad aggiornare periodicamente la Camera dei deputati sullo stato dei lavori e sui risultati ottenuti.
(1-00483)
(Ulteriore nuova formulazione) «Binetti, Buttiglione, Gigli, Fauttilli, Calabrò, De Mita, Cera, Preziosi, Pagano, Sberna, Piepoli, Fitzgerald Nissoli, Fucci, Bueno, Adornato, D'Alia».
(4 giugno 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Dichiarazione universale dei diritti umani, all'articolo 18, stabilisce che: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti»;
    dall'intensificazione delle violazioni subite dai fedeli di ogni credo e non solo dai cristiani si evince chiaramente che il rispetto della libertà religiosa nel mondo continua a diminuire, benché sia, per sua stessa natura, un diritto da garantire a chiunque; circa il 74 per cento della popolazione mondiale (quasi 5,3 miliardi di persone) vive in Paesi in cui la libertà religiosa è soggetta a più o meno gravi violazioni e limitazioni, che si traducono spesso in vere e proprie persecuzioni religiose;
    nella XII edizione del rapporto sulla libertà religiosa nel mondo del 2014, redatto dalla fondazione di diritto pontificio, la Acs, è stato fotografato il grado di rispetto della libertà religiosa in 196 Paesi, in 116 dei quali si è registrato «un preoccupante disprezzo per la libertà religiosa, ovvero quasi il 60 per cento (...) in 14 dei 20 Paesi dove si registra un elevato grado di violazione della libertà religiosa, la persecuzione dei credenti è legata all'estremismo islamico: Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, Iran, Iraq, Libia, Maldive, Nigeria, Pakistan, Repubblica centrafricana, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Negli altri sei Paesi, l'elevato grado di violazione della libertà religiosa è legato all'azione di regimi autoritari, quali quelli di Azerbaigian, Birmania, Cina, Corea del Nord, Eritrea e Uzbekistan»;
    è indubbio che i cristiani si confermano il gruppo religioso maggiormente perseguitato; minoranza oppressa in numerosi Paesi, molte delle terre in cui i cristiani abitano da secoli, se non da millenni, sono oggi sconvolte dal terrorismo; ad oggi risultano almeno 500 milioni i cristiani che vivono in Paesi in cui subiscono persecuzione, mentre altri 208 milioni vivono in Paesi in cui sono discriminati a causa del proprio credo;
    gravi sono le violazioni alla libertà religiosa nei Paesi in cui la legge islamica è fonte di diritto, sia che questa venga applicata a tutti i cittadini, come, ad esempio, in Sudan, sia che sia fatta distinzione tra musulmani e non musulmani. In 17 dei 49 Paesi a maggioranza islamica, l'Islam è riconosciuto come religione di Stato. Un primato sancito dalle Costituzioni che implica molteplici conseguenze: dall'esclusione delle minoranze dalla pratica religiosa, è questo il caso dell'Arabia Saudita, fino a forme di tolleranza vincolate a rigidi controlli delle attività religiose;
    uno dei Paesi simbolo delle difficoltà cristiane nell'area è senza dubbio l'Iraq, che negli ultimi 25 anni ha visto diminuire la propria comunità cristiana da un milione e mezzo di fedeli a poco più di 300.000; gli attacchi contro i cristiani e le altre minoranze non rappresentano una dinamica degli ultimi mesi in Iraq. Molto prima della crescita in termini di potere del sedicente Stato islamico (Is) in tutto questo tempo le comunità cristiane e sciite (che, tra l'altro, rimane la comunità di maggioranza in Iraq) sono considerate dagli estremisti sunniti come infedeli e ladri e sono disprezzate in ogni modo;
    in Iraq le minoranze perseguitate non sono solo quelle cristiane, ma anche quelle di yazidi, shabak (una minoranza sciita di origine curda), baha'i, armeni, comunità di colore, circassi, kaka'i, curdi faili, palestinesi, rom, turkmeni, mandei e sabei. Si tratta di un mosaico ricco di tessere etniche e religiose, tenute insieme da secoli di convivenza e tolleranza, ridotto in frantumi dai dettami fondamentalisti dei jihadisti sunniti, un'immensa ricchezza umana, culturale e storica che ha sempre fatto dell'Iraq un Paese plurietnico e multireligioso e che oggi rischia di essere cancellato dal fondamentalismo religioso e settario nemico dell'umanità;
    la conquista di vaste aree del Paese da parte dello Stato islamico rischia oggi di porre fine alla millenaria presenza cristiana. Più di 120.000 cristiani sono fuggiti nel Kurdistan iracheno e ora versano in drammatiche condizioni, stipati nelle scuole e negli edifici abbandonati, condividendo in più famiglie uno stesso appartamento;
    anche in molte aree dell'Africa la pressione dei gruppi fondamentalisti islamici è andata fortemente aumentando, con gravi conseguenze per la popolazione locale e, in particolar modo, per i non musulmani. Caso emblematico è quello della Nigeria, dove dal 2009 a oggi si sono intensificati gli attacchi della setta islamica Boko Haram, o quello somalo di al-Shabaab,

impegna il Governo:

   ad attivarsi al fine di rendere il rispetto e la tutela della libertà religiosa uno dei requisiti necessari alla concessione di aiuti a Paesi terzi, attraverso gli strumenti della cooperazione internazionale, e all'instaurazione con questi di relazioni di carattere economico, soprattutto in occasione della stipula di trattati o accordi soggetti alla ratifica da parte del Parlamento;
   ad organizzare con regolarità incontri tra rappresentanti del Governo ed esponenti delle minoranze religiose di diversi Paesi per acquisire informazioni dirette e poter realizzare interventi più efficaci per assicurare la concreta protezione dei perseguitati per motivi religiosi;
   ad inserire il tema del rispetto della libertà religiosa tra le tematiche da trattare durante gli incontri tra il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e i loro omologhi di altri Paesi, soprattutto se in questi Paesi tale diritto non è pienamente garantito;
   ad esigere che parte degli aiuti destinati ad altri Paesi siano devoluti a progetti per la promozione e la tutela delle minoranze religiose, con particolare attenzione all'educazione e ai diversi livelli dell'istruzione;
   a prevedere lo sviluppo di ulteriori programmi di integrazione nazionale che riguardino anche l'ambito religioso in funzione di un'educazione alla tolleranza sia per gli italiani che per gli stranieri.
(1-00849)
«Grande, Manlio Di Stefano, Scagliusi, Spadoni, Del Grosso, Sibilia, Di Battista».
(8 maggio 2015)